Presidente Mattarella, serve un atto di clemenza Il Riformista, 10 dicembre 2020 L’appello di giuristi e studiosi al capo dello Stato: costringere una persona a stare in celle sovraffollate mentre infuria la pandemia è illegale e disumano. Il Colle deve intervenire subito. Illustre Signor Presidente, voglia perdonare se, in un periodo di crisi internazionale e tra gli sforzi molteplici da Lei prodigati per il mantenimento della pace sociale in Italia ed in Europa, nell’infuriare di un’emergenza sanitaria globale, ci permettiamo di sottoporre alla Sua attenzione un’ulteriore situazione di drammatico disagio, certo non sfuggita alle Sue cure istituzionali. Si tratta della situazione delle carceri italiane, nelle quali a fine novembre 2020 ascendevano a circa duemila unità, tra detenuti e personale, i casi di covid-19 censiti ed ufficialmente riconosciuti. Il problema non sono tuttavia i numeri in sé, bensì il loro effetto su una situazione incancrenita di sovraffollamento. Da decenni la popolazione carceraria italiana è in sovrannumero per l’eccessiva centralità attribuita dal nostro ordinamento alla privazione della libertà personale sia come pena sia come misura preventiva: e ciò, malgrado i lodevoli sforzi compiuti dalla magistratura nei mesi del contagio per evitare al massimo il ricorso alla restrizione in carcere. Costringere un detenuto alla coabitazione in un carcere sovraffollato nel corso di una pandemia è senz’altro illegale e disumano, senza mezzi termini: gli ordinari strumenti con i quali si consente di uscire dalle celle per un certo numero di ore al giorno, anche per le carenze di personale addetto al controllo, aggravate dalla situazione sanitaria, non possono che risultare compressi. Come compromesse sono inevitabilmente le attività rieducative, cosiddette trattamentali. Per queste ragioni, Signor Presidente, i firmatari di questa lettera, studiosi di ogni orientamento, si rivolgono a Lei perché possa promuovere l’adozione di misure normative di ampio respiro, che peraltro sarebbero ormai doverose anche al di là dell’emergenza. Pensiamo non soltanto a misure ordinarie comunque indispensabili, quali quelle prudentemente e responsabilmente suggerite dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale, ma anche ad un impulso politico-culturale per il legislatore, e persino educativo-persuasivo per la collettività tutta, verso strumenti di svolta: dal ricorso ad un provvedimento generale di clemenza; al considerare nella misura della metà la capienza regolamentare degli istituti; alla sospensione degli ordini di carcerazione; fino al computare come un periodo doppio le pene scontate nel corso della crisi sanitaria dovuta al covid-19 (tutte misure adottabili con le opportune, ovvie esclusioni). Auspichiamo comunque che dall’alto del Suo Ufficio Lei possa persuadere gli organi istituzionalmente preposti al compimento di tutti gli atti tesi a un rapido ridimensionamento della popolazione carceraria, con la sollecitudine imposta dall’attuale emergenza, e forse ancor più necessaria oggi che ci accingiamo faticosamente e prudentemente a uscire dalla fase di più acuta diffusione virale. Siamo certi, Signor Presidente, dell’attenzione che Lei saprà dare alla nostra istanza e ci permettiamo di rivolgerle ogni augurio per continuare a condurre la Sua opera. Alberto di Martino, Raffaele Ruggiero, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Maria Chiara Carrozza, Marina Lalatta Costerbosa, Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Pietro Costa, Guido Melis, Gianluigi Palombella, Giovanni, Solimine, Luisa Prodi, Xavier Tabet, Emanuele Cutinelli-Rendina, Giancarlo Abbamonte, Lucio Russo, Giorgio Inglese, Marcello Flores d’Arcais, Gustavo Zagrebelsky. Covid in cella, no ad altre norme. Giachetti: “È da irresponsabili” di Errico Novi Il Dubbio, 10 dicembre 2020 Il deputato di Italia Viva: il Pd rinuncia ai propri emendamenti, così mette la testa sotto la sabbia. Ha vinto la linea del Dap: nessun bisogno di innalzare il limite di pena entro cui è possibile concedere i domiciliari senza braccialetti. I dem: partita non chiusa. Forse è vero: c’è di mezzo il Mes, e non si trova il modo di chiarire altre faccende di drammatica importanza. Fatto sta che sui domiciliari senza braccialetti non ci saranno modifiche estensive. Né si innalzerà lo sconto utile alla liberazione anticipata speciale. La maggioranza, su carcere e Covid, si accontenta delle norme già in vigore. Scorrerà senza esito l’esame degli emendamenti al decreto Ristori bis. Ieri sera il lavoro della commissione congiunta Bilancio e Finanze è ripartito alle 21, per proseguire fino a notte, ma il parere del governo non cambia: resta sfavorevole a ulteriori misure per decongestionare le carceri. Né il Pd, che pure aveva proposto gli emendamenti su braccialetti e liberazione anticipata, intende aprire sul punto una frattura con i 5 Stelle. Solo Italia viva, con Roberto Giachetti, alza la voce: interpellato dal Dubbio, il deputato di scuola pannelliana parla di “dietrofront irresponsabile”. Nelle discussioni che hanno preceduto l’esame del Ristori bis a Palazzo Madama, il Dap ha fatto pesare il proprio punto di vista: ora come ora la velocità con cui vengono emesse le ordinanze sulla detenzione domiciliare speciale dipende al limite dal sovraccarico di istanze proposte presso alcuni Tribunali di sorveglianza, ma non c’è alcun rallentamento dovuto alla disponibilità dei braccialetti. Ad attestare la funzionalità delle misure deflattive già in vigore, secondo il dipartimento di via Arenula, ci sarebbe il calo delle presenze in carcere: a ottobre erano 54.500, ora sono 53.300. Dal Pd si assicura che il discorso non è chiuso: “Continueremo a lavorare per ottenere un calo delle presenze in cella, a verificare se la mancanza di dispositivi condanna a restare in carcere chi potrebbe altrimenti scontare la pena ai domiciliari”. Ma in maggioranza, come detto, c’è chi avrebbe voluto una svolta immediata. A cominciare da Italia viva e in particolare da Giachetti, che ha presentato un’interpellanza urgente a Bonafede proprio sulle contraddizioni nei dati relativi ai braccialetti elettronici. Il deputato iscritto anche al Partito Radicale si è mosso sulla scorta degli articoli pubblicati dal Dubbio. “Intanto la replica di Bonafede è slittata alla prossima settimana a causa dell’ingorgo creatosi sulla sessione di bilancio. Ma”, dice Giachetti, “l’innalzamento da 6 a 12 mesi della pena massima per concedere i domiciliari senza l’applicazione del dispositivo elettronico era una misura importantissima. Il minimo, anzi, in un momento del genere”, secondo il parlamentare di Italia Viva. “Dal primo caso di Saluzzo a quello di Livorno fino ai decessi di Poggioreale, sono sotto gli occhi di tutti le tante morti di detenuti provocate dal virus. Il Pd aveva proposto di fissare il limite dei 12 mesi, e l’innalzamento da 45 a 75 giorni della liberazione anticipata speciale: davvero il minimo dei minimi rispetto alle richieste avanzate da Rita Bernardini e dal Partito Radicale. Rinunciarvi è da irresponsabili. Ora il Pd mette la testa sotto la sabbia”, incalza Giachetti, “e non è chiaro se davvero lo faccia perché trova impossibile controbattere alle osservazioni del ministero della Giustizia. Naturalmente lo stesso Bonafede si assume tutta la responsabilità di una scelta del genere”. Al Senato il parere del governo su domiciliari senza braccialetti e liberazione anticipata è, come detto, negativo. Se i dem non intendono andare allo scontro, neppure i senatori renziani riusciranno, da soli, a far passare misure che certo non riscuotono grande popolarità a destra: Lega e Fratelli d’Italia non vogliono sentirne parlare. Saranno dunque approvati solo i due emendamenti del capogruppo pd nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, Franco Mirabelli. Il primo proroga dal 31 dicembre al 31 gennaio il termine a disposizione dei giudici di sorveglianza per concedere la detenzione domiciliare speciale. Il secondo chiarisce che i permessi premio possono riguardare sia il lavoro sia lo studio: chi ne beneficia, dicono le norme già in vigore, non rientra in cella, per evitare di diffondere tra i reclusi i contagi di fuori. Ma non è assolutamente la svolta invocata dai radicali e, con loro, da Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Luigi Manconi e altri esponenti della società civile. Rita Bernardini è in sciopero della fame ormai dal 12 novembre, ma il muro sembra impossibile da scalfire. Eppure, le caute estensioni proposte dal Pd escludevano da qualsiasi possibilità di scarcerazione o beneficio chi è accusato dei reati più gravi, a cominciare da quelli di mafia. Il carcere resta un tabù. O forse le tensioni pazzesche vissute dal governo nelle ultime ore hanno dirottato altrove l’attenzione. In ogni caso ha vinto l’analisi del Dap e l’ottimismo spiegato col calo delle presenze in carcere. Numeri che però equivalgono a un sovraffollamento del 106 per cento. Una beffa, in tempi di Covid e distanziamento sociale obbligatorio. La sconcertante indifferenza per la giustizia e per le carceri di Valter Vecellio lindro.it, 10 dicembre 2020 Se il buongiorno si vede dal mattino, si comincia proprio bene. Giuseppe Santalucia, viene eletto Presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati dopo un gioco di potere e contrattazioni nell’ambito delle varie correnti che compongono il sindacato dei magistrati che nulla ha da invidiare alle ormai note pratiche in cui si sono esibiti Luca Palamara e amici. Tanti saluti all’annunciato voltar pagina e ‘nuovo corso’, ma questo è ancora il meno. Il bello viene con l’annuncio: “Noi siamo interpreti della Costituzione”. Inutile prendere la dozzina di articoli del titolo IV della Costituzione, o cercare un qualche conforto in autorevoli testi come il sommo Costantino-Mortati. Non si trova nulla, al riguardo. Forse, chissà, è una norma, un ‘bis’ di qualche articolo che va dal 101 al 113 della Costituzione, varato tra il lusco e il brusco, a generale insaputa. Si era convinti che fosse la Corte Costituzionale, l’organo di garanzia con il compito di verificare la conformità delle leggi con la Costituzione. Ci si dovrà aggiornare. Gli interpreti sono ‘noi’, da intendere: noi magistrati. Si volesse celiare, si potrebbe scomodare Giovanni Giolitti, autore dell’aforisma: “Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”. Ma c’è poco di che celiare. Più che mai attuali, le questioni del diritto e dei diritti. Le questioni per le quali digiuna da ormai un mese Rita Bernardini, affiancata da decine e decine di militanti e non del Partito Radicale. Chiedono che il Governo batta un colpo, faccia quello che Costituzione e umanità impongono sia fatto, e colpevolmente, dolosamente, non si fa. È accaduta una cosa di cui forse non si è presa piena consapevolezza: il 27 novembre scorso tre personalità della cultura, Luigi Manconi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi, hanno firmato lo stesso giorno, lo stesso articolo, sui tre maggiori quotidiani, ‘La Stampa’, ‘La Repubblica’, ‘Il Corriere della Sera’; è evidente che lo hanno potuto fare con l’avallo e il consenso dei direttori, Massimo Giannini, Maurizio Molinari, Luciano Fontana. Ebbene, era logico, doveroso attendersi un cenno di riscontro e di risposta da parte del Ministro della Giustizia, del Presidente del Consiglio, sempre molto loquace; dei pensosi leader che in questi giorni ragionano di come ricostruire la sinistra; dei leader dell’opposizione. Anche un semplice “Sono sciocchezze” sarebbe andato bene. Invece nulla. Silenzio. Indifferenza. Quello che accade nelle carceri, quello che patisce la comunità penitenziaria, quello che accade nei tribunali, quello che patisce chi ha la sventura di dover fare i conti con la giustizia italiana, non fa parte delle agende politiche della politica ufficiale. Quella che chiama ‘rimpasti’ spartizioni di potere. Lo vediamo tutti i giorni. Sfornano decreti a gogò, non una briciola di attenzione per lo stato della giustizia…La madre di tutti i problemi di questo Paese. Intanto tragedie si consumano tra le mura delle carceri. A.D.D., 53 anni, recluso nel carcere napoletano di Poggioreale accusa un malore: dolori al petto, nausea, difficoltà respiratorie. Le condizioni appaiono subito gravissime; si decide per il trasferimento in ospedale. Ci arriva già morto. La denuncia viene dal Garante per i detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e dal Garante del Comune di Napoli per i diritti dei detenuti, Pietro Ioia. Dicono che nel carcere “le condizioni che non consentono un’efficace attività di prevenzione. Perché molti magistrati non considerano il complessivo stato morboso del detenuto e le sue precarie condizioni di salute e di afflizione in pochi metri quadrati?”. Si ricorda che “oltre al cancro del sovraffollamento, nelle carceri, suicidi, atti di autolesionismo, morti per malattie, sono segnali e sintomi che dovrebbero mettere in allarme sia chi si occupa di carcere, sia la magistratura, sia la politica che l’opinione pubblica e il sistema dei mass-media”. E ancora: “Quando partirà la gara di 12 milioni di curo per ristrutturare i padiglioni fatiscenti di Poggioreale, nei quali vi sono stanze con pareti piene di muffa e umidità, fili elettrici scoperti, servizi igienici senza porte e senza docce? Quando questi fondi saranno usati per rendere vivibili spazi di socialità, di trattamento, di attività di recupero? Le omissioni e la noncuranza, in questo caso, sono reati gravi. Quanti altri decessi devono verificarsi tra i detenuti per far indignare anche l’opinione pubblica?”. No al carcere a vita, i diritti vanno restituiti ai detenuti di Paola Balducci* Il Riformista, 10 dicembre 2020 Il nostro sistema penale non prevede solo l’espiazione della pena, ma anche la rieducazione: a maggior ragione, in periodo di emergenza sanitaria, occorre incentivare le misure alternative. La questione concernente il binomio carcere-detenuti è tema estremamente delicato, che dovrebbe essere inquadrato e definito, una volta per tutte, all’interno del sistema giuridico delineato dal legislatore, lasciando da parte qualsiasi tipo di sentimento o orientamento politico. L’intero sistema penale, di cui fa evidentemente parte quel segmento finale qual è l’esecuzione e l’espiazione della pena, deve essere considerato alla luce del dettato normativo, primo fra tutti quello costituzionale. E, d’altronde, non può essere diversamente: la libertà personale è, sì, un diritto fondamentale, a tutti noto e a tutti caro, ma soprattutto inviolabile. Questa è la premessa necessaria, dalla quale si deve partire per la costruzione (per niente facile) di un sistema che tenga conto di diritti e di doveri, di facoltà e di responsabilità, di azioni e di conseguenze, nell’ottica dell’instaurazione di un dialogo tra di essi, finalizzato a ottenere un compromesso, e reciproche concessioni. All’interno di queste coordinate si colloca il quadro normativo, nazionale e sovranazionale, che positivizza l’esecuzione della pena, intesa nel senso più ampio: è questo il parametro di verificabilità della tanto agognata Giustizia. Essere stati condannati all’esito di un processo penale non significa, per ciò solo, dover passare il resto dei giorni in una cella. Le azioni che commettiamo sono tra loro eterogenee e di questa diversità deve tenersi conto - come il legislatore ben fa. Da qui, la previsione di misure, appunto, eterogenee, da una parte accumunate dal perseguimento di un obiettivo comune, qual è il reinserimento sociale del condannato, dall’altra contraddistinte dal soddisfacimento di un determinato tipo di esigenza. Da questa prospettiva devono essere considerati, ad esempio, gli strumenti premiali e le misure alternative alla detenzione. La loro previsione, infatti, non si ispira a ragioni di “clemenza” quanto, piuttosto, alla necessità di assicurare una certa proporzionalità, anche nelle modalità di espiazione della propria condanna. Si badi bene, il principio di proporzionalità - che trova terreno fertile nel sistema penale proprio in ragione di quella libertà personale, di cui si è parlato - non è soddisfatto solo dall’irrogazione di una pena che sia congrua rispetto al fatto commesso. Esso trova campo di applicazione anche nel momento immediatamente successivo, e cioè quando quella pena deve essere in concreto eseguita: tra le diverse modalità di espiazione, pre-determinate dal legislatore, deve essere scelta quella che garantisce il reinserimento sociale del detenuto alla luce di un trattamento penitenziario individualizzato. Se così non fosse, infatti, il condannato non percepirebbe la “giustizia” insita in quella risposta sanzionatoria, rispetto al comportamento dallo stesso tenuto, e la sua rieducazione resterebbe solo un bel sogno infranto. Sulla carta, quindi, tutto sembra funzionare. Nella sostanza, invece, non pochi sono i conti che si devono fare con tutto quello che sta intorno al panorama carcerario. Non si possono certo dimenticare le condanne ricevute dal nostro Paese da parte del sistema sovranazionale, che hanno denunciato l’esistenza di un problema endemico e strutturale degli Istituti penitenziari, facendo emergere da acque torbide la questione del sovraffollamento. Non si può certo nascondere la carenza di risorse, sia personali, sia strutturali, che, è evidente, rende più difficile quel percorso di reinserimento nella società. Così come non si può far finta che questa situazione non riguardi tutti, indistintamente: sia chi è semplice spettatore, sia chi, giustamente o ingiustamente, è stato privato della sua libertà. Il problema c’è, ed è reale e, pertanto, deve essere risolto. La situazione di emergenza sanitaria ha ben mostrato, e dimostrato, l’insufficienza (non formale ma sostanziale, lo si ribadisce) e l’impotenza di un sistema penitenziario che, con grande fatica, ha cercato di rimanere indenne e di sopravvivere davanti l’imprevisto e imprevedibile. I dati sono chiari: il virus si è diffuso negli Istituti penitenziari, sia tra chi vi è ristretto, sia tra chi presta in quei luoghi la propria attività lavorativa. E, certo, non potevamo immaginare un finale diverso se consideriamo i numeri di affollamento o, per meglio dire, di sovraffollamento delle strutture. Assicurare e garantire il rispetto del distanziamento sociale, così come fa ognuno di noi nei confronti, e per il bene dell’altro, è praticamente impossibile. La reazione a catena, che si è innescata davanti l’imprevisto, era prevedibile. Ed anzi, era stata prevista e paventata dai più già mesi e mesi fa, quando non si faceva altro che dibattere, incessantemente, sulla questione del sovraffollamento, nell’intento di “riportare in voga” un problema che si cerca in tutti i modi di far restare latente. Ma, a quanto pare, le richieste di aiuto da parte di chi ha cuore la sorte dei detenuti non sono valse a nulla, o quasi. La flessibilità del sistema normativo delineato dal legislatore ha certo aiutato gli operatori del diritto a rendere meno devastanti le conseguenze di questa vicenda storica, già note ai più. Ma tamponare la situazione non significa risolverla e, soprattutto, non significa eliminare in radice il problema. E, infatti, quel problema è riemerso, così travolgendo e cancellando tutti gli sforzi compiuti. Ma davvero dobbiamo continuare a chiudere gli occhi? Davvero dobbiamo ancora far finta che il problema non esista? Davvero dobbiamo continuare a chiedere aiuto e, nonostante ciò, non essere ascoltati? Oggi, il dibattito sulla questione torna in scena con più vigore: prese di posizioni forti, sfociate in comportamenti simbolici, come scioperi della fame, che cercano di affermare con più forza quello che le parole, a quanto sembra, non sono riuscite ad esprimere. Tutto questo dovrebbe far riflettere e dovrebbe spronare ad agire, concretamente, evitando di correre al riparto solo quando ci si trovi obbligati a farlo. La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Costituzione sono chiare a tal proposito: i nostri diritti sono anche i diritti dei detenuti. *Docente di Diritto dell’Esecuzione Penale Le prigioni cadono a pezzi, ma dal governo arrivano briciole di Cesare Burdese Il Riformista, 10 dicembre 2020 L’espressione “finire al fresco” significa andare in prigione e “al fresco”, da qualche settimana, lo sono davvero i detenuti e il personale penitenziario di alcune carceri del Nord Italia, che si trovano a vivere e lavorare in ambienti non riscaldati con 12 dodici gradi per la rottura dell’impianto di riscaldamento. Si potrebbe obiettare che situazioni analoghe si verificano anche negli edifici scolastici, ma non si è mai detto “finire al fresco” per dire andare a scuola. Se in passato tali condizioni costituivano la norma, oggi configurano uno stato di sofferenza inaccettabile con discredito dell’istituzione penitenziaria. Nel 2013 la Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani, ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. La grave mancanza di spazio sperimentata dai ricorrenti, costitutiva di per sé un trattamento contrario alla Convenzione; la mancanza di acqua calda per lunghi periodi, nonché di illuminazione e di ventilazione insufficienti nelle celle, hanno causato ulteriore sofferenza, benché non abbiano costituito di per sé un trattamento inumano e degradante. Questo quadro comprende la totalità degli edifici carcerari da Nord a Sud e le carceri campane non fanno eccezione. Le prigioni di Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino e Secondigliano sono accumunate tra loro e con la stragrande maggioranza dei restanti penitenziari italiani dallo stato di degrado strutturale e precarietà in cui versano, causa la scarsa manutenzione degli edifici derivante dalla insufficienza delle risorse economiche stanziate a questo scopo nel corso dei decenni. Questo stato di degrado e precarietà, che riguarda tanto gli edifici antichi quanto quelli più recenti, è rappresentato da coperture dissestate che pregiudicano la funzionalità di intere sezioni detentive, da impianti tecnologici rotti e non tempestivamente riparati, dallo stato di strutture portanti al limite del collasso, da impianti igienico sanitari fatiscenti, da servizi igienici privi di infissi, da carenze impiantistiche e così via. Emblematico il caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, realizzato 15 anni fa senza prevedere la condotta dell’acqua potabile con conseguente necessità di approvvigionamento attraverso autobotti e scorte di acqua minerale. Non sono bastati gli sforzi degli ultimi governi che hanno messo a disposizione più risorse per la manutenzione degli istituti (fino a 40mila euro annui): a fronte di un patrimonio immobiliare penitenziario del valore stimato di 50 milioni di euro, per la sua manutenzione occorrerebbero 600mila euro l’anno. Vero è che, nel nostro Paese, sono le opere pubbliche nel loro complesso a soffrire di questi mali. Nel carcere questo stato di cose acquista una particolare rilevanza, per il fatto che lì si violano i principi costituzionali della pena oltre che le raccomandazioni e le norme internazionali in materia di trattamento penitenziario. La condizione di degrado materiale degli istituti non solo pregiudica la qualità delle condizioni detentive e lavorative, ma espone l’Italia al rischio di sanzioni europee e al discredito internazionale, come peraltro già successo, minando alla base quegli stessi principi e quelle stesse norme. Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, a seguito della citata sentenza Torreggiani, nel 2013 sottopose all’attenzione del Parlamento l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano - non possiamo ignorarlo - come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro Paese ha legato i suoi destini. Parole che scaturivano anche dalla presa d’atto della “miseria delle nostre carceri” derivante dallo stato di degrado delle strutture penitenziarie in uso e dalle condizioni del sovraffollamento che andavano a pregiudicare, tra l’altro, la piena attuazione delle finalità costituzionali ed ordinamentali della pena. Rivolto al Parlamento, Giorgio Napolitano fece riferimento anche alle recenti azioni messe in atto per incrementare la ricettività carceraria (il Piano Carceri, per esempio), a suo dire certamente apprezzabili ma, in relazione alla “tempistica” prevista per l’incremento complessivo, insufficienti rispetto all’obiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla sentenza della Corte di Strasburgo. Il Piano Carceri si rivelò un fallimento perché non realizzò gli obiettivi prefissati. E nemmeno furono avviati, in maniera risolutiva, gli adeguamenti di natura edilizia negli istituti come indicati dalla Commissione appositamente costituita presso l’Ufficio di gabinetto del ministro della Giustizia nel 2013. Oggi, dopo oltre sei anni dal tramonto prematuro del Piano Carceri e dal documento finale della commissione ministeriale citata, i problemi permangono: carceri per lo più sovraffollate, bisognose di manutenzioni urgenti, progetti di nuove edificazioni che non decollano, responsabili politici del Ministero della Giustizia che prefigurano scenari temporali irreali per le realizzazioni edificatorie. A questo riguardo restano emblematici i casi del nuovo carcere di Bolzano, la cui edificazione è al palo da anni, e del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, dove i lavori affidati nel 2016 non sono ancora partiti. In sintesi, le cause dei tempi biblici che caratterizzano la realizzazione di nuove carceri nel nostro Paese vanno ricercate nel sistema farraginoso e burocratizzato che appartiene indistintamente alla progettazione e alla realizzazione delle opere pubbliche, inclusi gli istituti penitenziari. Come si è visto, in occasione della ricostruzione del ponte di Genova, le norme ordinarie non consentono di realizzare opere pubbliche nei tempi fisiologici del costruire; solo andando in deroga alla normativa corrente questo è possibile. La carenza di risorse economiche è riconducibile allo stato deficitario che complessivamente ci caratterizza. Solo un’adeguata riforma strutturale della cosa pubblica - e conseguentemente anche delle modalità di appalto e realizzazione delle carceri - potrebbe far intravedere scenari positivi. Sarà il ventilato Recovery Fund a fornirci risorse per evitare alle persone di “finire al fresco”? Il carcere e la zona rossa di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 10 dicembre 2020 Si intitola “Zona rossa” il numero di dicembre di Voci di dentro, la rivista edita da Voci di dentro, l’associazione di volontariato che lavora nelle carceri di Chieti e Pescara. Un giornale di 56 pagine dedicato principalmente a questa realtà, alla zona rossa in cui viviamo oggi noi (fuori) e quella in cui vivono loro, i detenuti (dentro). Zone rosse, certo diverse ma ugualmente folli, rinchiuse, ripiegate, indifese. Maurizio Ciociola in quarta di copertina, guardando la sua zona rossa scrive: “Non so cosa vedete voi. Ma io dentro il carcere a Foggia vedevo solo paura. Ma non solo paura…ero terrorizzato. I tv tutti i giorni a tutte le ore parlavano di morti, di ospedali pieni. E io non avevo notizie dei miei familiari. Solo. Dentro. Disperato. Quando ho visto la corsa dei miei compagni, mi sono accodato. E sono scappato. Ho girato da solo per le campagne, a piedi sono andato a casa dai miei. Due giorni dopo mi sono costituito in un carcere del nord. Mi hanno accompagnato in auto i miei parenti. Ora sono qui in carcere a Chieti. Fuori si parla solo di Covid. Io vedo solo paura e terrore”. Maurizio Ciociola è poco più di un ragazzo, è alto e magro. L’ho incontrato nel mese di novembre in carcere a Chieti in uno dei consueti incontri-laboratorio. Maurizio racconta e svela quello che accadde tra il 9 e il 10 marzo nelle carceri italiane, in quei gironi infernali creati (al di là di quanto prescrive la Costituzione all’Art. 27) per contenere uomini come se fossero scarti, e dove sono esplose rivolte con danneggiamenti, fughe… 13 morti. Giorni di violenza passati e manipolati su tv e giornali attraverso vergognosi luoghi comuni, etichette, stereotipi, veline. Come da sempre in questa perenne distorsione dei fatti messa in atto dal sistema mediatico e dal sistema penale del tutto distanti da quell’inferno, eppure unici, guarda caso, legittimati a parlarne. Chi ha mai visto i magistrati della sorveglianza (dell’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti) dentro le carceri in questi tempi di Covid? O anche prima? A loro scusante (forse, ma non ne sono certo) si potrebbe dire che sono meno di 250 unità nei duecento istituti italiani a fronte delle 6 mila unità che giudicano e puniscono. E chi ha mai visto un giornalista domandare ai detenuti come stanno le cose? Chi li ha mai visti andare alla fonte della notizia, alla fonte stessa dei fatti? Magari chiedendo alle associazioni di volontariato che lavorano nelle carceri? Per capire e riferire? Al massimo (molto raramente) eccoli andare da qualche direttore o da qualche sindacato di polizia. Per confermare, naturalmente, copioni, palinsesti, titoli e teoremi. Senza capire. Sono partito dalla fine del mio giornale, dal testo di Maurizio … è meglio ripartire dall’inizio, dalla nostra copertina realizzata con un dipinto del nostro Cadica. Si vede un uomo solo, “un uomo perso nel nulla” scrive Ludovica della Penna “senza contatti col mondo e risucchiato dentro” incapace “di vedere oltre”. “In assenza di vita” aggiunge Luana Di Profio. “In un girare a vuoto” sottolinea Francesco Blasi. Meglio di così non poteva essere raccontato la zona rossa del nostro tempo. Soprattutto la zona rossa del carcere, di questo luogo nefasto per eccellenza, la vergogna che ci portiamo addosso e che continuiamo a nascondere e mascherare. E che io vedo tutte le volte che incontro le persone detenute, che “leggo” nei loro volti, nei racconti che fanno dei loro problemi, dell’impossibilità ad essere riconosciuti come persone e piuttosto identificati come fascicoli da sbrigare. E che leggo nei loro testi che da oltre dieci anni raccolgo e pubblico nella rivista dell’Associazione. In questo numero di Voci di dentro - e che è la continuazione di un percorso che abbiamo raccontato negli anni con titoli tipo “strappati”, “le vite degli altri”, “stanno tutti bene”, “numeri uscenti”, “la scomparsa”, “korpoakorpo”, eccetera - ci sono storie di persone che soffrono (e che hanno fatto soffrire). E c’è un tentativo (il loro) di essere finalmente liberati dall’etichetta e dallo stigma che sono stati loro imposti e che indossano - e quasi sempre si tengono addosso - per difesa e per offesa. E che oggi con il Covid alle porte li condanna anche al contagio. Lo scrive bene il nostro Ennio che ci ricorda che “dentro si è costretti a coabitare in quattro/sei persone in uno spazio di 3x4, con letti, armadietti, tavoli e sgabelli”. Senza speranza, anzi con la convinzione che tra i molti del mondo di fuori circolino pensieri raccapriccianti: “…se il Covid ne porta via qualcuno di quei bastardi, tanto male poi non fa”. Paura, sofferenza, impotenza. Questo si trova negli scritti dei detenuti. “Sequestrati dallo Stato” scrive in un suo testo Andrea Di Muzio nel quale resta però forte il desiderio/illusione che questo virus “possa correggere le storture di questo sistema giudiziario”, ma che continua ad operare come scrive Claudio Di Matteo “senza giustizia e in modo del tutto irresponsabile riducendo la democrazia a una pattumiera-crazia”. Senza vedere storie come quelle che capitano alle migliaia di persone malate e abbandonate con un’aspirina, un malox, un rivotril (mi scusino i pochi medici e infermieri che lavorano negli istituti), storie che sono frutto di automatismi kafkiani, senza indignarsi davanti a casi come quello di Luigi (lo raccontiamo nel numero di ottobre), “invalido al 90 per cento, affetto da trombosi, pieno di ferite e piaghe… non può nemmeno lavarsi… avanti e indietro con l’ospedale… ora in isolamento perché medicato da un medico risultato positivo”. Impotenza e paura dentro un luogo che non è più nemmeno un carcere come qualcuno potrebbe pensare che sia un carcere. L’emergenza da Covid, di fatto, mette in luce l’essenza del carcere: un campo concentrazionario, in tutto e per tutto simile a quelli che erano i campi di prigionia durante le guerre passate... dove le persone sono rinchiuse fino a… “non si sa quando finirà la guerra”. E così in questi luoghi, dal nord al sul del nostro paese, oltre cinquanta mila persone stanno patendo da mesi, ora dopo ora, una situazione che viola la nostra stessa Costituzione: nessun contatto col mondo che sta oltre al muro di cinta; sospese o appena un po’ concesse le attività delle associazioni di volontariato, tollerate e mal sopportate, in molte parti sostituite con difficoltosi incontri Skype; quasi nessun contatto con gli educatori gran parte dei quali lavora da casa in Smart Working; colloqui con i familiari sostituiti da video-telefonate; servizio di distribuzione libri sospeso (succede nel carcere di Pescara); lavorazioni di ditte esterne (per 2072 detenuti - dato giugno 2020 - in tutta Italia) interrotte e sospese (succede ancora a Pescara). Un’immagine del carcere oggi al tempo del Covid (felice ma anche orribile) me l’ha suggerita un dirigente dell’Amministrazione penitenziaria: “Non vogliamo certo che per paura di contrarre o di diffondere il virus si arrivi a portare fuori dal carcere agenti, educatori, direttori per lasciare all’interno solo i detenuti ai quali gettiamo i pasti magari con un elicottero!”. Sinceramente, credo che questa macabra intuizione stia proprio avvenendo. Per il Covid certo, ma anche per altro: per una concezione tutta privata della gestione del sistema del carcere, come se fosse una questione della polizia e dunque solo di sicurezza e come se fosse questione solo dei direttori e degli educatori, degli addetti ai lavori, diventati, assieme ai giudici e agli stessi magistrati di sorveglianza proprietari di vite altrui (come scrive ancora Claudio in un suo testo) e non servitori dello Stato. Proprietari di vite giudicate e considerate solo carte da sbrigare. Impauriti e discriminati, eccoli i detenuti dentro le nostre carceri. Nostre perché volute e costruite da noi. Basta leggere. Basta ad esempio leggere Elisa (raccontata dalla nostra Sefora Spinzo): “Sono una Rom. Ho 37 anni. Un cognome scomodo. Una vita di dolore. Un’adolescenza di speranze. Un presente di giudizio. Appartengo ad una famiglia Rom, e sin da piccola ho visto cose che mi hanno fatto male, in famiglia, a scuola, per strada, al supermercato… Mi presero e mi portarono nel carcere di Chieti. Non conoscevo nessuno, ero sola, era tutto sporco, puzzava, era buio, eravamo in sei in una stanza minuscola condita da tavoli, fornelli, vestiti, spazzole, assorbenti, foto, e visi poco buoni. Io stavo sempre in un angolo, loro si picchiavano, si dicevano parolacce, si offendevano, poi si baciavano tra donne, litigavano per qualsiasi cosa, urlavano. E io stavo in un angolo, avevo paura, di giorno, ma soprattutto di notte. Mi tornavano quelle scene in mente, iniziavo a respirare veloce, non mi fermavo, non riuscivo a fare respiri profondi, ero immobile in quello schifo di letto a castello, ero in un posto che non era il mio, ero dentro un incubo, dentro qualche film horror. Piangevo sempre, ma per fortuna delle mie parenti mi proteggevano. Non puoi mostrarti debole in carcere, ti picchiano, ti maltrattano. Era la prima volta in vita mia che speravo che le guardie (che mi avevano fatto del male portandomi in quel mattatoio), mi difendessero e si prendessero cura di me. Ma niente, ero sola e i giorni non passavano, io piangevo e se all’inizio mi appellavo alla mia innocenza, poi mi lasciai andare. Non pensavo più, non piangevo più, non mangiavo più, non parlavo più, non vivevo più. Mi avevano uccisa. Mi avevano uccisa ogni giorno. Per sette mesi, ogni mattina mi uccidevano. Non ero più Elisa, non avevo un passato, un presente, non avevo un futuro. Sarei morta là dentro, ero già morta”. Io, come Maurizio, non so cosa vedete voi guardando questa “zona rossa”. Un magma freddo scrive Antonella La Morgia… o una doppia angoscia… o la paura dell’apocalisse… o il ciclo della colpa e dell’espiazione. Io sicuramente vedo la disuguaglianza e l’arroganza di chi ha il potere su chi non ce l’ha. Mi viene in mente una frase di Franco Basaglia detta durante un’intervista a Sergio Zavoli: “Chi non ha non è”. Per questo, per dare voce a chi è stata tolta la voce… anni fa è nata Voci di dentro. E più che mai oggi (nel tempo del Covid e non solo) questa voce va ascoltata. Come va ascoltata e accolta la richiesta che esce da chi sa e da chi ha cuore e occhi per vedere: subito amnistia, indulto o qualunque altro provvedimento che metta fine alla loro-nostra zona rossa. Fuori i bambini dal carcere: pressing della società civile sul Parlamento di Ilaria Sesana Avvenire, 10 dicembre 2020 Un cartello di Associazioni chiede di istituire un fondo per finanziare percorsi alternativi alla custodia attenuata: sì all’emendamento Stani (Pd). Istituire un fondo con una dotazione di 1,5 milioni di euro per finanziare percorsi di accoglienza al di fuori delle strutture carcerarie per le madri detenute e i loro figli. È la richiesta che arriva da alcune associazioni (“A Roma insieme”, “Cittadinanzattiva”, “Gabbianella”, “Terre des Hommes” e “Acat”) che chiedono ai membri della Commissione Bilancio della Camera dei deputati di approvare l’emendamento alla legge di bilancio promosso dall’onorevole Paolo Siani (Pd) e sostenuto da tutti i gruppi di maggioranza. Obiettivo dell’emendamento è far uscire definitivamente i bambini dalle carceri italiane promuovendo invece l’inserimento delle detenute madri e dei loro figli all’interno di case-famiglia e di comunità alloggio idonee a ospitarli. Interventi che sarà possibile finanziare grazie alla dotazione di 1,5 milioni di euro all’anno per tre anni, a partire dal 2021, prevista dal fondo. L’idea è che spinga così a fare ricorso alla detenzione, anche se in forma attenuata, solo per i casi particolarmente gravi o complessi. Privilegiando invece un approccio più rispettoso dei diritti dei bambini. Secondo i dati del ministero della Giustizia del 30 novembre 2020, nelle carceri italiane sono presenti 31 mamme (di cui 19 straniere) e 34 bambini (20 quelli di origine straniera). Poco più di un terzo delle mamme (13) sono detenute all’interno dei cinque “Istituti a custodia attenuata” (Icam) attivi in Italia: Milano “San Vittore”, Torino, Venezia “Giudecca” e Lauro (Avellino). Tutte le altre mamme e i loro figli fino ai sei anni di età si trovano all’interno delle sezioni nido delle carceri femminili italiane. “Il carcere è un’istituzione totale dove la personalità viene negata. È un luogo segnato da una ripetitività ossessiva e dove gli spazi sono limitati. È molto duro per i bambini vivere in queste condizioni, sono costretti a sottostare a limitazioni enormi che segnano il loro sviluppo - sottolinea Gustavo Imbellone dell’associazione “A Roma, Insieme”. Gli Icam rappresentano una forma attenuata di detenzione, ad esempio non ci sono agenti armati, ma rientrano pienamente nel regime penitenziario”. La costituzione di un fondo dedicato alla progettazione di percorsi di accoglienza di bambini e mamme fuori dal carcere rappresenta un traguardo importante. “Ma c’è ancora molto da fare. Sono diverse e complesse, infatti, le cause per le quali tanti bambini sono costretti a vivere la privazione della propria libertà” commenta Federica Giannotta, Responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes. Le organizzazioni “Terre des Hommes”, “A Roma insieme” e “La gabbianella” in una recente lettera congiunta hanno chiesto un’ampia revisione della legge 62/2011 che ha istituito nuove forme di tutela per le detenute madri e i loro figli: gli Icam e le case famiglia protette. Mentre i primi sono stati aperti in diverse città, si è fatto ricorso alle seconde in maniera estremamente limitata anche perché la legge prevedeva che fossero istituite “senza oneri per lo Stato”. “Per come è impostata la normativa, oggi le detenute madri vengono raramente affidate alle case famiglia - spiega Federica Giannotta. Per questo occorre invertire il processo e partire dal presupposto che un bambino non dovrebbe mai andare in carcere”. Cinzia Leone (M5S): “Le carceri non sono una discarica sociale, ora svuotiamole” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 dicembre 2020 Se non fosse del Movimento 5 Stelle non ci sarebbe nulla di strano. Ma Cinzia Leone è un’attivista e senatrice pentastellata che sostiene lo sciopero della fame di Rita Bernardini per accendere i riflettori sul sovraffollamento carcerario. Un caso più unico che raro tra i grillini, storicamente non troppo sensibili al tema dei diritti dietro le sbarre. Leone è un’apostata del giustizialismo, fiera della propria abiura, tanto da farne oggetto di un intervento di fine seduta ieri a Palazzo Madama. Senatrice, da dove nasce questa sua posizione eretica rispetto allo spirito del suo partito, il Movimento 5 Stelle? L’aspetto umanitario, dal mio punto di vista, prevale sull’orientamento politico. Lo scorso anno ho avuto la possibilità, grazie ai Radicali, di vivere l’esperienza del “Ferragosto in carcere”: sostenere oggi lo sciopero della fame di Rita (Bernardini, ndr), che stimo tantissimo, per me significa dare continuità a un percorso per la tutela dei cittadini detenuti che già avevo intrapreso. Perché tra la popolazione carceraria - che siano detenuti, agenti di polizia o operatori - l’emergenza Covid si fa sentire ancora di più. E non ci si può limitare a non guardare. Certo, la pandemia ha acceso i riflettori sul carcere, ma anche prima del Covid non è che la situazione fosse rose e fiori... Senz’altro, infatti io non conservo un bel ricordo di quel Ferragosto in carcere del 2019, prima dell’emergenza: persone senza acqua calda per lavarsi, costrette a vivere in promiscuità e in condizioni precarie di igiene. Altro che agenzia educativa e riabilitativa. Per me, come istituzione, è stato mortificante vedere gente in queste condizioni. Per Marco Travaglio, punto di riferimento del mondo pentastellato, “solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa”. Anche lei ha qualche problema? Spesso dico questo: per parlare di carcere bisogna entrarci in un carcere. È un’esperienza forte e non sempre si è abbastanza corazzati per reggerla. Io ne sono uscita con le lacrime agli occhi. Ma bisogna spendere del tempo a parlare coi detenuti per capire. Tra i miei ricordi più vivi: una nonnina di 75 anni, in carcere perché vendeva magliette contraffatte in un quartiere di Palermo. Ma cosa ci fa una donna di quell’età in galera? Il carcere non può essere una discarica sociale. Se trattiamo queste persone come delle bestie abbiamo fallito, lo Stato ha fallito. Anche il Movimento 5 Stelle, però, ha contribuito a questa narrazione del carcere come discarica sociale. Il suo partito dovrebbe fare un po’ d’autocritica? Sicuramente. Non posso dire che non sia come dice lei. Ma per quanto mi riguarda non rinuncio a dire la mia, non ho alcuna intenzione di mettere la testa sotto la sabbia, soprattutto in un contesto di pandemia che in quei luoghi amplifica la drammaticità dell’emergenza. Si sente isolata nel M5S? Occuparsi delle carceri, in generale, non rientra tra le priorità dell’agenda politica. C’è tanto da fare e io voglio dare il mio contributo. Sostengo la battaglia non violenta di Rita Bernardini, è una causa giusta e assurda allo stesso tempo, perché non dovremmo arrivare a questo punto. Mi creda, io vivo il mio mandato con estrema serietà e responsabilità e non posso sentirmi tranquilla sapendo che tre persone sono costrette a vivere in sette metri quadri. Alcuni colleghi del mio partito la pensano come me ma preferiscono non esporsi. C’è imbarazzo a condurre battaglie di questo tipo nel Movimento? No, imbarazzo non credo, c’è forse una questione culturale che porta la politica a dare la priorità ad altre cose. Durante la prima ondata di Covid il ministro Bonafede aveva reso più snelle le procedure per accedere alle pene alternative. È bastato un polverone mediatico, la scarcerazione di presunti boss, per far tornare il Guardasigilli sui suoi passi. Ma quella era la strada giusta? Dobbiamo assolutamente riprendere quel discorso interrotto dopo la prima ondata pandemica a causa di una polemica politica. Ricordiamo che quei provvedimenti erano richiesti da vari magistrati di sorveglianza. Servirebbe subito un nuovo “svuota carceri”? A mio avviso sì, approfittando dell’opportunità che una crisi ci sta dando. Chiaro, è solo la mia parola, io però ci credo. Petralia (Dap). “Pochi i detenuti per corruzione, ma presto le cose cambieranno” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 dicembre 2020 “In Italia i detenuti per fatti di corruzione sono 300, di cui solo 228 condannati in via definitiva: gli altri sono in attesa di giudizio. Un numero esiguo, sono pochi”. A riferire i dati è il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Dino Petralia, intervenuto ieri con un videomessaggio alla maratona online “Il virus della legalità”, organizzata dalla Fondazione De Sanctis in occasione della Giornata internazionale della lotta alla corruzione. “La difficoltà di accertamento dei casi di malaffare ha reso urgente un nuovo intervento normativo, la riforma Bonafede, che è un intervento provvidenziale”, ha detto Petralia in riferimento alla “spazza-corrotti”. “La legge del 2019 ha inciso su vari campi, raffinando alcune fattispecie di reato, ma anche gli strumenti a disposizione delle Procure”. Strumenti, ha proseguito il capo del Dap, “che stanno dando un contributo notevolissimo”. Quanto al numero basso di condannati, “non è corrispondente alla riforma: i tempi di accertamento sono più lunghi, e questi numeri si riferiscono ad accertamenti pregressi”. Il contrasto alla corruzione, ha concluso Petralia, “sarà fatto sul fronte giudiziario con tutti gli strumenti a disposizione, ma occorre anche una diversa concezione culturale che porti soprattutto i giovani a comprendere la necessità di combattere il fenomeno”. Il portale sul whistleblowing. E a proposito di nuovi strumenti normativi, in occasione della Giornata contro la corruzione il ministero della Giustizia ha messo in funzione un proprio portale informatico per raccogliere le segnalazioni di whistleblowing. La piattaforma, un software open source protetto, permette la compilazione, l’invio e la ricezione delle segnalazioni di presunti fatti illeciti al Responsabile della prevenzione corruzione e della trasparenza (Rpct) “nel rispetto di tutte le tutele previste dalla legge”. Il portale, spiega via Arenula, “utilizza un protocollo di crittografia in grado di garantire la riservatezza dell’identità del segnalante, del contenuto della segnalazione e della documentazione allegata. Il whistleblower avrà inoltre la possibilità di accedere in ogni momento alla propria segnalazione tramite un codice identificativo univoco, dialogando in modo anonimo e spersonalizzato con il Rpct. Potranno effettuare segnalazioni tutti coloro che, in ragione del loro rapporto di lavoro, siano venuti a conoscenza di condotte illecite”, si legge ancora nella nota di via Arenula, “in primo luogo, dunque, i dipendenti del ministero, ma anche chi opera all’interno di imprese fornitrici di beni o servizi, oppure che realizzano opere in favore dell’amministrazione”. E per proteggere i segnalatori, il ministero ha anche costituito un apposito “Gruppo di lavoro a tutela del whistleblower”, a supporto del Rpct. “La segnalazione delle condotte illecite di cui si è venuti a conoscenza svolgendo il proprio lavoro è fondamentale”, dice il ministro Alfonso Bonafede, “chi non vuole voltare la testa dall’altra parte ma intende denunciare, da oggi ha uno strumento in più per farlo, contribuendo a rendere il ministero con le sue numerose articolazioni una amministrazione migliore e più integra”. “Anche un ergastolano ha diritto alla pensione. Così si uccide il diritto in nome del populismo” di Simona Musco Il Dubbio, 10 dicembre 2020 Forzature normative per ragioni di consenso elettorale. Sono semplici e dirette le parole utilizzate dall’avvocato ed ex parlamentare Maurizio Paniz per descrivere quanto accaduto all’ex ministro ed ex governatore della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco. Che nonostante gravemente malato si è visto revocare dall’Ufficio di presidenza del Senato il vitalizio a cui aveva diritto, a causa della condanna definitiva a 3 anni e 11 mesi pronunciata dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2018 per induzione indebita, nell’inchiesta sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, che a luglio del 2008 gli costò anche l’arresto. Buona parte delle accuse allora mosse all’ex segretario del Psi si rivelarono infondate, su tutte la più infamante: associazione a delinquere. Venuta meno quella, assieme alle accuse di corruzione e falso, anche l’accusa di induzione indebita, secondo i suoi legali, avrebbe dovuto sgretolarsi. Parere non condiviso dalla Cassazione, che due anni fa ha deciso di confermare la condanna. Del Turco avrebbe voluto affrontare una nuova sfida giudiziaria: la revisione del processo. Ma le sue condizioni di salute, attualmente, non lo consentono. Malato di cancro, di Parkinson e Alzheimer, Del Turco, a 76 anni, si trova ora in condizioni definite disperate. Ma il Senato, applicando una delibera del 2015 voluta dall’allora presidente Pietro Grasso, che cancella i vitalizi per i parlamentari condannati per reati considerati particolarmente gravi, ha chiuso gli occhi sulla sua condizione, togliendogli l’unica fonte di sostentamento economico. La stessa che gli consente di curarsi. “Si tratta di un provvedimento dal mio punto di vista palesemente illegittimo - spiega Paniz al Dubbio -. Stiamo discutendo dell’applicazione retroattiva di una norma”. Già, perché i reati contestati all’ex governatore risalgono al 2006, ovvero ben nove anni prima rispetto all’introduzione di quel regolamento. Ma il suo caso non è l’unico, è, forse, solo il più eclatante. “Qui c’è anche l’aspetto emotivo - aggiunge il legale -. Del Turco è colpito da gravi malattie e in questo momento, soltanto per superare le necessità di cura, spende più di 3mila euro al mese”. E si tratta dell’unico trattamento pensionistico dell’ex ministro, spiega Paniz, così come per gli altri ex parlamentari colpiti dal taglio dei vitalizi. “Tutti citano alcuni casi emblematici, ma ce ne sono molti di più. Nella posizione del senatore Del Turco ci sono molti altri parlamentari - spiega -. Addirittura un 90enne messo fuori dalla casa di riposo perché non poteva più pagare la retta”. Ma qualunque cittadino italiano, anche se condannato all’ergastolo, mantiene il diritto alla pensione, se ne ha maturato i requisiti. Essere ex parlamentari, dunque, “diventa causa di pena accessoria, un’aggravante per avere una sanzione in più. È giusto che i parlamentari diano l’esempio, ma ci sono principi costituzionali che vanno rispettati”. Il tutto, aggiunge, solo a fini elettorali. “Anzi, una pseudo propaganda - sottolinea - perché più la gente si informa su questi provvedimenti, più si rende conto della vigliaccheria degli stessi”. La revoca del vitalizio, alla luce del regolamento, era inevitabile ma per Paniz sarebbe stato necessario valutare se le persone coinvolte fossero o meno in condizioni di salute tali da poter subire un trattamento del genere. Una valutazione che non è stata fatta: la norma è stata applicata de plano. “Quando i provvedimenti sono assunti non sulla base giuridica, ma sulla base del populismo, non si va da nessuna parte. Lo Stato di diritto presuppone delle regole - conclude - e queste regole vanno rispettate. Ma qui sono state buttate all’aria”. Paniz sta ora aspettando che il provvedimento venga comunicato ufficialmente, per poter presentare ricorso alla Commissione contenzioso del Senato e chiedere in via d’urgenza la sospensiva, per poi recuperare il vitalizio precedente sulla base delle condizioni di salute. Il caso ha intanto scatenato molte polemiche. E anche l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, con un duro intervento sulla sua pagina Facebook, ha deciso di schierarsi dalla parte dell’ex compagno di partito, “condannato senza prove dopo mesi di carcere preventivo”. “Essere puniti retroattivamente per reati che non esistevano al momento della presunta commissione dei fatti è già un’oscenità giuridica contro la Costituzione - sottolinea -. Infierire su un uomo già perseguitato da una condanna ingiusta, cui resta solo un fil di vita, è una barbarie immorale, incivile e disumana. Mentre invochiamo un atto di clemenza dal Presidente della Repubblica chiariremo chi - oltre i soliti noti giustizialisti 5 Stelle, leghisti e Coltelli d’Italia - si è reso responsabile di questa infamia”. A chiedere di annullare il provvedimento sono anche i senatori del Pd, secondo cui è “indispensabile trovare modo di considerare l’esistenza di serissimi problemi di salute motivo sufficiente per la non applicazione della revoca del beneficio”. Mentre sono dure le accuse di Riccardo Nencini, presidente del Psi. “E se fosse la viltà a guidare la mano di certa politica? Ottaviano Del Turco è ammalato, gravemente ammalato, e gli viene tolta la possibilità di curarsi - afferma. Nemmeno a un ergastolano. Aspetto che la presidente del Senato mi dica cosa ne pensa”. Csm, arriva la stretta sui procuratori: regole rigide sugli incarichi e le indagini di Liana Milella La Repubblica, 10 dicembre 2020 Oggi il Consiglio vara il decalogo di comportamento per i vertici delle procure. Ogni incarico dovrà essere documentato e soprattutto motivato. Decalogo (obbligatorio) del Csm per i procuratori della Repubblica. Sono i potenti titolari dell’azione penale a cui adesso l’organo di governo autonomo della magistratura toglie decisamente un po’ di discrezionalità dettando rigide regole di comportamento su ogni aspetto dell’organizzazione dell’ufficio e la conduzione delle indagini. Ci ha lavorato tutta la settima commissione del Consiglio (Pepe, Donati, Basile, D’Amato, Suriano, Ciambellini) e tra gli estensori figurano anche Micciché e Dal Moro. Tutte le correnti insomma. E dovrebbe finire anche con un voto all’unanimità, anche se Nino Di Matteo propone delle modifiche che si riserva di illustrare e motivare durante la discussione. Ma in cosa consiste la riforma? Detto in due parole, per capirci, potremmo chiamarla il vademecum di cosa può fare, e cosa non può fare, un procuratore della Repubblica nel suo ufficio. Più brutalmente: il Csm stabilisce come deve comportarsi il capo di una procura, automaticamente delimitando i suoi compiti, e quindi anche i suoi poteri. Sicuramente aggrava la sua rendicontazione burocratica. Ma lo obbliga anche, con i suoi vice, a fare indagini e non solo a guidare i colleghi. Perché, “seppure compatibilmente con le dimensioni dell’ufficio e dei compiti di direzione e coordinamento nonché dei carichi di lavoro”, anche i capi e i vice capi non potranno essere sganciati dal lavoro ordinario. Per loro ci sarà “un’obbligatoria riserva di lavoro giudiziario”. Una mossa, quella del Csm, che anticipa sui tempi il Guardasigilli Alfonso Bonafede che, sullo stesso tema, ha scritto un capitolo nella sua legge sulla riforma del processo penale che marcia con tempi biblici alla Camera, i cui scopi però sono già sunteggiati, e quindi ritenuti strategici, nel piano dell’Italia per guadagnare e spendere i 196 miliardi di euro del recovery fund. Ma partiamo da un parterre di giudizi. Ecco quello di Giuseppe Marra, il consigliere “davighiano” di Autonomia e indipendenza. “È un testo molto importante perché, in estrema sintesi, detta regole più stringenti per l’attività dirigenziale dei procuratori, che non potranno più fare, senza motivazione adeguate, il bello e il cattivo tempo nei loro uffici, anche se la legge gli riconosce la titolarità dell’azione penale”. Un parere che non è affatto diverso la quello di Antonio D’Amato, componente della settimana commissione, toga di Magistratura indipendente, componente della commissione, alle prese con piccoli aggiusti del testo: “Abbiamo voluto ancorare le scelte del procuratore a criteri di trasparenza e conseguente motivazione, allorquando individua i suoi collaboratori fra i sostituti per affidargli degli incarichi. In questo modo si è voluto scongiurare il rischio delle cosiddette medagliette costruite su sostituti ‘vicini’ allo stesso procuratore per favorirli nel percorso professionale, trattandosi di medagliette utili in sede di successiva valutazione per possibili incarichi direttivi o semi-direttivi”. Due giudizi che confermano quanto il decalogo sarà impegnativo e destinato a cambiare la vita degli uffici. Ma leggiamo cosa c’è scritto nella relazione che accompagna il testo, definito come una “rivisitazione e parziale riformulazione” di quello del novembre 2017 che, a sua volta, integrava i precedenti del 2007 e del 2009, tutti figli della riforma dell’ordinamento giudiziario del governo Berlusconi, allora Guardasigilli il leghista Roberto Castelli, poi diventato legge con il successore, l’ex Dc Clemente Mastella. Il Csm ci rimette mano perché “sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali”. Cosa cambia e cosa dovranno fare da domani i procuratori in base al vademecum che si risolve in oltre 60 pagine di nuove regole? La mossa del Csm impone ai capi degli uffici una totale e maggiore trasparenza in tutte le scelte, da quella dei procuratori aggiunti, a quella di indicare uno piuttosto che un altro pubblico ministero per seguire un’indagine, nonché anche per costituire i singoli gruppi di lavoro. Il capo dovrà ricorrere al cosiddetto “interpello”, cioè sentire democraticamente tutti prima di costituire un gruppo. E qualora dovesse fare una scelta anomala, una deroga rispetto alle regole in vigore, dovrà motivarlo per iscritto e dettagliatamente al Csm. Dovrà spiegare, insomma, perché ha privilegiato un collega piuttosto che un altro. Una regola che, evidentemente, limita l’autonomia del procuratore in ogni sua mossa. Come non bastasse questo procuratore, nonché i suoi vice, dovranno anche lavorare alle indagini, cioè non basterà fare “il capo”, bisognerò anche fare concretamente delle indagini. Tutto questo perché, come scrive la settima commissione, “l’organizzazione degli uffici di Procura deve essere finalizzata a garantire l’esercizio imparziale dell’azione penale, la speditezza del procedimento e del processo, l’effettività? dell’azione penale, l’esplicazione piena dei diritti di difesa dell’indagato e la pari dignità? dei magistrati che cooperano all’esercizio della giurisdizione: beni giuridici costituzionalmente rilevanti la cui effettiva tutela si realizza immancabilmente attraverso un uso imparziale e consapevole della leva organizzativa che deve essere utilizzata secondo criteri trasparenti e verificabili”. Per essere espliciti, il Csm vuole vederci chiaro sul perché un procuratore si batte per un procuratore aggiunto - che comunque viene scelto dal Csm - o affida una certa indagine, perché se è vero che “la responsabilità? delle scelte organizzative compete al procuratore”, è altrettanto vero che “la verifica della rispondenza delle opzioni in concreto adottate alle ragioni di quella attribuzione e? compito irrinunciabile del governo autonomo”. Per tutte queste ragioni il Csm chiede ai procuratori di presentare “documenti chiari, trasparenti, articolati” rispetto alle assemblee interne e soprattutto che le assemblee stesse si svolgano veramente, visto che da alcuni verbali mandati a Roma sembra trapelare invece che prese d’atto e accettazioni sarebbero giunte solo a cose fatte. La regola aurea per scegliere i magistrati sarò l’interpello, una sorta di consultazione interna su “chi vuole fare cosa”. Ugualmente il capo dell’ufficio non sarà più il sovrano unico delle assegnazioni dei singoli pm alle Direzioni antimafia, i gruppi che lavorano sulla criminalità organizzata. Anche in questo caso, scrive il Csm, il procuratore che “rinnova o non rinnova” un incarico dovrà “motivarlo espressamente” e “comunicarlo a tutti i magistrati dell’ufficio” che, se bocciati ed esclusi, potranno presentare le loro contro deduzioni. Ovviamente di tutto questo dovrà essere informato il Consiglio giudiziario, la longa manus del Csm in sede locale, che potrà esprimere il proprio parere. Infine il procuratore, nell’organizzare l’ufficio, dovrà guardare anche oltre le sue stanze, verso quelle dei tribunali dove i suoi processi poi andranno in udienza. Il giudice di Sciascia ci dice molto sullo stato della Giustizia in Italia di Adriano Sofri Il Foglio, 10 dicembre 2020 Non è un mistero che in Italia vinca chi sostiene che esistono solo colpevoli che l’hanno fatta franca. Ho ascoltato, dalla solita notturna Radio Radicale, la “Lettura Massimo Bordin” dedicata al Contesto di Leonardo Sciascia - si tratta di una serie di incontri nel centenario della nascita di Sciascia, questo si teneva, virtualmente, a Torino, con la promozione degli Amici di Sciascia e dell’Unione delle camere penali, e la partecipazione, per il Centro “Primo Levi”, di Domenico Scarpa. Mi fermo, a titolo per così dire personale, sulle relazioni che hanno al centro lo stato della giustizia oggi: di uno studioso illustre di procedura penale, Paolo Ferrua, di un magistrato (già pubblico ministero e giudice) appena pensionato, Paolo Borgna, di un avvocato e docente penalista, Gaetano Insolera. Va da sé che incontri simili prevedano un consentimento dei partecipanti, confermato dalla gamma di citazioni chiamate a sostenerne le argomentazioni: nomi come Domenico Riccardo Peretti Griva, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese, Elena Paciotti, Salvatore Mannuzzu, e naturalmente Piero Calamandrei. (Borgna cita bensì Giovanni Colli, “molto conservatore e monarchico”, ma per l’ammonimento che “indipendenza del magistrato non vuol dire arrivare in ritardo all’udienza”. Io ne ho un ricordo di sotto in su: dopo una mia assoluzione piena, nel 70, per una manifestazione di senza casa di cui non avevo nemmeno avuto notizia, quel Procuratore generale torinese vantò a Gabriele Invernizzi per l’Espresso di “avermi comunque messo in galera”). Premessa comune è che il magistrato sacerdote, inaccessibile, di Calamandrei non esista più da tanto tempo, ma che ormai non esista più nemmeno la riflessione sul cambiamento che animò gli anni 70-80. Dice Ferrua che l’esorbitanza del potere della magistratura ha due cause principali. La sua capacità di sostituirsi sia al potere legislativo che al potere esecutivo, mentre non vale il reciproco, salvo cadere in pieno stato di polizia. (È quello che avviene in Ungheria o in Polonia, nota mia). E la debolezza della garanzia promessa dalla soggezione del magistrato alla legge, aggirata dall’”interpretazione creativa” della legge stessa. E poiché non ci sono efficaci sanzioni, la legalità dell’operato dei magistrati è affidata al loro buon volere, a loro discrezione. Ferrua si chiede che cosa attiri i giovani verso la magistratura: l’assoluta indipendenza, il rango, l’alto stipendio, un nobile impulso a rendere giustizia, ma anche la tentazione di un potere fine a sé stesso, e ancora più l’inclinazione a giudicare non “secondo lo spirito e la lettera della legge”, ma con un’insofferenza per il metodo e le regole. Ferrua argomenta la duplice agonia del processo accusatorio, in vigore dal 1989 (fino ad allora vigeva il codice Rocco): con la sentenza del 1992 della Corte suprema che arrivò a dichiarare la formazione della prova nel contraddittorio un ostacolo alla ricerca della verità, e poi, dopo la reazione legislativa che aveva introdotto in Costituzione il giusto processo, con la cascata delle sentenze “creative”, l’inerzia o peggio la ratifica del legislatore, e l’intollerabile (tolleratissima) lunghezza dei processi, che annulla la tempestività delle testimonianze. Ferrua si spinge a suggerire che la lentezza sia “astutamente funzionale a vanificare il processo accusatorio, come le liste di attesa ospedaliere tese a scoraggiare l’ingresso dei pazienti a vantaggio delle cliniche private”. Risultato, la custodia che anticipa o usurpa la pena, l’indagine che prevale sul dibattimento. Due anni fa, dice, nel trentennale del nuovo codice, si celebrò un moribondo. Paolo Borgna cita i moniti di Peretti Griva sul malinteso orgoglio della funzione che paralizza il timore di errare, nel compito quasi sovrumano di giudicare gli altri. È un luogo comune letterario (Sciascia, Camilleri, per esempio), tuttavia vero, quello del giudice che nella maturità è angosciato dal pensiero degli errori commessi. La storiella raccontata da Calamandrei sul vecchio giudice al cui capezzale accorrono gli allievi, e dice il tormento di andarsene con un fardello di sentenze arbitrarie, e loro lo rassicurano: “Stia sereno, Presidente, sono state tutte riformate”. Che forse era solo un witz, ma suggerisce a me una considerazione serissima: la battuta allude infatti, oltre che alla facilità con cui si incorre negli errori o negli arbitri giudiziari, alla fiducia di rattopparli nei gradi successivi. È piuttosto invalsa un’attitudine a definire errore giudiziario quello che una sentenza successiva e definitiva abbia corretto. Non condivido questa fiducia, con tutto me stesso, per così dire. Certo, i nemici dell’appello e i fautori delle restrizioni all’ammissibilità in Cassazione hanno fretta di rendere irreparabile l’errore commesso in primo grado. Ma ci sono presidenti sul letto di morte che nessuno potrebbe confortare dicendogli: “Sono state tutte riformate”. Voglio restare al punto dell’errore giudiziario - mescolo i miei argomenti a quelli autorevoli che riferisco. I relatori si sono accorti come il personaggio del giudice di Sciascia, assimilando se stesso al sacerdote che dice messa, si fa tramite dello stesso processo di transustanziazione, per il quale non conta che il sacerdote, o il giudice, sia personalmente infedele o inetto: dunque l’errore giudiziario non esiste, non può esistere, e la sentenza è sacra. Una emulazione corporativa del dogma dell’infallibilità. E guardate che qui non c’è niente di paradossale. Senza questa spregiudicata pretesa sacrale quale pubblico accusatore, quale giudice preso con le mani nel sacco potrebbe aspettarsi che la moltitudine di anonimi passati per le sue mani e condannati si rassegnassero al proprio destino? E del resto, senza una tale investitura magica, come si spiegherebbe l’immunità dei magistrati alle sanzioni - l’autoimmunità? Si è chiesto Borgna, un membro autorevole della categoria, come sia possibile che Antonio Bassolino sia uscito assolto 19 (diciannove) volte da processi durati 17 (diciassette) anni senza che la magistratura nel suo complesso e i singoli magistrati abbiano battuto ciglio, lungi dal farne un tema di confronto decisivo? Domanda ripetuta da Gaetano Insolera, che le ha accostato il principio esposto tante volte e in tante sedi da Piercamillo Davigo che è diventato uno slogan: non esistono innocenti, esistono solo colpevoli che l’hanno fatta franca. Bassolino l’ha fatta franca 19 volte - tutte. E il portatore di questa concezione del mondo, aggiunge Insolera, ha ricevuto 1.600 voti per il Consiglio superiore della magistratura, e non se ne voleva andare nemmeno dopo la pensione. Ottaviano Del Turco, un nuovo caso Tortora: perseguitato, isolato e offeso di Giuliano Cazzola Il Riformista, 10 dicembre 2020 Era il 14 luglio del 2008. Le agenzie, le radio e le tv diedero la notizia che, all’alba, era stato arrestato, insieme ad altri, il Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco. Allora io ero un deputato, appartenente ad un partito diverso da quello di Del Turco. Ma non esitai ad alzarmi in Aula - per anni nel più totale isolamento - per esprimergli tutta la mia solidarietà e la ferma convinzione della sua totale estraneità ai fatti di cui era accusato. Ottaviano ed io ci conoscevamo, allora, da 40 anni (oggi è trascorso mezzo secolo), durante i quali non c’era stata tra di noi soltanto una stretta collaborazione negli incarichi ricoperti all’interno della Cgil, ma anche un forte legame di amicizia, di frequentazione personale e familiare. Il procuratore che lo aveva incarcerato lo ricoprì, nella solita conferenza stampa, di accuse infamanti. Affermò che della sua colpevolezza esistevano prove “schiaccianti”. Ma io non fui mai sfiorato dal minimo dubbio (il cuore ha delle ragioni che i codici non conoscono) e, in tutti gli anni successivi, nella ricorrenza del 14 luglio, ho continuato a chiedere la parola in Aula e ad affidare agli atti le mie attestazioni di solidarietà. Ottaviano del Turco è stato un grande sindacalista, appartenuto a quell’Olimpo degli eroi di cui hanno fatto parte nomi indimenticabili come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e tanti altri che hanno fatto la storia del sindacato (e del Paese) nella seconda metà del secolo scorso. Probabilmente, questi nomi, che a me ricordano tanti anni di vita vissuta intensamente, non dicono quasi nulla oggi. Del Turco è soltanto un ex parlamentare, malato di cancro e di altre patologie invalidanti, a cui è stato congelato il vitalizio perché condannato in via definitiva da una Corte di Giustizia. Ma chi è, che cosa è stato e ha fatto Ottaviano Del Turco? In una delle Lettere morali a Lucilio, Lucio Anneo Seneca così scriveva: “Tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso. E d’altra parte lunghi intervalli non possono sussistere in una realtà (la vita, ndr) che è breve nel suo insieme”. È così anche per quanto riguarda il rapporto tra me ed Ottaviano: i ricordi si presentano tutti insieme e in una sola volta. Innanzi tutto, Del Turco è abruzzese. Il suo paese natale si chiama Collelongo. Ci si arriva per una strada che finisce lì. Eppure, per lui quella località sperduta è sempre stata molto importante. Colà aveva scelto il suo “buon ritiro” (una bella casa ristrutturata con cura), che si è trasformato nel suo carcere. È nota la sua attività di pittore: una passione che ha retto persino alla prova degli anni difficili della politica. E, purtroppo, ad eventi dolorosi più recenti. Prima che la malattia prendesse il sopravvento anche sul pennello, la tela e la tavolozza. Più piccolo di una numerosa squadra di fratelli, Ottaviano (il nome è legato al posto occupato nella saga familiare) seguì i più grandi quando andarono a cercare lavoro a Roma. I maschi avevano preso dal padre Giovanni ed erano tutti socialisti. Ottaviano scoprì giovanissimo la politica, anche come mestiere, nella Federazione romana del Psi. Chiusa l’esperienza nel partito andò a lavorare al sindacato e, dopo una breve permanenza all’Inca (il patronato della Cgil) si trovò alla Fiom durante l’autunno caldo. A suo onore va detto che non appartenne mai (chi scrive ne fu invece tentato) alla combriccola dei “giovani turchi”, abbacinati dai fasti di quella stagione, che pensavano fosse venuta l’ora dell’assalto al Palazzo d’Inverno del potere. Fu sempre attento ai rapporti con la Confederazione. Da moderato, non fu mai ben visto completamente nella Fiom, al punto di essere sostanzialmente emarginato (forse si fece estromettere volentieri) dalla gestione della vertenza Fiat del 1980, benché ricoprisse il ruolo di segretario generale aggiunto. Aveva delle intuizioni felici. Fu il primo, nel sindacato, a sollevare il problema dei quadri e dei tecnici e ad individuare l’esigenza di soluzioni contrattuali specifiche per queste categorie. La cosa sollevò un mezzo scandalo, come sempre accadeva (e accade) in Cgil quando qualcuno inventava soluzioni nuove. Ma Del Turco non sarà ricordato per la sua particolare capacità di approfondire le questioni di merito, anche se la legge del contrappasso ha voluto che, alcuni decenni dopo, diventasse titolare del Dicastero più tecnico e complicato che esista (le Finanze). Del resto, da un vero leader nessuno pretende una conoscenza particolareggiata del sistema dei ticket sanitari. È stato, però, uno dei primi sindacalisti a capire l’importanza dei media. E a comprendere, soprattutto, che una buona intervista (come aveva insegnato Luciano Lama), magari su La Repubblica, valeva di più (anche sul piano interno) di un articolato documento, scritto in sindacalese e votato da un organismo sindacale dopo ore di discussione. Durante gli incontri col Governo o qualche importante trattativa il suo vero pezzo di bravura si svolgeva quando l’incontro stava per concludersi. Riusciva sempre ad andarsene pochi minuti prima. Scendeva in sala stampa - praticamente da solo - e veniva accerchiato da un nugolo di giornalisti brandenti microfoni, taccuini e telecamere (allora i sindacalisti erano ascoltati). E dava il suo giudizio sull’incontro. Poi, quando scendevano le delegazioni al gran completo, i colleghi tenevano lunghe conferenze stampa, nelle quali venivano illustrati meticolosamente tutti gli aspetti del negoziato. Ma l’incipit era il più delle volte suo, come sue erano le prime riprese che andavano in onda nei telegiornali e le classiche tre parole che, nella società della comunicazione, mandano al macero intere biblioteche. Proveniente dalla Fiom, entrò nel 1983 in segreteria confederale e divenne subito “aggiunto” di Lama. La sorte volle che Del Turco si trovasse a gestire la “grande rissa” tra comunisti e socialisti del 1984 e 1985 sulla scala mobile, dopo il decreto di San Valentino. Lo fece con molta fermezza e tanto equilibrio, in tandem con Lama. E sempre con molta attenzione all’unità della Cgil. In quegli anni, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi (peraltro confermata in un libro di Pierre Carniti, pubblicato postumo). L’atteggiamento di lealtà tenuto in quel periodo gli valse un grande rispetto da parte dei comunisti (i quali erano molto meno settari, al dunque, dei loro eredi di oggi, finiti nella Legione straniera del Pd o sparpagliati in qualche gruppetto nostalgico di ex socialisti). Basti pensare che Del Turco divenne, negli anni successivi, uno degli oratori ufficiali ai funerali dei leader del Pci (a partire da quello - solenne e solennizzato - di Enrico Berlinguer). Ottaviano, negli ultimi tempi trascorsi in Cgil, era sempre meno interessato all’attività sindacale. Da tanto attendeva che dal partito gli venisse fatta una proposta. La sua maggiore aspirazione sarebbe stata la presidenza della Rai. Ma Craxi taceva. La sua grande occasione si presentò tra il 1992 e il 1993, nel pieno di Tangentopoli. Craxi non era ancora inquisito, ma ormai si era capita l’antifona: sarebbe stato sufficiente attendere qualche settimana, poi la questione socialista si sarebbe trasformata in un problema giudiziario. Claudio Martelli faceva la fronda (il suo slogan, rivolto a Craxi, era: “Un segretario non può diventare il “problema” del suo partito”). Ottaviano si schierò con lui, sia pure su di una linea leggermente diversa. Si mise ad andare il giro per l’Italia a riunire i sindacalisti socialisti all’insegna dell’appello al capo supremo: il partito è inquinato, Craxi faccia pulizia (e magari con l’aiuto di qualche sindacalista autorevole). Intanto, dopo i dissensi con Trentin in merito all’accordo triangolare del luglio 1992, per Del Turco l’aria si era fatta stretta in Cgil. Decise di forzare i tempi ed annunciò che se ne sarebbe andato, anche senza avere altri incarichi a disposizione. Era il marzo del 1993. La maggioranza del partito, poche settimane prima, gli aveva reso un grave affronto, scegliendo Giorgio Benvenuto, quale segretario al posto di re Bettino. Come Cincinnato, Ottaviano si ritirò a Collelongo. Intanto la situazione si deteriorava. Dopo qualche mese Benvenuto passò la mano, in polemica col vecchio gruppo dirigente che, a suo dire, non voleva farsi da parte. Ma in verità non volle prendere a mano la situazione amministrativa che Giorgio considerava disperata. Venne così il momento di chiamare Del Turco alla segreteria. Ottaviano si accinse a guidare i resti del Psi con molta fiducia in se stesso e girando in lungo e in largo l’Italia. Ma ormai non c’era più nulla da fare. L’anno dopo, toccò a lui condurre lo scontro decisivo con Craxi e vincerlo. Quando era già troppo tardi. Dopo aver lanciato Enrico Boselli alla guida di ciò che restava dello Sdi, Del Turco divenne parlamentare e ministro. Ritrovò posto sui media e la figlia gli regalò due bei nipotini. Soprattutto, svolse un ruolo assai positivo da presidente della Commissione antimafia, contro l’abuso dei pentiti ed una certa maniera disinvolta di amministrare la giustizia. Poi fu parlamentare europeo, e infine candidato vittorioso del centro sinistra alla presidenza della Regione Abruzzo. In quel ruolo divenne vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne ha provocato l’arresto, le dimissioni, l’ostracismo e una condanna passata in giudicato dopo una lunga trafila processuale. Dicono che un Paese è libero quando i cittadini onesti, sentendo suonare il mattino presto alla porta di casa, pensano che sia il lattaio. Probabilmente anche Ottaviano Del Turco, esattamente il 14 luglio del 2008, si chiese come mai il lattaio passasse ad un’ora antelucana in quel giorno destinato a diventare uno dei più drammatici della sua vita. Invece, aprendo ancora assonnato il portone dell’abitazione di Collelongo, trovò i militari della Guardia di Finanza che gli intimarono di raccogliere un po’ di biancheria e lo condussero nel carcere di Sulmona a rispondere di un’imputazione pesante e disonorevole per un uomo politico, come la corruzione. Chi scrive conferma la convinzione più volte manifestata in tante sedi che Del Turco fosse completamente estraneo alle accuse, tanto da ripetere, con la persecuzione giudiziaria subita, un nuovo “caso Tortora”. Da allora, Del Turco è divenuto un uomo isolato e ignorato dal suo partito, dimenticato da tutti tranne che dai familiari e dagli amici, ferito nei sentimenti più intimi, escluso da quella politica attiva che ha rappresentato per decenni la sua ragione di vita. Fino ad essere oggetto di un abuso: la privazione di quelle risorse (il vitalizio) che consentono ai suoi cari di curarlo e di assicurargli di sopravvivere con dignità. Ma le sue condizioni di salute non gli permettono neppure di dire ai Maramaldi che lo hanno pugnalato: “Vili! Uccidete un uomo morto”. Così i padroni della sanità privata (e i pm) hanno distrutto Del Turco di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 10 dicembre 2020 La vicenda giudiziaria che ha ingiustamente distrutto la vita pubblica e privata di Ottaviano Del Turco (e facilitato o comunque reso migliore, in varia misura, quella di molti dei suoi accusatori) provoca ancora oggi in me, suo avvocato difensore, un senso di nausea e di indignazione. Ottaviano Del Turco commise un solo - ma fatale - errore, nella sua esperienza di Governatore dell’Abruzzo: ritenersi più forte dell’immenso potere esercitato dalla sanità privata in quella Regione. Perseguì - starei per dire con sorprendente impudenza la priorità politica di ricondurre nella legalità il rapporto tra sanità pubblica e privata. La vicenda giudiziaria che ha ingiustamente distrutto la vita pubblica e privata di Ottaviano Del Turco (e facilitato o comunque reso migliore, in varia misura, quella di molti dei suoi accusatori) provoca ancora oggi in me, suo avvocato difensore, un senso di nausea e di indignazione dal quale mi sento puntualmente sopraffatto. Ma questa ultima infamia, del trattamento pensionistico revocato ad un uomo gravemente malato e reso del tutto inconsapevole dal morbo di Alzheimer all’ultimo stadio, mi costringe a rimettere mano a questa incredibile, invereconda vicenda. Ottaviano Del Turco commise un solo - ma fatale - errore, nella sua esperienza di Governatore dell’Abruzzo: ritenersi più forte dell’immenso potere esercitato dalla sanità privata in quella Regione. Prima in campagna elettorale, poi appena eletto, perseguì - starei per dire con sorprendente impudenza, ma questo era l’uomo - la priorità politica di ricondurre nella legalità il rapporto tra sanità pubblica e privata, istituendo finalmente un meccanismo di controllo serio e credibile sull’immenso flusso di denaro pubblico che confluiva senza freni nella sanità privata convenzionata. In tre anni al governo della Regione - come alla fine hanno dovuto prendere atto, dalla Corte di Appello in avanti, gli stessi suoi giudici- la Giunta Del Turco, semplicemente accertando irregolarità ed illegittimità retributive del più vario genere, aveva revocato alle cliniche private abruzzesi qualcosa come un centinaio di milioni di euro. Per darvi una dimensione della enormità di quella scelta politica ed amministrativa, sappiate che la precedente Giunta aveva contestato e recuperato, allo stesso titolo, 200mila euro. Cento milioni contro duecentomila euro. Quando, il 14 luglio 2008 la Polizia Giudiziaria venne a prenderlo a casa per portarlo in carcere (insieme a mezza sua Giunta regionale), l’ordinanza di custodia cautelare che Ottaviano, incredulo, poté leggere era scritta interamente recependo senza filtri le dichiarazioni di due signori: Vincenzo Maria Angelini, proprietario del più importante gruppo di cliniche private abruzzesi; e Luigi Pierangeli, presidente dell’Aiop, associazione di categoria che raggruppava tutte le restanti cliniche private diverse da quelle del gruppo Angelini. Il cento per cento della Sanità privata abruzzese dava il benservito alla Giunta che aveva osato tanto. I due gruppi erano in realtà in forte competizione tra di loro; ma l’obiettivo fu infine convergente. Pierangeli era andato in Procura a Pescara non meno di una ventina di volte (ma forse di più, non ho voglia di andare a contarle), con altrettante denunce raccolte a verbale, nelle quali affermava (ed a suo dire documentava) che tutte le iniziative amministrative adottate dalla Giunta Del Turco in materia sanitaria erano illegittime, e tutte indebitamente favorevoli al gruppo Angelini. Questa incredibile e quasi maniacale attività di denuncia fu recepita dalla Procura di Pescara senza una sola obiezione, ed infine trasfusa pari pari in un incredibile raffica di capi di imputazione per abuso in atti di ufficio, falsi ideologici e chi più ne ha più ne metta, dei quali - ascoltatemi bene - non uno solo, dico non uno solo, è sopravvissuto all’impietoso giudizio di inesistenza dei fatti, ovviamente solo dopo la incredibile sentenza di primo grado che, asseverando invece senza esitazioni la bontà di quelle denunce, condannò Del Turco a dieci anni di reclusione. Nulla, una montagna di chiacchiere pretestuose, gratuite, infondate, grossolanamente speculative, odiosamente saccenti, desolatamente insensate dal punto di vista tecnico-giuridico, utilissime però a fare fuori quella Giunta, come puntualmente accadde. Angelini servì a chiudere il cerchio. Perché mai, d’altronde, la Giunta Del Turco avrebbe così impudentemente favorito le cliniche del suo gruppo, se non per il vile denaro? Perciò Angelini viene convocato in Procura, ma cade dalle nuvole: mai dato una lira. Senonché viene contestualmente ad apprendere - sono atti del processo, a disposizione di chiunque vorrà consultarli - che la Procura sta mettendo da tempo il naso nelle sue attività di storno di immense quantità di denaro (già una sessantina di milioni di euro) che egli starebbe da tempo sottraendo alle sue aziende. Brutta storia. Ma forse, gli dice il Procuratore capo dott. Trifuoggi, questi soldi, o una importante parte di essi, Lei dott. Angelini li ha distratti dalle aziende perché costretto a pagare la politica? Ci pensi bene, perché in questo caso da potenziale indagato (di bancarotta per distrazione, per esempio, ma anche di corruzione), lei diventa persona offesa, vittima, concusso da Del Turco e sodali, sa quella storia della concussione ambientale, Mani Pulite eccetera. Insomma, ci pensi bene. Il verbale del primo approccio in Procura è testualmente in questi termini. Ci penso su, dice Angelini, ingolosito. Dopo qualche giorno, ritorna, per dire: a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che ho ritirato in contanti dalle mie aziende li ho dovuti dare alla vorace banda Del Turco. D’altro canto, basta leggere l’incipit della sua “collaborazione”, per capire di cosa stiamo parlando: “Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò”. Assicurato? E da chi? È la Giustizia, bellezza. Qui inizia la grottesca, tragicomica sarabanda dei “riscontri oggettivi”: l’imprenditore deposita, in tempi successivi, le ricevute telepass di una serie di autovetture delle sue aziende, e le ricevute bancarie dei prelievi in contanti di somme dai conti correnti delle sue società. Attribuisce tutte le uscite autostradali al varco di Aielli-Celano, di qualsivoglia e non identificata autovettura delle sue Società, quale prova delle sue trasferte a casa di Del Turco. Che non abita, ovviamente, dentro il casello di Aielli Celano, ma a Collelongo, uno dei molti paesi (ad almeno 20 km di distanza dal casello) per raggiungere i quali chi viene da Chieti in autostrada può uscire a quel varco. Il quale ultimo torna però anche utilissimo per raggiungere una delle vicine cliniche di Angelini, impegnando anzi la via più breve. Nossignore, spiegherà Angelini quando finalmente noi potremo obiettarlo in dibattimento, non ho mai fatto utilizzare né al mio autista né ai miei dipendenti quella uscita, uso solo ed esclusivamente, senza una eccezione che sia una, quella successiva di Avezzano (percorso totale più lungo). “Me possino cecamme”, si direbbe a Roma (basterebbe infatti una qualsivoglia altra ragione di uscita a quel casello, per elidere ogni già flebile capacità indiziante rispetto alla casa di Del Turco). Mai uscito ad Aielli Celano in vita mia, né alcuno dei miei, se non per andare a casa di Del Turco carico di denari. Lui seleziona 26 uscite ad Aielli Celano, e tenta di incrociarle con i prelievi, ma è sfortunato e non ne trova nemmeno uno coincidente. La cosa incredibile è che la Procura di Pescara non fa un plissè quando Angelini spiega a suo modo l’arcano: il Satrapo mi faceva avvertire dai suoi di preparare prima i soldi (ecco i ritiri al bancomat o in banca), e dopo alcuni giorni, a suo piacimento, giocando come il gatto con il topo, mi ordinava di portarglieli immediatamente. Ecco allora come si fanno coincidere - si fa per dire, naturalmente! - i prelievi (da lui scelti tra centinaia di altri identici, tramite i quali ha depredato le sue società) con i famosi Telepass, tutti relativi a date diverse. Come fa, dott. Angelini, a ricordare quali fossero i 26 prelievi per Del Turco, tra centinaia di altri identici? Solo chi ha sofferto le indicibili umiliazioni che ho subito io da Del Turco potrebbe non ricordarli. E come mai le uscite ad Aielli Celano sono invece quasi una ottantina? Andavo a fargli visita spesso, per parlare di politica. Uno stalker, più che un concusso. Siamo su Scherzi a Parte? Nossignori, siamo dentro il famoso processo Del Turco e la sua “montagna di prove” che la Procura di Pescara ebbe l’impudenza di preannunciare in una roboante conferenza stampa. Sto solo raccontando - per quanto incredibili siano - alcune delle più esilaranti (se non parlassimo di una tragedia) “prove” in base alle quali, come se niente fosse, è stato massacrato un galantuomo, un grande protagonista delle lotte sindacali ed operaie degli anni ruggenti, un socialista con la schiena diritta e le mani pulite. Vuoi vedere che prima o poi qualcuno dei nostri famosi “giornalisti di inchiesta”, gli eroici nostri cronisti giudiziari che scodinzolano ubbidienti nei corridoi degli Uffici di Procura, o ne attendono trepidanti i wapp, troverà un po’ di coraggio e andrà finalmente a cercare di capire come, e soprattutto perché, sia potuto accadere tutto ciò? E non vi ho ancora raccontato niente: preparatevi, nella prossima puntata, a sentire il racconto delle foto delle mele, delle noci, e delle buste piene di soldi: Groucho Marx, al confronto, è un dilettante. Meno male che Tu, Ottaviano, amico mio, non riesci più a sentire nemmeno l’olezzo maleodorante che torna su da questi ricordi dolorosi. A volte la malattia sa essere pietosa. Covid e carcere, la Cassazione impone due condizioni per concedere i domiciliari di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2020 Il rischio di contrarre il virus deve essere “concreto” anche in presenza di patologie che aggravano la malattia fino alla morte. Il Covid 19 non spalanca le porte del carcere a chi sia portatore di una di quelle malattie che - è ormai acclarato - aggravano o conducono alla morte in caso si contragga il virus. L’altro elemento che, infatti, deve necessariamente sussistere per la conversione in detenzione domiciliare di chi è sottoposto al rigido regime carcerario, è quello della sussistenza di un rischio concreto legato alla situazione del singolo istituto penitenziario. Perciò la Cassazione - con la sentenza n. 35012/2020 - ha respinto il ricorso di un detenuto per associazione di stampo mafioso che pretendeva di avere diritto alla sostituzione del carcere con i domiciliari, a causa delle proprie patologie cardiovascolari. I giudici di legittimità hanno affermato invece che, a fronte della generale invasività della pandemia, il carcere non è specifico elemento di rischio in sé, ma lo diventa solo a fronte della rilevata esistenza di casi positivi e dell’impossibilità di applicare le adeguate misure protettive anticontagio, nello specifico istituto di pena, da cui si chiede di uscire per ragioni di salute. La Cassazione risolve così la questione dei presupposti per la conversione della detenzione carceraria in quella domiciliare interpretando a contrario la norma “anticovid” dell’articolo 3 del Dl 29/2020, che disciplina l’attività costante di monitoraggio sui casi in cui sia stato riconosciuto il beneficio dei domiciliari. La disposizione specifica, infatti, che sarà onere del giudice accertare periodicamente la sussistenza o il venir meno dell’inadeguatezza “sanitaria” del carcere al fine della conferma o della revoca dei domiciliari eventualmente concessi. Da ciò deriva l’affermata insufficienza delle sole gravi patologie che pregiudicano il decorso nel caso di malattia da Covid 19. Corte costituzionale: “identità di funzioni tra Giudici di pace e togati” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2020 “Illegittimo escluderli dai rimborsi per la difesa in giudizio”. “Considerata la sua primaria importanza costituzionale, anche al giudice di pace va garantita un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici di pur infondate azioni di responsabilità”. La sentenza n. 267 di oggi della Corte costituzionale costituisce un passaggio rilevante nella battaglia dei Giudici di pace (da una settimana in “agitazione permanente”) per il riconoscimento del proprio status professionale. Giudicando sulla legittimità di una norma che li escludeva dal rimborso delle spese di difesa in giudizio, la Consulta ha infatti affermato che nei giudizi sulla responsabilità civile, penale e amministrativa è irragionevole riconoscere il rimborso al solo giudice “togato”, quale dipendente di un’amministrazione statale, e non anche al giudice di pace, in quanto funzionario onorario: considerata l’identità della funzione del giudicare - argomenta la Corte - e la sua primaria importanza costituzionale, anche al giudice di pace va garantita un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici di pur infondate azioni di responsabilità. È stato dunque dichiarato illegittimo l’articolo 18 del Dl n. 67 del 1997, convertito dalla legge n. 135 del 1997, là dove non prevede che il ministero della Giustizia rimborsi al giudice di pace le spese di difesa sostenute nei giudizi di responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi per fatti di servizio e conclusisi con provvedimento di esclusione della responsabilità. Le questioni erano state sollevate dal Tar del Lazio in un giudizio relativo alle spese di difesa sostenute da un giudice di pace in un procedimento penale nel quale egli era imputato di corruzione in atti giudiziari ma che era terminato con la sua assoluzione. La Consulta richiama la decisione della Corte Ue (causa C-658/18, UX) secondo cui i Gdp “svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo”, riportandone la figura alla nozione di “lavoratore a tempo determinato”, ragion per cui le differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente “dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni”. Ed è nell’ambito di tale valutazione che, per la Cgue, assume rilievo la circostanza che per i soli magistrati ordinari la nomina debba avvenire per concorso e che ad essi siano riservati i casi di maggiore complessità. “La differente modalità di nomina - prosegue la Corte costituzionale -, il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati rendono conto dell’eterogeneità dello status del giudice di pace, dando fondamento alla qualifica “onoraria” del suo rapporto di servizio”. “Questi tratti peculiari non incidono tuttavia sull’identità funzionale dei singoli atti che il giudice di pace compie nell’esercizio della funzione giurisdizionale, per quanto appunto rileva agli effetti del rimborso di cui alla norma censurata”. Del resto, continua la sentenza, la ratio dell’istituto, consistente nell’evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, “sussiste per l’attività giurisdizionale nel suo complesso, quale funzione essenziale dell’ordinamento giuridico, con pari intensità per il giudice professionale e per il giudice onorario”. In questo senso, il beneficio del rimborso delle spese di patrocinio “attiene non al rapporto di impiego […] bensì al rapporto di servizio”, trattandosi di un presidio della funzione, rispetto alla quale il profilo organico appare recessivo. Nè si può trascurare, prosegue la decisione, che la posizione del giudice di pace appare “particolarmente significativa nei giudizi di rivalsa dello Stato a titolo di responsabilità civile”, in quanto, la norma “non distingue il giudice di pace da quello professionale, entrambi chiamati a rispondere anche per negligenza inescusabile”. “Attesa l’identità della funzione del giudicare, e la sua primaria importanza nel quadro costituzionale - conclude la Corte - è irragionevole che il rimborso delle spese di patrocinio sia dalla legge riconosciuto al solo giudice ‘togato’ e non anche al giudice di pace, mentre per entrambi ricorre, con eguale pregnanza, l’esigenza di garantire un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici connessi ad eventuali e pur infondate azioni di responsabilità”. Campania. Nelle carceri 9 detenuti suicidi da inizio anno e 49 attualmente positivi al Covid di Paola Marano Il Mattino, 10 dicembre 2020 Sono 49 i detenuti positivi al coronavirus nelle carceri della Campania. Tra questi due ricoverati: uno al Cotugno, e un altro a Salerno. Il numero più alto di contagiati si registra a Secondigliano (29), seguito da Poggioreale con 15 casi. Lo ha reso noto il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, durante la presentazione di “Quaderni di ricerca”, report sullo stato dell’arte degli istituti penitenziari, realizzato insieme all’ Osservatorio regionale sulla detenzione. Uno scenario che ha spinto il garante a lanciare un nuovo appello al mondo della politica e delle istituzioni per la limitare il rischio di contagio nelle aree di reclusione. “Bisogna rivedere il decreto ristori che dà la possibilità soltanto a coloro che devono scontare un anno e sei mei di carcere di andare in detenzione domiciliare con il braccialetto - ha detto Ciambriello - Noi vorremmo che fosse possibile per più persone e che venga eliminata la clausola che permette al magistrato di sorveglianza di negare la misura qualora si ravvisino gravi motivi ostativi. Si tratta di una clausola ingiusta, ipocrita, incostituzionale, perché i detenuti di fronte alla legge sono tutti uguali”. Non solo Covid. Il rapporto illustrato nella sede del consiglio regionale al centro direzionale di Napoli accende i riflettori sulla condizione dei minori in area penale. Secondo lo studio, in Campania ogni anno 5.000 minori tra i 12 e i 18 anni vengono fermati, identificati, riaffidati ai genitori, denunciati, condotti in una comunità o sottoposti alla misura della messa alla prova. Ad oggi, nell’istituto penale di Nisida, si registrano 42 ristretti, ad Airola 32. I minori presi in carico dagli uffici di servizio sociale nel 2020 sono 315, mentre quelli collocati nelle 72 comunità convenzionate sono invece 115 tra minori e giovani adulti. “La mia percezione è che dei minori non si occupa nessuno perché i minori non votano”, ha rimarcato il garante. Resta alta l’attenzione sul tema dei suicidi: nelle carceri campane durante il 2020 si contano 9 suicidi, a fronte di un dato nazionale di 55. Dalla salute mentale all’edilizia dei luoghi che ospitano i detenuti nel loro percorso di rieducazione: Ciambriello ha denunciato lo stallo di 12 milioni di euro stanziati per la ristrutturazione di alcuni padiglioni di Poggioreale e mai utilizzati. “Ci sono a disposizione fondi - ha ricordato Ciambriello - assegnati 3 anni fa al provveditorato campano delle opere pubbliche e mai stati spesi, non c’è stata ancora nessuna gara”. Un quadro sistemico di criticità quello tracciato dall’osservatorio regionale, in cui si inserisce la volontà del presidente del consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero di avviare l’iter per una nuova legge sulle carceri, che riveda anche i compiti del garante dei diritti dei detenuti. Formazione, istruzione e sanità i punti cardine della proposta di legge di cui Oliviero sarà primo firmatario. “Dobbiamo fare in modo che chi vive in una condizione di restrizione lo possa fare nel pieno rispetto della dignità umana” ha spiegato Oliviero, il cui auspicio è che la popolazione carceraria sia tra le prime ad essere vaccinata “perché’ vivendo una condizione di restrizione può rientrare tra le categorie a rischio” Campania. Emergenza minori: “Cinquemila all’anno delinquono” di Massimo Romano napolitoday.it, 10 dicembre 2020 Il dato emerge dallo studio pubblicato dal Garante dei detenuti della Campania: “Bisogna educare i genitori ancora prima dei ragazzi”. In Campania, ogni anno, ci sono 5mila minori tra i 12 e i 18 anni, che vengono fermati, identificati, riaffidati ai genitori, denunciati, condotti in una comunità o sottoposti alla misura della messa alla prova. L’allarme sociale è lanciato da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, che ha presentato i “Quaderni di ricerca”, studio sulle criticità del sistema detentivo regionale. Numerosi sono i casi a rischio di devianza, di abbandono, di povertà, educativa, culturale, educativa. Sono 250 i minori impegnati in percorsi rieducativi, 125 sono destinati all’affidamento in comunità e 70 sono accolti nei centri di accoglienza. Tra Napoli e provincia, ci sono 593.036 minori, nello specifico nel Napoletano, si contano 172.304 minori cioè il 17,8% della popolazione. Ad oggi, nell’Ipm di Nisida si registrano 42 ristretti, ad Airola 32 ristretti. Nell’approfondimento dedicato ai minori è presente anche il contributo di una voce autorevole come quella di Giuseppe Centomani, Dirigente del Centro di Giustizia Minorile della Regione Campania. I minori presi in carico dagli Uffici di Servizio Sociale per la prima volta nel 2020 sono 315, quelli collocati nelle 72 comunità convenzionate sono 115 tra minori e giovani adulti, infine frequentano il Centro Diurno Polifunzionale di Nisida e quello di Santa Maria Capua Vetere, 58 tra minori e giovani adulti. Trieste. Contagi al carcere Coroneo, stop all’ingresso di nuovi detenuti di Laura Tonero Il Piccolo, 10 dicembre 2020 Nessuna ammissione in carcere fino a quando la situazione interna non sarà migliorata. Secondo giro di tamponi in corso. Il carcere di Trieste non ammette più nuovi detenuti: una situazione che si protrarrà fino a quando il quadro sanitario all’interno della struttura di via del Coroneo non migliorerà. Così è stato disposto precauzionalmente dalla direttrice Romina Taiani, dopo che settimane fa si era evidenziata la positività al Covid-19 di diversi detenuti e di alcuni agenti della polizia penitenziaria. A conferma, il fatto che l’uomo condannato per il reato di stalking, evaso dai domiciliari a Roma e trovato nei giorni scorsi dalla Polizia di Duino Aurisina a bordo di un bus diretto a Lubiana, è stato poi portato alla casa circondariale di Gorizia, proprio a fronte della situazione sanitaria di quella triestina. Intanto l’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina continua a monitorare l’andamento dei contagi all’interno della struttura: è stato disposto un secondo screening. Ieri sono stati sottoposti nuovamente a tampone i detenuti, oggi sarà la volta degli agenti penitenziari e degli operatori esterni. Va precisato che nel carcere triestino ora sono sospese anche tutte le attività, come previsto da protocollo, ma non i colloqui, possibili in sicurezza grazie agli schermi di protezione tra detenuto e visitatore. Nelle prossime ore, dunque, sarà possibile avere una fotografia aggiornata della situazione all’interno della sede di via del Coroneo. Stando ai più recenti dati forniti da Asugi, i detenuti risultati positivi sono 30 (stanno tutti bene), oltre a una decina di agenti penitenziari che in alcuni casi hanno invece manifestato dei sintomi. Le ultime positività emerse, e che avevano evidenziato la presenza di un focolaio nella sezione femminile della struttura, sono state quelle di 20 detenute sulle 26 attualmente ospitate. Una situazione, quella della positività al Covid-19 di alcune persone detenute, che rende ancora più complessa la gestione della struttura, dove i problemi di sovraffollamento sono evidenti da anni. Attualmente i detenuti al Coroneo sono 186. Tra agenti della polizia penitenziaria, personale amministrativo, operatori e personale esterno che offre dei servizi alla casa circondariale si contano invece circa 200 persone. L’isolamento dei detenuti positivi, la loro quotidiana gestione, non sono semplici se si considera anche il fatto che alcuni agenti della penitenziaria sono a casa in isolamento e in attesa del risultato del prossimo tampone, a fronte di un organico - come denunciano da anni i sindacati - sottodimensionato, che già rendeva complesso il quadro generale anche prima che scoppiasse la pandemia. Padova. Donato Bilancia in ospedale per Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2020 Il Covid 19 non sta risparmiando nessuno nelle carceri. È anche entrato dentro il penitenziario Due Palazzi di Padova contagiato, per ora, almeno 16 detenuti e 9 agenti. Il Dubbio ha appreso che tra di loro, è rimasto infetto anche l’ergastolano Donato Bilancia: il suo stato di salute si è aggravato, tanto da essere ricoverato in ospedale. Quella di Donato Bilancia, ora 69enne, è la storia di un caso di cronaca nera che ha sconvolto tutta l’Italia. Una lunga scia di delitti che, sul finire degli anni 90, ha terrorizzato il territorio Ligure. Un incubo durato sei mesi, per un totale di diciassette vittime. No della Cassazione al permesso premio a Donato Bilancia - Proprio a novembre scorso, la Cassazione ha sigillato il no al permesso premio. Bilancia aveva chiesto di recarsi scortato all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola (Padova), di cui è ospite un bambino disabile che da tempo sostiene economicamente. Con il rigetto del ricorso, di fatto vengono confermate le precedenti valutazioni di pericolosità sociale, secondo cui all’epoca l’assassino fu “diabolicamente abile a colpire e a mimetizzarsi per depistare le indagini” e ancora adesso è un detenuto che ha condannato le proprie azioni “solo in maniera formale e meccanica”. Eppure secondo la difesa e don Marco Pozza, cappellano del penitenziario, Bilancia non è più la persona che fra il 16 ottobre 1997 e il 21 aprile 1998 si macchiò di una lunga serie di delitti. Come emerge dagli atti processuali, il lucano si dice “convinto di essere colpito da una specie di malattia non controllabile ma limitata nel tempo”, dalla quale sarebbe “guarito da sé”, al punto da essere pronto per “una progressiva apertura verso l’esterno”, essendo i reati commessi riconducibili “a una serie di contingenze che mai potranno ripresentarsi”. Di qui la sua richiesta di poter “coltivare interessi affettivi” nei confronti del piccolo portatore di handicap, a cui invia periodicamente una parte della sua pensione, nonché di contattare il difensore del marito di una delle sue vittime, “al fine di comunicare personalmente la disponibilità a forme di riparazione del danno”. In effetti, nel tempo, ha avuto una condotta penitenziaria regolare, si è impegno negli studi, nel lavoro e ha fatto un percorso psicoterapeutico con un professionista. Asintomatico Alberto Savi della banda della Uno Bianca - Ora però è arrivato il Covid nel carcere, tanto che ha infettato tanti altri detenuti “eccellenti” come Alberto Savi (fortunatamente asintomatico), il più giovane dei tre fratelli della banda della Uno Bianca, così come appunto ha colpito Donato Bilancia. Ma a lui, purtroppo, il virus è stato aggressivo tanto da finire in ospedale. Un virus che non si ferma e dilaga nei penitenziari italiani, provocando nella sola seconda ondata almeno otto morti. In aumento, rispetto al penultimo aggiornamento, i detenuti positivi. Aumentano i contagi tra detenuti e agenti - L’ultimo report, relativo a lunedì scorso, parla di 958 positivi a fronte degli 897 reclusi infetti di domenica 29 novembre. Gli agenti penitenziari positivi invece sono 810. Un numero che, ovviamente, è destinato a salire, perché nel frattempo sono scoppiati nuovi focolai come quello del carcere di Padova. Nelle patrie galere c’è il sovraffollamento, mancano spazi adeguati per fare gli isolamenti sanitari e applicare il protocollo. Le misure introdotte dal Governo non bastano. E tutto questo accade nell’indifferenza delle istituzioni nei confronti di Rita Bernardini del Partito Radicale, la quale chiede l’introduzione di nuove misure deflattive più efficaci. È arrivata al 30esimo giorno di sciopero della fame assieme a migliaia di detenuti, centinaia di cittadini, più di 200 professori di diritto penale guidati dai professori Giovanni Fiandaca e Massimo Donini e personalità quali Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi. Trapani. Il carcere di Favignana in pessime condizioni di Pietro Vultaggio Quotidiano di Sicilia, 10 dicembre 2020 L’iniziativa arriva dal senatore grillino Santangelo: “Problematiche su incuria dei locali”. Criticità riguardano soprattutto gli spazi destinati agli agenti della Polizia penitenziaria. Il carcere “Giuseppe Barraco” di Favignana non gode di ottima salute, lo fa sapere il senatore trapanese Vincenzo Santangelo, il quale ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Da una visita effettuata nelle scorse settimane - dice Santangelo - da alcuni delegati del sindacato Sappe sono emerse diverse problematiche sullo stato dei locali destinati alla caserma degli agenti di Polizia Penitenziaria. In particolare, le camere adibite a dormitorio e alle ore libere dal servizio degli agenti presentano persiane rotte, muri umidi e screpolati. Del tutto inadeguati anche i servizi igienici - continua -, con evidenti danni strutturali e con una sola vasca a disposizione di circa 25-30 agenti. Il sopralluogo ha rilevato anche numerose carenze igienico sanitarie nei luoghi adibiti al consumo dei pasti”. “L’atto ispettivo che ho presentato - conclude - si pone l’obiettivo di mettere a conoscenza il Ministro Bonafede sullo stato generale di incuria dei locali, chiedendo anche quali misure urgenti il Dicastero di via Arenula abbia intenzione di adottare, per porvi rimedio e restituire dignità ai luoghi di lavoro e di riposo destinati agli agenti di Polizia Penitenziaria dell’Isola”. Ma i vari problemi del carcere di Favignana erano già noti, infatti lo scorso febbraio 2019 Giuseppina Occhionero, deputata di Leu, aveva presentato, dopo una visita, una interrogazione al ministero di Grazia e Giustizia per chiedere il trasferimento dei 25 agenti di polizia penitenziaria da Favignana a Trapani ed anche dei detenuti in altri istituti e trasformare la struttura in una casa colonica del Corpo di Polizia Penitenziaria tra la più belle d’Italia. Ad annunciarlo con una nota era stato Antonello Nicosia componente del Comitato di Radicali Italiani e assistente parlamentare della deputata. “Settantatré detenuti - si legge nella nota scritta da Nicosia -, non ci sono attività, l’acqua razionata è sempre fredda, la caldaia va in blocco, non c’è il direttore né il commissario che raggiungiamo al telefono. Per quanto riguarda gli operatori, venticinque su 50 assegnati non garantiscono alcuna sicurezza, mancano le fondamenta di una casa di reclusione, due educatori, ma in servizio solo uno”. Un problema non nuovo, speriamo che non diventi fin troppo ‘datato’ da diventare cronico. Padova. Per la pasticceria del carcere crescono gli acquisti on line di Elvira Scigliano Il Mattino di Padova, 10 dicembre 2020 Otto gusti di panettone, tutti in produzione, il più “giovane” con la combinata zenzero-mandarino-gelsomino e le vendite on line già schizzate a più10% rispetto all’anno scorso. La pasticceria Giotto, cooperativa che occupa i detenuti del carcere Due Palazzi, è la grande eccezione del 2020. Il responsabile della cooperativa, Matteo Marchetto rivela: “Quest’anno puntiamo ad un più 15% di vendite on line e riconfermare gli acquisti in presenza. Di anno in anno si vede che facciamo qualcosa di buono perché la platea dei clienti continua ad allargarsi”. L’apertura del negozio in via Roma (che prima era in via Eremitani) è stato un messaggio di grande ottimismo: “Nonostante quello che sta succedendo - aggiunge Marchetto - bisogna tirarsi su le maniche e scommettere su sé stessi e sul futuro”. E con questa prospettiva le novità non si sono fatte attendere: “Abbiamo cambiato le confezioni, metà scatole saranno tradizionali e metà ecosostenibili, compostabili con fieno ed erba secca, in modo che possano smaltirsi nell’umido. Inoltre abbiamo iniziato una collaborazione con l’Unione italiana cechi e, all’interno dei nostri panettoni, racconteremo la nostra storia anche in braille”. Questo malgrado un focolaio Covid in carcere a metà novembre che, per precauzione, ha fatto chiudere un reparto intero: “Ventisette detenuti-lavoratori, nostri dipendenti, sono stati stoppati per 10 giorni - riferisce il responsabile - Una vera mazzata. Incrociamo le dita che non ricapiti a dicembre, questi venti giorni sono un delirio già in condizioni normali. A noi la fiducia non manca, ma questa emergenza sanitaria in carcere è vissuta con molta sofferenza, non tanto per la malattia in sé ma per le limitazioni nei colloqui familiari che sono estremamente ridotti: solo familiari stretti, con un plexiglas che impedisce qualsiasi contatto. Mai come in questo periodo un lavoro vero garantisce una ritrovata dignità della persona, sia come vita dentro, sia per poter immaginare un futuro fuori. Basti pensare che la recidiva normale è del 75%, ma per chi ha fatto un percorso lavorativo vero scende al 5%”. Milano. La bellezza invade e trasforma il carcere di San Vittore di Paolo Perazzolo Famiglia Cristiana, 10 dicembre 2020 Dalla collaborazione fra la Casa circondariale e la Triennale nasce un progetto che utilizza l’architettura per rendere concreta la possibilità di riabilitazione. Come è possibile far sì che la pena abbia davvero una funzione rieducativa e non sia una condanna definitiva, come prevede l’articolo 27 della ostra Costituzione? La domanda diventa ancora più urgente quando parliamo di minori che hanno un futuro ancora tutto da scrivere. Dalla collaborazione fra il Carcere di San Vittore e la Triennale di Milano arriva una risposta: portare la bellezza dentro le mura delle carceri. Da qui un concorso per progetti architettonici, San Vittore, spazio alla bellezza, che, essendo destinato ai giovani, è a loro riservato. Triennale Milano e la Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore lanciano il concorso di idee San Vittore, spazio alla bellezza rivolto a progettisti, architetti, designer, urbanisti, ingegneri con l’obiettivo di promuovere una nuova concezione di casa circondariale attraverso la riprogettazione di alcuni spazi del carcere per cambiarne la percezione e migliorarne la funzionalità. In parallelo al concorso di idee, grazie al coinvolgimento di Fondazione Maimeri e con il supporto di Shifton e dell’Associazione Amici della Nave, viene sviluppata una ricerca sul campo per individuare i bisogni di chi nel carcere vive e lavora quotidianamente, ma anche le esigenze della Casa Circondariale e dell’intera cittadinanza. La scadenza per la presentazione delle candidature è lunedì 18 gennaio 2021 alle ore 12.00. Il bando e i suoi allegati sono disponibili sul sito di Triennale Milano. Sono ammessi al concorso lavori individuali o di gruppo, purché il singolo partecipante o almeno il 50% dei componenti del raggruppamento tra cui il capogruppo abbia un’età compresa entro i 40 anni. Altra condizione richiesta dal bando è che il 50% dei componenti del gruppo, tra cui il capogruppo, sia iscritto all’Albo professionale di riferimento (architetti o ingegneri) di Milano e provincia. Il concorso si inserisce nel rapporto di collaborazione tra Triennale Milano e la Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore, avviato nel 2018 con il progetto ti Porto in prigione, promosso dall’Associazione Amici della Nave, che comprendeva una mostra fotografica e una serie di incontri e dibattiti. Lo scambio tra le due istituzioni è poi proseguito nel 2019 con PosSession, esperienza che metteva in dialogo fotografia e teatro riflettendo sulla detenzione femminile e sulla pratica quotidiana dell’arte come strumento di recupero. Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano: “Triennale sta portando avanti in modo sistematico collaborazioni con diverse realtà del territorio cittadino, accogliendo iniziative culturali con cui condivide obiettivi e progettualità per essere sempre di più un luogo inclusivo, sensibile alle urgenze del contemporaneo. Il dialogo tra Triennale e la Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore è sempre più intenso e proficuo. Le nostre due realtà si trovano a poche centinaia di metri l’una dall’altra, ma la distanza tra loro è enorme. Dopo i progetti “Ti Porto in prigione” e “PosSession”, con il lancio del concorso di idee San Vittore, spazio alla bellezza, rafforziamo questa importante sinergia toccando quei temi del progetto che sono propri di Triennale fin dalla sua nascita”. Giacinto Siciliano, Direttore della Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore: “Questa nuova concezione di casa circondariale ha l’obiettivo di cambiare la percezione di questo luogo e innescare un nuovo circolo virtuoso in grado di far ripartire un pensiero positivo iniziando dalla bellezza degli spazi che lo ospitano. La casa circondariale può e vuole diventare un riferimento di eccellenza in grado di trasformare la reclusione in un’opportunità di crescita grazie all’apertura verso l’esterno e a un cambiamento guidato da un pensiero complessivo sulla consapevolezza che la bellezza possa suscitare spontanee sensazioni piacevoli, provocare suggestioni ed emozioni positive e generare un senso di riflessione costruttiva”. Il progetto, ideato e sviluppato da Triennale Milano in collaborazione con Fondazione Maimeri, verrà realizzato con il sostegno di Fondazione di Comunità Milano - Città, Sud Ovest, Sud Est, Martesana onlus, che promuove e supporta progetti di utilità sociale per rispondere, in modo innovativo, alle priorità espresse dalla collettività in ambito sociale, culturale e ambientale. L’iniziativa San Vittore, spazio alla bellezza - coordinata da Lorenza Baroncelli, Direttore artistico e curatore per architettura, rigenerazione urbana e città di Triennale Milano - si propone di generare dei processi virtuosi di coinvolgimento e collaborazione reciproca tra carcere e città. Sono previste diverse fasi progettuali, a partire dalla costruzione e pubblicazione di questo concorso di idee aperto ai giovani professionisti della città. Parallelamente, la ricerca sviluppata da Fondazione Maimeri, Shifton e Associazione Amici della Nave permetterà, attraverso interviste qualitative e osservazioni sul campo, di individuare i bisogni della Casa Circondariale e servirà anche a esplorare possibili nuove esigenze e immaginare le funzionalità da destinare agli spazi da riprogettare. Genova. Essere genitori nonostante la detenzione di Anna Spena vita.it, 10 dicembre 2020 Mercoledì 16 dicembre il webinar “Strade percorse e possibili sviluppi per un nuovo Metodo di intervento della genitorialità in carcere e della centralità del bambino” promosso dal progetto genovese “La Barchetta rossa e la Zebra” per raccontare l’esperienza di un nuovo Metodo di gestione della genitorialità nelle Case Circondariali Marassi e Pontedecimo di Genova e creare le basi per renderlo replicabile anche in altre carceri italiane. Nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Pontedecimo di Genova, la vita dei detenuti può cambiare attraverso il rapporto che hanno con i loro figli. E i figli dei detenuti, come tutti gli altri bambini, hanno lo stesso diritto a coltivare una relazione con i loro genitori. È per questo motivo che tre anni fa è partito il progetto “La Barchetta rossa e la Zebra”. Un’iniziativa di Rete genovese che coinvolge il Privato Sociale e le Istituzioni Pubbliche ed è sviluppata in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna e con il Comune di Genova. È finanziato dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) dell’Impresa Sociale Con i Bambini. Per raccontare l’esperienza e i risultati raggiunti attraverso un nuovo metodo di gestione della genitorialità nelle Case Circondariali Marassi e Pontedecimo di Genova e creare le basi per replicarlo anche su scala nazionale, mercoledì 16 dicembre, gli enti promotori del progetto hanno organizzato il webinar: “Strade percorse e possibili sviluppi per un nuovo Metodo di intervento della genitorialità in carcere e della centralità del bambino”. L’evento online è rivolto a assistenti sociali, operatori, Associazioni, Enti del Terzo settore, personale degli Istituti penitenziari, avvocati, magistrati e giornalisti. Qui il modulo di iscrizione: https://register.gotowebinar.com/register/5774495842297840911 Capofila del progetto “La Barchetta rossa e la Zebra” è l’associazione il Cerchio delle Relazioni, coordinato, in prima linea, dalle Associazioni territoriali genovesi del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova. La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, a cui è stata affidata l’opera di riqualificazione delle aree dedicate all’incontro dei bambini con i genitori detenuti nelle due Case Circondariali, è partner e promotore del Progetto. L’obiettivo che “La Barchetta rossa e la Zebra” ha cercato di raggiungere in questi anni è stato duplice: da una parte, favorire e rafforzare la relazione dei figli che hanno un genitore in carcere o sottoposto a misure penali alternative. Dall’altra, promuovere la cultura della centralità indiscussa del bambino che, improvvisamente, si trova a vivere in una dimensione adulta e critica come quella carceraria. Dopo la ristrutturazione degli spazi a misura di bambino, dove i figli possono attendere il momento del colloquio in un ambiente bello, sereno, adatto alla loro esigenze, sono stati avviati momenti di formazione per i genitori detenuti, per gli assistenti sociali, e per la polizia penitenziaria per spiegare qual è la strada più idonea per entrare in relazione con i minori che vivono un momento delicato del loro percorso di crescita accentuato dall’assenza di uno o di entrambi i genitori. I risultati dell’intervento triennale e continuativo sono stati visibili, sia rispetto all’obiettivo principale, il benessere e la centralità dei bambini, figli dei genitori detenuti, che ad una lunga serie di obiettivi indiretti tra cui la maggiore tranquillità anche da parte delle famiglie, la fiducia da parte degli agenti che hanno potuto dedicarsi al proprio lavoro con maggiore soddisfazione, sollevati da ruoli che non erano i loro, come ad esempio la necessità di soddisfare i bisogni delle famiglie, come quello di un bagno per i bambini o per il cambio del pannolino. È aumentato il numero dei bambini in visita al carcere con una forte emersione del sommerso. È aumentata la fiducia nelle Istituzioni e nella figura stessa dell’educatore, spesso confusa con quella dell’assistente sociale. Il progetto ha aiutato i genitori a trovare strumenti e parole per comunicare la detenzione ai figli e a gestire questa comunicazione in modo costruttivo con tutti i membri della “comunità educante” (insegnanti, parenti, amici). Genitori più sicuri di sé stessi e più consapevoli hanno passato immediatamente questa “forza” ai figli. Il webinar riconosce 3 crediti formativi per gli assistenti Sociali che partecipano all’evento almeno per l’80% del tempo. Tra gli ospiti in collegamento: Carlo Borgomeo, Presidente Impresa Sociale Con i Bambini, Elisabetta Corbucci, Coordinatrice Cerchio delle Relazioni e Capofila di progetto, Mariavittoria Rava, Presidente Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus e PM di progetto, Luca Villa, Presidente Tribunale per i Minorenni di Genova, Marco Bucci, Sindaco di Genova, Maria Milano, Direttore C.C. Marassi e Domenico Arena, Direttore Udepe. Parma. Claudio Conte, ergastolano: dopo la laurea è stato ammesso al dottorato di Ambra Notari redattoresociale.it, 10 dicembre 2020 Dopo una laurea in giurisprudenza con lode e menzione accademica, dalla sezione Alta Sicurezza 1 della Casa circondariale alla Parma, Claudio Conte è stato ammesso al Dottorato in Politica, società e cultura. Franca Garreffa (docente): “Istruzione e conoscenza argine alla criminalità”. “Claudio è un Dottore in Giurisprudenza detenuto ormai da 31 anni nella sezione Alta Sicurezza della Casa circondariale di Parma. In verità, se calcoliamo indulti e liberazione anticipata, ha già 41 anni di pena espiata, poiché è stato arrestato la prima volta a 19 anni per pochi mesi e poi di nuovo all’età di 22 anni”. Autore di scritti, blog, libri e contributi scientifici, dal 27 novembre è ufficialmente iscritto al primo anno del Dottorato in Politica, società e cultura, dopo aver superato brillantemente una prova scritta e un esame orale. A raccontarci la sua storia è Franca Garreffa, docente di Sociologia della devianza dell’Università della Calabria e membro del Collegio docenti del dottorato di Claudio Conte. “Dal 2010 insieme a un gruppo di colleghi dell’allora Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica, abbiamo iniziato un percorso di accompagnamento allo studio universitario di due detenuti ristretti nella sezione Alta Sicurezza del carcere di Rossano. Questa esperienza si è poi istituzionalizzata nel 2018 con la nascita del Polo Universitario Penitenziario, il Pup, e oggi sono 30 gli studenti afferenti al Polo penitenziario dell’Università della Calabria, sede del Dottorato cui ha partecipato anche Claudio Conte”. Qual è l’argomento del progetto di ricerca di Conte? Il diritto allo studio, con particolare riferimento all’ambito universitario e a quello penitenziario, la necessità di un processo di formazione e di educazione continua degli adulti, partendo dai processi di autoconsapevolezza e partecipazione democratica, individuale e collettiva, che lo studio è capace di implementare. In sostanza, si indagherà sull’effettività del diritto allo studio in carcere e i possibili interventi migliorativi dell’istituzione universitaria, quale “organo costituzionale”, attraverso la creazione dei Pup - i Poli universitari penitenziari - a tutela della dignità e dello sviluppo della persona detenuta. Come si è preparato Conte a questo traguardo? Claudio si è preparato a questa ‘impresa accademica’, come lui stesso l’ha definita, studiando durante i mesi di emergenza sanitaria, in condizioni non agevoli anche a causa del caldo estivo e avendo accettato di dividere la cella con un compagno per liberare una camera necessaria all’isolamento sanitario. Soltanto adesso è riuscito a recuperare l’agibilità di una stanza da solo; i tempi e lo spazio per le attività di studio, segnate dai ritmi penitenziari, sono comunque estremamente minimali in carcere e hanno subito un ulteriore restringimento da marzo. Come vi siete conosciuti? Inizialmente attraverso i suoi scritti. Poi, qualche anno fa, grazie a Carla Chiappini, direttore di Sosta Forzata nonché responsabile insieme a Ornella Favero della Redazione Ristretti Orizzonti nel carcere di Parma, con la quale collaboro da tanti anni in varie attività, sono stata invitata nel carcere di Parma per una relazione sul Mezzogiorno, nell’ambito del dibattito sull’ergastolo e sulla sua variante del Fine Pena Mai. Di quella giornata ricordo i complimenti dell’allora direttore del carcere di via Burla, Carlo Berdini, a Claudio Conte. Gli disse: “Lei Conte è un grande costituzionalista, ne sa più di me”. Qual è stato il percorso di studi di Conte? Quando ha iniziata la detenzione si è interrotto il suo percorso delle scuole medie superiori, ha conseguito il diploma in carcere. Poi nel 2016 ha conseguito all’Università Magna Graecia di Catanzaro la laurea in Giurisprudenza con una tesi sull’ergastolo ostativo che gli è valsa una menzione accademica e dignità di pubblicazione nonché un premio come migliore tesi di quell’anno. Quanto è stato stra-ordinario, nel senso di fuori dall’ordinario il suo percorso di istruzione? Ritengo sia straordinario il percorso di tutti coloro che conseguono un diploma e la laurea in carcere: ce lo ha raccontato anche Elton Kalica, cittadino albanese laureato presso il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Padova e che ha conseguito poi il Dottorato di ricerca in Scienze Sociali da libero, dopo aver scontato nel nostro Paese più di un decennio di detenzione. Nel 2019, in occasione di un incontro, Kalica sottolineò che, come lui, sono molti i condannati che, una volta entrati in carcere, si sono laureati acquisendo gli strumenti scientifici necessari per condurre in prima persona studi etnografici, sviluppando ricerche di criminologia critica svolte in carcere e pubblicando i risultati in articoli accademici. Quanto a noi, è in corso di pubblicazione un articolo che abbiamo scritto insieme sulla riforma introdotta dal Codice rosso tra dubbi e carcere. È raro che un detenuto venga ammesso a un dottorato? Intanto è stata rara fino ad oggi l’opportunità per persone detenute di accedere a un Dottorato. A memoria ricordo solo un altro caso, nel 2017. Fu un detenuto nel carcere di Rebibbia a conseguire dopo 22 anni di carcere il Dottorato di ricerca in Sociologia e Scienze applicate, attivato dall’Università di Roma ‘La Sapienza’. Altri Atenei, solo di recente iniziano a immaginare percorsi così difficili già nell’espletazione di un Bando a evidenza pubblica che includa anche persone private della libertà personale le quali non hanno accesso neppure all’informazione. Dalla mia esperienza ho potuto registrare una grande apertura da parte del mondo accademico e penitenziario, ma anche la persistenza di notevoli pregiudizi che ancora resistono rispetto alla possibilità che un percorso di studio e di ricerca così elevato sia percorribile anche da persone così marginali poiché non autonome, private delle condizioni minimali per gestire da sole una candidatura. Come vive, Conte, la sua situazione attuale? Il linguaggio penitenziario usa definizioni per le quali è difficile riconoscervi Claudio, ergastolano ostativo detenuto in Alta Sicurezza1, qualificazioni che se rimaneggiate dalla società restituiscono un’immagine ancora più deformata dell’identità di molte persone detenute. L’istruzione e la cultura gli sono servite per mostrarsi nel modo in cui lui si vede e percepisce ormai da più di un decennio. Claudio non si sente per nulla a suo agio rispetto alle descrizioni approssimative che vengono fatte nelle relazioni dei percorsi di rieducazione penitenziaria. Cosa pensa e cosa prova questa persona per un passato che lui per primo non potrà cancellare non viene mai messo a tema. Chi ha avuto la curiosità e la volontà di conoscerlo è riuscito a comprendere che il contesto nel quale vive ed è immerso stride con la sua nuova identità di studioso. Per questo il mio auspicio è che per lui termini al più presto questo esilio dalla normalità, perché credo che il suo percorso di abiura, revisione, ravvedimento, chiamiamolo come vogliamo, sia già evocativo di quanto meriti libertà e dignità. I suoi familiari sono orgogliosi di lui? Tantissimo. I genitori, le sorelle, il fratello, i cognati, le nipoti, gli zii, il suo amato nonno. Claudio ha questa fortuna rispetto a tante persone nella sua condizione: una famiglia sana, sempre presente e parecchio accudente. Anche lui ama profondamente i suoi familiari, sente il peso della condanna che ha inflitto loro. D’altronde, un uomo che dopo aver superato da troppo tempo i 26 anni di detenzione riesce ancora a resistere e superare il trentunesimo anno da recluso, la forza può trovarla solo nell’amore delle persone che ogni giorno gli rinnovano fiducia e stima. Anche io, naturalmente, provo molta ammirazione per lui: è un ottimo consigliere quando gli racconto di mio figlio, ha imparato a gestire rabbia e paure - è claustrofobico e vivendo in una cella da trentuno anni è facile capire che livello di autocontrollo abbia raggiunto -, è sempre disponibile e molto generoso, aiuta nello studio non solo i compagni detenuti, ma anche gli studenti che entrano in carcere. È un suo personale modo di rimediare facendo del bene alla comunità esterna e a quella che fa parte della sua comunità carceraria. Altro pregio sono i trucchi e gli ingredienti segreti delle sue ricette pugliesi per realizzare pane, focacce, che svela alle persone cui vuole bene. Nel caso di Claudio Conte possiamo dire che la pena è stata rieducativa? Vorrei poter dire che il suo arresto e il carcere hanno interrotto quella che poteva divenire una ‘carriera’ criminale. Ma i fatti smentiscono, a mio giudizio non insindacabile, questa possibile ipotesi. L’allontanamento di Claudio dalla cultura criminale e antistatale appresa nel suo luogo di origine è avvenuto grazie all’istruzione, alla conoscenza della Costituzione e grazie alle varie possibilità di confronto che ha avuto con varie persone durante la sua lunga detenzione. Ha incrociato solo nel contesto carcerario opportunità di accrescimento culturale e persone come Fiammetta Borsellino e Agnese Moro. Ma tutte queste opportunità avrebbe dovuto averle ben prima di entrare carcere. Eppure, ci sono persone che anche nella società esterna vengono private degli strumenti e delle opportunità per vivere appieno il diritto alla conoscenza e all’istruzione perché, soltanto per una pura casualità, nascono nelle regioni del Sud anziché altrove. La prima volta che Claudio viene arrestato ha 19 anni ed è il contatto con questa istituzione così patogena, il carcere, a far crescere in lui quel senso di ribellione che lo porterà a scegliere di associarsi a persone dedite al crimine. Claudio sicuramente ha scelto volontariamente questa strada e per questo motivo trascorrerà ben dodici anni dei trentuno di pena espiata al 41 bis perché giudicato boss della Scu, la Sacra Corona Unita. Un diciannovenne privo di istruzione, tuttavia, non possiede una personalità così matura per operare con lucida consapevolezza dentro un contesto di criminalità organizzata. Le opportunità che Claudio ha avuto in carcere avrebbe dovuto incontrarle sulla sua strada di adolescente nato e cresciuto a Copertino. Se fosse stato affidato a servizi sociali competenti e idonei a recuperare non solo a parole persone che necessitano di interventi e percorsi che contrastino efficacemente ricadute nel crimine, oggi la su biografia non sarebbe segnata da questa orribile condanna al fine pena mai. Come vede, oggi, il sistema penitenziario? Come un sistema che vive con la precisa volontà di pareggiare i conti e vendicarsi per il danno occorso alle vittime e alla collettività. Un sistema che ha prodotto odio, dolore, vendetta, recidiva, un sistema che ha calpestato la dignità delle persone che dichiara di rieducare e che non ammette confronti e nessuna ammissione di colpa; un luogo deputato a peggiorare le persone che vi entrano, sia per espiare una pena che per esercitare una professione. Non è una critica a questo o quel carcere, anzi mi sento solidale con la maggior parte delle persone che lavorano in questi luoghi perché ho avuto la fortuna di conoscere e costruire rapporti di grande collaborazione con direttori, polizia penitenziaria, area educativa, psicologi e sanitari. Certo che di professionisti che non svolgono nella pienezza del loro mandato la professione penitenziaria, che abusano del loro potere e non esitano a esercitare violenza ce ne sono tanti. Sono convinta che anche loro siano vittime di un sistema che ha mostrato ormai tutta la sua inefficacia e financo nocività. È sufficiente guardare ai tassi di suicidio tra i detenuti e il personale di polizia penitenziaria e confrontarli con il numero di suicidi della società esterna. Lecce. Le mamme detenute protagoniste della “Filastrocca delle mani”, storie cucite a mano lecceoggi.com, 10 dicembre 2020 Alcune mamme detenute nella Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce sono le protagoniste di “Filastrocca delle mani”, nata da un laboratorio curato dall’associazione Fermenti Lattici per Storie cucite a mano, progetto triennale selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che coinvolge anche le città di Moncalieri e Roma. Gli incontri sono stati ideati con lo scopo di preservare il legame genitoriale anche in questi tempi difficili in cui genitori e figli sono, purtroppo, distanti. Questa “Filastrocca delle mani” - disponibile su youtube, sui canali social e sul blog percorsiconibambini.it - ci insegna quali sono i comportamenti da adottare per proteggerci dal Covid19 e lo fa con le parole e i gesti premurosi delle mamme e con quel carico d’amore che resta inalterato anche quando si è lontani. Grazie a Storie cucite a mano, l’associazione Fermenti Lattici ha proseguito il lavoro già avviato nel carcere di Lecce con il progetto “Giallo, rosso e blu - I bambini colorano Borgo San Nicola” sostenuto da “Infanzia Prima”, promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, e grazie alla collaborazione e al sostegno con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia. Attraverso attività ed eventi, da alcuni anni vengono coinvolti in maniera attiva bambini, genitori detenuti e liberi, accompagnatori. La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia), alla quale il progetto aderisce, riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. La condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia, è ancora più complessa da qualche mese a causa della pandemia da Covid19. Al momento tutte le attività previste in carcere da Storie cucite a mano sono state sospese in presenza e rimodulate in versione “online” come lo sportello d’ascolto psicologico a cura di PSY Psicologia e Psicoterapia cognitiva integrata e i laboratori che coinvolgono minori e detenuti. Il progetto Storie Cucite a Mano - coordinato dalla Cooperativa Sociale Educazione Progetto di Torino (capofila), dall’Associazione 21 luglio Onlus di Roma e da Fermenti Lattici di Lecce, con il monitoraggio della Fondazione Emanuela Zancan e la comunicazione a cura della Cooperativa Coolclub - è stato selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e coinvolge numerosi partner nei vari territori. Oltre alle amministrazioni comunali di Moncalieri e Lecce e all’Unione dei Comuni di Moncalieri, Trofarello e La Loggia, il progetto vede tra i partner Associazione Teatrulla, Cooperativa Sociale Pier Giorgio Frassati, Istituto Comprensivo Statale “Santa Maria” (Moncalieri), ABCittà società cooperativa sociale onlus, Associazione Garofoli/Nexus, Digiconsum, Istituto Comprensivo Giovanni Palombini, Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio, In.F.O.L Innovazione formazione orientamento e lavoro (Roma), Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce, ABCittà, Istituto Comprensivo “P. Stomeo - G. Zimbalo”, Principio Attivo Teatro, PSY Psicologia e Psicoterapia cognitiva integrata (Lecce). Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione Con Il Sud. Info su www.conibambini.org. Roma. Teatro Libero di Rebibbia, prove aperte live streaming dal palcoscenico del carcere di Anna Maria Fasulo opinione.it, 10 dicembre 2020 I laboratori d’arte teatrale a Rebibbia vanno avanti. Se il pubblico ancora non può tornare ad affollare l’Auditorium del carcere, i detenuti-attori escono virtualmente con due live su Facebook, il 16 e il 18 dicembre alle 17. Il Covid-19 pone restrizioni dolorose a chi già vive recluso: da mesi i colloqui fra detenuti e familiari, infatti, sono quasi interrotti. I pochi momenti di contatto in presenza - gli unici che tengono in piedi la relazione fra coniugi e con figli e genitori - sono sostituiti dalle videochiamate: sarà una consolazione da poco, ma è meglio dell’assordante silenzio che si vive oltre le mura. Anche il Teatro Libero di Rebibbia - come tutti i teatri - è inaccessibile da marzo. Eppure vive, nonostante tutto. Nei mesi più difficili dell’isolamento è stata attivata la didattica a distanza. Poi con cautela sono tornati registi e operatori per ascoltare le voci e catturare le immagini di un momento storico drammatico e senza precedenti, anche per quel mondo parallelo e oscuro che è il penitenziario. Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli coordinano il lavoro delle prove teatrali dal grande palcoscenico di Rebibbia, che dal 2003 ha accolto decine di migliaia di spettatori proponendo William Shakespeare, Anton Pavlovi? ?echov, Bertolt Brecht e Lev Tolstoj, accanto al racconto originale delle vite passate, presenti e future di uomini che hanno provato a volare, con ali troppo fragili, dentro la tempesta di vite al limite. La resistenza teatrale a Rebibbia è pronta da tempo. Era il 2016 quando il carcere entrò in rete, sul web, quando le dirette live streaming sembravano un bizzarro esperimento: mostrare l’invisibile di un palcoscenico nascosto. Oggi che - purtroppo - la voce dei teatranti è soffocata dalla paura del contagio, in molti si organizzano con le nuove tecnologie, come ponte, come traghetto verso il teatro “vissuto” fra scena e platea. Il teatro che presto tornerà più forte e rinnovato. Per ora: a tutto live! I detenuti-attori di Rebibbia - protagonisti di tante avventure teatrali e cinematografiche (si pensi a Cesare deve morire, dei fratelli Taviani, Orso d’Oro al Festival di Berlino qualche anno fa), si presentano al loro “giudice naturale”, il pubblico, in due dirette Facebook. Il 16 dicembre “Icaro e altre Meraviglie”, presentato da Laura Andreini Salerno come prova aperta - una sorta di lezione di volo - del nuovo spettacolo che coinvolge i reclusi del Reparto G8. Il 18 è la volta dei detenuti-attori dell’Alta sicurezza che si avventurano nel progetto su Dante, a sette secoli dalla scomparsa del Poeta della Commedia. Guidati da Fabio Cavalli, inventano con un confronto ardito fra peccati e reati, gironi infernali e bracci penitenziari, nell’infinito sforzo che accomuna tutti, liberi e reclusi, di riuscire alla fine di questo drammatico momento dell’umanità, “a riveder le stelle”. Le Manifestazioni sono nell’ambito del Rebibbia Festival 2020. Il Progetto è vincitore dell’avviso pubblico “Contemporaneamente Roma 2020-2021-2022” e fa parte di Romarama 2020, palinsesto culturale promosso da Roma Capitale. Cagliari. Cada Die Teatro, “Arcipelaghi” in streaming per i detenuti sardiniapost.it, 10 dicembre 2020 Il Cada die Teatro entra in carcere per portare l’arte oltre le sbarre. ‘Arcipelaghi’, uno dei grandi successi della compagnia cagliaritana, sarà messo in scena sul palco de la Vetreria e trasmesso in diretta streaming domani, 10 dicembre, per i detenuti della colonia penale di Isili e il 18 per quelli della casa circondariale di Uta. A fine spettacolo seguirà un momento di confronto. Il duplice appuntamento virtuale si inserisce nel percorso portato avanti dal Cada die “Arcipelaghi: isole differenti in uno stesso mare”. Ispirato al romanzo di Maria Giacobbe, diretto da Alessandro Lay e interpretato da Pierpaolo Piludu e Alessandro Mascia, lo spettacolo narra una vicenda di vendetta e redenzione, una favola nera che trasforma un ragazzino nell’eroe di una storia già scritta, con un finale a sorpresa. “Una riflessione profonda sia sui temi della violenza, della vendetta e della pena, che sulle debolezze e difficoltà che possono spingere qualsiasi essere umano a compiere azioni delittuose - spiega Piludu - un invito a metterci nei panni dei protagonisti della storia facendoci riflettere sul dolore che ogni nostro comportamento può determinare in altri esseri umani”. Il progetto sostenuto dalla Fondazione Sardegna fa parte di un impegno ormai pluriennale del Cada die nel teatro sociale e si intreccia a “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri e sostenuto da 11 fondazioni di origine bancaria, pensato per riunire in maniera sinergica esperienze e progetti di teatro in carcere, per trarne insegnamento e suggerimenti in un confronto tra artisti e operatori. “Lo spettacolo, come fossero vere e proprie isole che man mano affiorano, porta a galla le diverse visioni dei personaggi, fino a formare appunto un arcipelago di verità. Decidere cos’è giusto e cosa no - sottolinea Lay - resta un compito dello spettatore”. “Come operatori penitenziari - chiarisce il direttore degli istituti di Isili e Uta Marco Porcu - dobbiamo cercare di facilitare processi di riflessione e il teatro offre queste opportunità”. Giuseppina Pani, capo area educativa di Uta, esprime l’auspicio che la collaborazione duri nel tempo. “Il teatro - dice - è una esperienza che tutti dovrebbe fare, aiuta a tirare fuori potenzialità nascoste, vincere paure, timidezze, frustrazioni e andare oltre le barriere”. “Io sono libero”, in un libro l’intervista a Giuseppe Scopelliti di Mario Vetere agenziadire.com, 10 dicembre 2020 La prefazione è di Gianfranco Fini. L’ex governatore della Calabria, e sindaco di Reggio Calabria è detenuto per una condanna definitiva a 4 anni e 7 mesi per falso ideologico. Esce oggi, giovedì 10 dicembre, il libro-intervista di Franco Attanasio a Giuseppe Scopelliti dal titolo “Io sono libero” (Luigi Pellegrini editore), con prefazione di Gianfranco Fini. Il testo ripercorre uno spaccato di vita personale e professionale dell’ex governatore della Calabria, e sindaco di Reggio Calabria, al momento detenuto in carcere per una condanna definitiva a 4 anni e 7 mesi per falso ideologico emessa nell’aprile del 2018. Nel processo sono state considerate alcune vicende accadute tra il 2008 e il 2009, quando Scopelliti era primo cittadino della città dello Stretto. “Ho conosciuto e cominciato a stimare Scopelliti a metà degli anni ottanta”, scrive Fini nella prefazione aggiungendo: “e il modo con cui egli ripercorre le tappe della sua carriera politica, da ragazzino, che scappava dall’oratorio per sentire il comizio di Almirante, a segretario nazionale del Fronte della gioventù. Da sindaco, plebiscitato dai suoi concittadini, a governatore della regione, ha rafforzato il mio giudizio positivo sulla sua figura”. “Innanzitutto, sul piano umano - ricorda Fini - Scopelliti non ha mai recitato il ruolo impostogli dalla carica ricoperta. Credeva davvero in quel che diceva e ha cercato di comportarsi di conseguenza, senza presunzione e, meno che meno, arroganza”. “Era cosciente delle difficoltà e dei pericoli cui poteva andare incontro, ma ciò - afferma Fini - non ha mai attenuato la sua ostinata caparbietà di non mollare. Per uno strano scherzo del destino - conclude - questo libro va alle stampe in concomitanza con la tragicomica vicenda dei commissari della sanità calabrese, e per la quale la parola vergogna è la sola possibile”. Il libro sarà acquistabile anche online su Mondadori store, Amazon, Libreria universitaria, Ibs, Unilibro, Rakuten kobo. Scopelliti: “anche 7 ospedali a pochi chilometri distanza” - “Si potrebbe argomentare che l’ottimizzazione della spesa sanitaria sia stata conseguita a causa della chiusura di 18 ospedali e del blocco delle assunzioni. Anche su questo è stata montata artatamente una mistificazione”. Così l’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti nel libro intervista di Franco Attanasio ‘Io sono libero’. Il piano di rientro del settembre del 2009, aveva previsto la riconversione di 11 presidi ospedalieri in case della salute: 8 da trasformare in strutture di lunga assistenza, 5 da riconvertire in strutture riabilitative. Si trattò quindi una razionalizzazione della rete sanitaria che cercava di mettere ordine alla crescita esponenziale di ospedali pubblici senza un criterio oggettivo e di necessita’. “Nella sola Piana di Gioia Tauro - ricorda Scopelliti - in molti evidenziarono che vi fossero sette ospedali a pochi chilometri di distanza, che effettuavano prestazioni ed operazioni chirurgiche inappropriate, ricoveri inopportuni, utili solo a garantire e giustificare il posto di lavoro, anche non necessario, piuttosto che un buon livello di tutela della salute dei cittadini. Erano definiti “presidi di morte”. In qualche ospedale erano a stipendio sei o sette cuochi, ma mancava il servizio di mensa”. Nel Reggino, ad esempio, l’ospedale di Taurianova nel 2010, con una produzione di circa 0,4 mln di euro, con un personale di 93 addetti di cui 17 per l’ufficio attività tecniche e patrimonio e 21 direzione sanitaria costava alle casse della Regione 7,3 milioni di euro. A Palmi, sempre in provincia di Reggio Calabria e sempre nel 2010, a fronte di una produzione di 0,3 milioni di euro la Regione spendeva 14 milioni di euro, con un personale di 99 unità di cui 17 di sola direzione sanitaria. E ancora, a Chiaravalle (Catanzaro) nel 2010 l’ospedale produceva 0,6 milioni di euro a fronte di un costo di 10,4 milioni, con un personale di 166 unità di cui 26 di direzione amministrativa e 24 di direzione sanitaria. L’ospedale di Soriano (Vibo Valentia) nello stesso anno produceva 0,6 milioni di euro con un costo di 8,1 milioni di euro, con 109 unità di personale. A San Marco Argentano (Cosenza) nel 2010 il costo era di 8,9 milioni di euro a fronte di una produzione di 1,2 milioni di euro con 121 unità di personale. Ma anche nella sanità ospedaliera privata si registrò una sensibile diminuzione dei budget, con un circa 30% di tagli. Dal 2014 ad oggi, da parte dei successivi commissari, ancora non si ha notizia della successiva riorganizzazione della rete ospedaliera pubblica che ha portato in questi ultimi mesi ad acuire maggiormente le difficoltà del settore, sotto pressione per via dell’emergenza coronavirus. “Ndrangheta è negazione della civiltà e della cultura” - “Le organizzazioni criminali e, più in particolare, la ndrangheta, sono la negazione della civiltà, della cultura, dell’umanità; tradiscono il patto sociale, alterano le leggi dell’economia e del mercato, generano morte e distruzione. Al di là di questi aberranti effetti, a tutti noti, ho sempre creduto che la ndrangheta sia il principale fattore di limitazione dello sviluppo e del progresso del nostro territorio”. Risponde così l’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti nel libro intervista ‘Io sono libero’ di Franco Attanasio, in uscita domani (Luigi Pellegrini editore). “Da sindaco - si legge ancora - mi sono fortemente battuto per l’adozione di un provvedimento che, mai prima di allora, Reggio Calabria aveva conosciuto: l’assegnazione alla collettività dei beni confiscati alla criminalità organizzata”. “Firmai io, da sindaco - precisa Scopelliti - lo sgombero e l’attribuzione degli immobili occupati dai familiari delle principali cosche di ndrangheta del territorio di Reggio. Nessun altro prima di me l’aveva fatto”. Violenza di genere e diritti umani, una storia che inizia sulla Queen Elizabeth di Rossella Rossini Il Manifesto, 10 dicembre 2020 Giornata internazionale. Il 10 dicembre 1948 veniva approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani. Oggi questo prezioso documento ha collezionato una lunga serie di violazioni e strappi. Sopratutto per quanto riguarda i diritti delle donne. Si conclude oggi la “campagna dei 16 giorni” lanciata nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership e assunta dalle Nazioni Unite per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. L’iniziativa, che dal 1991 ha coinvolto oltre 6.000 organizzazioni internazionali e della società civile in 187 paesi, collega due importanti ricorrenze: la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza di genere e la Giornata Internazionale per i diritti umani. Secondo dati Onu, nel mondo 243 milioni di donne nel 2019 hanno subito violenza da parte del partner o ex partner. In Europa, il 25 novembre il Movimento delle donne curde ha lanciato la campagna “100 giorni” per raccogliere storie di donne abusate e uccise dal governo dell’Akp e raccogliere firme contro le politiche femminicide del regime turco, al fine di chiedere alla Corte dell’Aja di processare Erdogan per crimini contro le donne. Il Rapporto Eures ha rilevato che in Italia le donne uccise tra il 2000 e il 31 ottobre 2020 sono state 3.344, con una escalation nei primi dieci mesi di quest’anno, che hanno registrato 91 femminicidi, uno ogni tre giorni, in gran parte in ambito familiare. Ma la violenza di genere non si esprime soltanto con uccisioni e abusi sessuali. Si esprime attraverso matrimoni forzati e spose bambine, diseguaglianze e discriminazioni. La lotta per contrastarla passa, pertanto, anche attraverso le pari opportunità, nei campi dell’istruzione, dell’occupazione, delle politiche retributive e della carriera professionale, coinvolgendo l’intera gamma dei diritti umani e portandoci nel pieno della Giornata Internazionale che si celebra ogni 10 dicembre. La notte di Capodanno del 1945 una donna alta, avvolta in un soprabito nero, salì a bordo della Queen Elizabeth diretta a Southampton. La nave di linea, ancora verniciata di grigio perché utilizzata per il trasporto delle truppe, si accingeva a solcare nella nebbia e nel freddo un oceano agitato per portare la delegazione degli Stati Uniti, nominata dal neo-presidente Harry Truman, alla prima riunione dell’Assemblea generale dell’Onu che si sarebbe svolta a Londra il 10 gennaio 1946. Era Eleanor Roosevelt, unica presenza femminile nella delegazione, non più First Lady dopo la morte del presidente, Franklin Delano, avvenuta pochi mesi prima e non ancora consapevole di avere imboccato la strada verso il traguardo più importante della sua già illustre carriera: la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sarebbe stata approvata dopo un lungo e intenso lavoro il 10 dicembre del 1948. Di quel documento, destinato a ispirare un gran numero di costituzioni nazionali, compresa la nostra, di trattati postbellici o post-coloniali e a diventare la stella polare dell’esercito di attivisti che si battono per i diritti umani internazionali e per la libertà, Eleanor, eletta all’unanimità alla presidenza della commissione competente, è considerata la principale artefice. La Dichiarazione divenne il pilastro di un nuovo ordine di relazioni internazionali inteso a prevenire il ripetersi degli orrori di due guerre mondiali, del nazifascismo e della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, le cui immagini erano ancora fresche negli occhi del mondo. Basato sul principio per cui il modo in cui una nazione tratta i suoi cittadini non riguarda soltanto quel paese e non è esente da controlli esterni, quel nuovo ordine si è presto rivelato illusorio - in un mondo in cui la salvaguardia dei diritti umani si fa spesso pretesto per interventi armati o pressioni economiche. Ma allora, pur essendoci tutte le ragioni per disperare della condizione umana, un gruppo di uomini e donne eccezionali lottarono con tutta la loro volontà per formulare un insieme di principi chiaro e applicabile in tutto il pianeta. Il compito era irto di ostacoli. 58 nazioni avrebbero lavorato insieme, attraverso i loro rappresentanti, in un consesso internazionale di cui facevano parte paesi capitalisti e paesi comunisti, regimi totalitari e democrazie, sotto la cappa dell’incalzante deterioramento delle relazioni tra l’Urss e l’Occidente. Le barriere da superare erano tante. Ideologiche e politiche, come rivelavano le frizioni esplose ogni qualvolta i delegati sovietici inserivano nei testi clausole di propaganda, o quando si levavano accuse di tentata egemonia delle potenze occidentali. Erano linguistiche, religiose, filosofiche e culturali. Erano economiche e sociali, come emerse quando la delegata indiana evidenziò l’impossibilità di andare oltre l’obbligo della scuola primaria nel definire gli obiettivi in materia di diritti all’istruzione. Ciononostante si giunse a un documento condiviso, composto da un Preambolo e da trenta articoli, di cui ventidue relativi ai diritti politici e civili e otto ai diritti economici e sociali. Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita nella sua terza sessione, approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con quarantotto voti a favore, nessun voto contrario, otto astensioni prevalentemente in area sovietica e due assenze. Eleanor Roosevelt aveva coronato il progetto, condiviso con Franklin Delano, di costruire una grande organizzazione delle nazioni, facendosi artefice in prima persona di quella che, per usare le sue parole, aspirava a diventare “la Magna Charta internazionale di tutti gli uomini in ogni luogo del mondo”. Ma già gli eventi immediatamente successivi, dominati dalla guerra fredda, mandarono quelle speranze in frantumi. Oggi, gli Stati membri delle Nazioni Unire sono 193 e le violazioni dei diritti umani sono una piaga mondiale, come testimoniano i rapporti delle organizzazioni internazionali. Quel vecchio retaggio da “delitto d’onore” che svilisce la vittima di Gianna Fregonara Corriere della Sera, 10 dicembre 2020 Le sentenze hanno una forza propria, sono frutto di un percorso che si spera rigoroso e approfondito. Ma la scelta delle parole del processo può renderle urtanti al punto da farcele ritenere inaccettabili. A Brescia, l’ottantenne che ha ucciso la moglie è stato assolto perché incapace di intendere e di volere. Era addirittura “in preda al delirio” quando ha infierito su di lei, come hanno certificato i periti, una condizione che il diritto preferisce affidare agli esperti della psichiatria. Quello che non possiamo accettare nel verdetto è la motivazione del delirio: la gelosia. Sarà stata anche tale da “stroncare il suo rapporto con la realtà”, da lasciare l’autore dell’uxoricidio ai suoi fantasmi e determinare “un irrefrenabile impulso omicida”. Ma non siamo in una tragedia shakespeariana, di mezzo c’è una povera moglie uccisa nel suo letto a coltellate. Sentiamo che il richiamo alla gelosia svilisce la vita e la morte della vittima consegnandola al retaggio del delitto passionale, se non del delitto d’onore, quasi un reato di serie B. Non è la prima volta: un anno e mezzo fa, la Corte d’Appello di Bologna parlò “di tempesta emotiva” per descrivere l’alterazione da gelosia dell’autore di un femminicidio. Ai giuristi ora toccherà cimentarsi sulla correttezza delle motivazioni della decisione dei giudici di Brescia, a noi resta l’irritazione di pensare che situazioni così dolorose non meritino qualche attenzione in più per rassicurarci che sia chiaro a tutti che non è solo questione di rispettare i codici ma di riaffermare che attenuanti tollerate per troppo tempo non possano essere interpretate come nuovi alibi. Decreto sicurezza, la Camera archivia le norme di Salvini di Carlo Lania Il Manifesto, 10 dicembre 2020 I voti a favore sono stati 298. Tre grillini votano in dissenso dal Movimento. Con 298 voti a favore, 232 contrari e nove astensioni la Camera ha approvato ieri il nuovo decreto sicurezza che passa ora al Senato dove è già atteso dal voto di fiducia. I tempi per l’approvazione del provvedimento, che chiude definitivamente l’era dei decreti anti immigrazione di Matteo Salvini, sono stretti visto che la scadenza è prevista per il 20 dicembre. Questa mattina la conferenza dei capigruppo deciderà il calendario dei lavori ma è quasi certo che il voto finale dell’aula del Senato verrà fissato al massimo per venerdì della prossima settimana. Quello che a torto o a ragione è considerato come il provvedimento bandiera della Lega si prepara dunque a lasciare definitivamente le scene della politica italiana. Certo restano i dubbi su possibili sorprese in arrivo da qualche senatore dissidente del M5S, ma la strada sembra ormai tracciata. Un esempio del malumore grillino si è avuto anche ieri alla Camera dove tre deputati hanno votato contro il decreto in dissenso con il gruppo e altri tre si sono astenuti. E dura è stata la protesta della Lega, che dopo aver ricordato al M5S di aver votato i decreti sicurezza di Salvini nel precedente governo Conte 1, ha esposto uno striscione con la scritta “Stop al decreto clandestini” mentre dalla tribuna veniva mostrata una gigantografia raffigurante Conte e Salvini insieme al momento dell’approvazione dei provvedimenti. “Noi del Movimento 5 Stelle siamo decisamente diversi dagli altri schieramenti e soprattutto dalla Lega”, è stato la replica del presidente della Commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia. “E questa differenza sta tutta nel fatto che noi abbiamo scelto di restare al timone, continuare a batterci e a metterci la faccia per cercare di risolvere i problemi”. Critiche ai precedenti decreti sicurezza erano arrivate in passato anche dal presidente Mattarella che aveva sottolineato la necessità di una parziale riscrittura. Le modifiche apportate vanno oltre le richieste del Quirinale e reinseriscono, come stabilito da una sentenza della Corte costituzionale, anche la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi alle anagrafi comunali. Tra le novità più importanti alcune riguardano le navi delle ong che effettuano soccorsi in mare. Il salvataggio dei migranti in difficoltà deve essere svolto dopo aver avvisato il Paese di bandiera e il centro di coordinamento competente, comprendendo tra questi anche quello di tripoli, condizione che ovviamente nessuna ong accetterà mai. Spariscono in compenso le maxi multe per le navi delle ong che non rispettano il divieto, imposto dal Viminale in accordo con i ministeri dei Trasporti e della Difesa, di ingresso nelle acque territoriali. Le nuove sanzioni sono comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro ma potranno essere inflitte solo dopo l’intervento di un giudice. Prevista inoltre la possibilità di tramutare i permessi umanitari n permessi di soggiorno se il migrante ha trovato un lavoro, mentre sarà vietato espellere stranieri che in patria rischiano persecuzioni politiche, tortura o per ragioni di razza, sesso e religione, ma anche se corrono rischi per il loro orientamento sessuale o l’identità di genere. Per queste persone è prevista la possibilità di richiedere un permesso umanitario. Altra novità importante riguarda a creazione del Sai, il Sistema di integrazione e accoglienza. Sono previsti due livelli di prestazioni: il primo per i richiedenti asilo e il secondo destinati a coloro i quali è stata accolta la domanda di e per i quali sono previsti servizi finalizzati all’integrazione. Novità anche per quanto riguarda il decreto flussi: nel caso non venga pubblicato nel corso dell’anno il presidente del consiglio può emanarlo ugualmente senza tener conto del tetto di ingressi fissato l’anno precedete. Da sottolineare infine anche i tempi di attesa per la risposta alle domande di cittadinanza, che tornano a 24 mesi prorogabili fino a 36, e la cosiddetta “norma Willy” che prevede multe per chi partecipa a risse fuori dai locali, ma anche la reclusione da sei mesi a sei anni nel caso ci sia un ferito o un morto. Soddisfazione per il via libera dato dalla Camera al nuovo decreto sicurezza è stata espressa dal viceministro dell’Interno Matteo Mauri: “Il voto di oggi - ha detto - rappresenta un passo importantissimo per tornare a gestire il fenomeno migratorio con razionalità e nel rispetto del diritto internazionale”. Analogo il commento del deputato di LeU Erasmo Palazzotto, per il quale “oggi si chiude una pagina oscura della nostra democrazia, ripristinando almeno in parte i principi di civiltà giuridica che erano stati calpestati da quella che non esito a definire un’aberrazione del Diritto, ovvero i decreti Salvini”. Migranti. Nel Cpr di Milano la quarantena nega il diritto alla difesa di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 dicembre 2020 La denuncia di quattro associazioni: “Se le autorità non possono garantire i diritti in questione i Cpr devono cessare la propria attività”. L’isolamento sanitario ha impedito alle persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli, a Milano, di incontrare per due settimane i propri avvocati e quindi esercitare il diritto alla difesa. È la denuncia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), dell’organizzazione di volontariato Naga, della campagna Lasciatecientrare e della rete Mai più lager-No ai Cpr. “Se le autorità competenti non possono garantire i diritti in questione anche in vigenza dei protocolli necessari per la tutela della salute delle persone trattenute, del personale e dei legali, i Cpr devono cessare la propria attività”, affermano le associazioni. I fatti risalgono ai quattordici giorni che vanno dal 16 al 30 novembre. Dopo che due tamponi hanno dato esito positivo al Covid-19 i circa quaranta reclusi sono stati completamente isolati. Il caso più drammatico è quello di un cittadino tunisino: a fine novembre avrebbe dovuto incontrare l’avvocato per firmare la nomina, ma il colloquio non si è potuto tenere. L’uomo ha tentato il suicidio due volte e al momento si trova ricoverato all’ospedale Niguarda senza aver ancora nominato il difensore. Gravi conseguenze hanno poi riguardato otto minori che non avrebbero mai dovuto trovarsi dietro le sbarre e invece ci sono rimasti per quasi tre settimane perché la procedura di accertamento dell’età è stata congelata per tutta la durata della quarantena. Le ulteriori restrizioni si sono inserite in un quadro che le associazioni giudicavano già “fortemente critico” per le modalità di svolgimento dei colloqui con gli avvocati e la libertà di corrispondenza con il mondo esterno delle persone detenute. Nel Cpr milanese sono spesso assenti mediatori professionisti, manca la riservatezza nei colloqui e il diritto di comunicare con l’esterno è limitato. Lo hanno scritto in una lettera inviata il 27 novembre ai garanti dei detenuti, al tribunale di Milano e al giudice di pace. Le autorità competenti hanno risposto sulla questione dell’isolamento forzato affermando che è stato disposto nel rispetto del protocollo emergenziale. Vista l’evoluzione generale della pandemia, però, è difficile pensare che quei contagi rimangano un caso isolato. Il rischio di nuove gravi violazioni è dietro l’angolo. La struttura di via Corelli ha riaperto il 29 settembre scorso tra le proteste di una parte della cittadinanza. Da allora è stata teatro di diverse rivolte. L’ultima, domenica scorsa, sembra averne reso inagibile una parte. L’amministrazione del centro è stata interpellata dal manifesto ma non ha voluto chiarire se e dove le persone delle aree danneggiate siano state spostate. Il Cpr è gestito da Luna Scs e Versoprobo Scs. Egitto. Decine i detenuti legati all’Europa: chi sono gli “altri” Zaky di Antonio Michele Storto euronews.com, 10 dicembre 2020 Per un attimo, probabilmente, i suoi cari avevano sperato di poterlo riabbracciare almeno in tempo per il Natale copto, che cade il 7 di gennaio. Ma per Patrick Zaky - lo studente egiziano che lo scorso febbraio fu arrestato con l’accusa di “propaganda sovversiva” poco prima di poter tornare a Bologna, dove stava svolgendo il programma Erasmus - la detenzione si prolungherà di almeno un altro mese e mezzo. Zaki, che come ha sottolineato Amnesty international proviene da una famiglia cristiana di rito copto, dovrà quindi trascorrere in una cella del carcere di Tora, a sud del Cairo, anche il giorno della natività. Ma il suo caso - che pure ha trovato una enorme eco mediatica e politica, con appelli per la scarcerazione arrivati anche da celebrità come Scarlett Johansson - non è certo l’unico a far discutere circa la violenza con cui il regime di al-Sisi tende a trattare il dissenso. Soltanto nella stessa seduta di Zaky, oltre 700 misure di sorveglianza sono state confermate dal giudice del Terzo circuito della Corte penale, deputato in teoria occuparsi di “terrorismo”, una voce sotto la quale in realtà in Egitto vengono spesso incasellate vicende di dissenso e propaganda scomoda al regime, come nel caso di Giulio Regeni. “Soltanto un imputato su 738 è riuscito a riguadagnare la libertà nella stessa sessione” ha spiegato a Euronews Hussein Baoumi, ricercatore e portavoce di Amnesty International in Egitto. Gli “altri” Zaky - Tra i 737 imputati che i giudizi egiziani hanno ritenuto di lasciare in carcere, Zaky non era peraltro l’unico ad avere legami con l’Europa, circostanza questa che fin dall’inizio ha fatto della sua detenzione un caso mediatico e politico. La misura di sorveglianza, lunedì scorso, è stata prolungata ad esempio anche per Ramy Shaat, un attivista palestinese sposato con Céline Lebrun, cittadina francese ed insegnante di scienze politiche, che, parlando con l’agenzia AFP, ha rimarcato come il fascicolo del marito sia rimasto “completamente vuoto”. “Le accuse di ‘disordini contro lo Stato’ - ha aggiunto la donna - sono prive di qualsiasi prova o fondamento”. Ad oggi, la custodia cautelare per Shaat è stata rinnovata 19 volte in 17 mesi. Céline ha potuto parlargli al telefono soltanto due volte, una volta nel maggio 2020 e l’ultima nell’agosto dello stesso anno. La Professoressa Lebrun è fortemente critica nei confronti dell’approccio “cerchiobottista” adottato dalla Francia, che nell’Egitto di al Sisi vede un “fattore di stabilizzazione regionale”, ragione che, due giorni orsono, per Emmanuel Macron è stata sufficiente a riconfermare l’intenzione di continuare a vendere armi a quello che oggi è il miglior cliente della Francia, l’Egitto di Abdel Fatah al-Sisi. “Ho l’impressione che l’Egitto assomigli sempre più ad una pentola a pressione pronta ad esplodere”, dice la docente, secondo la quale dissidenti come suo marito potrebbero “canalizzare un’opposizione pacifica e democratica”. Secondo Lebrun l’Unione Europea e le istituzioni internazionali “hanno i mezzi per far ragionare l’Egitto”. La prova provata di ciò sarebbe il rilascio di altri tre attvisti di primo piano, Gasser Abdel Razek, Mohamed Basheer e Karim Ennarah, dirigenti della medesima ong egiziana a cui faceva riferimento anche Zaky, la Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) e scarcerati proprio in seguito alle forti pressioni ricevute dalla comunità internazionale, che hanno trovato un aprice con l’appello di 17 Ong alle quali si è unita anche la voce di Scarlett Johansson. I timori per l’avvocata dei diritti umani - Tra gli imputati di accuse come “propaganda sovversiva o incitamento alla violenza e al terrorismo” che i giudici egiziani hanno lasciato in carcere, spicca poi il caso di Hoda Abdelmoniem, avvocata 63enne specializzata in violazioni dei diritti umani, molto conosciuta in Egitto, la cui figlia - che vive a Bruxelles - si sta battendo ormai da due anni per la sua liberazione. L’ultima volta i suoi familiari - ai quali continua ad essere negata ogni visita in carcere - hanno potuto vederla durante un’udienza dello scorso 27 ottobre; ma nel frattempo, Abdelmoniem sarebbe stata ricoverata per insufficienza renale, e le sue condizioni sembra siano in rapido peggioramento. C’è poi il caso di Karim Ennarah, uno dei tre attivisti rilasciati la scorsa settimana, sposato con una cittadina britannica; i cui beni, esattamente come per gli altri due compagni scarcerati, sono stati congelati dal governo egiziano. Giornalisti deportati - “Se si parla di casi con una qualche connessione con l’Europa - spiega Baoumi - non si può non menzionare i numerosi giornalisti deportati per aver infastidito il regime nello svolgimento del loro lavoro”. Tra questi - sottolinea Baoumi - c’è anche un’italiana, Francesca Borri, che lo scorso autunno fu trattenuta e poi espulsa dall’aeroporto del Cairo, dov’era appena arrivata per uno dei suoi reportage. C’è poi Bel Trew, giornalista britannico del Times, che fu arrestato e poi espulso mentre lavorava nel quartiere di Shubra, sobborgo operaio del Cairo. Tra i più recenti c’è poi il caso di Ruth Michaelson, una giornalista tedesco-britannica che lavorava per il Guardgian, e che lo scorso marzo le forze di sicurezza hanno pensato bene di espellere per aver suggerito che i casi di Covid nel Paese potessero essere molto più numerosi rispetto alle cifre ufficiale fornite dal governo. Basta con il lassismo - Secondo molti analisti, commentatori ed esperti di diritti umani, le politiche repressive di al-Sisi,oltre che dall’approccio “cerchiobottista” adottato dalla Francia, sarebbero state incoraggiate anche dal lassez faire molto più pronunciato da parte dell’amministrazione Trump, che secondo Baoumi avrebbe offerto “supporto incondizionato, non vincolato ad alcuna forma di rispetto dei diritti umani”. Per questo, attivisti e Ong raccomandano di subordinare qualsiasi aiuto all’Egitto a progressi concreti sul tema dei diritti umani, come del resto è nelle intenzioni del presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden. Egitto. La Farnesina rompa il silenzio sulla vicenda di Patrick Zaki di Pierfrancesco Majorino* huffingtonpost.it, 10 dicembre 2020 La famiglia di Patrick Zaki ha ragione: il governo italiano dovrebbe fare molto di più. Solitamente schivi, il padre e la sorella dello studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto al Cairo ricordano in queste ore al governo italiano che si dovrebbe agire con determinazione per ottenere la sua scarcerazione. Hanno aspettato per dieci mesi gli esiti di una vicenda in cui la legalità è una beffa. Cristiani copti, illusi dalla pressione internazionale che solo qualche giorno fa aveva costretto l’Egitto a scarcerare i dirigenti di Eipr ed ex colleghi di Patrick, speravano ancora di poter riabbracciare il figlio per Natale. Sabato il suo caso è stato trattato in un’aula dov’erano rinchiuse nella gabbia degli imputati altre 700 persone: una dimostrazione di quel che sta accadendo in Egitto. Le millantate “prove” delle accuse di cospirazione a suo carico non vengono mai presentate in aula perché Patrick non riesce a ottenere nemmeno un processo. Nonostante la presenza in aula di ambasciatori di vari paesi europei che stanno seguendo il suo caso, fra cui quello italiano, domenica abbiamo saputo che sarebbe andata a finire come nelle udienze precedenti: altri 45 giorni di detenzione preventiva, e il limite massimo è di due anni di rinnovi consecutivi. Vogliamo aspettare che trascorrano tutti, mentre a Patrick vengono negati perfino i libri dell’università e dorme sul pavimento di una cella perché gli hanno portato via anche il materasso? Mentre dal Parlamento Europeo a più riprese siamo intervenuti per chiedere che il suo caso ricevesse tutta l’attenzione diplomatica possibile, il governo italiano tace, e in Francia Macron riceve Sisi con tutti gli onori, descrivendolo come un presidente “democraticamente eletto” - dimenticandosi del golpe del 2013 e dell’incarcerazione degli altri candidati. La realtà è che solo i partner commerciali e militari dell’Egitto possono determinare una svolta, ponendo fine a queste pagine oscure - che in Italia dovremmo conoscere bene, visto l’assassinio di Giulio Regeni che ancora attende giustizia - e pretendere che i diritti umani siano non solo rispettati per tutti, inclusi i dissidenti egiziani, ma smettano una volta per tutte di essere merce di scambio. Il silenzio della Farnesina sul caso di Patrick Zaki comincia a essere molto pesante, e sono convinto che dobbiamo ricorrere a tutti gli strumenti diplomatici a nostra disposizione per ottenere che Patrick possa tornare a studiare e a vivere una vita piena, a cominciare dal richiamare l’ambasciatore. *Europarlamentare Pd Iran. “L’esecuzione di Djalali rinviata di una settimana, il rischio resta alto” di Barbara Cottavoz La Stampa, 10 dicembre 2020 Maratona di scienziati su Youtube in difesa del ricercatore iraniano. Non si ferma la mobilitazione del mondo accademico per chiedere la liberazione del medico condannato a morte in Iran: oggi l’iniziativa dell’Università del Piemonte orientale con 160 interventi da tutto il mondo. “La decisione è stata rinviata di una settimana, ma il rischio che l’esecuzione venga attuata è molto alto”: l’annuncio apre la Maratona accademica a favore del ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, condannato a morte con l’accusa di spionaggio dal tribunale di Teheran. Dalle 15 di oggi (9 dicembre) fino alla stessa ora di domani sul canale Youtube dell’Università del Piemonte Orientale oltre 160 scienziati di tutto il mondo, tra cui premi Nobel, attivisti contro la pena di morte e accademici si passeranno il testimone in una lunga maratona di parole e scienza in difesa della libertà di Djalali e della ricerca. Djalali si trova ancora al carcere di Evin dov’è rinchiuso dall’aprile 2016: il trasferimento nella prigione di Rajaei Shahr Karaj dove avvengono le esecuzioni era stato bloccato all’ultimo momento, nei giorni scorsi. Ieri l’avvocato iraniano del ricercatore ha avvisato la moglie Vida Mehrannia che si trova in Svezia del rinvio di una settimana dell’esecuzione. Si spera che la diplomazia internazionale dell’Unione europea e dei Paesi per cui il ricercatore ha lavorato come Italia, Belgio e Svezia possa ottenere la cancellazione della pena di morte e la liberazione del medico. Djalali è allo stremo delle sue forze fisiche e psicologiche dopo quattro anni e mezzo di detenzione dura, processi di cui non è possibile avere la sentenza scritta e confessioni che secondo Amnesty sono state estorte con minacce. L’introduzione della Maratona è tenuta dal rettore dell’Università del Piemonte Orientale Gian Carlo Avanzi, da Francesco della Corte, direttore del centro di ricerca Crimedim in cui ha lavorato Djalali e dall’amico e collega Luca Ragazzoni, che dal 2016 sostiene la mobilitazione mondiale per la sua liberazione. Tra i relatori più illustri c’è alle 17,20 il premio Nobel sir Richard Roberts, alle 18,10 Paolo Vineis dell’Imperial College di Londra e consulente della Regione mentre a mezzanotte Massimo Azzaretto, docente al Crimedim, terrà un intervento intitolato “Ahmad: my best student”. I temi saranno i più diversi: dalla psichiatria a al Covid, dall’osteoporosi all’abolizione della pena di morte in Italia, tema affrontato alle 6,15 da Massimo Cavino, direttore di Economia all’Upo. Cina. Big data e polizia predittiva al servizio della repressione di Serena Console Il Manifesto, 10 dicembre 2020 Big data, crediti sociali e polizia predittiva sono utilizzati per identificare gli uiguri da internare nei centri di rieducazione della regione cinese dello Xinjiang. Sono proprio le tecnologie di ultima generazione a essere finite al centro di un rapporto shock diffuso dalla Human Rights Watch (Hrw), basato su un leak ottenuto nel 2018, che fa luce sugli strumenti utilizzati da Pechino per garantire l’efficacia del sistema detentivo nella regione autonoma cinese. Il gruppo per la tutela dei diritti umani ha trascorso gli ultimi due anni ad analizzare un database contenente i nomi di 2000 uiguri detenuti tra il 2016 e il 2018 nella prefettura di Aksu. La Hrw, con i documenti ottenuti da una fonte anonima, mantiene accesi i riflettori sulla campagna di repressione e detenzione che colpisce le minoranze musulmane in Cina. Nel rapporto, la Hrw evidenzia la funzionalità della Piattaforma integrata per le operazioni congiunte (Ijop), che gioca un ruolo chiave nel tenere traccia delle reti personali degli individui, della loro attività online e della vita quotidiana. L’analisi del leak, inoltre, suggerisce che la maggioranza delle persone è finita nei centri pur avendo comportamenti leciti e non violenti. È facile finire nel mirino delle autorità. Numerose sono le trasgressioni che portano all’arresto arbitrario e senza un processo giudiziario: studiare il Corano, avere rapporti con parenti residenti in “Paesi sensibili” (come Turchia, Afghanistan, Arabia Saudita e Kyrgyzstan), osservare i precetti della religione musulmana, oppure essere nati dopo gli anni ‘80; anche non pagare l’affitto o praticare la poligamia rientrano nella lista di comportamenti di persone “generalmente inaffidabili”. Ma a determinare la detenzione è anche l’utilizzo di alcune app o la condivisione sul web di contenuti terroristici. La lista dei detenuti nella prefettura di Aksu, che segue la recente pubblicazione di un altro database con i nomi dei prigionieri nella contea di Karakax - sempre nello Xinjiang - presenta una condizione allargata al contesto nazionale. La Hrw ritiene che il sistema Ijop è utilizzato anche al di fuori della regione. La China Electronics Technology Group Corporation, la società che si è occupata della progettazione e distribuzione dell’Ijop nello Xinjiang, lo scorso gennaio ha venduto la Ijop alle autorità di Yinchuan, capitale della provincia di Ningxia, dove c’è un’alta concentrazione dell’etnia musulmana Hui. Valore di vendita: 43 milioni di dollari. I giganti tecnologici cinesi traggono profitto dalla repressione esercitata dal Partito comunista cinese sulle minoranze etniche di fede musulmana. Huawei, il colosso con sede a Shenzhen, nel 2018 ha testato un software di riconoscimento facciale che consente di inviare una notifica o un segnale di allarme alle autorità cinesi quando i sistemi di videosorveglianza riconoscono i tratti del viso di uno uiguro. A rivelarlo è un documento interno firmato dai rappresentanti di Huawei, ottenuto dalla società statunitense di videosorveglianza Ipvm e condiviso con il Washington Post. In base al rapporto, Huawei ha lavorato con l’azienda cinese Megvii per progettare un sistema di telecamere a intelligenza artificiale, capace di scansionare i volti delle persone, stimando l’età, il sesso e l’etnia. Un meccanismo in grado di funzionare con precisione anche nelle trafficate strade cinesi. Il documento, attualmente rimosso dal sito web di Huawei, potrebbe alimentare le polemiche sul colosso tecnologico, ritenuto dall’amministrazione Trump un’arma di spionaggio nelle mani del Pcc. In base alle rivelazioni pubblicate dalla testata Usa, Huawei e Megvii hanno fornito congiuntamente una soluzione di riconoscimento facciale basata sulla soluzione cloud video di Huawei; nel dettaglio, Huawei ha fornito i server, lo spazio di archiviazione, le apparecchiature di rete, la sua piattaforma cloud FusionSphere, oltre a fotocamere e videocamere, mentre Megvii ha condiviso il software del sistema di riconoscimento facciale dinamico. Tuttavia, i due giganti tecnologici negano che il sistema di telecamere sia stato progettato per rafforzare il controllo sociale su base etnica.