Un’idea per rendere le carceri gestibili, subito di Edmondo Bruti Liberati* Il Foglio, 9 aprile 2020 Bisogna fare uscire un numero significativo di detenuti, escludendo i più pericolosi. Covid-19 ha mutato il nostro modo di vita, ha determinato sofferenze e lutti, conseguenze drammatiche sull’occupazione e sull’economia. Nulla è e sarà più come prima. È possibile affidarsi alla sorte pensando che il pianeta carcere sia in un altro sistema solare? Gli agenti armati sulle mura di cinta vigilano contro le evasioni, ma non fermano il virus. Vi è una serie di contatti con l’esterno che passano per gli agenti penitenziari e per le molte persone che contribuiscono alla gestione della struttura. In caso di epidemia la situazione rischia di andare fuori controllo; sarebbe difficile garantire protezioni agli stessi agenti penitenziari, ai direttori e a tutto il personale che opera in carcere. Tra i detenuti, il timore per l’infezione, eventualmente anche sollecitato e sfruttato da quei, pochi ma di peso, detenuti pericolosi, potrebbe rendere la situazione ingestibile. L’esperienza, anche recentissima, mostra che le prime vittime delle rivolte in carcere sono i detenuti non pericolosi (la grande maggioranza), assoggettati alle sopraffazioni dei, pochi, pericolosi. Le ricadute di situazioni fuori controllo sull’ordine e la sicurezza pubblica sarebbero disastrose. Ridurre il sovraffollamento del carcere è oggi necessario e urgente. Vi sono stati appelli di alte autorità in Italia e in Europa; analisi e proposte dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale e della magistratura di sorveglianza. Il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi si è rivolto a tutti i magistrati: “L’emergenza coronavirus costituisce un elemento valutativo nell’applicazione di tutti gli istituti normativi vigenti”. I magistrati di sorveglianza sono impegnati, in condizioni difficilissime, nell’applicazione delle attuali misure alternative al carcere, ma ne hanno indicato al Ministro della Giustizia l’assoluta insufficienza. Le proposte tecniche non mancano: dalla immediata detenzione domiciliare per coloro con residuo di pena non superiore a due anni, alle riduzioni di pena per la “liberazione anticipata per buona condotta”, alla sospensione degli ordini di esecuzione per i reati non gravi. Per i semiliberi disporre che non rientrino in carcere la sera. E poi lasciamo da parte ipocrisie intollerabili. Non riusciamo a produrre in numero sufficiente apparecchi di respirazione, camici e nemmeno di mascherine. Pensa qualcuno, il Ministro o altri, che oggi con una bacchetta magica compaiano quei braccialetti che ieri non c’erano? È fuori del mondo la sicurezza matematica che nessuno di coloro che usciranno dal carcere commetta nuovi reati. Ma indiscusse statistiche di lungo periodo hanno dimostrato che la percentuale di recidiva è enormemente più bassa per chi è stato ammesso a misure alternative alla detenzione. Piuttosto, occorre pensare a strutture essenziali dove far alloggiare e quindi anche poter controllare coloro che un domicilio non l’hanno. La situazione di quasi-coprifuoco che è in atto riduce di molto la concreta possibilità di compiere quei reati predatori che più possono preoccupare. Le mura di cinta del carcere non tracciano la rassicurante linea tra i buoni e i cattivi. In carcere sono legittimamente detenute persone condannate per aver commesso un reato o in custodia cautelare, quando il sistema di giustizia ha ritenuto questa misura indispensabile. Per tutta la mia carriera mi sono occupato di penale e per diversi anni sono stato magistrato di sorveglianza. In carcere ho conosciuto sia molti violenti e sopraffattori, sia persone, anche tra condannati per reati non lievi, che non potevo liquidare con la categoria dei “cattivi”. Tutti gli argomenti “umanitari” sono già stati messi in campo. Ma vi è un argomento puramente utilitaristico. È nell’interesse generale della collettività, se si vuole, delle persone “per bene”, che il carcere sia gestibile, facendo uscire subito un numero significativo di detenuti, con esclusione delle categorie di pericolosi. Nell’interesse dell’ordine e della sicurezza pubblica. Ora vi è un ruolo per gli intellettuali: personaggi pubblici autorevoli, non solo giuristi, di diverse tendenze, compresi rispettabili sostenitori di “legge e ordine”, di “tough on crime”, ma consapevoli dell’eccezionalità della situazione si impegnino a far passare un messaggio di razionalità, che possa far breccia nell’opinione pubblica e indurre tutte le forze politiche, il ministro della giustizia e anche le forze della attuale opposizione, a un’assunzione di responsabilità. *Magistrato, già procuratore capo di Milano Carceri, dove il distanziamento è impossibile di Francesco Grignetti La Stampa, 9 aprile 2020 Duello tra chi spinge per mandare più detenuti ai domiciliari e chi è contrario a ogni cedimento. Il Capo della polizia, Franco Gabrielli: “Al momento la situazione è sotto controllo. Ma il monitoraggio è attento”. I dirigenti della Polizia penitenziaria a Conte: “Fare di più o si rischiano nuove sommosse”. Roma. Si parla molto delle residenze per anziani dove il virus è dilagato e si piangono tanti morti. C’è però un’altra emergenza: le carceri. Come è facilmente comprensibile, il distanziamento sociale è impossibile in cella. Tanto più che negli istituti penitenziari c’è un notevole sovraffollamento. Stando ai dati del 7 aprile, i detenuti sono 56.238, almeno 9.000 più della capienza regolamentare. E se si volesse garantire un minimo di distanziamento occorrerebbe andare anche oltre. Qualcosa si è fatto: dal 18 marzo al 7 aprile, sono stati concesse 1.361 detenzioni domiciliari; e sono state date 405 licenze a persone in semilibertà. Considerando anche i minori ingressi per il calo dei reati, in un mese sono circa 4.000 detenuti in meno nelle carceri. Altri dovrebbero seguire con i braccialetti elettronici. Ma basterà a disinnescare una bomba biologica a tempo? Per fortuna le misure di prevenzione finora hanno funzionato. I freddi numeri dicono che su 37 detenuti positivi al Covid-19, ben 25 sono concentrati in quattro realtà. Per gli altri 12 si tratta di una distribuzione puntiforme, di uno o due casi al massimo. Le quarantene però coinvolgono molte centinaia di detenuti, in quanto si procede per intere sezioni da 38 detenuti alla volta. Quanto al personale della polizia penitenziaria, si contano ben 158 contagiati. Su questa realtà di fatto si sta giocando una partita durissima, con la Lega di Matteo Salvini che da giorni spara a zero e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che tiene a concedere il minimo indispensabile. Il Pd ha invece rotto gli indugi e con il suo responsabile Giustizia, Walter Verini, chiede “più coraggio”. Anche Mauro Palma, il Garante per i diritti dei detenuti, ritiene necessari interventi più decisi: “Per dare una indicazione concreta di come sia possibile intervenire - sostiene Palma - può bastare il fatto che sono poco meno di 8.000 le persone detenute con una pena o un residuo pena inferiore a un anno e circa 3.500 coloro che hanno da scontare da un anno a 18 mesi. Anche limitando la platea dei possibili fruitori a quella stessa che il decreto ha individuato, e che certamente non è larga, occorre riuscire a rimuovere il più possibile gli ostacoli che non rendono agevole la concessione della detenzione domiciliare”. C’è però un enorme problema. Chi tra i detenuti stranieri non ha un domicilio e che quindi non sembra avere alternative alla cella. Dice ancora Palma: “Il tema chiama in causa i territori e la capacità di dare un alloggio a quelle persone che non ne dispongono. A questo proposito il Garante accoglie molto positivamente la delibera di finanziamento di 5 milioni di euro che la Cassa delle ammende ha adottato per interventi necessari per la presa in carico delle persone di elevata fragilità sociale e per favorirne l’inclusione”. Anche la magistratura si sta ponendo il problema. Il Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, ha inviato una nota ai Procuratori generali presso le Corti d’Appello (molto apprezzata dal Garante), sollecitando il ruolo di tutte le Procure nella riduzione della popolazione carceraria in questo periodo di emergenza sanitaria, richiamando il “rischio epidemico concreto e attuale”, gli “stringenti limiti alla circolazione previsti dalla normativa emergenziale”, le “ragioni di salute”, la necessità “di alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere”, le “esigenze” e le “regole di distanziamento sociale”, le “esigenze di prevenzione dal rischio di contagio di persone in detenzione”. In questo dibattito, molto aspro, si registra un’inedita spaccatura tra chi, la Polizia penitenziaria, è in prima linea. “Abbiamo la certezza - ha scritto al governo l’Associazione nazionale tra il personale della carriera dei Funzionari di Polizia Penitenziaria - che il virus in carcere non si diffonda? Ed in caso di sommosse o altre rivolte, il Governo è in grado di inviare squadre antisommossa per fronteggiare 50mila detenuti avviliti e disposti a tutto? Se la risposta è sì, allora ci ritiriamo in buon ordine”. La domanda dei dirigenti del Corpo è retorica. L’ultimo problema del ministero dell’Interno e del governo intero è una nuova fiammata di rivolte nelle carceri. “Se la risposta non è affermativa - insistono i dirigenti della Polizia penitenziaria - allora chiediamo di valutare urgentemente forme deflattive più consistenti, che senza passare per amnistie o indulti, deflazionino sensibilmente le presenze dentro le mura e permettano una gestione più lineare dell’emergenza”. Può sembrare un cedimento ai violenti. Secondo i dirigenti della Polizia penitenziaria, al contrario, sarebbe una mossa scaltra per prevenire problemi nelle carceri e allo stesso tempo disinnescare strumentalizzazioni politiche. “Se azione deve essere, sia una scelta forte, ma fatta dallo Stato e per lo Stato, per i suoi cittadini, perché altre rivolte o disordini in carcere in questo momento costituirebbero solo una grave questione di ordine pubblico e salute pubblica”. I primi a non avere digerito questo appello, però, sono altri sindacalisti del Corpo, “sorpresi e indignati” di quanto sopra. Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso, dirigenti anch’essi della Polizia penitenziaria, segretario generale aggiunto l’uno, segretario nazionale l’altro del sindacato autonomo Sappe. “Certe dichiarazioni di resa - scrivono - non le condividiamo, perché riteniamo che, al momento, non ci sia alcuna emergenza sanitaria, tale da giustificare provvedimenti deflattivi”. Il Sappe ricorda infatti che in un mese si è scesi di 4.000 detenuti; di questo passo, è molto probabile che tra un mese si arriverà a circa 53.000 “Ovvero al di sotto della soglia di tollerabilità. Ciò dal punto di vista dei numeri. I detenuti contagiati sarebbero 37 (0,64 per mille), gli impiegati amministrativi 5 ed i poliziotti penitenziari 158. Dalla scorsa settimana, i detenuti 18 in più, gli agenti circa 40. Questi numeri ci dicono chiaramente che non c’è nessuna emergenza, ma che invece è in atto la solita battaglia ideologica”. Il problema delle carceri, in ogni caso, è osservato con molta attenzione dai governi di tutto il mondo. Interpol ha interpellato tutte le 194 polizie aderenti al network per conoscere le singole realtà. Per l’Italia, il prefetto Franco Gabrielli, Capo della polizia, ha risposto che “l’emergenza Covid-19 rappresenta un evento ancora più traumatico per la popolazione detenuta, non solo per gli spazi che, talvolta, non consentono il rispetto delle regole di distanziamento sociale previste per la collettività, ma per le nuove misure, più restrittive, in materia di colloqui con i familiari a tutela della salute. Questa è la chiave di lettura per interpretare le proteste e le agitazioni, talvolta deflagrate con modalità violente, avvenute a partire dal 7 marzo scorso in numerosi istituti di pena d’Italia”. Ma il fuoco cova sotto la cenere, secondo la polizia. “Al momento - scrive Gabrielli - la situazione è sotto controllo, anche se il monitoraggio delle forze di polizia è molto stringente per intercettare subito nuovi segnali di protesta e, all’interno delle carceri, sono state adottate tutte le misure possibili per conciliare la tutela della salute dei detenuti e il rispetto dei loro diritti, fra i quali quello di poter continuare ad avere i loro colloqui con i familiari. Al fine di decongestionare le carceri, il controllo dei detenuti con una pena da scontare inferiore ai 18 mesi avverrà attraverso misure extracarcerarie come il braccialetto elettronico”. Coronavirus, il contagio si estende nelle carceri italiane di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 aprile 2020 Positivi 58 detenuti e 178 agenti. Arduo negli istituti di pena attuare le regole di distanziamento sociale e anche reperire gli spazi dove sistemare i contagiati. Gravi difficoltà pure all’estero. Uno, tredici, ventuno, trentasette, adesso cinquantotto (detenuti) più cento settantotto (agenti penitenziari): cominciano ad alzarsi, come si temeva, i numeri dei positivi al virus Covid-19 nelle carceri italiane, già gravate dal sovraffollamento di 56.102 detenuti in una capienza (non teorica ma effettiva) di 47.482 posti che rende arduo non solo le regole di distanziamento sociale, ma anche e soprattutto il reperimento di spazi dove sistemare in isolamento sia i positivi sia chi possa essere entrato in contatto con loro. Istruttiva la progressione statistica registratasi adesso nella casa circondariale di Torino: poiché si era palesato un sospetto contagio, correttamente sono stati sottoposti a tampone altri 60 detenuti che potevano aver avuto contatti più ravvicinati con il compagno, ed ecco che altri 19 sono risultati pure positivi. Interessante anche il caso di Brindisi, dove il primo detenuto positivo era (come molti altri) un nuovo arrestato giunto dalla libertà, risultato a metà marzo negativo alla tenda-Triage, ancora negativo il 27 marzo ma peggiorato e portato in ospedale dove ora é risultato positivo, portandosi dietro la prudenziale messa in quarantena del personale di polizia penitenziaria con cui aveva rapporti. E altro profilo su cui meditare emerge da Santa Maria Capua Vetere, dove c’è un positivo ma dove soprattutto si trascina da lustri il problema del mancato allaccio alla rete idrica cittadina, lacuna che fa sì che a servire il carcere sia un pozzo semi-artesiano abbinato a un impianto di potabilizzazione. I numeri dei contagi - Nelle carceri italiane - dove sono morti un detenuto, due agenti e due medici penitenziari - secondo la contabilità ministeriale i detenuti contagiati sono 58, in gran parte asintomatici e posti in isolamento in cella singola, mentre 11 di loro sono ricoverati in ospedale. Dei 178 contagiati fra gli agenti penitenziari, 18 sono in ospedale e una ventina in quarantena in caserma, gli altri in isolamento a casa. Nell’iter di conversione del decreto legge del 17 marzo non parrebbero essere inserite misure che allarghino l’applicabilità (risultata numericamente assai modesta) delle tante condizioni (reati ostativi, necessità di un domicilio idoneo, disponibilità di braccialetti elettronici) alle quali é subordinata questa chance di detenzione domiciliare per chi debba scontare residui di pena sino a 18 mesi. In questo mese sono allora stati giudici di sorveglianza e gip (sia prima sia dopo un apposito documento della Procura Generale della Cassazione) ad assumersi la responsabilità di adottare norme già esistenti nell’ordinamento e di decidere misure alternative, differimenti pena per motivi di salute e minor ricorso alla custodia cautelare in carcere: con il risultato di far scendere le presenze in carcere dai 61.235 detenuti di fine febbraio ai 56.102 di ieri (pur sempre 9mila più dei posti reali). Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania - Vicina a essere fuori controllo é la situazione delle carceri in Gran Bretagna, con 7 detenuti morti, 107 reclusi positivi, 1.300 in isolamento con sintomi, e 7.200 messi fuori servizio. È di fronte a queste prospettive che molti Paesi - non necessariamente fari del diritto, alcuni democratici, altri dittatoriali - stanno adottando eterogenee iniziative straordinarie di riduzione della popolazione carceraria in tempo di virus. Negli Usa parecchi Stati, come California, Ohio, Kentucky e Texas hanno mandato ai domiciliari migliaia di detenuti anziani o in attesa di giudizio. In Francia il ministero ha proposto che i detenuti con meno di due mesi da scontare possano completarla agli arresti domiciliari, e quelli con meno di sei mesi da scontare possano vedersela commutare in affidamento ai lavori sociali. Nella federale Germania il Nordreno-Vestafalia interrompe l’espiazione sino a fine luglio della pena residua per i detenuti con condanne fino a 18 mesi. Norvegia, Danimarca, Finlandia e Lettonia hanno sospeso la custodia cautelare in carcere fuori dai casi di assoluta necessità, Spagna e Repubblica Ceca lo raccomandano ai magistrati, l’Albania opta per “l’isolamento temporaneo in casa”, cioè per un permesso speciale a condannati non pericolosi. Cosa succede in Brasile, Afghanistan ed Etiopia - In Brasile il Consiglio nazionale di giustizia, diretto dal presidente del Supremo Tribunale Federale, manda a casa 30mila detenuti ritenuti non pericolosi, l’Afghanistan ne rilascerà fino a 10mila, l’Indonesia 18.000, l’Etiopia annuncia la liberazione di 4mila detenuti ai quali restano meno di un anno da scontare, lo Zimbabwe sfolla i condannati a pene non superiori a 36 mesi che ne abbiano scontato almeno metà. In Marocco il re ha concesso la grazia a 5.654 detenuti, l’Azerbaigian ha rilasciato 200 prigionieri, il Pakistan 900, la Somalia 850. Algeria, Tunisia e Libia hanno disposto il rilascio di 10 mila detenuti. E proprio l’altro giorno la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha invitato gli Stati membri a “ridurre la popolazione carceraria in tutta Europa perché è indispensabile per garantire effettiva messa in atto delle regolamentazioni sanitarie, per ridurre le crescenti pressioni sul personale penitenziario e sul sistema carcerario nel suo insieme. Chiedo a tutti i Paesi di utilizzare tutte le misure alternative alla detenzione in tutti i casi possibili e senza discriminazioni”. I contagi trai detenuti aumentano, solo 1.361 sono usciti per il decreto “Cura Italia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2020 La preoccupazione del garante per i pochi provvedimenti adottati. L’Emergenza Covid-19 ha stravolto le nostre vite. Per ridurre il rischio di essere contagiati siamo costretti a restare a casa e a rispettare misure straordinarie. La prima tra tutte è il rispetto della distanza sociale e la chiusura di qualsiasi luogo dove c’è assembramento. Quattro però sono i luoghi inevitabilmente aperti dove sono concentrate le persone: gli ospedali, le Rsa, i centri per immigrati e le carceri. Non è un caso che, ad esempio, si sta evitando il ricorso alle ospedalizzazioni, se non per questioni di necessità. I luoghi ospedalieri sono le prime fonti di contagio e quindi si evita di sovraffollarle. I luoghi chiusi, a differenza di qualche uscita infelice, non sono al riparo del contagio. Ma proprio il contrario. Ecco perché l’Organizzazione mondiale della sanità ha più volte posto l’accento al pericolo dei luoghi chiusi, in particolare proprio gli istituti penitenziari. Oltre alla gestione sanitaria interna, l’Oms si è raccomandata espressamente di “prendere maggiormente in considerazione il ricorso a misure non detentive in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, anche nelle fasi cautelari, processuali, e di esecuzione della condanna”. Ma perché è così importante ridurre il sovraffollamento? Serve per poter creare idonee zone di isolamento per i soggetti che necessitano di quarantena e di cure. A oggi, nella maggior parte delle carceri, è di impossibile applicazione. È in ascesa il numero del contagio: il guardasigilli ha comunicato che sono 58 i detenuti positivi, 11 dei quali sono ricoverati in ospedale. Sono 178, invece, gli agenti penitenziari contagiati. Il pericolo è quindi dietro l’angolo, tant’è vero che autonomamente la regione dell’Emilia Romagna sta cercando di reperire strutture per accogliere quei detenuti che hanno il requisito per i domiciliari, ma essendo senza un’abitazione sono costretti a rimanere in carcere. Altre iniziative degne di nota arrivano dalla magistratura di sorveglianza di Torino che ha disposto i domiciliari a 7 detenuti risultati positivi al tampone, per incompatibilità con il carcere. Il governo ha recepito questo pericolo, con tanto di raccomandazioni provenienti anche dall’Onu e dal Consiglio d’Europa? Sembrerebbe di no. Mentre si avvicendano notizie di nuovi contagi tra la popolazione penitenziaria, ieri c’è stata la discussione in Senato con tanto di attacchi pesanti da parte della Lega che ha usato le stesse argomentazioni del magistrato Nino Di Matteo: “Guai agli indulti mascherati”. In realtà le misure del governo non solo non si avvicinano nemmeno lontanamente agli indulti (si parla di misure alternative, non di rimessa in libertà), ma non hanno nemmeno la possibilità di far ridurre notevolmente la popolazione carceraria come da più parti viene auspicato. Due sono state le modifiche apportate agli articoli 123 e 124 del decreto “Cura Italia”. Una è addirittura peggiorativa. Nell’articolo 124 del decreto, quello relativo alle licenze per chi è ammesso alla semilibertà, rispetto all’originale si aggiunge: “salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. Per quanto riguarda l’utilizzo dei braccialetti, si aggiunge un margine di 30 giorni a chi supera i sei mesi di pena residuo per poterne fare a meno. Purtroppo gli effetti del decreto sono agli occhi di tutti. Dei 4.000 detenuti in meno rispetto a circa un mese fa, ovvero dal varo della misura, solo 1.361 hanno usufruito delle detenzioni domiciliari utilizzando sia la nuova previsione dell’articolo 123 del decreto-legge 18/2020, sia quella prevista dalla normativa antecedente (L. 199/2010). Mentre sono state date 405 licenze a persone in semilibertà. Il resto è dovuto in minima parte al calo degli arresti in flagranza di reato (effetti del lockdown) e la maggior parte al lavoro di alcuni magistrati di sorveglianza che cercano di applicare in maniera più decisa le misure alternative già previste dal nostro ordinamento penitenziario. Situazione evidenziata dal Garante nazione nel suo bollettino: “Non si può tacere la preoccupazione per il più lento ritmo di adozione di provvedimenti conseguenti agli articoli 123 e 124 del recente decreto n. 18”. Mauro Palma: “Nei penitenziari si rischia l’ecatombe” di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 9 aprile 2020 “Occorrono misure urgenti. Il pericolo di un’epidemia irrompe in una situazione già compromessa”, dice Mauro Palma. E gli agenti penitenziari denunciano: “per noi le condizioni sono ancora più disastrose di quelle dei reclusi”. Come una tempesta che si abbatte su chi è già bagnato fradicio. Fuor di metafora: “Dentro le carceri l’incubo del coronavirus ha fatto irruzione in una situazione di preesistente, pesantissima precarietà e sofferenza”. E il 2 aprile scorso è deceduto il primo detenuto contagiato, Vincenzo Sucato. Aveva 76 anni ed era in ospedale, agli arresti domiciliaci. Un’emergenza nell’emergenza. E il dibattito politico sulla possibilità di utilizzare l’amnistia o l’indulto “causa pandemia” si infiamma dopo le rivolte negli istituti di pena e le misure “svuota-carceri” inserite nel decreto Cura Italia. Abbiamo sentito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, sull’attuale situazione dei quasi 58 mila reclusi nelle carceri italiane dentro l’emergenza Covid-19. “In questi luoghi si sommano due stati d’ansia”, spiega, “quella che proviamo tutti noi nei confronti di qualcosa di distruttivo, invisibile, che è il virus, e quella specifica di chi vive in un luogo come il carcere in cui, a causa delle condizioni ristrette e di chiusura, è di fatto impedita la messa in atto delle elementari misure anti-contagio: dalle distanze minime al lavaggio frequente delle mani. Le domande angosciose che in questi giorni rimbalzano tra le mura delle prigioni sono ossessivamente le stesse: come evitare il contagio? E se scoppiasse dentro il carcere? Quali misure per evitare il diffondersi dell’epidemia? Per ora i pochi casi sono sotto controllo: i contagiati tra le persone recluse sono una ventina. Più problematica è la situazione del personale di Polizia penitenziaria, degli operatori, specie quelli sanitari, che vanno ed escono dal carcere. Abbiamo pensato poco a loro e più alla morbilità dei detenuti. Non nego i grandi sforzi dell’amministrazione penitenziaria in questo senso, ma esiste una intrinseca vulnerabilità della realtà carceraria italiana”, osserva ancora il Garante, “a cui si deve aggiungere un ulteriore motivo di sofferenza dovuto a una cronica situazione di malessere di questo mondo, evidenziata anche dall’alto numero di suicidi (nel 2019 sono stati 53 tra i detenuti e 11 tra gli agenti, ndr)”. Il problema centrale, non certo scoppiato con la pandemia, è quello del sovraffollamento degli istituti di detenzione. Cosa ci dicono i numeri? Che al 31 marzo, nei 191 istituti di pena italiani le persone detenute, registrate in cella, sono 57.576 (58.035, comprendendo coloro che sono in permesso), a fronte di una capienza regolamentare di 51.419 posti (a cui bisogna sottrarne però 3.974, perché attualmente non disponibili anche a causa delle devastazioni avvenute nelle ultime rivolte), quindi diecimila detenuti in eccedenza rispetto ai posti. La madre di tutte le emergenze, quindi, si chiama alleggerimento di questo soprannumero. “Se domani avessimo nuovi casi di contagi da mettere in isolamento, dove potremmo ricoverarli?”, si chiede Palma, che afferma: “Urgono interventi più coraggiosi ed efficaci di quelli messi in atto finora per decreto, che hanno sì portato a una diminuzione in un mese di tremila unità (agli inizi di marzo si era a quasi 61 mila detenuti, ndr), ma evidentemente non basta. Si devono creare subito spazi nuovi per tutelare detenuti, personale di sorveglianza, ma anche il resto della collettività”. Il Garante allude alla scarsa incisività delle misure “svuota carceri” stabilite dal decreto Cura Italia. “Non è proprio questo il tempo di riaprire l’annoso dibattito tra filosofie opposte sul concetto di pena, dividendosi tra chi ha una visione dell’esecuzione penale più aperta alle misure alternative e chi è, al converso, legato alla sua funzione retributiva. Né ha senso discutere di indulto. Ora è in gioco qualcosa di più alto, e cioè la tutela della salute e il valore stesso della vita. Rifacendomi allo stesso recente appello del Santo Padre, dobbiamo andare all’essenzialità della questione: il fine su cui convergere tutti è questo e non altri, e l’unico atteggiamento possibile è quello preventivo”. Detta in altri termini, “si deve avere meno paura di accelerare” - afferma Palma - “i ritorni alla libertà di detenuti che comunque entro un anno, massimo 14 mesi, sarebbero fuori. E, in questo senso, farei attenzione a non discriminare tra la popolazione carceraria chi non ha un domicilio: tenerli costretti in carcere per questo motivo diventerebbe una discriminazione classista intollerabile”. Il Garante segnala poi un secondo tipo di intervento straordinario, stavolta limitato nel tempo, che dovrebbe aggiungersi al primo: la temporanea sospensione dell’esecuzione penale in carcere, sostituita anche in questo caso con i domiciliari, per un periodo di 3-4 mesi, per tutti quei detenuti che abbiano particolare vulnerabilità rispetto al contagio, già prevista dal nostro Ordinamento penitenziario per un certo tipo di malattie gravi. “Penso, per esempio, all’abbassamento dell’età dai 70 ai 65 anni per l’accesso al 47ter dell’O.P., che permette la detenzione a casa”, precisa. Per ultima la questione braccialetti elettronici obbligatoriamente da fornire a chi esce prima: “Inattuabile in tempi brevi”, taglia corto. “Il loro utilizzo lo prevedrei, ma solo ove sia possibile. Tralascio infine di commentare la proposta di costruire nuove carceri per affrontare l’emergenza Covid-19: non scherziamo, i tempi medi per edificare e aprire una prigione in Italia vanno dai 5 ai 10 anni. Insomma, le proposte devono avere il ritmo comparabile a quello della diffusione dell’epidemia”. Secondo quanto afferma, invece, l’Osapp, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, le condizioni nelle carceri sono, se possibile, ancor più disastrose per i poliziotti penitenziari che per i reclusi. I dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria dicono di n6 agenti positivi al coronavirus a fronte di 19 detenuti. “Numeri che riteniamo di molto inferiori alla realtà”, afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp. Perché questa sproporzione del contagio tra agenti e reclusi? “Non dipende solo dal fatto che i poliziotti provenienti dall’esterno del carcere possono avere più probabilità di contaminarsi, ma anche dalle modalità con cui viene impiegato il personale: molte direzioni di istituti tendono a impiegare comunque il personale, se asintomatico. Mentre i detenuti vengono messi in isolamento se entrati in contatto con positivi, i poliziotti vengono messi sì ad altri servizi e non a contatto con la popolazione detenuta, ma restano a contatto con altri colleghi, operando a distanze ravvicinate”. Conte. “Le carceri italiane? Non ci giriamo dall’altra parte” di Alessandro Gisotti L’Osservatore Romano, 9 aprile 2020 Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parla della situazione delle carceri italiane: “Il governo di certo non si gira dall’altra parte rispetto alla condizione delle carceri e alla tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che in esse lavorano”. In più occasioni, il Papa ha espresso la sua preoccupazione per la condizione nelle carceri in questo periodo segnato dalla pandemia. Cosa pensa sia possibile fare per affrontare questa situazione? “Il governo di certo non si gira dall’altra parte rispetto alla condizione delle carceri e alla tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che in esse lavorano. Anche negli istituti penitenziari abbiamo adottato, per quanto possibile, il principio di massima precauzione facendo quanto possibile per ridurre al minimo il rischio. Dall’inizio dell’emergenza ad oggi oltre 4 mila detenuti hanno trovato una collocazione fuori dagli istituti o perché in condizioni di salute a rischio, o perché si è potuto ricorrere alla detenzione domiciliare. Siamo intervenuti inoltre per dotare le strutture dei dispositivi di protezione necessari, abbiamo installato 151 tensostrutture per il triage in ingresso, predisposto spazi per l’isolamento e distribuito oltre 275 mila mascherine. Per alleviare il disagio emotivo di chi si è visto costretto a rinunciare alle visite dei propri cari, abbiamo aumentato il numero dei colloqui facendo ricorso a strumenti tecnologici, che permettono di video-collegarsi anche se lontani. Ringrazio le donne e gli uomini che in questi giorni dalle carceri inizieranno a produrre 400 mila mascherine al giorno, il loro contributo è importante. E rivolgo un sentito ringraziamento anche agli agenti della Polizia penitenziaria”. Luigi Compagna: “In carcere nessun rispetto per la salute delle persone” di Viviana Lanza Il Riformista, 9 aprile 2020 “È un tema affrontato con tempi di provocazione da parte del ministro della Giustizia e l’insensibilità del premier Conte e del Capo dello Stato desta qualche sgomento”. Parla della questione carceri Luigi Compagna, senatore, docente universitario di Storia delle dottrine filosofiche e consigliere della Svimez. Ed è critico nei confronti della politica per come quest’ultima sta affrontando una situazione drammatica: “Lo era già quando ero parlamentare ma fu in qualche modo ridotta da alcuni interventi dell’allora governo Berlusconi, con l’allora ministro Alfano”. In che modo? “Già a quell’epoca pensavo che fosse necessario un provvedimento e presentai un disegno di legge di amnistia e indulto. Il capo dello Stato, che era Giorgio Napolitano, fece un appello al Parlamento per ottenere l’approvazione di un provvedimento del genere. Questo provvedimento, faccio un inciso, è diventato difficilissimo, perché implica di essere votato articolo per articolo con una maggioranza dei due terzi. Mentre l’amnistia era agli onori delle cronache parlamentari fin troppo. Erano i tempi in cui, come gruppo di pressione, il super-partito degli avvocati non era affatto più debole del super-partito dei magistrati che poi si sarebbe scatenato con tutt’altri intenti”. Cosa accadde? “Napolitano fece un appello molto apprezzato nel mondo dei giuristi, dei magistrati e dei professori di diritto ma alla fine non fu discusso né alla Camera né al Senato. Quindi, da questo punto di vista, le provocazioni di Bonafede vengono abbastanza da lontano”. Come vede la situazione attuale? “La misura è colma. Tra l’altro, in un Governo che ha istituzionalizzato la procedura del decreto legge, soltanto nei confronti delle carceri la violazione della Costituzione è così fortemente all’ordine del giorno”. Lei ha visitato molti istituti di pena, soprattutto in Campania. Qual è la maggiore criticità? “Oltre il sovraffollamento, quella sanitaria è la questione più difficile da affrontare. E non dipende dal Coronavirus. In carcere, anche quando viene prescritta la visita specialistica, è difficilissimo accompagnare un detenuto in ospedale. Lo si fa una volta ma poi sono richiesti sforzi che molto spesso non sono alla portata del personale penitenziario. La condizione dei detenuti negli anni è peggiorata e il diritto alla salute e quello al lavoro sono due beffe, due fallimenti assoluti”. Una soluzione è possibile? “Il problema è la normativa. Bisogna snellire le procedure”. Pisapia: “Sulle carceri Conte passi dalle parole ai fatti” vita.it, 9 aprile 2020 Finalmente oggi si è sentita la voce del Presidente del Consiglio che ha dichiarato che il Governo non intende girarsi dall’altra parte di fronte alla condizione delle carceri e alla tutela dei detenuti e di chi lavora ed opera negli istituti penitenziari. Dalle parole si passi ai fatti”, dichiara l’Eurodeputato Giuliano Pisapia. “Dopo le parole del Presidente della Repubblica, del Papa, dei Magistrati di sorveglianza, dell’Avvocatura, dei Garanti dei detenuti, dei rappresentanti della Polizia penitenziaria e di tanti altri finalmente si è sentita la voce del Presidente del Consiglio che ha dichiarato che il Governo non intende girarsi dall’altra parte di fronte alla condizione delle carceri e alla tutela dei detenuti e di chi lavora ed opera negli istituti penitenziari. Dalle parole si passi ai fatti”, dichiara l’Eurodeputato Giuliano Pisapia. “Mi auguro che da questo ulteriore e drammatico momento che le nostre carceri stanno vivendo a causa del Coronavirus venga colta l’indifferibile necessità di una riforma capace di incidere non solo per il presente, ma anche e soprattutto per il futuro. Se vogliamo dare piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione che prevede la rieducazione del condannato e indica come le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, l’unica strada da dover intraprendere è una più decisa e allargata applicazione delle pene alternative al carcere. Non nell’interesse di singoli detenuti, ma nell’interesse della nostra democrazia e in quello più generale della sicurezza collettiva. La realtà quotidiana- e tutti i dati, recenti e meno recenti lo dimostrano - evidenzia come, grazie all’ applicazione delle misure alternative al carcere, diminuisce la recidiva e, di conseguenza, aumenta la sicurezza dei cittadini. Il tema “carceri” non è argomento che può interessare solo gli addetti ai lavori e pochi altri che - con coraggio e forza- danno voce e testimonianza a quel mondo. Non è possibile che si parli di condizioni carcerarie solo quando scoppia una rivolta. Le carceri sono l’immagine e il volto di un Paese e le condizioni attuali dimostrano, anche alla luce delle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che l’Italia sulla base delle condizioni di gran parte dei nostri istituti penitenziari anche, e soprattutto a causa del sovraffollamento, non può essere considerata un Paese “civile”. Andiamo quindi oltre la logica emergenziale. I problemi non si risolvono guardando al passato, ma al presente e al futuro. Come richiesto da più parti e ancora oggi dalla Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano sono indispensabili modifiche migliorative al decreto legge all’esame del Parlamento che prevede la possibilità, per chi ha un residuo di pena da scontare minore ai due anni, di ottenere gli arresi domiciliari. Quel provvedimento purtroppo prevede una serie di passaggi, con connessi lacci e laccioli, che lo rendono molto debole e non in grado di dare una risposta concreta ad una emergenza che rischia di implodere. Tutte le proposte di detenzioni domiciliari o di sospensione dell’esecuzione della pena in caso di una reclusione da scontare non superiore ai due anni, che provengono dal mondo accademico, dall’avvocatura e dalla magistratura, hanno un preciso e fondamentale obiettivo: le nuove norme debbono essere applicate al più presto, prima che sia troppo tardi, eliminando ogni “burocrazia” giudiziaria e sostituendola con un meccanismo automatico. La certezza di tornare in carcere e di scontare l’intera pena in caso di violazione degli obblighi sarebbe un deterrente efficace a tutela della collettività. Partendo da una situazione difficile per tutti, si trovi la forza e il coraggio di fare, anche sui temi della giustizia e del carcere, quei passi avanti che possono permettere al nostro Paese di uscire da un tunnel che sembra senza fine. I tempi sono stretti ma proprio per questo bisogna avere la forza e il coraggio per realizzare una riforma alta e di visione che il Paese attende da anni”. “Noi giudici di sorveglianza sfidiamo l’orrore del Covid e salviamo la vita ai reclusi” di Errico Novi Il Dubbio, 9 aprile 2020 Intervista a Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Parlateci con Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Perché si deve dare retta per un po’, per qualche minuto, alla sua voce ferma, di magistrata consapevole della propria funzione, lucida ma commossa dalla “tragedia nella tragedia: perché, vede, il Covid è una cosa terribile, ma in carcere può esserlo di più”. Parlateci, ascoltate i magistrati come lei, fatevi raccontare, se possibile, dei detenuti che sono disabili, anziani o comunque in gravi condizioni, e per i quali “l’accoglienza solidale non sempre riesce a offrire un alloggio adeguato a scontare la pena ai domiciliari, seppure sarebbe doveroso. Si tratta di persone che andrebbero assistite, e che in carcere sono i bersagli preferiti del virus. I più esposti”. Forse si deve spegnere per un attimo il rumore di fondo dell’ideologia sul carcere e ascoltare solo la voce di un magistrato come la presidente Di Rosa. Ormai il suo ufficio è costretto a lavorare in un semi-accampamento... Sì, dopo l’incendio abbiamo dovuto sistemare cinque postazioni in un piano diverso. Di fatto è un Tribunale di sorveglianza da campo. Difficoltà enormi. Vanno recuperate le carte nella zona incendiata e va dato un ordine ai documenti che continuano ad arrivare. Non si possono accatastare certo alla rinfusa e anzi ora evadere le istanze è drammaticamente urgente. Si riferisce alle domande di scarcerazione legate all’emergenza Covid? Sì, diamo precedenza assoluta a tutte le domande relative alla libertà personale. Altri affari pure di notevole rilievo, come la conversione in pena pecuniaria o la remissione del debito di giustizia, cedono inevitabilmente il passo a tutti gli atti relativi a richieste connesse a motivi di salute. Sul giudice di sorveglianza, ora che c’è l’epidemia, ricade un peso psicologico maggiore? Il peso corrisponde alla consapevolezza della responsabilità legata alla nostra funzione. Si tratta di una responsabilità che esiste in sé, che si lega a un esercizio delicatissimo, alla valutazione sulla possibilità di concedere misure alternative alla detenzione inframuraria, ma anche all’impossibilità di essere curati nelle strutture penitenziarie. Ora si è aggiunta una nuova categoria di problemi: la decisione che riguarda detenuti con patologie pregresse. I più esposti al virus... Lo sono, è evidente. Adesso le conseguenze sono gravissime. In particolare nel caso di persone in età avanzata. Quando il pg Salvi chiede di applicare le leggi esistenti in relazione a tale nuovo tragico scenario, si riferisce anche ai rischi per i più anziani? Sicuramente: ho davvero apprezzato il documento del procuratore generale, rivolto certo innanzitutto alla magistratura inquirente, ma ispirato da uno sguardo molto ampio. Una riflessione rivolta al diritto che vive, ossia alla necessità di calare le tutele giuridiche nella realtà concreta delle situazioni. Lasciare in cella una persona vulnerabile al contagio può voler dire innescare una catena epidemica immediata. E noi magistrati di sorveglianza, se chiamati a decidere in via provvisoria, siamo tenuti a valutare il pregiudizio eventualmente causato dalla permanenza negli istituti di pena. La situazione delle carceri lombarde può precipitare? Noi abbiamo fatto tutto il possibile. È dal 21 febbraio che siamo in una situazione terribile. Nel nostro distretto il sovraffollamento medio è del 143 per cento, ma ci sono istituti dove siamo a quota 200. I detenuti sono il doppio dei posti... Ecco, allora abbiamo affrontato l’emergenza, definito in modo favorevole 450- 500 istanze di libertà personale, li abbiamo scarcerati. Ma da quel 21 febbraio siamo in emergenza assoluta anche in termini di personale. È una lotta titanica... Nel distretto di Milano c’erano 6.600 detenuti, ne abbiano scarcerati 500, abbiamo lavorato intensamente, abbiamo dato priorità agli anziani, ma c’è anche tanto dispiacere per i reclusi anziani e malati che non hanno casa. E che quindi non possono andare ai domiciliari, giusto? Parliamo di anziani spesso disabili, che hanno bisogno di accompagnamento e che non è possibile gestire nei pochi posti di accoglienza solidale disponibili. Magari sono sulla sedia a rotelle. Il presidente emerito della Consulta Flick sostiene che dinanzi a un simile orrore il carcere va riconsiderato come estrema ratio... Sono totalmente d’accordo con l’affermazione del presidente Flick. Totalmente. La Costituzione parla di funzione della pena, non cita mai il carcere. Ci si ricordi che la flessibilità della pena è una cosa meravigliosa: permette a un fatto brutto qual è un reato, che causa dolore, di essere sanato sotto forma di riconciliazione. Ma è possibile se non ci si limita a concepire la pena solo in termini repressivi, retributivi. Altrimenti, anziché farne la cura di una ferita, la si riduce a mero differimento della possibilità che la persona colpevole torni a circolare per strada. Il carcere deve contenere solo gli individui socialmente pericolosi. La Lega continua a dire che le pur blandissime norme del Cura Italia sui domiciliari sono un favore ai boss... Posso solo ricordare che nessun boss potrà uscire: né sulla base delle norme da poco introdotte e neppure con l’interpretazione estensiva della disciplina preesistente. I meccanismi preclusivi non sono stati toccati. Presidente, ma come si fa a lavorare senza perdersi d’animo in mezzo a questa tragedia? Vede, prima mi ha chiesto del carcere come estrema ratio. Si tratta di riscoprire un’idea, un principio giuridico, che già esiste. E dobbiamo farlo. Dobbiamo. Qui a Milano ci battiamo in tutti i modi. Ma nonostante il coronavirus, ancora continuano a entrare in cella persone con residui di pena molto bassi. Si capisca, lo si capisca davvero, che siamo di fronte a una tragedia. E che il Covid in carcere è una tragedia nella tragedia. Ci si ricordi che ci sono valori di solidarietà e uguaglianza in grado di orientarci sempre. Non perdiamoli mai di vista. Basta dietrologie e congetture: la giustizia al tempo del Covid non è la tomba delle garanzie di Eugenio Albamonte* Il Dubbio, 9 aprile 2020 La sospensione delle attività giudiziarie è stata prorogata all’ 11 maggio. È una scelta giusta ed auspicata anche dall’Anm, che prende atto di una situazione sanitaria generale che, nonostante qualche iniziale segnale di miglioramento che tutti speriamo si consolidi, espone ancora a gravi pericoli di contagio. Non è possibile, tuttavia, immaginare che la giustizia rimanga pressoché immobile fino alla nuova data stabilita con il decreto in via di pubblicazione. Attualmente, infatti, nel settore penale si trattano soltanto gli atti urgenti, soprattutto gli arresti, mentre i processi con detenuti - consentiti dalle norme sull’emergenza - di fatto non si stanno svolgendo perché pochissimi sono gli imputati ed i loro difensori che ne fanno richiesta. Nel frattempo gli uffici giudiziari si stanno attrezzando velocemente, grazie ad efficaci strumenti informatici di video conferenza messi a disposizione dal Ministero di Giustizia, per poter svolgere, a distanza, le attività giudiziarie necessarie e consentite dal decreto sull’emergenza. Mancano però le norme processuali che consentano di svolgere le indagini preliminari e l’attività giudiziaria consentita, in situazione di assoluta sicurezza per l’imputato e la persona offesa, per i testi e i consulenti, per il personale amministrativo e per avvocati e magistrati, attraverso questi strumenti di video conferenza. La mancanza di tale regolamentazione non consente, allo stato, di celebrare i processi che potrebbero essere fatti, né di avviare seriamente le indagini relative anche soltanto ai reati più direttamente connessi all’emergenza sanitaria. Nel frattempo la giustizia penale sta accumulando un grave ritardo che sarà difficile recuperare se non con grande sforzo e con molto tempo, dopo la cessazione del pericolo. Il Governo ha, in verità, iniziato un lavoro di scrittura di queste norme, presentando emendamenti in sede di conversione del decreto legge n. 9/20. Per il penale si disciplina l’acquisizione a distanza di alcune prove testimoniali e la partecipazione al processo in video conferenza del giudice e delle parti. Alcuni organi di informazione anticipano anche la presentazione di emendamenti relativi allo svolgimento a distanza di alcuni atti di indagine. Immediatamente si è sollevato un coro di voci contrarie, animato principalmente da alcuni esponenti politici e dell’Unione Nazionale delle Camere Penali. Contrarietà radicale ed ideologica, che non affronta nel merito le singole proposte e le respinge in blocco, in ragione dell’interferenza negativa che, la gestione del processo attraverso sistemi di video conferenza, avrebbe sempre e comunque sui diritti della difesa. Ma c’è di più, tutte le critiche si fondano su un retro pensiero in base al quale staremmo assistendo ad una riforma occulta del processo penale in chiave inquisitoria, destinata a diventare definitiva dopo l’emergenza corona virus. In buona sostanza si mirerebbe, con la scusa dell’epidemia e del necessario utilizzo di strumenti tecnologici avanzati per consentire la celebrazione di alcuni processi senza esporre a rischio di contagio le persone, ad eliminare, o a drasticamente ridurre, le garanzie del giusto processo. Quindi meglio che rimanga tutto immobile e che la giustizia penale non funzioni se non per le emergenze fino al cessato pericolo. Onestamente mi sembrano suggestioni del tutto destituite di fondamento. Non voglio dire che tutte le norme proposte siano condivisibili e non meritino miglioramento. Non voglio dire che gli interventi ipotizzati siano tutti privi di incidenza sull’effettivo esercizio delle garanzie processuali. Ma non posso ipotizzare che norme come quelle che consentono la dislocazione del giudice in luogo diverso dall’aula o la partecipazione alla camera di consiglio in video conferenza possano essere in nessun modo transitate nel processo penale dopo l’emergenza. Non si tratta di interventi destinati a modificare permanentemente la struttura del processo e non è certo questo il momento per tali operazioni. L’irruzione delle nuove tecnologie telematiche nel processo penale, fenomeno certamente auspicabile per le sue potenzialità benefiche, merita una approfondita valutazione che di sicuro oggi non è consentita. In particolare sarà necessario valutare con estrema ponderazione quanti e quali interventi innovativi siano possibili senza interferire sulle garanzie processuali e sulla loro concreta attuazione. Tale preoccupazione non è certo soltanto dell’avvocatura; è fortemente avvertita anche dalla magistratura italiana che ha interiorizzato le garanzie processuali rendendole una componente imprescindibile della propria cultura e che quotidianamente le tutela anche quando non altrimenti presidiate. Occorre allora sgombrare il campo dalle illazioni e dalle dietrologie ed iniziare, avvocati, magistrati, e parti politiche a ragionare sul merito delle norme proposte per apportare miglioramenti ove necessario, facendosi carico però del momento assolutamente emergenziale che stiamo vivendo e dell’insostenibilità civile e democratica del prolungamento di questa fase di sostanziale congelamento della giustizia penale anche soltanto per un altro mese. *Magistrato Processo a distanza. E se fosse per sempre? di Valerio Spigarelli* Il Riformista, 9 aprile 2020 Il processo smaterializzato, come lo hanno definito i penalisti, è anche disumano e non garantisce i diritti dei detenuti. Una preoccupazione: che sia l’avvisaglia di un cambiamento epocale. Della inadeguatezza del ministro di Giustizia si è già detto su queste pagine ma vale la pena tornarci sopra. Basta un esempio. Probabilmente cedendo alle istanze di qualche settore dell’amministrazione, l’unica cosa che non è stata permessa o regolata per legge è la presentazione degli atti di impugnazione nel settore penale tramite pec. Tutto il resto si può fare ma un appello o un ricorso per cassazione no. Nella Repubblica del fai da te molti capi degli uffici giudiziari si sono organizzati e hanno fatto circolari o decreti che permettono comunque agli avvocati di impugnare via pec. Ora, al di là del fatto che questo ha prodotto una situazione caotica, per la quale si registrano differenze di trattamento persino all’interno delle stesse sedi giudiziarie, rimane un problema di fonda le circolari non hanno valore di legge, anche se forse Bonafede non lo sa, e dunque quegli atti di impugnazione sono, per legge, inammissibili. Siamo, cioè, nel pieno della illegalità processuale. E tanto basta a rispondere alle anime pie che si incontrano anche all’interno dell’avvocatura, che sostengono che nessuno, in futuro, rileverà quella illegalità, giacché frutto di autorizzazioni presidenziali. Beati loro: la magistratura ci ha abituato, anche in tema di impugnazioni, a conversioni repentine della giurisprudenza, persino sul metodo di calcolo dei termini processuali, per le quali da un giorno all’altro quel che era certo veniva ribaltato con l’effetto di rendere inammissibile quel che era permesso fino al giorno prima. Nel dubbio meglio non fidarsi e seguire le regole del codice. Ma poi rimane la domanda di fondo, perché non si è autorizzato nel penale quello che invece si è autorizzato nel civile? Forse anche per perseguire, per altra via, l’obiettivo di disincentivare le impugnazioni che è la vera e propria fissazione di alcuni dei ventriloqui del ministro sparsi nella magistratura? E ancora, tutto questo non alimenta quella delega implicita alla magistratura a fare “leggi self made”, prima attraverso la giurisprudenza ora attraverso atti amministrativi? Su questo problema, che pure è stato pubblicamente segnalato, il ministro resta in silenzio, forse perché è troppo complesso e, per dirla con Giuseppe Giusti, “il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato”. Ma c’è un altro silenzio che pesa come un macigno, ed è quello sulla detenzione. Dopo la farsa sui braccialetti elettronici ritenuti indispensabili - anche se materialmente non ci sono - per scontare pene non superiori a diciotto mesi, che ha prodotto l’ennesima giurisprudenza creativa, anche se stavolta in favor, di una parte della magistratura di sorveglianza evidentemente schifata dalla ipocrisia della previsione, la giustizia governativa nulla ha previsto per la custodia cautelare. Hai voglia a rammentare (in maniera anche un po’ tartufesca, sia detto per inciso, visto l’andazzo che va avanti da decenni) persino da parte di potenti Procuratori che la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere realmente residuale, cioè eccezionale sul serio come nel sistema processuale è scritto. Hai voglia a suggerire, da parte di autorevoli esponenti dell’accademia, l’introduzione di norme che rendano attualmente la custodia in carcere applicabile solo in ipotesi di eccezionale rilevanza come già avviene per alcune specifiche categorie di imputati. Niente, su questo il governo non ci sente, benché i detenuti in custodia cautelare siano quasi la metà di tutti i detenuti. O forse ci sente benissimo, sintonizzato come è con quei commentatori, come Travaglio, che alla parola carcere si eccitano sentenziando che lì dentro, in tempi di epidemia, si sta meglio e più protetti dal punto di vista sanitario, e dunque i detenuti si devono reputare fortunati perché i liberi rischiano più di loro. Affermazioni che, a quelli che sono entrati in un carcere sovraffollato, che hanno visto cosa significa campare nell’ultima fila di un letto a castello a tre piani, o cucinare su di un fornelletto sistemato vicino ad un cesso alla turca tappato con fondo di bottiglia, fanno venire il voltastomaco. O forse ci sente benissimo il ministro, e con lui tutto il governo, perché sa bene che in questa maniera la pensano anche molli magistrati. A differenza di quella di sorveglianza, infatti, la magistratura di merito si sta dimostrando assai poco sensibile alla condizione dei detenuti in custodia cautelare; per questo motivo fioccano ordinanze di rigetto di richieste di arresti domiciliari, motivate anche da condizioni di salute, in cui si legge che negli istituti sono adottati “i protocolli in essere nel resto del Paese”. Questo mentre, invece, i detenuti hanno paura, e hanno ragione, perché il distanziamento sociale in carcere è un ossimoro fariseo; perché le mascherine sono poche e quelle che arrivano a volte non sono a norma, tanto che un direttore ha affisso nella bacheca del carcere un avviso chiarendo che alcune di quelle che distribuiva non erano “dispositivi protettivi secondo i parametri normativi...” cui era “difficile riconoscere un molo protettivo”; perché i disinfettanti vengono messi solo negli spazi comuni e, bontà loro, distribuiti allo spaccio, cioè a pagamento. I detenuti hanno paura perché gli può capitare di essere trasferiti, all’inizio di aprile, da un carcere dove non si erano registrati casi ad un altro ove il Covid già s’era manifestato. Due settimane fa dicevo di Caporetto della giustizia, su questo giuntale, ma solo perché ogni tanto mi capita di essere moderata sul carcere è peggio. Poi, accanto ai silenzi, accade che il governo sulla giustizia produca anche urla. E come al solito è roba che accoglie le peggiori idee che circolano nella magistratura e sui giornali. Tipo quella che va predicando Gratteri da tempo cioè di fare i processi per via telematica. Come se fosse la stessa cosa giudicare, ed anche essere giudicati, senza mai potersi guardare reciprocamente negli occhi. Come se fosse la stessa cosa ascoltare e vedere un testimone - fosse anche solo un teste di pg - in francobollo catodico per stabilire se dice o meno la verità. Come se fosse la stessa cosa per un avvocato avere l’imputato accanto oppure in video. Comunque, dopo aver sperimentato nella primissima fase di emergenza le convalide a distanza sulla base di protocolli stipulati con gli Ordini degli avvocati, di nuovo senza base legale idonea, il governo ha presentato prima il Decreto Legge del 17 marzo e poi una serie di emendamenti che stabiliscono la prevalenza di queste forme per í processi con detenuti. Fino a prevedere le Camere di Consiglio a distanza, per via telematica, oppure l’eliminazione delle discussioni dei difensori dalle udienze in Cassazione, per tutti i processi, temperata, si fa per dire, dalla possibilità di chiederne il mantenimento a pena di veder sospesi i termini di custodia cautelare. Per motivi di spazio bisogna rinviare l’esame delle proposte sul tema, che in questo caso trovano l’entusiastica approvazione della magistratura tutta, Anm in lesta, e pure di molti avvocati. Nessuno che risponda, intanto, che, con le precauzioni idonee, basterebbe che il mondo della Giustizia dimostrasse lo stesso coraggio chiesto non tanto ai medici quanto ai cassieri dei supermercati per rendere inutili queste innovazioni. Resta però una preoccupazione di fonda che questa non sia altro che l’avvisaglia di un cambiamento epocale, cioè dell’introduzione di un processo smaterializzato, come è stato definito dai penalisti; definizione che in questo caso riguarda le persone, non le cose. Un processo disumano destinato a sopravvivere all’emergenza perché in Italia succede così da decenni, per tutte le emergenze, dagli anni settanta in poi, D’altronde, ricordava Oliviero Mazza giorni fa, “la storia ci ricorda da che il governo della salute pubblica non ha mai partorito riforme ispirate al garantiamo”. *Avvocato Parla Bruno Contrada: “Il risarcimento non mi ripaga della persecuzione” di Angela Stella Il Riformista, 9 aprile 2020 Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore di Bruno Contrada la somma di Euro 667.000,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. Nel 2008 sempre la Corte d’Appello di Palermo lo condannava alla pena di dieci anni di reclusione e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, relativamente a fatti commessi tra il 1979 e il 1988. Nel 2015, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto illegittima la precedente condanna perché all’epoca dei fatti contestati a Contrada il reato di concorso esterno non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Abbiamo raggiunto telefonicamente il dottor Contrada, assistito dall’avvocato del foro di Palermo, Stefano Giordano. Si sente ripagato da questa decisione? No, perché questa decisione riguarda solo l’ingiusta detenzione e non tutti i danni che mi ha provocato la mia vicenda. Sono danni irreparabili per me e la mia famiglia. Non ci sono somme che possano risarcire questo danno. Gli episodi da raccontare sono infiniti, come le assurdità relative alla mia condanna. La mia è stata una condanna ingiusta. Ho considerato una strana coincidenza il fatto che oggi (ieri, ndr) Papa Francesco abbia detto “Preghiamo per chi soffre una sentenza ingiusta”. Ovviamente non si riferiva a me ma è stato strabiliante. Questa decisione riuscirà a riabilitarla agli occhi di tutti? Io comprendo queste persone che continuano ad avere dei dubbi su di me: se per anni hanno sentito dire di me tante cose - dall’arresto alla prigione, alla condanna - diranno “qualcosa devi esserci”. Purtroppo tutto questo è successo ad un servitore dello Stato che per circa 35 anni ha indossato una divisa, arrivando al grado più elevato della Polizia di Stato perché ero un dirigente generale. In tutta la mia vita neanche una contravvenzione ho preso. Nel 2017 Franco Gabrielli ha revocato il suo provvedimento di destituzione, reintegrandolo come pensionato nella Polizia di Stato... Sì, sono stato reintegrato ed è stata aggiornata anche la mia pensione. Lei veniva arrestato alla vigilia di Natale del 1992. In tutto questo tempo, che idea si è fatto di quanto accaduto? Sono stati anni di sofferenza continua. E per capire bisogna contestualizzare: nel 1992 è caduta la Prima Repubblica, sono stati distrutti i 5 partiti che per 50 anni avevano retto le sorti del nostro Paese; cosa è successo con Tangentopoli nel ‘92? E in Sicilia c’è stato Mafiopoli, poi il processo al senatore Giulio Andreotti; e chi ricorda cosa accadde a Corrado Carnevale, Presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione? Io a quei tempi ero un rappresentante della Polizia, impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, durante la quale ho inseguito e arrestato i peggiori criminali. Ho avuto anche encomi ed attestati per il mio servizio. Però poi c’è la questione del pentitismo: si sono voluti vendicare di me. Qualcuno però anche all’interno delle istituzioni ha remato contro di Lei. In ogni campo ci sono gli sciacalli, gli avvoltoi che si avventano sul corpo caduto e sanguinante. Lei si sente vittima di quell’ondata giustizialista? Pensi che la mia custodia cautelare è durata 31 mesi. Mi sento vittima di una perversione della giustizia italiana. Io sono stato condannato per un reato inesistente: concorso esterno in associazione mafiosa. Oltre 140 rappresentanti delle Istituzioni sono venuti a testimoniare non in mio favore, ma in favore della verità. Ma non è bastato perché quello che contava erano le dichiarazioni dei delinquenti, dei sanguinari: quello che dicevano era oro colato. Che considerazione ha dello Stato che lo ha condannato e poi risarcito? È una conseguenza necessaria, visto che la Cassazione ha recepito la sentenza della Cedu. Sempre la Cedu nel 2014 aveva condannato l’Italia per avermi sottoposto ad una pena inumana per la palese incompatibilità del mio stato di salute col regime carcerario. Io comunque continuo a rispettare le Istituzioni, compresa la magistratura. Molti non riescono ancora a legittimare pienamente le decisioni della Cedu. Parlano di eccessiva ingerenza. Ai giustizialisti non piace! Cosa ne pensa della possibilità che la Procura possa fare ricorso contro il risarcimento? Ha il diritto di farlo, come anche io ho il diritto di ricorrere perché la nostra istanza non è stata accolta integralmente. Il sito Antimafiaduemila scrive che adesso arriverà il “solito giro di dichiarazioni sulla “persecuzione” nei confronti di Bruno Contrada, di “ingiustizie subite” e di “restituzione dell’onorabilità”. Quello che scrivono non ritengo sia meritevole di un mio commento. Non voglio proprio leggerli: per me non esistono. Si pente di qualcosa? Non rinnego nulla, non ho da rimproverarmi nulla. Ho la coscienza perfettamente a posto. Cosa può dire della Trattativa Stato Mafia? Perché non si è parlato di Trattativa in merito all’applicazione della legge dei pentiti? Non sono quelle trattative che lo Stato fa con i criminali? Quello è un do ut des: tu criminale mi dai notizie per scoprire reati e catturare latitanti e io, Stato, ti do sconti di pena, ti do danaro, sicurezza, provvedo alla tua famiglia, a cambiarti l’identità, a darti una occupazione, una casa. Ma poi nel codice penale esiste un reato che si chiama “trattativa”? Liberazione anticipata, il giudizio negativo su un semestre può coinvolgere quelli anteriori di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2020 Se ricorrono i presupposti della liberazione anticipata “speciale” questa va accordata nella misura fissa di 75 giorni di anticipo, invece degli ordinari 45, per semestre di pena scontata. Infatti, come spiega la sentenza n. 11673 depositata ieri dalla Corte di cassazione, è possibile che il giudizio negativo del giudice dell’esecuzione sulla condotta del condannato relativamente aun semestre possa riverberarsi anche su quelli anteriori, ma la misura aumentata del beneficio non è però riducibile una volta che sia stato riconosciuto in base al comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge 146/2013. L’effetto retroattivo di una cattiva condotta, tenuta durante uno dei semestri di quelli del periodo di cui deve tenere conto il giudice chiamato a decidere sulla concessione del beneficio, non è precluso. Ma tale riverberazione sul passato deve essere giustificata dal giudice in base alla gravità della condotta rilevata e deve essere oggetto di ampia formula motivazionale nella decisione. Nel rispetto di tali criteri è possibile la corrispondente riduzione del beneficio, cioè dell’anticipo del fine pena. Se però il beneficio è riconosciuto e rientra anche in parte nell’applicazione della previsione speciale del Dl del 2013 sull’espiazione della pena questo non può essere inferiore alla misura fissa di 75 giorni e l’applicazione di tale norma speciale, si ricorda che riguarda il biennio seguente all’entrata in vigore del Dl 146, cioè il 24 dicembre 2013. E, conclude la Cassazione, che tale norma speciale che non può essere applicata in misura diversa dal giudice, non ha a che vedere - in termini di discrezionalità - sulla possibilità, prevista dal comma 2 della stessa norma, e valutabile dal giudice di aumentare di trenta giorni i benefici già concessi nell’ordinaria misura di 45 giorni. Il giudice ordinario non può disapplicare il provvedimento di espulsione dello straniero Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2020 Straniero - Irregolare - Provvedimento di espulsione - Natura amministrativa del provvedimento - Sindacato del giudice di merito - Espulsione automatica - Valutazione delle condizioni di esclusione - Non compete - Attività di mero accertamento - Pendenza del processo ammnistrativo - Irrilevanza. Il provvedimento prefettizio di espulsione dello straniero è obbligatorio a carattere vincolato e la sua eventuale disapplicazione è riservata al giudice amministrativo. Il giudice ordinario è solo tenuto all’accertamento, al momento dell’espulsione, della mancanza del permesso di soggiorno, perché scaduto o non rinnovato, essendo irrilevante la circostanza della pendenza dei termini per impugnare il diniego di rinnovo. • Corte di Cassazione, Sezione 1, ordinanza 31 marzo 2020 n. 7619. Straniero - Espulsione - Natura amministrativa del provvedimento di espulsione - Assenza del permesso di soggiorno - Sindacato del giudice di merito - Non sussiste - Valutazione delle condizioni di esclusione dell’espulsione automatica - Non sussiste - Attività di mero accertamento - Pendenza del processo ammnistrativo - Irrilevanza. Non esiste alcun rapporto di pregiudizialità tra il giudizio amministrativo, avente ad oggetto i presupposti per il rilascio di un titolo di soggiorno, e il giudizio ordinario sull’espulsione. Il controllo dell’autorità giurisdizionale ordinaria sul provvedimento prefettizio è quello del riscontro dell’esistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che lo impongono, e la mera carenza del permesso di soggiorno, anche temporanea, fa venir meno il diritto dello straniero di rimanere in Italia. La decisione del giudice amministrativo, sulle condizioni di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro non costituisce un antecedente logico in senso tecnico rispetto a quella del giudice ordinario sul decreto d’espulsione, che legittimamente è stato emesso, nel caso di specie, a seguito della revoca del permesso di soggiorno. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 14 giugno 2018, n. 15676. Immigrazione - Straniero non in regola con il permesso di soggiorno - Decreto prefettizio di espulsione - Sindacato del giudice ordinario sul provvedimento presupposto del questore - Esclusione - Ricorso al giudice amministrativo avverso quest’ultimo - Sospensione del giudizio ordinario - Esclusione. In tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare, al momento dell’espulsione, l’assenza del permesso di soggiorno perché non richiesto (in assenza di cause di giustificazione), revocato, annullato ovvero negato per mancata tempestiva richiesta di rinnovo, mentre è preclusa ogni valutazione, anche ai fini dell’eventuale disapplicazione, sulla legittimità del relativo provvedimento del questore trattandosi di sindacato che spetta unicamente al giudice amministrativo, il giudizio innanzi al quale non giustifica la sospensione di quello innanzi al giudice ordinario attesa la carenza, tra i due, di un nesso di pregiudizialità giuridica necessaria, né la relativa decisione costituisce in alcun modo un antecedente logico rispetto a quella sul decreto di espulsione. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 22 giugno 2016, n. 12976. Stranieri - T.u. immigrazione - Decreto di espulsione del prefetto nei confronti dello straniero non in regola - Potere del giudice ordinario di sindacare l’atto amministrativo presupposto - à - Esclusione - Ricorso al tar avverso il provvedimento del questore - Contestuale ricorso al giudice ordinario - Sospensione di quest’ultimo procedimento ex art. 295 cod. proc. civ. - Inammissibilità. In tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è provvedimento obbligatorio a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare l’esistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l’emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento ovvero nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego; al giudice investito dell’impugnazione del provvedimento di espulsione non è invece consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue, che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario e che il giudice ordinario, dinanzi al quale sia stato impugnato il provvedimento di espulsione, non può disapplicare l’atto amministrativo presupposto emesso dal questore. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 16 ottobre 2006, n. 22217. Oltre l’emergenza, attuare la riforma penitenziaria di Ernesto Preziosi* Avvenire, 9 aprile 2020 Subito i decreti previsti da Orlando. La politica mostra il suo affanno e rischia di non riuscire a corrispondere agli autorevoli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica rispetto l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. La pandemia in corso ha ulteriormente aggravato la situazione e chiede alla politica misure urgenti. Non si può, infatti, delegare ai magistrati di sorveglianza la responsabilità di intervenire sulla situazione, né si può accettare la sola supplenza del Procuratore generale della Corte di Cassazione, che dichiara insufficienti le norme del decreto Cura Italia in riferimento alla popolazione carceraria. Vi è il tema delle misure alternative da adottare per alleggerire la pressione, così come vi è il tema del diritto alla salute che non può non riguardare anche i detenuti e quanti operano all’interno delle carceri. Il Governo, pur nella eterogeneità delle sensibilità politiche che lo sostengono, deve riprendere in mano la riforma Orlando e renderla operativa mediante gli adeguati decreti attuativi. Non si tratta di cedere di fronte alle rivolte, che pure recano danni ingenti, ma di affrontare in modo risolutivo e non emergenziale una questione di civiltà. La politica può fare qualcosa, anche piccoli passi, cominciando dall’accogliere alcuni emendamenti presentati al Senato che riguardano provvedimenti mirati in tema di detenzione domiciliar e di differimento dell’ordine di esecuzione della pena, riducendo i nuovi ingressi. Saranno obiettivi transitori e certo insufficienti ma sono irrinunciabili per dare al sistema il respiro temporale richiesto per adottare e rendere operativi provvedimenti di carattere strutturale. Sullo sfondo di tutto questo vi è la riflessione che la politica deve assolutamente affrontare sul significato della pena e sulla sua funzione nel nostro ordinamento secondo l’art. 27 della Costituzione, che peraltro vieta comportamenti contrari al senso di umanità. *Presidente di “Argomenti 2000” e già deputato Pd Ho amministrato il carcere e ve lo racconto di Enrico Sbriglia* Il Riformista, 9 aprile 2020 Sono un dirigente generale penitenziario in quiescenza dall’1 marzo. Penso ai compagni di viaggio lasciati negli istituti: poliziotti, educatori, assistenti sociali, tecnici, amministrativi, insegnanti, formatori professionali, i volontari, gente incredibile e generosa, le cooperative sociali e le aziende, che portano in carcere il lavoro vero, professionalizzante e retribuito, come da Ccnl, seppure le carceri non sono state immaginate dai palazzinari delle grate per il lavoro vero: già malamente rispettano la sicurezza dei lavoratori penitenziari e questi giorni di Covid-19 ce lo ricordano drammaticamente. Penso ai Cappellani, tenuti anche a conoscere gli Dei degli altri. Un melting pot di persone libere e prigioniere, donne e uomini, a volte anche bambini, con le loro storie e speranze. Speranze minime, che si alimentano di un colloquio visivo e una telefonata con i familiari, oppure di uno sguardo, una parola o un semplice saluto dell’operatore penitenziario: sperano tutti di poter rivivere un futuro senza sbarre. Una libertà spesso senza famiglia, talvolta neanche la casa, da titoli di coda, dura come la pietra del vituperio. Due comunità che si fondono, perché le reazioni chimiche non fanno distinzioni, come il Covid-19. Ne sono uscito. Sopravvissuto all’uragano, dopo 38 armi tutti sul pezzo, ma lì ho pure visto tanti perdersi, morire. Quello che accade l’avevo preconizzato. Non per intelligenza ma perché stavo lì, ero uno di loro: mi era facile comprendere l’insonnia del direttore di fronte all’ammassamento di detenuti e la penuria di operatori, o la tensione del poliziotto solo in sezione, la lotta del medico per impedire la fuga della vita di un detenuto appeso su una grata, o l’ansia dell’educatore in attesa del rientro di un ristretto dal primo permesso, o la soddisfazione di un’assistente sociale che ha trovato un tetto per un liberando. Mondo di ferro e architetture approssimative, non chiuso ma soltanto sconosciuto, anche ai big della politica dei “like” e, non di rado, allo stesso board supremo amministrativo: lo dimostrano le norme “di pancia”, più volte contraddittorie e superficiali, concentrati di incompetenza e disumanità, che sono state rovesciate negli armi sugli operatori penitenziari: norme che seppelliscono altre norme, per poi essere a loro volta tumulate dalle nuove, tecnica furba e malvagia. Sono stato fortunato, perché la Fortuna è cieca, come la stessa icona della Giustizia, ed il mio pensiero va ad Enzo Tortora ed alla sua Passione: il periodo pasquale me lo consente. Le carceri sono in fibrillazione, gli operatori si sentono abbandonati, esposti ai rischi, destinatari di ordini spesso percepiti come impossibili. Gestire la pena è, in fondo, governare le distanze: fisiche e del tempo; ma è anche raccontare lo Stato che si fa esempio ed è qui che rischia di rovinare: come può essere credibile, in tempi di Covid-19, sostenere il primato del distanziamento sociale fuori le mura del carcere e non riconoscerlo, nello stesso tempo, all’interno delle stesse? Come si può, di fronte alle immagini ripetute di bare scortate dall’esercito, non affrontare risolutamente anche il tema delle carceri e dei “posti letto” nelle cosiddette camere di pernottamento (il termine cella, per disposizione dall’alto, è stato abolito)? Ai Direttori, ridotti ad un manipolo (si sa, è sempre fastidioso ricordare le carenze degli organici ai Ministri: cose burocratiche, i “public servant all’italiana” sono tutti dei “fannulloni”...), esorto di resistere. Pure se dirigono, contemporaneamente, due o anche tre carceri in città diverse, pure se in questo di “Stato di eccezione”: siate forti. Dovete, ancora una volta, placare gli animi dei detenuti e dei custodi. Ispiratevi a Marco Pannella a come, fino alla sua morte, insieme ad altri amanti del diritto che si fa carne, abbia fatto da paciere, invocando il primato della forza della ragione alla ragione della forza. Il Covid-19 è anche un Covid normativo penitenziario e la verità non tarderà ad emergere. Le carceri vanno ripensate; ne va rivista l’architettura; vanno reingegnerizzate, le norme riformulate in una visione europea e non di borgata; il carcere deve essere realmente extrema ratio (davvero c’è bisogno di circolari dei procuratori-capo della repubblica?) ma, anzitutto, la gestione delle prigioni, dalla periferia al centro, deve essere affidata alla dirigenza penitenziaria di molo e nelle sue diverse multi-professionali espressioni. Chi operi ai vertici del sistema penitenziario dovrà conoscerlo per davvero dovrà entrare negli istituti e scoprire cucine nei seminterrati, infermerie non a norma, docce comuni mal funzionanti, corridoi stretti e celle di ringhiera, slum con camere di pernottamento gonfie di umanità impilata; in caso contrario, sprechiamo solo parole. *Già Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria In carcere #andratuttobene soltanto se ognuno ci mette del suo di don Marco Pozza Il Mattino di Padova, 9 aprile 2020 Aggiustare è un termine che piace a pochi: troppo laborioso, lento. Meglio un tutto-nuovo, da scartare in fretta. Dentro il carcere, invece, “aggiustare” è la missione: “Qui si riparano uomini rotti” potrebbe essere la scritta da appendere fuori dagli istituti di pena. Come, in altre officine; s’annuncia una nuova vita per una macchina rotta, una sedia sfasciata, una veste sfilata. Chi abita la galera ne è convinto: “Se mi cercassi mi troveresti lì, nel mucchio di cose rotte che pochi hanno voglia d’aggiustare”. Vero anche il contrario: non puoi aggiustare quello che vuol rimanere rotto. Nella Casa di reclusione di Padova, nell’emergenza, si è scelto di fare “i giapponesi”: quando riparano un oggetto rotto, esaltano le crepe, riempiendole d’oro. Sono convinti, loro, che quando qualcuno ha subito una ferita ma ha mantenuto salva la storia, diventa ancora più bello e prezioso. Da prete, vivo la stagione del Covid-19 in galera: come le vacche d’estate fanno l’alpeggio per scansare il caldo, sopravvivo alla buriana del virus assieme a gente che, in altri tempi, è considerata un virus per la città. Sono i giorni in cui mi accorgo, osservando come la comunità del carcere gestisce un’emergenza doppia, dell’alta lezione civica della quale è capace. Ci sono stagioni nelle quali la vita in carcere sembra una partitella di “guardie e ladri”, “tutti contro tutti”, “chi vuol essere il migliore”: sono i tempi più bui da tingere, l’uomo detenuto diviene trofeo da esibire, la carità si perde nel vanto d’averla fatta. Certe volte, capita, si butta a terra l’uomo per fargli pagare il prezzo del soccorso. È nell’emergenza, però, che una comunità si mostra per quello che è: un insieme di uomini che, per non soccombere, si prende per mano e tenta di stare in piedi sulle onde. In questi giorni - privati, giocoforza, del volontariato - contemplare questo mondo all’opera è una lezione di navigazione su mari esagitati. Il direttore, come un sindaco di paese, dalla mattina alla sera staziona sul fronte: c’è uno scudo protettivo da creare attorno, tensioni da governare, paure da rincuorare, buon-senso da mostrare. Certi pomeriggi pare d’assistere ad un consiglio comunale, maggioranza e opposizione: regole da ribadire e fabbisogni ai quali rispondere, ordinanze da rispettare e magistrati da interpellare, divieti da ribadire e urgenze cui rispondere. Più che la recita di un monologo, è il dialogo a entrare in scena. Gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria, poi, sono gli esploratori di quest’inferno sommerso: li vedo compatti in questi giorni, professionali all’osso, popolati da tensioni ed emotività. Dal loro esempio, più che l’aggiustare capisco il prevenire: ci sono persone che si possono aggiustare prima che si rompano. È il fiuto di chi è allenato a riconoscere tempi e modalità. Avvicinare l’uomo nel pieno della rabbia è un azzardo prima che una missione: non si può nemmeno aggiustare ciò che vuole rimanere rotto. Li guardo all’opera e intuisco quanto è fortunato l’uomo ad incontrare un uomo nel momento in cui per società non è quasi più uomo. Altrove le rivolte hanno messo sotto-sopra tutto: qui, se si sono scansate, non è stato per un destino fortuito, ma per un intelligente anticipo di collaborazione quando Covid-19 pareva l’ultimo carro di carnevale. “Di che cosa si lamentano, allora, se funziona così?” obietterà qualcuno. Non va tutto bene: la mancanza del volontariato è cocente, la scuola è un’assenza che intristisce, il via-vai di bontà è stato arrestato fuori. I pasticceri hanno voglia di tornare ad impastare, i redattori a scrivere, gli artisti ad operare: i fedeli a pregare. Non “va tutto bene”. È che i poveri sanno riconoscere che, al tempo delle vacche magre, anche l’istituzione sa offrire quel po’ di latte ch’è capace di mungere pur senza avere grandi allevamenti a disposizione. Qui #andratuttobene è un’offesa all’intelligenza: non andrà tutto bene niente se, ciascuno, non ci mette del suo. Il virus, qui, batte addirittura la giustizia più giusta: è uguale per tutti. Tutti uguali. (Pubblicato sul quotidiano “Il Mattino di Padova” il 27 marzo 2020) Emilia-Romagna. Misure alternative e mascherine contro il rischio di contagio nelle carceri regione.emilia-romagna.it, 9 aprile 2020 La Regione al lavoro con Garanti detenuti, amministrazione penitenziaria e Comuni. Schlein: “Collaborazione che andrà oltre l’emergenza”. Ridurre al massimo e in tempi strettissimi, nelle carceri dell’Emilia-Romagna, il rischio di contagio da Coronavirus tra detenuti, personale sanitario e agenti di polizia penitenziaria, attuando i provvedimenti previsti dal decreto Cura Italia, ma non solo. Vanno in questa direzione le misure che la Regione si accinge a mettere in campo, individuate nell’incontro che si è svolto ieri, in tre ore di videoconferenza, tra la vicepresidente con delega alle disuguaglianze, Elly Schlein, i Garanti regionale e comunali dei detenuti, i Comuni capoluogo sede di istituti penitenziari, il Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna e il Centro giustizia minorile. Tra i provvedimenti di immediata applicazione, quelli per ridurre il sovraffollamento negli istituti di pena, come l’individuazione delle strutture dove accogliere, in alternativa al carcere, i detenuti privi di casa in possesso dei requisiti per accedere alle misure alternative al carcere. Per questo intervento sono a disposizione 460 mila euro: risorse straordinarie stanziate da Cassa delle Ammende, ente del ministero della Giustizia che ha destinato all’Emilia-Romagna 410mila euro, a cui si aggiungono 50mila euro resi disponibili dall’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna. La Regione si impegna, con la pubblicazione di uno specifico bando, ad accelerare al massimo le procedure per l’impiego dei fondi, in modo da rendere disponibili i posti di accoglienza il prima possibile. I provvedimenti, in sintesi - I Comuni verificheranno la disponibilità sul territorio di strutture di accoglienza abitativa per le persone in carcere con pena detentiva, anche residua, non superiore a diciotto mesi, in possesso dei requisiti che consentono loro di scontarla fuori dal carcere; saranno coinvolti i soggetti del Terzo settore, affinché si facciano carico della gestione delle strutture e dell’attuazione di misure di accompagnamento sociale a favore dei detenuti, necessarie a sostenere i percorsi individuali di reinserimento nella vita attiva. L’Amministrazione penitenziaria aiuterà ad individuare la platea dei potenziali beneficiari: le persone con fine pena 18 mesi, con una particolare attenzione a quelli con fine pena 6 mesi, sulle cui istanze deciderà la magistratura di sorveglianza. Come misura di contenimento del contagio, negli Istituti penitenziari della regione sono stati forniti dalla Protezione civile i dispositivi di protezione individuale a tutto il personale, non solo sanitario ma anche di polizia penitenziaria. Infine è in corso di formalizzazione il protocollo tra Regione e Amministrazione penitenziaria per l’effettuazione dei test sierologici, e dei tamponi nei casi previsti, anche al personale di polizia penitenziaria. Lombardia. Meglio fuori di David Allegranti Il Foglio, 9 aprile 2020 Se sei obeso e diabetico, non sei a rischio in carcere, dicono a Pavia, ma meno male che c’è Milano. Cinquantasei anni, detenuto, obeso (180 chili per 181 centimetri di altezza) e diabetico. Ma per il magistrato di sorveglianza di Pavia, dottoressa Ilaria Pia Maria Maupoil, non c’era bisogno di concedere al carcerato la detenzione domiciliare. Così, il 20 marzo, ha rigettato la richiesta “ritenuto che il paventato pericolo cui il soggetto sarebbe esposto in ragione delle descritte condizioni di salute rispetto al possibile contagio da Covid 19, non costituisce un elemento di incompatibilità con la detenzione carceraria, non essendovi indicazioni in merito a frequenza di contagio da Covid 19 maggiore in carcere rispetto che all’ambiente esterno”. Insomma, la dottrina Gratteri fa scuola ovunque, non è mero opinionismo televisivo. Il caso, segnalato dalla rivista specializzata Giurisprudenza Penale, ha però un lieto fine. Il 31 marzo, quindi in tempi rapidi, il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto la detenzione domiciliare, in considerazione delle varie malattie croniche del carcerato, che nel corso della detenzione ha ottenuto 495 giorni di liberazione anticipata e che sarebbe dovuto uscire nel novembre 2020. Il tribunale ha ritenuto che “non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete” e ha “rilevato che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio”. In più ha ritenuto che “tali patologie possano considerarsi gravi”, con specifico riguardo al correlato “rischio di contagio attualmente in corso per Covid 19, che appare - contrariamente a quanto ritenuto dal Magistrato di Sorveglianza - più elevato in ambiente carcerario”. Di recente è stato lo stesso procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi - non esattamente un eversivo - a spiegare che “il rischio epidemico” nelle carceri è “concreto e attuale”: “Mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema processuale il carcere costituisce l’extrema ratio. Occorre, dunque, incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere”. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 6 aprile sono circa 4 mila i detenuti usciti dagli istituti penitenziari da quando è iniziata l’emergenza sanitaria. Sono diversi i fattori, secondo l’analisi del Dap, che hanno inciso sul calo di presenze, tra cui anche l’esecuzione della pena nel domicilio dovuta all’applicazione delle misure del decreto Cura Italia (ma i dati sono aggregati e l’incidenza del decreto sembra essere bassa). Comunque non basta, come osserva l’Associazione Antigone: “In carcere abbiamo bisogno di liberare 10 mila persone almeno mandole ai domiciliari o in misure alternative, anche perché sempre più sono gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c’è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi. Evitiamo che le carceri diventino le nuove Rsa”. Antigone si appella “a chiunque abbia a cuore la salute delle persone e la solidarietà affinché non si dia ascolto a chi dice - sono pochi ma influenti, pare - che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, al pari di tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia. Si liberino tutti coloro che sono a fine pena, a prescindere dalla disponibilità dei braccialetti elettronici. Si liberino tutti gli anziani e i malati oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici prima che contraggano dentro il virus che potrebbe essere letale”. Si dia ascolto, dice ancora Antigone, a chi “le prigioni le conosce bene e non a persone che non hanno mai vissuto l’esperienza carceraria e non sanno cosa significhi respirare l’ansia e la tensione in quel contesto”. Padova. Scarcerati grazie al virus: braccialetto o domiciliari di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 9 aprile 2020 Lo deciderà-caso per caso il tribunale di Sorveglianza dopo il decreto del governo. Il direttore: “Ora mascherine per tutti. E ho chiesto il tampone su reclusi e agenti”. Usciranno diversi detenuti dal carcere di Padova grazie all’ultimo decreto legge del Governo relativo al settore penitenziario valido fino al 30 giugno. Decreto che prevede una procedura per la concessione della detenzione domiciliare molto più snella, con l’eliminazione di alcuni passaggi. Potranno ottenere la detenzione domiciliare i detenuti che devono scontare una pena o un residuo di pena inferiore ai 18 mesi. “Sono misure che ha preso il Governo nell’ambito dell’emergenza”, spiega il direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo. “I detenuti con pena inferiore ai 18 mesi e che soddisfano particolari requisiti di non pericolosità potranno beneficiare della detenzione domiciliare con braccialetto elettronico, se devono ancora scontare più di 6 mesi, senza braccialetto se devono scontare meno di 6 mesi”. A emettere ogni singolo provvedimento sarà il Tribunale di sorveglianza competente. Ma questa non è l’unica novità all’interno del Due Palazzi. Ieri il direttore del carcere ha distribuito mascherine a tutti i detenuti. “Finora i presidi di sicurezza erano indossati solo da agenti penitenziari o persone di cooperative che vengono a fare delle attività in carcere, oggi invece ci sono arrivate mascherine per ogni singolo detenuto”. In parte sono state acquistate dal carcere, in parte sono state donate da Comune e Provincia. “Avrò un incontro in giornata con i rappresentanti dei detenuti dove parlerò delle mascherine e dell’importanza di indossarle specialmente quando all’interno della sezione si fa fatica a tenere il metro di distanza. Sono tutte mascherine lavabili che si possono indossare più volte”. Fortunatamente per il momento al Due Palazzi non ci sono stati casi di coronavirus, né tra il personale né tra i detenuti. Nonostante ciò il direttore ha già chiesto all’Usi che vengano eseguiti tamponi per tutti. “Ho fatto la richiesta in primis per il personale che lavora ai piani, ma poi anche per tutte le altre persone che entrano in carcere, detenuti compresi. Sto aspettando una risposta che mi auguro arrivi al più presto”. Nel frattempo la struttura penitenziaria ha preso tutti gli accorgimenti per evitare che il virus possa entrare in carcere: “Abbiamo il triage all’entrata, dove viene misurata la temperatura a chiunque entri e dove il personale si dota di tutti i presidi di sicurezza, abbiamo installato dei dispenser con gel igienizzante, istituito il servizio di lavanderia gratuita”. Anche le telefonate e le videochiamate, che in questo periodo si sono sostituite ai colloqui, non sono a pagamento, com’erano prima dell’emergenza coronavirus. “Ogni detenuto ha una telefonata al giorno gratis, mentre i colloqui con i parenti sono stati sostituiti con le videochiamate, anche queste gratuite”, sottolinea il direttore Mazzeo. La situazione nella casa di reclusione Due Palazzi, che conta circa 670 detenuti ben una settantina in più rispetto ai posti stabiliti, è abbastanza tranquilla. Dopo le rivolte dell’8 marzo nelle carceri di tutta Italia non ci sono più stati episodi di ribellione. “Ho fatto il giro delle sezioni e parlato con i detenuti: hanno capito che stiamo vivendo un periodo di emergenza e si sono dimostrati tutti collaborativi. L’8 marzo pure a Padova c’era stata una protesta che aveva spinto una mezza sezione, una quarantina di detenuti circa, a danneggiare tavoli e rompere plafoniere. Fortunatamente non abbiamo avuto nessun ferito. I promotori dei disordini sono stati individuati e trasferiti in altri luoghi”. (Pubblicato sul quotidiano “Il Mattino di Padova” il 2 aprile 2020) Trento. Sono 8 i detenuti positivi al virus, anche 4 operatori in quarantena Corriere del Trentino, 9 aprile 2020 Si aggrava la situazione nel carcere di Spini di Gardolo. Presente anche la direttrice. Sono saliti a quattro i detenuti che hanno contratto il virus del Covid-19. Ma sono positivi anche due agenti di Polizia penitenziaria e due amministrativi. Questi ultimi si trovano in isolamento fiduciario a casa, mentre i quattro detenuti sono stati trasferiti in un’ala separata dal resto della popolazione carceraria assistiti da i medici. Resteranno in quarantena, nella speranza che in questo modo si sia riusciti a isolare il contagio, in un luogo come il carcere, infatti, la diffusione potrebbe essere molto rapida. Per questo è stato deciso di effettuare tamponi, con tempi e modalità che saranno individuati dall’Azienda sanitaria, su tutta la popolazione penitenziaria e su tutti gli agenti. Intanto sono stati potenziati i colloqui via skype. Santa Maria Capua Vetere (Ve). Nel carcere i contagi salgono a sei, la denuncia del garante di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 9 aprile 2020 “Due detenuti, che solo per motivi precauzionali sono stati accolti in stanze di isolamento sanitario, come già avvenuto per un altro detenuto risultato positivo e senza sintomi”. Tutti i detenuti dell’intera sezione - oltre 130 persone, compresi i tre positivi presenti nel carcere - non presentano, dice Ciambriello, alcun sintomo di malattia, “non necessitano di alcuna terapia e sono monitorati dai sanitari. Abbiamo potuto rilevare come tutti i detenuti presenti nel carcere di Santa Maria siano attentamente valutati e seguiti sin dall’inizio dell’emergenza e ringraziamo il personale sanitario ai vari livelli che è intervenuto in questi giorni con immediatezza e professionalità”. A partire dalla notizia del primo caso positivo, nella notte di sabato, sono stati effettuati 200 test sierologici rapidi domenica e 200 tamponi naso-faringei lunedì, per tutti i detenuti della stessa sezione e per tutto il personale, sanitario e penitenziario, che vi lavora. “Siamo vicini - conclude il garante - al personale penitenziario e ai familiari dei detenuti. Collaboreremo giorno per giorno a garanzia del diritto alla salute, del diritto alla vita di tutte le persone che operano nel mondo carcerario, dando supporto al personale sanitario”. Intanto a Napoli c’è stata la protesta dei familiari dei reclusi prima davanti al carcere di Poggioreale, poi in Tribunale. Momenti di tensione durante il tentativo da parte di un folto gruppo di parenti di persone detenute nel carcere di entrare con la forza a Palazzo di Giustizia. A bloccare il gruppo, capeggiato da alcune donne, sono stati gli agenti della polizia penitenziaria che presidiavano il varco di piazza Cenni. Un dirigente di polizia è stato aggredito. Due persone sono state identificate e denunciate. Del gruppo facevano parte parenti di detenuti ristretti nel vicino carcere di Poggioreale, che poco prima aveva chiesto a gran voce l’indulto e l’amnistia. Napoli. I parenti dei detenuti tentano di entrare nel tribunale, proteste anche a Poggioreale Il Mattino, 9 aprile 2020 Fermati dagli agenti della polizia penitenziaria, polizia e carabinieri. In mattinata protesta davanti a Poggioreale. Momenti di tensione oggi a Napoli durante il tentativo da parte di un folto gruppo di parenti di persone detenute nel carcere di Poggioreale, una ventina, di entrare nel Tribunale partenopeo. A bloccare il gruppo, secondo quanto si è appreso capeggiato da alcune donne, sono stati gli agenti della Polizia Penitenziaria che presidiavano il varco al Palazzo di Giustizia di piazza Cenni insieme con la Polizia di Stato e i Carabinieri. A causa dell’episodio su disposizione della Procura Generale sono stati temporaneamente chiusi tutti i varchi d’accesso al Nuovo Palazzo di Giustizia. “Un plauso va alla Polizia Penitenziaria di presidio ai Varchi del Tribunale di Napoli - dice, in una nota, Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Uspp - dove oggi un gruppo di 20 facinorosi per lo più donne familiari dei detenuti di Poggioreale, dopo aver protestato innanzi il carcere, si sono portati innanzi l’ingresso principale del Palazzo di giustizia e sono riusciti ad entrare negli spazi antistanti il Palazzo”. “La Polizia Penitenziaria - spiega Auricchio - è intervenuta nell’ immediatezza per fermare i facinorosi che stavano per fare ingresso in Tribunale e unitamente a personale della Polizia di Stato e dei carabinieri, sopraggiunto sul posto, è riuscita ad allontanare i facinorosi”. “Ancora una volta l’apporto della Polizia Penitenziaria impiegata a presidio dei varchi di ingresso del Tribunale si è rivelato prezioso per la sicurezza del Palazzo di giustizia, - sottolinea il sindacalista - per questo chiediamo ancora una volta, come già fatto in epoca pregressa, che il predetto presidio non sia revocato per essere assorbito da organismi di vigilanza privata”. In mattinata davanti al carcere di Poggioreale è stato esposto uno striscione: “La salute è un diritto di tutti/e, amnistia e indulto”. La protesta ha bloccato brevemente l’esiguo traffico di via Poggioreale organizzata per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui pericoli derivanti da un eventuale contagio negli istituti di pena. “La Polizia Penitenziaria, tutti i giorni, - ha gridato con il megafono uno dei manifestanti - entra ed esce dal carcere senza alcuna protezione... i detenuti devono tornare urgentemente a casa”. Pisa. “Nel carcere Don Bosco contagiati 13 agenti e tre operatori sanitari” gonews.it, 9 aprile 2020 Secondo il sindacato della Polizia penitenziaria Ciisa, a Pisa si contano 16 positivi al Coronavirus covid-19. Secondo il sindacato, i contagiati sono 13 agenti e tre operatori sanitari. Ciisa, Confederazione dei sindacati indipendenti di polizia penitenziaria, precisa che “i dati vengono raccolti col passaparola, visto che l’amministrazione non ha diffuso alcun bollettino ufficiale”. “Ultimati quasi i tamponi naso-faringeo alla Casa circondariale pisana - aggiunge Giuseppe Rodriguez della segreteria generale della Ciisa - che dovranno essere ripetuti almeno altre due volte e procedere con i test sierologici, non solo agli agenti e agli amministrativi, ma anche ai detenuti per avere un quadro reale. Questi test devono però essere estesi a tutti a livello nazionale. Infine, abbiamo appreso che, anche il dirigente sanitario di Pisa ha avallato la decisione del direttore del carcere di non fare indossare agli agenti i dispositivi di protezione individuale vietando l’uso delle mascherine anche agli operatori sanitari e ricordiamo che il primo contagiato in carcere a Pisa è stato proprio un medico che non indossava alcun dispositivo. Ci chiediamo quanti saranno i detenuti positivi all’infezione da Covid-19”. Alessandria. L’inferno del carcere in tempo di epidemia da Covid19 di Bruno Mellano* e Marco Revelli** Il Dubbio, 9 aprile 2020 In questi giorni le varie figure di garanzia per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà sono letteralmente subissati da segnalazioni, istanze, denunce in riferimento alla vita detentiva nelle nostre carceri nel pieno dell’emergenza Covid-19. In particolare ci è giunta - in forma anonima - una lettera che crediamo significativa dall’interno della Casa Circondariale “don Soria” di Alessandria. Il vecchio carcere collocato in centro città purtroppo può essere una perfetta cartina di tornasole del clima e delle tensioni delle 189 carceri d’Italia. I detenuti hanno scritto “Noi non vogliamo più che tutto ciò debba ripetersi”, riferendosi ai tragici episodi di rivolta violenta che sono esplosi il 7, 8 e 9 marzo scorsi e che purtroppo hanno anche riguardato le due carceri alessandrine. In particolare la Casa di Reclusione San Michele ha subito danneggiamenti alle celle che hanno ridotto la capienza dell’Istituto di 50 posti, in un contesto che già soffriva di grave sovraffollamento (393 detenuti su 237 posti disponibili). La comunità penitenziaria piemontese, infatti, conta 4.514 detenuti, ristretti nelle 13 carceri per adulti con una capienza effettiva complessiva di appena 3.783 posti: 731 detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Vi sono istituti piemontesi con un indice di sovraffollamento ben sopra la già alta media regionale (120%): Alessandria San Michele 153%, Alba e Ivrea 142%, Asti 139%, Biella 138%, Vercelli 135%. La Casa Circondariale don Soria conta 230 detenuti su 210 posti disponibili. I detenuti hanno scritto “Noi vogliano solo che la nostra voce, i nostri diritti umani, possano uscire da queste alte mura che ci dividono dal mondo esterno”. E poi “La situazione per colpa del corona virus fuori la conosciamo bene, anche noi abbiamo le nostre famiglie che lottano insieme a voi e tutto il resto del mondo contro questa tragica situazione. Quello che vogliamo che si sappia e che noi non ce l’abbiamo personalmente con la Direttrice del carcere e tutto il suo organico, che ogni giorno fanno il loro dovere, anche loro nel limite del possibile, in quanto siamo assolutamente sprovvisti di tamponi, mascherine, medicinali e cure mediche specialistiche per tantissimi detenuti che hanno gravi patologie”. E hanno rimarcato che “Ormai la paura del contagio, qui all’interno, è alle stelle, e l’ansia, l’agitazione, il nervosismo per la perdita di sonno. L’aumento di influenzati con febbre e i tanti detenuti con pene al di sotto i 3 anni che potrebbero uscire con i domiciliari, ma nessuno esce … Tutto questo crea una tensione altissima”. E poi: “Abbiamo mogli, figli e parenti ammalati gravi fuori, e ci vengono rigettate ogni forma di richiesta… la nostra non è una protesta con la Direzione del carcere, che si fa in 4 per noi, è una protesta verso il sistema giudiziario e verso un Governo e uno Stato che se ne frega!”. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha inviato un appello pubblico al Presidente della Repubblica, alle Camere, ai Presidenti di Regione, di Provincia, di Città Metropolitana ed ai Sindaci sulla crisi Covid-19 in ambito penitenziario. Si tratta di una richiesta pressante affinché si adottino misure straordinarie ed urgenti per “portare nel giro di pochi giorni la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare effettivamente disponibile”. Prima che sia troppo tardi! I detenuti del “don Soria” concludono la loro lettera con una domanda, che facciamo nostra: “Voi fuori evitate gli assembramenti e noi qui sovraffollati cosa dovremmo fare per non contagiarci?”. *Garante dei detenuti del Piemonte **Garante dei detenuti di Alessandria Belluno. I detenuti temono l’onda del contagio: “A quando il decreto svuota-carceri?” Il Gazzettino, 9 aprile 2020 “Nel carcere di Belluno da settimane viviamo nel terrore del coronavirus: c’è una situazione di sovraffollamento e nessuna mascherina, chiediamo una sospensione di esecuzione fino a due o tre anni. Non vogliamo che i nostri carceri diventino obitori o cimiteri”. L’appello è firmato da 46 detenuti a Baldenich. “Noi, qui nel carcere di Belluno da settimane viviamo nel terrore del coronavirus: c’è una situazione di sovraffollamento e nessuna mascherina, chiediamo una sospensione di esecuzione fino a due o 3 anni. Non vogliamo che i nostri carceri diventino obitori o cimiteri”. Un accorato appello quello firmato da 46 detenuti della casa circondariale di Baldenich inviato alla Commissione carcere della camera penale Veneziana, che lo ha fatto proprio rilanciandolo in un comunicato, con il presidente della Camera Penale bellunese, Odorico Larese. “Abbiamo ricevuto dal carcere di Belluno una lettera sottoscritta da 46 detenuti, a cui vogliamo dare voce”, esordiscono in una nota il presidente bellunese, avvocato Massimo Montino, e quello della commissione carcere della Camera Penale Veneziana Antonio Pognici, avvocato Massimiliano Cristofoli Prat. “Nell’istituto di Belluno, attualmente vi sono 107 ristretti, di cui 75 in esecuzione pena e i rimanenti in attesa di giudizio - spiegano dalle due Camere Penali. Anche a Baldenich vi è stata partecipazione alla civile protesta di inizio marzo sul tema dell’emergenza Covid-19 e oggi i detenuti ritornano a segnalare la preoccupazione per il rischio che l’epidemia entri in carcere. Non è un loro problema, perché il carcere è un potenziale pericoloso focolaio per detenuti, polizia penitenziaria e personale amministrativo, ma anche per l’intera collettività”. E proseguono: “I detenuti segnalano la carenza di dispositivi di protezione individuale e la condizione di sovraffollamento che impedisce il distanziamento sociale. Unico presidio: la tenda per il triage allestita dalla Protezione Civile davanti all’ingresso. Ma la segnalazione più forte riguarda l’inadeguatezza della misura della detenzione domiciliare speciale prevista dal Decreto 18/2020 che si rivelata del tutto inadeguata a ridurre le presenze in carcere ed inapplicabile per i tanti che non dispongono di un domicilio”. “La lettera chiede - sottolineano gli avvocati - la sospensione dell’esecuzione per le pene brevi ed un più ampio ricorso alla detenzione domiciliare. Un appello importante, che è giusto raccogliere per senso di responsabilità nei confronti della popolazione del carcere e dell’intera comunità”. Le due Camere Penali citano anche il caso veneziano: la Casa Circondariale di Venezia Santa Maria Maggiore dove la situazione è ancora più drammatica, per un sovraffollamento che conta la presenza di 268 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 159. Le misure introdotte con il decreto n. 18/2020 che prevedono per i detenuti in semi-libertà la possibilità di non rientrare in carcere la sera e per i condannati fino a 18 mesi di scontare la pena in detenzione domiciliare, non sono ritenute sufficienti dalle due Camere penali e nemmeno dai detenuti. Chiedono la detenzione domiciliare al disotto dei 4 anni, senza porre ostacoli e un decreto per la sospensione dell’esecuzione fino a 2 o 3 anni. “Qui da noi basta poco o niente per essere infettati - avevano scritto agli avvocati i detenuti bellunesi - già abbiamo avuto un detenuto isolato per una settimana, perché aveva i sintomi e siamo in un regime chiuso. Una volta portato il virus non saranno le mura del carcere a fermarlo”. Brindisi. Detenuto positivo al coronavirus, tamponi a tutti i presenti nel reparto brindisireport.it, 9 aprile 2020 La direzione della Casa circondariale di Brindisi ha risposto a una richiesta di chiarimenti della Camera Penale. Tamponi a tutti i detenuti che si trovavano nello stesso reparto del detenuto risultato positivo al Covid e quarantena per il personale entrato in contatto con il contagiato. Queste le misure anti contagio adottate dalla direzione del carcere di Brindisi dopo il contagio di un detenuto di 35 anni al quale nella giornata di lunedì (6 aprile) è stata diagnosticata la positività al coronavirus. La direttrice della casa circondariale ha risposto a una richiesta di chiarimenti sull’accaduto inoltrata nella giornata di ieri, subito dopo la diffusione della notizia del contagio, dalla Camera Penale di Brindisi presieduta dall’avvocato Pasquale Annicchiarico. Stando alle rassicurazioni fornite dalla direzione, ieri è stato avviato lo screening epidemiologico su tutti i detenuti situati nel reparto in questione. Sono in quarantena dal 6 aprile, inoltre, gli agenti della Polizia penitenziaria che hanno avuto dei contatti con il detenuto nella giornata di domenica (5 aprile), all’insorgere dei primi sintomi. La direttrice ha inoltre chiarito che i nuovi detenuti provenienti dalla libertà, al momento dell’ingresso in carcere, dopo aver igienizzato le mani e indossato una mascherina, sono sottoposti a un triage all’interno della tenda messa a disposizione dalla Protezione Civile. I nuovi arrivati inoltre, per 14 giorni, vengono collocati in un’apposita sezione, prima del trasferimento in una cella ordinaria, a meno che già all’ingresso non manifesti dei sintomi. In quel caso verrebbe chiesto l’intervento del 118. La Camera Penale di Brindisi ha provveduto, inoltre, a contattare per le vie brevi, stante l’urgenza, il Presidente del tribunale di Sorveglianza, Silvia Maria Dominioni, per sollecitare i provvedimenti riguardanti istanze di scarcerazione per detenuti di Brindisi che, per la situazione sanitaria determinatasi, andrebbero valutate con priorità. “Tali sono state le rassicurazioni - si apprende dalla Camera penale - compatibilmente con l’elevato numero di istanze che sono pervenute in questi giorni a fronte di un personale amministrativo ridotto”. Roma. Il Calvario visto dai detenuti: le meditazioni della Via Crucis con il Papa di Mimmo Muolo Avvenire, 9 aprile 2020 Affidate alla comunità della Casa di Reclusione di Padova le meditazioni delle 14 Stazioni per il rito del Venerdì Santo in piazza San Pietro e non nella tradizionale sede del Colosseo. Quattordici meditazioni. E per ogni meditazione una storia. E dietro ogni storia una persona. La Via Crucis del Venerdì Santo - che quest’anno anziché al Colosseo, a motivo delle restrizioni per il coronavirus, si terrà in piazza San Pietro - nasce dal vissuto di chi è in carcere. E tocca nel profondo. “Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo, scoppio nel pianto - scrive ad esempio un condannato all’ergastolo rinchiuso nel carcere di Padova. Dopo ventinove anni di galera non ho perduto la capacità di vergognarmi della mia storia passata. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona”. Ma Gesù crocifisso e risorto è capace anche di entrare a porte chiuse nelle prigioni, così come fece nel Cenacolo. E proprio da quel detenuto arriva la conferma. “Quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita”. Questa è una delle quattordici meditazioni che risuoneranno venerdì sera, a partire dalle 21. Sono state scritte da cinque detenuti, una famiglia vittima per un reato di omicidio, la figlia di un uomo condannato all’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di una persona detenuta, una catechista, un frate volontario, un agente di polizia penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto dopo anni di processo. Raccolti dal cappellano del carcere padovano, don Marco Pozza, e dalla volontaria Tatiana Mario, i testi sono già disponibili sul sito Internet della Libreria Editrice Vaticana. Un percorso per “accompagnare Cristo sulla via della croce, con la voce rauca della gente che abita il mondo delle carceri - si legge nell’introduzione - e per assistere al prodigioso duello tra la vita e la morte, scoprendo come i fili del bene si intreccino inevitabilmente con i fili del male”. Nella seconda Stazione i genitori di una ragazza uccisa scrivono: “Siamo vittime del peggiore dolore che esista: sopravvivere alla morte di una figlia”. Ma il Signore li ha sorretti. “Lui ci invita a tenere aperta la porta della nostra casa al più debole, al disperato, accogliendo chi bussa anche solo per un piatto di minestra. Avere fatto della carità il nostro comandamento è per noi una forma di salvezza”. Allo stesso modo Cristo è diventato punto di riferimento per il detenuto colpevole di omicidio della terza Stazione. “Mi sento la versione moderna del ladrone che a Cristo implora: “Ricordati di me!”. Non pensare che al mondo esistesse la bontà è stata la mia prima caduta. La seconda, l’omicidio, è stata quasi una conseguenza”. Non c’è solo il dolore di chi sta dentro. Alla quarta Stazione la madre di un detenuto ricorda: “Il giorno dell’arresto l’intera famiglia è entrata in prigione con lui. Ancora oggi il giudizio della gente non si placa, è una lama affilata”. Ma, aggiunge, “avverto la vicinanza della Madonna: mi aiuta a non farmi schiacciare dalla disperazione, a sopportare le cattiverie”. L’aiuto può arrivare anche dalle persone. Nella quinta Stazione un altro detenuto, a proposito del Cireneo, scrive: “Dentro le carceri Simone di Cirene lo conoscono tutti: è il secondo nome dei volontari, di chi sale questo calvario per aiutare a portare una croce; è gente che rifiuta la legge del branco mettendosi in ascolto della coscienza”. E alla sesta una catechista conferma: “Asciugo tante lacrime, lasciandole scorrere: non si possono arginare le piene di cuori straziati. Spesso immagino: Gesù come asciugherebbe quelle lacrime? La strada suggeritami da Cristo è contemplare quei volti sfigurati dalla sofferenza, senza provarne paura, guardando oltre il pregiudizio”. La Via Crucis accomuna spesso detenuti e familiari. Alla settima Stazione un detenuto per spaccio confessa: “Sono caduto a terra due volte. La prima quando il male mi ha affascinato e io ho ceduto. La seconda è stata quando ho rovinato la famiglia”. A sua volta all’ottava la figlia di un ergastolano scrive: “Da ventotto anni sto scontando la pena di crescere senza padre, la sua mancanza è sempre più pesante da sopportare. Conosco le città non per i loro monumenti ma per le carceri che ho visitato”. Eppure proprio dalla disperazione può rinascere la speranza. Lo testimonia alla nona Stazione un altro detenuto. “È vero che sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre”. E alla decima Stazione un’educatrice del carcere ci spiega come: “A tratti i detenuti assomigliano a dei bambini appena partoriti che possono ancora essere plasmati. Percepisco che la loro vita può ricominciare in un’altra direzione, voltando definitivamente le spalle al male”. Nell’undicesima Stazione un sacerdote accusato ingiustamente parla del suo calvario: “L’accusa era fatta di parole dure come chiodi, il patimento si è inciso nella pelle. Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie”. Ma “appeso in croce il mio sacerdozio si è illuminato”. E nella dodicesima un magistrato di sorveglianza ricorda che “una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce, ma si offre come guida nell’aiutarlo a rialzarsi”. In un certo senso è la stessa opera che da un altro versante compiono il religioso volontario della tredicesima Stazione (“Il carcere continua a seppellire uomini vivi: sono storie che non vuole più nessuno. A me Cristo ogni volta ripete: “Continua, non fermarti. Prendili in braccio ancora”) e l’agente di polizia penitenziaria dell’ultima Stazione: “In carcere un uomo buono può diventare sadico. Un malvagio potrebbe diventare migliore. Il risultato dipende anche da me. Non posso limitarmi ad aprire e chiudere una cella”. Migranti. Con la scusa del virus il governo dichiara l’Italia “porto non sicuro” di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 aprile 2020 Il governo italiano ha stabilito che i suoi porti non sono “sicuri”. Si tratta di una decisione senza precedenti che ha l’obiettivo di impedire fino al 31 luglio prossimo lo sbarco dei migranti salvati dalle Ong. Anzi, dalla Ong. Al momento, infatti, nel Mediterraneo centrale è attiva solo l’imbarcazione Alan Kurdi, dell’organizzazione non governativa tedesca Sea-Eye. Lunedì scorso ha tratto in salvo 150 persone che rischiavano di annegare. “È assurdo non considerare sicuri i porti italiani ma ritenere che lo siano quelli libici”, afferma Sophie Weidenhiller, portavoce di Sea-Eye. Il decreto non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, forse proprio in attesa di risolvere il caso per cui martedì sera era stata ventilata l’ipotesi di quarantena a bordo di una nave della Croce rossa. Comunque, manca solo l’ultimo passaggio: le firme di quattro ministri sono già in calce al provvedimento. Si tratta di Paola De Micheli (Infrastrutture e trasporti), Luigi Di Maio (Esteri), Luciana Lamorgese (Interno) e Roberto Speranza (Salute). In un aprile di tre anni fa quest’ultimo aveva dichiarato: “Salvare le vite nel Mediterraneo è un obbligo morale. Non è accettabile la strumentalizzazione di chi cavalca la paura per prendere qualche voto in più”. Eppure è difficile comprendere la logica del provvedimento al di fuori della strumentalizzazione politica dei salvataggi in mare. Il decreto non può bloccare gli arrivi “autonomi” ricominciati con il bel tempo (151 a Lampedusa nelle ultime 48 ore) e, a parte la Alan Kurdi, tutte le navi umanitarie sono ferme in porto, con i team medici impegnati nell’emergenza Covid-19. Risultano paradossali i “visto”, “considerato” e “tenuto conto” riportati nel testo per giustificare un nuovo “decreto ad navem”, dopo quelli firmati da Matteo Salvini. Le argomentazioni richiamano la limitazione degli spostamenti interregionali e dell’ingresso delle persone in Italia, come se la condizione dei naufraghi salvati in mezzo al mare sia paragonabile a quella di chi vuole fare una gita o una vacanza. Sono menzionate le dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità su emergenza sanitaria globale (30 gennaio) e pandemia (11 marzo), da cui però sono trascorsi rispettivamente 69 e 29 giorni. In maniera ancora più grave il provvedimento afferma che le persone salvate potrebbero mettere a rischio la tenuta dei sistemi sanitari regionali, come se lo Stato fosse nella condizione di dover scegliere chi far vivere e chi lasciar morire, proprio mentre ci si avvicina alla “fase 2” e il governo prepara la riapertura della maggior parte delle attività produttive. Beffardo è invece l’utilizzo dell’obbligo di assicurare “l’assenza di minaccia per la propria vita” per motivare un provvedimento che impedisce lo sbarco di chi è stato salvato dalla possibilità di annegare e dall’inferno libico. “Il decreto di fatto strumentalizza l’emergenza sanitaria, riprendendo l’impianto già utilizzato nel recente passato per ostacolare le attività di soccorso in mare, in un momento difficile in cui più che mai sarebbe necessaria un’assunzione di responsabilità a livello europeo per poter ottemperare all’obbligo di soccorso”, scrivono in una nota congiunta le organizzazioni impegnate nei soccorsi in mare Medici senza frontiere, Mediterranea, Open Arms e Sea Watch. “Con un atto amministrativo, di natura secondaria, viene sospeso il diritto internazionale, di grado superiore, sfuggendo così ai propri doveri inderogabili di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita”, sostiene in un comunicato il Tavolo nazionale asilo. Critiche e dissensi stanno emergendo anche all’interno della stessa maggioranza. Un appello firmato in poche ore da venti deputati e senatori, insieme a europarlamentari e amministratori locali, chiede “al governo di revocare questo decreto e predisporre invece protocolli sanitari adeguati”. Modalità per tutelare contemporaneamente il diritto alla vita dei rifugiati e quello alla salute pubblica ce ne sarebbero tante. Dall’utilizzo per la quarantena di strutture al momento vuote, come gli hotspot di Messina e Taranto, all’invio di una “nave dell’accoglienza” a Lampedusa. Lo ha richiesto il sindaco Salvatore Martello sottolineando l’esigenza di una struttura in cui svolgere le pratiche di profilassi necessarie per i nuovi arrivati, compresi quelli sbarcati in autonomia, al fine di garantire sicurezza agli abitanti dell’isola, senza fare passi indietro sui diritti umani. Migranti. Divieto illegittimo, nella forma e nella sostanza di Francesco Pallante Il Manifesto, 9 aprile 2020 L’Italia, dunque, non è più un porto sicuro. Lo proclama il decreto 150 del 7 aprile 2020 emanato dal ministro dei trasporti Paola De Micheli, di concerto con i ministri degli esteri Luigi Di Maio, dell’interno Luciana Lamorgese e della salute Roberto Speranza. La disposizione è particolarmente secca: “Per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19 (dunque, sino al 31 luglio 2020, ndr), i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, sulla ricerca e salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area Sar italiana”. Di conseguenza, i naufraghi eventualmente salvati da navi non italiane non potranno essere sbarcati in un porto della nostra penisola, ma andranno condotti dai soccorritori in un porto dello stato di cui la loro nave batte bandiera. Politicamente indicativa la motivazione della decisione assunta. Merita riportare direttamente le parole del decreto, che è stato deciso dopo aver “tenuto conto che, in considerazione della situazione di emergenza connessa alla diffusione del coronavirus e dell’attuale situazione di criticità dei servizi sanitari regionali e all’impegno straordinario svolto dai medici da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Codiv-19, non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19”. Assicurare un porto in cui sbarcare in sicurezza i naufraghi implicherebbe, cioè, sottrarre risorse umane attualmente rivolte a curare gli italiani e questo, per i ministri firmatari del decreto, sarebbe - evidentemente - inaccettabile. A parte il fatto che è davvero poco credibile che la messa in quarantena (perché di questo si tratterebbe) di qualche decina di persone possa assestare un colpo decisivo alla capacità italiana di far fronte al Covid-19, l’argomentazione governativa non ha nulla a che vedere con la sicurezza dei nostri porti, riducendosi, in sintesi, a un: “prima gli italiani”. Che Salvini, che già aveva avuto i Cinque stelle (Di Maio) dalla sua, abbia fatto dunque proseliti anche nel Pd (De Micheli; ma non si dimentichi il precedente di Minniti) e in LeU (Speranza)? Le cronache giornalistiche di queste ore ci rivelano la ragione contingente di tale decisione: il fatto che la nave Alan Kurdi, della ong tedesca Sea Eye, si stia avvicinando alle coste italiane con a bordo 145 naufraghi tratti in salvo al largo delle coste libiche. Che cosa pensi di poter ottenere il governo con il suo decreto è difficile da comprendere: davvero qualcuno crede che l’imbarcazione di soccorso volgerà adesso la prua alla volta di Gibilterra per dirigersi verso il “più vicino” porto tedesco? O, peggio ancora, che inverta la rotta e riconsegni i naufraghi ai loro aguzzini libici? Possibile che il caso Rackete non abbia insegnato nulla? È stato già dimenticato che sono in gioco diritti umani fondamentali - a partire da quello alla vita - a tutela dei quali i soccorritori agiscono nell’adempimento di un dovere e, se non adeguatamente sostenuti o, peggio, se ostacolati dalle autorità, potendo fare affidamento sulla scriminante dello stato di necessità? E cosa farà il governo se la Alan Kurdi entrerà ugualmente in un porto italiano: chiederà consiglio a Salvini su come schierare le motovedette della Guardia di Finanza a far muro davanti ai moli di attracco? Come se non bastasse, a incidere in maniera così pesante su alcuni tra i più fondamentali diritti umani - il diritto alla vita, il diritto di non essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani e degradanti, il diritto d’asilo - è un atto normativo secondario, quale il decreto interministeriale, che esclude ogni possibile valutazione non solo parlamentare, ma addirittura governativa, trattandosi di atto assunto senza deliberazione del Consiglio dei Ministri. Un provvedimento, dunque, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente illegittimo. Pena di morte e terrorismo internazionale: da Londra una sentenza importante di Eleonora Mongelli Il Riformista, 9 aprile 2020 In una decisione unanime, pronunciata lo scorso 25 marzo da remoto a causa dell’emergenza Covid-19, la Corte suprema del Regno Unito ha dichiarato che il governo britannico ha agito contro la legge nel fornire informazioni agli Stati Uniti, in un caso giudiziario, senza ottenere da essi garanzie sulla non applicazione della pena di morte. Si tratta del caso di Shafee El Sheik e Alexanda Kotey, due ex cittadini britannici, accusati di essere membri di uno dei più feroci gruppi jihadisti, noto come “The Beatles”, che operava in Siria e che è stato responsabile dell’omicidio di cittadini britannici e statunitensi. Catturati nel gennaio 2018, trattenuti dalle forze curde in Siria per 18 mesi e attualmente sotto la custodia degli Stati Uniti in Iraq, se condannati, potrebbero essere giustiziati. Il caso è stato sollevato dalla madre di El Sheik, Maha Elgizouli, che ha presentato ricorso contro la decisione dell’allora ministro dell’Interno britannico Sajid Javid, in quanto avrebbe facilitato intenzionalmente la possibile imposizione della pena di morte negli Stati Uniti. Su richiesta di Javid, Scotland Yard ha, di fatto, condiviso con gli Stati Uniti i risultati di un’indagine di quattro anni sui “Beatles” dopo che il PM britannico aveva concluso che non vi erano prove sufficienti per perseguire i due in Gran Bretagna. L’accusa in uno Stato straniero era, secondo Javid, necessaria per garantire che giustizia fosse fatta, a prescindere dalle garanzie previste dal common law. Così, seppure con il rifiuto dell’amministrazione Trump dell’epoca di assicurare l’esclusione del ricorso alla pena di morte ad un Paese che ha fatto della sua abolizione uno dei principali obiettivi della politica estera in materia di diritti umani e nonostante le esitazioni di Kim Darroch, allora ambasciatore britannico a Washington, il quale gli espresse in una lettera le sue preoccupazioni, l’ex ministro scelse di cedere alle pressioni politiche statunitensi, dando così l’impressione che il Regno Unito, in determinate circostanze, sia disposto a chiudere un occhio sull’uso della pena capitale e, quindi, sul rispetto delle sue stesse leggi. È facile che motivi di opportunità politica internazionale spingano a mettere in discussione le procedure, soprattutto con crimini legati al terrorismo, quando la priorità collettiva diventa la sicurezza nazionale e l’opinione pubblica è emotivamente più vulnerabile. Ma cosa accade se la risposta di un governo, anche davanti ai reati più aberranti, si basa sull’opportunità politica piuttosto che sul rispetto dei propri principi e delle proprie leggi? Questa è la domanda che ha spinto due importanti organizzazioni britanniche, Reprieve e The Death Penalty Project, a prendere parte al procedimento giudiziario. La preoccupazione che la decisione di Javid avrebbe portato il governo a fare un passo indietro rispetto alle altre garanzie sui diritti umani, fondamentali per i valori delle democrazie liberali, oltre che a minare decenni di diplomazia in materia di lotta alla pena capitale nel mondo, era condivisa da molti. Il Regno Unito ha abolito la pena di morte oltre 50 anni fa giudicandola immorale e inaccettabile. Tuttavia, si legge nella sentenza, non sono né l’immoralità né l’inaccettabilità della pena di morte l’oggetto del processo, bensì la legalità della decisione del governo di fornire assistenza giudiziaria agli Stati Uniti su procedimenti penali che avrebbero potuto includere la richiesta di tale pena. Sempre la stessa sentenza mette in chiaro la gravità dei crimini di cui sono accusati El Sheik e Kotey, definendoli “the worst of the worst”, ma la legge è chiara: il Data Protection Act 2018 stabilisce che il trattamento dei dati di un individuo, con una qualsiasi residenza o cittadinanza, verso un Paese terzo, deve avvenire nel rispetto di determinate condizioni. Tali condizioni, in accordo con la Cedu e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, contemplano alcune garanzie, tra le quali il non utilizzo dei dati per richiedere o eseguire condanne a morte o qualsiasi forma di trattamento crudele e inumano. Viene inoltre richiesto al responsabile del trattamento dei dati di rivolgere la sua attenzione ai diritti e alle libertà fondamentali dell’interessato affinché questi prevalgano sull’interesse pubblico nel trasferimento dei dati. La sentenza Elgizouli non è solo un risultato straordinario che restituisce centralità allo Stato di diritto nel Regno Unito, ma costituisce un punto di riferimento per chiunque, in paesi guidati da democrazie liberali, assista all’offuscamento dei principi cardine che garantiscono il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali per ragioni di opportunità politiche del momento. Africa. Conflitti armati e repressione hanno provocato gravi violazioni dei diritti umani di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 9 aprile 2020 Il rapporto Amnesty International sull’Africa Subsahariana. Nel corso del 2019, in tutta l’Africa Subsahariana migliaia di persone sono scese in strada per difendere i diritti umani fondamentali dagli abusi causati da conflitti e repressione di Stato. Decine di vittime, migliaia di sfollati, alcune vittorie: questo quanto evidenziato dal rapporto di Amnesty International. La sicurezza civile minacciata da gruppi armati e forze statali. Gravi violazioni dei diritti umani da parte delle forze governative nella gestione di situazioni di crisi: sono le accuse mosse alle forze di sicurezza di molti paesi, come il Darfur, l’Etiopia, il Mali. Ma c’è anche l’incapacità di proteggere la popolazione dagli attacchi dei numerosi gruppi armati della zona. Sono stati registrati attacchi ai civili in Camerun, Repubblica Centrafricana e Burkina Faso. In Somalia, forze governative ed internazionali hanno tentato di arginare il gruppo armato al-Shabaab, che continua a coinvolgere civili nei suoi attacchi. Molto grave la situazione nella Repubblica Democratica del Congo, dove circa 2000 civili sono morti e un milione di persone sfollate. Conflitti ed emergenza sanitaria. Nelle regioni anglofone del Camerun, i gruppi separatisti armati hanno continuato a commettere abusi come omicidi, mutilazioni e sequestri, e hanno distrutto molte strutture sanitarie. Secondo la direttrice di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale Samira Daoud, “l’accesso alle cure mediche resta una grande preoccupazione per le persone in tutta la regione. I governi dei paesi dall’Angola allo Zimbabwe, dal Burundi al Camerun non sono riusciti a rispettare il diritto alla salute e i conflitti hanno peggiorato la situazione”. Violenza di stato contro attivisti e giornalisti. Il 2019 è stato un anno nero per chi ha lottato attivamente per i diritti umani del proprio Paese. Quasi tutti i paesi della regione hanno dato un giro di vite sull’attivismo. In Zimbabwe, negli scontri a seguito di una protesta contro l’aumento del prezzo del carburante, almeno 15 persone sono morte e altre decine sono rimaste ferite. In Guinea sono state vietate oltre 20 manifestazioni, e la violenza delle forze armate ha causato diverse uccisioni. Anche i giornalisti sono sotto attacco: in Nigeria, sono stati registrati 19 casi di aggressione, arresto arbitrario e fermo di giornalisti, molti dei quali hanno dovuto affrontare accuse costruite. Migliaia di sfollati interni e violenza xenofobica in Sudafrica. Le continue violazioni dei diritti umani hanno causato migliaia di sfollati nella regione. Solo nella Repubblica Centrafricana 600.000 persone hanno abbandonato le proprie abitazioni; mezzo milione in Burkina Faso; 222.000 in Ciad. Il Sudafrica invece è teatro di una violenta repressione nei confronti di rifugiati e migranti, che la scorsa estate ha causato 12 morti. L’importanza delle contestazioni: alcune vittorie. Nel 2019 sono state riportate anche alcune vittorie. Una delle più importanti per gli attivisti è stata la deposizione di Omar al-Bashir in Sudan e la fine del suo regime repressivo, con promesse di riforme da parte delle nuove autorità. Nella Repubblica Democratica del Congo è stato annunciato il rilascio di 700 detenuti, fra cui molti prigionieri di coscienza. Il Comando delle forze armate Usa per l’Africa (Africom) nell’aprile del 2019 ha ammesso per la prima volta di aver ucciso dei civili nei suoi attacchi aerei diretti contro al-Shabaab, aprendo la strada alla riparazione per le vittime. “Nel 2019 attivisti e giovani hanno contestato il sistema. Nel 2020, i leader devono ascoltare le loro richieste e lavorare per riforme assolutamente necessarie che rispettino i diritti di ciascuno”, ha concluso Samira Daoud. Tunisia. Anche i detenuti producono mascherine ansa.it, 9 aprile 2020 Laboratorio carcere La Manouba ne produrrà 800 al giorno. Il laboratorio di abbigliamento della casa di reclusione femminile de La Manouba, ha iniziato a produrre mascherine protettive per conto del ministero tunisino della Salute, in conformità con i criteri e gli standard sanitari richiesti. Lo ha reso noto il portavoce dell’amministrazione penitenziaria di Tunisi, Sofiane Mezghiche precisando che detto laboratorio sarà in grado di produrre più di 800 mascherine al giorno, dopo aver già fornito più di 4000 protezioni per gli agenti in servizio presso la stessa casa circondariale. La capacità produttiva giornaliera di questa officina di abbigliamento potrà poi aumenterà fino a oltre 1.500 dispositivi di protezione al giorno. La produzione includerà anche tute mediche e caschi protettivi, con il sostegno della direzione generale delle carceri e della riabilitazione e l’amministrazione del carcere de La Manouba. La produzione sarà poi estesa alle altre case circondariali di Mornaguia (governatorato di Manouba), Mahdia, Borj Erroumi (governatorato di Biserta), Messadine (governatorato di Sousse), Jendouba, e di Borj El Amri (governatorato di Manouba) “, ha detto Mezghiche precisando che finora sono state prodotte 21.200 maschere protettive. I ministri della Giustizia e della Salute, Thouraya Jeribi e Abdellatif Mekki, il direttore generale dell’amministrazione penitenziaria, Ilyes Zallek e il governatore della Manouba, hanno visitato il carcere femminile di Manouba per conoscere i progressi della produzione di mascherine protettive e sua capacità logistica elogiando gli sforzi compiuti dai detenuti come parte della mobilitazione nazionale per affrontare la mancanza di attrezzature mediche. IL ministro della Sanità di Tunisi ha annunciato che sarà obbligatorio indossare le mascherine per uscire in strada una volta finito il periodo di quarantena generale. Congo. Detenuti in stato disumano, il virus comincia a lasciare il segno di Angelo Ferrari* La Repubblica, 9 aprile 2020 Nella ex colona francese registrati finora 22 casi, nessun decesso. Gli effetti sulla popolazione più fragile si vedono. Il lavoro di un missionario salesiano con i bambini di strada e i detenuti. Tra gli ultimi degli ultimi ci sono i detenuti e i bambini di strada. Gli enfants de la rue sono praticamente scomparsi dalle strade delle grandi città africane. Nella Repubblica del Congo (ex colonia francese n.d.r.) il fenomeno è molto rivelante, in particolare nella capitale economica del Paese, Pointe-Noire. Una città che sfiora il milione di abitanti dove sono a decine i ragazzini senza un tetto che vagano senza meta per le strade della Ville. Molti di questi arrivano dalla vicina Repubblica Democratica del Congo (ex colonia belga n.d.r.) dove il fenomeno è ancora più marcato. L’epidemia di poliomieliti nel 2010. Pointe-Noire è una città dove si addensano quasi tutte le multinazionali del petrolio e la divisione tra la Cité - la parte più povera della città, dove vive la stragrande maggioranza della popolazione - e la Ville - la parte più ricca e abitata soprattutto dagli espatriati impiegati nell’industria del petrolio è ben marcato. Le condizioni di vita nella Cité sono precarie e i servizi, corrente elettrica e acqua potabile, non sono fruibili da tutti. Molte abitazioni non hanno l’acqua corrente. In questa città ci ho vissuto a lungo e ricordo un solo episodio, che mi pare significativo, per capire cosa vuol dire vivere in quella parte della città. Era il 2010, per ragioni che non si sono mai capite, la fornitura elettrica si è interrotta per 12 giorni in tutta Pointe-Noire. Questo fatto ha causato un’epidemia di poliomielite che ha provocato più di 500 vittime in pochi giorni e centinaia di contagiati. L’epicentro è stato proprio nella Cité. La Ville si è salvata perché le abitazioni sono tutte fornite di generatori di corrente. Erano dieci anni che nel Paese non si registrava un caso di poliomielite. Enfants de la rue e detenuti, gli ultimi degli ultimi. I ragazzi di strada si addensano nelle vie della Ville, ma ora sono spariti - conseguenza delle misure di contenimento dell’epidemia messe in atto dal governo. Ma dove sono finiti? Nella città vive e lavora, da lunghi anni, padre Valentino Favaro, missionario salesiano, che si occupa proprio dei ragazzi di strada. “Qui da noi - mi spiega padre Valentino - le persone più toccate e sensibili sono gli enfants de la rue e i detenuti. Gli ultimi degli ultimi. Sono le prime vittime di questo male oscuro, imprevedibile, che ha messo in ginocchio società molto più organizzate di quella in cui mi trovo”. La vita di questi ragazzi si è fatta ancora più dura in questi momenti di restrizioni per far fronte all’epidemia. “Stanno vivendo un tempo durissimo: cacciati da tutti, bastonati dalla polizia che tira su di loro come sui polli, gettati poi in una fossa, come i loro amici banditelli, i bebé-noirs, ragazzi tra i 17 e i 20 anni, che seminano terrore e paura nei quartieri. Per riavere i corpi dei ragazzini uccisi si paga il costo del proiettile. E la polizia spara e se vuoi recuperare il corpo devi pagare il costo delle pallottole sparate per uccidere”.Eppure padre Valentino, un ottantunenne che non si dà per vinto, si occupa di loro da anni, rappresentando l’ultima speranza per decine di ragazzi che altrimenti non avrebbero proprio nulla, soprattutto in questo periodo. “Noi salesiani - racconta il missionario - abbiamo aperto due foyer per questi ragazzi: una sessantina saranno ospitati giorno e notte per almeno due mesi. L’impegno è importante: vitto, vestiti, materassi, lenzuola, medicinali, personale per il giorno e per la notte. Un organismo francese, il Samu Social, ci aiuta molto, ma tutta l’organizzazione è nelle nostre mani”. Insomma, uno sforzo imponente. Il carcere di Pointe-Noire. Lo scoramento non appartiene al carattere di padre Valentino, tanto che prosegue anche la sua attività nel carcere della città. I detenuti sono totalmente dimenticati dalle autorità. Valentino non ha ancora ricevuto il lasciapassare dalle autorità per il suo andirivieni con il carcere. Ma non rinuncia ad andarci. “I detenuti sono contenti anche solo per il fatto che li vado a trovare. “Papa capo” è diventato il mio soprannome. Anche se vieni per soli dieci minuti, noi siamo felici, sei l’unica persona che ci vuole bene. Questo mi dicono”. Il missionario salesiano, che è anche cappellano del carcere, si è impegnato a portagli ogni giorno anche qualcosa da mangiare. “Faccio l’impossibile per preparare per loro una specie di colazione - riso, spaghetti, latte e altro -, per loro è una specie di miracolo. La prigione dovrebbe fornire un altro pasto al giorno, ma spesso la direzione non è in grado di farlo, allora la mia colazione diventa l’unico mezzo di sussistenza. Riesco anche a portare dei medicinali, specie contro la malaria. La prigione ha un infermiere, ma non ha - o non fornisce - nemmeno una pastiglia per il mal di testa, figuriamoci i medicinali per la malaria”. L’inferno nel carcere di Pointe-Noire. La situazione nella prigione è particolarmente drammatica. Il carcere di Pointe-Noire è stato costruito negli anni Cinquanta del Novecento dalla Francia, ex potenza coloniale, ed è stato pensato per ospitare 75 persone: ora in quelle quattro mura sono rinchiusi quasi 550 detenuti. “Dormono per terra e sul fianco, non c’è nemmeno lo spazio per poter dormire di schiena o di pancia. Ma il numero aumenta. Ci sono detenuti che aspettano anni prima di vedere un procuratore della Repubblica; se non hanno 2000 franchi Cfa (3 euro) per chiedere udienza il loro caso rimane nel cassetto. Sugli ultimi della terra ora si sta abbattendo anche questa malattia. Cosa accadrà? Non lo so, ma posso prevederlo, visto che non si fa nulla in previsione di un probabile contagio. Insomma non so immaginare cosa diventerà la vita qui da noi se scoppiasse l’epidemia”. Covid-19, due settimane di cessate il fuoco nello Yemen di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 aprile 2020 Accogliendo l’appello delle Nazioni Unite per la sospensione delle ostilità, a causa della diffusione della pandemia da Covid-19, la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti ha proclamato a partire dalle 10 di oggi un cessate il fuoco unilaterale della durata, rinnovabile, di due settimane. A dichiararlo è stato il portavoce della coalizione, il colonnello saudita Turki al-Maliki. Si apre uno spiraglio di luce per una guerra iniziata la notte tra il 25 e il 26 marzo 2015, quando la coalizione lanciò il primo attacco contro lo Yemen. Obiettivo dichiarato: sconfiggere le forze huthi, che avevano assunto il controllo della maggior parte del paese. Obiettivo conseguito: la peggiore catastrofe umanitaria del mondo secondo le Nazioni Unite. Da allora tutte le parti coinvolte nel confitto hanno commesso gravi e ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario. Le forze huthi, che ancora controllano buona parte dello Yemen, hanno bombardato indiscriminatamente centri abitati e lanciato missili, in modo altrettanto indiscriminato, verso l’Arabia Saudita. La coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che appoggia il governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, ha incessantemente compiuto attacchi indiscriminati contro obiettivi e infrastrutture civili, grazie anche alle criminali forniture di armi da parte degli Usa e di molti stati europei, Italia compresa. La popolazione civile è intrappolata nel conflitto e sopporta le conseguenze peggiori. Tra morti e feriti, le vittime di questi cinque anni sono state oltre 233.000. I morti tra la popolazione civile sono stati almeno 12.366, ben 3000 dei quali solo nel 2019. La crescente crisi umanitaria ha causato una situazione di insicurezza alimentare per 17 milioni di yemeniti: 14 milioni di essi sono alla fame. La crisi è stata esacerbata da anni di cattivo governo, che hanno favorito la diffusione della povertà e dato luogo a immense sofferenze, inclusa un’epidemia di colera.