Il Garante: per il Covid il numero dei detenuti diminuisce troppo poco di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2020 Nel suo bollettino il Garante dei detenuti fa sapere che 1.014 detenuti devono scontare una pena inferiore a un anno e 2.181 tra uno e due anni. “Per quanto riguarda il carcere, i numeri non inducono a tranquillità”, così irrompe il Garante nazionale delle persone private della libertà nel momento in cui, al livello governativo, si tende a minimizzare l’emergenza Covid 19 in carcere. Tranne rare eccezioni, in Parlamento si minimizza per dire che non servono altre misure deflattive per alleggerire i nostri penitenziari. Bastano quelle che ci sono. Eppure lo stesso Garante nazionale non la pensa così. Nel suo ultimo bollettino dice chiaro e tondo che “la pur esistente diminuzione di presenze avviene con un ritmo troppo lento”. Per il Garante è necessario essere celeri nelle procedure e soprattutto bisogna ampliare le previsioni normative introducendolo nella fase di conversione del decreto-legge 137/2020. Ed è, in fondo, quello che sta chiedendo - attraverso lo sciopero della fame giunto oramai a 31 giorni - Rita Bernardini del Partito Radicale assieme a più di 4.000 detenuti che hanno aderito all’azione nonviolenta. Tali osservazioni nascono anche dall’analisi dei dati quotidianamente forniti dall’Amministrazione penitenziaria. “Ieri sera - sottolinea il Garante Nazione - ultimo dato disponibile, le persone detenute contagiate erano 1.049. Un dato considerevole, anche se, come più volte affermato mitigato dal fatto che di esse 959 erano asintomatiche; le rimanenti 90 persone, di cui 41 ricoverate in ospedale, rappresentano comunque un dato non tranquillizzante per il loro addensarsi in alcune situazioni”. A questo proposito, dopo ulteriori verifiche, va precisato che Alberto Savi, detenuto nel carcere di Padova, è risultato negativo al test Covid. La denuncia: sviluppati nuovi focolai - Il Garante osserva che si addensano anche i casi complessivi, asintomatici o meno, in alcuni Istituti: se da un lato nelle settimane scorse era stato segnalato l’alto numero di persone positive a Napoli-Poggioreale (circa un centinaio) e a Terni (una settantina), oggi quei numeri sono scesi a 15 per il primo Istituto e a 1 solo per il secondo. “Ma - denuncia sempre il Garante - parallelamente, si sono sviluppati nuovi focolai a Trieste, Monza, Sulmona, Bologna e nei giorni precedenti a Tolmezzo, seppure in quest’ultimo i dati sono ora in calo”. Partendo da questi numeri e questa fluttuazione di focolai, che improvvisamente si “sviluppano e si ritraggono”, secondo il Garante evidenziano due necessità: i numeri complessivi delle presenza devono ridursi, sia perché - come più volte detto - c’è bisogno di spazi, di distanze, di ambienti separati, sia inoltre perché anche l’assenza di personale, e il suo riflettersi sulla necessità di isolamento degli altri con cui i singoli sono venuti a contatto, incide sulla effettiva gestibilità del sistema già di per sé complesso e assillato da organici ridotti. C’è anche il discorso relativo alla connotazione di minorità sociale di chi è rimasto dentro: 1014 persone sono detenute perché condannate a una pena inferiore a un anno e 2181 per una pena compresa tra uno e due anni. Bisogna evitare l’inaccettabile discriminazione basata sulla marginalità - “È presumibile pensare - osserva il Garante - che i reati commessi non abbiano nulla a che vedere con quelli di grande allarme sociale che avrebbero visto pene ben maggiori. Quest’insieme di persone rischia di non poter avere accesso alle pur limitate misure previste dall’ultimo decreto-legge anche perché in un numero consistente sono prive di fissa dimora o di dimora che possa soddisfare i requisiti valutabili dal magistrato di sorveglianza”. A questo proposito il Garante nazionale accoglie con favore l’iniziativa assunta dal Procuratore generale della Cassazione di progettare un percorso coordinato tra tutti gli attori che hanno il compito di preparare le pratiche per rendere possibile la valutazione della Magistratura di sorveglianza per evitare che si possa configurare una “inaccettabile discriminazione basata sulla marginalità”. Il Garante nazionale ha assicurato al Procuratore generale la propria disponibilità a contribuire alla semplificazione e celerità di questi percorsi ed è certo che, per quanto di loro competenza, si potrà contare anche sul contributo di tutti i Garanti ai diversi livelli di responsabilità territoriale. “Confida che analogo contributo verrà dato dai Consigli dell’Ordine degli avvocati”, chiosa il Garante. Rita non si ferma, già un mese di digiuno per salvare l’umanità dolente in carcere di Antonio Coniglio Il Riformista, 11 dicembre 2020 Con il suo sciopero della fame la radicale Bernardini dà a chi governa una lezione antica: chi massacra i prigionieri, non rende giustizia alle vittime ma rende solo gli uomini di Stato carnefici. Quando lo ha salutato in quel funerale laico nel quale il requiem di Mozart abbracciava una giornata di sole, Bernardini, di nome Rita come la santa delle cause impossibili, era a Piazza Navona: piazza Marco Pannella. In quel rettangolo allungato, il leader radicale aveva beffato finanche la sfida tra il Bernini e il Borromini, unendo religiosamente il paese nel nome dei diritti e delle libertà Rita era lì ai tempi delle maratone referendarie, con l’espressione limpida di una bambina. Sono trascorsi quarant’anni da allora, senza che il tempo sia riuscito a scalfirne lo sguardo terso e cristallino. Son fatti così i radicali veri: sono beffi e hanno dentro la poetica del fanciullino. Non l’ha fermata niente e nessuno Rita Bernardini. Né il colpo della strega, né l’infezione alla bocca, né gli 8 chili lasciati sul campo di un mese di digiuno per quella umanità dolente che in carcere rischia la vita: detenuti e detenenti vittime di una emergenza detta “pandemia” e di un sistema mortifero di giustizia penale. Lei compagna - cum panis - ha rinunciato al pane dando a chi governa una lezione antica non si massacrano i prigionieri. Il suo corpo, come nel discorso della montagna, “non resiste al male”: non imita il male per combatterlo. È un corpo inerme che, mentre digiuna, sfama. Sfama un potere, rinsecchito di diritto, che fa razzia dei vinti. Che diventa terribilità. Finanche nel VI secolo avanti Cristo, il vecchio Primo abbracciò le ginocchia di Achille, che sfregiava il corpo di Ettore, ricordandogli il senso di umanità. “Pensa Achille a tuo padre, coetaneo mio, sulla soglia della vecchiaia”. Pensi il ministro Bonafede a questi carcerati! Ai loro padri e ai loro figli! Potrebbero essere i suoi padri e i suoi figli! Hanno perso la libertà e sono inermi. Massacrarli non rende giustizia alle vittime ma rende solo gli uomini dello stato carnefici. Non è solo un affare di norme, di tecnica giuridica, di codici e pandette. È questione di solidarietà. Fino a oggi hanno digiunato 2.859 detenuti, 646 liberi, 201 docenti di diritto penale. Non hanno toccato pane giornalisti, scrittori e alcuni deputati. Rita Bernardini si è fotografata qualche giorno fa con il rossetto rosso delle grandi occasioni. Sanguigno, pugnace, cinabro. Questo è un digiuno di proposta. Non è un funerale. Dalle parti dei radicali, pannellianamente, “occorre volere e potere rischiare la vita contro, non il rischio, ma la certezza della morte del diritto, dei diritti, della speranza democratica, di un minimo di regole civili”. Chiosava Maria Teresa di Lascia: “Nessuno che faccia un digiuno per motivi politici o per motivi di salute può fare un digiuno contro qualche cosa o contro qualcuno. Non si può fare, non si regge, si muore. I digiuni irlandesi lo hanno dimostrato. Contro un avversario politico non lo si può fare e immagino neanche contro la propria malattia. Allo stesso modo non si può usare in politica uno strumento come il digiuno senza avere amore per l’avversario senza avere la consapevolezza che la crescita se ci sarà, avverrà dentro e fuori di noi. Se la malattia, nella lettura vitalista, origina quasi sempre dall’amore negato agli altri o non ricevuto, il successo di un digiuno in terapia come in politica è legato alla capacità di liberare la parte migliore di sé, di perdonare e di perdonarsi, di percepirsi come protagonista autentico della propria vita in una parola di amare”. Mentre Rita digiuna, continua in Sicilia “Il viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino-Spes conta spem”. È un viaggio che potrebbe non finire mai, tante sono le cose preziose e le persone straordinarie che si scoprono nel corso del cammino e che n portano a cercare ancora il bene che pure c’è e a incontrare i buoni che pure abitano nella terra del ‘male” e degli “irredimibili”. Con i miei compagni di viaggio Sergio D’Elia, Sabrina Renna ed Elisabetta Zamparutti, quanti ne abbiamo incontrati di “cattivi”: politici, imprenditori, sindaci ai quali è stata appiccicata addosso l’etichetta fasulla della mafiosità e comminata la condanna extragiudiziaria di irredimibilità. Sono le vittime collaterali e innocenti di una “guerra” che in nome della “legalità” crea il deserto e nega la libertà di fare impresa, il diritto al lavoro, la partecipazione alla vita politica e civile, in poche parole, lo stato di diritto. Noi andiamo avanti. Perché senza la speranza, la Trinacria diventa la terra della “morte addosso”. Noi speriamo oltre ogni speranza “Ce n’est qu’un début continuons le combar”. Con Skype la detenzione è più umana di Maurizio Gazzoni dolcevitaonline.it, 11 dicembre 2020 Tra le perle di saggezze dello scrittore e aforista Stanislaw Jerzy Lec, c’è anche questa: “L’anello più debole è spesso il più importante, perché è quello che può spezzare la catena”. La ricordo a tutti, me compreso, perché ora che il momento storico e sociale così incerto ci ha reso in preda all’emergenza tutti più egoisti è difficile incontrare qualcuno che abbia particolarmente a cuore la condizione di chi è in carcere. Eppure è in momenti come questi che dovremmo interessarci di più a quello che succede dietro le sbarre. In prima istanza perché è un luogo che ci riguarda più di quanto pensiamo; temo che in un futuro non lontano e in parte già presente, le ragioni per cui si rischierà di finire in carcere saranno maggiori e differenti dalle attuali. Secondo poi perché la nostra Costituzione sancisce principi che tutti dovremmo essere tenuti a rispettare, in primis lo Stato, seppure gli adeguamenti in corso d’opera di indirizzi anche in contrasto con la nostra Carta Costituzionale siano diventati più frequenti e praticati che in passato. Uno dei diritti che la Costituzione stabilisce dice che lo Stato è tenuto a garantire la nostra vita, quando la nostra vita è sotto la sua custodia ed è palese che, allo stato attuale delle cose e non da oggi, le condizioni in cui vengono tenuti i prigionieri non sono esattamente “umane”. Anche se molti credono che andare in prigione sia una specie di “vacanza a spese dello Stato”, la realtà carceraria è molto distante da questa visione. Attualmente i detenuti nelle carceri italiane sono oltre 60mila e le strutture che li accolgono sono in condizioni di pesante sovraffollamento. Proviamo solo per un attimo a metterci nei panni di familiari e amici che temono per i loro detenuti, pensandoli a rischio, senza la possibilità di poter comunicare con loro o essere aggiornati su quanto succede in quello che già era, ed oggi è ancor di più, un mondo parallelo. Con l’epidemia in corso e la sospensione dei colloqui a causa delle misure di contenimento del coronavirus è diventato prioritario sfruttare la tecnologia per far fare un passo avanti all’umanità intera. Mi riferisco a un piano di ampliamento delle telefonate e diffusione dell’uso di Skype tra i detenuti, perché tutti hanno il diritto di essere costantemente informati sullo stato di salute dei propri cari. Come già sperimentato in questi mesi, la videochiamata, disciplinata in tutto il suo iter dalle indicazioni del Ministero della giustizia, viene controllata visivamente da un poliziotto - cosa che avviene anche nei colloqui tradizionali in carcere - il quale può interrompere la chiamata in ogni momento in caso arrivassero persone non autorizzate. In tutta sincerità non vedo controindicazioni a utilizzare in questo modo la tecnologia per rendere il carcere più umano. Non credo che permettere una videochiamata con cadenza settimanale ai detenuti, verso i propri figli, i propri genitori o i propri congiunti, indebolisca l’autorità dello Stato e nemmeno che attraverso questa concessione, il “crimine” diventi più forte, appetibile e pericoloso di quanto la miseria già non lo renda ora. Telefono Giallo, potenziato il servizio di assistenza e supporto per i figli dei detenuti di Raul Leoni gnewsonline.it, 11 dicembre 2020 Dal 2015 il “Telefono Giallo” - la cui gestione è assicurata da Bambinisenzasbarre Onlus - si propone di favorire il mantenimento dei contatti familiari anche in stato di detenzione: e ora l’associazione lancia un appello diretto a incrementare lo svolgimento del servizio con modalità adeguate all’emergenza pandemica. Le limitazioni imposte dal Covid-19 rischiano infatti di interrompere i legami affettivi dei 100mila bambini e ragazzi che hanno il papà o la mamma in carcere, acuendo i pericoli di coinvolgerli in fenomeni di abbandono scolastico, disoccupazione, disagio sociale e illegalità. Per questo il Telefono Giallo, da sempre attivo per gli adulti, in questo momento di disorientamento causato dalla sospensione dei colloqui in presenza viene messo a disposizione anche dei minori figli dei detenuti, diventando un prezioso strumento di supporto destinato alla famiglia nel suo complesso. La campagna lanciata da Bambinisenzasbarre durante il periodo natalizio - e che durerà fino al 2 gennaio 2021 - mira a reperire le risorse necessarie per far fronte al più rilevante impegno organizzativo attraverso il sito dedicato tramite il sito attivati.bambinisenzasbarre.org. La linea telefonica è attiva dal lunedì al venerdì (10-18) al numero 392 9581328, mentre si può avviare il contatto mail all’indirizzo telefonogiallo@bambinisenzasbarre.org. L’associazione ha esercitato finora la sua funzione di accoglienza e interazione all’interno degli Spazi Gialli, ambienti concepiti per aiutare i bambini che entrano negli istituti penitenziari ad affrontare con la necessaria consapevolezza un’esperienza difficile come quella della detenzione di un genitore. Il senso di questa nuova iniziativa legata al potenziamento del Telefono Giallo viene spiegata da Lia Sacerdote, presidente e responsabile scientifica di Bambinisenzasbarre Onlus: “È una possibilità per i familiari di non sentirsi soli e di ragionare insieme a specialisti sulle risposte da dare alle domande che ogni giorno i figli pongono. Ed è anche una possibilità per i bambini, spesso già emarginati e vittime di pregiudizi a causa della loro situazione, di costruire una comunità virtuale con scambio di bisogni e consigli”. A ciascuno la sua task force, anche Bonafede ne ha una di Giulia Merlo Il Domani, 11 dicembre 2020 Il ministro Alfonso Bonafede ha lanciato una “Alleanza contro la corruzione” con sessanta esperti, che ha fatto arrabbiare la sua stessa maggioranza e in particolare Italia viva perché rischia di sovrapporsi all’Anac. Il governo Conte è sempre più il governo delle task force. La parola - mutuata dal lessico della marina militare e che dovrebbe indicare un gruppo composto da diverse unità militari complementari destinate a una specifica missione - è ormai entrata nel gergo corrente ma con accademici, professionisti e manager al posto dei militari. L’ultimo in ordine di tempo a cadere nella semplificazione gergale è stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, con la sua Alleanza contro la corruzione, che dovrebbe “impedire la dispersione e l’accaparramento criminale” dei fondi del Recovery fund e che sarà “una grande consultazione pubblica di esperti di diversa provenienza professionale e di varia estrazione disciplinare, con l’intento di fare il punto sull’assetto messo in campo dal nostro Paese nei settori della prevenzione e del contrasto alla corruzione”. A inaugurare la stagione, però, è stato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: la più nota e ancora attiva è il Comitato tecnico scientifico, chiamato a valutare l’andamento epidemiologico e le misure per rallentare i contagi. Poi è arrivata la task force capitanata dall’ex amministratore delegato di Vodafone, Vittorio Colao, istituita per aiutare palazzo Chigi nell’individuare le misure economiche per uscire dalla crisi. Poi ancora c’è la Cabina di regia che deve valutare e coordinare gli indicatori che collocano le regioni nelle tre fasce: gialla, arancione o rossa. infine, quella che non ha ancora visto la luce in forma compiuta e che è stata sommersa dalle critiche prima ancora di nascere: quella dei super-manager per gestire la spesa dei fondi del Recovery fund. I singoli ministeri hanno a loro volta seguito l’esempio: il ministero della Salute ne aveva creata una che poi è confluita nella Protezione civile e lo scorso settembre ne ha attivata una interministeriale insieme al ministero dell’Interno, composta da personale sanitario delle forze dell’ordine, per supportare la Sicilia nell’adeguamento delle strutture per i migranti. Anche il ministero dell’istruzione ha attivato una task force per l’emergenza educativa. A cosa serve - A differenza delle altre, tuttavia, l’iniziativa di Bonafede ha suscitato - oltre alle reazioni indignate dell’opposizione - più di un mugugno nella stessa maggioranza di governo. Anzi, la mossa del ministro ha infastidito gli alleati sia per il metodo comunicativo che per il merito. Sembra, infatti, che al ministero di via Arenula nessuno fosse al corrente dell’iniziativa, se non la stretta squadra di collaboratori di Bonafede. La settimana scorsa sono partite le telefonate ai membri del comitato scientifico, composto dai nomi più in vista della galassia giudiziaria tra i quali il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, i presidenti della Corte di Cassazione, Pietro Curzio; del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi e della Corte dei Conti, Guido Carlino; ma anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e lo stesso presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia. Nella lista, ha trovato posto anche il neo-pensionato Piercamillo Davigo, ancora in lotta con il Csm dopo la sua estromissione per raggiunti limiti di età. A tutti è stata chiesta la disponibilità a partecipare ai lavori, ma senza ulteriori comunicazioni specifiche sui compiti e i poteri di questa Alleanza. Poi l’iniziativa è subito stata annunciata con un comunicato stampa e poi con un video su Facebook di Bonafede. Altrettanto velocemente, sono iniziati anche gli attacchi al ministro da parte della sua stessa maggioranza. I più infastiditi sono stati i parlamentari di Italia Viva, che hanno letto nella mossa di Bonafede un intento ben preciso: allontanare il ministero della Giustizia dall’Anac - l’autorità anticorruzione fiore all’occhiello del governo Renzi coinvolta nell’iniziativa solo come una delle tante rappresentanze - e la volontà del guardasigilli “di attestarsi come paladino dell’anticorruzione” dice Gennaro Migliore, che però definisce l’iniziativa “senza alcun appiglio formale e sostanziale”. Addirittura un’invasione di campo rispetto all’Anac: “Il canale istituzionale già c’è. È grave che il ministro non faccia in alcun modo riferimento all’Anac: abbia il coraggio di dire che l’authority non serve, allora”. Anche all’interno del Partito democratico, che ha scoperto dell’Alleanza leggendo le agenzie stampa, l’iniziativa è tutt’altro che piaciuta. Addirittura, lo stesso sottosegretario Andrea Giorgis non sarebbe stato informato di nulla se non a cose fatte. Tra i detrattori di Bonafede c’è chi vede nella creazione della task force un tentativo del guardasigilli di allargare il proprio consenso, anche a fronte delle voci che lo vorrebbero tra i ministri in bilico in caso di rimpasto e forse costretto a restituire il posto al suo predecessore, Andrea Orlando. La risposta del ministero - Il ministero della Giustizia ha provato a chiarire che intorno all’Alleanza si è generato un equivoco: nessuna task force e nessun sostituto delle funzioni dell’Anac, ha spiegato via Arenula. Si tratta di un comitato tecnico scientifico, composto dai vertici delle istituzioni giuridiche del Paese che hanno direttamente e indirettamente a che fare con il fenomeno corruttivo. L’intento del ministro Bonafede è quello di istituire 16 tavoli tematici, con il compito di affrontare il tema della corruzione da diversi punti di vista per poi produrre proposte di modifica e riforma della legislazione attuale. L’obiettivo dei lavori - che dovrebbero concludersi entro il giugno 2021 con un documento di sintesi del Comitato scientifico - è quello di fare una ricognizione dell’assetto legislativo attuale per individuarne le criticità e proporre miglioramenti. Poco più di una commissione studio, dunque, con il mandato di produrre proposte ma priva di funzioni di intervento operativo, quindi senza alcuna sovrapposizione con le prerogative dell’Anac, che è l’ente deputato a fare prevenzione amministrativa sulla corruzione. Insomma, il clamore si sarebbe potuto evitare se l’iniziativa fosse stata presentata come l’istituzione di una commissione ministeriale. Invece, l’Alleanza di Bonafede è finita nel calderone delle task force vere o presunte, ma comunque accomunate da un elemento: essere entità esterne al governo e dai compiti spesso nebulosi. La funzione delle Procure e l’inerzia della politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 11 dicembre 2020 Due recentissimi eventi hanno riproposto il problema, ormai vecchio di un quarto di secolo, dei rapporti tra politica e giustizia, tra governo e procure. Con la differenza che questa volta non si tratta di una conflittualità tra magistrati e indagati, ma di confusione di attribuzioni. Il che, se possibile, è anche più grave. Primo esempio. Il presidente della Lombardia, Fontana, evidentemente esasperato per le inchieste passate e timoroso di quelle future, ha chiesto alla Procura di Milano una sorta di placet, cioè di assenso preventivo, sui prossimi acquisti senza gara dei vaccini anti-covid. Naturalmente il governatore, che è circondato da una schiera di giuristi, sapeva benissimo che era una richiesta irricevibile. E infatti la Procura ha risposto, a stretto giro di posta, che il suo compito è quello verificare la commissione di reati, non di interferire nell’attività amministrativa. Ma perché questo accade? Accade per tre ragioni. La prima è che le leggi penali sono così evanescenti ed ambigue - come per i reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze - che nessuno sa bene cosa possa fare e cosa no. La seconda è che chiunque può ormai denunciare chiunque, senza rischi né spese, perché non serve nemmeno la carta bollata, e quindi le procure sono inondate di fascicoli. La terza, infine, è che queste inchieste una volta iniziate sono lunghe e complesse, comportano enormi sofferenze finanziarie e psicologiche per gli indagati, e quando alla fine più che morire svaniscono, come i vecchi soldati di Mac Arthur, lasciano sul campo dei poveretti annichiliti dal passato e terrorizzati dal futuro. Nessuno - come ha detto Fontana - firma più nulla, e tutto si paralizza. È la cosiddetta amministrazione difensiva, figlia della medicina difensiva ormai adottata da molti sanitari per scongiurare grane giudiziarie, e madre della giustizia difensiva, giacché ormai si denunciano anche i magistrati quando le loro decisioni non soddisfano le parti in causa, ed anche le toghe cominciano ad essere preoccupate. Secondo esempio. La Procura di Bergamo sta concludendo, a quanto si è appreso, una colossale inchiesta sulla gestione della pandemia. Non sulle morti di singoli pazienti nelle locali strutture sanitarie, ma su eventuali mancanze che avrebbero favorito la diffusione del virus. Talché - s’è detto - gli atti potrebbero essere inviati a Roma, o forse a Venezia (!), dove ha sede l’ufficio dell’Oms. Chiunque abbia una minima esperienza giudiziaria sa benissimo che un’inchiesta così ha pochissime, e forse nessuna possibilità di risultati concreti dal punto di vista penale. E questo per varie ragioni. Per la difficoltà di individuare gli eventuali reati, visto che le norme vigenti puniscono chi per colpa “cagiona” un’epidemia, ma non chi la gestisce male dal punto di vista sanitario; per la conseguente difficoltà di individuare gli eventuali indagati, tenuto conto che la responsabilità penale è personale; perché questi ultimi potrebbero essere protetti - in quanto appartenenti all’Oms - dall’immunità diplomatica, oppure, se ministri, dalla relativa garanzia ministeriale, superabile solo attraverso un procedimento analogo a quello di Salvini; per la conseguente difficoltà di individuare la definitiva competenza territoriale, che come s’è visto è già in discussione; poi ancora per la difficoltà di individuare in concreto la colpa, visto che gli scienziati erano (e in parte sono) profondamente divisi sulle cause dell’epidemia e i mezzi per contrastarla nella sua fase iniziale; e, infine, per l’impossibilità di provare il cosiddetto nesso di causalità, che nei reati omissivi - cioè quelli in cui non si impedisce l’evento - è sempre una rogna. Nonostante questo l’inchiesta di Bergamo è, come si dice, un atto dovuto, e malgrado le incerte prospettive almeno farà quello che dovrebbe fare la politica, cioè capire, o cercare di capire, se qualcosa sia andato storto e se gli eventuali errori passati possano evitarci quelli futuri. Ma purtroppo la politica, anche qui, manifesta la stessa inerzia operosa che vediamo nella gestione economica in generale e in quella dei fondi europei in particolare, dove dopo la missione di Colao, l’istituzione degli stati generali, e altre bizzarre iniziative abbandonate e dimenticate, oggi il governo vuole espropriare sé stesso delle funzioni che gli competono. Questo sarebbe infatti l’obiettivo dell’ennesima “Task force” costituita da manager e da esperti che dovrebbero sostituirsi ai ministri e al Parlamento, relegati al ruolo di rassegnati e subordinati spettatori. Ecco perché le vicende di Milano e di Bergamo si assomigliano. Perché entrambe rivelano l’incapacità della politica di affrontare i problemi più urgenti. Quelli delle forniture sanitarie si risolverebbero con l’individuazione delle competenze, la semplificazione delle procedure e la riforma di alcuni reati. E quelli del “Recovery fund” semplicemente facendo fare ai ministri quello che devono fare, sotto la direzione del presidente del Consiglio che, come vuole la Costituzione, ne garantisce l’unità di indirizzo. Purtroppo l’impressione che ne abbiamo ricavato è che, dopo la medicina, l’amministrazione e la giustizia, ora sia nata anche una politica difensiva. “Noi giudici onorari in sciopero della fame per i nostri diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 dicembre 2020 Intervista a Vincenza Gagliardotto, in sciopero della fame per i diritti della categoria: “Nel giro di poche settimane si potrebbe verificare la paralisi di tutti i tribunali di Italia”. Continuano i flash mob dei magistrati onorari lungo tutta la penisola per chiedere che lo Stato riconosca loro i diritti di un lavoratore subordinato. Nonostante sentenze nazionali ed europee vadano in questa direzione, l’Italia non legifera in tal senso. Due giorni fa persino la Corte Costituzionale ha riconosciuto anche ai giudici di pace, come già avviene per i togati, il rimborso delle spese di difesa nei giudizi di responsabilità connessi all’esercizio della loro funzione. Tutto ciò sembra non bastare per far sì che il ministro della Giustizia prenda atto che i magistrati onorari non sono dei volontari ma benzina del motore del sistema giustizia. Per tenere alta l’attenzione da undici giorni Sabrina Argiolas e Vincenza Gagliardotto, due giudici onorari del Tribunale di Palermo, sono in sciopero della fame. Alle due colleghe si è aggiunta Giulia Bentley, vice procuratore a Palermo e paziente oncologica, e Livio Cancellieri, giudice onorario al Tribunale di Parma, anche lui affetto da gravissime patologie pregresse. Lo sciopero della fame si unisce alla dichiarazione di autosospensione dalla attività giudiziaria, a cui hanno aderito i vice procuratori di Milano e si va estendendo pian piano presso tutte le sedi giudiziarie. “Nel giro di poche settimane si potrebbe verificare la paralisi di tutti i tribunali di Italia” dice la dottoressa Gagliardotto al Dubbio. Come è nata la protesta? La protesta è nata dal basso, da due donne, da Palermo. Sabrina ed io ci siamo dette che questi decenni di battaglia sono serviti a poco: spesso abbiamo proclamato le astensioni, ossia il rinvio dei fascicoli, ma nulla abbiamo ottenuto dalla politica. In questo periodo di grave emergenza sanitaria, constatando che la nostra vita era in pericolo, essendo privi di qualsiasi tutela per la malattia, abbiamo dovuto autotutelarci sospendendo l’attività di udienza, sebbene in tal modo restassimo privi di ogni ristoro economico. Nella totale assenza di risposte da parte di interlocutori istituzionali, siamo giunte a una manifestazione nonviolenta di protesta, mediante lo sciopero della fame, seguendo le modalità tipiche di Marco Pannella. Per che cosa protestate? Lavoriamo accanto alla magistratura professionale con cui condividiamo tutti gli oneri - valutazioni professionali e corsi di aggiornamento -. Lo Stato ci assegna oltre il 50% delle cause civili di primo grado, e oltre l’80% di quelle monocratiche del settore penale. Mandiamo avanti il sistema giustizia ma senza alcun corrispondente riconoscimento: nessuna tutela della malattia, della maternità, nessun riconoscimento previdenziale. Nonostante questo lo Stato ci considera dei semplici volontari. Invece chiediamo di essere considerati dei lavoratori subordinati, come hanno stabilito sentenza europee e nazionali. Non chiediamo di essere equiparati ai magistrati togati. Proprio i togati chiedono che veniate tutelati maggiormente. Solo la politica è distratta: come procedono le interlocuzioni con il ministro Bonafede? Certo, noi per loro siamo necessari, senza di noi ci dicono - i Tribunali non potrebbero andare avanti con le attività. Però poi al ministero certi tecnocrati riescono a impedire di regolarizzare la nostra situazione lavorativa. Forse sono proprio loro ad indurre il ministro Bonafede a considerarci come dei volontari. Per questo non vediamo da parte sua un serio interessamento della questione. Eppure sono oltre 20 anni che amministriamo la giustizia “in nome del popolo italiano”. Le nostre sentenze in Appello e in Cassazione reggono come quelle dei togati. Cosa chiedete in concreto? Chiediamo le tutele giuslavoristiche riconosciute a tutti i lavoratori subordinati, mediante una decretazione d’urgenza, che ci consenta di riprendere l’attività lavorativa con la serenità e le legittime tutele. Fin quando andrete avanti? Fin quando non ci saranno le condizioni per riprendere. Per quanto riguarda lo sciopero della fame, siamo coscienti che non possiamo lasciarci morire: andremo avanti finché potremo. Lo Stato ci sta mettendo alla fame, allora decidiamo noi di fare la fame. Due nostri colleghi si sono ammalati di Covid- 19. Uno di loro, un padre di famiglia, è andato in terapia intensiva, per due mesi non ha potuto lavorare e non ha preso nessuna indennità di malattia. Siamo dunque al limite se non ci possiamo permettere neanche di ammalarci: è possibile che in uno Stato di Diritto noi che amministriamo la giustizia non abbiamo le tutele giuslavoriste che la Costituzione prevede? Però due giorni fa la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero vi ha comunicato che state violando il codice di autoregolamentazione, invitandovi a revocare l’astensione per non incorrere in sanzioni monetarie o addirittura nel licenziamento... Hanno preso un abbaglio perché in realtà disconoscono completamente l’articolo 21 comma 2 del decreto legislativo che nel 2017 riformò la magistratura onoraria e che attribuisce la facoltà ai singoli magistrati onorari di autosospendersi. La suddetta delibera ha ulteriormente esasperato l’animo dei magistrati onorari rafforzando il proposito di autospensione anche in altri tribunali. Tortora (purtroppo) insegna: di malagiustizia si muore di Fabrizio Cicchitto e Biagio Marzo Il Riformista, 11 dicembre 2020 Quanti casi Del Turco ci sono in Italia in cui le istituzioni si presentano in modo cinico. Ma questa storia ha dei tratti davvero terrificanti. Quando lo Stato è forte con il debole è brutto segno. In special modo, allorché si accanisce su un ammalato colpito da due gravi morbi e non solo e, per di più, ignora la pietas. Il che significa che ha preso la via del male contraria alla giustizia, alla morale e all’onestà. Insomma, tutto il male che si riesce a immaginare. Il peggio. Il peggio del peggio. L’ammalato è Ottaviano del Turco e lo Stato, in questione, è la Commissione della presidenza del senato, presieduta da Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha deciso, con un atto maramaldesco, cancellare il vitalizio all’ex presidente della giunta regionale dell’Abruzzo, ammalato di Alzheimer e del morbo di Parkinson. In precedenza, aveva subito un intervento chirurgico di asportazione di un tumore. Coloro che hanno preso la decisione disumana hanno la coscienza pulita? Nel corso della notte riusciranno a dormire alla grossa? Prima o poi, faranno i conti con il goyano sonno della ragione generatore di mostri. È mai possibile che nella Commissione di palazzo Madama ci sia tanta spietatezza da non soffermarsi sul destino di un uomo ammalato che non riconosce più i propri familiari. Quanti casi Del Turco ci sono in Italia le cui istituzioni si presentano in modo cinico, cieco e sordo. Di malagisutizia si muore, come insegna il caso Tortora. Che cosa bisogna fare per andare contro la malasorte che accompagna l’ex presidente dell’Abruzzo? Accogliere l’appello di Piero Sansonetti, lanciando una campagna per far dare la grazia a Ottaviano Del Turco dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella. L’escalation delle disgrazie giudiziarie dell’ex presidente iniziarono, in Abruzzo, per via dell’inchiesta sulla sanità privata. Nel 2008, venne arrestato su mandato della procura di Pescara e poco dopo, nel mese di luglio, si dimise da governatore e, nello stesso tempo, si autosospese da membro della direzionale nazionale del Pd, di cui era anche cofondatore. Ironia della vita politica in tempo di giustizialismo, dal Nazareno non ebbe alcun atto di solidarietà. Anzi, il gruppo dirigente fece finta di non conoscerlo e, comunque sia, si comportò come le tre scimmie dei romanzi gialli Mondadori: non vide, non sentì e non parlò. Perché gli è stato tolto il vitalizio? Perché l’allora Presidente del senato, Pietro Grassi, fece deliberare la privazione dei vitalizi di parlamentari condannati in via definitiva per mafia e corruzione. Delibera che presenta fortissimi dubbi di costituzionalità, ma, in Italia, da decenni, lo Stato di diritto e la Costituzione sono degli optional. Nel 2006, Del Turco ebbe una condanna “grazie” alla legge Severino, di tre anni e 11 mesi, “per induzione indebita”, essendo pubblico ufficiale, mentre la delibera Grassi è del 2015, violando la Costituzione secondo la quale non ci può essere la retroattività delle condanne. Chiaramente, la condanna inflitta a Del Turco dalla Corte d’Appello di Perugia, per aver “intascato”, 6 milioni di euro, confermata dalla Cassazione, rientra nella fattispecie della delibera Grassi. In proposito, il suo difensore Gian Domenico Caiazza ha dichiarato: “Dieci anni dopo, di quella “montagna di prove” della quale vaneggiava il procuratore di Pescara è rimasto un pugno di fango”. Fatto sta che i milioni che l’imprenditore della sanità ha affermato che avrebbe dato all’ex presidente, non si sono mai trovati. 6 milioni di euro non sono bruscolini, bensì una cifra enorme che non si può nascondere sotto il mattone. Al dunque, non si sono trovati di là dalle accuse dell’imprenditore, Vincenzo Angelini, e dai salti mortali fatti dal procuratore capo, Nicola Trifuoggi, nel tentativo di cercare le prove che potessero inguaiare Del Turco. Così si concluse la vita politica di Ottaviano Del Turco che sognava di fare “Grande l’Abruzzo”. Allorché ebbe questa bella ambizione, avrebbe dovuto calcolare che si sarebbe messo contro il “deep state” abruzzese. Per di più, sfortuna volle di incrociare sulla sua strada il magistrato Trifuoggi, che sulla scia di “sanitopoli”, aveva la velleità di occupare la poltrona di procuratore generale a Roma. Non è tutto. Accettò l’incarico di vice sindaco, dal primo cittadino dell’Aquila, Massimo Cialente, un nome e una garanzia, che se ne uscì dal Pd per dissenso. A dire il vero, il magistrato non si fece mancare nulla, fu interlocutore di Gianfranco Fini, Presidente della Camera, che incappò nel caso che fece molto discutere, criticò, a microfoni spenti, Silvio Berlusconi, nel corso del ritiro del “Premio Borsellino”. Del Turco avrebbe meritato, per la sua storia, sindacale, politica e di governo, una sorte migliore. Della sua vicenda disse: “Avrei voluto scegliere io il momento in cui ritirarmi dalla scena politica e, soprattutto, ritengo che la mia storia politica meritasse tutt’altro epilogo”. Questa è la cronaca di una morte politica annunciata, una cronaca come tante in tempi di tricoteuses, ma quella di Ottaviano Del Turco, come ci ha scritto il figlio Guido, è una “vicenda senza fine, terrificante, kafkiana”. Martelli: “La legge non è sempre giusta. Con Del Turco è stata una barbarie” di Simona Musco Il Dubbio, 11 dicembre 2020 L’ex ministro della Giustizia: “La falsa legalità anticostituzionale va immediatamente fermata”. “Il luogo nel quale si difende la giustizia, anche contro la legalità, è il Parlamento. La falsa legalità anticostituzionale va immediatamente fermata”. L’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli non fa sconti. Nostalgico di quando la politica era un mestiere nobile, osserva l’odierno balletto delle forze politiche con un pizzico di mestizia. E con rabbia, quando a finire nel tritacarne sono i diritti fondamentali. Sacrificati in nome di una legalità inamidata che spesso si traduce in barbarie. Per lui rappresenta questo il caso di Ottaviano Del Turco, ex governatore dell’Abruzzo, al quale l’ufficio di presidenza del Senato ha cancellato il vitalizio, perché condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita, nell’inchiesta sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, che a luglio del 2008 gli costò pure l’arresto. Martelli si sfoga sul proprio profilo Facebook, scatenando una marea di commenti e raggiungendo 257mila persone. Il giudizio è tagliente: quella decisione, a danno una persona gravemente malata e praticamente incosciente, è “una barbarie immorale”. Una premessa: nel suo post scrive che Del Turco è stato vittima di una condanna ingiusta... Riporto quanto detto ampiamente dal suo difensore, Gian Domenico Caiazza, presidente di tutti i penalisti italiani, che di certo non ha bisogno di visibilità e ha l’autorità per parlare. Mi riferisco alla mancanza del corpo del reato: i soldi. Non ce n’è traccia, non c’è nessun passaggio di denaro tra Del Turco e chi lo ha accusato. Angelini, ras della sanità privata, indagato nella stessa inchiesta, dichiarò di aver portato all’ex governatore sei milioni in un cesto di mele. Ma ripeto, di quei soldi non c’è traccia. Mentre ci sono molti indizi di una congiura dello stesso Angelini per salvare sé stesso. La vita politico-giudiziaria è piena di falsi pentiti e di congiure. Non le danno fastidio gli insulti ricevuti? In verità sono ben pochi rispetto agli elogi. Guardi, mi ricordo bene la gragnola di insulti che mi presi quando cominciai a difendere il cittadino Tortora, quindi non mi sorprende questa e non mi fa né caldo né freddo. Il vitalizio è stato cancellato sulla base di una delibera del 2015. Perché allora è un atto illegittimo, come lo ha definito lei? A monte di questo dibattito c’è una questione di fondo: la confusione tra legalità e giustizia, due cose diverse. La legalità è fatta dalle leggi vigenti, la giustizia risponde a dei principi, spesso scritti nelle Costituzioni, non di rado in conflitto con le leggi vigenti, proprio per questo vengono cambiate e aggiornate. Se la legalità fosse sempre giustizia allora erano da considerare giuste anche le leggi razziali di Mussolini, allora era giusto abolire le libertà democratiche fondamentali. Così non è e non deve essere. Il luogo nel quale si difende la giustizia, anche contro le leggi vigenti, è il Parlamento che rappresenta la sovranità popolare. In questo caso, purtroppo, il Parlamento, per colpa degli ex presidenti Grasso e Boldrini, ha dato vita a norme anticostituzionali, a una legalità presunta. Come considera questo regolamento, dunque? Un obbrobrio anticostituzionale, perché si tratta di un rapporto pensionistico, al quale chiunque, anche un condannato all’ergastolo, ha diritto. E ad essere anticostituzionale è anche la retroattività della norma: non si può essere condannati per una condotta che è divenuta reato dopo che quell’atto è stato compiuto. Alcuni senatori hanno espresso contrarietà a questa decisione. Non si poteva fare nulla per evitarlo? Ho parlato con alcuni esponenti dell’ufficio di presidenza, preoccupati di chiarire la loro posizione. Mi hanno detto: noi siamo incolpevoli, perché siamo esecutori dell’applicazione di una norma vigente, stabilita nella passata legislatura. Ma io dico che è loro dovere, se non sono d’accordo, votare contro, astenersi, impugnare quella norma. Mi dicono che la stessa presidente Casellati, oggi, è orientata a ridiscutere questa questione e la sua vice Rossomando ha manifestato contrarietà a questa delibera già a suo tempo, esprimendo perplessità anche nel caso specifico. Tutti si rendono conto che togliere il vitalizio a un uomo in fin di vita, malato di cancro, Alzheimer e Parkinson, che non può difendersi, perché è praticamente in uno stato di incoscienza, è ingiusto, inumano e anticostituzionale. È una norma infame, se produce questo genere di conseguenze, e perciò va sospesa perché lede diritti che non possono essere soppressi in nessuna circostanza. Lasciamo il culto di questa robaccia al Fatto Quotidiano e a Travaglio: il Parlamento non può farsene complice. Altrimenti finiamo col dare ragione ai grillini: facciamo tutto con gli algoritmi, applichiamo le leggi in maniera automatica, che non lascia scampo. No, il Parlamento è lì proprio per contrastare la falsa legalità in nome della giustizia. È un modus operandi populista, ma anche le reazioni alla sua esternazione sul caso Del Turco, in alcuni casi, vanno in quella direzione… Purtroppo due anni fa la maggior parte degli italiani ha dato il suo voto a due forze estremiste, populiste e fondamentalmente anti parlamentari, perché quello che c’è lì dentro è l’antiparlamentarismo, malattia tipica delle forze reazionarie, autoritarie e antidemocratiche. Il primo nemico del parlamentarismo fu Mussolini e instaurò una dittatura. Come diceva Manzoni, c’è un conflitto permanente tra il buon senso e il senso comune. Il senso comune è quello che si eccita e si appaga per le risposte più semplicistiche, più immediate che rispondono all’umore. Ma l’umore della folla porta al linciaggio, alla gogna. La civiltà consiste proprio nel resistere a queste tentazioni. Le riforme di questi anni, spesso pensate sull’onda delle emergenze, vanno in questa direzione. Come le giudica? Orrende. L’abolizione della prescrizione, ad esempio, è contraria alla Costituzione, che stabilisce la ragionevole durata del processo. Anche altre norme importanti, ai fini delle garanzie, sono state travolte dalle misure legislative adottate negli ultimi anni. Sappiamo benissimo che la fonte è quella del M5s, del loro antiparlamentarismo, che procede come un rullo compressore su alcune libertà fondamentali. Il taglio dei vitalizi e la riduzione del numero dei parlamentari, a costo di cancellare la rappresentanza di alcuni territori, rappresentano un altro vulnus alle libertà democratiche. I 5Stelle vogliono parlamentari impiegati di una forza politica governata dalla piattaforma di un’associazione privata. C’è da ridere e adesso se ne stanno rendendo conto anche loro, come si vede dalle liti interne. È un delirio che deve essere fermato. Queste riforme dove ci porteranno? Ad un sistema autoritario, ad un sistema anonimo in cui i cittadini non eleggono più un loro rappresentante, ma delegano la loro volontà a una macchina informatica, burocratica, a dei gruppi di potere i quali camminano con gli scarponi sopra l’indipendenza di ogni singolo parlamentare. Il dovere dei parlamentari non è rispettare ciecamente una norma, se ingiusta, ma interpretare i principi fondamentali della Costituzione. La più bella del mondo, dicevano... E se lo sono dimenticati. Nunzia De Girolamo, ennesimo politico vittima della malagiustizia di Valentina Stella Il Dubbio, 11 dicembre 2020 Indagine “esplosa” nel 2013: “Concussione e voto di scambio all’Asl di Benevento”. Cadute tutte le accuse, anche per gli altri imputati. La Procura voleva 8 anni di carcere. Nunzia De Girolamo, ex deputata, ex ministro delle Politiche agricole, ha atteso sette anni. “Alla fine ho avuto giustizia, ma ho perso sette anni di vita”, sono state le sue sacrosante parole, ieri, subito dopo essere stata assolta “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm Assunta Tillo aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici Fallarino, Rotili e Telaro del Tribunale di Benevento non hanno invece riconosciuto l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una “gestione opaca” del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli è stata dunque completamente smontata: insieme a De Girolamo sono stati assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. L’indagine era partita nel 2012 da una denuncia dell’ex direttore generale dell’Asl di Benevento Michele Rossi contro l’ex direttore amministrativo Felice Pisapia. A parere di Rossi i conti non tornavano, considerando i mandati di pagamento emessi a favore di alcune ditte fornitrici dell’Asl. Rossi prende dunque la decisione di consegnare agli inquirenti un fascicolo che a suo dire avrebbe messo in evidenza una gestione non trasparente delle risorse. Poco dopo il direttore amministrativo viene licenziato e magistrati e finanzieri cominciano a indagare sui conti dell’azienda sanitaria. Un anno dopo, nel 2013, arrivano i primi provvedimenti cautelari che coinvolgono Pisapia, ma anche paradossalmente lo stesso Rossi. Tra gli indagati nel 2014 emerge per la prima volta anche il nome di Nunzia De Girolamo, all’epoca ministro. Secondo i pm, l’ex parlamentare di Forza Italia, passata poi nella fila dell’Ncd di Angelino Alfano, rappresentava l’apice di un direttorio politico che a Benevento gestiva affari, consulenze, e nomine. Il gip di Benevento Flavio Cusani parlò addirittura di “indagini sull’esistenza di un ristretto direttorio politico- partitico, al di fuori di ogni norma di legge”. Alla base delle accuse c’erano soprattutto registrazioni audio, captate segretamente da Pisapia, forse come forma di vendetta per la denuncia presentata nei suoi confronti da Rossi, durante alcune riunioni politiche tenutesi in casa del padre della De Girolamo. Sull’utilizzabilità di quelle registrazioni si consumerà anche uno scontro processuale tra accusa e difesa, ma quei file verranno poi comunque acquisiti come fonti di prova. Il rinvio a giudizio per gli otto indagati arriva a settembre 2016 e il processo comincia due mesi più tardi. Da allora, la vita di Nunzia De Girolamo viene completamente sconvolta. Candidata per Fi, dopo il breve passaggio nel Nuovo centrodestra, non viene eletta alle ultime Politiche e si dedica alla tv, come concorrente a “Ballando con le stelle” e come opinionista a “Non è l’Arena” di Giletti. Ieri, dopo quattro lunghi anni, la sentenza di assoluzione che demolisce l’inchiesta. Assieme alla De Girolamo vengono assolti gli ex collaboratori Luigi Barone e Giacomo Papa, lo stesso Michele Rossi, Felice Pisapia, l’ex direttore sanitario Gelsomino Ventucci, l’ex responsabile del budgeting Arnaldo Falato, e il sindaco di Airola, Michele Napoletano. “Ha vinto la giustizia - ha dichiarato Nunzia De Girolamo - io ho solo perso 7 anni di serenità. Mi sono dimessa da ministro, pur non essendo indagata, per difendere la mia dignità. L’ho fatto sempre nel processo e non dal processo. Le tre donne del Collegio mi hanno restituito fiducia e voglia di continuare a combattere per le cose giuste. Io non ho mai avuto paura della magistratura, ma della cattiveria che mi ha circondato in questi anni. Mi auguro - conclude l’ex ministro - che quei giornalisti, pochi per fortuna, che pensavano che un’indagine o una richiesta di un pm fosse una condanna definitiva, ora diano lo stesso risalto alla notizia della mia assoluzione”. A difendere De Girolamo l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali: “Siamo enormemente soddisfatti del risultato e di aver incontrato un collegio di giudici sereni, equilibrati, che hanno saputo restituire dignità a una persona ingiustamente colpita nella sua carriera pubblica, oltre che nella sua vita privata”. Insieme a lui nel collegio difensivo anche l’avvocato Domenico Di Terlizzi: “L’assoluzione perché il fatto non sussiste da tutti i reati e per tutti gli imputati deve porre all’attenzione di tutti la patologia di questa iniziativa giudiziaria che ha determinato le dimissioni di un ministro e l’espulsione dalla vita politica di una giovane donna. Questa patologia il legislatore deve eliminarla, potenziando il controllo sulle iniziative infondate dei pubblici ministeri. Qui siamo in presenza di un mero teorema accusatorio, e una parte della stampa, specie quella che ama il populismo giudiziario, farebbe bene a riflettere quando vengono enfatizzate le richieste di condanna a 8 anni. Ovviamente ben diverso è il discorso sugli organi giudicanti, che ancora una volta dimostrano di essere il vero argine allo strapotere delle Procure”. A poche ore dalla notizia è giunta anche una nota della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: “L’assoluzione di Nunzia De Girolamo perché il fatto non sussiste è una notizia bellissima che pone fine a un lungo e immeritato incubo. È doveroso però rimarcare ancora una volta il macigno abnorme che pesa sulla nostra democrazia a causa dell’uso politico della giustizia, che in questo come in troppi altri casi ha determinato le dimissioni di una ministra della Repubblica ingiustamente messa sotto accusa da un’iniziativa giudiziaria infondata”. La prescrizione del reato presupposto non esclude la responsabilità amministrativa dell’ente di Fabrizio Ventimiglia e Laura Acutis* Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2020 Cass. Pen., Sez. VI, 9.10.2020, n. 28210. Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta sul rapporto tra la responsabilità delle persone giuridiche e il reato presupposto, dal quale, come noto, origina tale responsabilità e, in particolare, sulla valenza dell’articolo 8 del D.lgs. 231/2001, ove viene consacrata l’autonomia della responsabilità dell’ente. In particolare, nella sentenza in commento, i Giudici hanno nuovamente affermato il principio secondo il quale anche “in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell’art. 8, comma primo, lett. b) d.lgs. 231/2001, deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto reato”. Questa in sintesi la vicenda processuale. La Corte di Appello di Lecce confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Brindisi con la quale una società veniva ritenuta responsabile, con conseguente sanzione di giustizia, dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25, comma 2, D.lgs. 231/2001 in relazione al reato di cui agli artt. 319, 321 c.p. - corruzione propria - commessi da un consigliere di amministrazione della società, anche gestore della discarica di Brindisi, e un componente del comitato tecnico della provincia ove tale discarica si trovava. Quest’ultimo, infatti, si era fatto conferire dal consigliere diversi incarichi di natura professionale da espletarsi presso la discarica nonché presso altri soggetti economici e, sempre grazie all’interessamento dello stesso consigliere, aveva ottenuto un importante incarico avente ad oggetto la caratterizzazione della zona industriale di Brindisi. Da tale condotta illecita la società aveva tratto un profitto di rilevante entità costituito dalla circostanza che il comitato tecnico provinciale aveva espresso parere favorevole sulle istanze presentate dalla s.r.l. tese ad ottenere l’autorizzazione all’adeguamento della discarica ai sensi dell’art. 17, d.lgs. 36/03 ed alla realizzazione di una piattaforma per il trattamento, la valorizzazione e lo stoccaggio definitivo dei rifiuti non pericolosi. Dichiarato prescritto il reato presupposto a carico del consigliere di amministrazione della società, la Corte di Appello di Lecce ha confermato la responsabilità della società, che ha, pertanto, ricorso per Cassazione. Percorrendo l’iter motivazionale della sentenza in esame, i Giudici di legittimità hanno modo di affermare, ancora una volta, il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale anche in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il Giudice è comunque chiamato a procedere ad un autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio è stata perpetrata la condotta illecita. Ne risulta che, anche nell’ipotesi in cui venga accertata l’intervenuta prescrizione del reato presupposto, il Giudice è in ogni caso tenuto ad effettuare un accertamento autonomo sulla responsabilità amministrativa dell’ente nel cui interesse o a cui vantaggio il reato è stato posto in essere. Inoltre, non essendo esclusa automaticamente la responsabilità della persona giuridica a seguito della declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice è sempre chiamato a verificare la sussistenza del fatto costituente reato e ad appurare che il delitto prescritto commesso dalla persona fisica sia stato correttamente qualificato. Campania. “Subito una nuova legge regionale sulle carceri”, la proposta di Oliviero di Viviana Lanza Il Riformista, 11 dicembre 2020 Un gruppo di lavoro e la proposta di una nuova legge regionale sulle carceri è l’idea lanciata dal presidente del Consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero nel corso della presentazione dei Quaderni di ricerca, un report sulle carceri campane realizzato dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello e dall’Osservatorio regionale sulla detenzione. La proposta riguarda, dunque, un’iniziativa legislativa per rivedere, assieme alla legge regionale 18/2006, il ruolo del garante “per renderlo più incisivo e adeguato”. “Chi vive in una condizione di restrizione deve poter vivere nel pieno rispetto della dignità umana”, ha sottolineato Oliviero parlando di sanità, formazione e istruzione per i detenuti. In questo periodo di emergenza pandemica, tra l’altro, la sanità è uno degli aspetti fondamentali. Da circa undici anni quella nelle carceri è gestita dalle Asl a livello regionale. E in quest’ottica si è auspicato che anche la popolazione carceraria sia inserita tra le categorie che dovranno essere vaccinate con priorità: “Vive in condizioni di reclusione, può rientrare tra le categorie a rischio”. Il garante Ciambriello, a nome anche degli altri garanti cittadini, ha poi rinnovato il grido di allarme: “Non c’è tempo, l’universo carcere sta esplodendo e la politica deve occuparsi seriamente e correttamente del problema”. Le misure finora varate dal Governo si sono rivelate inefficaci: “Il decreto Ristori, che sulla carta ha il fine di limitare nuovi contagi all’interno delle carceri, ha introdotto novità che però modificano solamente la lunghezza delle licenze senza aumentare il numero delle persone che ne potranno beneficiare, prevedono la concessione di permessi premio solo per alcuni reati o la detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico, con l’eccezione dei minorenni e di chi ha una pena residua da scontare non superiore a sei mesi”. Troppi paletti, insomma. E un’efficacia limitata, se si considera, come si legge nel report sulle carceri campane, che il numero dei beneficiari è assai esiguo e che negli istituti di pena persistono carenze di spazi e sovraffollamento. Non sono meno allarmanti i dati che riguardano la sfera del mondo penitenziario minorile. Il 17,8% della popolazione regionale è composta da ragazzi fra i 12 e i 18 anni, e secondo lo studio condotto da garante e Osservatorio sulla detenzione, ogni anno in Campania sono 5mila i giovanissimi che vengono fermati, identificati, riaffidati ai genitori, denunciati, condotti in comunità o sottoposti alla messa alla prova. Nel 2020 sono stati 315 i ragazzi presi in carico per la prima volta dagli uffici del servizio sociale per i minorenni, 662 sono quelli in carico da più anni: in totale sono 977 in Campania. Da gennaio a ottobre 2020, seppure con trend altalenanti, il numero dei ragazzi minorenni finiti in carcere si è attestato sulla quarantina: 41 ragazzi sono reclusi attualmente a Nisida, 20 ad Airola. I giovanissimi reclusi si dividono tra coloro che hanno dai 14 ai 18 anni di età, e quelli cosiddetti giovani adulti, dai venti ai 24 anni. Il Covid, nel frattempo, ha imposto di rivedere non soltanto i criteri della detenzione, la garanzia della sanità, la gestione degli spazi ma anche una diversa attenzione ai diritti dei detenuti quanto a sentimenti e affettività. “In molti istituti della Campania - si legge nel report - sono state create delle aree verdi per dar modo ai detenuti di incontrare mogli, figli, genitori, ma questi spazi vengono usati solo qualche volta, per di più sulla base del già citato criterio di premialità che costituisce un approccio sbagliato al problema”. “L’affettività nelle carceri della Campania e del resto del Paese - spiega Ciambriello, evidenziando necessità di interventi anche strutturali, come da quelli da anni finanziati e non ancora avviati a Poggioreale - dovrebbe essere considerato un tassello fondamentale del trattamento, e invece è sempre più spesso mortificata”. Piemonte. A breve solo 5 direttori per 14 penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2020 Il Garante regionale Bruno Mellano denuncia la situazione precaria delle carceri in Piemonte e le difficoltà che hanno i direttori a gestirle. C’è una situazione insostenibile nei penitenziari del Piemonte. Oltre alla carenza strutturale dei ruoli intermedi della Polizia penitenziaria e la cronica mancanza di educatori, si aggiunge il “problema dei problemi”: ci sono solo 7 direttori del carcere su 14 istituti penitenziari piemontesi e diversi di loro sono responsabili di due o più carceri. Anzi, attualmente scendono a quota 6, considerando che il direttore del carcere di Ivrea (istituto conosciuto per i presunti pestaggi e dove la procura - dopo la richiesta di archiviazione- è stata costretta a rifare da capo l’inchiesta), oltre che essere vice direttore di Alessandria, da settembre risulta assente per motivi di salute. Come se non bastasse c’è il direttore del carcere di Cuneo che si appresta ad assumere il nuovo, prestigioso incarico di direttore della Casa di reclusione di Milano Bollate. Cosa significa? Con la sua nuova collocazione, la cui sostituzione si può ragionevolmente pensare non sia immediata, si arriva a 5 direttori su 14 istituti penitenziari piemontesi. La preoccupazione del garante regionale Bruno Mellano - A essere molto preoccupato è il garante regionale delle persone private della libertà Bruno Mellano. Per questo si è attivato segnalando la problematica al Dap e a tutte le autorità possibili. “In queste condizioni - spiega il Garante a Il Dubbio - si apre l’anno nuovo con un vero e proprio “Caso Piemonte”. Il problema è cronico e credo che l’Amministrazione penitenziaria centrale debba prevedere concorsi o chiamate di personale su base territoriale, se non regionale almeno distrettuale”. Questo per vincolare l’assunzione dei nuovi futuri dirigenti e in generale del personale “a un periodo di servizio significativo ed effettivo nella sede per cui si è presentata la candidatura - sottolinea sempre Mellano - per evitare inconvenienti come la cronica difficoltà a reperire le professionalità necessarie per alcuni territori e sedi considerate “disagiate”, come pare essere considerato anche il Piemonte, in particolare alcune sue sedi”. Due carceri per ogni direttore - Per capire bene i numeri, è il caso di entrare nel dettaglio reso pubblico dal Garante regionale. C’è il direttore Giorgio Leggieri, pronto ad assumere la direzione di Bollate, che ha la responsabilità degli istituti di Cuneo e Aosta, così come Giuseppina Piscioneri deve gestire contemporaneamente le Case di Reclusione di Alba e Saluzzo, mentre la Assuntina Di Rienzo somma le competenze della Direzione della Casa di Reclusione a custodia attenuata di Fossano e la vice Direzione della Casa Circondariale di Torino. Elena Lombardi Vallauri ha la responsabilità dei due istituti di Alessandria, Casa di Reclusione San Michele e Casa Circondariale don Soria. Antonella Giordano dirige la Casa Circondariale di Vercelli e quella di Verbania, mentre la dottoressa Tullia Ardito la Casa Circondariale di Biella e quella di Novara. Infine c’è Alberto Valentini che dirige la Casa di Reclusione di Ivrea e in contemporanea svolge il compito di vice direttore di Alessandria. Purtroppo però, com’è detto, si aggiunge il fatto che da settembre sta male. L’ultimo concorso per dirigenti è stato fatto 23 anni fa - L’ultimo concorso per dirigenti risale addirittura al 1997, mentre quello finalmente indetto lo scorso anno per 45 posti da direttore ha le prove d’esame che sono già state rinviate al prossimo gennaio per l’elevato numero di candidati (12.000) e si prevede che i tempi per reclutare i nuovi direttori si allunghino di almeno due anni, rispetto al calendario inizialmente previsto. “Manca persino un contratto di lavoro nazionale per i direttori di carcere!”, osserva Bruno Mellano. “Una situazione obiettivamente insostenibile, in generale per il Paese ma in particolar modo per il Piemonte e che ho sottoposto al capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, e che si va cronicizzando sempre più”, conclude il garante della regione Piemonte. Sicilia. “Una casa per ricominciare”: dal carcere alla libertà, l’iniziativa per i detenuti palermotoday.it, 11 dicembre 2020 Politiche sociali, l’assessorato alla Famiglia pubblica un avviso. Scavone: “È destinato a persone sottoposte a misure detentive per fronteggiare l’emergenza Covid”. L’assessorato regionale della Famiglia ha pubblicato l’avviso pubblico “Una casa per ricominciare” finalizzato a fronteggiare l’emergenza epidemiologia da Covid-19 negli istituti penitenziari. In particolare, l’avviso promuove la presentazione di proposte progettuali, da parte degli enti del terzo settore, rivolte al reperimento di alloggi da destinare a persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il bando è realizzato in collaborazione tra l’assessorato regionale delle Politiche sociali e la Cassa delle ammende, l’ente di diritto pubblico del Ministero di Giustizia che, a tal fine, ha concesso alla Sicilia un finanziamento di 300 mila euro. “Partiamo con un progetto “pilota”, primo nel suo genere in Sicilia- afferma l’assessore delle Politiche sociali, Antonio Scavone - che nasce dall’esigenza di dare un contributo in termini di riduzione del sovraffollamento carcerario e, consequenzialmente, di riduzione del rischio di diffusione del contagio da Covid-19. L’obiettivo - continua l’esponente del governo Musumeci - è quello di agevolare la possibilità di accesso alle misure alternative alle persone in regime di detenzione che, pur avendo i requisiti oggettivi, risultano prive di riferimenti esterni e di risorse personali”. I destinatari dell’avviso sono i soggetti in esecuzione di condanna definitiva, con pene residue medio brevi e con un basso indice di pericolosità sociale, aventi i requisiti per accedere alle misure alternative rispetto alla detenzione in carcere, con particolare attenzione alla detenzione domiciliare. Le risorse, 300 mila euro destinati a coprire le spese di vitto e alloggio, già finanziate dalla cassa delle ammende e con cui prende l’avvio il bando, potranno essere integrate sia dai comuni, anche sotto forma di fornitura di servizi quali banco alimentare, servizi di accoglienza residenziale, comunità alloggio per donne fragili e bambini, sia dai servizi sanitari specialistici e territoriali, come la messa a disposizione di posti in comunità protette per tossicodipendenti o per chi ha problemi di salute mentale. “È un avviso che, oltre a dare un contributo in termini di riduzione del rischio Coronavirus nelle carceri - prosegue Scavone - prevede anche la possibilità di fornire ai soggetti interessati, nella fase finale del percorso detentivo, attività formative finalizzate all’educazione alla legalità centrata sia sulla riflessione guidata rispetto al disvalore delle condotte antigiuridiche sia sulla ideazione di condotte riparative a favore della collettività”. Napoli. Giornata di digiuno per chiedere misure urgenti per i detenuti ai tempi del Covid giustizianews24.it, 11 dicembre 2020 Una “Giornata di digiuno e di solidarietà” per chiedere misure urgenti per il mondo penitenziario si terrà sabato 19 dicembre a Napoli. A promuoverla sono stati il Garante per i diritti dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ed il responsabile della pastorale carceraria della diocesi di Napoli, don Franco Esposito. Nel corso della giornata sul tema “Fame di Giustizia e Sete di Verità” (dalle 11 alle 15) si terrà anche un presidio dinanzi al carcere di Poggioreale. “Porteremo la nostra fame di giustizia e la nostra sete di verità, ognuno con la propria storia e la propria visione del mondo, ma tutti insieme per gridare forte che non è più tempo di perdere tempo e che c’è bisogno di intervenire subito”, si leghe in una nota. Il carcere, si legge sempre nella nota, non deve essere “un luogo oscuro e separato dalla società, perché ogni vita deve essere salvata da un virus che non conosce limiti e barriere. In questi mesi tutti noi abbiamo conosciuto la paura e il timore per un virus che ha cambiato le nostre vite. Abbiamo imparato a mantenere a usare le mascherine, a igienizzare le mani e a mantenere la distanza gli uni dagli altri. Tutte misure indispensabili, in attesa di un vaccino, che rispettiamo con rigore. E chi è in una cella con altre dieci persone e un solo bagno come fa?”. Si chiede “che non si perda altro tempo ad adottare tutti quei provvedimenti che riducano la presenza nelle carceri sovraffollati e consentano a quante più persone possibile di scontare con misure alternative la propria pena”. Tra le prime adesioni si registrano quelle dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe arcivescovo di Napoli; di padre Alex Zanotelli missionario comboniano; di Pietro Ioia, garante dei detenuti della città metropolitana di Napoli; di Carlo Mele, garante dei detenuti della provincia di Avellino; di Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della provincia di Caserta; di don Tonino Palmese vicario episcopale Carità e Giustizia; di don Enzo Cozzolino, direttore Caritas diocesana di Napoli; dei cappellani carcere “Giuseppe Salvia” Poggioreale; dei cappellani carcere di Secondigliano, di don Antonio Loffredo Fondazione san Gennaro; di Don Maurizio Patriciello parroco di Caivano e della Comunità Sant’Egidio e di numerose altre associazioni di volontariato. Lucera (Fg): Coronavirus, 53 positivi nel carcere: 35 detenuti e 18 dipendenti Gazzetta del Mezzogiorno, 11 dicembre 2020 È quanto comunica il Sindaco, Giuseppe Pitta. Trentacinque detenuti e 18 dipendenti del carcere di Lucera (Foggia) sono risultati positivi al Covid. È quanto comunica il sindaco del comune foggiano Giuseppe Pitta che specifica anche che “si tratta di casi quasi tutti asintomatici. Si sta provvedendo ad isolare i casi positivi sistemando i detenuti in celle singole o accorpando più detenuti Covid in una stessa cella e alla sanificazione degli ambienti”. Carinola (Ce). I detenuti diventano infermieri di loro stessi in carcere casertanews.it, 11 dicembre 2020 Protocollo d’intesa tra l’Ordine di Malta e la Casa circondariale. Formare detenuti “caregivers” in modo che possano a loro volta prestare assistenza ad altre persone detenute in difficoltà. È questo lo scopo del protocollo d’intesa che verrà firmato sabato 19 dicembre, alle 10, nella sede del Gran Priorato di Napoli e Sicilia del Sovrano Militare Ordine di Malta, dal professore Andrea Pisani Massamormile, vice cancelliere del Gran Priorato e delegato di Napoli, e Carlo Brunetti, direttore della casa di reclusione “G.B. Novelli” di Carinola. Il progetto, denominato “Caregiver in carcere, avere cura di sé... dentro”, sperimentale e innovativo, prevede che la Delegazione di Napoli dell’Ordine Di Malta indirizzi, gratuitamente, alla struttura penitenziaria di Carinola dei volontari, con professionalità adeguate allo scopo, per favorire l’empowerment della persona attraverso un percorso informativo-formativo di responsabilizzazione rispetto al proprio e dell’altrui stato di salute e stile di vita, favorendo la possibilità di prestare attività assistenziale a supporto di altre persone detenute in difficoltà. Brescia. La Garante dei detenuti “Per il carcere servono risposte urgenti” lavocedelpopolo.it, 11 dicembre 2020 “La situazione penitenziaria italiana - scrive Luisa Ravagnani, garante dei detenuti, in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’Uomo - è caratterizzata da anni da una serie di problematiche che mettono la salute dei detenuti e del personale penitenziario a serio rischio e riducono fortemente l’efficacia rieducativa cha la pena dovrebbe avere”. Come sottolinea la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale “l’attuale emergenza pandemica ha nuovamente e pesantemente acceso i riflettori sulle celle sovraffollate che caratterizzano la maggior parte degli istituti di pena, Brescia compresa e ha da più parti spinto a richiedere interventi urgenti per proteggere la salute dei detenuti. È evidente che sia necessario, ora più che mai, ripensare il carcere e renderlo, una volta per tutte, luogo nel quale la salute non sia posta in secondo piano”. Per questo, l’Ufficio del Garante dei detenuti, la Camera Penale di Brescia e diverse realtà del territorio, si rivolgono alla comunità bresciana proponendo di condividere una iniziativa organizzata il 12 dicembre alle ore 12, facendo pervenire alla casella di posta del Ministero della Giustizia (protocollo.gabinetto@giustizia.it) un messaggio con il seguente testo “chiediamo risposte urgenti per il carcere”. “Con la speranza che il Ministro sia raggiunto da numerosissime richieste da Brescia, ringraziamo fin da ora - conclude Ravagnani - tutti coloro i quali decideranno di darci una mano a portare avanti la battaglia per un carcere umano”. Catanzaro. Il valore di essere genitori, anche in carcere catanzaroinforma.it, 11 dicembre 2020 Un papà in carcere resta comunque un papà. Anche se svolgere il ruolo di genitore in un contesto di doppio isolamento, dovuto alla detenzione e alla pandemia, non è affatto semplice. I sensi di colpa e le sensazioni di scoraggiamento sono inevitabili e richiedono un supporto per essere superati. La direttrice del carcere di Catanzaro Angela Paravati racconta il tentativo quotidiano di ricordare il loro ruolo alle persone che sono genitori e che sono detenute presso la Casa Circondariale di Siano. Anche perché una figlia o un figlio sono la migliore motivazione che si possa avere per intraprendere una strada diversa. “Sta proseguendo on line nel 2020 il corso di genitorialità tenuto già in precedenza dalla psicologa Maria Teresa Villì, in collaborazione con l’associazione Universo Minori, presieduta dall’avvocato Rita Tulelli, realtà che da anni collabora con il nostro istituto con varie iniziative dedicate ai bambini figli di genitori detenuti” spiega la dirigente, precisando: “In questo momento è particolarmente dura soprattutto per i ristretti i cui figli risiedono in altre città: a causa dell’emergenza epidemiologica i colloqui visivi sono sospesi, vengono sostituiti con le videochiamate e la “presenza” del genitore detenuto, per i figli minori, in questo 2020, è stata ancora di più “a distanza”. Si cerca da sempre di tutelare il più possibile i rapporti familiari e affettivi delle persone ristrette presso la Casa Circondariale: negli anni passati tanti sono stati i momenti di condivisione e i laboratori ricreativi organizzati in “giornate speciali” dall’associazione Universo Minori. Il ruolo di genitore è una molla per andare avanti in tanti percorsi rieducativi attivi presso la Casa Circondariale: nello studio, nella formazione professionale, nel lavoro. “L’attività dell’associazione Universo Minori è specificamente volta a dare sostegno ai bambini figli di genitori detenuti, che si trovano a sopportare varie limitazioni nei rapporti familiari senza averne alcuna colpa” spiega il presidente Rita Tulelli. “Un detenuto che è genitore studia e lavora non solo per sé stesso: lo fa anche per essere un padre migliore” conclude la direttrice Paravati. Savona. Nuovo carcere, il ministero ha scelto: si punta sulle aree delle Officine Rialzo di Giovanni Ciolina Il Secolo XIX, 11 dicembre 2020 Il procuratore Pelosi: “La priorità è il penitenziario, averlo dietro il tribunale sarebbe ottimale”. Alternative a Cairo e Cengio. La collocazione del nuovo carcere in pieno centro di Savona irrompe prepotentemente alla vigilia del vertice convocato dal presidente della Provincia, Pierangelo Olivieri. La prima scelta per la costruzione del nuovo penitenziario è nelle ex aree delle Officine Rialzo, proprio dietro il tribunale e a confine con il torrente e via Corsi. È lo stesso dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a sostenere quella soluzione nell’ambito di un fitto scambio epistolare con le autorità locali e in particolare con l’amministrazione giudiziaria della Grande Vela di via XX Settembre. Confermando formalmente, quindi, la ricostruzione fornita dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’onorevole Sara Foscolo che gli chiedeva lumi ai primi di novembre sulla situazione carceraria. “Per completezza - scrive il Guardasigilli nella risposta scritta all’interrogazione dell’onorevole leghista - si riferisce che l’ufficio tecnico del Dap ha elaborato uno studio di prefattibilità per la realizzazione di un complesso penitenziario per 140 posti nell’area libera compresa tra il palazzo di giustizia e il torrente Letimbro”. Ex officine Rialzo, quindi, e non l’area di Binario Blu utilizzata come parcheggio che sarebbe stata oggetto di sopralluogo nel 2018 da parte del provveditore alle opere pubbliche della Liguria, Roberto Ferrazza. Ipotesi di fronte alla quale il sindaco Ilaria Caprioglio aveva alzato le barricate. “L’aspetto prioritario è avere un carcere - taglia corto il procuratore Ubaldo Pelosi - L’assenza di un penitenziario è ormai diventata insostenibile per tutti. Per le forze dell’ordine che ogni volta che c’è un arresto devono andare a Genova o Imperia. E per gli interrogatori bisogna percorrere la strada a ritroso. Non è più sostenibile per gli stessi detenuti, ma anche per gli avvocati, gli agenti di polizia penitenziaria e per gli stessi operatori di Giustizia”. Problematiche e rimostranze che la procura aveva manifestato in una lettera inviata al Dap ad inizio novembre e che ha ricevuto la risposta dai palazzi romani. “Scontato che creare una cittadella giudiziaria a Savona sarebbe l’ideale per tutti - conclude il procuratore Pelosi - Ma ribadisco che la priorità resta l’esistenza di un carcere in provincia che funzionerebbe anche da valvola di sfogo per i penitenziari esistenti ed alle prese con il sovraffollamento”. Nonostante quindi, il Dap abbia comunicato ufficialmente attraverso il suo ufficio stampa di “non essere stato coinvolto dal Mit e che quindi sul caso carcere a Savona non ci sono comunicazioni”. Condizioni non propriamente conforme alla realtà che sta marciando spedita, forse, verso una possibile soluzione. Savona, quindi, e in particolare le ex aree Officine Rialzo sono la prima scelta, ma sul tavolo restano forti le proposte del Tecchio a Cairo e delle ex aree Acna a Cengio. Domani dovrebbe arrivare la prima pietra del percorso che tutti sperano porti il carcere in provincia. Trani (Bat). Carcere, affidato incarico per la ristrutturazione della ex sezione blu traniviva.it, 11 dicembre 2020 Presto i lavori nell’ala del penitenziario che fu di massima sicurezza. Soddisfazione della sen. Piarulli (M5S). La sezione blu del Carcere di Trani sarà presto ristrutturata. È infatti stato affidato il primo incarico professionale propedeutico all’inizio dei lavori di ristrutturazione di quell’ala del penitenziario di Via Andria. Lo annuncia la senatrice del Movimento Cinque Stelle Angela Bruna Piarulli che di quel carcere è stata direttrice sino alla sua elezione parlamentare. “Prendiamo atto con soddisfazione della nuova progettualità riguardante la ex sezione blu del carcere di Trani, da me ripetutamente sollecitata” afferma la parlamentare pentastellata. La sezione blu come è noto, fu il settore di massima sicurezza del carcere costruito all’inizio degli anni ‘70 e che entrò in esercizio nel 1974. Ospitava i più pericolosi brigatisti e terroristi degli anni di piombo e poi ha continuato fino a qualche settimana fa ad ospitare detenuti in ambienti diventati però, nel frattempo, sempre più fatiscenti e obsoleti, soprattutto a causa dei bagni a vista e di tante situazioni di promiscuità in netto contrasto con i diritti universalmente riconosciuti in favore delle persone private della libertà. Dopo tante sollecitazioni parlamentari da parte della senatrice Piarulli, che del carcere di Trani è direttore in aspettativa, i detenuti della ex sezione blu sono stati trasferiti al nuovo padiglione, denominato “Europa”, che può ospitare fino a 200 reclusi. La ex sezione blu, nel frattempo, è stata chiusa ed è in attesa di ristrutturazione, previa relazione da parte del professionista incaricato con riferimento alla valutazione della vulnerabilità sismica. La rifunzionalizzazione della ex sezione blu porterebbe il carcere di Trani ad avere almeno 200 posti letto in più rispetto ai 320 circa attuali, e soprattutto porrebbe la struttura nella condizione di diventare anche sede della casa di reclusione femminile, tuttora ospitata l’ex convento domenicano di piazza Plebiscito, anch’esso obsoleto e fatiscente. “Adesso auspichiamo di assistere nel più breve tempo possibile ai previsti lavori - dichiara ancora la senatrice Piarulli - e, ancora prima, alla conclusione di quelli del nuovo plesso, non ancora del tutto terminati. In ogni caso, questa è la dimostrazione tangibile della mia vicinanza ai problemi dei detenuti e del personale della Polizia penitenziaria. La chiusura della ex sezione blu era stato il segnale di un nuovo inizio ed aveva rappresentato una mia prima vittoria, essendomi occupata di questa questione non solo da direttore degli istituti penali di Trani, ma anche come senatrice, partendo dal presupposto che la pena debba essere dignitosa per i detenuti, ma anche per i lavoratori. Adesso dobbiamo, necessariamente, passare alla seconda fase per ottimizzare spazi e risorse, nel supremo interesse della collettività”. Como. Nuova edizione di “Cucinare al Fresco”: per Natale il ricettario dei detenuti primacomo.it, 11 dicembre 2020 Dalla prossima settimana in libreria l’ultimo numero nato dal progetto di Arianna Augustoni.. Natale 2020: sotto l’albero solo regali solidali. Arriva martedì prossimo in libreria Cucinare al Fresco Christmas Edition, 118 pagine di puro gusto, con ricette proposte e scritte dai detenuti e dalle detenute delle carceri italiane. Sponsor di questa pubblicazione natalizia, il Rotary Club Como. “Abbiamo aderito con grande entusiasmo questa iniziativa editoriale a sostegno dei progetti a favore dei detenuti delle nostre Case Circondariali - spiega il presidente del Rotary Club Como, Alberto Grandi - una raccolta di ricette frutto di un incontro fra culture e nazionalità, sperimentazioni e tradizioni che trasforma la quotidiana abitudine della preparazione del pasto in un momento stimolante, creativo e perché no anche ludico. È uno strumento che avvicina chi sta fuori a chi sta dentro, facendo conoscere realtà e persone attraverso un tema che coinvolge quotidianamente ognuno di noi: il cibo”. Nato tre anni fa al carcere del Bassone, Cucinare al fresco è una testata giornalistica condivisa nelle carceri di tutto il Paese. Un progetto di volontariato, coordinato da Arianna Augustoni insieme ad Alessandro Tommasi e Giuseppe Bevilacqua per la parte grafica. Filippo Guatelli per la parte video, Dario Consonni e Nicolò Augustoni per quella social, oltre a numerosi volontari che, di volta in volta, sostengono l’iniziativa. Ricettari semplici, ma spassosi, profumati e, soprattutto pieni di umanità perché ogni piatto viene pensato e studiato dai redattori che fanno proposte utilizzando ingredienti e strumenti a loro disposizione. Ancora una volta il cibo unisce, riempie i cuori, porta a realizzare qualcosa di buono. Una speranza, una consapevolezza, ma soprattutto, una sfida, un volersi rimettere in gioco e raccontare, attraverso il cibo, esperienze e ricordi. Una sperimentazione che in molti hanno definito vincente perché mette a sistema i detenuti e le detenute che, attraverso le proprie esperienze, si rimettono in gioco e chiedono di portare la loro voce all’esterno. Un’iniziativa positiva perché questo percorso tiene conto di un elemento fondamentale: la riabilitazione. È una riabilitazione sociale per ovviare ai rischi dell’inezia che nuoce a tutti. “I rischi dell’inattività in carcere sono una costante e rappresentano un grave male per la popolazione carceraria - spiega Arianna Augustoni - Rimanere nell’inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, senza avere uno scopo non permette di riflettere sulla propria vita, su se stessi e sulle situazioni che hanno portato la persona stessa a vivere nell’illegalità o a essere incarcerato. Oziare significa solo aggravare la situazione in cui vivono i detenuti, non aiuta certo a migliorarsi”. Partendo da questa riflessione al carcere di Como è nata l’idea che ha permesso ad alcuni gruppi di detenuti di impegnarsi per realizzare un prodotto editoriale che è riuscito a mettere in collegamento la vita dei reclusi con quella della società esterna. Una sperimentazione che ha colto nel segno diventando un progetto esportato in tutta Italia. L’iniziativa infatti è approdata nelle carceri milanesi di Bollate e Opera, Varese, Sondrio, Perugia, Alba, Pavia, Monza, Locri e Vibo Valentia. Pisa. Maxi-donazione di panettoni per i detenuti del “don Bosco” La Nazione, 11 dicembre 2020 Iniziativa solidale del colosso della chimica Todisco Group. Maxi-donazione nei giorni scorsi alla casa circondariale Don Bosco di Pisa. Un gesto solidale prima delle feste natalizie, feste quest’anno diverse anche se tutte lo sono per chi è recluso. Un regalo che arriva da Todisco Group di Pisa, che fa capo a Donato Antonio Todisco e che opera nella chimica di base ed è tra i principali operatori nel settore a livello italiano e internazionale con 300 milioni di euro di ricavi e 500 dipendenti diretti. Consegnati al personale del carcere per i detenuti oltre 100 panettoni, tavolette di cioccolata e coca cola, sufficienti per essere distribuiti almeno una a testa. Un grazie arriva dall’area pedagogica della Casa circondariale di Pisa: “Abbiamo particolarmente apprezzato la generosità in un momento tanto critico”. Il gruppo Todisco, quartier generale a Pisa e stabilimenti in tuta Italia, è, spiega una nota dell’azienda, “una società moderna e dinamica che, grazie ad efficienti collegamenti con importanti produttori mondiali di materie prime, e ad una snella e vivace organizzazione commerciale, è in grado di consegnare prodotti chimici industriali su tutto il territorio nazionale: i prodotti vengono distribuiti dai diversi depositi costieri situati nei principali porti italiani (Monopoli, Chioggia, Ravenna, Genova, Ortona, Porto Torres, Savona) e il totale della movimentazione annua tra prodotti liquidi e solidi ammonta a circa 450 mila tonnellate all’anno”. Giornata dei diritti umani: la lotta alla pandemia banco di prova della solidarietà mondiale di Caterina Castaldi La Repubblica, 11 dicembre 2020 La tutela dei soggetti vulnerabili va messa al centro dell’impegno per la ripresa. Si celebra all’insegna di una lotta alla pandemia che abbia come stella polare la salvaguardia dei diritti di tutti il settantaduesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata il 10 dicembre 1948 con l’obiettivo di cancellare dal mondo gli orrori della guerra, diffondendo i valori di libertà, democrazia e tolleranza. Un obiettivo disatteso anche in questi giorni, in cui assistiamo alla competizione fra paesi ricchi per assicurarsi vaccini anti Covid-19, mentre in quasi 70 paesi a basso reddito nove cittadini su dieci rischiano di non avere accesso al vaccino. Più della metà dei prodotti disponibili è stata già prenotata dai paesi del primo mondo, dove vive meno di un sesto della popolazione mondiale, ammonisce la Peoplès Vaccine Alliance, una coalizione di ong di cui fanno parte anche Oxfam e Amnesty International. Tutela dei diritti umani essenziale per la ripresa.Lo slogan scelto dall’ONU per l’edizione 2020 della ricorrenza è Recover Better. Stand up for Human Rights (Per una migliore ripresa difendiamo i diritti umani). “Le persone e i loro diritti - ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres - devono essere al centro delle risposte e della ripresa. Occorrono quadri di riferimento universali, come la copertura sanitaria per tutti, per sconfiggere questa pandemia e tutelarci per il futuro. Il 10 dicembre è l’occasione per riaffermare l’importanza dei diritti umani nella ricostruzione del mondo che vogliamo, e la necessità di una solidarietà globale”. Secondo l’Onu a fine 2020 si conteranno 77 milioni di persone in più in condizioni di povertà estrema, ed è una crisi che rischia di allungarsi fino al prossimo decennio, ammonisce il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). Il monito di Mattarella e di papa Francesco. Che la tutela dei diritti della persona vada messa al centro della risposta globale alla pandemia è il monito di Sergio Mattarella, che ricorda come l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani abbia costituito “uno strumento di portata globale per tutelare i diritti e le libertà fondamentali di ciascuno, ponendo l’intangibile dignità della persona al di sopra di ogni forma di discriminazione e di ogni ordinamento. Mentre interi popoli subiscono persecuzioni per ragioni politiche, etniche, o religiose, l’emergenza sanitaria genera in tutte le società ulteriori rischi di discriminazione e forme di emarginazione, che lacerano il tessuto sociale e contraddicono valori fondamentali”. E “ciascuno è chiamato a contribuire con coraggio e determinazione ai rispetto dei diritti umani fondamentali di ogni persona, specialmente di quelle ‘invisibili’: di tanti che hanno fame e sete, che sono nudi, malati, stranieri o detenuti (Matteo 25,35-36)” è il tweet di papa Francesco. Amnesty ricorda tutti i difensori dei diritti umani. Amnesty International, che ricorda come con la Dichiarazione universale “tutti gli individui vennero dichiarati liberi e uguali in dignità e diritti”, invita a celebrare questa ricorrenza firmando gli appelli per Jani Silva, Gustavo, Nassima, Melike, Ozgur, Khaled, “solo alcuni dei nomi di una moltitudine di difensori dei diritti umani che ogni giorno danno voce a quelle parole. Con la loro fatica, col loro sacrificio, col loro coraggio. Lo fanno per tutte e tutti noi”. L’impegno per Patrick Zaki. E non viene dimenticato Patrick Zaki, il ricercatore egiziano studente dell’Università di Bologna detenuto da nove mesi al Cairo: in questa giornata il sindaco di Firenze Dario Nardella gli ha dedicato uno striscione issato su Palazzo Vecchio, mentre la presidente dell’Assemblea legislativa della regione Emilia-Romagna Emma Petitti lo definisce “un simbolo dei diritti umani negati, rinchiuso in carcere ingiustamente proprio in nome di quei diritti che lui stesso si è visto violare. Nell’ultima udienza, pochi giorni fa, il tribunale ha disposto il prolungamento della sua prigionia, costringendolo a finire l’anno dietro le sbarre. Come Assemblea legislativa continueremo a mantenere alta l’attenzione sul caso di Zaki e oggi, in questa ricorrenza dal senso così profondo, torniamo a ribadire che Patrick deve tornare libero”. Sindaci di Varsavia e Budapest contro i sovranismi. Un appello al rispetto dei diritti umani viene anche dai sindaci di Varsavia e Budapest (capitali di due paesi governati dai sovranisti), che deplorano il veto “irresponsabile” al piano di ripresa europeo da parte dei governi polacco e ungherese ed esortano Bruxelles a versare i fondi europei direttamente alle amministrazioni locali; i due sindaci parlano a nome delle 249 autorità locali di opposizione di entrambi i paesi. Tutelare le comunità indigene della Colombia. In occasione della Giornata mondiale per la protezione e promozione dei diritti umani l’Associazione Luca Coscioni, attiva a livello internazionale a tutela del diritto alla scienza e alla salute, rende nota un’azione in favore del diritto alla salute degli abitanti delle comunità indigene della riserva Ticoya, situata nella regione amazzonica della Colombia, dove vivono 6.273 persone di etnia Ticuna, Cocama e Yagua, distribuite in 22 comunità indigene: “In questi territori le autorità nazionali non hanno adottato le necessarie misure preventive per contenere i contagi. Dall’inizio della pandemia i casi all’interno delle popolazioni indigene dell’intera Colombia hanno riguardato il 2,04% dei contagi della popolazione colombiana”. Centrale la protezione dei soggetti vulnerabili. “In questo periodo storico, toccato da una pandemia mondiale, le organizzazioni, così come Cammino-Camera Nazionale degli Avvocati per la persona, relazioni familiari e minorenni, si battono per la difesa dei diritti umani denunciando costantemente le violazioni che avvengono purtroppo soprattutto in contesti familiari”. La cronaca è contrassegnata dalle violenze consumate tra le mura domestiche in conseguenza del lockdown: “Innumerevoli i soprusi, le vessazioni, le denigrazioni, le sottovalutazioni, l’indifferenza se non talvolta il sarcasmo nei confronti delle vittime: donne, minori, anziani”, sottolinea l’associazione, che ha realizzato decaloghi che contengono indicazioni per la gestione dei soggetti vulnerabili durante la permanenza obbligata in casa. Mattarella: “La tutela dei diritti della persona sia al centro della risposta alla pandemia” di Caterina Castaldi La Repubblica, 11 dicembre 2020 Per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il tema della Giornata dei diritti umani 2020 “Per una migliore ripresa - Difendiamo i diritti umani” pone giustamente “l’accento sulle immense sfide che la pandemia ci pone di fronte. Mentre interi popoli subiscono persecuzioni per ragioni politiche, etniche o religiose, l’emergenza sanitaria genera in tutte le società ulteriori rischi di discriminazione e forme di emarginazione, che lacerano il tessuto sociale e contraddicono valori fondamentali”. “La tutela dei diritti della persona deve essere al centro della risposta globale alla pandemia, per evitare che essa renda meno penetrante la loro applicazione, e far sì che gli sforzi di ripresa siano sorretti da solidi criteri di eguaglianza ed equità. Senza il rispetto di tali essenziali principi la Comunità internazionale non sarà in grado di superare con successo questo momento complesso e di garantire a tutti un futuro di pace e sviluppo”, conclude il capo dello Stato. La ricorrenza è stata indetta in memoria della proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sancita dall’Assemblea delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre del 1948. Questo documento storico, figlio dei traumi del Dopoguerra, è stato scritto per evitare che si ripetessero le devastazioni e le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale dopo la scoperta degli orrori dei campi di sterminio nazisti. I 58 paesi allora membri dell’ONU, elaborarono nella Carta con un elenco di 30 articoli, che prendevano a spunto i grandi documenti costitutivi della storia dell’umanità, come ad esempio la Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 1776 o la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nata dalla Rivoluzione Francese. L’obiettivo dichiarato era quello di diffondere in tutto il mondo i valori di democrazia, diversità e tolleranza. Nove “Storytellers for Peace” per i Diritti umani - “C’era una volta il paese dei noi. Il paese dei noi era abitato da persone i cui nomi erano semplici da pronunciare. Io, te, me stesso, tu, ancora io, sempre te, ma allora io?, e perché tu?, e così via. Al di fuori del paese dei noi, vivevano loro. Loro avevano nomi meno semplici da pronunciare. Almeno secondo noi. Lui, lei, l’altro, l’altra, tutti gli altri, quelli, quello là, quell’altra, questi qua, ma perché non se ne stanno a casa loro, ecc. Ora, si da il caso che molti tra gli abitanti del paese dei noi non vedessero di buon occhio loro, temendo che loro potessero defraudarli di qualcosa, come ad esempio il futuro (...)”. Inizia così il racconto di Alessandro Ghebreigziabiher (Italia) degli Storytellers for Peace (Narratori per la Pace), nove narratori provenienti da tutto il mondo che narrano le loro storie sui diritti umani in una serie di video con sottotitoli in italiano e inglese per la Giornata dei diritti di umani che si celebra oggi in tutto il mondo. Usa, proteste contro le esecuzioni federali - Le voci di opposizione alle esecuzioni federali si fanno più forti negli Stati Uniti. Lo scrive l’associazione “Death Penalty Action”, che per la Giornata Internazionale dei Diritti Umani, annuncia che in tutto il Paese sono in programma proteste contro le esecuzioni federali, con interventi di suor Helen Prejean, Amanda Knox, e altri. A riportarlo è ‘Nessuno Tocchi Caino’. Con una chiara raccomandazione di clemenza per Brandon Bernard dal Clemency Attorney degli Stati Uniti (l’agenzia federale che esamina le richieste di clemenza dei detenuti federali, anche dei condannati a morte), gli occhi sono puntati sulla Casa Bianca. Le esecuzioni federali senza precedenti del presidente Trump potrebbero proseguire oggi: alle 18 è prevista infatti l’esecuzione di Brandon Bernard. Death Penalty Action ha mobilitato i suoi membri per sollecitare il Presidente a mostrare pietà per lui e per gli altri detenuti federali la cui esecuzione è imminente.”Ora spetta davvero al presidente”, ha detto Abraham Bonowitz, direttore di Death Penalty Action. “La raccomandazione di clemenza sta creando un fiume di tweet che lo invitano a fare la cosa giusta. Il mondo sta guardando.” Fedeli (Pd): “Non si distolga l’attenzione da Patrick Zaky e Joshua Wong” - “Nella giornata mondiale dei diritti umani, per richiamare ogni stato democratico al dovere di far valere i trattati internazionali, voglio citare due casi su cui dobbiamo tenere alta l’attenzione: Patrick Zaky e Joshua Wong, perché prevalga sempre il rispetto dei diritti umani”. Cosi’ su Twitter la capogruppo Pd in commissione diritti umani Valeria Fedeli. Decreti sicurezza, approvazione a rischio al Senato di Giovanna Casadio La Repubblica, 11 dicembre 2020 La Casellati assegna l’esame del testo, che deve essere convertito entro il 20 dicembre, oltre che alla commissione Affari Costituzionali, alla Giustizia presieduta dal leghista Ostellari. E la Lega annuncia battaglia contro il testo. Scoppia la polemica fra i partiti e la presidente di Palazzo Madama finisce sotto accusa. Il decreto immigrazione torna a rischio. Solo ventiquattr’ore fa è stato approvato dalla Camera dei deputati, dove era arrivato dopo più di un anno di stop and go, ritardi e limature, malumori dei grillini e testo riscritto dal Viminale. La maggioranza giallo-rossa sembrava essere riuscita ad archiviare le politiche sulla sicurezza di Matteo Salvini, mancando solo il voto del Senato. Qui il via libera deve esserci entro il 20 dicembre. Ma è arrivata a sorpresa la notizia che la presidente di Palazzo Madama, Elisabetta Casellati ha deciso di fare esaminare il provvedimento da due commissioni, e non dalla sola Affari costituzionali, bensì anche dalla Giustizia, prima ovviamente dell’approdo in aula con tempi appunto contingentati. Tecnicismi? Non tanto. La commissione Giustizia infatti è l’unica guidata dalla Lega, che ha annunciato le barricate e di volere in ogni modo ostacolare il nuovo decreto sui migranti. A Montecitorio ieri ha esposto un lungo striscione contro “il decreto clandestini”. Il presidente è rimasto il leghista Andrea Ostellari, perché durante il rinnovo delle presidenze delle commissioni la scorsa estate, nel voto segreto è stato fatto fuori il candidato giallo-rosso, Pietro Grasso, ex presidente del Senato ed ex procuratore antimafia. “Una cosa incomprensibile e sconcertante, chiederò spiegazioni alla Casellati”, è sbottato il dem Dario Parrini, presidente della Affari costituzionali che era riunita per decidere sui nuovi collegi elettorali, quando è stata comunicata la scelta. La discussione si è accesa. Per il Pd “è clamoroso”, dal momento che solo quattro pagine su 25 del decreto immigrazione sono collegabili alle competenze della commissione Giustizia. A questo punto, il leghista Roberto Calderoli ha fatto notare che tutti i componenti di quella commissione, grillini e dem inclusi, ne hanno chiesto l’esame. Smentita a stretto giro di posta, con code di polemiche. È cominciato il tam tam dei comunicati dei partiti. Il Pd protesta. I capigruppo nelle commissioni Valeria Valente e Franco Mirabelli chiedono spiegazioni: “È una decisione della Casellati, sollecitata dal presidente leghista? Non ne capiamo il motivo. L’esame di questo tipo di provvedimenti, di pertinenza del ministero dell’Interno, è sempre stato assegnato alla Affari costituzionali, così è stato alla Camera, così è stato anche per i decreti di Salvini”. Stessa osservazione di Julia Unterberger e Gianclaudio Bressa per le Autonomie e di Loredana De Petris per Leu. I 5Stelle a loro volta scendono sul piede di guerra con le capigruppo delle due commissioni Maria Laura Mantovani e Grazia D’Angelo: “È una scelta singolare. A quanto ci risulta alla presidente Casellati è giunta una richiesta in tal senso da parte della presidenza leghista della commissione Giustizia senza che vi sia stata, di questo siamo certi, una decisione presa a maggioranza tra le senatrice i senatori di quella commissione, né un pronunciamento dei capigruppo. Chiediamo pertanto che il provvedimento venga riassegnato esclusivamente alla commissione Affari costituzionali nel rispetto dell’abituale organizzazione dei lavori parlamentari”. A difesa di Casellati e del doppio esame è il centrodestra che fa sapere che la doppia assegnazione “è logica”, vista la “naturale e ovvia competenza per materia”. La nota è firmata dai capigruppo di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia - Simone Pillon, Giacomo Caliendo e Alberto Balboni. Anzi, ritengono che il contrario sia una indebita invasione di campo. Ma la contesa tra le commissioni è solo la cartina di tornasole che fa deflagrare lo scontro tra il centrosinistra e la destra. Al centro le politiche sui migranti di Salvini su cui voltare pagina. La cannabis dopo 60 anni esce dalla tabella Onu degli stupefacenti di Elio Palumbieri* Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2020 La Commissione della Nazioni Unite è intervenuta sulla classificazione della Cannabis all’interno della Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961. In particolare, l’organo dell’ONU ha riconosciuto le proprietà mediche della stessa eliminandola dalla lista delle sostanze ritenute pericolose dopo 59 anni. La Commissione della Nazioni Unite è intervenuta sulla classificazione della Cannabis all’interno della Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961. In particolare, l’organo dell’ONU ha riconosciuto le proprietà mediche della stessa eliminandola dalla lista delle sostanze ritenute pericolose dopo 59 anni. Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 - La Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961 è un trattato internazionale introdotto con lo scopo di proibire la produzione e la commercializzazione di sostanze stupefacenti. L’attuale testo ha abrogato la Convenzione di Parigi del 13 luglio 1931. L’aggiornamento si era reso necessario per includere una serie di sostanze, soprattutto oppioidi sintetici, inventate, prodotte e commercializzate tra il 1931 e il 1961. La Convenzione affida al Consiglio Economico e Sociale della Nazioni Unite il potere di aggiungere o eliminare sostanze dalla lista delle sostanze stupefacenti, anche sulla base di raccomandazioni e conclusioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il parere dell’OMS - L’OMS, in effetti, si era pronunciata sul punto il 24 gennaio 2019. In particolare, l’istituto specializzato dell’ONU per la salute, a conclusione dei lavori della quarantunesima riunione del comitato degli esperti sulla tossicodipendenza tenutasi dal 12 al 16 novembre 2018 a Vienna, aveva presentato al Segretario Generale delle Nazioni Unite sei raccomandazioni chiedendo, tra le altre cose, l’eliminazione della cannabis dalla Tabella IV della Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961. La decisione dell’ONU - La Commissione Narcotici dell’ONU, quindi, con 27 Paesi a favore, 25 contro e 1 astenuto, ha seguito il parere dell’OMS affermando che la cannabis non deve più essere considerata una sostanza pericolosa e che, anzi, devono esserne riconosciute le proprietà mediche, specie con riferimento al morbo di Parkinson, epilessia e dolori legati a cancro. A votare favorevolmente sono stati quasi tutti i paesi europei e il Nord e Sud America mentre i voti contrari provengono principalmente da Asia e Africa. La situazione in Italia - Nel nostro Paese, peraltro, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12348/2020, si è già pronunciata sulla coltivazione domestica di cannabis evidenziando che non è reato coltivare cannabis se le piante sono destinate ad uso personale. Secondo gli ermellini, in particolare il reato di coltivazione di stupefacenti “è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. Nonostante ciò, però, “devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. La detenzione di sostanza rimane, però, sempre soggetta al regime sanzionatorio amministrativo. Distanziamento di Giovanni De Mauro Internazionale, 11 dicembre 2020 10.743.619: è il numero di persone chiuse in carcere nel mondo. È l’ultimo dato disponibile, ma è del 2018, nel frattempo saranno aumentate (dal 2000 la popolazione carceraria è cresciuta del 24 per cento). E poi è un dato incompleto: di paesi come Somalia e Corea del Nord non si sa nulla, di altri come la Cina si hanno dati inattendibili. Secondo il World prison brief, il numero reale di detenuti nel mondo è superiore agli undici milioni. Il paese con più persone in carcere in rapporto alla popolazione sono gli Stati Uniti: 655 ogni 100mila abitanti. L’Italia è al 154° posto con 90 detenuti ogni 100mila abitanti. I dati più aggiornati sulla situazione italiana sono quelli del ministero della giustizia. Al 30 novembre 2020 c’erano 53.563 detenuti, ma i posti disponibili sono solo 47.187. Le carceri più grandi sono anche quelle più sovraffollate. Alle Vallette di Torino ci sono 335 persone in più di quante ne potrebbero entrare, a Rebibbia 304, a Poggioreale 455. Le donne sono il 4,2 per cento, gli stranieri il 32,4, in gran parte provenienti da Albania, Marocco, Romania, Tunisia (e non è vero che con l’aumento dell’immigrazione è cresciuto il numero degli stranieri detenuti, ricorda l’associazione Antigone). Nelle carceri italiane ci sono anche, con le madri, 34 bambine e bambini. L’8 dicembre 1.003 detenuti e 870 dipendenti erano positivi al covid-19. Cosa significa “distanziamento fisico” in un carcere sovraffollato? Aderendo a un digiuno di protesta cominciato da Rita Bernardini e Irene Testa del Partito radicale, Salvatore Buzzi, condannato per Mafia capitale, spiega: “Basta sistemare un letto nel proprio bagno di casa. A quel punto, quando hai disegnato il lavandino, la brandina, i sanitari, va piazzato un letto sopra a quello già esistente. Quello è il sovraffollamento, e lì come lo applichi il distanziamento sociale?”. Commercio di strumenti di tortura: occorrono regole più rigide di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 dicembre 2020 Il 9 settembre 2020 a Bogotá, la capitale della Colombia, Javier Ordoñez è stato fermato dalla polizia per una presunta violazione dei divieti anti-Covid19. Gli agenti lo hanno bloccato a terra e lo hanno colpito per circa cinque minuti con una pistola elettrica. L’uomo è morto poche ore dopo in ospedale a causa dei traumi contusivi riportati. In Arabia Saudita un detenuto etiope di nome Solomon ha riferito ad Amnesty International di essere stato colpito con scariche elettriche dal personale penitenziario dopo che si era lamentato per l’assenza di cure mediche. Ecco la sua testimonianza: “Se ci lamentiamo, ci colpiscono con qualche strumento elettrico fino a svenire. È come quando tocchi qualcosa di elettrico con le dita. Ti lascia segni rossi sulla pelle. A quel punto, per paura che lo rifacciano di nuovo, non protestiamo più e restiamo calmi”. Questo invece è il racconto di un detenuto del Burundi: “Ci hanno colpito per 20 minuti sulla schiena, sulle natiche e sui piedi. Erano in sei e si davano il cambio. Per una settimana ho avuto difficoltà a camminare. I miei piedi erano così gonfi che non riuscivo neppure a mettermi le scarpe”. Alla vigilia di un vertice di alto livello delle Nazioni Unite sui “commerci di tortura”, Amnesty International e Omega Research Foundation hanno chiesto in un rapporto pubblicato oggi di agire con urgenza per vietare le vendite globali di materiale che serve a infiggere dolori e ferite lancinanti e per assicurare che strumenti destinati alle forze di polizia per il controllo dell’ordine pubblico non finiscano nelle mani di chi se ne servirà per commettere violazioni dei diritti umani. Dopo oltre 30 anni dalla sua messa al bando - denunciano le due associazioni - la tortura continua a essere usata, spesso con esiti mortali, nelle prigioni e nei luoghi di detenzione di ogni parte del mondo. Che senso ha proibire la tortura e permettere al contempo i commerci di strumenti realizzati appositamente per torturare come manganelli chiodati o ceppi per le gambe? Il vertice in programma alle Nazioni Unite coinvolge 60 stati membri dell’Alleanza per un commercio libero dalla tortura che ha l’obiettivo di esplorare modalità per regolamentare i commerci globali di equipaggiamento destinato alle forze di polizia per il controllo dell’ordine pubblico. Per aiutare questo processo, Amnesty International e Omega Research Foundation hanno diffuso un “Quadro di riferimento per un commercio anti-tortura”, che illustra i passi essenziali che gli stati dovrebbero intraprendere per regolamentare in modo efficace le vendite di strumenti per il controllo dell’ordine pubblico e l’esecuzione di condanne a morte. Tra questi, il divieto di commerciare prodotti di per sé destinati a compiere violazioni dei diritti umani come i bastoni acuminati, le cinture elettriche e i ceppi per le gambe. Altri due passi importante dovrebbero essere il divieto di commerciare materiali per l’esecuzione delle condanne a morte come cappi e sedie elettriche e l’introduzione di robusti controlli sui prodotti farmaceutici a doppio uso affinché non siano utilizzati nelle esecuzioni mediante iniezione letale. Si dovrebbe poi evitare che fiere commerciali e siti Internet promuovano tutta una serie di prodotti per le forze di polizia che di per sé danno luogo a violazioni dei diritti umani: congegni elettrici collegati al corpo di un prigioniero e attivabili da remoto, ceppi per le gambe dal peso aumentato, strumenti di contenzione per tenere un prigioniero bloccato contro una parete, manganelli chiodati, bastoni elettrici, pistole stordenti, guanti e materiali per la cattura che rilasciano scariche elettriche. Particolare attenzione, infine, dovrebbe essere rivolta a quelle forze di polizia che usano equipaggiamento e armi fuori dalle strutture detentive in modi che possono costituire maltrattamenti e torture: proiettili di plastica e di gomma e di altro tipo potenzialmente letale che hanno causato gravi ferite e anche la perdita della vista; l’uso gratuito e punitivo di sostanze chimiche irritanti come lo spray al peperoncino nei confronti di persone che non costituivano alcuna minaccia; e l’uso massiccio di gas lacrimogeni in luoghi ristretti. Egitto. “Legato e seviziato per giorni. Così è morto Regeni” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 dicembre 2020 I responsabili, per i pm, sono 4 agenti dei servizi egiziani: rischiano il processo. Il padre: “Auspichiamo un cambio di rotta, che però ancora non si vede”. Dopo quasi cinque anni dalla morte di Giulio Regeni, la Procura di Roma chiude le indagini sugli 007 egiziani. Secondo i magistrati capitolini, il ricercatore friulano è stato rapito, tenuto prigioniero per nove giorni e seviziato fino alla morte per “insufficienza respiratoria acuta” a causa delle “lesioni di natura traumatica” provocate dalle percosse. I quattro agenti dei servizi di sicurezza che ora rischiano il processo sono accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. Determinante, nella ricostruzione dei fatti, la testimonianza di un ex agente della National Security. Giulio Regeni non è stato ucciso da una banda di ladri improvvisati. Con la sua morte non c’entra la droga, né la pista passionale, e di certo non si è trattato di un incidente stradale. Dopo quasi cinque anni dal ritrovamento del suo cadavere lungo la superstrada tra il Cairo e Alessandria, a febbraio del 2016, la Procura di Roma chiude le indagini e formula un quadro accusatorio: Giulio Regeni è stato rapito, tenuto prigioniero per nove giorni e seviziato fino alla morte per “insufficienza respiratoria acuta” a causa delle “lesioni di natura traumatica” provocate dalle percosse. I responsabili di un simile trattamento - si legge nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal procuratore Michele Prestipino e dal pm Sergio Colaiocco - sarebbero quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani che ora rischiano di andare a processo. Si tratta di Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. In particolare, al maggiore Sharif sono imputate le lesioni che avrebbero portato Giulio alla morte, mentre per un quinto agente, Mahmoud Najem, i pm capitolini hanno chiesto l’archiviazione. La ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Giulio, così come emerge dalle carte della procura, fa tremare i polsi. “Per motivi abietti e futili ed abusando dei loro poteri, con crudeltà”, scrivono i magistrati, gli agenti “cagionavano a Giulio Regeni lesioni, che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni” e che “hanno comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi”. I quattro, “seviziandolo”, hanno causato al ricercatore friulano “acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni: attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze)”. Ma non è tutto. Nel corso dell’audizione di ieri davanti alla Commissione di inchiesta sulla morte di Regeni, i pm hanno riportato le parole di uno dei cinque testimoni sentiti nell’ambito dell’indagine. “Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace”, ha raccontato l’uomo. “Ho lavorato per 15 anni nella sede della National Security dove Giulio è stato ucciso - ha spiegato il testimone. È una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Al primo piano della struttura c’è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti. C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato. Dietro la schiena aveva dei segni, anche se sono passati quattro anni ricordo quella scena. L’ho riconosciuto alcuni giorni dopo da foto sui giornali e ho capito che era lui”. Si tratta di una testimonianza chiave, un “primo passo verso la verità”. Intanto, la notifica agli 007 egiziani è avvenuta tramite “rito degli irreperibili” direttamente ai difensori di ufficio italiani non essendo mai pervenuta l’elezione di domicilio degli indagati dal Cairo. Nonostante le ripetute richieste - inevase - dei magistrati italiani agli omologhi egiziani, secondo i quali ad uccidere Regeni sarebbero stati 5 malviventi morti in un blitz. Ma per il capo della Procura di Roma, quelli raccolti nell’inchiesta sono “elementi di prova univoci e significativi”: il processo, ha aggiunto Prestipino davanti alla Commissione parlamentare, sarà “unico” e si svolgerà “in Italia”. “Ci sono altri 13 soggetti nel circuito degli indagati, ma la mancata risposta ai nostri quesiti da parte delle autorità egiziane ci ha impedito di proseguire negli accertamenti”, ha aggiunto il pm Colaiocco. Per la legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, quello raggiunto ieri è solo un “punto di partenza”. In conferenza stampa a Montecitorio, con i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, in videocollegamento, Ballerini è tornata a chiedere al governo di “richiamare immediatamente l’ambasciatore per consultazioni in Italia, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e bloccare la vendita di armi”, perché “la giustizia non è barattabile”. “Giulio è diventato uno specchio che riverbera in tutto il mondo come vengono violati i diritti umani ogni giorno in Egitto”, è l’accusa della madre Paola che, come tutta la famiglia Regeni, non ha avuto più contatti con il governo dall’ottobre 2019. “Ci auspichiamo un cambio di rotta - ha detto il padre - ma questo non si intravede nei fatti”. Adesso la mamma di Giulio pretende “chiarezza sulle responsabilità italiane” e, rivolgendosi alla stampa, chiede di non “cannibalizzare la figura” del figlio qualora si andasse a processo. Con la “storia della “banda dei 5 ladri” l’Egitto ci prende in giro per l’ennesima volta: è inaccettabile, adesso sappiamo com’è andata. Ora spero che arrivino nuovi testimoni e andremo avanti fino in fondo”, ha assicurato, infine, il presidente della Camera, Roberto Fico, durante la conferenza stampa. Egitto. Verità per Giulio Regeni: a processo il regime e i suoi aguzzini di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 dicembre 2020 La stanza 13 delle torture, il ruolo di cinque testimoni. E 13 sospetti ancora ignoti. La Procura di Roma chiede l’azione penale per quattro agenti dei servizi segreti egiziani. Ieri la Procura di Roma ha detto la verità. Cosa è successo a Giulio Regeni nei nove giorni tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016. Chi lo ha rapito, torturato e ucciso. Una verità ancora parziale (troppi restano gli ignoti aguzzini) ma che è primo passo nel percorso verso la giustizia, possibile solo con un atto politico, dovuto a Giulio e agli egiziani. Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, la Procura - la stessa che ne inaugurò i lavori il 17 dicembre 2019 - ha svolto un’audizione tra le più dolorose: il procuratore capo, Michele Prestipino e il sostituto procuratore Sergio Colaiocco hanno ricostruito i nove giorni passati dal ricercatore nelle mani dei suoi aguzzini. E hanno dato conto della chiusura delle indagini sul sequestro e l’omicidio di Regeni, tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016. La conclusione. Partiamo dalla fine: “Stamattina abbiamo formalmente chiuso le indagini preliminari iniziate tra gennaio e febbraio 2016 nell’immediatezza del fatto - ha spiegato Prestipino - Sono state inizialmente indirizzate a carico di ignoti, poi gli elementi raccolti hanno consentito l’iscrizione nel registro degli indagati di cinque persone, tutte appartenenti genericamente a forze di polizia e di cui quattro agli apparati di sicurezza egiziani, la Nsa”. Si tratta dei nomi ormai noti all’opinione pubblica italiana: il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel, il colonnello Usham Helmi, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem. Ai primi quattro è stata notificata la conclusione delle indagini per sequestro di persona. Uno di loro (Sharif), aggiunge il procuratore, è responsabile anche di concorso in lesioni aggravate omicidio aggravato di Giulio Regeni. Per loro la Procura chiederà il rinvio a giudizio. Solo uno si “salva”: per Najem è stata chiesta l’archiviazione per un quadro probatorio insufficiente. “Non è un risultato scontato - dice più volte Prestipino - Riteniamo di aver acquisito elementi di prova univoci e significativi sulla responsabilità delle persone sottoposte a indagine”. Una lunga attività investigativa, diretta e indiretta, che ha intrecciato dati, consultato tabulati e celle telefoniche, sentito testimoni. E che, in parte, è stata possibile per una prima, breve e lacunosa collaborazione egiziana, intramezzata a palesi e offensivi atti di insabbiamento, mai venuti meno. L’Egitto. Sta tutta lì, nella natura del regime egiziano, la dirompente potenza del risultato ottenuto: “Il punto più significativo - continua Prestipino - è uno e uno soltanto: ci avviamo a esercitare l’azione penale nei confronti di alcuni appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani. Non credo che avvenga spesso che siano portati in giudizio appartenenti a istituzioni pubbliche di un altro Stato per un fatto commesso nel territorio di questo Stato”. “Per l’omicidio di Regeni si svolgerà un solo processo e si svolgerà in Italia secondo la procedura dei nostri codici. È il frutto di un’azione di concerto, che non è solo della procura, ma anche della famiglia, dei lavori di questa commissione e di altre autorità decisionali diplomatiche e politiche”. Qualcosa dall’Egitto è arrivato e l’elenco lo fa Colaiocco: “Abbiamo presentato quattro rogatorie che contenevano 64 quesiti. Abbiamo avuto 25 risposte, siamo in attesa delle altre 39. Una quindicina riguardano la posizione di 13 soggetti che appaiono collegati agli indagati ma di cui non abbiamo né generalità, né tabulati né dichiarazioni”. Un elemento da tenere presente: come spiegano i magistrati, le indagini continuano con l’obiettivo di dare un nome e un ruolo agli ignoti di oggi. Anche alla luce della parabola della collaborazione egiziana: se all’inizio qualcosa è stato consegnato, “dal 29 novembre 2018, quando comunicammo l’intenzione di procedere all’iscrizione del registro degli indagati, nessun atto è pervenuto”. La ricostruzione. Saber, Helbi, Kamel e Sharif sono accusati di sequestro di persona pluriaggravato, compiuto la sera del 25 gennaio alle 19.51: “Lo bloccavano nella metropolitana del Cairo - continua Colaiocco - e lo conducevano al commissariato di Dokki e poi in un altro edificio privandolo della libertà personale per nove giorni. Al maggiore Sharif sono contestati altri reati, le lesioni gravissime (non la tortura, perché inserita solo dopo nel nostro codice penale): sono state cagionate con crudeltà acute sofferenze fisiche che hanno provocato lesioni gravissime e l’indebolimento permanente di più organi, con una serie di strumenti affilati e taglienti, con bruciature e con mezzi contundenti. A Sharif è stato contestato il reato in concorso di omicidio pluriaggravato”. I testimoni. Sono cinque e sono fondamentali. Testimonianze che hanno trovato riscontro nelle consulenze medico-legali, nella collocazione spazio temporale dei fatti, nei particolari non noti alle cronache. “Sono testi di diverse nazionalità, di diversa estrazione sociale con le attività lavorative più disparate e senza relazione tra di loro”. I primi due, ribattezzati alfa e beta, hanno riferito sulle perquisizioni dei servizi segreti nell’appartamento di Giulio prima della sua morte. Gli altri tre di eventi accaduti nei nove giorni successivi al rapimento. Se il teste gamma è colui che, ascoltando un colloquio in Kenya nell’agosto 2017, sentì Sharif raccontare del sequestro, gli ultimi due accendono una luce sulle torture. “Il teste delta riferisce che il 25 gennaio, mentre era alla stazione di polizia di Dokki, alle 20 massimo le 21, ha visto arrivare una persona di 27-28 anni, parlava in italiano e ha chiesto un avvocato. Successivamente è stato fatto salire su un’auto, una Fiat 123, bendato. Uno dei poliziotti presenti si chiamava Sharif”. Il teste epsilon ha visto Giulio morire lentamente. Ha lavorato per 15 anni in una villa di epoca nasseriana, diventata sede del ministero degli interni e luogo scelto dalla National Security per torturare i cittadini stranieri sospettati di minare alla sicurezza dello Stato. È lì, nella stanza 13 del primo piano, che Giulio è stato seviziato: “Ha visto lì Regeni con due ufficiali e due agenti, c’erano catene di ferro, lui era mezzo nudo e aveva segni di tortura, delirava nella sua lingua. Un ragazzo molto magro, sdraiato per terra, con il viso riverso con manette che lo tenevano a terra, segni di arrossamento sulla schiena. Non l’ha riconosciuto subito ma 4-5 giorni dopo vedendo le foto sui giornali ha capito che era lui”. Il movente. Perché Giulio è stato ammazzato così, se mai una ragione per tanta disumanità ci possa mai essere. Per la Procura di Roma “l’occasione è legata all’attività di ricerca di Regeni al Cairo - conclude Colaiocco - Ma l’elemento scatenante è il finanziamento della Fondazione Antipode, quando si è iniziato a parlare delle 10mila sterline. Per lui era un’idea per aiutare i sindacati indipendenti, del tutto equivocata dal sindacalista Abdallah e dagli agenti indagati. Hanno pensato che volesse finanziare una rivoluzione”. Stati Uniti. Pena di morte, escalation in attesa dell’arrivo di Biden di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 11 dicembre 2020 L’amministrazione di Donald Trump conferma l’esecuzione della condanna a morte di cinque detenuti, stabilita dai tribunali federali. Negli ultimi 130 anni la massima pena era stata sospesa nel periodo di transizione tra un presidente e l’altro. Finale di partita con il boia di Stato. L’amministrazione di Donald Trump conferma l’esecuzione della condanna a morte di cinque detenuti, stabilita dai tribunali federali. Negli ultimi 130 anni la massima pena era stata sospesa nel periodo di transizione tra un presidente e l’altro. Ci voleva Trump per interrompere anche questa consuetudine istituzionale. Negli Usa la pena di morte è ancora in vigore in 29 Stati su 50. A livello federale è stata ripristinata il 25 luglio 2019 dal ministro della Giustizia, William Barr che ha interrotto una moratoria durata 16 anni. Da notare che i giudici nominati dal governo di Washington possono comminare la punizione estrema solo per un ambito ristretto di reati: alto tradimento; attentati contro il presidente, omicidi di difficile attribuzione territoriale o, infine, crimini collegati al traffico di droga. Ebbene, nel 2020, in tutto il Paese sono state eseguite 12 sentenze: sette nel totale dei 29 Stati e cinque su ordine del Dipartimento di Giustizia. Come si vede, dunque, le proporzioni non tornano. In tutto il territorio nazionale è in corso la tendenza a rallentare le esecuzioni: sette è il numero più basso degli ultimi 37 anni. L’amministrazione Trump, invece, accelera: cinque è la quota più alta dal 1976, l’anno in cui la Corte Suprema stabilì che la pena di morte “non è contraria” alla Costituzione americana. Non basta. Barr ha annunciato che da qui al 20 gennaio sono in programma altre cinque esecuzioni. In totale, dunque, diventerebbero 10 e per trovare una cifra del genere bisogna risalire al 1896. Da sempre Trump evoca il patibolo come il miglior deterrente anti crimine. In realtà le statistiche mostrano che i reati più gravi si sono quasi dimezzati dagli anni Novanta a oggi. Ma qui c’entra soprattutto la politica. Trump vuole marcare la differenza tra la sua dottrina “law and order” e la “debolezza” di Joe Biden che ha annunciato di voler bloccare tutte le esecuzioni federali. Stati Uniti. Pena di morte, tornano le impiccagioni e le fucilazioni di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 11 dicembre 2020 Il colpo di coda del presidente Trump prima di abbandonare la Casa Bianca. Ancora una condanna a morte in programma per il 12 dicembre negli Stati Uniti proprio mentre Trump dà il suo colpo di coda ripristinando le impiccagioni e i plotoni di esecuzione. Ad essere giustiziato il 40enne, Brandon Bernard. Ma l’esecuzione sta sollevando numerose proteste e interventi di personaggi famosi come nel caso di Kim Kardashian West. La celebrity infatti sostiene la causa di Bernard che è accusato di aver partecipato all’assassinio di una coppia, i coniugi Bagley (Todd e Stacey) che nel 1999 vennero rapiti e uccisi. A quanto sembra però, anche facendo parte del gruppo di uccisori composto da 5 ragazzi quasi tutti minorenni. Bernard non è implicato direttamente nel fatto. A tirare il grilletto contro i due fu infatti, e per questo già giustiziato, il capo della gang Cristopher Vialva. Le accuse contro Bernard si basarono essenzialmente sulle deposizioni di un medico locale e sul fatto che i legali dell’imputato chiamarono al banco della giuria solo pochissimi testimoni, nonostante le persone disposte a scagionare fossero di più. Su 9 giurati che condannarono Bernard ora in 5 hanno cambiato idea. Uno dei pubblici ministeri vorrebbe fermare l’esecuzione affermando che all’epoca dell’omicidio l’accusato aveva solo 18 anni, un’età secondo cui la personalità di un uomo non è del tutto definita. Ciò sarebbe testimoniato anche dal fatto che durante il periodo di detenzione nella “Special Unit” di Terre Haute, dove i detenuti passano 23 ore al giorno nelle loro celle, Bernard è considerato un prigioniero modello che spiega ai più giovani i suoi errori. Le esecuzioni in programma dopo quella di Bernard solo altre 3, l’amministrazione Trump ha ripreso ad applicare la pena capitale a luglio, ponendo fine a una pausa di 17 anni causata dagli interrogativi sui metodi di esecuzione e da una più ampia opposizione a questa pratica. Inoltre alcune condanne dovrebbero essere eseguite a pochi giorni dall’insediamento di Joe Biden, rompendo così una consuetudine che prevede ai nuovi inquilini della Casa Bianca l’onere delle decisioni su eventuali ricorsi o contestazioni. Trump è stato un fermo sostenitore della pena capitale. A questo proposito il Dipartimento di Giustizia sta modificando silenziosamente i suoi protocolli di esecuzione, non richiedendo più che le condanne a morte federali siano eseguite solo mediante iniezione letale, aprendo la strada all’uso di altri metodi come plotone di esecuzione e gas velenosi. In questo momento in alcuni stati le esecuzioni possono essere compiute anche attraverso l’elettrocuzione, l’inalazione di azoto o la fucilazione. Il nuovo regolamento dovrebbe entrare in vigore il prossimo 24 dicembre. Biden si è già detto contrario alle condanne capitali ma non si conosce il suo parere a proposito di quelle in programma dopo il suo insediamento. Nonostante la crescente opposizione sia dei democratici che dei repubblicani, la fine delle esecuzioni è ben lontana, la difficoltà di ottenere i farmaci per le iniezioni letali poi potrebbe anche favorire l’introduzione delle supposte modifiche ai regolamenti. Alabama, Oklahoma e Mississippi dal 2018 approvano l’uso dell’azoto per giustiziare i prigionieri, consentendo l’uso del gas in alcuni casi. In alcuni stati, i detenuti possono scegliere il metodo di esecuzione. In Florida, ad esempio, un condannato può chiedere espressamente di essere messo a morte per folgorazione e nello stato di Washington, i reclusi possono chiedere di essere condannati a morte per impiccagione. Nello Utah invece, i prigionieri condannati prima del maggio 2004, possono optare per la morte tramite fucilazione. Stati Uniti. Il calvario di un antifascista statunitense in carcere di Gianni Sartori ilpopoloveneto.it, 11 dicembre 2020 Incarcerato più di sei anni fa (settembre 2014), il militante antifascista Eric King è stato condannato a dieci anni in quanto - secondo l’accusa - avrebbe tentato di dare alle fiamme un immobile di proprietà del governo (e comunque disabitato). Azione con cui avrebbe voluto esprimere sostegno alla rivolta di Ferguson. In questo sobborgo di Saint Louis (Missouri) il 9 agosto 2014 un agente di polizia aveva ucciso, sparando numerosi colpi, un giovane afroamericano. La situazione del detenuto King si è ulteriormente aggravata nel 2018, quando un ufficiale del SIS (un’agenzia federale che controlla i detenuti considerati una potenziale minaccia per il sistema carcerario) lo aveva aggredito, provocando la sua reazione difensiva. Intervenivano allora almeno quattro guardie carcerarie che lo colpivano ripetutamente alla testa, al volto e in varie altre parti del corpo. Come ritorsione, lo lasciarono per almeno otto ore, mani e piedi legato, immerso nel proprio sangue e nella sua urina. In varie occasioni gli sono state rifiutate cure mediche. Così come la posta e le visite dell’avvocato. Trasferito nel carcere di Leavenworth (Kansas), King è stato messo in isolamento per circa un anno. In questo arco di tempo gli è stato impedito sia di vedere che di parlare con qualcuno. Ugualmente non ha potuto leggere o conservare qualche foto in cella. Successivamente veniva ancora spostato nel carcere di McCreary (Kentucky), una prigione federale di massima sicurezza. Anche qui in isolamento. Interrotto soltanto da una “passeggiata” in cortile dove si trovavano alcuni suprematisti bianchi, già informati dalle guardie che King è un militante antifascista. Dopo essere stato aggredito e picchiato da questi razzisti, il giovane veniva nuovamente posto in isolamento. Nuove accuse a suo carico sono state emesse il 29 agosto 2019. Si tratta di “aggressione contro un funzionario federale” (per l’episodio del 2018 con l’agente del SIS), un’accusa molto grave che - se riconosciuta - comporterebbe per King una condanna fino a venti anni di carcere (da aggiungere ai dieci già da scontare). Contemporaneamente, nell’agosto 2019, è stato nuovamente trasferito nella prigione di Englewood (Colorado) dove dovrebbe trovarsi tuttora. Dal settembre di quest’anno gli è stato revocato anche il diritto di colloquio con il suo compagno a causa della “sua ideologia” (?!?). Una forma di persecuzione, quella applicata nei confronti di Eric King, francamente incomprensibile. Gran Bretagna. L’inviato Onu contro la tortura chiede il rilascio immediato di Assange di Arturo Di Corinto articolo21.org, 11 dicembre 2020 Dopo 10 anni di detenzione arbitraria la spy story del fondatore di Wikileaks pare agli sgoccioli, a gennaio la decisione sull’estradizione negli Usa dopo l’arresto per reati che non ha commesso. Con un appello senza precedenti il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzer, ha chiesto alle autorità britanniche di liberare immediatamente Julian Assange dalla prigione di massima sicurezza in cui si trova. La prigione di Belmarsh dove è detenuto è oggi un focolaio di Covid-19 e quasi la metà dei suoi 160 detenuti, è positiva alla malattia. Alcuni sono vicini alla cella di Assange che da tempo soffre di problemi respiratori. In alternativa Melzer chiede che sia messo agli arresti domiciliari per tutta la durata del processo di estradizione negli Stati Uniti dove è indagato sulla base dell’Espionage Act e rischia fino a 175 anni di carcere per accuse che dovrebbero già essere state prescritte in base alle inchieste precedenti legate all’accesso abusivo a sistemi informatici quando provò ad aiutare Chelsea Manning - whistleblower ed ex militare - ad accedere a informazioni riservate. L’appello giunge a 10 anni dal primo arresto del giornalista-hacker Julian Assange il 7 dicembre 2010. Non è la prima volta che le Nazioni Unite, attraverso un suo corpo indipendente, si rivolgono alle autorità nazionali per intercedere a favore di Assange. Nel 2015 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria aveva dichiarato ingiusto il suo arresto il 7 dicembre 2010, quando era stato sottoposto a varie forme di privazione della libertà, inclusi 10 giorni di detenzione nella prigione di Wandsworth, 550 giorni di arresti domiciliari e il confino nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, durata quasi sette anni. Lì Assange si era rifugiato violando la libertà condizionale per un’accusa di stupro fino a quando il presidente peruviano appena eletto, Lenin Moreno, per ingraziarsi la presidenza americana, gli aveva revocato l’asilo e Assange era stato arrestato. Dopo essere stato, si scoprirà, costantemente spiato in un luogo che doveva essere protetto. Da un anno e mezzo, precisamente dall’11 aprile 2019, Assange è stato tenuto in isolamento quasi totale a Belmarsh. Un mese dopo, a maggio, subito dopo avergli fatto visita con due medici specializzati nell’esame di pazienti oggetto di torture fisiche o psicologiche e trattamenti inumani e degradanti, Melzer stesso aveva denunciato pubblicamente come Assange mostrasse “i segni tipici dell’esposizione prolungata alla tortura psicologica”. Per questo le parole di Melzer oggi sono così categoriche: “Le autorità britanniche hanno inizialmente arrestato il signor Assange sulla base di un mandato emesso dalla Svezia in relazione ad accuse di molestie sessuali che da allora sono state formalmente ritirate per mancanza di prove.” Le accuse derivavano dalla denuncia di due donne in un caso per il rifiuto di fare un esame anti-Hiv, nell’altro per avere intrattenuto rapporti sessuali consenzienti non protetti, cosa che per la legge svedese equivale a uno stupro, ma che Assange ha sempre negato. “Oggi è detenuto esclusivamente a scopo preventivo, per garantire la sua presenza durante il processo di estradizione negli Stati Uniti in corso, un procedimento che potrebbe durare diversi anni”, continua Melzer e aggiunge: “Il signor Assange non è un condannato a morte e non rappresenta una minaccia per nessuno, quindi la sua prolungata reclusione in una prigione di massima sicurezza non è né necessaria né proporzionata e chiaramente manca di qualsiasi base giuridica”. Insomma la sua detenzione per lo special rapporteur dell’Onu si qualifica come un trattamento crudele, inumano e degradante. Anche molti giornalisti e organizzazioni internazionali come la Courage Foundation chiedono la sua liberazione. Finora sono 1.600 giornalisti di 99 paesi che hanno chiesto la libertà per Julian Assange. Nello loro campagna, Speak up for Assange, ricordano che il matematico e hacker, editore di Wikileaks, è stato accusato ai sensi della legge statunitense sullo spionaggio di aver pubblicato i “diari di guerra” in Afghanistan e Iraq e le comunicazioni dell’ambasciata americana, che i giornali di tutto il mondo hanno pubblicato e che pertanto l’incriminazione di Assange è un pericolo “per i giornalisti, le organizzazioni dei media e la libertà di stampa.” Come hanno affermato nel tempo il direttore del New York Times Dean Baquet, l’intellettuale Noam Chomsky e il giornalista Seymour Hersh. E lo hanno fatto soprattutto per il metodo usato contro di lui: una costante delegittimazione dell’operato suo, dei suoi collaboratori e di Wikileaks, pluripremiata organizzazione pro-trasparenza e anti-corruzione che negli anni ha denunciato banche svizzere e governi africani corrotti. Nell’appello che chiedono di firmare i giornalisti citano lo stesso Nils Melzer che ha indagato sul caso: “Alla fine mi sono reso conto che ero stato accecato dalla propaganda e che Assange era stato sistematicamente calunniato per distogliere l’attenzione dai crimini che aveva esposto. Una volta disumanizzato dall’isolamento, dal ridicolo e dalla vergogna, proprio come le streghe che bruciavamo sul rogo, è stato facile privarlo dei suoi diritti più fondamentali senza provocare indignazione pubblica in tutto il mondo. E così, viene stabilito un precedente legale, attraverso la backdoor del nostro autocompiacimento, che in futuro può e sarà applicato altrettanto bene alle rivelazioni di The Guardian, New York Times e ABC News”. A questo si aggiunge la situazione pandemica. Mentre in tutto il mondo le misure di decongestione delle carceri per il Covid-19 sono applicate ai detenuti per reati minori la precaria situazione sanitaria di Assange non viene considerata. “I diritti del signor Assange sono stati gravemente violati per più di un decennio. Ora gli deve essere permesso di vivere una normale vita familiare, sociale e professionale, per recuperare la sua salute e per preparare adeguatamente la sua difesa contro la richiesta di estradizione degli Stati Uniti pendente contro di lui”. La decisione di primo grado sulla sua estradizione è attesa il 4 gennaio 2021. Sri Lanka. Carceri: violati i diritti fondamentali dei detenuti di Melani Manel Perera asianews.it, 11 dicembre 2020 È la denuncia del rev. Marimuttu Sathivel in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani. Molte persone imprigionate per reati politici. I penitenziari ospitano 34mila carcerati: il limite è 12mila. Dovrebbero essere luoghi di “riabilitazione”, non di “tortura”. “I diritti fondamentali dei detenuti nel Paese sono violati in modo serio”. È la riflessione del reverendo Marimuttu Sathivel, coordinatore del Movimento nazionale per il rilascio dei prigionieri politici, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani. “C’è poco da celebrare. Nei muri delle nostre carceri è scritto che i prigionieri sono ‘esseri umani’. Dobbiamo domandarci però se sono trattati come tali”, dichiara ad AsiaNews l’attivista, che lavora da anni in aiuto dei carcerati. Sathivel è un pastore anglicano di stanza nella capitale. Egli chiede l’abolizione della legge sulla prevenzione degli atti di terrorismo, in base alla quale molte persone sono state arrestate per il loro impegno politico. Il governo risponde alle accuse sostenendo che nel Paese non vi siano prigionieri politici. Sathivel ricorda però il caso di Hijaz Hezbollah, un avvocato musulmano per i diritti umani, arrestato per terrorismo. Egli è in prigione da otto mesi senza processo; nessuna accusa formale è stata formulata nei suoi confronti. Il pastore anglicano evidenzia che chi viene arrestato per presunti atti terroristici, non ha diritto nemmeno alla libertà su cauzione. Ci sono poi detenuti che vivono in isolamento da 20 anni; per i familiari è anche difficile fare visite in carcere: “Non è questa una violazione dei diritti umani?”, afferma p. Sathivel. Il problema del sovraffollamento è uno dei più gravi. Sathivel spiega che le prigioni dello Sri Lanka possono ospitare 12mila detenuti. Al momento ve ne sono 34mila, sebbene il governo ne dichiari 28mila. I detenuti sono obbligati spesso a fare turni per dormire, oppure a riposare nei bagni. Sathivel si aspetta il rispetto dello Stato di diritto e dunque la scarcerazione dei detenuti politici. Egli invoca un cambio di cultura: le prigioni non devono essere “luoghi di tortura o semplice punizione, ma istituti di riabilitazione. Invece di prevenire i crimini, il sistema attuale spinge le persone in un ciclo di povertà e marginalizzazione”. Turchia. Arrestato e picchiato l’avvocato Aytaç Ünsal. Il ministero: “Tentava la fuga” di Simona Musco Il Dubbio, 11 dicembre 2020 La smentita del Peoplès Law Office: “Cercava un posto in cui curarsi, la polizia aveva saccheggiato la sua casa. Vogliono ucciderlo”. Arrestato, picchiato, torturato. Aytaç Ünsal, l’avvocato turco scarcerato temporaneamente dopo un digiuno lungo 217 giorni di sciopero della fame, lo stesso che ha portato alla morte la collega Ebru Timtik, è stato nuovamente arrestato. L’accusa lanciata dal ministro dell’Interno Suleyman Solyu, che aveva minacciato di far arrestare chiunque esponesse la foto di Ebru dopo la sua morte, è quella di aver tentato la fuga, per sottrarsi alla giustizia turca. Un’accusa respinta con fermezza dal Peoplès Law Office - di cui Ünsal fa parte - che ha denunciato, invece, la violenza subita dal collega, rendendo pubblica una sua foto dove sono visibili i segni delle percosse sul volto. Un’accusa insostenibile, quella lanciata dal braccio destro del presidente Recep Tayyip Erdo?an: Ünsal porta infatti sul corpo i segni del lungo digiuno, accusando grosse difficoltà motorie. Stando al comunicato del ministero, l’avvocato - la cui protesta per un giusto processo ha scatenato la violenta repressione del governo - sarebbe stato catturato con tre trafficanti di migranti, uno dei quali del Pkk, mentre cercava di fuggire all’estero da Edirne. La polizia avrebbe sequestrato anche una barca durante la perquisizione del veicolo su cui si trovava Ünsal. L’avvocato dovrà dunque passare 48 ore in custodia presso la sede della polizia di Edirne, nella sezione antiterrorismo. L’avvocato dissidente, condannato a 10 anni e sei mesi di carcere in appello con l’accusa di terrorismo, era tornato in libertà lo scorso 3 settembre a causa delle gravi condizioni di salute. A stabilire la sua scarcerazione temporanea è stata la Corte di Cassazione, che ha però posticipato di tre giorni l’effettiva esecuzione della decisione, presa, in realtà, il primo settembre. Ünsal protesta da quasi un anno per ottenere un processo equo, insieme alla collega Ebru Timtik, morta il 27 agosto dopo 238 giorni di digiuno. “Dopo essere uscito dall’ospedale, Aytaç Ünsal si era sistemato in una baracca nel quartiere Küçükarmutlu di Istanbul - si legge in una nota del Peoplès Law Office - dove due settimane fa, il 23 novembre, la polizia politica ha fatto irruzione. Aytaç corre un alto rischio di infezione a causa della pandemia di Covid-19 e del collasso del sistema immunitario a causa dello sciopero della fame. Nonostante ciò, i compagni che si trovavano con Aytaç Ünsal sono stati arrestati, la casa è stata perquisita da decine di poliziotti, che hanno saccheggiato i suoi averi. Questo raid è stato un attacco volto a ostacolare le cure di Aytaç Ünsal e un tentativo persino di ucciderlo”. Per gli avvocati turchi si tratta dell’ennesima cospirazione ai suoi danni: Ünsal, affermano, stava infatti cercando soltanto un luogo adatto per continuare le sue cure in condizioni più sane. Una volta arrestato, affermano ancora i suoi colleghi, “è stato torturato dalla polizia politica, gettato a terra e calpestato, sbattendo la sua testa contro l’asfalto. Il ministero dell’Interno ha continuato a mentire e manipolare. Non vi è alcun motivo legale per essere detenuti per 48 ore. Per questo motivo è l’ennesima azione arbitraria e illegale”. Le bugie contenute nel comunicato del ministero, secondo gli avvocati turchi, non si limitano alla sola accusa di aver tentato la fuga: nella sua dichiarazione, Solyu avrebbe falsamente indicato come motivo del precedente arresto di Ünsal l’omicidio del procuratore Mehmet Selim Kiraz. “Tuttavia, il nostro collega è stato arrestato due anni e mezzo dopo l’incidente che ha provocato la morte del procuratore Mehmet Selim Kiraz - sottolinea il Peoplès Law Office - e questo incidente non è stato nemmeno oggetto di processo a suo carico”. Afghanistan. Uccisa una reporter e attivista per i diritti umani di Marta Serafini Corriere della Sera, 11 dicembre 2020 Malalai Maiwand è stata assassinata a Jalalabad con il suo autista. È la decima giornalista a cadere quest’anno Cinque anni fa la stessa sorte toccò alla madre. Un’altra donna uccisa. In Afghanistan, una nota giornalista radiotelevisiva nonché attivista per i diritti umani, Malalai Maiwand, è stata assassinata con il suo autista a Jalalabad, capitale della provincia orientale di Nangarhar; è la decima vittima della sua categoria professionale, sempre più bersagliata in Afghanistan, nel 2020, la terza da inizio novembre. Un portavoce del governo provinciale, Attaullah Khogyani, ha dato conferma del brutale omicidio, precisando che l’attacco ai danni della giornalista di Enikas Radio e Tv è stato sferrato mentre si stava recando in redazione. Maiwand aveva una storia familiare di violenza: cinque anni fa la madre della giornalista, che era una storica attivista per i diritti umani, era stata uccisa da non meglio identificati uomini armati. In assenza di rivendicazione, fonti locali hanno attribuito a “elementi armati” la responsabilità dell’uccisione di Maiwand e di chi guidava il veicolo, in una zona in cui sono attivi gruppi armati collegati allo Stato islamico. Nel commentare l’omicidio della giornalista, un portavoce del ministero dell’Interno, Tariq Arian, ha ricordato che in Afghanistan nell’ultimo decennio la stragrande maggioranza dei giornalisti è stata uccisa per mano dei talebani. Un’accusa indiretta respinta dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, che ha formalmente negato il coinvolgimento del gruppo nella morte di Maiwand. Il contesto politico è segnato dai negoziati, in corso a Doha, in Qatar, tra il governo e i guerriglieri talebani. Progressi sarebbero stati ottenuti su diversi punti preliminari ma tregua ed eventuali accordi di condivisione del potere devono essere ancora discussi.