A chi fanno paura le carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 8 aprile 2020 Per dimostrare che in cella non esiste alcun problema, Travaglio e Bonafede (e soci) sono lì a sperare che la pandemia non esploda in carcere. Viaggio in un’ipocrisia senza fine e in una prossimità beffarda e bastarda. C’è un’ironia nella storia, anche quando si incanaglisce. Prendete Marco Travaglio. Il fatto è questo: Travaglio è ora angosciato dall’eventualità che la pandemia infierisca nelle galere, e speranzoso che risparmi i detenuti. Non è magnifico? Travaglio (vedremo gli epigoni) ha deciso di sfidare la sorte sostenendo che non c’è luogo più sicuro dal contagio delle prigioni. La logica è dalla sua (la sua logica): non c’è luogo più isolato, più recluso, del carcere, dunque stiano là e si godano il loro privilegio di perenne quarantena. È perfino oltraggioso replicare: il carcere, che accatasta i suoi inquilini fissi gli uni sugli altri, accoglie quotidianamente un buon numero di persone il cui piede libero le porta dentro e fuori: agenti di polizia penitenziaria, direttori e direttrici e funzionari e impiegati, sanitari, medici e infermieri, infermiere e dottoresse, educatrici ed educatori, cappellani e suore, avvocati, a volte (troppo raramente!) magistrati, eccetera. Anche quando, come adesso, sono vietate le visite dei famigliari dei detenuti e gli ingressi dei preziosi volontari, il virus, svelto com’è, ha dunque una quantità di passaggi di cui servirsi per sgattaiolare dentro. Dentro, fra promiscuità indecente e vulnerabilità fisica e psichica, gli è promessa una pacchia. E una volta che arrivi, e muti la prigione, che è già un nosocomio di ogni patologia, infettive specialmente, in un vero lazzaretto, la prigione saprà restituire il contagio al mondo esterno, coi piedi liberi e le mani e le goccioline degli entrati, con gli interessi. Questa l’ovvia constatazione. Avendola ignorata e anzi intrepidamente capovolta, Travaglio deve pregare che i capricci del destino o del virus (coincidono, del resto) non lo sconfessino, dimostrandolo un’ennesima volta rosicchiato dalla malevolenza, oltre che stupido: dunque eccolo che si augura la salute dei detenuti, le sue bestie nere (Davigo docet: non ci sono innocenti, ci sono solo colpevoli non ancora scoperti - tranne Davigo, immagino). Bene, eccomi dunque associato a Travaglio nell’augurio. Naturalmente, io prego davvero che ai detenuti, in attesa di giudizio o dannati, colpevoli o innocenti, vada meglio che può, e ho una mia doppia ragione, cui Travaglio è inetto, una di universale solidarietà umana, un’altra di intima fraternità, la memoria viva di un viaggio comune. Un’analoga ironica considerazione può farsi per i più esposti consoci di Travaglio nell’anima trista. Sono Alfonso Bonafede, che gli scherzi della storia hanno fatto svegliare una mattina nel suo letto - orrore! - mutato in ministro della giustizia, e sulla scia il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, il Procuste secondo il quale il sovraffollamento andava superato riducendo i centimetri regolamentari per detenuto, e qualche altro. La stessa insensata argomentazione è stata svolta dal Procuratore Nicola Gratteri, nei confronti del quale sono, oltre che dispiaciuto, più prudente: nessuno può dimenticare che cosa si era detto contro Giovanni Falcone finché (per poco) restava in vita. Qualunque impressione si abbia del merito di opinioni e azioni di Gratteri, è un uomo esposto all’odio di farabutti, e merita rispetto. Rispettosamente, gli chiederei di ripensare all’assurdità dell’idea che le galere siano un luogo riparato dal contagio: le galere sono, in una pandemia, il luogo più somigliante alle case di riposo. Gli chiederei di ripensare anche all’assurdità di ripetere il suo desiderio (“Se fossi io il ministro della Giustizia…”) di costruire quattro galere da 5.000 posti l’una e buonanotte: anche a non frugare dentro quel desiderio, non ha alcun senso riproclamarlo quando le vecchie galere sono là e il virus ci è già entrato e sta per banchettare. Non sono pochi, soprattutto fra gli addetti ai lavori, come si dice, coloro che si ricordano della Costituzione e si rendono conto del rischio umano e civile che sta dentro la questione del carcere, in Italia e fuori. Per un Bonafede che in Parlamento vanta come un astuto raggiro gli ostacoli frapposti al sedicente provvedimento per “alleggerire” l’affollamento - “ne sono usciti solo 50…” - ci sono magistrati di sorveglianza responsabili che usano le possibilità che la legge offre e anzi consiglia loro. Ci sono agenti penitenziari e loro organizzazioni che sanno di che cosa parlano, e che difendere sé, la propria salute e la propria dignità coincide largamente con la difesa dei carcerati. Ci sono alti magistrati che esortano a fare altrettanto, come il Procuratore generale di Cassazione o l’ex Procuratore di Milano. C’è un magistrato che si è accorto che se si impone a un popolo di tenere la distanza reciproca di un metro, pena la vita comune, bisogna che la cosa valga anche per chi sta in carcere, detenuti e agenti. Ci sono membri illustri del Consiglio superiore della magistratura. Ci sono magistrati insidiati dalla notorietà che non temono di usarla come Dio comanda. Ho dimenticato il Papa? No, io no, quegli altri sì. Ma mi resta da trattare di un altro argomento dei “duri” - Travaglio il duro: un pusillanime da esposizione - ma che suggestiona anche giornali che si vogliono autorevoli. La ribellione dei detenuti, i due giorni che incendiarono le carceri e lasciarono tredici detenuti morti e molti più feriti, viene ora meticolosamente certificata come la cospirazione della malavita organizzata - “la ndrangheta prima di tutto, ma anche la camorra, Cosa Nostra e la mafia foggiana in Puglia” (così un giornalista del Fatto, 4 aprile). Anzi, come se non bastasse questa formidabile alleanza fra tante multinazionali del crimine, si è “innestata anche un’altra matrice: quella degli estremisti - soprattutto anarchici - che a livello ideologico sono sempre disponibili a sovvertire l’ordine, anche se si tratta solo di una breve rivoluzione interna al penitenziario”. Oplà. Gratteri, che sposa senz’altro questo scenario, dice che “alle 10 di mattina” la rivolta è scoppiata a Modena e a Foggia. Non è vero, naturalmente, e fa sorridere, la rivolta delle 10 di mattina, regolate gli orologi. Fra i carcerati di Foggia, legati soprattutto alla piccola e grande criminalità locale, e quelli di Modena, soprattutto stranieri e disgraziati, non c’era nessuna affinità. Per confermare la regia simultanea Gratteri sostiene che le carceri sono piene di telefonini. Davvero? A volte si scoprono telefonini introdotti clandestinamente: le perquisizioni sono continue in carcere, almeno quanto le soffiate. Nel febbraio del 2019 successe addirittura che un detenuto argentino, cinquantenne, rientrasse da un permesso nel carcere di Trapani e fosse scoperto da una radiografia con quattro telefonini cinesi ingoiati: impresa notevole, che infatti fece notizia. Dire che le prigioni pullulino di telefonini è surreale. Ma l’idea che le rivolte in carcere, l’evento più contagioso che si possa immaginare fra gli animali umani, siano il frutto di una “regia occulta”, vuol dire non sapere e non saper immaginare niente di che cos’è il carcere. Quello che si chiamò “Radio carcere” (e che simili cronache paranoiche citano senza badare alla confusione con l’omonimo programma benemerito di Radio Radicale, fautore di nonviolenza) è la comunicazione caratteristica dei luoghi chiusi ed estremi, di nocche battute e orecchi posati sui muri, di canzoni adattate, di saluti fra finestroni blindati e parenti, e ormai di vere radio e televisori. E la prossimità temporale, l’incendio che divampa in due o tre giorni, è il frutto di un’accumulazione combustibile sulla quale cade finalmente una scintilla: e la scintilla qui era, sul sovraffollamento, sulla malattia, sulla miseria igienica, l’avvento del panico dell’epidemia, per sé e per i propri cari di fuori, la sensazione di finire come topi, la sospensione dei carissimi colloqui e degli altri tramiti con il mondo. C’era bisogno di una regia? I protagonisti delle rivolte sono stati - “per lo più”, formula che dice di Bonafede, Dio lo perdoni - detenuti di basso rango, di corte pene, a volte ancora senza condanna, come succede. Quando in carcere si scatenano disperazione ed esasperazione tanti detenuti smettono di colpo di comportarsi come individui, perdono insieme indipendenza personale ed egoismo, e si lasciano travolgere in una furia che saranno i primi a pagare, come i morti - di overdose, “per lo più”, o in altri modi ancora da conoscere - e come i superstiti, sui quali si accanirà la vendetta. Saranno esclusi da ogni possibile “beneficio” legale, e anzi saranno puniti: per aver dato vita (ammesso che davvero l’abbiano fatto) a una ribellione che veniva annunciata come inevitabile e imminente da chiunque seguisse lo stato delle carceri, gli agenti per primi. Un altro trionfo della logica. Nel servizio del Fatto che ho citato, quello che smaschera il complotto ordito da mafie e anarchici di ogni ordine, c’è un quasi commovente culmine logico: che le uniche carceri in cui sono stati tutti fermi e buoni, dice, sono quelle calabresi. Dunque, visto che non si sono ribellati, erano i burattinai delle ribellioni altrui. Figuratevi se si fossero ribellati. Lucus a non lucendo, dicevano i latini. Certo che i vecchi boss possono bearsi delle rivolte allo sbaraglio dei poveri cristi, ma di qui a programmarle, oggi, corre un mare. I carcerieri sanno che episodi disperati, autolesionismi, gli stessi tentati suicidi sono più caratteristici delle sezioni giudiziarie, dove stanno i detenuti ancora in attesa di giudizio, i pesci piccoli, i giovani stranieri da poco. Questo il quadro. Vedremo il seguito. Mi auguro che il male che minaccia le persone che vivono in carcere sia il minore possibile. Sorrido dunque, amaramente, di questa bastarda prossimità fra me e Travaglio e la muta dei suoi, che se lo augurano anche loro, per non dover render conto. Virus, decine di focolai nelle prigioni d’Italia di Aldo Torchiaro Il Riformista, 8 aprile 2020 Covid dietro le sbarre: un detenuto morto a Bologna, decine dì focolai in tutta Italia. La protesta della comunità carceraria, degli agenti di polizia e dei detenuti, e il sospetto che in qualche regione la situazione, complice il sovraffollamento, sia più grave che altrove. Ieri sera nel carcere di Trento sono risultati positivi alcuni dipendenti del penitenziario e due detenuti. E le proteste in Campania, come in Emilia- Romagna, sono rientrate a fatica. Ma è il Piemonte, dove ieri sera è salito a otto il computo dei detenuti positivi, la prossima polveriera pronta a esplodere. Con buona pace degli uffici di via Arenula, dove il Ministro si ostina a dire che va tutto bene, ecco i numeri della comunità penitenziaria piemontese: 4.514 detenuti, ristretti nelle 13 carceri per adulti e nell’istituto penale per minori, con una capienza effettiva complessiva di appena 3.783 posti. Dunque 731 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, con un indice di sovraffollamento non dignitoso: Alessandria San Michele 153%, Alba e Ivrea 142%, Asti 139%, Biella 138%, Vercelli 135%. Nei ristretti e insalubri ambienti carcerari lavorano circa 3.000 agenti di polizia penitenziaria e circa 500 operatori dei vari settori: un quadro che parla chiaro del rischio contagio. Bruno Menano, Garante per i detenuti del Piemonte, parla con il Riformista “Basta nuovi trasferimenti, stiamo esplodendo e ci sono arrivati 222 nuovi detenuti da altre regioni. Sì all’attuazione di misure alternative al carcere. E si proceda allo screening di massa a tutta la comunità penitenziaria”. Perché in Piemonte non si scherza più. Tra i contagiati, alcuni personaggi noti alle cronache. Nel carcere torinese delle Manette, è positivo uno dei quattro giovani condannati in primo grado per i fatti di piazza San Carlo del 2017. Il giovane è stato scarcerato e portato, in regime di detenzione domiciliare, nella casa di un familiare. Stessa sorte per Gabriele Defilippi, condannato a 30 anni per l’omicidio di Gloria Rosboch, l’insegnante di Castellamonte scomparsa da casa il 13 gennaio 2016 e ritrovata cadavere nei boschi del Canavese. Defilippi, positivo al Covid 19 anche se asintomatico, si trova ora in detenzione domiciliare in un appartamento del capoluogo piemontese messo a disposizione dalla madre. Provvedimenti individuali, casi specifici. Al mare magnum dei detenuti a rischio non arrivano ancora risposte. Così la Conferenza dei Garanti Territoriali dei detenuti prende carta e penna per dettagliare al governo il disappunto della comunità carceraria: “i provvedimenti legislativi presi dal Governo sono largamente al di sotto delle necessità”. Se si presta ascolto agli operatori di polizia penitenziaria, i toni non sono molto diversi. “L’emergenza sanitaria ha trasformato gli istituti penitenziari in una bomba ad orologeria”. Così inizia l’appello al premier dell’Associazione Funzionari di Polizia penitenziaria - Sindacato dirigenti del Corpo. “Oggi bisogna agire. Non è il momento delle ideologie o delle dietrologie. E il momento di scelte ragionevoli e coraggiose. Non aspettiamo che il virus entri nelle carceri, perché si diffonderebbe subdolamente e molto rapidamente, data l’impossibilità di realizzare il distanziamento necessario di un numero elevato di soggetti, con l’ampio rischio di trasmissione a catena attraverso soggetti asintomatici anche agli operatori penitenziari”. Il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, adombra però il sospetto che le proteste dei detenuti possano essere dirette da una unica, oscura cabina di regia, “mossa dalle mafie”. Nei penitenziari di tutto il mondo, detenuti e famiglie dei ristretti - evidentemente connesse a milioni tra loro, attraverso tecnologie coperte su cui sicuramente si indagherà - si ostinano a manifestare preoccupazione per il prepotente ingresso del virus nelle carceri. E a questo disegno della criminalità organizzata rispondono, mostrandosi vulnerabili - e forse anche un po’ conniventi - i Ministri della Giustizia di numerose nazioni. Negli ultimi giorni, a seguito di proteste anche violente, Regno Unito, India, Indonesia, Siria, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia hanno disposto il rilascio di migliaia di detenuti dalle sovraffollate carceri dei rispettivi Paesi. In Senegal, l’ex dittatore del Ciad, Hissene Habre, che stava scontando l’ergastolo, ha ottenuto 60 giorni di arresti domiciliari presso la sua abitazione alle porte di Dakar la ramificata cabina di regia delle proteste sta funzionando per ora solo all’estero. In Italia si potranno contagiare tutti in carcere, detenuti ed agenti. Ma a lorsignori no, non la si fa. Sovraffollamento, Italia vergogna d’Europa di Alessio Scandurra* Il Riformista, 8 aprile 2020 Prevenire a tutti i costi la diffusione del Covid-19 in carcere è urgente e necessario. In questi giorni lo abbiamo ripetuto molte volte, e non solo noi. Da ultimi anche il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura ed il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno aggiunto la propria voce al coro, invitando i governi ad adottare al più presto tutte le misure possibili di prevenzione, compresa la riduzione del numero dei detenuti. Il rischio è che le carceri diventino focolai di diffusione del virus, con conseguenze drammatiche per chi in carcere vive e lavora, ma anche per le comunità di cui il carcere è parte. In Italia ormai il virus in carcere è arrivato. Ad oggi hanno già perso la vita un detenuto a Bologna, un agente di polizia penitenziaria in servizio a Milano ed un medico a Brescia, e sono ormai decine i contagi tra agenti e detenuti. La situazione peraltro è destinata a peggiorare. Era infatti prevedibile che il carcere, comunità separata per definizione, venisse raggiunto dal contagio. più tardi rispetto ad altri luoghi. Ma anche altre cose sono altrettanto scontate. Ad esempio, anche in carcere non tutte le persone sono uguali: molti i detenuti sono in età avanzata, o si trovano in condizioni di salute che renderebbero nel loro caso il contagio molto più pericoloso. Ma, soprattutto, il carcere non è un posto come gli altri. Non ci si può sentire al sicuro nella propria cella come in casa propria, perché la si condivide con estranei assieme ai quali si sta pigiati in pochi metri quadri per quasi tutta la giornata. E quando dalla cella si esce ci si sposta in altri spazi altrettanto circoscritti creando assembramenti che farebbero inorridire qualunque sindaco. In carcere continuano inoltre i nuovi ingressi, che si tratti di persone appena arrestate o trasferite da altri istituti. Infatti, se di norma noi tutti non possiamo uscire dal nostro comune, i detenuti continuano in qualche misura a viaggiare da un istituto all’altro, generalmente da quelli dove c’è meno spazio a quelli dove c’è n’è di più, specie quando serve far posto a persone appena entrate o infette. Per tutte queste ragioni è ovvio prevedere che, mentre il paese sembra avvicinarsi all’apice della curva del contagio, questa in carcere ha appena iniziato a crescere. In tutto questo è chiaro che il sovraffollamento è uno dei nemici più temibili. E purtroppo l’Italia da questo punto di vista è un paese da record. Ce lo ricorda oggi il Consiglio d’Europa, che ha pubblicato l’ultimo rapporto sulle statistiche penitenziarie dei paesi membri. I dati sono aggiornati a gennaio 2019, ma evidenziano come da noi la popolazione detenuta sia negli ultimi anni cresciuta, facendo dell’Italia il paese più sovraffollato del continente dopo la Turchia e il Belgio. Il rapporto cita un tasso di affollamento del 119 per cento, ma si tenga tra l’altro presente che quello era un dato nazionale medio. Nelle regioni più colpite dall’infezione, come la Lombardia o l’Emilia-Romagna, il tasso di affollamento a fi ne febbraio del 2020 era rispettivamente del 140 e 130 per cento. Da allora i numeri sono scesi, ma come abbiamo detto i contagi stanno aumentando e vanno prese immediatamente misure più decise. È necessario liberare più posti facendo uscire i detenuti a fi ne pena o quelli in condizioni di salute precarie, senza pretendere di adottare oggi, in una situazione di assoluta emergenza, braccialetti elettronici di cui fi no a ieri pareva non avessimo nessun bisogno (non a caso non ne abbiamo). E bisogna impedire ad ogni costo i nuovi ingressi. Questo compito non riguarda per fortuna solo il governo, che peraltro sul tema ad oggi ha fatto molto poco, ma impegna anche la magistratura di sorveglianza, le procure e le direzioni delle carceri, ed è soprattutto grazie al loro sforzo che le presenze in carcere sono calate fi no ad oggi. Ma tutto questo chiaramente non basta e da qui in poi sarà la comunità penitenziaria a pagare il conto di questo ritardo. *Associazione Antigone L’Italia delle celle affollate ha il doppio di pusher reclusi rispetto alla Germania di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 8 aprile 2020 È troppo parlare di “tortura” per i detenuti ammassati nelle galere strapiene in questi tempi di Covid-19? No, ha risposto ieri il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric. Che presentando il nuovo Report 2019 sulla popolazione carceraria europea ha ripreso la “recente Dichiarazione dei principi emessa dal Comitato per la prevenzione della tortura”. Documento che, citando la chiusura dei penitenziari a ogni visita esterna, riconosceva giorni fa l’“imperativo di agire con fermezza” contro il virus, ma ricordava “la natura assoluta del divieto di tortura e trattamenti disumani”. Un appello che, ripreso dalla Buric, è netto: “Le amministrazioni penitenziarie e tutte le autorità competenti dovrebbero sforzarsi di ricorrere ad alternative rispetto alla privazione della libertà, in particolare in situazioni di sovraffollamento e adottare tutte le misure possibili per proteggere sia la popolazione carceraria sia il personale carcerario”. Parole inequivocabili. Particolarmente dure per l’Italia, perché accompagnate appunto dal rapporto sulla situazione dei vari paesi. Quindici dei quali risultano avere più di 100 detenuti per 100 posti. E in quali “il sovraffollamento è stato particolarmente grave”? In Turchia (123), in Belgio (121) e in Italia (119). Contro una media continentale di 89,5 detenuti ogni 100 posti. Ma non basta: se l’età media dei carcerati è di trentacinque anni, da noi la popolazione reclusa è nettamente più matura: “Le amministrazioni carcerarie con il maggior numero di detenuti di età pari o superiore a 65 anni erano Turchia (3.521 detenuti), Regno Unito (Inghilterra e Galles, 2.995), Russia (2.895), Italia (2.247). Quarto posto. Nessuno stupore. Ancora ieri mattina Luigi Ferrarella, che da giorni racconta sul Corriere le difficoltà dei nostri penitenziari, già condannati più volte dall’Europa, scriveva che dopo il decesso dell’anziano detenuto siciliano “la morte di un medico penitenziario del carcere Canton Mombello a Brescia, Salvatore Ingiulla, quarta vittima nelle carceri italiane dopo un collega e due agenti penitenziari, scala un altro gradino nell’emergenza Covid-19 (37 detenuti positivi come 158 agenti e 5 funzionari) innestatasi sul sovraffollamento”. Certo, le presenze sono state un po’ sfoltite nell’ultimo mese, grazie al buon senso più che a regole farraginose, da 61.235 a 57.137 detenuti. Per almeno un terzo mai condannati definitivamente quindi in attesa di giudizio. Magari innocenti. I posti però restano 47.482. Quelli sono. E ha buone ragioni l’avvocato Salvatore Staiano, esperto di diritto penale e penitenziario, a sfogarsi con Laura Caroleo de l’Inkiesta.it sugli spazi impossibili: “Non si possono stabilire distanze di un metro in celle di tre metri per tre se al loro interno sono recluse quattro persone”. Risultato? Massima esposizione al rischio e “una assoluta destrutturazione psicologica: i detenuti si sentono abbandonati e vinti”. Non diceva forse Cesare Beccaria che “le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di lor natura”? La Cassa delle Ammende, un istituto del ministero della Giustizia che raccoglie i soldi delle varie sanzioni per destinarli a progetti come il “reinserimento socio-lavorativo delle persone in misura alternativa alla detenzione”, cassa oggi guidata da Gherardo Colombo, ha appena deciso di spendere 5 milioni per “favorire l’accesso alle misure non detentive per coloro che pur avendone i requisiti giuridici non vi possono accedere per la mancanza di un domicilio idoneo”. Per capirci: se contro la pandemia di coronavirus devi stare a casa, come dice la legge, come puoi essere scarcerato se una casa dove stare non ce l’hai? Messo alle strette dall’affollamento carcerario, come ricordano i radicali Maurizio Turco e Irene Testa, anche “il Re Mohammed del Marocco ha accordato la grazia a 5.654 detenuti”. E la Bbc anticipava domenica un piano di Boris Johnson, prima del suo ricovero in terapia intensiva, per il rilascio di circa 4.000 detenuti (nessuno in cella per crimini violenti) dai penitenziari dell’Inghilterra e del Galles. Mossa obbligata. Tanto più dopo la scoperta di ottantotto contagiati dal Covid-19 nelle prigioni del Regno Unito. Sul tema, com’è noto, batte e ribatte da giorni Papa Francesco. L’altra mattina, nell’omelia a Santa Marta, ha insistito: “Vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento delle carceri. Dove c’è sovraffollamento, tanta gente lì, c’è il pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, coloro che devono prendere le decisioni, perché trovino la strada giusta e creativa per risolvere il problema”. Dopo di che ha affidato ai messaggi dei detenuti del carcere di Padova le meditazioni per la via crucis di venerdì. Serviranno a sbloccare le cose? Il report 2019 del Consiglio d’Europa sulle carceri continentali contiene però, oltre al tema scottante del sovraffollamento, altri dati che sarebbe un peccato ignorare. Su tutti la conferma di uno squilibrio tutto italiano, tra i detenuti per crimini che hanno a che fare con la droga e quelli finiti dentro per reati economici e finanziari. Il più clamoroso è il confronto con la Germania: 6.551 spacciatori in cella nei penitenziari tedeschi, 12.760 in quelli italiani. Il doppio. Sul fronte opposto i “colletti bianchi” finiti in prigione nel paese di Angela Merkel sono 5.865 (poco meno dei pusher), quelli ospitati dai nostri istituti di pena 351. Diciassette volte di meno. Certo, non è una novità: il dossier “Space” curato a Strasburgo da Marcelo F. Aebi e Mélanie M. Tiago lo ripete anno dopo anno. Ma ogni anno ci strappa un sospiro: ancora? “Superare il carcere: la buona rivoluzione imposta dall’epidemia” di Errico Novi Il Dubbio, 8 aprile 2020 Intervista a Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale: “Detenuti costretti alla promiscuità nonostante il coronavirus: d’ora in poi si pensi a forme di pena diverse, in cella solo i violenti”. “Solidarietà. È il nostro scudo. Il nostro bene più prezioso. Solidarietà vuol dire anche guardare alla condizione del detenuto senza ridurlo a diverso. Comprendere che gli “spazi residui” di libertà personale non possono essere garantiti da una pena in carcere. È un’occasione per rifletterci. E per riuscire forse a superare il carcere, a farvi ricorso solo per le persone di cui sia accertata la violenza, l’aggressività, il “codice rosso”. Forse l’emergenza coronavirus può sollecitare un passo così grande”. Giovanni Maria Flick si interroga senza negare il dolore che l’epidemia ci infligge e offre, da scienziato del diritto e della Costituzione, una luce di ottimismo. L’emergenza potrebbe dunque aiutarci a riscrivere la funzione del carcere nel nostro sistema. A pronunciare un “basta” che non è ispirato a utopie, ma a un profondissimo umanesimo. Trattenuto nella terra dalle radici della concretezza “come l’umanesimo integrale di Jacques Maritain insegna”, chiarisce il presidente emerito della Corte costituzionale. Presidente Flick, di fronte all’incubo di un coronavirus che dilaga in carcere ci rifugiamo nella negazione: non accadrà, sono più al sicuro lì dentro. È il riflesso di una cultura che trasforma ogni condannato in nemico del popolo? Abbiamo trasformato l’eccezione in regola, innanzitutto, rendendo normale la deroga. È l’eccezione delle leggi speciali, ad esempio, a essere diventata normalità. Si spiega con una nostra storica vocazione a trascurare le sorti del diverso. La Costituzione prima di tutto, e la nostra Corte costituzionale, si battono in una contesa impari per contrastare una simile indole. I successi sono pochi: l’ordinamento penitenziario del 1975, la definizione delle misure alternative al carcere introdotta undici anni dopo. Poi però la nostra Corte compie un doveroso e opportuno viaggio nelle carceri, per testimoniare a chi è recluso la realtà del mondo di fuori e aprire nello stesso tempo la realtà esterna al carcere, alla comprensione dei detenuti. Solo che mentre la Corte entra dalla porta, la Costituzione esce dalla finestra. Anziché assicurare gli spazi residui di libertà a chi è condannato, la politica criminale travisa le pene alternative in meri strumenti di deflazione. Senza risolvere davvero il sovraffollamento... E il sovraffollamento rende impossibile assicurare di fatto dignità ai reclusi. Abbiamo sprecato l’occasione della riforma elaborata dagli Stati generali dell’esecuzione penale: ora è roba buona solo per le librerie. Ma l’emergenza coronavirus ci offre, seppur nella sua tragedia, un’ulteriore occasione. Anche rispetto all’umanità della pena? E perché mai? Il sovraffollamento è una delle contraddizioni messe a nudo dall’epidemia, al pari del contrasto fra eroismi e inefficienze del sistema sanitario. Presidente, neppure l’incubo di un’epidemia dietro le sbarre riesce a scalfire il riflesso vendicativo che percuote la maggioranza dei cittadini rispetto alla detenzione? C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio immotivato e razziale verso gli ebrei alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se solo sfugge; dal migrante che è liquidato solo in base a logiche di sicurezza fino al dramma delle ultime ore, ossia l’anziano positivo al coronavirus dirottato nelle case di riposo, trasformate in lazzaretto. Perché c’è analogia fra l’anziano lasciato morire di Covid e il detenuto? Si ritiene che una graduale attenuazione del distanziamento sociale imporrà un trattamento differenziato per gli anziani. Poi però usiamo le case di riposo per anziani come deposito per persone contagiate dal virus: paradossale, no? Ecco, è un paradosso del tutto simmetrico a quello per cui prima si pensa di limitare il contagio con lo spauracchio dell’arresto di chi infrange i divieti e poi, proprio in carcere, si tengono le persone esposte al contagio, lì favorito innanzitutto dalla promiscuità. Ecco, qui arriviamo al punto essenziale della riflessione: l’emergenza coronavirus svela impietosamente diverse contraddizioni nel nostro modo di vivere. Si riferisce alla negazione del diverso, con l’anziano e il detenuto trattati allo stesso modo di chi cinquant’anni fa era abbandonato nei manicomi? La risposta è sì. Ma una simile crudeltà merita una spiegazione. E il senso ultimo delle discriminazioni è in un modo di vita in cui il profitto ha conquistato la precedenza rispetto alla persona, anche se alla fine delle fini ciascuno muore solo e non si porta niente dietro. Una idea disumanizzante, che però la tragedia dell’epidemia mette a nudo al punto da offrire l’occasione per liberarsene. Il virus viaggia veloce proprio come la globalizzazione, nuova religione del profitto. In un attimo si dematerializza e si sposta tutto, ogni ricchezza, ma in un attimo anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare, evidentemente. Impareremo che la globalizzazione può nascondere un retroscena da incubo. Ma perché dovremmo imparare che la pena in carcere è di per sé disumana? Dinanzi allo spettro di un contagio in carcere, credo sia impossibile non accorgersi che la detenzione inframuraria nega quei residui di libertà personale difesi strenuamente dalla Consulta. Credo sia impossibile non accorgersi che la seconda parte dell’articolo 27, secondo cui la pena non può consistere in trattamenti inumani e deve tendere alla rieducazione, è inattuabile dietro le mura di un penitenziario. L’ergastolo è illegittimo nella sua proclamazione ma legittimo nel suo esercizio, tranne che per i casi ostativi: seppur dopo molti anni prevede una almeno parziale restituzione della libertà. Però ora dobbiamo compiere un ulteriore passaggio dialettico, e comprendere che in realtà la pena inframuraria in sé può essere sì legittima nella sua proclamazione ma è evidentemente illegittima nella sua esecuzione di fatto. Lo si può dire con parole diverse: la privazione assoluta della libertà personale, attraverso la convivenza coatta imposta dal carcere, è di fatto contraria ai principi di tutela della dignità personale scolpiti ai primi articoli della nostra Costituzione. Se ora a intervistarla ci fosse qualcuno dei rigoristi le chiederebbe come si concilia la sua affermazione con il principio per cui la pena deve essere certa... Semplice: la Costituzione parla di “pene”, non prevede affatto che il carcere sia l’unica pena. Bisogna fare i conti con una realtà e con modi di pensare diversi, certo. Ma l’emergenza coronavirus potrebbe anche costringerci a fare i conti con una sottovalutazione dell’emergenza carcere analoga ad alcuni errori commessi nella fase iniziale dell’epidemia. Prima i ritardi rispetto alla valutazione di pericolosità del virus in generale; ora si assiste al conflitto fra istituzioni sulla responsabilità della mancata dichiarazione dello stato di emergenza per alcune città lombarde... Vogliamo almeno evitarci il rischio di un terzo, tragico errore proprio sul carcere? Anche perché non si capisce dove isoleremo i detenuti contagiati... Incognita che polverizza la tesi di chi considera i detenuti più al sicuro dentro che fuori. Appunto: dove isoleremo i contagiati? Mi perdoni il paragone, ma non possiamo mica ripetere la farsa del Ventennio, quando si spostavano i capi di bestiame in modo da portarli nelle campagne visitate da Mussolini mezz’ora prima che quest’ultimo arrivasse? Spostare non cambia i numeri. E non c’è il rischio che il panico nelle carceri renda ancora più difficile gestirle? Se n’è già avuta dimostrazione con le rivolte di inizio marzo. Seppure con diverse variabili, a innescarle sono state soprattutto la paura di perdere i contatti con i familiari, la generale ansia dei reclusi e dello stesso personale di custodia, l’oggettivo carattere di porosità degli istituti di pena. Nei penitenziari c’è un continuo andirivieni di persone che entrano ed escono per lavoro, nonostante la loro pretesa impermeabilità. Contagio esponenzialmente amplificato dall’impossibilità di far rispettare il cosiddetto distanziamento. E non me la sento di condividere le argomentazioni tecniche di chi sostiene che il metro di distanza valga solo per i luoghi pubblici. Mi pare che la contraddizione con quanto previsto per chi è libero sia enorme, tanto è vero che quasi tutti hanno comunque sentito il bisogno di esprimersi rispetto a un simile paradosso. Ma non tutti pensano che la risposta sia eliminare il sovraffollamento... C’è chi infatti è convinto che il carcere sia un posto più sicuro di ogni altro ambiente esterno, in tempo di epidemia. Chi, agli antipodi, chiede un’amnistia o un indulto, che però non troverebbero mai una pubblica opinione disponibile ad accettarli, e che sono impedite dall’attuale norma costituzionale. E poi ci sono posizioni mediane: una in apparenza pragmatica che ritiene prioritario, rispetto al carcere, l’allarme nelle case di riposo o nei conventi, e un’altra, molto ma molto condivisibile, che coincide di fatto con il documento inviato alcuni giorni fa dal procuratore generale Giovanni Salvi ai pg di tutte le Corti d’appello, in cui si prefigura una riduzione sia della carcerazione preventiva sia dell’esecuzione penale in carcere pur senza nuovi strumenti giuridici. E ciò vuol dire che tanta gente sta in carcere anche se potrebbe non starci, se i magistrati usassero in senso positivo quella discrezionalità interpretativa che spesso usano in un senso contrario. È la via maestra? È al momento la via migliore nel senso che davvero un’interpretazione analogica delle norme in vigore consentirebbe di ridurre le misure e le pene inframurarie. Si tratta della via d’uscita, non a caso condivisa dal procuratore di Milano Francesco Greco, anche se ovviamente non è vincolante; ma implica inevitabili discriminazioni legate alle diversità di interpretazione tra i magistrati. Differenze che potrebbero generare comunque tensioni. E come se ne esce, è il caso di chiedersi? Forse ne usciremo solo con la “fase tre”, quando usciremo a rivedere le stelle ma a condizione di accettare un diverso modo di vivere e relazionarsi con gli altri. A quel punto dovremo comprendere che è impossibile scaricare l’emergenza del sovraffollamento in carcere sull’ennesima azione di supplenza compiuta dai magistrati. Senza lasciarci intrappolare da un braccialetto elettronico... Non c’erano neppure quando ero ministro della Giustizia, e non è che il tempo da allora sia trascorso utilmente. Premesso che lascio ai colleghi più giovani l’analisi tecnica delle misure, mi limito a osservare che il braccialetto non impedisce l’evasione dai domiciliari, al massimo ci avverte che l’evasione è avvenuta. Alla precedente domanda, come se ne esce, posso offrire una risposta in apparenza provocatoria. Perché provocatoria? Tutti dicono che dovremo cambiare modo di vivere. Io dico che dovremmo anche scegliere altre forme di pena diverse dalla privazione della libertà personale. A quelle inframurarie bisognerebbe far ricorso solo quando giustificate dalla violenza e dall’aggressività della persona. Ad esempio per i reati inclusi nel cosiddetto codice rosso. Riecco il rigorista che subentra e le ribatte: ne verrebbe un messaggio devastante, in termini di mancata deterrenza... Diffondiamo messaggi sbagliati, che incoraggiano la violazione delle norme, di continuo. Il modo di formulare certe leggi è quasi un invito a violarle. Ripeto: la detenzione in carcere dovrà essere l’estrema ratio. Forse ora ce la faremo, ma la questione si riproporrà dopo l’emergenza... Sì, forse è come dice lei. Ora la sfanghiamo, grazie alla supplenza svolta dai magistrati. Ci dovremo pensare dopo, quando non si tratterà solo di rinunciare ai concerti negli stadi. Dovremo pensare anche alla sorte dei detenuti. E anche se farlo comporterà dei rischi. Ma c’è un rischio in qualsiasi cosa. Il suo è un messaggio in fondo di ottimismo... Ma sa, dei segnali ci sono. Penso a un accordo firmato di recente da Regione Lazio, Tribunale di Roma, Ufficio esecuzione penale esterna e Università La Sapienza che valorizza i non molti strumenti resi disponibili dal legislatore per agevolare il recupero dei condannati, anche con l’assegnazione di un domicilio a chi non ne ha uno e che solo per questo finisce per scontare la pena in cella. Sì, presidente: si può essere profondamente in sintonia con la sua fiduciosa previsione. Ma come la mettiamo con quella irriducibile paura del diverso che avvolge i detenuti? Non a caso ho citato ebrei, donne, migranti, anziani: possiamo farcela a superare tutte le discriminazioni inclusa la paura e il rifiuto di comprendere la condizione del recluso. Possiamo farcela con la cultura. Con l’umanesimo integrale di Maritain. Con la Costituzione che mette in simbiosi l’uguaglianza e la diversità grazie al rispetto della dignità di ciascuno, alla tutela memoria del passato e al progetto del futuro. Possiamo farcela grazie alla consapevolezza che l’umanesimo parziale del profitto e della globalizzazione ci sradica. Nega la solidarietà. E il senso di solidarietà, invece, è la chiave di tutto. Con il virus la galera può essere dannosa per la società (ma anche senza virus) di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 8 aprile 2020 Il procuratore di Milano Francesco Greco ha scritto alle sue unità inquirenti, invitandole a chiedere l’arresto “solo per reati con modalità violente” o di “eccezionale gravità”. Si vuole evitare che le carceri scoppiano e diventino focolai di coronavirus, perché non farlo anche in tempi normali? La notizia non era da prima pagina, evidentemente. Io l’ho trovata in un francobollo nell’orlo basso d’una pagina del dorso milanese del Corriere della Sera. Cronaca locale. Eppure era una notizia importante. Non è infatti cosa da poco se il capo di un importantissimo ufficio giudiziario invita i suoi pubblici ministeri ad andar piano con gli arresti. Questo avrebbe infatti scritto Francesco Greco, procuratore della Repubblica di Milano, alle sue unità inquirenti: di chiedere l’arresto “solo per reati con modalità violente” o di “eccezionale gravità”. Pare che l’iniziativa sia riferibile all’esigenza di non aggravare la situazione di sovraffollamento delle carceri, tanto più allarmante per il pericolo che esse diventino altrettanti focolai d’infezione micidiale. E già se si trattasse soltanto di questo, appunto, la notizia sarebbe di rilievo perché racconta che non esiste un presidio normativo capace di limitare quel pericolo, e serve un correttivo di artigianato giudiziario per porre rimedio agli effetti di un dispositivo di legge altrimenti dannoso. Pressappoco è così: siccome la legge dello Stato è inefficace e anzi fa danno, allora interviene un magistrato che rende inefficace la legge e limita il danno di quell’inefficacia. Ma non si tratta soltanto di questo. Perché la necessità di ridurre il ricorso alla misura cautelare del carcere non dovrebbe risiedere soltanto in quelle ragioni, diciamo così, di contingenza logistica in periodo di crisi: per capirsi, non arrestiamone troppi ché sennò in quel carnaio facciamo una strage. Piuttosto, bisognerebbe valutare se già in linea di principio, e dunque non solo in tempo di emergenza sanitaria, non sarebbe opportuno (dovuto, diremmo noi) prevedere che la custodia cautelare possa essere ordinata esclusivamente quando il non disporla implicherebbe un rischio troppo grave per gli altri e per la società. In una parola: disporla solo per i soggetti effettivamente pericolosi. E pericolosi non nel senso che c’è rischio che alterino il prossimo bilancio o che smercino altri quattro spinelli: ma pericolosi per la gravità del delitto che hanno commesso e per la ragionevole considerazione che possano commetterne altri altrettanto gravi. L’intervento del magistrato milanese è benemerito, ma è maledetto il sistema che lo rende necessario: e non dovrebbe essere solo il rischio di contaminazione da Covid-19 a metterlo in discussione. Perché per accorgersi di quanto è insensato e ingiusto sbattere la gente in galera senza processo non bisognerebbe attendere un’epidemia che trasforma l’arresto nella probabile condanna a morte di chi finisce dentro e di quelli che ci stanno già. “Quanti ai domiciliari con il “Cura Italia?” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 aprile 2020 Lettera ai provveditori dell’osservatorio carceri dell’Ucpi. I responsabili nazionali dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, gli avvocati Riccardo Polidoro e Gianpaolo Catanzariti, hanno inviato una lettera a tutti i Provveditori dell’Amministrazione Penitenziaria, per porre una serie di quesiti relativi agli istituti di pena del territorio con la convinzione “che solo collaborando pienamente insieme potremo superare nel miglior modo possibile l’emergenza attuale o comunque ridurne i danni”. Proprio l’avvocato Polidoro ci dice che “occorre trasparenza in questo momento; più notizie avremo, più l’avvocatura potrà contribuire a fronteggiare l’emergenza. Allo stato attuale il ministero della Giustizia è isolato rispetto alle soluzioni predisposte: il Papa, le associazioni radicali, gli avvocati, molti magistrati chiedono provvedimenti più coraggiosi”. L’iniziativa segue a quella della Giunta dell’Ucpi che reclamava con forza più dati e chiarezza. Al provveditore della Campania, Antonio Fullone, la lettera è stata inviata anche dai responsabili regionali, gli avvocati Giovanna Perna e Fabio della Corte. Quello che i penalisti chiedono è di sapere, tra le altre cose, quanti sono i detenuti che hanno usufruito dei domiciliari, con o senza braccialetto, in base al dl 17 marzo, n. 18 (“Cura Italia”; quanti i tamponi effettuati; quanti i reclusi con patologie polmonari; quanti risultati positivi al coronavirus e quanti ospedalizzati. Come spiega al Dubbio, l’avvocata Perna “destano molta preoccupazione i numeri che ci giungono: 158 agenti di polizia penitenziaria, 37 detenuti e 5 funzionari dell’Amministrazione sono infetti. A ciò si aggiunge la morte del medico in servizio nelle carceri bresciane e il primo caso di Covid- 19 negli istituti penitenziari della Campania, in particolare un ospite di un reparto di alta sicurezza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È da registrare anche la morte per suicidio di un recluso nel carcere di Aversa”. Si tratta di un detenuto romeno di 32 anni, Emil V. che si è impiccato all’alba, come reso noto da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. L’uomo era dentro per rapina e sarebbe uscito a novembre. “Il suicidio - prosegue Perna - per quanto non riconducibile ad una ipotesi di contagio da Covid- 19, denota chiaramente una situazione di insofferenza. Purtroppo in questo momento i soggetti con problemi psichiatrici non possono ricevere l’attenzione e le cure da parte degli specialisti, a causa delle restrizioni”. Per quanto concerne invece le misure adottate per fronteggiare il sovraffollamento nel momento dell’emergenza sanitaria, l’avvocato Perna ravvisa “la fallacia dell’efficacia: negli istituti di pena ad Avellino e provincia, con una popolazione carceraria di circa 1.053 persone, da quando è stato varato il decreto, secondo un censimento della Camera Penale locale, sono uscite solo 2 persone e 4 sono in attesa di braccialetti, che non si quando arriveranno. Se l’uscita dal carcere è stata predisposta per motivi di salute, si comprende che questo poteva essere fatto anche prima che si verificasse la pandemia. I magistrati di sorveglianza stanno differendo la pena a coloro che hanno gravi condizioni di salute. Noi invece, come Osservatorio Carcere Ucpi, vogliamo che il governo si assuma la responsabilità e riduca il sovraffollamento perché esso può provocare l’espansione del virus. Dov’è il paradosso? Noi da sempre abbiamo chiesto ai magistrati di sorveglianza di applicare la legge 199 del 2010 che consentiva appunto la detenzione domiciliare per tutti coloro con un residuo di pena non superiore a 18 mesi. Ma fino ad ora non è stata applicata o è stata applicata pochissimo. Oggi lo stanno facendo in maniera più assidua. Bisognava aspettare il coronavirus?”. Carceri sovraffollate, l’Italia al top europeo. L’appello dei poliziotti di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2020 Superata solo da Belgio e Turchia, nella classifica di Strasburgo. I Dirigenti della penitenziaria a Conte: “Subito misure deflattive”. Nella classifica delle carceri più sovraffollate d’Europa, con 118,9 detenuti ogni 100 posti, l’Italia è superata soltanto dal Belgio (120,6) e dalla Turchia (122,5). I dati, raccolti e analizzati nell’ultimo rapporto “Space” del Consiglio d’Europa, sono di un anno fa, risalgono al 31 gennaio del 2019, ma la situazione non è cambiata. Anzi, il 4 aprile scorso il Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, stimava il sovraffollamento medio al 121,75%. Un problema che, con il serio rischio che la pandemia da Covid possa trasformare le celle in camere di morte legalizzate, è diventato il nemico numero uno, da combattere con estrema urgenza. A sottolinearlo non è solo il segretario generale della più grande organizzazione europea (47 Stati membri) in materia di diritti umani, Marija Pejcinovic Buric, che a commento del rapporto “Space” invita tutte “le amministrazioni penitenziarie e tutte le autorità competenti” d’Europa a “cercare di utilizzare quanto più possibile le misure alternative al carcere, e prendere tutte le precauzioni per proteggere i detenuti e il personale”. Ieri anche i Dirigenti e i funzionari della Polizia Penitenziaria hanno rivolto un “accorato e responsabile appello” a Giuseppe Conte. Al presidente del Consiglio hanno chiesto: “Abbiamo la certezza che il virus in carcere non si diffonda? Ed in caso di sommosse o altre rivolte, il Governo è in grado di inviare squadre antisommossa per fronteggiare 50 mila detenuti avviliti e disposti a tutto?”. Se “la risposta non è affermativa - continua la DirPolPen nella missiva - allora chiediamo di valutare urgentemente forme deflattive più consistenti, che senza passare per amnistie o indulti, deflazionino sensibilmente le presenze dentro le mura e permettano una gestione più lineare dell’emergenza”. La preoccupazione del sindacato più rappresentativo dei Dirigenti di polizia penitenziaria sta soprattutto nell’”impossibilità di realizzare il distanziamento necessario di un numero elevato di soggetti, con l’ampio rischio di trasmissione a catena attraverso soggetti asintomatici anche agli operatori penitenziari”. E anche nel fuoco che “cova sotto la cenere delle devastazioni delle scorse settimane”. “L’Amministrazione Penitenziaria è in impasse e oggi, se dovessero ripetersi i disordini - prevede l’Associazione - sarebbe incapace di fronteggiarli, se non mettendo a repentaglio la vita del personale di Polizia Penitenziaria e di altri operatori ivi presenti”. D’altronde che i detenuti italiani abbiano qualche motivo per non sentirsi in debito verso uno Stato che persiste nell’illegalità, lo dice il rapporto del Consiglio d’Europa. Fuori dal podio della classifica del sovraffollamento, con l’Italia piazzata al terzo posto, in posizione critica seguono solo Francia (con 117 detenuti ogni 100 posti), Ungheria (115), Romania (113), Malta e Grecia (107), Austria e Serbia (106). Poi tutti gli altri. Inoltre, se si va a spulciare il lungo dossier stilato a Strasburgo, l’Italia risulta anche tra i primi Paesi (all’11° posto dopo Liechtenstein, Monaco, Andorra, Lussemburgo, Svizzera, Olanda, Armenia, Albania, Danimarca e Nord Irlanda) per percentuale di detenuti in attesa di sentenza definitiva. Ma salta addirittura al quarto posto, dopo Andorra, Lettonia e Islanda, per percentuale di reclusi che scontano condanne in violazione delle leggi sulle droghe. In Italia sono il 31,8% della popolazione carceraria, a fronte di una media europea del 16,8%. Unico grafico nel quale il nostro Paese occupa la parte bassa della tabella, è quello che descrive il numero di detenuti in rapporto a ciascun agente di polizia penitenziaria: nettamente sotto la metà della classifica, l’Italia conta 1,4 reclusi per ciascun poliziotto, a fronte di una media europea di 1,6 e con la Turchia al top della graduatoria con 4,9 carcerati per agente. In questa situazione, le misure deflattive previste dal ministro Bonafede nel decreto “Cura Italia” sono insufficienti e al momento anche inapplicabili per l’indisponibilità dei braccialetti elettronici, obbligatori per concedere i domiciliari ai detenuti con pena residua (esclusi reati gravi) inferiore ai 18 mesi. Se qualcosa si muove è solo grazie al mutato clima generale nelle procure, come dimostra l’iniziativa del procuratore di Milano Francesco Greco che, come spiega l’Unione delle camere penali, “ha adottato una direttiva per i propri sostituti con la quale invita a sospendere la richiesta di misure cautelari personali se non “per reati con modalità violente” o di “eccezionale gravità”“. Una direttiva che, sottolineano gli avvocati penalisti, “è soprattutto la dimostrazione plastica della effettiva esistenza della emergenza carceraria confermata in aperto contrasto con la irresponsabile teoria negazionista del Ministro della Giustizia, dal quale ora ci attendiamo non solo le risposte alle domande che da settimane gli rivolgiamo, ma anche una pubblica valutazione sulla supplenza che la magistratura è quotidianamente costretta a svolgere rispetto al disinteresse del governo”. Cassa Ammende, stanziati 5 milioni di euro per l’emergenza Covid-19 di Raul Leoni gnewsonline.it, 8 aprile 2020 La Cassa delle Ammende adegua le sue procedure all’emergenza Covid-19, tenendo ‘da remoto’ una riunione programmata per il 6 aprile: argomento delle due delibere adottate nell’occasione è proprio quello delle esigenze connesse alla pandemia attualmente in atto. La prima ha riguardato il profilo organizzativo, riconoscendo una proroga di tre mesi ai progetti approvati e ancora in corso di realizzazione. La seconda è invece destinata a incidere in modo importante sulla situazione emergenziale, grazie a un finanziamento da 5 milioni di euro per interventi mirati in ambito penitenziario. La somma stanziata dal Consiglio di Amministrazione dell’ente è finalizzata a favorire il passaggio alle misure non detentive sia per i detenuti che abbiano i requisiti giuridici per accedervi, sia per coloro che si trovino in condizioni di incompatibilità con il regime carcerario per motivi sanitari. Gli interventi si concentrano sul reperimento di alloggi pubblici o privati di cura, di assistenza o accoglienza delle persone in stato di detenzione o sottoposte a provvedimenti giudiziari limitativi della libertà personale. Sotto il profilo soggettivo, destinatari degli interventi possono considerarsi in particolare i detenuti maggiorenni privi di risorse economiche e comunque in stato di difficoltà per l’indisponibilità di alloggio o senza prospettive di attività lavorativa. La somma complessiva di 5 milioni di euro è stata ripartita su base regionale, alla luce della ricognizione effettuata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in ordine ai detenuti senza fissa dimora presenti negli istituti. Detenuti e bambini, i nostri “maestri” sul come affrontare l’isolamento di Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 8 aprile 2020 Gentile Direttore, provo a mettere la mia competenza e la mia esperienza al servizio di una lettura delle preoccupazioni che fanno da sfondo ai limiti che la Covid-19 ha imposto alle libertà di movimento dei cittadini. Da sostenitrice convinta della coazione benigna in vece dell’abbandono - di imposizioni cioè che siano necessarie, individualizzate/progettuali, declinate umanamente, interdisciplinari/interistituzionali - coltivo l’idea che, a rendere tollerabile un obbligo sia la sua necessità, spesso e purtroppo poco e male argomentata. Chi oggi reclama i diritti costituzionali o non ha capito l’emergenza o ama esercitarsi in questioni di lana caprina colpevolmente fuorvianti. Una volta incamerata la necessità della prescrizione di rimanere a casa, vale la pena tenersi al riparo dai tentativi di fomentare in noi lo scontento di altri, di trascinare il nostro animo a una rivolta che non gli appartiene. Vale la pena porsi la seguente domanda: “Cosa trovo insostenibile davvero della attuale detenzione domiciliare?”. Il rinvio ai reclusori non è peregrino. Il carcere rappresenta il domicilio coatto di circa sessantamila cittadini in Italia e l’analogia può rivelarsi utile. Analogia e non sovrapposizione. Proviamo a comparare le due realtà. Cosa rende la detenzione diversa dall’attuale isolamento imposto agli italiani? La prima mira a sospendere e sanzionare condotte criminali, tutelando in tal modo la società e offrendo una sponda riabilitativa al reo. Non si tratta di una coazione salvavita per chi vi è sottoposto, ma protettiva nei confronti di chi non vi è sottoposto. Come pensare che il prigioniero condivida tout court la necessità del suo arresto? L’attuale segregazione, al contrario, non commina una pena, ma serve a proteggere tutti dal rischio di contagio, a non saturare la risposta ospedaliera indispensabile, ad azzerare la replicazione del virus. Siamo necessariamente insieme sulla stessa barca per combattere una battaglia di evitamento. La prigionia vera e propria, inoltre, stabilisce un taglio profondo delle relazioni con la rete familiare e amicale, oltre che un controllo di questa: dagli incontri alle telefonate, con accesso sospeso alla rete e dunque anche agli spettacoli, al cinema, alla musica e alle notizie, fatta eccezione per dei programmi televisivi. Tutte coartazioni che non riguardano l’attuale isolamento domiciliare, poiché non necessarie. Resta quindi intatta la possibilità di scambi virtuali, libertà che ha contribuito a rendere sostenibili le limitazioni cui siamo sottoposti. Il domicilio penitenziario non è la casa del recluso, quella in cui abita da solo o con familiari o affini, bensì una struttura scomoda, dove può essere imposta la coabitazione con soggetti che non si sarebbero mai scelti per amici, presupposto, secondo Dostoevskij, in grado di rendere inemendabile la sofferenza detentiva. Al di qua delle sbarre, capita, è vero, di abitare sotto lo stesso tetto di un persecutore, di genitori abusanti in tutti i sensi, di un individuo che non fu buona idea eleggere a partner. In questo caso l’isolamento domiciliare potrebbe coincidere con una spietata inquietudine, non dissimile dal vissuto di molti prigionieri: a tali situazioni occorrerà pensare quanto prima per evitare prevedibili tragedie. Di solito la casa è il luogo nel quale si desidera tornare, nel quale trascorrere tranquille serate e riposanti fine settimana, non dimentichiamolo. E questo la rende diversa da una cella. Eppure il carcere, così forastico, potrebbe darci lezione di isolamento domestico. I detenuti imparano a trascorrere parti non secondarie della loro vita in pochi metri quadrati, senza necessariamente perdere l’energia esistenziale. Ciascuno di loro sarebbe in grado di insegnare - e lo farebbe in maniera simpatica e convincente - il modo per costruire una routine di sopravvivenza tra quattro mura. L’attività fisica e il mantenimento di una certa forma occupano il tempo di chi abita oltre le sbarre, che ci siano o non ci siano palestre, tra esercizi a terra e camminate interminabili intorno a perimetri impercettibili. Alcuni detenuti leggono libri, ma quasi tutti scrivono e leggono lettere. Lettere stilate a mano, infilate in una busta, sulla quale si appone un francobollo e che finirà dritta dritta in una cassetta postale, che un postino porterà a destinazione e che qualcuno emozionandosi aprirà. Un dono di altri tempi che scalda il cuore. L’emozione della lettera scritta attraversa senza posa l’universo carcerario. I detenuti cucinano e non pochi tra i maschi scoprono capacità culinarie impensate. Tutto ciò ben prima della esplosione dei vari masterchef, perché il carcere anticipa i trend. Si arrangiano con materie prime tanto scadenti e paradossalmente care quanto difficili da reperire, raggiungendo risultati ragguardevoli. I detenuti, ricordava De André, sono i maestri dell’intrattenimento legato a una tazzulella ‘e cafè. I detenuti parlano tra loro e giocano. I detenuti imparano a decifrare la psicologia dell’altro e non si lasciano imbecherare dai pifferai magici. Quando possono, lavorano. Quando vogliono, studiano. Il loro tempo è scandito da una routine carceraria precisa e non sempre piacevole, ma l’invenzione del collage con cui riempiono le ore potrebbe essere di lezione a tutti noi. Di questo collage fa parte la messa a punto dinamica e inconsapevole di un fashion trend fatto di praticità, materiali poveri e idee trasgressivamente creative, il più interessante e preveggente street style. Poi capita che Antonio Gramsci estenda in una cella I quaderni del carcere: egli pensava passeggiando in quei pochi metri, scriveva in piedi con un ginocchio appoggiato a uno sgabello e così trasformò la tragedia della prigionia nella creazione di uno dei testi più letti dall’umanità. E mentre invitiamo i detenuti a lavorare a un kit per l’isolamento ad uso dei ristretti in casa propria, non scordiamo che le carceri italiane attraversano un momento di grande confusione che richiede un brainstorming cui siano chiamati a prendere parte coloro che di carcere si sono seriamente occupati, oltre a chi se ne sta occupando, ma sembra stentare a partorire utili idee sul da farsi per evitare che la Covid-19 esploda in una prigione impreparata e attonita. Chiudo con una riflessione sui bambini, di cui si parla come di creature sull’orlo di una crisi di nervi a causa dell’impedimento di uscire. Ho visto per anni fanciulli vivere accanto alle loro madri in carcere senza esserne turbati, perché le madri illustravano loro la necessità di una situazione estrema, anziché usarli per rompere una prigionia insopportabile per l’adulto. Quei piccoli costretti in cella capivano quale straordinaria opportunità fosse vivere accanto alla madre, seppur detenuta. Come pensare che il loro fresco atteggiamento filosofico e interrogativo sui fatti della vita non arrivi ad afferrare tale distinguo? E come pensare che l’accesa curiosità che li attraversa non permetta loro di leggere l’isolamento domestico come una nuova avventura? Un intellettuale ebreo ultraottantenne mi parlava l’altro ieri del fatto che, il periodo bellico vissuto in Lombardia, fu per lui, tra i mille rischi che corse con la sua famiglia, non più che una divertentissima avventura. Ecco, rinunciamo al riduzionismo adulto, ai luoghi comuni sull’infanzia e guardiamo i bambini in modo diverso, imparando da loro ad attraversare la presente fase senza lamentarci oltre misura, senza creare inesistenti allarmismi, senza squallide manipolazioni. *Psichiatra psicoanalista, Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto Uno studio di 100 anni fa può insegnarci a gestire l’epidemia tra i detenuti di Sofia Ciuffoletti Il Foglio, 8 aprile 2020 Nel 1919 il carcere americano di San Quentin divenne uno dei focolai della spagnola: il punto oggi è capire come evitare il ripetersi di certi errori. Il primo studio epidemiologico in carcere (Stanley LL, Influenza at San Quentin Prison, California, Public Health Rep, 1919) fu elaborato nel 1919 a seguito di ben tre ondate epidemiche della cosiddetta influenza spagnola (il virus H1N1), verificatesi nel carcere di San Quentin, nello stato della California. La disputa sull’origine del virus non ha ancora trovato composizione, ma a dispetto del nome (attribuito per via della mortalità devastante che il virus ebbe in Spagna - un paese che tra l’altro non era in guerra - e perché si cominciò a parlare di questa malattia solo quando a esserne colpito fu il re di Spagna) gli Stati Uniti sono stati uno dei centri di maggiore diffusione. La spagnola è stata la prima grande pandemia del XX secolo, considerata la più grave forma di pandemia della storia dell’umanità (anche sul numero di morti non c’è totale accordo in letteratura, con stime che variano dai 20 ai 50 milioni, con circa 500 milioni di contagiati). Lo studio del 1919 descriveva come, a fronte del primo caso ufficialmente registrato di influenza spagnola, nel marzo 1918 (verificatosi in un campo militare di addestramento delle truppe che si preparavano a sbarcare in Europa, Camp Funston, in Kansas), il virus avesse colpito il carcere di San Quentin dopo circa un mese (il primo caso accertato nel penitenziario fu del 13 aprile 1918). Insieme al caso degli operai delle fabbriche di auto a Detroit, quello dei detenuti di San Quentin fu considerato uno dei focolai che portarono alla diffusione massiccia del contagio sul suolo statunitense (e conseguentemente in Europa, dove il virus viaggiava insieme alle truppe che giungevano in aiuto agli Alleati sul finire della Prima guerra mondiale). Lo studio è interessante per alcune ragioni. In primo luogo ci dice che i contesti chiusi come le istituzioni totali possono essere inizialmente preservati dal contagio, ma quando vengono colpiti la diffusione è rapida. Stanley stimò che, già dopo 10 giorni, circa la metà dei 1.900 detenuti del carcere presentava sintomi e probabilmente il tasso di contagio finale si attestò intorno al 27 per cento dell’intera popolazione penitenziaria. Tra il 13 aprile e il 26 maggio, erano ospedalizzati 101 detenuti, 7 dei quali con polmoniti gravi, mentre i morti accertati furono tre. Il contagio arrivò in carcere attraverso un detenuto malato trasferito a San Quentin dalla County Jail di Los Angeles e divampò in brevissimo tempo (l’incubazione dell’influenza spagnola variava da 48 a 60 ore circa, contrariamente ai 14 giorni del Covid-19). Il “paziente 1”, infatti, che accusava già sintomi influenzali fu lasciato nel cortile comune, gli fu permesso di mangiare nella sala mensa e di dormire insieme ad altri 20 nuovi arrivati, prima di essere ospedalizzato con febbre altissima. Da quel momento i contagi si moltiplicarono, in particolare attraverso la proiezione dei film della domenica, tenuti in una enorme sala mal ventilata e chiusa. Ben presto circa 700/750 persone di ammalarono, molte di queste necessitavano di ospedalizzazione, impossibile per mancanza di posti e strutture. In estate sembrò che la malattia fosse stata debellata, ma la seconda ondata arrivò a ottobre, di nuovo portata da un nuovo detenuto giunto da Los Angeles, sano al momento dell’arrivo, ma con sintomi dal secondo giorno dell’ingresso a San Quentin. Si cominciò a pensare di usare delle mascherine, che però non c’erano, ragione per cui furono cucite con la stoffa dei sacchi della farina. I casi furono isolati e gli spettacoli e gli eventi comuni vietati. In novembre, di nuovo a causa di un detenuto (sano al momento dell’ingresso, ma che aveva probabilmente contratto il virus durante il trasporto) trasferito dalla County Jail di Colusa, che nel frattempo era diventata un altro focolaio, si manifestò una terza ondata di contagi: le risposte furono isolamento, quarantena, ospedalizzazione. A dicembre, il detenuto G. fu trasferito da San Quentin al carcere di Folsom, fino a quel momento immune da casi di H1N1. Prima del trasferimento, fu posto in quarantena per 4 giorni senza manifestare i sintomi. Arrivò al carcere di Folsom il 23 dicembre con febbre e sintomi evidenti di contagio da influenza spagnola. Folsom diventò un nuovo focolaio. Lo studio di Stanley serve a capire moltissime cose della gestione di una epidemia in carcere, così come, a suo tempo, aiutò a studiare le stesse caratteristiche del contagio del virus influenzale H1N1. Per esempio il tempo di incubazione, il tipo di contagio per droplets, la necessità dell’uso di mascherine adeguate, la necessità di isolamento e quarantena, la necessità di agire con misure deflattive per tempo, così come la necessità di adeguati presidi sanitari e posti in strutture ospedaliere. Tutte cose che sono diventate anche per noi pane quotidiano. Quello che lascia di stucco, però, è che Stanley scrive nel 1919, 101 anni fa. Non abbiamo studiato. Ma oltre a questo, lo studio ci dice anche qualcosa che forse capiremo solo più in là: cioè che i numeri non sono neutrali, la loro raccolta, la loro lettura non è neutrale. Mentre scrivo e mentre molti di noi sono confinati a casa, i detenuti rimangono praticamente le uniche persone sul suolo italiano a cui è “permesso” sconfinare di regione in regione, portando con sé il contagio. Così come nel 1919, un detenuto trasferito da San Quentin porta il contagio a Folsom nonostante la quarantena di 4 giorni, così molti detenuti vengono trasferiti da istituti contagiati ad altri (per alimentare così uno sfollamento pari a un gioco a somma zero), magari con un solo tampone negativo e si scoprono positivi solo all’arrivo nel nuovo istituto. Il punto non è più se si stia meglio in carcere o fuori. Il punto è come agire in prevenzione e come agire quando il contagio si presenta all’interno di una istituzione totale. Emergenza Coronavirus: nelle carceri è urgente tutelare la salute dei detenuti Vita, 8 aprile 2020 La situazione nei penitenziari è drammatica. Lettera appello di Cittadinanzattiva che chiede interventi per tutti, a cominciare da madri e bambini. “Le misure introdotte con il DL n. 18/2020 - che prevedono per i detenuti in semi-libertà la possibilità di non rientrare in carcere la sera e per i condannati fino a 18 mesi di scontare la pena in detenzione domiciliare (con consistenti esclusioni per diverse categorie di condannati) - nonostante abbiano prodotto un leggero calo delle presenze nelle carceri, non bastano. Tali misure, infatti, raggiungono potenzialmente una platea di beneficiari insufficiente, ma soprattutto, sulla base delle segnalazioni che ci giungono, restano ulteriormente vanificate a causa della indisponibilità nell’immediato di un domicilio per una buona parte delle persone detenute. Peraltro, sulla base delle informazioni che finora abbiamo raccolto, i dispositivi di protezione individuale distribuiti nelle ultime settimane al personale di polizia penitenziaria risultano tuttora insufficienti e buona parte della popolazione detenuta risulta tuttora sprovvista di mascherine e gel disinfettanti”, dichiara Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti-Cittadinanzattiva che oggi ha inviato una lettera appello al Ministro della Giustizia, al capo del Dap, al Commissario straordinario per l’emergenza Covid19 ed alle Regioni. “In questo momento di emergenza che investe l’intero paese, se la tutela della salute dei cittadini ha finora dichiaratamente rappresentato il criterio guida delle scelte e dei provvedimenti finora adottati dal Governo, riteniamo che lo stesso criterio debba ugualmente orientare gli interventi da promuovere nell’ambito penitenziario, con prevalenza rispetto ad ogni altra ragione o interesse”. In particolare, nella lettera inviata oggi, Cittadinanzattiva chiede che: - vista anche la circolare del Ministero della Salute del 3 aprile, si proceda rapidamente allo screening della popolazione detenuta, degli operatori della polizia penitenziaria e del personale sanitario e civile ivi impegnato, mediante somministrazione di tamponi nasofaringei, o di test sierologici come già avvenuto in Toscana ed in Campania, grazie ad accordi tra P.R.A.P. e Regioni; - si provveda alla rapida fornitura di dispositivi di protezione individuale in quantità sufficiente per personale e detenuti, anche incrementando le attività di produzione di mascherine avviate all’interno degli istituti; - si proceda alla tempestiva individuazione di alloggi dove collocare i detenuti che possono accedere alla detenzione domiciliare ma non hanno la disponibilità immediata di un domicilio idoneo, anche presso strutture alberghiere al momento inutilizzate e provvedendo a tal fine ad eventuali requisizioni; - si individui una collocazione immediata al di fuori degli istituti di pena per madri e bambini che si trovano tuttora ristretti, come peraltro richiesto nel condivisibile appello proveniente dalla casa circondariale di Roma Rebibbia. “Se la presenza di bambini dietro le sbarre rappresenta già nell’ordinario una gravissima aberrazione su cui da tempo si invocano interventi e riforme, in questo momento, il rischio, anche solo potenziale, di una loro esposizione al contagio impone di intervenire con assoluta risolutezza, prevedendo immediatamente l’uscita dagli istituti di madri e bambini, così da porli in sicurezza”. “L’entrata in vigore della legge sulle intercettazioni va posticipata ancora” di Giulia Merlo Il Dubbio, 8 aprile 2020 La richiesta di Camere penali e Anm: “impensabile visto l’attuale stato di emergenza”. “Si impone una proroga del termine di entrata in vigore” della riforma delle intercettazioni per un “lasso di tempo, che non potrà che essere successivo alla conclusione dell’emergenza”. Questa è la richiesta dell’Unione camere penali italiane, inviata del 1 maggio: data in cui dovrebbe entrare in vigore il dl Intercettazioni (dl n. 161/2019). E questo lasso di tempo di ulteriore proroga, scrivono i penalisti, “potrebbe essere l’occasione per una novella che riporti la materia in aderenza ai principi costituzionali e tra questi a quelli che sovrintendono all’esercizio del diritto difesa”. Nel documento approvato dalla Giunta, infatti, si ribadisce il giudizio molto duro sulla riforma, definita “in palese ed insanabile contrasto, per il profilo sostanziale, con l’articolo 15 della Costituzione e con l’articolo 8 della Cedu e, sotto l’aspetto procedurale, è chiaramente e ripetutamente lesiva del diritto di difesa e della parità delle parti in evidente violazione degli articoli 24 e 111 della Carta Costituzionale”. Oltre alle considerazioni critiche in merito allo strumento del Trojan come virus informatico per captare le informazioni, alla possibilità della cosiddetta “pesca a strascico” delle notizie di reato e agli aspetti procedurali di affidamento della valutazione di rilevanza delle intercettazioni, le Camere penali argomentano anche il fatto che “il legislatore si rivela incapace di coordinare e bilanciare due diritti fondamentali, entrambi costituzionalmente garantiti: il diritto alla riservatezza delle comunicazioni e quello di difesa”. Non appare condivisibile, si legge “che nel tentativo, peraltro, nel concreto non riuscito, di meglio tutelare il diritto alla riservatezza il legislatore comprima quello di difesa impedendo all’indagato e per lui al difensore, di conoscere l’esito delle intercettazioni tempestivamente e di poter, nel rispetto, della parità delle parti nel processo, elaborare, senza condizionamenti ed interferenze le strategie difensive”. I penalisti censurano anche l’omissione “di un necessario intervento per rendere effettive le prerogative pure già riconosciute al difensore. Dal testo licenziato emerge infatti che le comunicazioni telefoniche con il difensore potranno ancora essere ascoltate dal pubblico ministero, non essendo stata prevista l’immediata interruzione della captazione quando uno degli intercettati sia, appunto, il difensore, consentendo, anche in tale ipotesi, all’accusa di conoscere le strategie difensive e non essendo certamente sufficiente la sanzione della inutilizzabilità a garantire la sacralità del perimetro del diritto di difesa”. Infine, segnalano i penalisti con riferimento allo stato emergenziale in cui sta operando la giustizia, “l’entrata in vigore del provvedimento, proprio nel periodo di emergenza determinato dall’epidemia da Covid 19 rende del tutto problematico per non dire impossibile, l’esercizio delle prerogative difensive e segnatamente quello di controllo e selezione delle risultanze dell’attività di captazione”. La richiesta delle Camere penali non è isolata. Anche l’Associazione Nazionale Magistrati è intervenuta con un documento di uguale tenore, in cui ha definito “necessario differire l’entrata in vigore della nuova disciplina delle intercettazioni, che richiede un insieme di misure organizzative tecnologicamente complesse, all’evidenza impossibili da adottare e attuare entro il termine a oggi previsto”. Nessuna valutazione di merito sulla riforma da parte del sindacato dei magistrati, ma solo la considerazione tecnico organizzativa di una sostanziale impossibilità di applicare la legge, nel caso in cui la sua entrata in vigore sia il 1 maggio. La parola, ora, spetta al ministero della Giustizia, che dovrebbe farsi alfiere di una ulteriore proroga dell’entrata in vigore del dl Intercettazioni, il cui iter approvativo è stato già tanto lungo quanto accidentato e controverso. La legge, infatti, è stata approvata dalla Camera il 27 febbraio scorso, convertendo il decreto legge n. 161/2019, che modificava sostanzialmente la riforma Orlando del 2017, che all’epoca era stata oggetto di aspri confronti in parlamento e anche nella galassia giudiziaria. Ingiusta detenzione, 667 mila euro di risarcimento per Bruno Contrada di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2020 Nel 2014 la Cedu stabilì la sua incompatibilità con il regime detentivo. È di 667 mila euro la somma a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione liquidata a Bruno Contrada, l’ex numero due del Sisde assistito dall’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo. La Corte d’Appello di Palermo, con l’ordinanza depositata il 6 aprile 2020, ha così accolto parzialmente (erano stati chiesti tre milioni di indennizzo) l’istanza presentata dal legale. “Riteniamo - dichiara l’avvocato Giordano - che la pronuncia della Corte d’Appello sia perfettamente in linea con la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ne dia la giusta esecuzione: al di là del quantum liquidato, la Corte d’Appello - con un provvedimento libero e coraggioso - ha statuito che Bruno Contrada non andava né processato, né tanto meno condannato e che, dunque, non avrebbe dovuto scontare neppure un solo giorno di detenzione, disattendendo le obiezioni della Procura Generale e dell’Avvocatura dello Stato. Ci riserviamo ora di esaminare attentamente il provvedimento, per valutare eventuali spazi per l’impugnazione in Cassazione”. Da ricordare che l’istanza accolta dalla Corte trova titolo nella sentenza della Corte di Cassazione del 2017, con la quale - in ottemperanza di quanto statuito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2015 - è stata dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti la sentenza con cui la Corte d’Appello di Palermo aveva a suo tempo condannato Contrada a dieci anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Ricordiamo che Contrada è stato tratto in custodia cautelare in carcere il 24 dicembre 1992 e vi è rimasto sino al 31 luglio 1995, quando la misura è stata revocata (nel corso del processo di primo grado) per le precarie condizioni di salute dell’imputato. A seguito dell’intervenuta irrevocabilità della sentenza di condanna, l’11 maggio 2007 è entrato in carcere per l’espiazione della pena di dieci anni di reclusione. Il 24 luglio 2008, sempre in ragione delle sue sempre più gravi condizioni di salute, gli è stata concessa la detenzione domiciliare. Il 12 ottobre 2012 (grazie allo “sconto” di due anni di pena per buona condotta), Contrada (all’età di ottantuno anni) è stato rimesso in libertà, dopo una dolorosa vicenda processuale durata vent’anni e dopo avere trascorso, complessivamente, quattro anni in carcere e quattro anni agli arresti domiciliari. Contrada ha subito anche danni fisici e psichici, perché durante la detenzione il suo stato di salute si è aggravato, tanto da essere ricoverato, più volte, all’ospedale. Da ricordare che la sua incompatibilità con il regime detentivo è stata cristallizzata nel 2014 dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu) che ha accertato la violazione, da parte dello Stato italiano, dell’art. 3 Cedu che vieta di sottoporre alcuno a trattamenti inumani o degradanti. La stessa Corte aveva rivelato che Contrada era “affetto da diverse patologie gravi e complesse”. Ma i danni subiti si sono anche riversati nei confronti dei suoi familiari. Sia ai due figli che alla moglie, morta purtroppo a gennaio dell’anno scorso. Una donna che si era vista crollare improvvisamente e definitivamente il mondo addosso dal momento in cui suo marito, colui che era suo compagno di vita da quasi quarant’anni è stato tratto in arresto. Lei si è trovata brutalmente gettata nel ruolo di capo- famiglia, diventando l’unico punto di riferimento dei due figli, ma anche del marito visto che l’ha dovuto supportare emotivamente. Omicidio colposo per la moglie che fa cadere dal letto l’anziano marito di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 aprile 2020 n. 11536. Omicidio colposo per la moglie che, non rispettando la prescrizione medica, causa la morte del marito. Lo precisa la Cassazione con la sentenza 11536/20. I fatti - La vicenda ha visto protagonista una donna sposata con un uomo molto più anziano di lei che aveva bisogno di cure. Aiuto che non è stato assolutamente prestato, anzi. La moglie, infatti, aveva abbassato le barre protettive sul lato del letto procurando così due cadute a terra durante la notte del povero anziano che aveva riportato la rottura del femore e successivo decesso. Il perito aveva evidenziato, però, che la caduta si era venuta a determinare per una situazione di negligenza addebitabile al personale sanitario e non alla caduta-morte addebitata alla sola moglie: non era dimostrato in sostanza il nesso di causalità tra caduta e decesso. I giudici di merito hanno contestato la perizia evidenziando come l’imputata avesse agito con imprudenza e negligenza in quanto i sanitari le avevano dato istruzioni precise con l’ordine di non abbassare le sbarre del letto. Il verdetto dei Supremi giudici - La Cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello avesse ricostruito correttamente la colpa della donna evidenziando una condotta contraria a una regola di prudenza. La donna si è vista riconoscere la sospensione della pena per la pregressa incensuratezza. Minori di 14 anni, la pronuncia d’ufficio di non imputabilità viola il diritto di difesa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 7 aprile 2020 n. 11541. Il giudice che pronuncia una sentenza di non luogo a procedere nei confronti di un minore non imputabile, perché di età inferiore ai 14 anni, viola il suo diritto di difesa. La Corte di Cassazione, con la sentenza 11541, accoglie il ricorso contro la decisione del giudice di affermare la non imputabilità, d’ufficio, per il reato di furto aggravato in concorso, nei confronti di due ragazzine minori di 14 anni. La Suprema corte accoglie la tesi della difesa secondo la quale le due imputate avevano diritto al dibattimento, con l’assistenza di un avvocato, di un assistente sociale e di interloquire nel processo. La decisione presa de plano, solo sulla base del dato anagrafico, si pone in rotta di collisione con l’articolo 6 della Cedu sul diritto ad un equo processo e con l’articolo 40 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. Per la Suprema corte il minore, avvertiti i genitori o chi esercita la potestà genitoriale, deve essere messo al corrente delle contestazioni e ha diritto all’accertamento dei fatti. Per i giudici non è condivisibile l’orientamento che apre la strada alla decisione d’ufficio, perché la pronuncia di non punibilità avviene con una sentenza e dunque con un provvedimento che ha comunque un carattere intrinsecamente giurisdizionale e non è priva di conseguenze, potenzialmente pregiudizievoli. Nei casi più gravi può portare, infatti, all’applicazione di misure di sicurezza, quando il minore sia considerato “pericoloso”, o semplicemente all’iscrizione nel casellario giudiziario, che viene cancellata solo al raggiungimento della maggiore età. La sentenza, chiarisce la Cassazione, è in linea con la giurisprudenza di Strasburgo. Gli eurogiudici, infatti, hanno affermato (sentenza 4268/04) che lo Stato ha degli obblighi positivi nei confronti dei minori sottoposti alla sua giurisdizione. Anche il minore di 14 anni deve avere dunque da un processo su “misura”, calibrato sulla sua età, sul livello di maturità e sulla capacità intellettiva deve, in sostanza, essere messo nella condizione di capire le accuse esercitando pienamente il suo diritto di difesa. Campania. Coronavirus in carcere, rivolte “a orologeria” dopo il primo detenuto contagiato di Mary Liguori Il Mattino, 8 aprile 2020 Procede come una eco. Rimbomba di cella e in cella, poi viaggia di carcere in carcere. Infine coinvolge i familiari che sono fuori e, senza collegamenti ufficiali diretti con l’interno dei penitenziari, al solito, sono informati in tempo reale su quanto accade dentro i padiglioni dove sono reclusi i loro parenti. La giornata di domenica è stata tra le più calde per le carceri campane da quando è iniziata l’emergenza coronavirus. Sia nelle grandi carceri che in quelle di media o bassa sicurezza, si sono registrate proteste, Come avvenuto tra il 7 e il 9 marzo, i tumulti non sono scoppiati contemporaneamente, ma in rapida successioni gli uni dagli altri. Le proteste e sono iniziate ieri mattina, con la “battitura” delle sbarre, nell’istituto penitenziario di Napoli Secondigliano. La protesta è partita in seguito alla divulgazione di una fake news circa un caso di positività all’interno del carcere, notizia falsa nata sulla base di un soccorso prestato a un recluso asmatico che, peraltro, già in serata non aveva più la febbre. Poche ore dopo, a Santa Maria Capua Vetere, si è diffusa la notizia di un detenuto risultato affetto da coronavirus trasferito, il giorno precedente, al Cotugno di Napoli. In questo caso, l’informazione era corretta ed è stata anche confermata dal Garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello. Poche ore dopo, era ormai sera, i detenuti dei reparti Nilo e Tevere, hanno iniziato una protesta che ha poi coinvolto altri reparti fino a mezzanotte e mezza, Ieri mattina una seconda rivolta. Sempre domenica sera, episodi di battitura alle inferriate si sono registrate anche nel carcere avellinese di Ariano Irpino, istituto collocato, peraltro, in una delle “zone rosse” decretate dalla Regione Campania nell’ambito dei provvedimenti emessi per contenere la pandemia da covid-19 Nelle stesse ore, anche gli ospiti della casa di reclusione di Aversa inscenavano la loro protesta calamitando in zona un considerevole spiegamento di forze dell’ordine chiamate a prevenire eventuali tentativi di fuga da un carcere che certo non spicca per inespugnabilità. Mentre tutto ciò accade, c’è chi procede su un altro binario. E sono i detenuti del reparto Volturno di Santa Maria Capua Vetere si sono resi protagonisti di una lodevole gesto di beneficenza. Dopo la lettera in cui, la settimana scorsa, ringraziavano tutti gli operatori sanitari che stanno lottando in prima linea contro la pandemia, hanno infatti raccolto 2.500 euro che hanno devoluto alla Protezione civile. Un gesto di grande umanità in un momento in cui, al netto delle speculazioni, la popolazione carceraria vive una fase di grande difficoltà e paura. Emilia Romagna. Coronavirus, “necessario screening per il personale e per i detenuti” cgilmodena.it, 8 aprile 2020 Fin da subito Cgil, Cisl e Uil dell’Emilia-Romagna e le categorie delle lavoratrici e lavoratori che operano nel sistema carcerario della regione si sono attivate per affrontare con urgenza il tema della salute e sicurezza negli istituti penitenziari del nostro territorio, in seguito all’emergenza sanitaria Covid-19. Le strutture penitenziarie attuali, infatti, così come progettate ed edificate negli anni, presentano diverse difficoltà oggettive che limitano il rispetto delle distanze sociali indicate nei recenti Decreti Ministeriali. A queste difficoltà, si aggiunge il gravoso e più volte denunciato sovraffollamento delle carceri emiliane, soprattutto in alcune realtà come la Dozza di Bologna, che a fronte di una capienza regolamentare di 500 detenuti, attualmente ne ospita circa 750. Da tempo noti e puntualmente segnalati, anche i problemi d’organico presenti in tutti i settori operanti quali polizia penitenziaria, educatori, esecutori dell’esecuzione penale esterna, personale sanitario, magistrati di sorveglianza, direttori e dirigenti degli istituti, che, nonostante l’emergenza sanitaria in corso con conseguente carenza di DPI e gli episodi di proteste violente registrate nell’ultimo periodo in regione, hanno sempre e comunque continuato ad operare e a portare avanti con la massima professionalità e abnegazione il proprio mandato. Infatti, solo di recente è pervenuta e subito stata distribuita una prima fornitura dei DPI, che deve essere implementata, garantendone un costante approvvigionamento. Altra novità positiva è lo screening per la sorveglianza sanitaria deciso dalla Regione dopo le richieste di Cgil, Cisl e Uil. Durante un incontro avvenuto la scorsa settimana, la Regione ha convenuto che i test sierologici veloci vengano fatti non solo al personale sanitario ma pure a quello volontario che opera nelle strutture sanitarie e socio sanitarie, al personale addetto alle pulizie (il cui lavoro è molto importante per la sanificazione delle strutture), oltre a tutte le forze dell’ordine, polizia penitenziaria, agli agenti di polizia municipale e ai vigili del fuoco (su questo nei prossimi giorni è atteso un crono programma delle Asl). Riteniamo necessario allargare, come per altro si è già iniziato a fare, lo screening a tutte le persone detenute, anche al fine di allentare le tensioni che tutt’ora persistono; prevedere un’informazione capillare a operatori e detenuti; predisporre luoghi idonei per eventuali misure di isolamento; facilitare i contatti a distanza tra popolazione detenuta e familiari e continuare - con le modalità attualmente possibili - gli interventi di natura socio-educativa, in un’ottica di riduzione di fattori di stress e tensione. Nella giornata di ieri abbiamo avuto un incontro in videoconferenza con il Garante regionale dei detenuti: con lui abbiamo condiviso la necessità di porre rimedio ai problemi strutturali del nostro sistema, con l’obiettivo di ottenere il necessario nonché urgente alleggerimento del nostro sistema carcerario. Abbiamo anche chiesto un confronto al Provveditorato regionale alle carceri e alla Regione Emilia-Romagna, per definire assieme le misure urgenti da applicare per la prevenzione in linea con quanto previsto dai protocolli già sottoscritti, per la messa in sicurezza delle nostre carceri e per garantire la salute del personale e dei detenuti. Calabria. Detenuti in sciopero della fame a Crotone, chiesti i test anche per gli agenti Quotidiano del Sud, 8 aprile 2020 L’emergenza coronavirus sta creando proteste e richieste di intervento anche nelle carceri calabresi, dove i detenuti da una parte e la polizia penitenziaria dall’altra chiedono risposte per garantire la salute di tutti. I detenuti della casa circondariale di Crotone hanno intrapreso lo sciopero della fame per segnalare alle autorità competenti il loro disagio ed esprimere preoccupazione per l’evolversi del contagio all’interno delle carceri, lamentando quindi l’assenza di misure sufficienti a scongiurare eventuali pericoli di contagio ed evidenziando una situazione di sovraffollamento che non consente il rispetto delle distanze di prevenzione. L’avvocato Federico Ferraro, garante comunale dei detenuti, ha ricevuto una lettera dei detenuti, indirizzata anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, al Tribunale di Sorveglianza, al prefetto di Crotone Tiziana Tombesi ed alla direttrice del carcere Caterina Arrotta. I detenuti hanno sottolineato che “si è deciso di mettere in atto una pacifica protesta per segnalare il nostro disagio e sollecitare altresì l’invio di mascherine e disporre quanto prima il tampone obbligatorio per i nuovi giunti e gli operatori esterni”. Ricevuta la missiva, il garante Ferraro nella giornata di oggi ha tenuto un primo colloquio in videochiamata tra con alcuni detenuti in rappresentanza di tutta la popolazione carceraria al fine di rasserenare gli animi e comprendere i singoli motivi di doglianza. Ferraro, quindi, si è attivato per rendere nota la situazione alle locali autorità di pubblica sicurezza ed è in contatto con il garante regionale e con l’ufficio del garante nazionale che seguono con attenzione l’evolversi della situazione. Interventi urgenti nelle case circondariali sono stati sollecitati dal Garante regionale delle persone detenute, Agostino Siviglia in una lettera alla presidente della Giunta regionale, Jole Santelli e a Saverio Cotticelli, commissario per il Piano straordinario di rientro nel settore della Sanità. “È necessario un urgente reclutamento di personale infermieristico - ha scritto Siviglia - allo scopo del completamento orario di specialistica psichiatrica e psicologica presso il carcere di Arghillà”. Nella lettera, recapitata anche alla sub-commissaria, Maria Crocco, al direttore generale del dipartimento Salute della Regione Calabria, Antonio Belcastro, alla Commissione straordinaria dell’Asp reggina; al direttore sanitario dell’Asp Antonio Bray, al Provveditore regionale del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Liberato Guerriero; al direttore dell’istituto penitenziario “Panzera” di Reggio Calabria, Antonio Tessitore, al coordinatore sanitario del plesso carcerario di Arghillà, Nicola Pangallo, ai dirigenti sanitari dell’Asp di Reggio e al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, Vincenzo Pedone, Siviglia precisa che nonostante le richieste avanzate in precedenza, “ancora oggi non risultano essere state adottate le misure di cui sopra. Si rappresenta, infine, l’assoluta necessità di garantire a tutto il personale operante presso tutti e dodici gli Istituti penitenziari della Calabria, la fornitura dei dispositivi di protezione individuale sia per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria sia per quello amministrativo, medico e infermieristico, che quotidianamente presta il proprio servizio professionale all’interno del sistema penitenziario calabrese”. Il garante ha anche sollecitato “l’opportunità di fare i tamponi, ove necessario, in particolare, per il personale penitenziario e sanitario operante in carcere. Nel restare disponibile per tutte le interlocuzioni istituzionali che si renderanno necessarie ai fini dell’immediato intervento richiesto”. Dal canto suo, il provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in Calabria, Liberato Guerriero, ha scritto, tra gli altri, alla presidente Santelli e al commissario Cotticelli affinché siano eseguiti i tamponi a tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria per “preservare dal contagio le comunità penitenziarie”. Una richiesta che è stata promossa, nella stessa direzione, anche dal Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria attraverso una nota a firma del segretario regionale Damiano Bellucci. Liguria. La polveriera delle carceri senza protezioni di Massimo Calandri La Repubblica, 8 aprile 2020 In Liguria nessun caso di Coronavirus, ma gli agenti lamentano l’inadeguatezza di mascherine e camici e le difficoltà di mettere in isolamento i nuovi arrivati. Il problema non sono loro. Perché loro all’inizio di questa storia erano ‘puliti’ per forza. E lo sono ancora, condannati a restare lontano dal mondo. No, il problema sono gli altri. Quelli fuori, che possono portare dentro la malattia. “Se un solo detenuto verrà contagiato, rischia di scoppiare il finimondo. Siamo seduti su di una bomba, anche se tutti fanno finta di nulla”. Viaggio nelle 6 carceri della Liguria, ai tempi del Coronavirus: 1.516 detenuti, non un solo caso di Covid-19. Nemmeno tra i 936 poliziotti penitenziari che lavorano da La Spezia a Sanremo. “Però noi agenti usiamo la stessa mascherina chirurgica per una settimana, a volte anche 10 giorni di fila. Una follia. Accompagniamo all’esterno i prigionieri indossando assurdi grembiuloni blu che arrivano appena sotto il ginocchio. Guanti di protezione? Mai visti”. Può succedere naturalmente che arrivino nuovi arrestati: e allora dietro le sbarre cala un silenzio nero, inquieto. “Per ora ci è stato possibile isolarli in quarantena per un paio di settimane, ma fino a quando? Le celle sono sovraffollate: siamo già a 403 persone oltre la capienza massima”. In queste condizioni, è difficile dire quanto potrà durare. “Il rischio di rivolte, qui come è accaduto in 24 istituti italiani (14 morti il mese scorso), è altissimo”. Marassi, Pontedecimo, Chiavari, La Spezia, Imperia, Sanremo. In queste strutture non ci sono stati incidenti. Ed è un po’ per merito di chi sta dentro - tutti: guardie e ladri - un po’ per fortuna. “Siamo riusciti subito a negoziare coi detenuti, che come è loro diritto volevano incontrare i parenti e ricevere i pacchi. Gli abbiamo fatto capire che erano in grave pericolo”. Fabio Pagani, assistente capo a Marassi e segretario regionale Uil. “I colloqui ora si fanno via Skype e Whatsapp, le telefonate sono aumentate, i pacchi arrivano tramite corriere. E così azzeriamo il rischio, con la buona volontà di tutti”. Però ci sono altri problemi. “All’inizio come agenti siamo stati abbandonati da Regione e Protezione Civile: dispositivi, zero. Poi sono arrivate le mascherine, però quelle chirurgiche. Nessuno comprende che non siamo noi, quelli da proteggere: sono i detenuti”. A Marassi 730 presenze e 150 a Pontedecimo (69 donne), 264 a Sanremo, a La Spezia 212, a Chiavari sono 70 e 90 ad Imperia. I numeri non quadrano soprattutto nella principale prigione del capoluogo ligure, dove la capienza dovrebbe essere solo di 520. “Qualche giorno fa era circolata la notizia di un detenuto positivo, ma era falsa: si tratta di un cittadino albanese che dal 12 marzo era ricoverato al San Martino, e lì ha contratto una polmonite che ha fatto sospettare un caso di Coronavirus”. Il vero guaio è stato piantonare lo straniero, che tra l’altro era in attesa di giudizio per una semplice accusa di furto e tentata rapina. “È stato sottoposto a tampone e ospitato nel padiglione Covid, camera numero 9. Accanto, nella 10, c’era un signore anziano che è morto. E che nella notte gli agenti della penitenziaria hanno cercato di assistere. Protetti in maniera ridicola”. La mascherina chirurgica invece della Ffp3 o Ffp2, senza guanti. E col famigerato camice da dentista blu: “Che tra l’altro ti impedisce anche di mettere mano alla pistola, nel caso di fosse bisogno. Poi, i poliziotti sono tornati a Marassi”. Le carceri sono state riadattate per trovare celle da “isolamento fiduciario”, dove ospitare i nuovi arrivati che ci devono restare per 14 giorni. In quel formicaio del carcere genovese, è stata sgomberata la quinta sezione del 3° piano. “Ora c’è una dozzina di posti a disposizione, fortuna che col nuovo decreto gli arresti sono largamente diminuiti. Ma se domani catturano 10-15 individui, è finita”. A Imperia hanno recuperato un piano interrato, chissà se a norma. “Il problema è che così si spostano altri detenuti che dovevano rimanere ‘isolati’ per ragioni diverse: nelle stesse celle finiscono soggetti diversi e a rischio (i violentatori, i tossicomani, quelli ad ‘alta sicurezza’ con i ‘comuni’), col pericolo che questa promiscuità scateni gravi reazioni”. Nell’ora d’aria - dalle 9 alle 11, e dalle 13 alle 15 - in queste giornate di sole scendono in cortile dalla prima e seconda sezione fino a duecento uomini. “E noi siamo pochi, sempre di meno: costretti a rinunciare alle ferie, ai doppi turni, giorno e notte. Ma soprattutto, preoccupati di contagiarci fuori e di trasmettere il virus dentro”. Domenica si è scatenata una rivolta nel penitenziario di Santa Maria di Capua Vetere, Caserta. “Ancora una volta, qualcuno ha diffuso la notizia fasulla di un detenuto positivo. Sono invece vere le positività di molti nostri colleghi a Pisa”. Pagani è molto preoccupato. “Se qui in Liguria non è successo nulla, è perché siamo stati bravi e fortunati. Ma se non ci aiutano, rischia presto di scoppiare il finimondo”. Sicilia. Il virus mette le carceri alla prova, i sindacati di polizia: “Personale a rischio” palermotoday.it, 8 aprile 2020 I segretari generali dei Sindacati della Polizia penitenziaria dichiarano lo stato di agitazione e chiedono il commissariamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Mentre in altre regioni i provveditori si stanno muovendo come i giganti contro il possibile contagio del Covid-19 nelle carceri, in Sicilia la polizia penitenziaria non viene tutelata e per questo che dichiariamo lo stato di agitazione, chiedendo il commissariamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria in Sicilia, e che i prefetti assumano la regia nella gestione delle strutture carcerarie in tema di emergenza del Covid”. Lo dicono i segretari generali dei sindacati della polizia penitenziaria in Sicilia Sappe, Osapp, Uil, CisL, Cnpp. “Toscana e Umbria, Campania, Sardegna e Calabria - continuano i sindacalisti - si stanno muovendo a una velocità impressionante per tutelare la salute dei lavoratori della polizia penitenziaria, in Sicilia siamo fermi al palo, infatti il provveditore e il direttore del personale quasi a volere sminuire le sicure iniziative a salvaguardia dei lavoratori, si affidano a un’indicazione generica del ministero della Sanità, che ovviamente non tiene conto della peculiarità degli istituti penitenziari, ove nessun parametro è assimilabile alle condizioni esterne”. Toscana. Carceri, un protocollo d’intesa per la formazione dei minori redattoresociale.it, 8 aprile 2020 Un protocollo d’intesa sulla formazione negli istituti penitenziari minorili della Toscana sarà firmato tra la Regione Toscana, l’Ufficio scolastico regionale e il Centro di giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria. Un protocollo d’intesa sulla formazione negli istituti penitenziari minorili della Toscana sarà firmato tra la Regione Toscana, l’Ufficio scolastico regionale e il Centro di giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria. La delibera, che impegna la Regione alla sottoscrizione dell’accordo, è stata approvata dalla Giunta toscana. Il protocollo intende avviare una collaborazione per dare attuazione alle indicazioni contenute nella nota di aggiornamento del documento di economia e finanza approvata lo scorso dicembre dal Consiglio regionale al fine di “sostenere la formazione corsuale od a domanda individuale per i detenuti nei penitenziari del territorio regionale, con particolare attenzione ai minori”. Soddisfazione viene espressa dall’assessore regionale a Formazione, istruzione e lavoro, Cristina Grieco, che precisa: “Poiché la popolazione degli istituti penali minorili risulta eterogenea per età e per fabbisogno formativo ed educativo, con la conseguenza che sono poche le fattispecie detentive di lunga durata che consentono la frequenza di un intero percorso di studi e che le azioni finalizzate al recupero e al reinserimento dei carcerati sono ritenute dall’Amministrazione regionale di grande valenza sociale e formativa, con questo protocollo si intende dare avvio ad interventi di formazione professionale a favore dei giovani detenuti anche allo scopo di facilitare il loro inserimento lavorativo alla conclusione dello stato di detenzione”. In particolare, secondo quanto previsto dall’accordo tra Regione, Ufficio scolastico e Centro di giustizia minorile, la formazione sarà finalizzata alla realizzazione di percorsi finalizzati all’inserimento e al reinserimento nel mondo del lavoro dei giovani adulti e di percorsi per l’assolvimento del diritto e dovere all’istruzione e alla formazione per i minorenni di età compresa tra i 15 ed i 18 anni. “Le azioni finalizzate al recupero e al reinserimento sono ritenute dalla Regione di grande valenza sociale e formativa in quanto rispondono alla funzione istituzionale di garanzia e sviluppo della coesione sociale e costituiscono altresì un investimento di promozione dell’inclusione sociale e occupazionale, allo scopo di ridurre criticità e costi sociali alle comunità di appartenenza causati dalle recidive”, precisa l’assessore Grieco. Gli interventi, strutturati sulla base del fabbisogno formativo evidenziato dal Centro di giustizia minorile, saranno realizzati da uno o più istituti scolastici individuati dall’Ufficio scolastico toscano ed attuati con le risorse regionali, pari a 20 mila euro, destinate ad azioni rientranti nel progetto di aggiornamento del documento di economia e finanza. Roma. Il cappellano di Rebibbia: “Urgente indulto o amnistia, i detenuti nella disperazione” di Salvatore Cernuzio Il Secolo XIX, 8 aprile 2020 A Santa Marta l’appello del Papa: “Dove c’è un sovraffollamento c’è il pericolo di una calamità grave”. Don Roberto Guernieri, da 29 anni nel penitenziario romano, chiede al Governo di far uscire “un centinaio” di carcerati nel pieno della pandemia: “Dietro le sbarre una miseria assoluta”. “Io vorrei che pregassimo per il problema del sovraffollamento nelle carceri. Dove c’è un sovraffollamento c’è il pericolo, in questa pandemia, che finisca in una calamità grave”. Per la quarta volta dall’inizio dell’epidemia di coronavirus, Francesco è tornato, lunedì scorso a Santa Marta, a denunciare le condizioni in cui versano migliaia di detenuti in tutto il mondo, rese ancora più precarie e rischiose dalla emergenza sanitaria. Denuncia accolta e rilanciata dal Consiglio d’Europa che, pubblicando ieri le statistiche penali annuali, ha parlato di un “allarme sovraffollamento” particolarmente alto in alcuni Paesi (l’Italia è terza dopo Turchia e Belgio) con un totale di oltre un milione di detenuti in tutto il Continente. Dati dinanzi ai quali appare inequivocabile il monito del Pontefice: o si trova una soluzione in questo tempo di pandemia, o nelle carceri sarà una strage. Esattamente la paura che provano in questi giorni gli stessi carcerati, seppur ad oggi si registrino un unico decesso di un detenuto a Bologna e 19 contagi su 60mila unità. “Sì, ma tutta questa situazione ha determinato disperazione, incertezza, paura, dolore”, dice a La Stampa don Roberto Guernieri, da 29 anni cappellano dello storico carcere romano di Rebibbia che conta attualmente oltre 2600 detenuti, comprese 350 donne con bambini dagli 0 ai 7 anni. Don Roberto, il Papa lancia l’allarme sovraffollamento negli istituti penitenziari, seguito dal Consiglio d’Europa. A Rebibbia questo problema esiste? “Eccome se esiste, seppur si tratti di un carcere molto grande. Recentemente sentivo dire ad alcuni detenuti: “Hanno aggiunto la settima branda in cella”. Sono frasi preoccupanti, soprattutto in questi momenti di difficoltà. I problemi sono gravissimi, pensiamo che si tratta di una convivenza tra persone che non si sono scelte, costrette a vivere a stretto contatto per tutto il giorno in stanze di tre metri per quattro, con bagno in comune, senza spazio per muoversi. È tutto molto difficile da sopportare”. A ciò si è aggiunge il Covid-19, un terribile virus di facile contagio. Le autorità civili e sanitarie vietano assembramenti e chiudono gli spazi che possano favorirli. In carcere come si fa? “È una situazione inedita da affrontare. Che io sappia il virus ancora non è entrato a Rebibbia. Sono stato assente negli ultimi giorni ma credo che fino ad oggi non siano stati effettuati tamponi. Guanti e mascherine, quello sì, sono stati distribuiti subito. Naturalmente la pandemia ha stravolto tante cose, a cominciare dal fatto che, per evitare il contagio, le autorità carcerarie hanno deciso di sospendere i colloqui con i familiari. È uno dei motivi che ha determinato la rivolta di inizio marzo”. Ecco, proprio la rivolta. Lei era presente? “No, ma da quello che mi hanno raccontato posso dire che, in tanti anni che sono qui, una cosa del genere non è mai avvenuta”. Qual è stata la miccia? “L’allarme coronavirus ha generato disperazione, incertezza, dolore, poca speranza, poca fiducia. Quando una persona vive in questo stato, cosa fa? Una rivolta! Non sto giustificando l’azione, ma voglio dire che non è semplice affrontare la paura di essere lasciati soli, di non farcela, di non riuscire ad essere curati qualora si fosse contagiati e di morire senza nemmeno salutare i parenti”. Adesso la situazione com’è? “È rientrata, ma ancora, almeno una volta al giorno, i carcerati si fanno sentire battendo alle sbarre le padelle o quello che hanno in cella. In generale c’è tranquillità, ma non vorrei che fosse una pentola a fagioli che ribolle”. Il Papa chiede di pregare per la situazione delle carceri. Lei, in virtù della sua esperienza sul campo, cosa chiede? “Chiedo l’indulto o l’amnistia. Ci sono stati capi di Stato stranieri che hanno preso queste decisioni alla luce dell’emergenza dettata dalla pandemia. In Italia ancora no. Chiedo al Governo di fare uscire i detenuti, almeno un centinaio, non solo quelli che lo meritano ma anche quelli che hanno la possibilità di ritornare in società. Quindi di favorire le misure alternative”. Sulla questione è in corso un duro scontro politico con il Dl sulle carceri contenuto nel “Cura Italia”… “Ne sono a conoscenza, ma dobbiamo guardare la realtà. Il coronavirus è una aggravante nella vita già precaria di tanti detenuti, non possiamo “restringerli” ulteriormente. Questa è gente che non può uscire a vedere il sole. C’è bisogno che qualcuno torni nella sua famiglia, che dimostri il suo cambiamento, che i reclusi possano essere aiutati a cominciare un cammino di reinserimento in società”. Il carcere favorisce questa riabilitazione, secondo lei? “A volte sì, ma spesso è solo un parcheggio dove ci sono tante iniziative. Inoltre c’è il problema che tante persone, una volta uscite, si scontrano con una mentalità forcaiola: “Quello è stato a Rebibbia”, “questo è stato fortunato con l’indulto” e via dicendo. Sì è vero, sono persone che hanno sbagliato, ma sono sempre persone. E, in quanto tali, immagine di Cristo”. Il primo step per un ex detenuto sarebbe quello di trovare un lavoro. In questo momento di crisi, però, il lavoro in tanti lo perdono. Cosa propone? “Questo è il problema più grave. So bene che mancano occupazioni, mancano alloggi. Peraltro tanti, tanti, detenuti non sanno dove andare, non hanno né casa né famiglia. Le comunità sono piene, anche quelle per il recupero dalla droga, le Caritas e gli organismi di accoglienza hanno grosse difficoltà. Eppure niente è come il carcere dove si vivono situazioni di miseria incredibile. Sono veramente poveri… Poveri di affetti e poveri di biancheria o di altre cose necessarie per la sopravvivenza che è difficile procurarsi. Pensi che anche per lo spazzolino o la carta igienica bisogna fare la richiesta scritta”. Lei in che modo aiuta? “Con i miei confratelli pensiamo a vestirli, a lavarli, portiamo qualche genere alimentare che riusciamo a recuperare. Tanti ragazzi vengono arrestati in canottiera e mutande, non è possibile! Abbiamo davanti alcuni giovanissimi, meno di 30 anni, di origine africana o dall’Est, venuti in Italia a trovare uno sbocco di vita. Personalmente organizzo la raccolta di tante cose, sto con i più bisognosi, li aiuto, li ascolto. Faccio in modo di mantenere i rapporti con famiglie, avvocati, magistrati per accompagnarli nella loro situazione giuridica dall’esterno”. A livello spirituale cosa fa? “Li confesso, celebro le messe nella cappella del mio reparto. Adesso abbiamo dovuto rivedere tutto: celebriamo in piccoli gruppi, a turno, mantenendo le distanze. E ora è iniziata la Settimana Santa…”. Come celebrerà Pasqua? Ha inventato qualcosa di nuovo? “Possiamo fare molto poco. Solitamente in questi momenti forti abbiamo delle tradizioni, come ad esempio a Natale il concorso dei presepi e la colazione con panettone e cioccolato caldo. A Pasqua ripetiamo con le colombe, ma adesso non so se riusciremo a recuperarle. È una Pasqua penalizzata rispetto agli anni passati, ma accontentiamoci di quello che possiamo fare. Il Signore è risorto e ci aiuterà a vincere il virus e porterà speranza nella vita di ognuno”. San Gimignano (Si). Ancora trasferimenti, è arrivato un contagiato asintomatico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2020 Risultato negativo al tampone effettuato a Bologna, ma positivo al secondo. L’associazione “L’altro Diritto” e il Garante locale del carcere toscano: “abbiamo chiesto di interromperli perché rischia di diffondere il virus. Ritorna con prepotenza il discorso della girandola dei detenuti ai tempi del coronavirus. Se è vero, come ribadito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che i trasferimenti sono limitatissimi e fatti in casi eccezionali, resta il dato oggettivo che ha destato comunque molta preoccupazione. Ieri, l’Associazione “L’Altro diritto”, garante locale del carcere di San Gimignano, ha avuto notizia di un trasferimento di un detenuto proveniente dal carcere di Bologna che poi è risultato positivo al coronavirus. Asintomatico, era risultato negativo al tampone effettuato a Bologna, ma poi positivo al secondo fatto a San Gimignano. Attualmente si trova in isolamento. Dura la reazione dell’Associazione: “Si mette a rischio la vita dei detenuti, in particolare dei molti già alle prese con patologie, e di tutto il personale penitenziario e sanitario”. Infine conclude: “È assurdo che, in un contesto in cui tutti i cittadini sono chiamati a restare a casa, i detenuti sono costretti a una pericolosa mobilità da istituto a istituto”. Il Dap ha fatto sapere al garante locale che non stanno effettuando trasferimenti se non in casi eccezionali come questo. Ha sottolineato che al carcere di Bologna erano state rese inagibili 3 sezioni dopo le rivolte. Resta però sullo sfondo il rischio che detenuti asintomatici possano infettare anche gli altri istituti. Purtroppo, come questo caso dimostra, un solo tampone potrebbe non essere sufficiente per verificare la negatività al Covid 19. A questo si aggiunge il malumore e la preoccupazione dei detenuti e dei familiari stessi. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, nello scorso bollettino, ha evidenziato che “alle tensioni normali si aggiungono ora la preoccupazione per la salute di chi sta dentro e dei propri cari fuori e le aspettative rispetto alle misure messe in atto per contrastare il sovraffollamento. Le preoccupazioni possono facilmente trasformarsi in tensione e agitazione”. Per questo il Garante auspica un intervento del legislatore affinché si elimini il sovraffollamento, visto che il ritmo del contagio all’interno delle carceri è ancora contenuto, ma in ascesa. Ma sempre il Garante evidenzia un altro aspetto drammatico di questo periodo: i suicidi in carcere. Sono 17 dall’inizio dell’anno, di cui ben quattro negli ultimi dieci giorni (il 28 marzo nell’Istituto di Reggio Emilia, il 2, il 3 e il 5 aprile in quelli di Siracusa, Roma Rebibbia e Aversa). “Un crescendo che si inserisce certamente nel difficile contesto di una crisi sanitaria inimmaginabile per il Paese che, in un luogo chiuso e separato quale è il carcere, non può che acuirsi”, ha osservato il Garante Nazionale. Brindisi. Detenuto positivo al Coronavirus: tamponi nel carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 8 aprile 2020 Il sindacato: “Controlli solo su una parte dei detenuti, mentre nulla per la restante popolazione, tra cui i poliziotti”. Un detenuto del carcere di Brindisi è positivo al Coronavirus. Lo denuncia il sindacato Sappe di Polizia penitenziaria e lo conferma il sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, in un post su Facebook. Si tratta di un italiano di 35 anni affetto anche da altre patologie; sconta una pena definitiva ed era in carcere dallo scorso marzo. Il 27 marzo un primo tampone era risultato negativo. Ieri, dopo che domenica scorsa era stato ricoverato all’ospedale Perrino di Brindisi, gli è stata diagnosticata l’infezione da Covid-19. “Abbiamo notizia - scrive il Sappe in una nota - che questa mattina l’Asl starebbe provvedendo a effettuare tamponi solo su una parte dei detenuti, mentre nulla per la restante popolazione, compresi tutti i poliziotti e chi frequenta il carcere e potrebbe essere stato vettore dell’infezione”. Secondo il Sappe, inoltre, ai poliziotti che domenica scorsa sarebbero stati a stretto contatto con il detenuto, per aiutarlo a superare un malore, sarebbe prescritta la quarantena “senza provvedere al tampone”. Crotone. Rischio Covid, i detenuti avviano sciopero della fame ilcrotonese.it, 8 aprile 2020 “Siamo 146 in un carcere dove ne possono stare 90: servono interventi urgenti perché le misure di prevenzione non sussistono e basterebbe un solo contagio per coinvolgere tutta la popolazione detenuta”. È quello che scrivono i detenuti nella casa circondariale di Crotone al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ed al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, annunciando che da venerdì 7 aprile hanno iniziato lo sciopero della fame. Nella lettera, che il garante dei detenuti del Comune di Crotone, Federico Ferraro, ha fatto pervenire alla stampa, viene espressa preoccupazione per l’evolversi della pandemia all’interno del mondo carcerario. I detenuti denunciano il sovraffollamento: “La capienza della casa circondariale di Crotone è di 90 detenuti, siamo circa 146 vivendo in due sezioni e una emergenziale. Viviamo nelle stanze di pernottamento invece di cinque siamo in otto ed n quelle da due siamo in quattro”. I detenuti chiedono al Governo l’adozione di misure legislative che consentano l’osservanza della misure di sicurezza imposte dall’organizzazione mondiale della sanità e dal Ministero della Salute anche all’interno della locale casa circondariale: “Siamo stati dei detenuti pazienti ed educato come può attestare la direttrice nostra, con tutto il personale penitenziario e sanitario, ma siamo arrivati ad una situazione invivibile e disumana” per cui si ritiene necessario “attuare anche in via provvisoria delle misure alternative, o domiciliare, onde evitare di arrivare ad una situazione di collasso in quanto la struttura è carente di personale penitenziario e quello sanitario non è sufficiente a tutelare la nostra vita”. In una seconda lettera, indirizzata al garante comunale, Federico Ferraro, invece, i detenuti nel carcere di Crotone spiegano il motivo dello sciopero della fame sostenendo “l’impossibilità di mantenere all’interno dell’istituto uno stile di vita adeguato alle linee guida del Dpcm visto l’ingresso dei nuovi giunti e nonostante l’egregio sforzo dell’intero corpo di polizia penitenziaria che, insieme a noi, e forse più di noi, è esposto a questo terribile virus”. Viene anche chiesto “l’invio di mascherine e di disporre quanto prima il tampone obbligatorio per tutti i nuovi giunti e per gli operatori esterni”. Il Garante comunale dei detenuti, Federico Ferraro, auspica “un sollecito intervento anche della Magistratura di Sorveglianza territorialmente competente dal momento che tale situazione non può considerarsi come gestione dell’ordinaria amministrazione, bensì come situazione di carattere eccezionale ed urgente”. Salerno. Processi, nuovo stop fino all’11 maggio. “Svuota-celle” al palo di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 8 aprile 2020 Il ministro Bonafede ha accolto l’appello lanciato dall’Anm. Il “Cura Italia” non decolla: mancano i braccialetti elettronici. Giustizia ferma ai box, il coronavirus allunga i tempi dei processi. In aula, almeno fisicamente, non si tornerà prima dell’11 maggio. E questa la decisione adottata ieri nel Consiglio dei Ministri. Con lo stop forzato di un altro mese c’è il rischio di accumulo dei processi giudiziari. E i tempi per smaltirli non sono brevi, come dimostrano le precedenti crisi. Intanto, procede l’attività dei giudici di sorveglianza per “alleggerire” le carceri, come stabilito dal decreto “Cura Italia”. In Italia sono oltre 4mila i detenuti usciti dagli istituti penitenziari dall’inizio dell’emergenza. Anche a Salerno sono state avviate le prime uscite anticipate di detenuti vicini al “fine pena” che erano in carcere per reati comuni. Il caso “braccialetto”. La vera incognita di questa procedura “agevolata” resta il “braccialetto elettronico”. Non sempre sono disponibili, almeno non in numero sufficiente. Eppure sono obbligatori per le pene in corso superiori ai sei mesi. La politica ha previsto la norma, ma ha riversato sui magistrati l’onere dell’applicazione senza offrirgli tutti i mezzi necessari. I numeri del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) dicono che il numero dei detenuti negli istituti italiani sono diminuiti dall’inizio dell’emergenza. Dal 29 febbraio scorso se ne contano 4.093 in meno. La minor presenza è dovuta all’esecuzione della pena nel per motivi sanitari dovuti al contagio da coronavirus, ma anche per incompatibilità con lo stato di salute del detenuto. È cresciuto anche il numero dei permessi ai semiliberi. Avvocati in trincea. “Questo risultato, peraltro ancora largamente insufficiente, lo si è ottenuto nonostante il decreto “Cura Italia” - dice l’Unione delle Camere penali - grazie al grande impegno è responsabilità di molti tribunali di sorveglianza e degli avvocati impegnati nella tutela del diritto alla salute dei propri assistiti, ricorrendo agli strumenti normativi già esistenti che il Governo ha addirittura peggiorato con la imposizione dei famosi braccialetti”. Silenzio in aula. Le aule sono vuote, il tribunale è semideserto. Anche il personale amministrativo è in numero ridotto per il “lavoro agile”. Le udienze, in questo periodo storico, sono solo a distanza. Si tengono, con la formula telematica, solo quelle urgenti: al settore civile quelle che riguardano i minorenni e i rapporti familiari, mentre al penale le convalide di arresto e di fermo. E poi quelle nelle quali i detenuti o i loro difensori decidono lo stesso di andare avanti. Tenere le udienze in tribunale non è facile, bisogna rispettar le distanze per rispettare il contagio perché l’affollamento dei palazzi di giustizia non è per niente compatibile con le ordinanze in vigore per l’emergenza in atto. Toghe per il rinvio. A sollecitare la proroga della sospensione delle udienze è stata anche l’Anm, l’associazione dei magistrati. I giudici insistevano per la proroga decisa con un decreto ministeriale e non affidata alla discrezione dei singoli capi degli uffici. Per l’Anm è necessario anche “con l’adozione delle necessarie cautele, per evitare l’esposizione di migliaia di persone a un rischio ancora grave, peraltro in assenza dei dispositivi e delle misure di protezione che potrebbero al più ridurre, ma non certo escludere, il contagio e una diffusione ulteriore del virus”. Torino. Vivere reclusi, abitare il carcere tra mancanze e bisogni di Roberta Lancellotti futura.news, 8 aprile 2020 Il carcere di Torino Lorusso e Cutugno, meglio conosciuto come “Le Vallette”, può contenere 1135 detenuti. Al momento dell’esplosione del contagio del coronavirus ne erano presenti 1486. Oltre 350 persone in più. Il drastico calo di reati di questo periodo ha diminuito notevolmente gli ingressi quotidiani nell’istituto, che da 20/25 al giorno sono scesi a tre o quattro. Dopo il decreto “Cura Italia”, che prevede l’uscita di alcune categorie di reclusi dagli istituti di detenzione, solamente trenta persone hanno lasciato le Vallette nelle prime settimane. Cifre insufficienti per garantire un’adeguata gestione della crisi. Non solo. “I problemi strutturali purtroppo obbligano a lavorare solo sull’emergenza, quest’ultima ha dimostrato che gli istituti erano tutti impreparati”, spiega Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino dal 2015. “Il sovraffollamento riduce l’efficacia di qualsiasi attività che possa migliorare il trattamento dei detenuti e la loro rieducazione. Lasciare una persona in balia di sé stessa a farle passare il tempo è un sistema che non costruisce una persona diversa”. Per la nostra Costituzione una pena deve tendere alla rieducazione del condannato, oggi il carcere non risponde a questo obiettivo. Una soluzione che permetterebbe di superare le celle troppo piene potrebbe essere il potenziamento dell’esecuzione penale esterna, ovvero di quelle misure alternative di detenzione che consentono di scontare la pena all’esterno del carcere. Una realtà che però in Italia fatica ad affermarsi, anche per la difficoltà di convincere l’opinione pubblica che sia meglio scontare una pena fuori dal carcere, piuttosto che dentro. “Se una persona compie del male, dovrebbe riuscire a fare un percorso che si allontani dal ricevere altro male”, continua la garante Gallo. “Se chi va a scontare una pena viene messo in una cella minuscola con uno sconosciuto, è costretto a fare la doccia solo a un certo orario, non viene accompagnato in percorsi rieducativi, viene ascoltato poco, non riceve risposte, allora è inevitabile che non possa uscirne in modo migliore da come è entrato”. In carcere manca spazio, manca un accompagnamento e spesso manca un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica. A volte manca anche umanità. E Monica Cristina Gallo ha dovuto fare i conti con questa mancanza. Nel dicembre 2018 ha segnalato alla Procura di Torino la presenza di abusi su alcuni detenuti in una sezione delle Vallette. Da lì sono partite le indagini per un’inchiesta che prosegue ancora e che fino ad oggi ha portato agli arresti domiciliari sei agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di tortura. “In quanto garanti il primo diritto che dobbiamo garantire è quello della dignità della persona, assicurandoci che il trattamento non sia inumano e degradante e che non vengano effettuate procedure di tortura”, racconta. “È la nostra missione prima di ogni altra”. L’indagine non si è ancora conclusa anche a causa dello stop all’attività giudiziaria imposta dai decreti per il contrasto al Covid-19. Ma potrebbe riservare nuove accuse. La quarantena ha obbligato tanti italiani a fare i conti con uno stravolgimento della propria libertà personale. Niente a che vedere con la reclusione forzata in cui si trovano i detenuti. Però ha inevitabilmente portato a riflettere sul valore dell’essere liberi. Il rischio in questi casi è che si parli di carcere solo quando brucia qualcosa. Magari la voce che viene da dentro le mura in questi giorni è proprio questa: “Non dimenticateci”. Padova. Celle piene e rischio Covid, arresti ridotti al minimo. Il pm: “Serve buon senso” di Roberta Polese Corriere Veneto, 8 aprile 2020 Sovraffollamento, la Cassazione: pesare le misure detentive. Ma per il capo dei pm padovani le maglie non si sono allargate. Cappelleri: “Città indifese? No, percezione distorta: i reati sono crollati”. Non servono dati statistici o grandi elaborazioni per rendersi conto del crollo verticale del numero di reati che, dal 21 febbraio, si registrano nell’intero territorio regionale. L’emergenza Covid-19, con il progressivo lock-down delle imprese e l’obbligo di stare a casa, sembra aver paralizzato il “business” degli illeciti, tanto che, almeno a Padova, cuore della regione, i reati sono in calo del 70%, un dato che appare simile in tutte le provincie. Il riflesso incondizionato di questo numero è che gli arresti e i trasferimenti in carcere sono nettamente diminuiti, anche se in questo frangente entra in campo un’altra variabile, ben visibile agli occhi di un osservatore attento: a parità di tipologia dei reati pre-Covid 19, gli arrestati raramente finiscono in carcere; per loro si applica più spesso la detenzione domiciliare. “Dalla procura generale presso la Corte di Cassazione - spiega Antonino Cappelleri, procuratore capo di Padova - è arrivata a tutte le procure una direttiva molto chiara, che richiama al buon senso. Dobbiamo pensare che nelle carceri c’è un serio problema di sovraffollamento e in una emergenza come questa non possiamo andare ad aggravare una situazione già complessa”. Parole che vanno inserite anche nel contesto in cui sono pronunciate: giusto ieri, infatti, Cappelleri e i magistrati del tribunale di Sorveglianza, hanno preso parte all’iniziativa della cooperativa Giotto, che, proprio nell’aula della Sorveglianza del tribunale di Padova, ha distribuito le mascherine confezionate dai detenuti del carcere Due Palazzi. La stessa presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia, Linda Arata, ha colto l’occasione per segnalare le gravi difficoltà in cui versano la casa circondariale e il Due Palazzi di Padova, evidenziando anche l’importante lavoro che svolgono in questo momento le cooperative che stanno responsabilizzando i detenuti, mettendo in atto la rieducazione della pena detentiva così come prevede l’ordinamento giudiziario. Già all’inizio dell’epidemia, a tutti i magistrati padovani erano giunte indicazioni chiare da parte del vertice della procura sull’attenzione allo stato delle carceri e sulla necessità di non aggravare una situazione complessa. Il chiarimento in merito a questa direttiva l’aveva dato lo stesso Cappelleri, i primi giorni di marzo: “Si tratta di fare delle scelte responsabili, è un equilibrio complesso ma di equilibrio si tratta. Non deve passare il messaggio che le maglie si sono allargate”. Tuttavia, di riflesso, non si può non notare come, sempre a Padova, pare stia diventando un caso la segnalazione di spacciatori che agirebbero “indisturbati” in città, lo testimoniano vari Facebook e anche Striscia la Notizia, che, giusto due sere fa, ha mandato in onda un servizio dove la città pare “invasa” da spacciatori. “Mi rendo conto - riprende il procuratore - che nelle strade oggi vuote questi capannelli rischiano di “spiccare”, ma è solo perché siamo tutti a casa. Le forze dell’ordine sono al lavoro continuamente e confermo il dato della riduzione dei reati del 70%, quindi quella che mi sta segnalando è una percezione”. Altro tema caldo è la riapertura dei tribunali l’11 maggio, con il possibile congestionamento di una giustizia già intasata. Per velocizzare le pratiche al riavvio dei processi da più parti si fa largo la strada dell’amnistia, ossia l’estinzione del reato e la rinuncia da parte dello Stato a perseguire i colpevoli. “Amnistia e indulto (che, a differenza della prima, cancella la pena ma non il reato, ndr) sono istituti vecchi e fuori dal tempo - afferma ancora Cappelleri - che non tengono conto dell’importanza della rieducazione che invece è essenziale, lo vediamo in special modo oggi con la distribuzione delle mascherine fatte dai carcerati”. Resta il problema delle piccole cause “bagatellari”, ossia di poco conto, che si concludono con il pagamento di una pena pecuniaria ma che ingombrano le scrivanie dei magistrati rallentando una macchina già piuttosto arrugginita. “La giustizia - conclude Cappelleri - mette a disposizione dei magistrati l’assoluzione per “tenue gravità del fatto”. Si tratta di un articolo che potrebbe opportunamente essere utilizzato in casi come questi”. Padova. I detenuti preparano le mascherine per i magistrati Il Gazzettino, 8 aprile 2020 “Tutto il giorno faccio del mio meglio per cercare di confezionare più mascherine possibile con l’intento e la speranza di essere utile e contribuire nel mio piccolo ad aiutare in questo difficile momento”. A scrivere il messaggio è uno dei detenuti del carcere di Padova che in questi giorni sta lavorando per confezionare mascherine. L’iniziativa è della cooperativa Giotto che lavora da anni all’interno dell’istituto di pena e che proprio nelle ultime settimane ha deciso di implementare il lavoro dei detenuti confezionando il prodotto che si trova con difficoltà nelle farmacie. Oggi un primo campione di cento presidi sanitari realizzati al Due Palazzi è stato consegnato ai magistrati del tribunale di sorveglianza di Venezia e di Padova e al capo della procura di Padova Antonino Cappelleri. “Quando parliamo di carcere pensiamo solo al personale della polizia penitenziaria e ai detenuti - afferma Nicola Boscoletto, a capo della cooperativa Giotto - ma invece c’è tanto personale che si trova al lavoro in questo momento. Quando è scoppiata l’emergenza abbiamo subito riflettuto sul come renderci utili, certo abbiamo dovuto fare i conti anche noi con il lockdown del Paese, molte sezioni delle nostre attività sono bloccate, ma questo non ci ha impedito di reinventarci”. I detenuti non hanno perso tempo. “Abbiamo acquistato delle macchine cucitrici - racconta - e ci siamo messi subito al lavoro per realizzare mascherine che oggi sono un bene primario e sembrano non bastare mai. Quelle che realizziamo noi sono in tessuto lavabile, per cui si possono riutilizzare. Abbiamo individuato varie farmacie a ferramenta che faranno da punti vendita, ogni mascherina costa 7 euro, ma ne basta una per ogni componente della famiglia, perché sono lavabili”. A cucirle sono sette detenuti, cinque dei quali cinesi, che si vanno ad aggiungere a quelli che già operano all’interno della struttura per preparare panettoni e focacce gourmet che vanno letteralmente a ruba. Altri tre dipendenti non detenuti si occupano di reperire e trasportare materiale e distribuire il prodotto finito. Fossano (Cn). Solidarietà in carcere, tra paura e speranze targatocn.it, 8 aprile 2020 Riceviamo e pubblichiamo un testo inviato da un gruppo di detenuti del Santa Caterina di Fossano. I detenuti hanno raccolto dei fondi per la protezione civile e preparato un lenzuolo di buon auspicio per i concittadini all’esterno. La solidarietà in carcere non è solo ricevere un nuovo giunto in cella, ma, più che mai oggi come oggi, per noi reclusi in un piccolo carcere nel “profondo Nord” d’Italia (Santa Caterina di Fossano, Cuneo) è anche dare solidarietà al di fuori di esso. Questi giorni sono durissimi per tutti, e per noi ancora di più. È vero, stiamo pagando per i nostri errori, ma non per questo abbiamo il cuore di pietra o siamo indifferenti alle notizie che ci arrivano da fuori tramite i mezzi di comunicazione (TV, giornali e telefonate ai nostri cari). Il tutto ha inizio a marzo. Altri carceri in Italia esplodono e non solo per il Covid-19, quella è stata la miccia, ma il detonatore è stato un altro, ma nella nostra realtà, grazie alla direzione dell’istituto e agli operatori carcerari, ci siamo messi a ragionare per vedere come risolvere i vari problemi e i disagi provocati dal Covid-19. Da una parte ci sono state concesse, a titolo gratuito, delle telefonate in più. Nelle stesse giornate alla televisione esce la richiesta di aiuto da parte della Protezione Civile e anche in questo caso è scattata in automatico tra di noi una raccolta fondi. È vero la cifra finale non supera i 250 Euro, ma non è tanto la cifra in sé, ma il gesto. Ognuno di noi ha messo quello che poteva: è il nostro aiuto per chi sta combattendo fuori con questa nuova realtà catastrofica. Noi in carcere viviamo tra realtà e speranza e nella nostra mente si crea un mondo intermedio per non sentire la sofferenza e la paura che c’è fuori da questo contesto. La nostra mancanza di libertà crea tante emozioni che con le parole sono difficili da esprimere per il timore di non essere intesi o malintesi e nello stesso tempo rifiutati dalla società, che ha paura della diversità, per il timore di essere coinvolti nello stesso pensiero di un detenuto, senza sapere che in carcere ogni persona ha tantissime cose o pensieri belli da offrire, come la solidarietà. Roma. Isola Solidale, a Pasqua la preghiera dei detenuti per i 17 suicidi in carcere romasette.it, 8 aprile 2020 La veglia in memoria dei carcerati che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in Italia, di cui uno a Rebibbia. Il presidente Pinna: puntare su pene alternative. Dedicata ai 17 carcerati che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in Italia la veglia di preghiera organizzata, in occasione della Pasqua, dai detenuti dell’Isola Solidale. Una realtà, quella dei suicidi in carcere, ricordata nei giorni scorsi dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma. 4 i casi negli ultimi 10 giorni: il 28 marzo nell’istituto di Reggio Emilia, il 2, il 3 e il 5 di aprile in quelli di Siracusa, Roma Rebibbia e Aversa. “Una tragedia nella tragedia”, la definisce Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale, che da oltre 50 anni accoglie a Roma detenuti ed ex detenuti grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000. Storie che “mettono ancora più in evidenza in maniera tragica i limiti del nostro sistema carcerario”. Per Pinna, “occorre puntare una volta per tutte sulle pene alternative al carcere. Credo sia arrivato il momento di riveder il concetto di detenzione nel nostro Paese puntando su forme che siano veramente riabilitative, come prevede la nostra Costituzione”. Per il momento, la Pasqua dell’Isola Solidale, conclude il presidente, “sarà idealmente accanto alle famiglie dei detenuti che si sono tolti la vita, vicini agli ultimi come ci ha indicato Papa Francesco”. Gorgona (Li). Detenuti e agenti aiutano la Caritas iltelegrafolivorno.it, 8 aprile 2020 Con i soldi raccolti acquistati generi di prima necessità prodotti sull’isola dai carcerati. Detenuti, operatori della polizia penitenziarie e i pochi abitanti dell’isola di Gorgona hanno fatto la colletta per l’acquisto di generi alimentari prodotti sull’isola negli allevamenti e negli orti che gestiscono i detenuti, ma che appartengono allo Stato. Tutti questi beni di prima necessità sono stati portati a Livorno questa mattina a bordo della motovedetta della polizia penitenziaria. A riceverli in porto la direttrice di Caritas suor Raffaella Spiezie. Sono stati donati uova, formaggi e ortaggi. Tutto finirà sulle tavole delle mense Caritas (due) che stanno lavorando a pieno regime anche in questo momento drammatico per l’emergenza coronavirus. Le mense producono anche pasti che vengono a che portati a casa. “Dopo questo primo intervento - annuncia il direttore della colonia penale di Gorgona e del carcere Le Sughere di Livorno Carlo Alberto Mazzerbo - un’ulteriore iniziativa per la Comunità di Sant’Egidio con cui collaboriamo da anni nel carcere delle Sughere. I prodotti, sempre di Gorgona, saranno destinati a Sant’Egidio, ma la colletta è in via di definizione”. “Un gesto solidale - conclude Mazzerbo - per essere vicini a chi è in difficoltà in questo momento drammatico”. “Sono aumentati gli utenti delle mense, - riferisce suo Raffaella - a causa delle conseguenze dell’epidemia da Coronavirus che sta paralizzando il mondo del lavoro. Sono aumentati così i pasti a domicilio e i pacchi alimentari per i quali sono sempre più numerose le famiglie livornesi che ne hanno necessità. Diamo 50 pacchi al giorno e prepariamo 300 pasti al giorno, diamo contributi per affitti e utenze. I bisogni sono cresciuti e li possiamo soddisfare grazie alle tante donazioni di singoli, negozi, enti e associazioni”. I migranti sono scomparsi ma ora tutti li vogliono di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 8 aprile 2020 Dal Governo a Coldiretti: “i lavoratori stranieri sono necessari per i raccolti”. Non li vedo più, come fossero spariti all’improvviso. È dall’inizio dell’epidemia e delle disposizioni più stringenti del governo che non li vedo più agli incroci delle strade comunali dove sostavano al mattino con le loro biciclette aspettando che passasse il caporale a raccoglierli e li portasse in campagna, al lavoro. Anche loro #restanoacasa. Solo che la loro “casa” è la baraccopoli di San Ferdinando. Un mucchio di tende blu dove sono rinchiusi in cinquecento, otto per tenda, con una decina di moduli di servizi igienici. Il lavoro non c’è più, l’agricoltura è ferma. Anche chi ha un regolare contratto ma lavora magari in un altro comune più distante viene continuamente fermato dai posti di blocco e rimandato indietro. Senza lavoro non c’è paga, anche di fame, ma pur sempre una sopravvivenza. E poi, il terrore del contagio. Qui, se si ammala uno diventa un lazzaretto. Una situazione incontrollabile. È successo in Portogallo. Il contagio di un lavoratore nepalese nelle serre dell’Algarve aveva convinto le autorità a confinare in una scuola ottanta suoi connazionali: molti sono fuggiti temendo di essere messi su un aereo per un rimpatrio forzato. Una situazione così, con persone contagiate fuori da ogni controllo, era ingestibile. E il governo del Portogallo ha deciso di gestirla, approvando una sanatoria per i richiedenti asilo e per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno che abbiano chiesto di accedere ai servizi sanitari. Con questa regolarizzazione gli stranieri potranno cercare un lavoro regolare, avere un contratto e accedere a tutti i servizi pubblici e affittare una casa senza ricorrere al mercato nero. L’agricoltura portoghese ha bisogno delle loro braccia. È quello che dice Coldiretti: ci sono le fragole nel Veronese, la preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte, gli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini - quelli che d’estate portano le bestie in alto sui pascoli e d’inverno le tengono nelle stalle - sono soprattutto indiani e poi ci sono i macedoni, quasi tutti pastori. Dalla frutta alla verdura, dai fiori al vino, ma anche negli allevamenti, in totale - dice Coldiretti - fra stagionali e permanenti sono 345mila i lavoratori stranieri impiegati in agricoltura, per trenta milioni di giornate di occupazione. Dal nord al sud: in Puglia, con l’arrivo imminente delle raccolte di ciliegie, pomodori e uva da tavola sono esplose le prime criticità. E solo nella Capitanata si concentra il 27,61 percento delle 973mila giornate di lavoro degli immigrati impiegati in lavori stagionali. Parliamo delle cifre ufficiali - chi ha contezza del lavoro nero e irregolare? A dicembre, con le disposizioni ministeriali sui flussi, le aziende avevano fatto le loro domande e a fine aprile è fissato il “click day”. Si parla di lavoratori in arrivo dall’est Europa - dall’Albania alla Bosnia, dalla Macedonia all’Ucraina - e dall’Africa - dalla Tunisia al Marocco, dal Niger al Sudan - ma anche da luoghi più lontani, l’India, lo Sri Lanka. Solo che, per quanto regolari, dovrebbero scattare le disposizioni di quarantena, e non è semplice farvi fronte - e si perdono giornate preziose, e chi paga? E bisognerà rispettare condizioni di lavoro particolari, le distanze di sicurezza, i dispositivi, i controlli, gli spostamenti, i luoghi di mensa e di riposo. Un delirio. E con le notizie che girano per il mondo riguardo l’Italia - il paese più colpito dalla pandemia - verranno ancora? Forse ci vorrebbero degli incentivi - magari trasformare gli arrivi per permessi per lavoro stagionale in permessi di soggiorno per lavoro subordinato. Alcuni avevano pensato di rivolgersi allora agli italiani - pensionati, cassintegrati, studenti - con dei voucher per far arrotondare loro le entrate. Al momento non si registrano successi su questo fronte. Il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova c’è andata giù diretta: “Gli immigrati non sono nemici, siamo noi ad aver bisogno di loro”. È un buon inizio. E ha proseguito: “Dobbiamo fare i conti con la realtà. Ci sono i ghetti, pieni di lavoratori arrivati dal sud del mondo che lavorano nelle nostre campagne in nero. Lì sta montando la rabbia e la disperazione, se non si fa qualcosa il rischio è che tra poco ne escano e non certo con un sorriso. C’è un forte deficit di manodopera, bisogna mettere anche loro in condizioni di lavorare in modo regolare”. Sembra che sia andata ieri a San Ferdinando, il ministro Bellanova. Ci vuole un bagno di realtà. Qua corriamo il rischio di fermare la filiera agro-alimentare - già alcune primizie sono andate a male. E non è - lo è anche - un problema di economia e di declino del paese. Se si ferma la filiera agro- alimentare, che succederà? Inizia il razionamento, viene distribuita la tessera per i pomodori di Pachino o il radicchio trevigiano? Facciamo i conti con la realtà. Buona parte dell’agricoltura è lavorata in nero, e gli immigrati irregolari sono sotto il ricatto di paghe di fame e condizioni drammatiche di vita: di loro ci si ricorda solo per alimentare campagne d’odio, per lanciare allarmi sulle invasioni, per parlare di irrobustire e militarizzare i nostri confini. Se questa tremenda situazione servirà a trattarli per quello che sono - lavoratori indispensabili da regolarizzare - avremo fatto tutti un passo avanti. Come civiltà. “I più vulnerabili ormai sono esclusi dalle cure” di Adriana Pollice Il Manifesto, 8 aprile 2020 Emanuele Nannini (Emergency). “I campi per migranti sono bombe a orologeria: non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche o i tamponi”. Un ambulatorio bombardato a Tripoli lunedì scorso. Solo a marzo 27 strutture sanitarie danneggiate in Libia per la vicinanza alla linea degli scontri, mentre la popolazione fa i conti anche con la pandemia e i migranti continuano a rimanere chiusi nei campi di detenzione: “Ci abbiamo lavorato per più di dieci anni, la situazione è tragica. Le due fazioni hanno inasprito i combattimenti, c’è molta pressione su Tripoli, il paese è nel caos” spiega Emanuele Nannini, vicedirettore del Field operations department di Emergency. È possibile contenere il Covid-19 a Tripoli con la guerra civile in corso? Un paese fragile come la Libia si avvicina al baratro. La guerra fa saltare i regolatori sociali e le tutele, tutti i paesi in conflitto hanno fasce di popolazione vulnerabile che non hanno più accesso ai servizi, sia per i rischi legati agli spostamenti durante i combattimenti sia perché le prestazioni cessano. La pandemia, la limitazione della circolazione e l’impossibilità di far arrivare materiali fa sì che i più vulnerabili si trovino esclusi da qualsiasi assistenza. I migranti continuano a partire. La Sanità con la pandemia non regge più. Le notizie che abbiamo dall’Afghanistan, dal Sudan ci dicono che dei sistemi già fragili collassano completamente. Chi può accedere alle strutture a pagamento va avanti, gli altri sono esclusi del tutto dalle cure. In Afghanistan, ad esempio, il 70% della popolazione vive in zone rurali, la gran parte già faceva fatica a curarsi perché doveva fare lunghi viaggi per arrivare a presidi di livello medio. Una volta arrivati era complicato accedervi per i combattimenti, i posti di blocco e le lotte tra fazioni. Con la pandemia molte strutture sono state chiuse oppure sono stati ridotti i servizi e il governo ha messo restrizioni nei movimenti: l’accesso ora è pari a zero. In più molti operatori umanitari sono bloccati e il supporto delle ong sta venendo meno. Quali difficoltà state avendo? I paesi in cui operiamo sono chiusi, non riusciamo a portare dentro né a far uscire i nostri sanitari. Man mano che gli aeroporti chiudevano abbiamo chiesto se volevano tornare, più di cento hanno scelto di rimanere e i nostri ospedali sono rimasti aperti. Prima del lockdown abbiamo potenziato gli approvvigionamenti per affrontare la crisi. Altre ong però non hanno più personale in loco o hanno finito le scorte. La crisi ha fermato i conflitti? In alcune aree è stata decisa una tregua ma in Libia, Afghanistan, Yemen, Iraq non è accaduto. I feriti continuano ad arrivare, il supporto chirurgico ha la priorità perché una pallottola uccide più velocemente del virus. Andiamo avanti a vista, abbiamo fine giugno come tempo massimo per continuare a operare senza nuovi rifornimenti. I campi, in Libia come in Grecia, possono reggere all’impatto del Covid-19? Sono bombe a orologeria. Le condizioni non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche. Campi formali, creati a opera d’arte, forse posso dare qualche garanzia ma negli aggregati informali è impossibile gestire la situazione. Ma tanto il mondo farà fatica a sapere cosa succede lì dentro, posti dove non si fanno tamponi né test: le persone morivano prima, adesso di più senza che l’opinione pubblica si renda conto del danno umano in corso. Cosa insegna la pandemia? Guerre e povertà sono sparite dall’attenzione internazionale. Quando usciremo di nuovo in strada troveremo un mondo che ha lasciato indietro i più deboli. Eppure la lezione è che o stiamo tutti bene o non sta bene nessuno. Il sistema sanitario non deve essere un privilegio per chi se lo può permettere. Consiglio d’Europa, nel continente un milione di detenuti, il 5% sono donne agensir.it, 8 aprile 2020 A fronte di un tasso complessivo di detenzione - numero di detenuti per 100.000 abitanti - rimasto stabile in Europa dal 2018 al 2019, vi sono amministrazioni penitenziarie in cui il tasso di detenzione è aumentato - come in Turchia (+ 13%), Cipro (+ 11%), Danimarca (+ 9%), Bulgaria (+ 8%), Georgia (+ 7%), Scozia (+ 7%), Grecia (+ 6%) e Svezia (+ 6%) -, altre in cui, invece, vi sono state importanti riduzioni dei tassi di detenzione - Armenia (-36%) e Macedonia settentrionale (-29%), Islanda (-14%), Bosnia-Erzegovina (-11%), Romania (-10 %), Repubblica di Moldavia (-8%), Russia (-8%), Azerbaigian (-7%), Norvegia (-7%), Lettonia (-6%) ed Estonia (-5%). Sono alcuni dei dati contenuti nelle “statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa” (Space I), pubblicate oggi e che nelle loro 130 pagine offrono un quadro molto dettagliato della situazione nelle carceri della quasi totalità delle amministrazioni carcerarie in Europa. L’età media dei detenuti è di 35 anni. Circa il 15% dei detenuti ha 50 o più anni (in Italia la percentuale è del 25% e il 3,7% ha oltre 65 anni). Le donne rappresentano il 5% della popolazione carceraria totale; gli stranieri nelle carceri sono in media il 14%. La durata media della reclusione in Europa è scesa da 8,2 mesi nel 2017 a 7,7 mesi nel 2018 (-5,4%). Le pene più lunghe vengono comminate in Azerbaigian (37 mesi), Portogallo (32), Repubblica di Moldavia (26), Repubblica Ceca (24), Romania (23), Spagna (21), Estonia (16) e Italia (15). Crescono le detenzioni per reati connessi alla droga (+5,3%), con il 18% dei detenuti in carcere per questo tipo di reati (dato che in Italia raggiunge il 32%). Diminuisce, a livello di media europea, la percentuale di detenuti che scontano pene detentive per furto (-17,6%), mentre crescono i detenuti condannati per reati sessuali (stupro 4,8% e altri reati sessuali 4,8%). Quanto al rapporto tra detenuti e personale di custodia è pari a 2,6 detenuti per agente, mentre il costo della detenzione è stato di 26 miliardi di euro nelle 43 amministrazioni carcerarie che hanno fornito questi dati. Maghreb. 15 mila detenuti rilasciati per l’emergenza coronavirus agenzianova.com, 8 aprile 2020 Circa 15 mila detenuti sono stati liberati in Nord Africa per l’emergenza coronavirus, facendo emergere un aspetto spesso trascurato della pandemia: i rischi legati alla sicurezza e alla criminalità. Le autorità di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia hanno disposto il rilascio di migliaia di detenuti dalle sovraffollate carceri dei rispettivi Paesi per evitare la diffusione dell’epidemia di Covid-19. Si tratta per lo più di criminali condannati per reati minori o che avevano già scontato gran parte della pena. In alcuni paesi disastrati come la Libia, dove da oltre un anno persiste uno stato di guerra civile, esiste tuttavia il rischio che gli ex detenuti non solo tornino a delinquere, non trovando alcuno sbocco lavorativo, ma finiscano per essere reclutate dalle parti attive nel conflitto armato. Non solo: le conseguenze economiche della grave congiuntura economica che abbiamo di fronte - una crisi probabilmente peggiore di quella del 2008/2009 - potrebbero spingere gli ex detenuti a tentare la traversata verso l’Europa, andando ad alimentare quei flussi migratori illegali che invece si erano recentemente affievoliti. L’unica eccezione nella regione è l’Egitto. Nonostante le richieste di organizzazioni non governative internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, il presidente-generale Abdel Fatah al Sisi ha deciso per il momento di non estendere alcuna grazie né di autorizzare amnistie. In Marocco, al contrario, il sovrano in persona, Mohammed VI, ha concesso lo scorso 6 aprile la grazia reale a favore di 5.654 detenuti. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa ufficiale marocchina “Map”, il monarca ha ordinato di adottare tutte le misure necessarie per rafforzare la protezione dei detenuti negli istituti penitenziari, in particolare contro la diffusione dell’epidemia del coronavirus, secondo quanto ha annunciato il ministero della Giustizia. “Nel contesto della costante attenzione prestata dal re ai detenuti negli istituti penitenziari e di riabilitazione, è stata concessa la grazia reale a beneficio di 5.654 detenuti”, ha sottolineato il ministero. I detenuti che hanno ricevuto la grazia reale sono stati selezionati sulla base di criteri “strettamente oggettivi”, che tengono conto della loro età, del loro stato di salute e della durata della loro detenzione, nonché della buona condotta durante la loro detenzione, afferma la stessa fonte. Sul versante delle migrazioni illegali va segnalato che nella giornata di ieri, 6 aprile, ben 53 persone sono riuscite ad attraversare illegalmente il confine tra il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla. Una guardia civile è stata ferita in modo lieve durante lo sconfinamento di massa avvenuto intorno alle 5 del mattino. I migranti potrebbero aver approfittato del fatto che la Spagna sta mobilitando la maggior delle sue forze nella lotta contro la pandemia legata al nuovo coronavirus che ha causato oltre 14 mila vittime in tutto il paese. La città autonoma di Melilla e l’enclave spagnola di Ceuta rappresentano le uniche frontiere terrestri tra Africa ed Europa. Centinaia di persone cercano di accedervi ogni anno sfidando le alte recinzioni e le forze di sicurezza spagnole. Gli arrivi, tuttavia, sono in calo rispetto allo scorso anno: 1.140 migranti sono arrivati illegalmente a Ceuta e Melilla via terra tra l’inizio di gennaio e la fine di marzo, quasi il 16 per cento in meno rispetto al primo trimestre del 2019 (1.354), secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno spagnolo. Sei imbarcazioni cariche di migranti sono riuscite da approdare nelle due enclave spagnole, contro le 17 nello stesso periodo dell’anno scorso. Nella vicina Algeria, il presidente Abdelmadjid Tebboune - eletto lo scorso dicembre con un tasso di astensionismo da record - ha decretato il rilascio di 5.037 detenuti, sempre come parte delle misure contro la diffusione del coronavirus. Si tratta di persone condannate a non più di 12 mesi oppure a cui erano rimasti da scontare 18 mesi di carcere. Il capo dello Stato ha disposto anche una riduzione parziale della pena per i detenuti che si sono macchiato di reati non gravi e la cui età è pari o superiore a 60 anni. Va detto, tuttavia, che la giustizia algerina non sembra essere stata particolarmente intaccata dall’emergenza Covid-19. Anzi, per certi versi sembra che i giudici e i magistrati del paese nordafricano lavori meglio senza la pressione delle proteste di piazza del movimento Hirak, che ha deciso di sospendere temporaneamente le manifestazioni in strada. La polizia algerina sembra sempre essere particolarmente attiva in questo periodo emergenziale nell’arresto di giornalisti e dissidenti, in particolare quelli che mettono in dubbio le cifre sui contagi e i decessi per coronavirus diffusi dalle autorità. In Tunisia, il paese culla della primavera araba, il presidente Kais Saied eletto lo scorso autunno ha disposto ben due grazie: una in occasione della festa nazionale dell’indipendenza del 20 marzo, liberando 1.856 detenuti; l’altra invece il 31 marzo scorso, garantendo la libertà ad altri 1.420 detenuti. Nel paese è in vigore un “lockdown” totale, con tanto di coprifuoco notturno. Le misure di contenimento del coronavirus resteranno in vigore almeno fino a metà a aprile, ma potrebbero essere ulteriormente prolungate con gravi danni alla precaria economia della nazione araba più vicina alle coste dell’Italia. Vale la pena ricordare che la Tunisia è prima nazione di provenienza dei migranti illegali sbarcati in Italia nel 2019 (almeno 2.654 secondo i dati forniti dal Viminale). Fra Italia e Tunisia è in vigore un accordo bilaterale che prevede il rimpatrio di 80 persone con due voli charter due volte a settimana. È intenzione della autorità italiane aumentare il ritmo del rimpatrio dei tunisini irregolari, ma l’orientamento del nuovo governo tunisino guidato dall’ex manager di Total Elyes Fakhfakh non sembra essere favorevole. A destare maggiore preoccupazione, tuttavia, è senza dubbio la situazione in Libia. La combinazione di guerra, terrorismo, criminalità, traffico di esseri umani e coronavirus rischia di innescare una bomba a orologeria per l’intera regione. Il paese, nonostante le autonomie di cui godono le “città-Stato” come Misurata e Zintan e le tribù del sud come i Tebu, resta diviso in due amministrazioni: una con sede a Tripoli riconosciuta dalla Comunità internazionale e che governo sulla maggior parte della popolazione; l’altra di base a Bengasi che controlla di fatto quasi tutto il territorio nazionale. La procura della Libia occidentale ha recentemente ordinato il rilascio di 466 detenuti dalle carceri di Tripoli come parte delle misure precauzionali contro l’epidemia di coronavirus. I detenuti rilasciati includevano persone sotto interrogatorio, quelle ammissibili alla libertà condizionale e quelle incluse negli ordini di rilascio precedenti. Si tratta di cittadini “arabi e stranieri”, si legge in una nota diffusa su Facebook dal ministro della Giustizia del Governo di accordo nazionale (Gna). “Il rilascio arriva su raccomandazione del Consiglio supremo della magistratura al fine di ridurre il numero di prigionieri per evitare assembramenti”, ha aggiunto il dicastero. Si tratta di un primo passo di una serie di misure volte a ridurre il sovraffollamento delle carceri libiche. Secondo il sito web informativo “Libya Observer”, considerato vicino al governo tripolino, è in programma anche un’amnistia per chi ha già scontato metà della pena in carcere, per gli anziani e per le persone affette da problemi di salute. Da parte loro, le autorità giudiziarie e di sicurezza della Libia orientale potrebbero rilasciare fra pochi giorni centinaia di detenuti come misura per prevenire la diffusione del coronavirus nelle carceri. Il portavoce della polizia del governo della Cirenaica (non riconosciuto dalla Comunità internazionale), tenente Asadiq Al Zawi, ha dichiarato che a breve potrebbe essere disposta un’amnistia generale che interesserà i detenuti giudicati colpevoli di reati non gravi, che hanno già scontato metà della pena, che sono ritenuti “non pericolosi” per la società o che sono stati condannati a meno di cinque anni di carcere. “Il ministero della Giustizia ha preparato degli elenchi dei nomi di coloro che soddisfano queste condizioni. La lista è stata inviata al Consiglio giudiziario supremo”, ha detto il portavoce in una dichiarazione al quotidiano panarabo edito a Londra di proprietà saudita “Asharq al Awsat”. “Ci aspettiamo la risposta del Consiglio entro pochi giorni, e di conseguenza, come organo esecutivo che sovrintende alle prigioni, libereremo diversi prigionieri”, ha aggiunto al Zawi. Le autorità di Bengasi, il capoluogo della Cirenaica e roccaforte del generale Khalifa Haftar, hanno già rilasciato 160 persone arrestate e indagate per piccoli reati. L’amnistia generale, ha specificato il portavoce della polizia dell’est della Libia, non sarà concessa agli arrestati per crimini come omicidio, terrorismo e spaccio di droga. Il Governo di accordo nazionale della Libia, come detto, ha rilasciato circa 500 prigionieri nell’ambito del suo piano d’azione per combattere il nuovo coronavirus. Secondo Al Zawi, tuttavia, la maggior parte di coloro che sono stati liberati dalle autorità di Tripoli sono coinvolti “in crimini atroci”, aggiungendo che qualche ex detenuto ha già lasciato la capitale. Non solo: il portavoce della Libia orientale ha accusato il Gna di aver schierato diversi detenuti al fronte nelle battaglie contro l’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar. Canada. Oltre 1.900 detenuti dell’Ontario rilasciati per ridurre l’infezione Covid-19 24it.news, 8 aprile 2020 L’Ontario ha rilasciato oltre 1.900 detenuti dalle sue prigioni nel tentativo di rallentare la diffusione di Covid-19. Lunedì Lee Chapelle, presidente della Canadian Prison Consulting, è apparso su Kitchener Today con Brian Bourke. Spiegò che le prigioni erano un terreno fertile ideale per il virus, paragonandolo a una nave da crociera stazionaria; uno spazio ristretto pieno di persone vicine l’una all’altra. Secondo Chapelle, le carceri provinciali dell’Ontario detengono giornalmente dalle 8.000 alle 9.000 detenute e quelle che vengono rilasciate sono a basso rischio: non violente, intermittenti o in procinto di finire la loro pena. Si chiede perché non ci siano ulteriori misure da esercitare nelle carceri, come richiedere agli agenti di correzione di portare con sé dispositivi di protezione individuale (Dpi). “Posso dire che il sindacato e gli agenti correttivi lo vogliono. A loro viene detto di non indossarlo, a meno che non stiano facendo una nuova ammissione che ha risposto sì ad alcune delle domande di screening”. Presume che potrebbe avere a che fare con l’incombente carenza di Dpi in tutto il paese, ma ritiene che le guardie non avrebbero bisogno di molto rispetto agli operatori sanitari di prima linea. Chapelle teme che i detenuti rilasciati non siano adeguatamente attrezzati per reintegrarsi nella società. Ha detto che molte delle persone con cui lavora hanno imparato le lezioni quando vengono condannate, ma richiedono un adeguato sostegno da parte della comunità, specialmente durante la pandemia. Libia. Haftar bombarda l’ospedale di Tripoli che cura dal Covid-19 di Roberto Prinzi Il Manifesto, 8 aprile 2020 Pazienti trasferiti, la guerra non si ferma nemmeno di fronte all’epidemia. Allarme per i 700mila migranti nel paese nordafricano. La pioggia di missili che da giorni l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, rovescia su Tripoli non ha risparmiato lunedì nemmeno l’ospedale al-Khadra nell’area di Bab-Hadba della capitale. L’attacco, raccontano i media libici, ha provocato molta paura tra il personale sanitario e i pazienti, la rottura del generatore elettrico della struttura e il ferimento di un lavoratore straniero. Salvi i pazienti che sono stati trasferiti in altre strutture della capitale. È un copione che si ripete uguale da un anno, da quando è Haftar ha lanciato l’offensiva contro i “terroristi” che sostengono il governo di Tripoli. Una guerra brutale che l’Onu ha riassunto qualche giorno fa in numeri: 356 morti e 329 feriti civili; 159mila sfollati nell’area di Tripoli; 893mila persone che necessitano di assistenza umanitaria. C’è stato però qualcosa di ancora più odioso nell’attacco di lunedì: al-Khadra è una delle poche strutture in cui possono essere ricoverati i malati da Covid-19. In Libia, il Governo di accordo nazionale (Gna) e Haftar continuano a scherzare con il fuoco: la tregua umanitaria del 20 marzo per fronteggiare l’epidemia non ha mai avuto inizio e non basta proclamare restrizioni e coprifuoco se non tacciono le armi. Gli effetti per ora contenuti del virus - ufficialmente 19 casi e una vittima - potrebbero essere devastanti: il paese non dispone di centri diagnostici adeguati, strutture sanitarie di livello internazionale e fondi necessari contro il coronavirus. L’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim) sabato ha lanciato l’allarme soprattutto per i 700mila rifugiati e migranti per cui il Covid potrebbe rappresentare “una vera catastrofe”. “Le condizioni dei migranti sono tragiche. Centinaia di migliaia di persone sono chiuse in hangar affollati con nessun accesso ad adeguate strutture sanitarie. Molti sono detenuti da mesi o perfino anni”, ha denunciato la ricercatrice dell’Oim Amira Rajab el-Hemali. Secondo l’Onu sono 1.500 i migranti rinchiusi in 11 centri “ufficiali” di detenzione. Altre “migliaia” invece lo sono in “prigioni private” gestite da trafficanti dove abusi e stupri sono prassi diffuse. Una barbarie che ha gravi ripercussioni psicologiche, spesso trascurate non essendo quantificabili in numeri. “Queste situazioni sono connotate da un carico traumatico la cui violenza e brutalità su un piano reale ed effettivo è innegabile. Nelle loro testimonianze Libia è sfruttamento, tortura, violenza sessuale, isolamento e questi vissuti ritornano sotto forma di reminiscenze, incubi, somatizzazioni e sintomi depressivi: “Ptsd (disturbi da stress post-traumatico)”, ci spiega Francesca Glovi, esperta in clinica transculturale. L’arrivo del Covid peggiora un quadro già drammatico. “La criticità della situazione attuale - dice Glovi - incide in maniera ancora più forte sul loro benessere psicofisico: isolamento e precarietà sono amplificati dall’impossibilità di ricevere assistenza, seppur minima, formale o informale”. In queste condizioni scappare dalla Libia-prigione diventa sempre di più una necessità. Ma attraversare il Mediterraneo è impresa più rischiosa ora che le attività delle ong sono state sospese causa pandemia. Lo sanno bene 80 migranti che, denuncia la ong AlarmPhone, sono bloccati da due giorni su una barca senza benzina nei pressi di Malta. Alla deriva come la Fortezza Europa. Bahrein. L’appello per la scarcerazione degli attivisti e dei dissidenti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 aprile 2020 Amnesty International e altre 19 organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto alle autorità del Bahrein di rilasciare tutti gli attivisti pacifici, i leader dell’opposizione, gli avvocati per i diritti umani e i giornalisti tuttora in prigione. Il Bahrein è stato tra i primi stati al mondo a prendere misure per ridurre la popolazione carceraria, a fronte del rischio di diffusione della pandemia da Covid-19. Il 17 marzo è stato annunciato il rilascio di 1486 prigionieri: 901 hanno ottenuto la grazia per motivi umanitari, per gli altri 585 sono state disposte misure alternative al carcere. Ma, seguendo un paradosso purtroppo comune a provvedimenti del genere, chi non avrebbe mai dovuto varcare la soglia di una prigione non ne sta uscendo. Tra coloro dei quali ci siamo più spesso occupati in questo blog, Abdulhadi al-Khawaja e Nabil Rajab. Alcuni dei prigionieri esclusi dal provvedimento sono tra l’altro anziani, dunque potenzialmente più a rischio di contagio. In passato Amnesty International, Human Rights Watch e le Nazioni Unite avevano espresso preoccupazione per l’assenza di cure mediche nelle prigioni del Bahrein. Le organizzazioni firmatarie dell’appello sono Americans for Democracy and Human Rights in Bahrain, Amnesty International, Bahrain Institute for Rights and Democracy, European Centre for Democracy and Human Rights, Global Legal Action Network, Gulf Centre for Human Rights, International Service For Human Rights Human Rights First e Human Rights Watch.