Il Consiglio d’Europa sui detenuti: “Urgente proteggere i loro diritti durante la pandemia” di Liana Milella La Repubblica, 7 aprile 2020 La commissaria per i diritti umani Dunja Mijatovic scrive che “diminuire il numero dei detenuti in questo momento è fondamentale per garantire un aumento della sicurezza sanitaria”. “Salvaguardare la salute e i diritti dei detenuti durante la pandemia da Covid-19”. Anche il Consiglio d’Europa, con la commissaria per i diritti umani Dunja Mijatovic, con una decisione appena diffusa, si muove sulle carceri. Considera i detenuti “persone vulnerabili” e ad alto rischio proprio per le condizioni di vita all’interno delle prigioni, dove le raccomandazioni sullo spazio e la distanza tra una persona e l’altra, e soprattutto quelle riguardanti l’igiene, non possono essere rispettate, “esponendo così gli stessi prigionieri a maggiori rischi”. Senza considerare le gravi malattie già esistenti. Tutto questo, come è scritto nella nota della commissione, espone i carcerati, e finora ha portato a casi di rivolta negli Stati della Ue. Di conseguenza molti stati hanno già cominciato a liberare alcune categorie di detenuti, ricorrendo a varie forme, incluse le amnistie. Nonché la sospensione delle carcerazioni e quindi l’esecuzione delle sentenze. È urgente, scrive la commissaria, che queste politiche proseguano. Particolare attenzione va posta ai detenuti anziani e a quelli che si trovano in cattive condizioni di salute. E ovviamente anche a quelli che hanno commesso reati non gravi. “Diminuire il numero dei detenuti in questo momento è fondamentale per garantire un aumento della sicurezza sanitaria” scrive ancora la commissione Operaz i diritti umani. E naturalmente anche per rendere meno onerosa l’attività di chi lavora in carcere. La nota sottolinea inoltre che a chi esce va garantita non soltanto un’abitazione, ma anche le necessarie cure sanitarie. “Naturalmente” dovrebbero essere rilasciati tutti coloro, come i giornalisti o gli attivisti politici, che sono detenuti in aperta violazione dei diritti umani. Altrettanto devono essere garantiti tutti i diritti di coloro che restano comunque in carcere, ad esempio le donne incinte o i bambini. Le restrizioni non devono avere carattere discriminatorio, ma devono essere proporzionate, limitate nel tempo e trasparenti. La nota considera “necessarie” in questo momento le restrizioni già in corso per i contatti con i familiari, ma specifica che esse devono essere imperativamente mitigate da misure alternative, come la possibilità di accedere con più frequenza alle conversazioni via telefono e alle video comunicazioni. E i detenuti devono comunque continuare ad avere accesso all’informazione, all’assistenza legale, mentre chi dirige le carceri deve garantire che i detenuti non debbano essere esposti a ulteriori rischi. In conclusione la commissaria Mijatovic afferma che durante il periodo della pandemia gli Stati devono urgentemente adottare misure per garantire i diritti umani anche chi resta in carcere e con gli investimenti necessari. Un monito che sembra cadere proprio nel momento giusto visto che il Senato si appresta a discutere e approvare gli emendamenti al decreto del Guardasigilli Alfonso Bonafede che riguarda la condizione dei detenuti. Coronavirus. In un mese 4mila detenuti in meno, contagiati 37 carcerati e 158 agenti Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020 I dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria: il 29 febbraio i detenuti erano 61.230, il 6 aprile sono 57.137. Tra i motivi delle scarcerazioni le norme del dl Cura Italia, le liberazioni per motivi sanitari e il maggior ricorso a permessi per detenuti in semilibertà. E poi l’improvvisa diminuzione dei reati che ha causato la conseguente riduzione degli arresti in flagranza. Sono più di quattromila i detenuti che sono usciti dalle carceri italiane dall’inizio dell’emergenza coronavirus. Lo riferisce il Dipartimento amministrazione penitenziaria, sottolineando che il 29 febbraio i detenuti erano 61.230. Risalgono a quei giorni le prime indicazioni inviate dal Dap agli istituti per la prevenzione del contagio. Il 6 aprile nelle carceri ci sono 57.137 persone: cioè 4.093 in meno in circa un mese. Diversi i motivi, in base all’analisi del Dap, che hanno inciso, in misura differente, sul calo di presenze: un ruolo importante è rappresentato dalla concessione degli arresti domiciliari, prevista all’applicazione delle misure del decreto Cura Italia. Alcuni detenuti sono stati rilasciati anche per motivi sanitari dovuti al contagio da coronavirus o a situazioni di incompatibilità con lo stato di salute del detenuto. Sempre per evitare il contagio si è poi ricorso più spesso a permessi concessi a detenuti in semilibertà, che possono evitare il rientro serale in istituto. Il Dap segnala infine l’improvvisa diminuzione dei reati che ha causato la conseguente riduzione degli arresti in flagranza. E dunque meno affollamento nei penitenziari. Il comunicato del Dap, scatena la reazione dei penalisti. L’unione delle Camere penali stigmatizza il tenore della nota, perché - a dire dei legali - sembra accreditare al Cura Italia il merito delle scarcerazioni. “Il Ministero sa perfettamente che le cose non stanno così. Al contrario, questo risultato, peraltro ancora largamente insufficiente, lo si è ottenuto nonostante il decreto Cura Italia, grazie al grande impegno ed al senso di responsabilità di molti Tribunali di Sorveglianza e degli avvocati impegnati nella tutela del diritto alla salute dei propri assistiti, ricorrendo agli strumenti normativi già esistenti che il Governo ha addirittura peggiorato con la imposizione dei famosi braccialetti. Ci smentisca il Ministero - è l’invito dei penalisti - comunicando alla pubblica opinione quanti sono i detenuti scarcerati ad oggi ex art. 123 del decreto. Non giochiamo con i numeri - concludono - altrimenti dovremo prendere atto ancora una volta che la situazione è grave ma non è seria”. Sul fronte dei contagi, 37 sono i detenuti che risultano al momento positivi. Nove di questi sono ricoverati in ospedale mentre sono 8 quelli già guariti. Tra i 38mila agenti di polizia penitenziaria sono 158 invece i soggetti positivi al tampone. Sedici sono ricoverati e dispensati dal servizio. Cinque invece i contagiati fra il personale dell’Amministrazione Penitenziaria appartenenti al comparto funzioni centrali. Fino a oggi tra le oltre 15mila vittime si conta un detenuto, deceduto a Bologna nei giorni scorsi. All’inizio dell’emergenza, diversi penitenziari italiani avevano fatto registrare violenti ribellioni. Tra il 7 e il 9 marzo, mentre l’epidemia cominciava a diffondersi nel Paese, 22 penitenziari italiani sono esplosi in violenti ribellioni. Ingenti i danni causati alle strutture, con il governo che ha stanziato 20 milioni di euro solo per i primi lavori di recupero. Ancora più alto il prezzo umano: decine i feriti, anche tra gli agenti della polizia penitenziaria, dodici i detenuti morti, secondo le autorità tutti di overdose, dopo aver ingerito quantità esagerate di farmaci e metadone rubate nelle farmacie carcerarie. Il casus belli che avrebbe scatenato l’ira dei carcerati era lo stop ai colloqui con i familiari. Gli inquirenti, però, indagano su una possibile regia occulta della criminalità organizzata. Carcere: la più grande violazione dei diritti inviolabili di Alberto Marchesi* Il Dubbio, 7 aprile 2020 L’attuale allarme sanitario richiede l’adozione di interventi normativi ben più incisivi e coraggiosi, che portino a una significativa riduzione delle presenze carcerarie. Mentre l’attenzione del nostro Paese è tutta rivolta alla drammatica situazione di molte Regioni di Italia, ed alla preoccupata analisi degli scenari politico-economici che ne deriveranno, si sta accendendo una piccola luce sulla situazione di totale abbandono in cui versa il sistema penitenziario italiano, purtroppo ancora insufficiente ad alimentare i riflettori della cronaca. La cosa non sorprende perché le carceri e, in senso più ampio, le condizioni di marginalità non possono fare notizia in quanto non hanno né le stimmate né le caratteristiche per interessare più di tanto l’opinione pubblica, che non ama soffermarsi più di tanto su un mondo che deve rimanere lontano ed invisibile in quanto relegato, per definizione, agli estremi confini della struttura sociale. Del resto la degradata situazione in cui versano gli Istituti di pena, da qualunque angolo visuale si analizzi, ha assunto un ruolo sistemico connotato da un’assoluta normalità, condizione questa purtroppo accettata dalla generalità, tant’è che la componente afflittiva della pena ha ormai riempito ogni spazio, azzerando quasi completamente la speranza di recuperare un senso di legalità nell’esecuzione della stessa. Un mondo sospeso tra giustizia e ingiustizia, nel quale si sta consumando la più eclatante violazione dei diritti inviolabili della persona che sia mai avvenuta nella storia della nostra Repubblica. Il quadro di emergenza carceraria, del resto, è venuto ad esistenza in epoca di gran lunga anteriore all’allarme sanitario dei giorni nostri, basti pensare che la sentenza “Torreggiani”, con la quale la Cedu ha condannato l’Italia per le condizioni detentive inumane e degradanti, risale ormai al gennaio 2013, sebbene faccia riferimento a fatti avvenuti molti anni prima. Il salto all’indietro nel tempo ci porterebbe ad epoche ancor più lontane per cui oggi sentiamo dire, da autorevoli voci di soggetti istituzionali, che negli Istituti di pena non c’è oggi alcun motivo di preoccupazione e che i problemi connessi al rischio di contagio da Covid19, semmai, sono altri. Non occorre una particolare sensibilità per comprendere il significato affatto recondito di questa affermazione, che appare animata dal cinico scopo di conservare, anche per il futuro, un assetto carcerario che, pur connotato da situazioni di palese illegalità che il virus ha portato inaspettatamente alla ribalta, si considera strumento necessario ed indispensabile ad assicurare la salvaguardia di superiori interessi di politica criminale. Durante tutti questi anni ben poco è stato fatto per rendere conforme l’esecuzione della pena detentiva ai più elementari canoni di legalità, dignità e rispetto della persona, mentre le attività culturali, di assistenza e di sostegno anche economico all’interno delle carceri continuano ad essere per lo più affidate al contributo delle Associazioni di volontariato, in assenza del quale la vita di troppe persone sarebbe regolata solo dal lento ed inutile incedere del tempo. La privazione della libertà personale trova la sua giustificazione nella potestà punitiva dello Stato la quale, una volta esercitata, non rende accettabile anche il successivo disinteresse per la salvaguardia di tutti gli altri diritti fondamentali della persona, tra i quali spicca oggi quello alla tutela della salute e dell’integrità fisica. Negli ultimi tempi si è invece intrapresa, a livello normativo, la strada senza ritorno del progressivo e inesorabile inasprimento delle risposte punitive, in ragione al sempre più ampio aumento dell’entità delle pene detentive in rapporto a sempre più numerose fattispecie di reato, con ampio ricorso ai meccanismi di ostatività alla concessione dei benefici penitenziari, senza che ci sia stato un minimo contenimento in termini di maggiore vivibilità degli ambienti carcerari, che sono in condizioni di vivibilità a dir poco disastrose. Più carcere per tutti, insomma, per un periodo sempre più lungo e in condizioni sempre meno dignitose, mentre le poche voci di critica a questa ormai irreversibile tendenza sono state sepolte dal rumoroso applauso agli attori del rigore che assumono di ispirarsi, capovolgendolo, a un immaginifico senso di legalità. L’aspetto esclusivamente punitivo che connota l’attuale sistema sanzionatorio ha in sostanza schiacciato, sotto il suo peso, la finalità rieducativa della pena, in assenza della benché minima volontà politica finalizzata, quantomeno, a rendere le carceri adeguate a sostenere il maggior impatto numerico, con una detenzione che è diventata per ciò stesso ciecamente feroce e, per tale ragione, completamente sottratta alla propria funzione. Oggi, complice la drammatica situazione che stiamo vivendo, la coperta si fa sempre più corta perché proteggere la popolazione penitenziaria e gli operatori di Polizia significa salvaguardare anche le persone che si trovano all’esterno e, più in generale, tutelare i valori primari sui quali si fonda il patto sociale tra lo Stato e la generalità dei cittadini. Nello specifico, gli addetti ai lavori sanno benissimo che nelle carceri non è possibile pretendere il rispetto delle norme di distanziamento sociale né l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, tantomeno assicurare il rispetto delle minime condizioni igieniche raccomandate dalle Autorità sanitarie interne ed internazionali, maggiormente cogenti in presenza di un’alta percentuale di anziani o affetti da gravi patologie. Questa cruda realtà non sembra però turbare il sonno di chi si trova, a livello istituzionale o amministrativo, nella poco invidiabile posizione di garanzia connessa alla Pubblica funzione esercitata, specie in presenza di un pericolo di diffusione epidemiologica la cui concretizzazione appare, oggi, altamente prevedibile e dunque non fronteggiabile con una colposa inerzia. Il problema esiste insomma, tant’è che i più autorevoli sostenitori della linea dell’intransigenza si sono affrettati ad attribuire la responsabilità delle rivolte carcerarie dei giorni scorsi, più che alla paura e al generale senso di abbandono, a un’improbabile regia della criminalità organizzata, cercando in questo modo di dare fattezze e sembianze umane a un nemico che, in realtà, è del tutto invisibile e non sembra trovare ostacoli. Essi oggi invocano in loro favore, semmai, un ampliamento di quello “scudo penale” che si pensa di introdurre a protezione giustificativa dell’operato dei sanitari che, loro malgrado, si sono trovati nella necessità di dover intervenire in condizioni estreme ed eccezionali, situazione questa non ricorrente nella ben diversa posizione di chi, per ruolo o funzione, ha precisi obblighi di intervento che per qualsiasi ragione ha ritenuto di non dover attivare. A fronte della capricciosa debolezza dell’argomentazione il governo, non potendo ignorare la questione, si è limitato a offrire una risposta timida e assolutamente inadeguata, quale emerge dall’analisi dei recentissimi provvedimenti adottati, quasi in sordina, con il D.L. n. 18/20. Si è trattato di un intervento tardivo e preso controvoglia dal Legislatore dell’emergenza tant’è che le norme in questione, nascoste nella parte finale del testo di Legge e distanziate di ben 40 articoli da quelle dettate in tema di Giustizia, non hanno ricevuto alcuna pubblica diffusione da parte del governo e, di conseguenza, degli stessi media, quasi che la loro illustrazione alla cittadinanza portasse a una sconfessione delle fiere promesse di rigore e repressione delle devianze, atteggiamento questo irrinunciabile soprattutto se letto in termini di consolidamento del consenso elettorale. Non è un caso che le misure straordinarie di sfollamento siano indirizzate a pochissime persone, attraverso una procedura lenta e complicata dal riferimento alla necessità del c.d. “braccialetto elettronico”, da molto tempo non immediatamente disponibile neppure nei casi ordinari. L’urgenza della situazione richiede invece l’adozione di interventi normativi ben più incisivi e coraggiosi, che portino rapidamente e senza esitazione a una significativa riduzione delle presenze carcerarie, attraverso l’ampliamento delle misure alternative e riducendo ai minimi termini il flusso di ingresso, prima che sia troppo tardi. In questi giorni, a fronte delle sollecitazioni provenienti dai Garanti territoriali, dal Csm, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dal Cnf, dalle Camere Penali e persino del Santo Padre, interventi questi certamente non orchestrati da oscuri suggeritori, sembra che la posizione di chiusura e rigidità sia destinata ad affievolirsi, anche se vi è il timore che prenda il sopravvento un poco convinto senso di umanità, destinato quindi a operare per il tempo strettamente necessario al superamento dell’epidemia in corso, passata la quale tutto tornerà come prima. Con molta probabilità però la gravissima situazione attuale, una volta superata, lascerà in eredità una drammatica crisi economica e occupazionale, tale da aumentare la forbice delle ingiustizie e delle disuguaglianze sociali. Il che non lascia presagire nulla di buono per la realtà penitenziaria da tempo caratterizzata da diffusi fenomeni di marginalità e povertà che, in un futuro molto prossimo, saremo purtroppo chiamati a fronteggiare anche all’esterno degli istituti di pena. Solo allora, forse, arriverà il momento di pensare a un nuovo assetto sociale, basato anche su una più moderna concezione della pena detentiva, oggi drammaticamente ancorata ad una visione di tipo medievale, esageratamente afflittiva e laconicamente giustificata da superiori esigenze di contrasto dei fenomeni criminali i quali, però, non sono sempre rinvenibili in tutto il complesso di reati, dolosi o colposi che siano, che costituiscono il presupposto della detenzione carceraria. I motivi a delinquere, assai diversi da persona a persona, nella maggioranza dei casi trovano la loro origine in situazioni criminogene anziché spiccatamente criminali, tra le quali spicca il disagio sociale, la povertà o la tossicodipendenza, profili questi che si rinvengono, non a caso, nella storia personale di tutti i 12 detenuti che hanno perso la vita durante la clamorosa protesta nelle carceri avvenuta pochi giorni orsono. Situazioni individuali certamente diverse da caso a caso ma che si sono unificate, in forza della “vis attractiva” determinata dall’epilogo del rispettivo percorso giudiziario, nella medesima ed unica sanzione afflittiva rappresentata dalla privazione della libertà, che colpisce con la sua inesorabile scure tutti i destinatari negli stessi termini e senza distinzione alcuna, meglio se in modo esemplare. Forse è davvero giunto il momento di un cambio di passo all’interno del nostro Paese, che potrà avvenire solo laddove la persona umana, intesa come punto di riferimento di diritti e correlativi doveri, sia riportata al centro del dibattito e vengano definitivamente abbandonati gli ostacoli, pregiudizialmente dogmatici, che impediscono ogni serio tentativo di inquadramento di ogni materia e, a maggior ragione, di quella che qui interessa. Tutti i giuristi hanno a cuore il principio sacrosanto del giusto processo, universalmente riconosciuto come imprescindibile patrimonio di un moderno stato democratico: accanto ad esso deve però trovare definitiva affermazione anche il concetto di giusta detenzione il quale, pur appartenendo sin dall’origine ai valori fondanti espressi dalla nostra Costituzione, oggi merita davvero di essere finalmente attuato, senza incertezze o esitazioni. *Avvocato Garante per i detenuti di Pisa, Membro della Commissione Carceri del Cnf Ministro Bonafede ci metta un tampone, i detenuti valgono quanto noi di Davide Faraone Il Riformista, 7 aprile 2020 Se c’è il paziente zero del coronavirus, se c’è la vittima zero del “Covid trattino 19” è composta da tre parole, la barzelletta raccontata nei talk, con tanto di claque, da lei, ministro Alfonso Bonafede, quella che uno-vale-uno. Perché ci saremmo aspettati, ma si sa, le aspettative vengono spesso tradite, che quelle tre parole sarebbero state l’emblema, la coccarda sul petto del suo impegno sulla giustizia e in particolare sulle carceri. E invece no. Perché nel tragitto che va dalla casa di Mazara del Vallo dov’è cresciuto, al palazzone di via Arenula dov’è stato spedito a fare il ministro della giustizia, nonostante i chilometri di distanza, lei è riuscito in un capolavoro degno della fisica. Comprimere l’universo piatto grillino cambiando idea alla velocità della luce, che neanche Einstein avrebbe trovato l’equazione giusta per questa curvatura repentina della ragione. Spazio e tempo all’improvviso si sono deformati e uno-vale-uno è stato risucchiato in un buco nero dove tutto è nulla. E a circa 300 mila chilometri al secondo, dell’uno-vale-uno non c’è più traccia. Un buco nero è. Perché, caro ministro della giustizia, se fosse ancora in vita la vostra teoria, le chiedo, da uno che di tanto in tanto si nutre di dubbi epistemici e non epidemici e che si lascia contagiare dalla curiosità, che è cura dal Covid e cura del sapere: chi sta dietro le sbarre ha lo stesso diritto alla salute di chi vive fuori? Per uno stato civile e democratico, si. Per questo, caro ministro, la invito a rispondere a una domanda banale. Lo deve fare con un sì o con uno, senza tentennamenti. E la domanda è questa: una persona che è in galera vale più o meno di una persona che sta fuori? La differenza fra una persona perbene ed un criminale sta nel valore che la persona perbene dà alla vita umana, anche a quella di un criminale. Signor ministro, deve rispondere come si fa con l’esito dei tamponi, positivo o negativo. Perché di tamponi qui si parla, di una storia di tamponi. Da Mazara del Vallo a Roma, caro ministro Bonafede, lei ha fatto strada. Però se gira lo sguardo all’indietro si accorge che a qualche chilometro da dove è nato c’è una figlia che chiede una cosa semplice: che suo padre venga trattato come qualsiasi altro padre. Uno-vale-uno, ricorda? Lei si chiama Monica ed è la figlia di Paolo Ruggirello, ex deputato regionale in Sicilia, 54 anni tra qualche giorno, arrestato un anno fa con l’accusa di associazione mafiosa, rinviato a giudizio e rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad aspettare un processo che, fissato per dopodomani, chissà quando si celebrerà. Il 26 marzo Monica parla con il padre e scopre che ha la febbre alta e una brutta tosse. Lo curano con la tachipirina, dice Monica, e chiede che venga fatto il tampone. I sintomi, i segni sembrano quelli. Ma si sa, in certi momenti i segni impazziscono, confondono e magari e solo un brutto raffreddore. Passano i giorni e i segni continuano a significare sempre la stessa cosa. Strano scherzo del destino di questi tempi. Ruggirello peggiora, gli avvocati chiedono invano la scarcerazione ma l’istanza viene rigettata. I familiari si rivolgono prima all’associazione Antigone e poi al garante dei detenuti della regione Campania. Finalmente, dopo che il Covid ha fatto un po’ di strada e buona parte del lavoro, gli viene fatto il tampone. Il 4 aprile. Due giorni fa. Dopo una settimana. Risultato? Positivo. E allora, signor ministro della Giustizia Bonafede, ripeto la domanda e la prego di rispondere come un tampone: una persona che è in galera vale più o meno di una persona che sta fuori? In attesa della sua risposta le dico da non giurista quello che penso del diritto e dei diritti. Il Diritto credo sia simile a una linea retta, dritta, il diritto è dritto secondo me, e penso non contempli lo zigzagare dei parolai o le inversioni a U dei populisti. E allora ministro Bonafede, ci metta un tampone al populismo giustizialista. Si occupi delle persone dietro le sbarre in questa emergenza, anche con una soluzione tampone in attesa del vaccino. Perché il vaccino arriverà e quando arriverà saremo tutti un po’ più immuni dal virus populista e riscopriremo il senso di quell’uno-vale-uno. E cioè che si è persone sempre, dentro o fuori le sbarre, con uguale dignità, con identici diritti e doveri. In parole povere, Paolo Ruggirello e tutti quelli che vivono in carcere a volte, troppe volte, senza essere stati mai condannati nemmeno in primo grado o chi la condanna l’ha avuta ma magari vorrebbero un’altra possibilità, valgono quanto tutti noi. Appello a Mattarella e Bonafede: “Il problema delle carceri sovraffollate va affrontato” di Federico Capurso La Stampa, 7 aprile 2020 L’eurodeputata del Pd Pina Picierno: “Non si può mantenere le distanze minime di sicurezza e nemmeno sanificare gli ambienti”. Don Gino Rigoldi, in un’intervista pubblicata oggi su La Stampa, mostra delle possibili alternative alla carcerazione, ai tempi del coronavirus, fatte di comunità e reti solidali. Pina Picierno, europarlamentare Pd, dopo averla letta racconta a La Stampa di aver inviato una lettera al Presidente della Repubblica, ai presidenti di Camera e Senato e al ministro della Giustizia Bonafede. Picierno, cosa chiede in questa lettera? “Chiedo di affrontare il problema. In alcuni istituti si arriva a eccedenze del 90% rispetto alla capacità reale. E una grande parte della popolazione carceraria è composta da persone vulnerabili, tossicodipendenti, anziani”. Un problema che agli occhi dell’opinione pubblica è emerso solo in chiave negativa nelle ultime settimane, quando sono scoppiate rivolte da parte dei detenuti. Eppure, ad oggi, 37 detenuti e 158 agenti penitenziari risultano contagiati dal coronavirus… “Nelle nostre carceri non si può neanche mantenere una distanza minima di sicurezza o sanificare gli ambienti, quindi non è possibile il rispetto di alcun protocollo sanitario. Sembra che le misure adottate dal governo riguardino tutti, tranne i 60 mila uomini e donne che vivono in carcere. Si è operata una sorta di rimozione collettiva, come se i detenuti non facessero parte della nostra comunità, rendendoli inesistenti”. Le sembra che il governo stia affrontando il problema? “Tutt’altro. Ma la vita di quei detenuti è nelle mani dello Stato. Al ministro Bonafede ho chiesto di agire, ma fino ad oggi mi sembra che questo tema sia stato messo in quarantena dalla politica e dal governo, nonostante le proteste della popolazione carceraria. Come se la vita di un detenuto valesse meno della nostra”. Ci sono soluzioni possibili? “Certo. Dall’Onu sono già arrivate indicazioni importanti e delle linee guida per gestire questa fase emergenziale nelle carceri. Linee guida che però, in Italia, non vengono neanche prese in considerazione. Un gruppo di accademici e professori di diritto penale, poi, ha prodotto un documento dettagliato in questi giorni per provare a ridurre la popolazione carceraria”. Lei cosa propone? “Si potrebbe innalzare a 2 anni il limite di pena detentiva eseguibile presso il proprio domicilio. Oppure, per chi è ammesso a svolgere lavori all’esterno del carcere, si dovrebbe permettere di restare presso il proprio domicilio, almeno per il periodo di emergenza”. E quando l’emergenza sarà finita? “Credo si dovrà ragionare su investimenti maggiori nell’edilizia carceraria, prevedendo un uso più ampio, dove possibile, di pene alternative alla detenzione in carcere”. Pochi giorni fa, per esigenze sanitarie legate al coronavirus, è uscito dal carcere Vincenzino Iannazzo, un boss della ‘ndrangheta, ora tornato nella sua casa di Lamezia Terme. E c’è chi, come il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, ha sollevato forti dubbi sull’opportunità di questa decisione… “Il problema nasce dal sovraffollamento, non dall’emergenza sanitaria. E ad ogni modo, le soluzioni proposte toccherebbero, ad esempio, chi è detenuto in custodia cautelare o per reati lievi. Di certo, non si passa dai boss mafiosi o da chi si è macchiato di reati gravi”. Giorgia Meloni invece si scaglia contro “concessioni o svuota carceri” e chiede “pene esemplari”… “Qui non si parla di “svuota carceri”. Meloni dimostra una totale assenza di sensibilità. Utilizzare in questo momento argomenti così delicati per esasperare gli animi, non rende un buon servizio al paese. Quando la vita di un detenuto è nelle mani dello Stato, lo Stato ha il dovere di tutelarla”. Pressing dem su Bonafede: “Intervenga sulle carceri” di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 aprile 2020 Sponda anche di Italia Viva. Cosimo Ferri: “La norma contenuta nel “Cura Italia” va modificata”. Pur con la diplomazia che serve usare in una situazione di emergenza, il Pd interviene nel dibattito sulla gestione delle carceri. Il destinatario del messaggio è chiaro: il Guardasigilli Alfonso Bonafede, già bersagliato nei giorni scorsi da appelli e richieste provenienti sia dai penalisti che dalla magistratura che dai garanti dei detenuti. “La situazione nelle carceri italiane è molto pesante e dobbiamo evitare i rischi di una bomba sanitaria. Le tensioni di ieri a Santa Maria Capua Vetere e Secondigliano sono un nuovo allarme che impone a tutti interventi seri e reali contro il sovraffollamento. È in gioco la tutela della salute di tante persone recluse e sono in gioco la tutela della salute e della sicurezza di migliaia di agenti di polizia penitenziaria, cui deve andare la gratitudine del Paese per il difficilissimo lavoro che compiono per la sicurezza di tutti”. A scriverlo in una nota è il deputato Walter Verini, responsabile giustizia dei dem, che pur con lessico da politico esperto indica in modo deciso la linea del Pd sulla questione: “Si deve evitare il ripetersi di rivolte che mettono a rischio la sicurezza della collettività. Tutti i paesi hanno adottato provvedimenti credibili contro il sovraffollamento: dall’Iran alla Francia, dal Marocco agli Stati Uniti. Anche in Italia si deve fare presto”. Come a dire, si è già perso anche troppo tempo. La richiesta dei dem è di fatto quella già avanzata da chi di carcere si occupa da tempo, come sottolinea lo stesso Verini: “Lo hanno chiesto tantissime voci autorevoli: mandare ai domiciliari detenuti verso la fine della pena, che non rappresentano allarme sociale, che hanno tenuto buone condotte, escludendo ovviamente quelli per reati gravi e ostativi, va fatto presto e davvero”. Insomma, esattamente ciò che il ministro fino ad ora si è dimostrato riluttante a fare. Per i dem non c’è più tempo e viene annunciato il fatto che il partito prenderà di petto la questione proprio questa settimana, durante il confronto che si aprirà in Senato sil decreto legge Cura Italia. Sul punto, il Pd dovrebbe trovare la sponda di Italia Viva, che ha utilizzato toni decisamente più aspri nei confronti di Bonafede. Il deputato ed ex sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, nei giorni scorsi aveva definito “la situazione nelle carceri e assolutamente fuori dal controllo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il cui capo dipartimento è incredibilmente ancora al suo posto” e ripetuto che “il ministro Bonafede non ha intenzione di recedere dalla sua linea e sostiene che la situazione sia sotto controllo” ma “solo riducendo il sovraffollamento con misure ben più adeguate di quelle, totalmente insufficienti, previste dal governo, effettuando tamponi e dotando di tutti i dispositivi di protezione individuale gli operatori della Polizia Penitenziaria e il personale, si potrà prevenire quello che rischia di essere una delle più gravi crisi mai registrate nel sistema penitenziario italiano”. Sulla stessa linea ieri anche il magistrato e deputato di Iv, Cosimo Ferri, che ha plaudito proprio al “positivo cambio di passo da parte del Pd sulle politiche di Bonafede” e attaccato frontalmente il Guardasigilli, che “non ne azzecca una e va aiutato per il bene della giustizia e della tutela della salute di tutti”. Tranciante il suo giudizio sulle norme inserite nel Cura Italia: “Non servono e non risolvono il problema né sanitario né quello del sovraffollamento carcerario. Va modificata la norma e vanno previste ipotesi più ampie per accedere all’esecuzione della pena domiciliare”. Un accerchiamento, quello del ministro della Giustizia, che potrebbe costringere via Arenula a rivedere le proprie posizioni, proprio nelle ore delle proteste - solo le ultime in ordine di tempo - nelle carceri di Sicilia e Campania. Bonafede in questi giorni ha scelto la linea del silenzio, messo all’angolo dalla cronaca oltre che dal le pressioni degli alleati di governo, insieme alle recenti dichiarazioni del pg di Cassazione Giovanni Salvini. In questa direzione vanno anche le pressioni del Vaticano, con Papa Francesco che, nell’introduzione della messa a Santa Marta, è tornato a chiedere un intervento alle istituzioni: “Vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento delle carceri. Dove c’è sovraffollamento, tanta gente, c’è il pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, coloro che devono prendere le decisioni, perché trovino la strada giusta e creativa per risolvere il problema”. Chissà se l’auspicio d’Oltretevere farà più breccia di quello del Nazareno. “Domiciliari subito: Bonafede ci risponda!” di Paolo Comi Il Riformista, 7 aprile 2020 La Presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “Non viene garantito il distanziamento sociale. Ci deve essere un meccanismo automatico per mandare a casa i detenuti”. Quando lo Stato prende in carico una persona per fargli espiare una pena deve fare in modo che ciò avvenga in condizioni di legalità e di tutela delle esigenze di salute. Se non è possibile, cosa l’ha messa a fare in carcere? Che messaggio viene dato quando lo Stato per primo non rispetta le regole?”, tuona Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. La Presidente Di Rosa sta fronteggiando l’emergenza Covid-19 da un’aula d’udienza ubicata al piano terra del Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Gli uffici della Sorveglianza, posti all’ultimo piano, sono andati distrutti la scorsa settimana a seguito di un violento incendio causato da un cortocircuito. Presidente, com’è la situazione adesso? Di disagio estremo. Siamo accampati. L’Ufficio di sorveglianza di Milano aveva diverse stanze, adesso è concentrato in un unico ambiente al cui interno abbiamo allestito, in maniera estremamente precaria, cinque postazioni. Il problema è che non abbiamo i fascicoli: dobbiamo andarli a recuperare di volta in volta nel piano incendiato dove però non c’è più l’illuminazione ed è tutto avvolto dalla cenere. E nelle carceri milanesi La difficoltà principale, per mancanza di spazio, è quella di riuscire a garantire il “distanziamento sociale” per scongiurare il contagio. Ma non essendoci lo spazio per quelli in regime normale, che sono di più di quelli che dovrebbero essere. Come ci si organizza? A San Vittore, ad esempio, per creare le zone d’isolamento stanno pensando di chiudere il centro clinico. E i malati, allora, dove si mettono? Alcuni giorni fa ha inviato, con la collega della Sorveglianza di Brescia Monica Lazzaroni, una nota al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con alcune proposte per fronteggiare l’emergenza Covid. Può illustrarcene qualcuna? Premesso che il sistema è responsabile del sovraffollamento, in questo momento di grandissima emergenza ci deve essere un meccanismo automatico per la concessione dei domiciliari. Senza passare dal magistrato di sorveglianza? Esatto: l’applicazione della detenzione domiciliare, se vogliamo alleggerire le strutture, deve essere automatica. Ad esempio, per chi ha un residuo di pena sotto ai due anni e la disponibilità di un domicilio. Ovviamente non deve aver partecipato alle ultime rivolte. Le attuali procedure per la concessione delle misure alternative al carcere sono fatte per tempi ordinari e non sono compatibili con quelli della pandemia. Bisogna fare l’istruttoria, attendere il visto del pm, tutta una seria di passaggi che rendono lungo l’iter. Il diretto vivente deve adattare le sue norme alla situazione sanitaria. Il ministro ha risposto? A oggi (ieri per chi legge, ndr), no. Anche il personale delle Sorveglianza è stato colpito dal virus? I Tribunali di sorveglianza sono stati decimati, ci sono stati contagi, il personale è a casa autodecimato. Già per carenze di personale erano disorganizzati, ora hanno ricevuto il colpo di grazia. La strada maestra è un provvedimento legislativo “chiaro”? Sì. Penso anche a quello per non mandare in esecuzione ordini di carcerazione per sentenze che hanno avuto un lunghissimo iter processuale e arrivano a tanti anni dalla data di commissione del fatto. Non mi pare il caso adesso di procedere con nuovi accessi. E per chi è in custodia cautelare? Ci siamo già coordinati con il Gip e con la Corte d’appello affinché sia incentivata il più possibile la detenzione domiciliare. Oltre alla mancanza di spazi, nelle carceri mancano pure le mascherine e i prodotti igienizzanti… Ultimamente a Milano c’è stata una loro fornitura da parte di alcuni privati. Ma affidare allo spontaneismo la gestione delle carceri non può diventare un sistema: la solidarietà è un valore costituzionale che lo Stato deve rispettare. Pensa che non ci sia piena consapevolezza dei rischi di un contagio di massa nelle carceri? C’è esitazione ed incertezza. Non compete a me fare valutazioni politiche, penso però che qualsiasi decisione debba essere accompagnata dalla preventiva verifica dei luoghi. Io conosco benissimo le carceri e so come si vive al loro interno. Invito tutti a fare altrettanto, andando a vedere con i propri occhi e non da dietro un pc. Vuole aggiungere qualcosa? Voglio solo dire che, nonostante l’incendio, non ci siamo fermati neanche un giorno. L’impegno è massimo e saremo all’altezza della responsabilità che abbiamo. Quel drammatico grido di dolore dalla “voce dei dimenticati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2020 Una petizione dei familiari dei detenuti di tutt’Italia per la tutela dei loro cari. “State violando la Costituzione e condannando a morte i nostri cari!”, è un grido di dolore, ma anche un allarme lanciato alle autorità dello Stato: dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, passando per i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati, fino ad arrivare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La petizione, con tanto di firme, è stata mandata anche al Consiglio nazionale forense, all’Unione delle Camere penali italiane e al Garante nazionale dei detenuti. Si firmano “la voce dei dimenticati” e sono i familiari - esasperati e preoccupati di una eventuale calamità epidemiologica come paventato anche dal Papa dei reclusi delle nostre patrie galere ai tempi del coronavirus. Allegano anche le foto delle firme di molti loro cari, detenuti e detenute che chiedono di intervenire. “Dalle discussioni parlamentari e dal decreto emerge una verità di fondo - scrivono i familiari nell’accorato appello - quella secondo cui le persone che stanno scontando una detenzione sono prima detenuti e poi persone aventi diritto alla salute. Quando ora, l’emergenza epidemiologica dovrebbe essere la priorità assoluta”. Non a caso citano l’articolo 2 della Costituzione che sancisce la dignità dell’uomo, il diritto alla vita, all’integrità fisica e all’integrità morale. Così come il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Un diritto primario che viene prima di ogni legge punitiva e repressiva. Evocano anche l’articolo 27 che, vietando la pena di morte, attribuisce alla vita umana il carattere di intangibilità, ponendola al di sopra della potestà punitiva dello Stato. “La scelta libera, ragionata e consapevole di non godere del bene- salute - sottolineano i familiari - è espressione dei diritti di libertà e rispetto della dignità umana (Corte Costituzionale, Sentenza n. 438/ 2008), per cui va rispettata anche se determina pericolo di vita o danno per la salute”. Mettono anche in guarda le autorità che dal mancato godimento del bene primario salute, vi è diretta conseguenza di comportamento doloso o colposo di terzi. Viene evocato anche un passaggio della sentenza della Corte Costituzionale, n° 88 del 1979: “Chiunque subisca tale lesione da parte di terzi, subisce un danno”. Le “voci dei dimenticati” ricordano che l’Organizzazione mondiale della sanità, espletando che si tratta di un compito impegnativo ma essenziale per le autorità, afferma che “In tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, da quella cautelare a quella processuale così come in quella dell’esecuzione della condanna, si dovrebbe prendere maggiormente in considerazione il ricorso a misure non detentive”. I familiari proseguono rivolgendosi alle autorità: “Oggi siamo qui, familiari di detenuti di diverse parti d’Italia, a farvi un unico appello per la tutela dei nostri cari”. Sono terrorizzati dal possibile arrivo della telefonata che li avvisi: “Il vostro familiare è affetto da covid- 19!”. L’appello prosegue denunciando il loro vivere nella tortura psicologica quotidiana. “Ricordatevi: sono persone, non animali!”, concludono amaramente. Il virus, i detenuti e il bisogno di “nemici” di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020 Siamo in guerra! È la frase ripetuta con tetra insistenza per la pandemia Coronavirus. L’idea della guerra evoca la necessità di un nemico. Finché si pensa al virus, poco da dire. Ma in “questa” guerra contro un’infezione sconosciuta capita (sia in ambito nazionale che internazionale) di dover prendere decisioni ad alto rischio di errori, elaborando ex novo questa o quella strategia, spesso da adattare in corso d’opera al rapido mutare delle circostanze. Queste decisioni, causa di disagi e ostacoli, a volte spingono svalutazioni nell’ottica prevalente di interessi propri, magari legati ad appartenenze politiche o geografiche. “Nemico” può allora diventare - piuttosto che il virus - “l’altro” da noi; per cui finita la guerra, oltre a contare i morti e i danni economici, si potranno registrare pure divisioni e fratture socio-politiche forse insanabili. Il problema del “nemico” si pone anche per il carcere ai tempi del coronavirus. In particolare per la richiesta di amnistia/ indulto, da sempre nel carnet di certi ambienti che l’hanno intensificata dopo le rivolte di 20 giorni fa nelle carceri. Il collegamento delle rivolte alle misure restrittive (colloqui) impartite in ragione della pandemia è debole: si è trattato di una trentina di episodi (con manifestazioni cruente d’altri tempi) che si sono accesi con una sincronia e una precisione di obiettivi comuni, così da legittimare più di un sospetto. In ogni caso, due giorni di furia e poi il nulla; eppure la restrizione dura ormai da settimane e le sofferenze dovrebbero essersi cumulate, certo non diminuite. Comunque sia, il ministro Bonafede si è trovato incastrato nella trappola del “nemico” non appena ha imboccato la prospettiva di arresti domiciliari per i detenuti con un limitato residuo di pena per reati non gravi. La trappola è scattata su due fronti contrapposti. Da un lato, poiché fin dal suo insediamento egli ha fatto della “certezza della pena” una bandiera, certuni lo sfidano mettendo le sue scelte alla prova di una presunta contraddizione che sperano possa politicamente indebolirlo. Mentre altri lo spingono verso la pesante responsabilità di mosse estreme che potrebbero sembrare in collisione con gli interessi generali della collettività sul piano della sicurezza e della salute, dando l’impressione di anteporvi gli interessi dei carcerati. In un contesto che sta presumibilmente registrando una diminuzione dei detenuti. Per il fatto che (nella contingente fase di emergenza) ne potrebbero entrare meno del solito; fuori infatti le priorità sono cambiate, essendovi purtroppo altro da fare: controllare, distanziare, trasportare bare in giro per l’Italia, aiutare ospedali e farmacie a ricevere materiali sanitari, sanificare strade ecc. Quella dei numeri per altro non può essere l’unica strategia. La riduzione del sovraffollamento è utile contro il coronavirus (da fronteggiare - beninteso - a tutela dell’intero mondo penitenziario), ma da sola non basta. Occorre anche altro. Solo che le carceri - come gli ospizi- sono luoghi dove la strategia esterna del distanziamento non potrà mai essere applicata. E idee praticabili che non siano troppo sbilanciate, è difficile (al di là della linea del salva-carceri) immaginarne. Con la conclusione, ovvia ma terribile, che il carcere oggi più che mai è un labirinto dove nessuno può vantare certezze o ricette taumaturgiche. In mezzo sta la constatazione che, per la maggior parte della comunità esterna, “quelli” (quelli in carcere...) sono da sempre “nemici”: stranieri, gente senza fissa dimora, senza identità, tossici fastidiosi, poveri, soggetti alle prese con problemi psichici... E seppure non si arriva all’estremo disumano di pensare che in guerra i nemici si sacrificano, il sentire dei “benpensanti” innesca un’altra trappola del “nemico” che si riflette sulle misure alternative, proprio quelle invocate come possibile deflazione della perenne calca detentiva. Tali misure infatti implicano una affidabilità che spesso manca a quei “nemici”, ai quali pertanto esse obiettivamente si attagliano poco in tempo di pace e ancor meno in tempo di guerra da Covid-19. Un altro aspetto con cui confrontarsi quando si tratta di stabilire ambito applicativo e modalità delle eventuali misure alternative. Comunque, un problema da bilanciare con le ragioni dell’umanità cui Papa Bergoglio si richiama indicando la strada di “scelte giuste e creative”. In conclusione, dentro come fuori del carcere le paure, i rischi e le vittime del coronavirus ci fanno toccare con mano alcune fragilità della nostra democrazia. Una percezione che ricorda (sia pure con abissali distinguo) quella che di fronte alla peste portava a richiamare peccati e dissolutezze. Superata l’emergenza - si sente dire - niente sarà più come prima. Un auspicio perché la politica (trasversalmente!) torni a essere guida e non più mera caccia al consenso, senza quel miscuglio di invidia e malizia che è oggi la cifra prevalente. Con un forte recupero - da parte di tutti - di senso istituzionale, equilibrio e linguaggio adeguato. Non proprio quel che oggi traspare dall’appello mistico di un Capitano per la riapertura delle chiese a Pasqua, contro la preghiera solitaria del Papa in piazza San Pietro: capace di dimostrare come persino il silenzio (i lunghissimi minuti senza parole di Francesco immobile davanti all’Ostensorio) abbia la virtù di costringere a pensare. La messa di Papa Francesco per i detenuti a rischio coronavirus di Mauro Leonardi agi.it, 7 aprile 2020 “In epoca di pandemia, dove c’è sovraffollamento, si rischia che finisca in una calamità grave”, dice il Pontefice. La Messa di Santa Marta del 6 aprile 2020 - lunedì santo in epoca di Covid19 - è dedicata da Papa Francesco al grave problema del sovraffollamento delle carceri: “in epoca di pandemia, dove c’è sovraffollamento, si rischia che finisca in una calamità grave”, dice. Bergoglio non pensa solo all’Italia; dice che quello del sovraffollamento è un problema che riguarda parecchie parti del mondo. Non chiede alcuna rivoluzione, non usa formule tanto semplificanti quanto irritanti. Chiede solo di “pregare per i responsabili, per coloro che debbono prendere le decisioni, perché trovino una strada giusta e creativa per risolvere il problema”. I carcerati sono la categoria alla quale nessuno vuole pensare in questa emergenza coronavirus. Quanti sono i personaggi grandi e piccoli che hanno sborsato somme di denaro, anche grosse, per gli ospedali dei quali tutti sentiamo parlare? Somme ingenti, somme giuste, somme doverose. Ma chi dà denaro per evitare i contagi negli istituti di pena, o per aiutare i tantissimi detenuti poveri che senza colloqui con le famiglie non hanno le risorse per affrontare la loro vita quotidiana in carcere? Eppure basterebbe riflettere un attimo per comprendere di quale grande necessità stiamo parlando. Cosa avviene in un istituto di pena quando arriva l’influenza? Che la prendono immediatamente tutti. Celle da sei con promiscuità assoluta, impossibilità radicale di tutte quelle misure prudenziali cui il governo obbliga, giustamente, noi cittadini liberi. I responsabili cui pensa il Sommo Pontefice, quelli che devono prendere le decisioni, sono i politici. In Italia avviene che i dirigenti degli Istituti carcerari pongono le premesse perché vengano attuale quelle misure alternative di custodia carceraria che poi dovrebbero essere applicate dai magistrati di sorveglianza: ma sia i primi che i secondi debbono attenersi alle leggi. In epoca di pandemia è necessaria che intervenga la politica e determini norme legislative ad hoc, coerenti con le attuali circostanze di emergenza sanitaria. Non si tratta di percorrere la strada dell’utopia ma di sforzarsi di proporre soluzioni sagge che abbiano il coraggio di voler costruire. Il Papa è, tra tutte, la voce più autorevole che ricorda l’esistenza di un problema che qualche settimana fa, non dimentichiamolo, era assunto all’onore delle cronache per episodi di rivolta con conseguenze anche tragiche. Non si tratta di terrorizzare la società civile a colpi di slogan che incitino a “svuotare le carceri”: si tratta di portare a compimento un iter non banale. Ci vorrebbe un intervento del legislatore per rendere obbligatorio ciò che gli attuali regolamenti considerano solo opzionale. Perché l’emergenza nella quale si trova il Paese è vera e riguarda tutti: anche i dimenticati da tutti. Anche i carcerati. Coronavirus, Zanotelli: “Le carceri sono una bomba atomica” La Repubblica, 7 aprile 2020 Le carceri “una bomba atomica” per il rischio contagio nell’emergenza coronavirus. Preoccupati per la situazione di sovraffollamento nei penitenziari del Paese e in particolare per la condizione “drammatica” in cui versa il carcere di Poggioreale a Napoli, padre Alex Zanotelli, i cappellani campani hanno preparato un documento per lanciare l’sos sul mondo carcerario ai tempi del Covid-19. Anche il Papa ieri ha dato nuovamente voce alla sua preoccupazione rivolgendo un appello alle istituzioni. “In Italia - sottolinea padre Zanotelli - dobbiamo diminuire il numero dei detenuti di almeno 20 mila per non avere il sovraffollamento disumano. Ecco perché, pensando alla emblematica situazione di assoluto degrado di Poggioreale, si sta preparando un documento con i cappellani per richiamare l’attenzione sulla drammatica situazione carceraria e fronteggiarla senza attendere oltre” L’appello al Ministro della Giustizia In queste settimane l’epidemia di Coronavirus sta mettendo a dura prova la tenuta sociale del nostro Paese. L’emergenza visibilissima di settori nevralgici come quello della sanità e, subito dopo, dell’economia, rischia di lasciare nell’ombra crisi sociali che rischiano di esplodere con evidenza e conseguenze maggiori di quanto accaduto finora. E se la paura non sta soffocando la solidarietà per il prossimo, non sta però agendo come una livella sociale: chi era ai margini lo è ancora, e aggiunge alla sua ordinaria condizione di precarietà anche quella di un’esposizione al rischio di contagio sicuramente maggiore. Con effetti deflagranti anche dal punto di vista psicologico. Tra le prime, e poi troppo presto già dimenticate, situazioni di estrema emergenza e precarietà c’è quella delle carceri italiane, che pagano il prezzo del venir meno di un ordine normale delle cose, di provvedimenti restrittivi che hanno acuito la sofferenza di chi è recluso e causando rivolte e morti in tutta Italia. L’informazione su quanto accade tra le mura delle carceri, dopo un primo momento di massima attenzione, è ormai inesistente. Ma quanti si sono chiesti perché i detenuti di tutt’Italia sono in rivolta? Certo, c’è la paura di contagio per il coronavirus e la paura, in chi ha una limitazione dello spazio di movimento, diventa una terribile angoscia, ma anche in questo caso vi è di più. La crisi connessa al coronavirus ha solo scoperto un nervo che ora è quanto mai dolente. Da anni in molti stiamo chiedendo una riforma dell’Ordinamento Penitenziario che è stata procrastinata da tutti i Governi. Intanto le carceri si affollavano e prendeva corpo nella società una visione spregiudicata che tendeva a presentare la sanzione penale e il carcere come gli antidoti ad ogni male. È su questa base ideologica che alcune pene appaiono non rispettose del fondamentale principio di proporzionalità, come denunciato anche da Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale. Rese spropositate, se ne introducevano di nuove spesso tramite decreti, si perdevano di vista principi fondamentali, e cioè che il carcere deve essere l’extrema ratio e la pena deve tendere alla rieducazione. Risultato? Gli Istituti penitenziari si gonfiavano all’inverosimile rendendo, di fatto, la situazione ingestibile. A nulla erano valsi i moniti e le Sentenze della Cedu (la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) che ci imponevano di seguire un principio di dignità nel trattamento del detenuto. Così oggi siamo al manifestarsi del problema in tutta la sua drammaticità. Si badi, quegli uomini che abbiamo visto sui tetti delle carceri di mezz’Italia, non sono un corpo separato dalla società. Il carcere è una questione sociale e le immagini dei detenuti in rivolta ci hanno restituito per intero la fotografia della condizione del rispetto dei diritti nel nostro Paese. Viene da chiedersi: è veramente questo il modello di società che vogliamo? Un modello in cui si rimane indifferenti ad un grido di aiuto così evidente? Ed allora crediamo che a queste domande abbiamo il dovere di dare risposte molto concrete. Per questo chiediamo innanzitutto al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di rivedere la sua posizione sull’indulto, che in questo momento sarebbe una misura di civiltà giuridica che porrebbe freno alla condizione inumana in cui i detenuti versano. Il decreto recentemente adottato per l’emergenza Coronavirus non basta, incide solo su una posizione molto ridotta, perché riguarda chi deve scontare ancora 18 mesi. Occorrerebbe anche non far dipendere, se non quando è strettamente necessario, dal braccialetto elettronico l’effettiva detenzione domiciliare ed estendere a quanti più soggetti possibile la liberazione anticipata e, con la collaborazione dei comuni, provvedere a dare un domicilio a tutte le persone detenute che ne sono prive. Gli chiediamo di considerare con urgenza l’ipotesi di una legge sulle misure alternative, che le potenzi, le sviluppi e le favorisca. Inoltre crediamo che occorra riformare gli Uffici di Sorveglianza, troppo spesso lenti, anzi lentissimi. Questa lentezza si traduce in una sostanziale violazione dei diritti dei detenuti. È necessario scarcerare chi, anche come residuo di maggior pena, si trova nella condizione di dover espiare pochi anni. Ciò favorirebbe il reinserimento nella società. Inoltre in questo periodo di emergenza sanitaria massima, sarebbe necessario non eliminare, semmai ridurre i colloqui, predisporre delle dovute cautele, e consentire che siano effettuati grazie a vetri di protezione. Ma non basta. La tutela della salute in carcere è una vera chimera. I detenuti sono in rivolta perché questo lo sanno bene. Bisogna che ogni Istituto Penitenziario, grazie al contributo delle Aziende Sanitarie Locali, si doti di Presidi Sanitari Interni con un alto grado di efficienza. Ovviamente per attuare un piano del genere, serve che le Regioni prevedano risorse adeguate e straordinarie. Non ci arrendiamo. Non accettiamo l’idea che il principio di solidarietà debba essere espunto dal nostro contratto sociale. Crediamo in un Giustizia dal volto umano, come il Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha più volte affermato. No, non ci arrendiamo alla distruzione dell’idea stessa di civiltà giuridica. I firmatari: Padre Alex Zanotelli; Sergio D’Angelo; Gaetano Di Vaio; Don Franco Esposito - Direttore Diocesano Pastorale Carceraria di Napoli; Don Alessandro Cirillo - Casa di Tutela Attenuata, Eboli; Don Giovanni Liccardo - Carcere di Poggioreale, Napoli; Don Massimo Giglio - Carcere di Poggioreale, Napoli; Don Giovanni Russo - Carcere di Secondigliano, Napoli; Don Rosario Petrone, Diacono Casa Circondariale di Salerno; Don Aniello Tortora - Vic. Ep. Carità, Nola; Don Carlo De Angelis - ex Carcere Lauro, Nola; Alfredo Guardiano; Antonio Cavaliere; Sergio Moccia; Paolo Mancuso; Nino Daniele; Dino Falconio; Maurizio de Giovanni; Francesco Barra Caracciolo; Aurelio Cernigliaro; Maddalena Ciaccia; Marialuisa Firpo; Giuliano Balbi; Eugenio Lucrezi; Roberto Giovene di Girasole; Desirée Klain; Vincenzo Lomonte; Francesco Forzati; Corrado Ambrosino; Gennaro Marasca; Rosita D’Angiolella; Corrado D’Ambrosio; Alfredo Contieri; Aldo De Chiara; Stefano Valanzuolo; Marinella Pomarici; Umberto Ranieri; Angela Iannuzzi; Alessia Di Taranto; Roberto Pali; “Rinvio delle udienze all’11 maggio”. Arriva un nuovo stop per la giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2020 Il Consiglio dei ministri ha deciso la proroga del rinvio delle udienze della sospensione di tutti i processi, che sarebbe dovuta terminare il 15 aprile, secondo quanto stabilito dal decreto Cura Italia. Il nuovo termine è l’11 maggio. Un provvedimento sollecitato nei giorni scorsi dall’Associazione nazionale magistrati, che aveva prospettato il rischio, con la piena riapertura dei palazzi di giustizia, di esporre migliaia di persone al contagio da Coronavirus. Un pericolo tanto più grave, secondo il sindacato delle toghe, vista l’assenza di dispositivi e misure di protezione. L’allarme è stato evidentemente condiviso dal governo, che su proposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha deciso di prorogare lo stop a tutti i processi. “Abbiamo valutato di attuare questa misura, sentiti anche gli addetti ai lavori, per tutelare la salute di tutti gli utenti della giustizia ed essere pronti a ripartire”, ha spiegato il Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Restano le eccezioni già previste dal precedente decreto legge Cura Italia. Nel settore penale sono assicurate le udienze di convalida di arresto e fermo e i processi con imputati detenuti se sono loro a chiedere. Nel settore civile si celebrano le udienze urgenti che riguardano minorenni e rapporti familiari. Intanto il Csm con una delibera approvata nell’ultima riunione del plenum ha chiesto al ministro della Giustizia di assicurare con la massima tempestività e continuità, gli strumenti necessari e l’assistenza tecnica necessaria al lavoro da remoto anche del personale amministrativo. Ed è tornato a porgli una questione che ha già messo sul tavolo da tempo: valutare le modifiche delle norme processuali necessarie a favorire, nella fase emergenziale, l’utilizzabilità nei procedimenti civili e penali, comprese le camere di consiglio, delle modalità di svolgimento da remoto. Giustizia “congelata”. E ora diventano virtuali pure le camere di consiglio Il Dubbio, 7 aprile 2020 Fino all’11 maggio termini sospesi e udienze non urgenti rinviate: il Consiglio dei ministri ha deciso. Ma intanto, denuncia l’Unione Camere penali, il governo è pronto a estendere il ricorso ai “processi telematici”. Al punto che persino le Corti d’assise decideranno in call conference. C’era il rischio di mettere nelle mani dei magistrati scelte che oggi in Italia assumono pochissime persone: il presidente del Consiglio e il ministro della Salute, sentiti gli scienziati. Così sarebbe stato, se non si fosse arrivati alla decisione, maturata prima e durante il Consiglio dei ministri di ieri, di prorogare all’11 maggio il “regime sospeso” della giustizia. Senza il nuovo intervento del governo, dal 16 aprile in poi sui vertici degli uffici giudiziari sarebbe ricaduta la responsabilità di decidere che tipo di cautele assumere per le udienze civili e penali. E così, nel decreto che il Consiglio dei ministri ha approvato, è previsto che la giustizia resti ancora ferma, con tutti i termini sospesi e le udienze rinviate in automatico, con l’eccezione di quelle urgenti. “Una misura assunta, sentiti gli addetti ai lavori, per tutelare la salute di tutti gli utenti della giustizia ed essere pronti a ripartire”, ha spiegato il guardasigilli Alfonso Bonafede. Solo dopo l’11 maggio si potrà entrare in quella “fase 2” descritta dai diversi provvedimenti assunti dall’esecutivo durante l’emergenza coronavirus, e confluiti nel precedente Dl Cura Italia. A quel punto dovrebbero essere presidenti di Tribunale e procuratori capo a stabilire, sentiti Consiglio dell’Ordine degli avvocati e autorità sanitarie, se per esempio ci si potrà limitare a ridurre l’apertura degli uffici al pubblico o se si dovrà continuare a rinviare tutto, tranne le urgenze. L’Anm: non lasciate la responsabilità ai capi degli uffici - Anche dall’avvocatura erano venute sollecitazioni per rendere il futuro prossimo della giustizia coerente con quanto prescritto per ogni altro aspetto della vita sociale, dalle scuole all’impresa. Ma sul nuovo congelamento delle attività giudiziarie ha pesato la posizione assunta poche ore prima dall’Anm: che già domenica, in una nota della propria giunta, aveva chiesto di garantire appunto “una disciplina uniforme sul territorio nazionale, dettata per legge e non rimessa ai provvedimenti dei dirigenti dei singoli uffici”. Secondo il sindacato dei magistrati bisognerebbe definire in modo meno flessibile anche il regime successivo, previsto dall’11 maggio fino al 30 giugno (almeno per ora). Così come l’Anm aveva definito “indispensabile” individuare “le soluzioni tecnologiche più idonee e praticabili concretamente per celebrare i processi in via telematica”. Camere di consiglio “smart”: no dell’Unione Camere penali - Ora, è chiaro che il ricorso alla giustizia digitale è l’altra faccia della medaglia, nel regime della sospensione anti-contagio. Ma qui a segnalarne gli aspetti più problematici sono gli avvocati prima ancora dei magistrati. A pesare sono innanzitutto gli emendamenti presentati dal governo sulla legge di conversione del decreto “Cura Italia”, dove resta regolata l’impalcatura della nuova giustizia d’emergenza. Il provvedimento è all’esame di Palazzo Madama e potrebbe approdare in aula domani. Tra i vari interventi, uno su tutti solleva l’allarme dell’Unione Camere penali, che ieri ha diffuso un dettagliatissimo dossier sulle modifiche in arrivo: si tratta della possibilità di “svolgere da remoto” anche “le camere di consiglio”. Intanto, è evidente come tale regime riguarderebbe anche quei processi “la cui trattazione sarà disposta dai capi degli uffici: in definitiva la facoltà potrà essere esercitata per tutti i processi previsti nel periodo emergenziale”. E si tratta, secondo l’Ucpi, “di una totale violazione dei principi irrinunciabili che sovraintendono alla deliberazione della sentenza, compreso quello della segretezza della camera di consiglio”. Una scelta, denunciano gli avvocati, “che potrebbe produrre conseguenze devastanti”. Anche considerato che “troverebbe applicazione generalizzata, e quindi anche nei processi per i reati più gravi e tra questi quelli di competenza della Corte di Assise composta, peraltro, anche da giudici non togati”. Emerge “in tutta la sua drammatica evidenza”, per l’Ucpi, “l’assenza di garanzie non solo in ordine alla segretezza ma anche alla impermeabilità ai condizionamenti esterni di coloro che sono chiamati a giudicare”. Un effetto collaterale che rischia di essere pericolosamente sottovalutato. Associazione mafiosa, “indicatori fattuali” per la custodia in carcere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2020 La Cassazione, sentenza n. 11346 depositata il 6 aprile, ha confermato la custodia cautelare in carcere per Salvatore Di Lauro, quale reggente a partire dal gennaio 2014 del “clan Di Lauro”. In quell’anno, appena uscito di prigione dopo aver scontato una condanna decennale, il boss aveva assunto il comando dell’organizzazione perché il fratello Marco, fino ad allora alla guida del sodalizio, era latitante. La Prima Sezione penale ha infatti respinto il ricorso del boss contro l’ordinanza con cui, nel luglio 2019, il Tribunale di Napoli, a sua volta, aveva confermato l’ordinanza del Gip che, nell’aprile 2019, aveva disposto il carcere preventivo per il delitto di cui al 416-bis c.p.. Il provvedimento del Tribunale - La Suprema corte ripercorre e valida le ragioni poste dal Tribunale alla base della cautela. In primo luogo, le precedenti condanne per droga, aggravate dal metodo mafioso. Successivamente, le dichiarazioni di una serie di collaboratori di giustizia che davano conto del ruolo assunto, dal 2014 in poi, nel clan: “entrando in rapporti con le altre organizzazioni criminali, sia per accordarsi su questioni di droga, sia per assumere informazioni su vicende omicidiarie (duplice omicidio di Ciro Milone ed Emanuele Di Gennaro) rilevanti per gli equilibri criminali, sia per intervenire a dirimere vicende estorsive (in danno di Cosimo Angrisano e Cosimo Marullo)”. Né, sempre secondo il provvedimento impugnato, può deporre in favore dell’indagato la minore statura criminale, da più parti emersa, rispetto al fratello. La sentenza ricorda poi che la sua attivazione in due estorsioni aveva portato, nel primo caso, a dimezzare la cifra richiesta e nel secondo all’abbandono della pretesa da parte del clan rivale Vanella Grassi, interventi “emblematici del ruolo apicale assunto”. La motivazione - In definitiva, per la Cassazione “la motivazione fornisce un quadro congruo degli indizi di colpevolezza, sia con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sia con riferimento alle altre fonti, costituenti adeguati riscontri, in ordine all’individuazione in Salvatore Di Lauro di un soggetto certamente attivo in via primaria nel settore degli stupefacenti, ma, dopo la sua scarcerazione del 2014, in correlazione con la latitanza di Marco Di Lauro, attivamente proiettato nella dimensione, inscindibilmente congiunta, costituita dal suo ruolo direttivo all’interno della consorteria camorristica”. Così, prosegue la decisione, anche l’illustrazione che è stata data del contenuto delle intercettazioni “appare univocamente indicativa della posizione di Salvatore Di Lauro - forse ritenuta immeritata da qualche conversante e comunque non gestita con l’autorevolezza del fratello Marco, ma pur sempre di rilievo apicale all’interno del gruppo criminale”. Il principio - In punto di diritto, prosegue poi la Corte, il Tribunale non si è discostato dal giusto principio per cui “per l’accertamento della commissione de reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare - più che un mero status di appartenenza - un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato prende parte al consorzio associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi, sicché la sua partecipazione alla consorteria, in difetto di prove direttamente rappresentative dell’intraneità del singolo all’associazione, va desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi l’appartenenza nel senso indicato, sempre che si tratti di indizi gravi e precisi, idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della permanenza costante del vincolo, sempre in relazione allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione”. La pericolosità - Quanto infine alla pericolosità giustificativa della misura del carcere, la Cassazione conclude che nei confronti di un indagato per associazione mafiosa “la presunzione relativa di pericolose sociale, di cui all’art. 275, co. 3, cod. proc. pen. (post legge n, 47 del 2015) può essere superata soltanto quando dagli elementi a disposizione del giudice risulti che l’associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, con l’effetto che, in carenza di elementi a favore della posizione dell’indagato, sul giudice della cautela non grava l’onere di argomentare in positivo circa la persistenza delle esigenze cautelari stesse, esigenze da ritenersi sussistenti, in relazione alla suindicata situazione di fatto”. Campania. Le carceri esplodono, suicidio in cella e proteste ovunque Corriere del Mezzogiorno, 7 aprile 2020 Un 32enne che sarebbe stato liberato a novembre si è ammazzato ad Aversa. Rivolte nelle carceri dove si teme il contagio. Un positivo a Santa Maria. Gli allarmi di Ciambriello e Zanotelli. Un detenuto romeno di 32 anni, Emil V., si è impiccato all’alba di ieri nel carcere di Aversa. Lo rende noto Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania: “In questo tempo così disperato si continua a morire in carcere - dice. Emil era detenuto per rapina e sarebbe uscito a novembre. Non faceva colloqui, non aveva mai avuto sanzioni disciplinari. Gli altri suoi quattro compagni di cella non si sono accorti del suo gesto disperato”. “Aumentano anche i casi di autolesionismo - aggiunge il garante - ma ovunque. Il carcere di Aversa in questi giorni aveva attirato la mia attenzione, positivamente, per i provvedimenti del magistrato di sorveglianza per la detenzione domiciliare per 8 detenuti, altri 12 aspettano i fantomatici braccialetti e 9 sono le relazioni sanitarie in attesa de decisioni del magistrato”. Le carceri “sono una bomba atomica a rischio contagio” e in particolare quello napoletano di Poggioreale dice alle agenzie padre Alex Zanotelli, anticipando che i cappellani campani stanno redigendo un documento di allarme. “In Italia - dice il padre comboniano - dobbiamo diminuire il numero dei detenuti di almeno 20 mila unità per non avere un pericoloso sovraffollamento disumano e senza attendere oltre”. Oltre 150 detenuti hanno protestato domenica nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, asserragliandosi in un reparto dopo avere appreso di un detenuto risultato positivo al Coronavirus. La penitenziaria denuncia d’essere stata minacciata con olio bollente. Dopo alcune ore di tensione la mediazione con i vertici del carcere e le rassicurazioni fornite ai detenuti sulle misure che saranno prese per evitare altri contagi hanno placato le proteste. Ma nelle carceri campane sono state diverse, ieri mattina: con la “battitura” delle sbarre hanno protestato anche i detenuti di Secondigliano, anche qui per un presunto contagio - non confermato dall’amministrazione penitenziaria - di un detenuto asmatico con febbre. “Battitura” delle inferriate anche ad Ariano Irpino, nell’Avellinese, una delle sette “zone rosse” campane. Campania. Polveriera carceri, al via lo screening sui detenuti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 7 aprile 2020 Verranno sottoposti ai test rapidi anche i circa 4mila agenti penitenziari. Le carceri, afferma padre Alex Zanotelli, restano “una bomba atomica” per il rischio contagio nell’emergenza coronavirus. Preoccupati per la situazione di sovraffollamento nei penitenziari del Paese - e in particolare per la condizione in cui versa la casa circondariale di Poggioreale - i cappellani campani stanno preparando un documento per lanciare l’Sos sul mondo carcerario ai tempi del Covid-19. E mentre da Santa Maria Capua Vetere tornano a riecheggiare boatos di rivolta, la questione carceraria napoletana riemerge in tutta la sua drammaticità. Ma arriva finalmente una buona notizia: test rapidi per verificare la positività al Coronavirus per tutti gli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria in servizio nella regione Campania (circa 4.000 unità), come pure a tutta la popolazione detenuta negli istituti penitenziari in Regione (circa 8.000). L’inizio dello screening generale decretato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia rappresenta una importante novità. Forse tardiva, ma importante e necessaria. La conferma della decisione arriva dal Sappe, il più rappresentativo, in termini di iscritti, sindacato della Penitenziaria. “I test - conferma al “Mattino” il segretario campano Emilio Fattorello - sono già disponibili ed inizieranno nelle sedi di appartenenza dall’inizio della prossima settimana: avverranno con il prelievo di una goccia di sangue ed in pochi minuti si avrà il referto. Ciò è stato possibile grazie ad un protocollo stilato dal provveditore regionale del Dap, le Aziende sanitarie locali e la Regione Campania, ancora una volta con il contributo del nostro sindacato”. Tranquillizzanti anche le notizie che fanno finalmente chiarezza su presunti contagi tra gli agenti della “Penitenziaria. Intorno al 19 marzo vennero registrati tre casi di “divise” positive al virus. Un ispettore e due agenti, tutti in servizio al carcere di Secondigliano. Immediatamente isolati, sono usciti ieri dalla quarantena senza complicazioni. E restano liberi dal servizio: questo vuol dire che il cosiddetto “effetto finestra” del potenziale contagio è ormai scongiurato. Dura e delicatissima la situazione di chi è recluso dietro le sbarre, soprattutto in questo momento. I detenuti - soprattutto quelli custoditi a Poggioreale per l’ormai eterno e immutabile sovraffollamento - vivono nel terrore del contagio. Ma poi c’è anche il personale amministrativo e gli uomini e donne della Polizia penitenziaria, anch’essi sovraesposti al rischio del contagio. Tutti i sindacati del Corpo si sono mossi in quest’ultimo mese. “In questo travagliato periodo storico i martiri di questa pandemia sono i poliziotti penitenziari - afferma dal canto suo il vicesegretario regionale dell’Osapp Campania, Luigi Castaldo - Il personale è sottoposto ai vari stress psicofisici, essendo in continua allerta e restando sempre in prima linea. Atteggiamenti rivoltosi e devastazioni comportano pene alte, fino a 15 anni con le relative aggravanti, e peggiorano lo stato penale dei ristretti facinorosi, precludendo qualsiasi misura penale alternativa”. Per l’Osapp, “la politica deve adottare provvedimenti tempestivi e risolutivi affinché si mandi un messaggio chiaro e coerente alla popolazione detenuta, anche con l’ausilio dei Garanti e movimenti per i detenuti”. Ma se si apre uno spiraglio reale per garantire il diritto primario alla salute per chiunque viva o lavori al di là delle mura carcerarie, ecco spalancarsi una nuova polemica. Quella relativa alla sbandieratissima notizia della produzione, proprio da parte dei detenuti più volenterosi, di mascherine anti-contagio. “Quattrocentomila mascherine protettive al giorno, 320 detenuti al lavoro, otto macchinari tecnologicamente avanzati, tre stabilimenti produttivi situati all’interno di altrettante sedi penitenziarie”: questo il progetto per la produzione industriale di mascherine protettive realizzato in partnership fra Commissario straordinario di governo per l’emergenza Covid-19 e Ministero della Giustizia. Per carità, un’iniziativa meravigliosa. Peccato però che - come dichiara al nostro giornale lo stesso segretario del Sappe, Emilio Fattorello - “tutti i macchinari prodotti in Cina e destinati alla fabbricazione delle suddette mascherine arriveranno a Napoli solo tra due settimane”. Come cantava Doris Day, Que serà serà”. La produzione - quando appunto sarà - servirà a soddisfare il fabbisogno di dispositivi protettivi in dotazione al personale che opera negli istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale, ai detenuti in base alle indicazioni delle autorità sanitarie e consentirà di mettere a disposizione della Protezione Civile l’abbondante parte residua per essere distribuita alle altre amministrazioni impegnate a fronteggiare l’emergenza sanitaria, prime fra tutte le strutture ospedaliere. Toscana. Il diritto alla distanza di sicurezza nelle celle affollate di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 7 aprile 2020 La notizia che nella nostra Regione non ci siano detenuti contagiati dal Covid-19 è sicuramente positiva, ma in altre regioni la situazione non è altrettanto buona. Il virus ha iniziato lentamente a farsi spazio all’interno dei nostri fatiscenti istituti penitenziari, nelle celle piegate al sovraffollamento dove, come ci ricorda Luigi Manconi, l’esecuzione di pena si svolge “nella promiscuità coatta di celle sature di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori”. Non ripercorrerò l’elenco degli appelli fatti per riportare le nostre carceri a un grado di affollamento rispettoso della dignità della persona. Accenno solo che, da Papa Francesco a molti esponenti della magistratura e alla globalità del mondo delle associazioni, la richiesta che perviene è la stessa: passare, nel rispetto delle leggi vigenti, da una concezione emergenziale della normalità carceraria a una dove il diritto alla salute di ciascuno - detenuti, operatori e agenti di polizia penitenziaria - sia centrale, tutelato e rispettato. Non si sta parlando di concedere la libertà a tutti senza distinzioni, come qualcuno dà a intendere per incidere sulla percezione pubblica di sicurezza. Si chiede a chi ha la capacità decisionale di mettere in primo piano la parità di trattamento anche nell’emergenza. Il Dpcm che ha organizzato la nostra vita pubblica e privata attraverso l’ormai famoso distanziamento sociale deve valere anche in carcere, per gli agenti e per i detenuti, che - è bene ricordarlo - sono persone sotto la tutela dello Stato. Si può fare senza scossoni o rivoluzioni, come hanno fatto altri Paesi europei, usando istituti già presenti nel nostro ordinamento. Non si chiede l’amnistia (o l’indulto) per cui occorrerebbe la pienezza della disponibilità parlamentare e maggioranze impossibili, ma di avvalersi delle misure alternative alla carcerazione, come gli arresti domiciliari anche in assenza della disponibilità dei braccialetti elettronici. Si potrebbe poi ricorrere all’istituto della liberazione anticipata speciale e anche, per particolari casi di ristretti in già gravi condizioni e a rischio contagio, ai poteri di grazia del Presidente della Repubblica. I numeri parlano chiaro: i detenuti, a oggi, sono 58.592 e gli agenti circa 45.000. Cifre che portano a considerare il Pianeta Carcere come un luogo esplosivo, all’interno del quale il rapporto tra vita e morte sfugge alla razionalità. Dopo le gravi rivolte di un mese fa i detenuti ora hanno saputo convertire la propria detenzione sofferta in appelli, raccolte fondi per gli ospedali e produzione di mascherine. In carcere la paura è sempre vicina a sconfinare nel panico, e la solidarietà è parte integrante del nostro vivere sociale. L’emergenza virus non riguarda solo noi, cittadini liberi confinati in casa con i nostri dubbi interpretativi su quando uscire per l’ora di aria, se con i bambini o meno. È un momento molto particolare, il distanziamento sociale è sicurezza, la normalità probabilmente ancora lontana. Siamo abituati ad ascoltare appelli per tutti, a ripetere la frase “Nessuno rimarrà indietro”. Ebbene, se quella frase ha un significato, anche morale per una nuova coesione sociale, per un futuro diverso dal passato e dall’emergenza, non possiamo e non dobbiamo dimenticare la richiesta che viene dal carcere. Proprio da quel luogo dell’emergenza cronica può ripartire quella carica di umanità utile a trasformare la passività sofferta dal mondo libero in prassi virtuosa di adesione al significato più profondo del nostro vivere civile: la solidarietà. *Associazione Progetto Firenze Sicilia. “Il carcere è una polveriera. E se si ammalassero tutti?” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 7 aprile 2020 Parla Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. Una marcia virtuale a Pasqua. Papa Francesco lo ha ripetuto chiaro e tondo: “Penso a un problema grave che c’è in parecchie parti del mondo. Io vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento delle carceri. Dove c’è sovraffollamento, tanta gente lì, c’è il pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, coloro che devono prendere le decisioni, perché trovino la strada giusta e creativa per risolvere il problema”. Ma da questo orecchio quasi nessuno ci sente. Il carcere, purtroppo, è un non-luogo della società, lontano da tutto e da tutti, come se al suo interno non ci fossero persone, ma fantasmi. Eppure, c’è chi, come Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, combatte la sua battaglia anche contro i mulini a vento. “Il problema è molto serio - dice Apprendi - pur apprezzando lo sforzo dei magistrati di sorveglianza, dei direttori e del personale, dobbiamo gridarlo che il carcere sovraffollato è una polveriera. Lo è sempre, ma ancora di più al tempo del Coronavirus, quando il contagio è così pervasivo. Perfino prescindendo, e il mio è solo un paradosso, dalle ragioni umanitarie, immaginiamo il costo sociale? Se detenuti e agenti penitenziari si ammalassero, pensiamo al carico sugli ospedali e sulle terapie intensive?”. “Le cose che devono essere fatte, si facciano in fretta. E si compia uno screening sanitario su tutta la popolazione carceraria, per vedere chi sta davvero male e deve andare a casa, ai domiciliari. Ma dobbiamo agire subito”. Aggiunge, in una nota, Alberto Mangano, componente della presidenza del comitato Esistono i Diritti: “Il 12 aprile ricorre la Pasqua Cristiana, la resurrezione di Gesù, una rinascita. Il 12 aprile può essere il giorno per un’altra rinascita, quella della dignità di tutti gli essere umani. Il 12 aprile è indetta una marcia di Pasqua per l’amnistia che possa rendere più umane le condizioni di chi è privato della libertà e anche di coloro che devono controllarli. La marcia sarà ovviamente virtuale e verrà rappresentata dalle migliaia di adesioni e dalle interviste che Radio Radicale avrà cura di trasmettere. Il comitato “Esistono i diritti” da oltre un anno sta conducendo una battaglia a Palermo per la nomina del garante comunale per i diritti delle persone detenute”. Aversa (Ce). Detenuto si impicca in cella, sarebbe uscito a novembre cronacacaserta.it, 7 aprile 2020 Un detenuto romeno di 32 anni, Emil V. si è impiccato all’alba di ieri nel carcere di Aversa. Lo rende noto Samuele Ciambriello, Garante in Campania delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “In questo tempo così disperato e così intenso - sottolinea - si continua a morire di carcere e in carcere”. “Emil - fa sapere ancora Ciambriello - era detenuto per rapina e sarebbe uscito a novembre. Non faceva colloqui, non aveva mai avuto sanzioni disciplinari. Gli altri suoi quattro compagni di cella non si sono accorti del suo gesto disperato. Sebbene il fenomeno dei suicidi in carcere sia in diminuzione - spiega il Garante dei detenuti - e aumentano i casi di autolesionismo, il suicidio di una persona privata della libertà, in particolare, costituisce, da un lato, il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. E la politica e l’opinione pubblica vivono l’indifferenza”. Per Ciambriello, “la questione penale è seria e per essere concretamente valutata necessità di verità, trasparenza, e di una riconsiderazione complessiva e l’autolesionismo e in casi estremi il suicidio, rappresentano l’ultima residuale forma di reclamo, di richiesta di attenzioni da parte di un universo di disperati che, nella gran parte dei casi, non possiede molte altre alternative per far sentire la propria presenza”. “Il carcere di Aversa - aggiunge il garante - in questi giorni aveva attirato la mia attenzione, positivamente, per i provvedimenti fatti dal magistrato di sorveglianza per la detenzione domiciliare in seguito al decreto 123, erano usciti 8 detenuti, altri 12 aspettano i fantomatici braccialetti e nove relazioni sanitarie sono in attesa delle decisioni del Magistrato. Il carcere è una lente particolare attraverso cui guardare la nostra società e, per tale ragione, chiedersi anche che fare dopo le restrizioni dei contatti con l’esterno causa corona virus non riguarda soltanto la vita dei detenuti, ma quella degli agenti di polizia penitenziaria, dell’area educativa, delle direzioni delle carceri e degli operatori socio sanitari”, conclude Samuele Ciambriello. Napoli. Secondigliano, task force dopo la rivolta: nasce il padiglione Covid-19 di Luigi Nicolosi stylo24.it, 7 aprile 2020 Emergenza carceri, ispezione dei garanti Ioia e Ciambriello: “Nessun caso conclamato, basta allarmismi e aspettiamo i tamponi”. Dopo l’ondata di proteste consumatasi nella giornata di ieri, scoppia la tregua nelle carceri napoletane. La pax rischia però di essere di cristallo. All’indomani della notizia - rivelatasi subito destituita di qualsiasi fondamento - di due presunti casi di positività al Coronavirus all’interno del penitenziario di Secondigliano, questa mattina i garanti dei detenuti Ciambriello e Ioia si sono precipitati nella casa di reclusione per effettuare un’ispezione urgente: “Prima di dare falsi allarmi aspettiamo i risultati del tampone”, è stato il loro primo commento a caldo. Il Garante comunale dei detenuti, Pietro Ioia, e il garante regionale, Samuele Ciambriello, si sono recati presso l’istituto penitenziario di Secondigliano in seguito alla diffusione della notizia di un presunto caso di Coronavirus all’interno della struttura. Il detenuto, un uomo di mezza età ristretto nel reparto “S2”, ha accusato nella giornata di domenica brividi e febbre, sintomi che hanno portato la direzione sanitaria a disporne l’isolamento precauzionale e per il suo compagno di cella. Questa mattina il detenuto e il suo compagno sono stati sottoposti dagli operatori dell’Asl al test del tampone, i cui risultati saranno noti nelle prossime ore. I due garanti si uniscono nel biasimare quella parte della stampa locale che nei giorni scorsi ha fomentato la paura comunicando informazioni assolutamente false a proposito della situazione sanitaria all’interno della struttura carceraria. Da quanto emerso dal colloquio avuto con le due vice direttrici, le dottoresse Nannola e Masi, da Secondigliano, che conta al momento circa 1.200 reclusi, sono usciti 160 detenuti semiliberi, ai quali la Sorveglianza ha concesso la licenza fino a maggio. Con rammarico i garanti riportano che solo poche decine di detenuti avranno la possibilità di beneficiare della detenzione domiciliare prevista dal decreto legge “Cura Italia”, misura “evidentemente insufficiente ai fini della riduzione del sovraffollamento in questo periodo di emergenza sanitaria. È di fondamentale importanza - affermano Ioia e Ciambriello - comunicare all’esterno che gli operatori tutti, e in maniera particolare la direttrice Giulia Russo, sono impegnati in maniera continuativa per implementare i protocolli Asl e per monitorare al meglio la situazione. Anche a Secondigliano è stata allestita una tenda dedicata alle operazioni di triage per i nuovi giunti e la direzione ha provveduto a riconvertire il padiglione dei detenuti semiliberi (i quali al momento si trovano presso le proprie abitazioni) in padiglione Covid-19 per ospitare eventuali futuri casi di contagio accertati. L’istituto ha poi avviato un virtuoso progetto sartoriale volto alla produzione di mascherine in tessuto destinate in questa prima fase agli operatori nonché ai detenuti lavoranti”. La task force è già partita. L’imperativo è quello di scongiurare eventuali nuove rivolte e soprattutto eventuali emergenze sanitarie. Parma. “Oltre 100 detenuti ultra 65enni, questo carcere è come una Rsa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2020 Parla il Garante, Roberto Cavalieri. Bisogna decongestionare le carceri per evitare che l’epidemia possa esplodere e non essere più gestita. Diversi sono i casi di contagio all’interno dei penitenziari che coinvolgono i detenuti, gli agenti penitenziari e il personale sanitario. Si lamenta da più parti - soprattutto dai sindacati di categoria - la mancata effettuazione di tamponi faringei a tutto il personale che, a vario titolo, accede negli Istituti. Purtroppo già sono due gli agenti penitenziari morti ai quali si aggiunge il detenuto del carcere di Bologna che aveva 76 anni e tante patologie: per lui il coronavirus è stato fatale. La situazione nel carcere di Parma, tra gli altri, è complicatissima, proprio per la presenza di un numero enorme di detenuti anziani e con patologie anche gravi. Ad oggi si registrano almeno 6 agenti affetti dal Covid-19 (uno è ricoverato), oltre al fatto che una intera sezione è stata messa in quarantena per via di un detenuto - poi risultato negativo - che presentava sintomi riconducibili al virus. Ma di questo e altro ancora ne parliamo con Roberto Cavalieri, il garante dei diritti dei detenuti di Parma. Lei è preoccupato della gestione dell’emergenza al carcere di Parma? Parma è una delle città al centro della emergenza. Al momento abbiamo avuto 610 casi di persone positive solo a Parma e 400 decessi tra città e provincia, come non essere preoccupato? È tutto chiuso da molti giorni e in strada non circola praticamente nessuno. Alla periferia nord si trova il carcere con 650 detenuti e 350 uomini e donne della polizia penitenziaria, ai quali si aggiunge il personale dell’amministrazione penitenziaria e quello medico e infermieristico dell’Ausl di Parma. Facendo i conti si arriva a 1.000 persone. La preoccupazione è quindi motivata. Il contagio in carcere si è già manifestato, per ora solo tra il personale di Polizia. Ma il carcere di Parma è da equiparare a un centro residenziale per anziani se si conta che sono presenti oltre 100 detenuti ultra sessantacinquenni e che nel reparto 41bis l’età media è di 63 anni. Quello che stupisce è che l’amministrazione penitenziaria sembra pensare che il carcere viva sotto una campana di vetro, isolata ed impermeabile. La Direzione ha gestito l’emergenza con i mezzi che aveva e ha ovvero pochi. Le risulta che c’è un ritardo nell’effettuare i tamponi al personale penitenziario? La questione dei tamponi è, purtroppo, fondamentale, ma c’è da considerare che le autorità sanitarie sono in difficoltà per l’ampiezza del contagio e che i protocolli attivati devono fare i conti con i mezzi esistenti. Prima del tampone però avrei preferito vedere l’attivazione di strategie deflattive certo più convincenti, avrei preferito sapere con la magistratura di sorveglianza aprisse un tavolo di confronto continuo con il carcere e gli avvocati per accelerare le pratiche si accesso all’esterno che il Decreto concede, ma anche qui la velocità con la quale si prendono decisioni è decisamente lenta. Un mese fa ho avuto modo di dire che per l’emergenza Covid 19 in carcere i magistrati avrebbero dovuto lavorare come medici e infermieri senza pausa e in un clima di assoluta emergenza ma così non è stato e credo che non sarà. Sono in arrivo nel frattempo circa cento detenuti del carcere di Bologna. La Ausl locale è d’accordo? Guardi mentre a Parma ogni sera si contavano i numeri dei morti e dei contagiati, le strade i svuotavano e la paura cresceva i trasferimenti di detenuti e di persone arrestate verso il carcere non ha avuto sosta. A Piacenza c’era il finimondo? Le persone arrestate venivano condotte nel carcere di Parma. A Modena, Reggio Emilia e Bologna ci sono rivolte? I detenuti, e tra loro i promotori delle rivolte, trasferiti a Parma. Ne sono arrivati una ventina di detenuti. Ora il Provveditorato e il Dap da due settimane assieme spingono per trasferire prima 100, ora invece 50 detenuti a Parma ai quali assicurare l’assistenza sanitaria con medici e infermieri dell’esercito. La locale Ausl si è prima opposta, poi ha assicurato un sostegno parziale e temporaneo. L’obiettivo del Dap è quello di aprire il nuovo padiglione. Una idea assurda se si pensa che quel padiglione potrebbe essere utilizzato per le quarantene o per mettere i detenuti contagiati e in difficoltà. Insomma i detenuti pare che debbano essere solo incarcerati a prescindere dai servizi che si possono assicurare e dal fatto che si possano portare persone in un’area ed in un carcere già fortemente pressato dal problema del Covid-19. Ma attualmente quante persone infette ci sono? Cosa chiede alle istituzioni per evitare che il contagio si diffonda? Recentemente una intera sezione è stata messa in quarantena perché un detenuto manifestava i sintomi del contagio. Questo detenuto e un altro sono risultati poi negativi. Pertanto per ora nessun detenuto risulterebbe positivo mentre tra gli agenti si parla di 6 casi, dei quali uno ricoverato. Sarebbe necessario comprendere rapidamente come il Dap intenda procedere e quali sono i protocolli di assistenza sanitaria per i detenuti del 41 bis. Dobbiamo aspettarci il piantonamento di 41 bis in un ospedale pieno e con il divieto di accesso se non a personale sanitario? Oppure cosa si pensa di fare per quelli anziani che sono tanti? Ho chiesto che gli agenti in servizio presso le sezioni con persone vulnerabili siano sempre le stesse e che siano accasermate (come si fa con il personale di sanitario negli ospedali) in modo da limitare le possibilità di diffusione del contagio. Ci sono fortunatamente alcuni aspetti positivi come le telefonate incrementate, oppure l’autorizzazione ricevuta dalla Direzione che ha concesso ai detenuti stranieri di chiamare un servizio di mediazione interculturale del comune di Parma per avere assistenza. Buona pratica che l’assessore al Welfare dell’Emilia Romagna Elly Schlein ha voluto diffondere in accordo con il Prap anche alle altre carceri della regione. La distanza da recuperare però è ancora molta. Brescia. Coronavirus, morto il medico delle carceri Canton Mombello e Verziano quibrescia.it, 7 aprile 2020 Salvatore Ingiulla, 60 anni, è morto ieri pomeriggio all’ospedale Civile. Aveva contratto il virus a metà marzo. Sul fronte dei medici rimasti contagiati dal coronavirus, tra le nuove vittime bresciane c’è anche Salvatore Ingiulla, di 60 anni, che era operativo tra le carceri di Canton Mombello e Verziano, in città. Il camice bianco era risultato positivo al Covid-19 ed era stato ricoverato all’ospedale Civile di Brescia dove ieri, lunedì 6 aprile, è purtroppo deceduto. Il medico, originario di Catania, era molto conosciuto e stimato nel territorio bresciano e per lui l’Ats aveva dato l’incarico di seguire i pazienti anche in diversi paesi della bassa bresciana tra Azzano Mella, Borgosatollo, Capriano del Colle, Castenedolo, Flero e Montirone. Sembra che fosse stato infettato dal virus alla metà di marzo e da circa due settimane era ricoverato nel massimo ospedale cittadino. Dalle due carceri bresciane dove il medico operava fanno però sapere che la situazione è tranquilla e non ci sono casi positivi, anche perché da un mese il professionista non entrava nei due istituti di pena. Tuttavia, da più parti si chiede di sfoltire la presenza di detenuti per evitare un dramma che sarebbe di proporzioni devastanti se il contagio raggiungesse anche chi si trova dietro le sbarre e in pochi metri quadrati. E infatti pare che una trentina di carcerati, in procinto di uscire nei prossimi mesi dopo aver scontato la pena, abbiano ottenuto i domiciliari. E intanto con Salvatore Ingiulla salgono a 89 i medici deceduti in Italia dopo essere stati contagiati dal coronavirus, anche mentre erano in prima linea in corsia. Si aggiunge ad altri due bresciani, medici di famiglia, come Massimo Bosio 68enne di Orzinuovi e Gino Fasoli di Cazzago San Martino morti nelle ultime settimane. Solo in Lombardia sono 4.183 i componenti del personale medico, infermieristico e sanitario che sono malati, di cui 448 per l’Asst Spedali Civili di Brescia. Alessandria. Notte di protesta nel carcere don Soria di Monica Gasparini ilpiccolo.net, 7 aprile 2020 Urla e rumore: la reazione dei detenuti fa intervenire la Penitenziaria. La calma è durata poco nelle carceri alessandrine. Ieri sera, verso mezzanotte, e per almeno un’ora, in piazza don Soria ad Alessandria si sono sentite urla e rumori che arrivavano dall’interno del carcere. I detenuti hanno ricominciato a protestare, picchiando qualunque oggetto avessero a disposizione contro le inferiate. Quel che è certo, è che è la seconda volta in un mese che all’interno della casa circondariale la Polizia Penitenziaria deve fronteggiare un inizio di rivolta. Alcune settimane fa, la stessa protesta aveva interessato anche il carcere di San Michele, dove i detenuti avevano letteralmente distrutto due sezioni. Trento. Nel carcere di Spini di Gardolo trovati due detenuti positivi al coronavirus lavocedeltrentino.it, 7 aprile 2020 Purtroppo il devastante virus che sta mettendo a dura prova il sistema sanitario italiano è entrato anche nel carcere di Spini di Gardolo. Le visite ai detenuti erano state sospese verso la fine di febbraio dopo lo scoppio del primo grosso focolaio di Lodi. Da allora le visite sono fatte solo in videochiamata. Ieri è arrivata la brutta notizia di due detenuti trovati positivi al coronavirus. La struttura è subito stata messa in quarantena e i sanitari hanno cominciato a fare dei tamponi a tutti, agenti penitenziari compresi. Tutti i detenuti sono isolati nelle celle, mentre di due contagiati sono in infermeria. Una delle ipotesi è che il contagio sia stato portato all’interno del carcere da alcuni detenuti che sono stati trasferiti nel carcere di Spini perché responsabili delle rivolte avvenute in tutta Italia. Appare però strano visto che quando entra qualche nuovo detenuto viene messo in quarantena. I sanitari del carcere stanno cercando di risalire al momento del possibile contagio dei due detenuti indagando sugli incontri avuti dentro il carcere con altre persone. In carcere ora la situazione diventa veramente esplosiva perché le celle sono chiuse dalle 18.30 alle 7.30 del mattino, per cui il contagio può essersi allargato a molte altre persone. Gli agenti penitenziari sono stati muniti di mascherine e guanti. Il primo di aprile durante le ultime video conferenze tra detenuti e parenti nessuno aveva ne mascherine ne guanti. Ora visto il sovraffollamento delle carceri la situazione non è rosea. Trani (Bat). Sovraffollamento e mancati colloqui: sciopero della fame dei detenuti Giornale di Trani, 7 aprile 2020 Dalla protesta, alla solidarietà, alla nuova protesta. Questa volta, però, nessuna intemperanza, né ascese sul tetto, quanto piuttosto rifiuto del vitto da parte di tutti. Ieri, lunedì 6 aprile, è cominciato lo sciopero della fame dei 315 detenuti del carcere maschile di Trani: motivo, l’impossibilità di avere colloqui con i parenti a causa delle norme emanate dal decreto del presidente del Consiglio dei Ministri. Inoltre, il taglio dei permessi e, non ultimo, il sovraffollamento con anche più di sette detenuti insieme in cella, in condizioni di igiene definite gravissime e senza mascherine e prodotti disinfettanti. Le motivazioni sono apparse sul profilo social del figlio di un detenuto e, da fonti vicine alla Polizia penitenziaria, si è avuta la conferma che il rifiuto del vitto è iniziato e procederà regolarmente. Ad oggi la protesta è limitata soltanto allo sciopero della fame, mentre non ci sono scuotimenti di oggetti sulle sbarre, né altri episodi di natura diversa. E così, a distanza di un mese dall’inizio dell’emergenza sanitaria, il carcere di Trani torna nuovamente al centro dell’attenzione dopo che, all’inizio di marzo, si era scatenata anche lì la rivolta per gli stessi motivi. In particolare fra domenica 8 e lunedì 9 marzo, i detenuti fecero vibrare la protesta distruggendo oggetti e, alcuni di loro, salendo sul tetto nell’attesa di ottenere un minimo di ascolto rispetto ai loro problemi. A Trani da protesta rientrò senza le gravissime conseguenze di altre carceri come Foggia, ma si aveva la sensazione che la polvere sarebbe stata semplicemente riposta sotto il tappeto. Peraltro, nei giorni scorsi gli stessi detenuti si erano anche creati un credito non di poco conto, mettendo mano ai loro risparmi e raccogliendo 731 euro da donare in favore della Protezione civile: un gesto che tutti hanno molto apprezzato, ma che evidentemente adesso si vuole fare pesare in eventuali trattative. Di certo non sarà facile trovare a Trani soluzioni diverse da quelle che sono scritte nelle regole disposte a livello nazionale, ma la casa di reclusione maschile di Trani almeno ha mostrato, durante questa emergenza sanitaria, di avere due parti quanto meno disposte l’una ad ascoltare l’altra e non certo allo scontro: per il momento la polizia penitenziaria si limita a controllare la situazione e la direzione carceraria a non intervenire nell’attesa di eventuali sviluppi. Roma. “Il carcere di Rebibbia affollato, detenuti preoccupati per rischio contagio” Il Messaggero, 7 aprile 2020 Il vicepresidente consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Emanuele Cangemi, ha scritto una lettera al presidente della Repubblica, ai presidenti di Camera e Senato, al premier Conte e al ministro Bonafede per chiedere di affrontare la questione delle carceri e delle preoccupazioni dei detenuti per l’emergenza coronavirus. In particolare il vicepresidente si riferisce alle problematiche del penitenziario Rebibbia Nuovo Complesso. Dai detenuti di quel carcere Cangemi ha ricevuto una lettera in cui vengono espresse serie preoccupazioni. Il vicepresidente ha incontrato una delegazione di carcerati alla presenza del direttore Rosella Santoro e del Comandante della Polizia Penitenziaria dell’Istituto, Luigi Ardini. Ha partecipato alla riunione anche il professor Aldo Morrone, infettivologo e direttore scientifico dell’Ifo San Gallicano di Roma. La lettera. “Nel corso dell’incontro sono emerse una serie di problematiche che mi è stato chiesto di portare all’attenzione delle massime cariche dello Stato e del Governo. In primo luogo il sovraffollamento, principale ragione di preoccupazione dei detenuti, poiché impedisce di mantenere quel distanziamento sociale necessario a contrastare la diffusione del Covid-19. I detenuti temono che la contiguità nelle celle possa favorire i contagi qualora il coronavirus dovesse fare il suo ingresso in carcere. I fatti di Bologna hanno determinato un ulteriore stato di allarme nonostante la Direzione abbia attivato, con buoni risultati, una serie di misure preventive per scongiurare che i nuovi giunti possano portare contagi all’interno della struttura. Preoccupazione che investe anche i vertici dell’Istituto in quanto una eventuale diminuzione degli agenti di sorveglianza, a causa di contagi e isolamenti da quarantena, rappresenterebbe una seria difficoltà nella gestione dei detenuti”. Misure alternative. Altra questione emersa riguarda l’applicazione delle misure alternative al carcere e della liberazione anticipata da parte dei Tribunali di Sorveglianza. “Nel corso dell’incontro è stata più volte sottolineata l’opportunità di concedere la detenzione domiciliare a quanti sono a pochi mesi dal fine pena tenendo conto delle relazioni comportamentali dell’Istituto. Ultima, ma non meno importante, l’informazione in carcere. Sono state rivolte molte domande all’infettivologo presente sulle modalità di contagio, sulle norme igieniche corrette, sulla veridicità o meno delle informazioni che acquisiscono attraverso la televisione. A tale riguardo sarebbe opportuno incentivare una maggiore divulgazione di informazione scientifica. Sarebbe davvero importante far arrivare un segnale di attenzione umana, prima che politica, da parte dello Stato. Uno Stato che, in un momento tanto difficile, non dimentica nessuno dei suoi figli e si prende cura, con la stessa dedizione, anche chi ha sbagliato e sta pagando il suo prezzo. Confidando che le sollecitazioni manifestatemi possano trovare adeguata soluzione”. Torino. Accorato appello dei detenuti: “aiutateci o sarà lazzaretto” pressenza.com, 7 aprile 2020 Questo è il disperato appello e richiesta di aiuto che gli ospiti della palazzina dei semiliberi del carcere di Torino, oggi occupata da soggetti in articolo 21 per lavoro esterno, lanciano a tutti gli amministratori e tutori della salute e della vita altrui. Viviamo in un ambiente di circa 100 metri quadrati suddiviso in più camere per un totale di 45 persone, 2 servizi igienici per tutti e al pian terreno di questa struttura ci sono anche delle mamme con dei bambini innocenti che continuano ad essere rinchiusi. Alle nostre, critiche e disperate, condizioni assistono anche gli operatori della polizia penitenziaria, vittime anch’essi del totale menefreghismo istituzionale onnipresente e oggi ancor più irritante. Siamo da giorni isolati a causa dell’accertamento della contaminazione da virus di un soggetto tra noi. Non veniamo visti da nessuno e nessuno ne parla per voler nascondere la realtà di un lazzaretto che lascerà alle spalle morti preannunciate, e forse volute, nella più totale indifferenza. Pandemia, terza guerra mondiale, #state a casa, #ce la faremo: giuste considerazioni del momento che attraversiamo, ma fatte solo esclusivamente per tirare acqua al proprio mulino. Allo stato attuale nella nostra palazzina permangono i semiliberi che si son visti rigettare richiesta di licenza premio come previsto e disposto dal Dpcm (scritto con l’apparente obbiettivo di sfollare le carceri). A testimonianza di una non volontà di assicurare, in un momento di così altamente critico e rischioso, la tutela della salute e della vita. Non privilegiano coscienza, sentimenti umanitari e ragionevolezza, termine quest’ultimo spesso adoperato in sede di formulazione delle sentenze di condanna quando si presentano non poche incertezze e lati oscuri. Poltrona, autorità e potere è ciò che sovrasta ogni cosa compresa la vita. Eppure Cesare Beccaria già nel lontano 1700 lottava contro la pena di morte e contro la tortura che a secoli di distanza trova diversa applicazione nelle condizioni psicofisiche che viviamo: massacranti ed insopportabili. Pure l’OMS, l’ISS e la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri consigliano, obbligano, sanzionano, per effetto di direttive salvavita paradossalmente escluse e nascoste all’interno delle carceri, bombe ad orologeria che coinvolgono figli, mogli, madri, fratelli angosciati dal cattivo e sempre più incerto futuro che ci aspetta. Ma dove sono finiti i diritti umani riconosciuti e sanciti nelle costituzioni di società e paesi che ancora oggi hanno il coraggio di auto-dichiararsi civili, industrializzati, sviluppati e anche democratici? Il razionale è fortemente discriminante! Oggi purtroppo si registra il primo detenuto morto per Covid-19, o forse il primo che hanno avuto il coraggio di rendere pubblico dopo tanti silenziosi casi. La situazione può precipitare in tutto il paese se dal carcere vengono a svilupparsi i cosiddetti contagi di ritorno. E allora perché non prevenire questa ecatombe attraverso provvedimenti pro tempore? Almeno fino al perdurare dell’emergenza sanitaria, magari attraverso l’ampliamento dell’applicazione dell’articolo 124 del decreto legge 18/2020 nei confronti di coloro che abbiano già dato prova di buona condotta, nei confronti di chi gode di permesso premio, con obbligo di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza. Il nemico attuale è invisibile, imprevedibile e silenzioso per tutti ma letale per qualcuno. Chi, potendo farlo, non interviene oggi, sarà suo complice in responsabilità soggettive e oggettive di esiti criminali contro la salute e contro la vita. Aiuto è ciò che chiediamo, aiuto è ciò che ci dovete. Già è troppo tardi… fate presto. I detenuti reclusi e isolati nella palazzina dei semiliberi del carcere di Torino Massa. Ferri (Iv): “La lettera scritta dai detenuti, un bel gesto che fa riflettere” La Nazione, 7 aprile 2020 L’intervento del parlamentare di Italia Viva. Una lettera scritta dai detenuti del carcere di Massa “che deve far riflettere in un momento difficile, complicato ed incerto per tutti”: lo pensa l’onorevole Cosimo Maria Ferri della missiva inviata dagli ospiti del carcere alla nostra redazione e pubblicata nei giorni scorsi, nella quale i detenuti si dicevano “consapevoli della necessità di accettare le restrizioni decise per le carceri, per il bene di tutti”. “Il messaggio è forte, rigoroso, equilibrato e molto umano. Un significato importante perché proviene da chi può aver sbagliato, o ha sbagliato, da chi si trova ristretto per aver commesso reati o che è in attesa di giudizio ma che pensa a chi si trova all’esterno, non solo ai propri famigliari ma a tutti, ed a trasmettere un messaggio di speranza per un domani che ci sarà ma che passa necessariamente da sacrifici, restrizioni da rispettare, solidarietà, comuni sentimenti. Anche i detenuti - scrive il parlamentare - stanno rinunciando ad alcuni diritti come quello dei colloqui con i propri famigliari che solo chi conosce in profondità il sistema carcerario sa quanto siano importanti. In queste settimane abbiamo parlato molto di emergenza sanitaria delle carceri: abbiamo assistito ad aggressioni, evasioni, danneggiamenti, fatti gravissimi che devono essere respinti e puniti. Il carcere di Massa ci regala invece una pagina diversa di rispetto e di responsabilità e una voglia di ripartire seguendo un percorso di cambiamento. La struttura ha cambiato anche la propria attività produttiva e, come già abbiamo raccontato, sta realizzando mascherine chirurgiche. Un altro bel segnale! Desidero quindi ringraziare i detenuti per questa bellissima lettera, per la sensibilità che hanno avuto nel regalare questi pensieri a tutti noi; ma voglio anche ringraziare la direttrice, il personale della Polizia Penitenziaria, gli educatori, gli impiegati, i volontari e tutte le figure che ruotano all’interno perché con sacrificio, passione, serietà, professionalità consentono di scrivere queste pagine di valore. Il carcere è complesso ma c’è tanta umanità. Quando tutto funziona si garantisce sicurezza all’interno ma anche all’esterno, perché, scontata la pena, chi esce sarà diverso”. Roma. La figlia di un detenuto: “mio padre è dentro Rebibbia e non so come stia” di Chiara Formica 2duerighe.com, 7 aprile 2020 Contagi in carcere. La figlia di un detenuto: “mio padre è là dentro e non so come sta”. Annalisa è la figlia di un uomo detenuto nel reparto di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia. È una studentessa, una ragazza come tante altre con la sua storia. In lei c’è il fervore strozzato di chi sa amare profondamente senza poter fare nulla per chi ama. Il dramma di avere un padre detenuto in carcere nel pieno dell’emergenza coronavirus lo si comprende non tanto dalle parole, ma dalla voce tremante e resiliente di una figlia che ha paura. Con Annalisa volevamo far capire che un padre ed una figlia rimangono tali in qualunque circostanza, che mai si smette di lottare per il diritto alla vita di chi si ama. Abbiamo parlato dell’inadeguatezza delle misure predisposte dal Decreto Cura Italia per fronteggiare l’emergenza covid-19 in carcere e soprattutto della decisione di escludere a priori dalla detenzione domiciliare le persone detenute per reati ostativi. Chi sono i detenuti ostativi? Sono le persone che scontano una condanna secondo l’articolo 4 bis, ovvero coloro che nella maggior parte dei casi vivono la loro reclusione in reparti distinti dell’Alta Sicurezza, avendo commesso reati concernenti associazione mafiosa, narcotraffico o terrorismo. Ma ogni storia è a sé, come quella del padre di Annalisa. Quando è iniziata la detenzione di tuo padre? E per quanto altro tempo dovrà rimanere in carcere? Mio padre è detenuto dal 2013, mancano meno di 4 anni alla fine della sua condanna. Tra l’altro è recluso per un reato di 20 anni fa. La situazione di mio padre è particolare perché il suo non è un reato ostativo, quindi non dovrebbe neanche stare nel reparto di Alta Sicurezza. Nella sentenza di appello è caduto l’articolo 4 bis e a quel punto abbiamo fatto richiesta dei domiciliari, ma - come si dice in gergo - in Cassazione è andato definitivo e a quel punto, nel 2017 è stato portato a Rebibbia. Proprio i giorni delle rivolte (6, 7, 8 e 9 marzo) sono stati i suoi primi giorni di permesso per uscire. Ha 63 anni e tra l’altro soffre di una patologia da ipertensione arteriosa, con l’avvocato stiamo cercando di richiedere un differimento di pena. Pensa che il 9 marzo abbiamo dovuto riportarlo a Rebibbia, proprio nella fase clou della rivolta. Sono stati sospesi i colloqui, qual è ora l’organizzazione nel reparto di Alta Sicurezza a Rebibbia per consentire la comunicazione con i propri cari? Abbiamo la videochiamata ogni mercoledì e ci sentiamo tramite mail. Anche la polizia penitenziaria di Rebibbia in questo momento sta facendo il possibile: gli agenti hanno famiglia e quindi capiscono la situazione, tante volte magari ci concedono quei 5-10 minuti in più di videochiamata che non guastano. Ma in generale la situazione è assurda perché sembra che nessuno sappia niente: i detenuti sembrano essere invisibili. Solo ultimamente qualcuno sta iniziando a parlare, come nel caso di Giuseppe Cascini, membro del Csm, che sembra essere dalla nostra parte. L’unica cosa che ha fatto il governo è stata prendere la legge 199, già esistente, e fingere di averla introdotta ora. Di conseguenza i detenuti che possono uscire sono pochissimi, perché la maggior parte di loro ha già usufruito di questa legge. Senza considerare che a causa dell’obbligo dei braccialetti elettronici non è uscito quasi nessuno. Lo stesso Cascini ha definito insufficienti le misure prese e inutili i braccialetti elettronici dal momento che le città sono ben presidiate e nessuno può uscire. Che tu sappia, qual è adesso lo stile di vita a cui sono sottoposte le persone detenute in Alta Sicurezza? Beh, intanto non hanno contatti con nessuno, né con i volontari, né con le persone esterne tanto meno con la famiglia. In più la paura di poter contrarre il virus. C’è da precisare che il reparto di Alta Sicurezza di Rebibbia non ha preso parte alle rivolte, nessuno di loro. Per giunta mio padre in quei giorni era in permesso fuori dal carcere. Quindi trovo anche ingiusto che proprio loro, considerati sempre i più pericolosi, debbano pagare lo scotto di queste rivolte. Premettendo però che è anche comprensibile perché gli altri detenuti abbiano voluto fare queste rivolte: vogliono essere ascolti, era un modo per essere ascoltati. Le rivolte sono nate da un grido di dolore e di speranza. Per quanto riguarda gli uomini dell’Alta Sicurezza posso dire che alle spalle hanno tantissimi anni di galera. Molti di loro stanno facendo un percorso straordinario, alcuni sono entrati senza il diploma di scuola elementare e ora hanno lauree magistrali di ogni tipo. Eppure il loro percorso rieducativo non viene affatto riconosciuto e non godono di alcuna possibilità, come quella dei permessi premio. Se non sbaglio su circa 60mila detenuti, più o meno 6mila hanno partecipato alle rivolte e sono tutti detenuti ai reparti comuni, nonostante questo si è avuto il coraggio di scrivere che dietro le rivolte c’è stata un’organizzazione mafiosa. L’opinione pubblica ha una visione distorta dei detenuti. Non sono considerati uomini, ma quasi come una sottospecie del genere umano... Sì, l’opinione pubblica ne ha una visione esclusivamente negativa, ma i detenuti non sono animali, sono persone. Solo se ci sei passata o solo se lavori a contatto con loro capisci che è così. Ed è assurdo che questo avvenga in una società democratica e moderna come la nostra. Anche in questa situazione ci sono persone che parlano di svuota-carceri mascherato, quando in realtà sono uscite veramente poche persone. Non credi che il retaggio culturale del nostro Paese, in cui la mafia è diventata quasi uno stereotipo, impedisca alle persone cosiddette libere di accettare che vengano applicati gli arresti domiciliari a chi sconta una condanna per reati inerenti all’associazione mafiosa? Ribadisco che il reato di mio padre non è ostativo, ma in ogni caso le persone dell’Alta Sicurezza sono le meno soggette al rischio di recidiva: nella gran parte dei casi parliamo di uomini che entrano in carcere all’età di 20 anni e quando ne hanno 50 sono ancora lì, senza aver mai goduto di un briciolo di beneficio. Questa è una grande contraddizione perché non viene considerata la singola persona. C’è chi studia, chi fa attività di teatro, chi scrive libri. Lo ripetiamo: il Decreto Cura Italia prevede che possano accedere agli arresti domiciliari i detenuti che hanno una pena residua di massimo 18 mesi, ma sono esclusi i detenuti per reati ostativi. Cosa significa essere figlia di un uomo che non ha lo stesso diritto alla salute degli altri padri di famiglia fuori dal carcere? Noi familiari non dormiamo. La mia è un’ansia perenne. Poi mio padre ha 63 anni e soffre di una patologia che tiene sotto controllo con i farmaci ma ho sempre l’ansia che possa venirgli un infarto o qualsiasi cosa e sappiamo bene che la sanità nelle carceri è pessima. Se lui dovesse contrarre il virus, sia per la patologia di cui soffre sia per l’età che ha, c’è un’alta probabilità che possa andare in terapia intensiva. Se già fuori viviamo una realtà in cui non si riesce ad avere posti sufficienti per la terapia intensiva, figurati per i detenuti. Se si ammalano loro come si fa? Dal 2013, anno in cui è iniziata la detenzione di tuo padre, ad oggi vi è mai capitato di vivere una situazione - per quanto diversa da questa - simile per complessità e stati d’animo? Con mio padre ho un rapporto viscerale, quindi questo tutti i giorni. Avere un padre chiuso in carcere significa effettivamente non sapere come sta. Soltanto quando lo senti o quando lo vedi ti rendi conto che va tutto bene. È vivere con il terrore. Fa un po’ ridere il fatto che in questo momento si dica che stiamo sperimentando la vita delle persone recluse. L’unico tratto, a volerne trovare uno, che può accomunare le due condizioni è l’essere fortemente preoccupati per qualcuno e non poter fare niente... La parola giusta è impotenti. Noi familiari ci sentiamo impotenti. I detenuti sono invisibili, chi c’è dalla nostra parte? Chi pensa a loro? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non sta facendo nulla. Ho inviato cinque mascherine a mio padre, perché mi ha scritto di averne bisogno, ma non sappiamo nulla di quello che sta accadendo, molte cose vengono nascoste. Neanche i poliziotti penitenziari sono sufficientemente tutelati. Nelle carceri del nord il virus si sta propagando e anche velocemente. Tutti i giorni moriamo all’idea che ci possano dire che qualcuno è stato contagiato, perché poi verrebbero contagiati tutti ad effetto domino. Fa ridere paragonare le due condizioni perché noi abbiamo internet, possiamo sentire i nostri cari quando vogliamo, possiamo soprattutto affacciarci al balcone, mentre a loro è stata tolta anche l’ora del passeggio proprio per evitare gli assembramenti. Prima dicevi che il rapporto con tuo padre è viscerale. Se dovessi dire, in poche o tante parole, chi è per te tuo padre? Chi è? Per me è tutto, è la mia vita. È una persona fantastica, dolcissima. Un detenuto è una persona normale. Il rapporto che noi figlie abbiamo con i nostri padri detenuti è quasi triplicato, proprio perché loro si perdono tante cose di noi. Mio padre ha perso la mia laurea e per me è stato atroce non averlo vicino, sognavo che fosse lui a mettermi la corona di alloro. E questo non è stato possibile. L’ora in cui noi stiamo insieme è un’ora di amore puro. Ci mancano già tanto nelle situazioni quotidiane, figurati adesso in questa situazione di emergenza. Io sono figlia e ho le stesse preoccupazioni di un’altra figlia che ha il proprio padre a qualche metro di distanza. Io, il mio, lo ho là dentro e non so come sta. Monza. La solidarietà letteraria ai detenuti in quarantena di Francesca Amé Il Giornale, 7 aprile 2020 In campo gli scrittori per un progetto di didattica “a distanza”: poesie e racconti inediti per i reclusi. La didattica a distanza è già complessa in condizioni normali, ma che cosa succede se la classe è composta dai detenuti di un carcere? Serve un’idea speciale, e il mondo della cultura milanese e lombardo non si è tirato indietro. Questa è una bella storia di solidarietà e intraprendenza: è ambientata nella Casa Circondariale Sanquirico di Monza che, in questi giorni di rigorosa quarantena, è diventata un piccolo ma significativo modello educativo. Il Cpia di Monza e Brianza, il centro provinciale per l’istruzione l’alfabetizzazione degli adulti, italiani e stranieri, ha deciso infatti di non sospendere del tutto i corsi agli studenti-detenuti. Alla Sanquirico infatti adulti di tutte le età possono conseguire il diploma delle medie, ma anche seguire corsi di letteratura, arte-terapia e coro: sono attività seguite da quasi il 40% dei detenuti. La quarantena non permette però ai docenti di recarsi in carcere e così Maria Pitaniello, direttore della casa circondariale, ha accolto l’idea di sperimentare la “didattica a distanza”. Tutta analogica, però: fotocopie, testi, libri sono stati fisicamente recapitati dai docenti agli studenti in piccoli “pacchettini regalo”. Giovanna Canzi, che coordina tutti i corsi, ha poi avuto un’idea, lanciando un’iniziativa di “solidarietà culturale” rivolta agli autori lombardi: “Ho chiesto ad amici scrittori e giornalisti di inviare uno scritto inedito o non inedito, una poesia, una riflessione, per far capire ai miei studenti che il mondo della cultura là fuori è loro vicino in questo momento particolarmente complesso in cui non possono ricevere nessuna visita esterna. La cultura può superare le barriere ed alleviare lo spirito”. La risposta non si è fatta attendere: la scrittrice Bianca Pitzorno ha confezionato un pezzo inedito, dedicato all’arte del cucire, come metafora della pazienza e della cura, Alberto Cristofori ha donato sei racconti inediti e vergato una lettera personale ai detenuti, Elena Rausa ha confezionato una poesia e donato due libri, Emanuela Nava ha inviato il suo libro Il cielo tra le sbarre mentre Lodovica Cima ha scritto una riflessione sul valore della fiaba. Marina Mander, già finalista al Premio Strega lo scorso anno, ha dedicato agli studenti detenuti un racconto mentre Annarita Briganti una sua riflessione su Alda Merini. Hanno aderito all’appello anche la psicoanalista Laura Pigozzi e gli scrittori Matteo Cataluccio, Martino Costa e Filippo Tuena, il poeta Luca Vaglio. Alberto Casiraghy, poeta ed editore celebre per i suoi volumi della Pulcino Elefante, piccoli libretti di poesia minuziosamente curati, ha inviato ai carcerati degli aforismi. Livorno. “Più leggi libri e più puoi usare Skype”, i detenuti scrivono a Mattarella di Davide Frigoli affaritaliani.it, 7 aprile 2020 L’idea, di scambiare libri letti con premi non è nuova, ed è brasiliana. Il “Reembolso através da leitura”, è infatti un programma di recupero del 2012. L’emergenza coronavirus nelle carceri è un problema che potrebbe, se mal gestito, diventare una possibile bomba epidemiologica, a rendere ancora più delicata la questione quarantena per i ristretti e l’ordinamento carcerario è lo stop delle visite parentali che rende ancora più fragile il rapporto tra le famiglie e le persone detenute e difficile la vita negli istituti. Un articolo su Minima e Moralia parla del progetto culturale della direzione del carcere di Livorno “Le Sughere” che sfrutta l’emergenza sanitaria per incentivare la lettura. Il progetto prevede infatti per i detenuti che leggono e compilano la scheda di un libro un premio in tempo extra da usare per parlare con le proprie famiglie ora che è possibile e permesso fare videochiamate. Il progetto si fonda sì sui principi dell’articolo 27 della costituzione, che sancisce come la pena debba essere volta alla rieducazione, ma la messa in pratica presenta un vizio di forma, in questo caso infatti parrebbe che l’oggetto di scambio sia il diritto all’affettività, in un momento difficile per la popolazione detenuta e le loro famiglie. L’idea, di scambiare libri letti con premi non è nuova, ed è brasiliana. Il “Reembolso através da leitura”, è infatti un programma di recupero approvato nel 2012 negli Stati del Paraná e del Ceará sotto la presidenza di Dilma Rousseff e realizzato successivamente anche altrove nella repubblica federale. Il Reembolso permette, a determinate persone detenute, uno sconto di pena pari a quattro giorni in un mese per ogni libro letto fino a un totale di quarantotto giorni in un anno, come spiega l’articolo di Minima e Moralia a firma della scrittrice di numerosi libri sull’argomento carceri e società contemporanea Giada Ceri. L’iniziativa del carcere di Livorno era partita proprio ad imitazione di questa misura, infatti il Reembolso è diventato una forma di imitazione in diverse carceri italiane. Questa misura fa emergere in tutta la sua forza la difficoltà dei progetti culturali in carcere quando sono legati a un principio che si fonda su meccanismi di punizione e premialità. Un altro aspetto di questa vicenda è l’uso di internet in carcere e la possibilità di usarlo per effettuare videochiamate, prima per le misure di sicurezza questo non era possibile o effettuato solo in pochi istituti. L’emergenza apre per la prima volta a un modo di comunicare nuovo per i detenuti e i loro parenti. Ora i detenuti del carcere di Livorno scrivono al presidente Mattarella per chiedere che anche dopo l’emergenza rimanga la possibilità di usare la rete per chiamate e videochiamate, come riporta La Repubblica. “Chiediamo che questa concessione fatta in questo periodo di emergenza possa essere confermata anche per il futuro allineandoci a Stati europei, dove questo avviene ormai da anni”, scrivono i detenuti che ricordano che prima dell’emergenza già alcuni istituti di pena, come ad esempio quello di Padova, “davano la possibilità di effettuare le videochiamate anche ai detenuti dell’alta sicurezza e non solo della media sicurezza”. Spiega Giovanni De Peppo, garante per i diritti dei detenuti di Livorno: “A Livorno, in questa delicatissima fase, il ruolo di grande equilibrio e capacità del direttore dottor Carlo Mazzerbo, ma anche in particolare di un Ispettore e un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria, hanno assicurato e garantiscono permanentemente il funzionamento dei collegamenti sia nelle sezioni dei detenuti comuni che di quelli della alta sicurezza. Assicurare diritti e garantire sicurezza sono le azioni che in un istituto di pena vanno sempre d’accordo e in questa fase più che mai impariamo che solo la sensibilità, l’umanità, la professionalità di tutti può salvarci”. Padova. Per la Via Crucis del Papa le meditazioni scritte nel carcere Due Palazzi di Adriana Masotti vaticannews.va, 7 aprile 2020 Cinque detenuti, una famiglia vittima di omicidio, la figlia di un ergastolano, un’educatrice, un magistrato di sorveglianza, la madre di un carcerato, una catechista, un sacerdote accusato ingiustamente, un frate volontario, un poliziotto, tutti collegati alla Cappellania della casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova: sono gli autori delle meditazioni che verranno lette nel corso della Via Crucis presieduta quest’anno dal Papa sul sagrato della Basilica di San Pietro. “Accompagnare Cristo sulla Via della Croce, con la voce rauca della gente che abita il mondo delle carceri, è l’occasione per assistere al prodigioso duello tra la Vita e la Morte, scoprendo come i fili del bene si intreccino inevitabilmente con i fili del male”. È ciò che si legge nell’introduzione alle meditazioni della Via Crucis pubblicate sulla nuova pagina web della Lev, la Libreria Editrice Vaticana. I testi, raccolti dal cappellano dell’Istituto di pena “Due Palazzi” di Padova, don Marco Pozza, e dalla volontaria Tatiana Mario, sono stati scritti in prima persona, ma intendono prestare la voce a tutti coloro che, nel mondo, condividono la stessa condizione.? “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. La persona che commenta la I stazione (“Gesù è condannato a morte”) è un ergastolano. Crocifiggilo “è un grido che ho sentito anche su di me”, scrive. La sua crocifissione è iniziata quando era bambino, un bambino emarginato, ora si dice più simile a Barabba che a Cristo. Il suo passato è qualcosa per cui prova ribrezzo. “Dopo ventinove anni di galera - afferma - non ho ancora perduto la capacità di piangere, di vergognarmi del male compiuto (…) però ho sempre cercato un qualcosa che fosse vita”. Oggi “avverto, nel cuore, che quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita”. L’amore è più forte del male - Nella II stazione (“Gesù è caricato della croce”) a scrivere la meditazione sono due genitori a cui è stata uccisa una figlia. “La nostra è stata una vita di sacrifici, fondata sul lavoro e sulla famiglia. Spesso ci chiediamo: perché proprio a noi questo male che ci ha travolto? Non troviamo pace”. Sopravvivere alla morte di un figlio è straziante, ma “nel momento in cui la disperazione sembra prendere il sopravvento, il Signore, in modi diversi, ci viene incontro, donandoci la grazia di amarci come sposi, sorreggendoci l’uno all’altro pur con fatica”. Continuano a fare del bene agli altri, e trovano in questo una forma di salvezza, non vogliono arrendersi al male. Sperimentano che “l’amore di Dio è capace di rigenerare la vita”. Nel mondo c’è anche la bontà - Nella III stazione (“Gesù cade per la prima volta”) una persona in carcere racconta che la sua caduta, la prima, è stata la sua fine. Dopo una vita difficile in cui non si era accorto che il male gli stava crescendo dentro, ha tolto la vita ad una persona. “Una sera, in un attimo, come una valanga - scrive - mi si sono scatenate contro le memorie di tutte le ingiustizie subite in vita. La rabbia ha assassinato la gentilezza, ho commesso un male immensamente più grande di tutti quelli che avevo ricevuto”. In carcere arriva vicino al suicidio, ma poi ritrova la luce, attraverso l’incontro con persone che gli ridanno “la fiducia perduta”, mostrandogli che al mondo esiste anche la bontà. Lo sguardo d’amore tra la madre e il figlio - “Nemmeno per un istante ho provato la tentazione di abbandonare mio figlio di fronte alla sua condanna”, afferma la mamma di un detenuto. Le sue parole commentano la IV stazione (“Gesù incontra la Madre”). Dall’arresto del figlio “le ferite crescono con il passare dei giorni, togliendoci persino il respiro. Avverto la vicinanza della Madonna... Ho affidato a lei mio figlio: solamente a Maria posso confidare le mie paure, visto che lei stessa le ha provate mentre saliva il Calvario”. E continua: “Immagino che Gesù, sollevando lo sguardo, incrociasse i suoi occhi pieni d’amore e non si sentisse mai solo. Così voglio fare anch’io”. Il sogno di essere un cireneo per gli altri - È ancora un detenuto a commentare la V stazione (“Gesù viene aiutato dal Cireneo”). La croce da portare è pesante, dice, ma “dentro le carceri Simone di Cirene lo conoscono tutti: è il secondo nome dei volontari, di chi sale questo calvario per aiutare a portare una croce”. Un altro Simone di Cirene è anche il suo compagno di cella, capace di una generosità inaspettata. Conclude: “Sto invecchiando in carcere: sogno di tornare un giorno a fidarmi dell’uomo. Di diventare un cireneo della gioia per qualcuno”. Uno sguardo che permette di ricominciare - “Come catechista asciugo tante lacrime, lasciandole scorrere: non si possono arginare le piene di cuori straziati”. Sono le parole di una catechista che riflette così sulla VI stazione (“Veronica asciuga il volto di Gesù”). Come fare a placare l’angoscia di uomini “che non trovano una via d’uscita a ciò che sono diventati cedendo al male”? L’unica strada è restare lì, accanto a loro, senza provarne paura, “rispettando i loro silenzi, ascoltando il dolore, cercando di guardare oltre il pregiudizio”. Come fa Gesù con le nostre fragilità. E scrive: “Ad ognuno, anche alle persone recluse, viene offerta ogni giorno la possibilità di diventare persone nuove grazie a quello sguardo che non giudica, ma infonde vita e speranza”. La volontà di ricostruire la propria vita - Nella VII stazione (“Gesù cade per la seconda volta”), un detenuto, colpevole di spaccio, che ha trascinato con sé in prigione tutta la sua famiglia, prova un’infinita vergogna di sé. Scrive: “Solo oggi riesco ad ammetterlo: in quegli anni non sapevo quello che facevo. Adesso che lo so, con l’aiuto di Dio, sto cercando di ricostruire la mia vita”. L’idea che il male continui a comandare la sua vita gli è insopportabile, è diventata questa la sua via crucis. La preghiera al Signore è “per tutti coloro che non hanno ancora saputo sfuggire al potere di Satana, a tutto il fascino delle sue opere e alle sue mille forme di seduzione”. Per me sperare è un obbligo - “Da ventotto anni sto scontando la pena di crescere senza padre”, è l’esperienza della figlia di un ergastolano a commento della VIII stazione (“Gesù incontra le donne di Gerusalemme”). Tutto nella sua famiglia è andato in frantumi, lei gira l’Italia per seguire il padre di volta in volta in una prigione diversa e tirando le somme della sua vita, continua, “ci sono genitori che, per amore, imparano ad aspettare che i figli maturino. A me, per amore, capita di aspettare il ritorno di papà. Per quelli come noi la speranza è un obbligo”. La forza di rialzarsi e il coraggio di farsi aiutare - Cadere e ogni volta rialzarsi è la testimonianza di un detenuto che si rivede in ciò che viene contemplato nella IX stazione (“Gesù cade per la terza volta”). “Come Pietro ho cercato e trovato mille scuse ai miei errori: il fatto strano è che un frammento di bene è sempre rimasto acceso dentro me” scrive. E conclude: “È vero che sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre. Non è facile: è l’unica cosa, però, che qui dentro abbia ancora un significato”. Sostenere chi è spogliato di tutto - Come nella X stazione viene ricordato “Gesù spogliato delle sue vesti” così un’educatrice vede tanti dentro il carcere spogliati anche della dignità e del rispetto di sé e degli altri. Sono uomini e donne “esasperati nella loro fragilità, spesso privi del necessario per comprendere il male commesso. A tratti, però, assomigliano a dei bambini appena partoriti che possono ancora essere plasmati”. Ma non è facile portare avanti questo impegno. “In questo servizio così delicato - scrive - abbiamo bisogno di non sentirci abbandonati, per poter sostenere le tante esistenze che ci sono affidate e che rischiano ogni giorno di naufragare”. Gli innocenti colpiti da false accuse - Nella XI stazione della Via Crucis (“Gesù è inchiodato alla croce”), la meditazione è di un sacerdote accusato e poi assolto. La sua personale via crucis è durata 10 anni, “popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie”. Mentre saliva il calvario, racconta, ha incontrato tanti cirenei che hanno sopportato con lui il peso della croce. Assieme hanno pregato per il ragazzo che lo aveva accusato. “Il giorno in cui sono stato assolto con formula piena - scrive - ho scoperto di essere più felice di dieci anni fa: ho toccato con mano l’azione di Dio nella mia vita. Appeso in croce, il mio sacerdozio si è illuminato”. La persona dietro alla colpa - È di un magistrato di sorveglianza, il testo che commenta la XII stazione (“Gesù muore in croce). “Una vera giustizia - afferma - è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce”. È necessario aiutarlo a rialzarsi, scoprendo quel bene che nonostante tutto, “non si spegne mai completamente nel suo cuore”. Ma lo si può fare solo imparando “a riconoscere la persona nascosta dietro la colpa commessa”, così si può “intravedere un orizzonte che può infondere speranza alle persone condannate”. La preghiera al Signore è per “i magistrati, i giudici e gli avvocati, perché si mantengano retti nell’esercizio del loro servizio” a favore soprattutto dei più poveri. Immaginarsi diversi da come ci si vede - Nella XIII stazione (“Gesù è deposto dalla croce”) la meditazione è di un frate che da sessant’anni fa il volontario nelle carceri. “Noi cristiani - afferma - cadiamo spesso nella lusinga di sentirci migliori degli altri (...) Passando da una cella all’altra vedo la morte che vi abita dentro”. Il suo compito è quello di fermarsi in silenzio davanti ai tanti “volti devastati dal male e ascoltarli con misericordia”. Accogliere la persona è spostare dal suo sguardo l’errore che ha commesso. “Solamente così potrà fidarsi e ritrovare la forza di arrendersi al Bene, immaginandosi diverso da come ora si vede”. È questa la missione della Chiesa. Gesti e parole che fanno la differenza - “Gesù è sepolto” è l’ultima stazione, la XIV: le parole di un agente di Polizia Penitenziaria, diacono permanente, concludono la Via Crucis. Nel suo lavoro, ogni giorno tocca con mano la sofferenza e sa che in carcere “un uomo buono può diventare un uomo sadico. Un malvagio potrebbe diventare migliore”. Dipende anche da lui. E dare un’altra possibilità a chi ha favorito il male è diventato il suo impegno quotidiano che si traduce “in gesti, attenzioni e parole capaci di fare la differenza”. Capaci di ridare speranza a gente rassegnata e spaventata al pensiero di ricevere, scontata la pena, un nuovo rifiuto da parte della società. “In carcere - conclude - ricordo loro che, con Dio, nessun peccato avrà mai l’ultima parola”. Rischio catastrofe umanitaria nelle prigioni sovraffollate. Rilasciati migliaia di detenuti di Lucia Capuzzi Avvenire, 7 aprile 2020 Gli ultimi, in ordine di tempo, sono stati Brasile e Marocco. Il re Mohammed VI, ieri, ha concesso la grazia a 5.645 detenuti, selezionati in base all’età, stato di salute, durata della pena e buona condotta. Nelle stesse ore, il Dipartimento penitenziario nazionale di Brasilia ha comunicato il rilascio di 30mila prigionieri su ordine dei magistrati ordinari, in base alle indicazioni formulate dalla Corte suprema. Le misure sono state motivate con l’urgenza di arginare il contagio di Covid riducendo la pressione nei penitenziari, ultra affollati in entrambi i Paesi. Il Brasile è al quarto posto al mondo per popolazione reclusa, dopo Usa, Cina e Russia, in base ai dati dell’International center for prison studies, con oltre 750mila prigionieri. Ovvero più del doppio dei posti disponibili nelle attuali strutture. Il Marocco ha il record nordafricano con 56mila carcerati ammassati in 77 penitenziari. Condizioni in cui l’irruzione del coronavirus può provocare una catastrofe, come ha sottolineato l’alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, che, il 25 marzo scorso, aveva rivolto un appello ai vari governi del mondo a liberare i reclusi più vulnerabili “fra cui gli anziani e i malati, oltre a quelli di minor pericolosità sociale”. Da allora, in vari hanno risposto. Anche l’Iran, la Turchia e l’Indonesia hanno optato per il rilascio temporaneo di, rispettivamente, 85mila, 90mila e 30mila detenuti. L’Algeria e l’Iraq ne hanno rilasciato 716 e 756, seguiti dall’Afghanistan, che ha avviato la procedura per l’uscita di 10mila persone. Non è solo il Sud del mondo, dove le carceri di norma “scoppiano”. Nella settimana tra il 14 e il 27 marzo, la Francia ha fatto un piano di scarcerazioni anticipate che ha portato fuori poco più di 3.513 persone, il 5 per cento del totale ma il ministero della Salute ha auspicato una riduzione del 30 per cento. Sabato, il premier britannico Boris Johnson, ha dato il via libera alla liberazione di 4mila reclusi, dopo che si erano registrati 88 contagi di Covid-19 in ventinove prigioni del Regno Unito. Rivolte globali, repressione ovunque: 58 detenuti uccisi di Simone Scaffidi Il Manifesto, 7 aprile 2020 In tutti i continenti le prigioni rivelano le contraddizioni nella risposta all’emergenza. 43 morti solo in America latina, uccisi mentre tentavano la fuga o protestavano nelle celle. Per giustificare i 23 detenuti uccisi e gli 83 feriti, lo scorso 21 marzo, nel carcere La Modelo di Bogotà la ministra della giustizia colombiana Margarita Cabello ha dichiarato che “non è stato un problema sanitario a originare le rivolte” e che semplicemente si “è trattato di un piano d’evasione criminale che è stato represso”. La ministra, almeno per quanto concerne l’emergenza coronavirus, non ha detto il falso, a generare le rivolte in 17 carceri del paese non è stato il virus in sé. L’incertezza, la paura di morire e l’impossibilità di immaginare un futuro differente da quello di prima della detenzione sono condizioni che appartengono alla vita quotidiana della maggioranza dei detenuti e delle detenute. Se si aggiungono le violenze, il sovraffollamento, le umiliazioni e l’assenza di percorsi di formazione degni si può facilmente dedurre che privare le persone recluse della possibilità di ricevere visite sia stata la goccia che ha fatto straripare le carceri. Praticamente tutti i paesi a rischio hanno adottato, tra le misure eccezionali per contenere l’espansione del coronavirus, la limitazione dei diritti dei detenuti, dalla proibizione delle visite, alla limitazione degli spazi ricreativi e del regime di semilibertà. Tali misure hanno innescato ammutinamenti, fughe e rivolte e il sistema penitenziario ha risposto con la consueta violenza, normata dai meccanismi storici di repressione statale e biopotere. Il caso colombiano, a riprova che il modello carcere andrebbe ripensato radicalmente e/o abolito in tutto il mondo, non è affatto isolato. Le rivolte si sono verificate in ogni continente del pianeta: dall’Europa (Italia, Francia, Spagna, Belgio) all’America Latina (Colombia, Venezuela, Argentina, Brasile, Uruguay, Perù, Cile), dall’Africa (Mauritius, Uganda) all’Asia (Sri Lanka, Iran, India), dall’America del Nord (Stati uniti) all’Oceania (Samoa). In America Latina, le rivolte sembrano non volersi placare. A seguito della proibizione alle visite dei familiari in Venezuela, il 18 marzo, 84 reclusi sono riusciti a evadere dal carcere di Santa Barbara e durante la repressione 12 sono stati uccisi. In Argentina, tra il 23 e il 24 marzo, i penitenziari di Florencio Varela, Coronda e Las Flores sono stati teatro di ammutinamenti e il bilancio della repressione è stato di cinque detenuti uccisi e diversi feriti, sei dei quali trasferiti all’ospedale per la gravità delle ferite riportate. In Perù il 22 marzo le sommosse nel carcere di Trujillo sono state annichilite, tre detenuti uccisi e più di trenta rimasti feriti e trasferiti all’ospedale. In Brasile il 16 marzo, dopo le restrizioni al regime di semilibertà e il divieto di uscire dai centri penitenziari, 1.375 reclusi sono riusciti a evadere da quattro prigioni dello Stato di San Paolo e circa la metà catturati dalle forze di polizia due giorni dopo. In Uruguay non è chiaro se la repressione delle rivolte nel carcere di Concepción abbia provocato morti mentre in Cile, il 19 marzo, circa 200 detenuti hanno provocato disordini nel più grande carcere del paese, il complesso Santiago 1, incendiando materassi e tentando la fuga. Il bilancio mondiale delle rivolte e della repressione scaturita è per il momento di 58 morti accertate tra i detenuti, in tre differenti continenti, in meno di venti giorni, tra il 7 e il 24 marzo. In considerazione dell’invisibilizzazione del problema, della tendenza delle autorità a omettere informazioni e dello scarso interesse dei media nell’affrontare la questione carceraria non si può escludere che il numero potrebbe essere superiore. La repressione nei centri di detenzione è ampiamente legittimata dalle istituzioni statali che sembrano volersene nutrire per rafforzare la propria posizione intransigente di fronte all’emergenza. La velocità di diffusione delle rivolte sembra viaggiare al ritmo della diffusione del virus, nei Paesi dove si registrano casi e si adottano misure restrittive nelle carceri, le proteste non tardano ad accendersi. Il così significativo numero di morti a seguito della repressione, in un così ristretto lasso di tempo, rappresenta un dato preoccupante. Il peggioramento della situazione sanitaria, la difficoltà nell’attivare reti di solidarietà e sostegno “da fuori” e l’impossibilità di osservare e denunciare gli abusi all’interno dei centri penitenziari potrebbe generare scenari ancora più drammatici nelle prossime settimane. Il caso ungherese di Sabino Cassese Il Foglio, 7 aprile 2020 Orbán e la pandemia: quando si comincia con il limitare le libertà e si finisce con il limitare la democrazia. Che cosa insegna la risposta ungherese alla pandemia? Quali sono gli errori da evitare? Cominciamo con il dire che la legge approvata dal Parlamento ungherese (137 voti a favore, 53 contrari) introduce, in via permanente, due nuovi articoli del codice penale, diretti a prevedere pesanti sanzioni (da 3 a 5 e da 3 a 8 anni di carcere) per chi diffonde notizie false oppure tali da ostacolare la difesa dalla pandemia, e per chi ostruisce l’applicazione di misure eccezionali. Si coglie l’occasione dello stato di emergenza per prevedere stabilmente due reati a maglie molto larghe, uno dei quali inciderà sulla libertà di manifestazione del pensiero. Quali sono gli altri punti che fanno dubitare per le libertà in Ungheria? Primo: il tipo di misure che il governo è autorizzato ad adottare (sospendere l’applicazione di leggi, disapplicare regolamenti, eseguire per decreto misure straordinarie addizionali). Secondo: sospensione per legge di elezioni a ogni livello, e di referendum. Terzo: assenza di un limite temporale del potere governativo di eccezione (il governo può adottare misure eccezionali fino alla fine dell’emergenza - come determinata dal governo - o fino a quando il Parlamento revoca l’autorizzazione). Quindi, il potere è concentrato nel governo e la democrazia è sospesa, senza una data limite precisa. Nel preambolo della legge si fa espresso riferimento al fatto che le sessioni del Parlamento potrebbero essere sospese a causa dell’emergenza (anche se il Parlamento è convocato per i prossimi giorni, per approvare una legge che impedisce la registrazione del cambiamento di sesso ai “transgender”). Ma non sono stati previsti contrappesi? È previsto che il governo informi il Parlamento o il presidente e i presidenti dei gruppi parlamentari; però, i presidenti non possono revocare l’autorizzazione data al Parlamento. È inoltre previsto che presidente e segretario generale della Corte costituzionale ne assicurino la continuità di funzionamento, anche in via telematica. Ma la Corte costituzionale è composta di giudici eletti dallo stesso Parlamento in cui Orbán ha una forte maggioranza. Come si configura ora il diritto dell’emergenza in Ungheria? Qui sta uno degli aspetti più gravi - e nascosti nell’ambiguo articolo 3 - della legge. La Costituzione ungherese del 2011 contiene una serie di articoli, dal 48 al 54, sullo stato di eccezione, a seconda se dovuto a minaccia terroristica, crisi, emergenza, attacco inatteso, stato di pericolo, esigenza di difesa preventiva. Il regime costituzionale dell’emergenza è delimitato in vario modo: maggioranze parlamentari di due terzi per deciderlo; risoluzione parlamentare per terminarlo; durata di 15 giorni delle misure di eccezione, salvo eventuale estensione parlamentare. La nuova legge introduce in modo non chiaro, direi surrettizio, alcune modificazioni di rilevanza costituzionale. Il governo dichiara lo stato di emergenza; il Parlamento può revocare le misure adottate, non lo stato di emergenza. Sono confermate le misure già adottate prima della nuova legge. Queste - a quel che pare - non possono essere revocate. Non è prevista la scadenza automatica delle misure dopo 15 giorni. Siamo ben lontani dalle previsioni dell’articolo 16 della Costituzione francese, che viene invocato in questo periodo dalle autorità ungheresi come precedente. Torno alla prima questione: che cosa insegna questa vicenda? Che si comincia con il limitare le libertà e si finisce con il limitare (“democraticamente”) la democrazia. Che la democrazia non è solo elezioni, perché anche la maggioranza popolare può sbagliare. Democrazia è anche libertà di manifestazione del pensiero, libertà di associazione, contrappesi, divisione dei poteri. Specialmente dove non c’è alternanza (l’attuale primo ministro ungherese è ora al potere da dieci anni e lo è stato in precedenza dal 1998 al 2002; ha un ampio controllo dei media). Se questa legge è legittima secondo il diritto ungherese - pur con le osservazioni da lei ricordate sulla sua conformità alla Costituzione - lo è per gli standard europei? Non dobbiamo preoccuparci di una tendenza di questo tipo in un paese membro dell’Unione europea? L’art. 2 del Trattato sull’Unione europea dispone che essa rispetta libertà, Stato di diritto, diritti umani. Il Parlamento europeo il 12 settembre 2018 ha, con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astenuti, approvato una relazione della parlamentare Judith Sargentini secondo la quale c’è il rischio in Ungheria della violazione di ben 12 diritti fondamentali. Purtroppo, il Consiglio europeo, dopo aver sentito nel settembre e dicembre 2019 il governo ungherese, non ha ancora proceduto alla constatazione di una “violazione grave e persistente dello Stato di diritto”, e il Parlamento è ritornato sul tema il 16 gennaio 2020, sollecitando il Consiglio europeo a tenere regolari udienze con il governo ungherese e a procedere secondo l’art. 7 del Trattato. Quindi non ha avuto seguito la procedura dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea, che prevede una sequenza in tre fasi: messa in mora, decisione, sanzione. Siamo fermi alla messa in mora. E questa nuova legge non ha provocato altre reazioni? I governi di Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia hanno, con dichiarazione diplomatica del 1° aprile, chiesto, in termini generali, che l’Unione accerti che la legislazione emergenziale non violi la democrazia, i diritti fondamentali, lo Stato di diritto e le libertà di manifestazione del pensiero e di stampa. Il governo ungherese afferma di aver sottoscritto questa dichiarazione. Alla tragedia si aggiunge la commedia. Le reazioni delle forze politiche italiane? Salvini ha dichiarato il 30 marzo che è “una libera scelta del Parlamento ungherese eletto democraticamente dai cittadini”. Non lo sfiora il dubbio che anche i rappresentanti del popolo democraticamente eletti possano sbagliare, come è accaduto in Italia negli anni Venti dello scorso secolo e in Germania dieci anni dopo. E non considera che egli non avrebbe oggi libertà di esprimersi se gli errori compiuti in Italia e Germania non fossero stati “corretti” da interventi esterni (allora fu necessaria una guerra). Ma in Italia non si è fatto qualcosa di simile, con la legislazione di emergenza? Le differenze sono molte. Il secondo decreto legge stabilisce un termine (31 luglio). Esso elenca le misure, a differenza del primo, che le elencava, ma poi lasciava la porta aperta ad atti innominati. Il governo non può sospendere leggi. Si ripresenta il problema dei rapporti tra libertà e democrazia. Può un ordinamento democratico non essere liberale? Tra liberalismo e democrazia c’è una duplice imbricazione, una funzionale, una storica. Dal punto di vista funzionale, se democrazia si identifica solo con il diritto di votare periodicamente, e si riconosce che possano essere limitate o compresse libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, le elezioni perdono di significato: non si avrebbe libertà di riunirsi di associarsi in partiti, di dibattere pubblicamente. Dunque, la democrazia contiene anche necessariamente dentro di sé i princìpi liberali. Inoltre, dal punto di vista storico, il democratismo è uno sviluppo del liberalismo, con cui per qualche tempo ha convissuto con frizioni. Ora, comunque, le democrazie sono parti di costruzioni politiche che si reggono su princìpi liberali, come la garanzia dei diritti, lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, l’indipendenza dei giudici. Egitto. Nessun rilascio, ma nuovi arresti di chi dice la verità di Khaled Said Il Manifesto, 7 aprile 2020 L’Onu si appella al Cairo perché liberi prigionieri alla luce dell’epidemia. Quindici i fermi di persone accusate di aver diffuso notizie false sul coronavirus, mentre i lavori nei mega progetti edilizi voluti da al-Sisi proseguono. Liberare i giornalisti e i difensori dei diritti umani. È questo il monito contenuto nel comunicato sull’Egitto rilasciato da Ropert Cupeville, portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite. “Siamo molto preoccupati per il sovraffollamento delle prigioni in Egitto e per il rischio di una rapida diffusione del Covid-19 tra gli oltre 114mila detenuti del paese”, si legge nella nota. Le dichiarazioni arrivano dopo l’appello rivolto dall’Alta Commissaria, Michelle Bachelet, ai governi di tutto il mondo per implementare le misure di sicurezza e tutelare la salute dei detenuti. Finora l’Iran ha rilasciato dalle sue carceri, almeno temporaneamente, circa 100mila persone, l’Indonesia 30mila mentre la Turchia si appresta a rilasciarne 90mila ma non i prigionieri politici e i giornalisti. “Esortiamo - continua il comunicato - anche il governo egiziano a seguire l’esempio di altri Stati in tutto il mondo e a rilasciare i condannati per reati non violenti e coloro che sono in custodia cautelare, che costituiscono poco meno di un terzo dei detenuti”. Si chiede anche la liberazione di tutti coloro “detenuti arbitrariamente a causa del loro lavoro politico o per la loro difesa dei diritti umani”. Al sovraffollamento si sommano le scarse condizioni d’igiene e il negato accesso a cure mediche e trattamenti adeguati per i carcerati. Le conseguenze di una diffusione del virus sarebbero devastanti. Le Nazioni unite denunciano anche l’arresto di 15 cittadini egiziani accusati di aver diffuso informazioni false. Multe e detenzioni per chi non pubblica notizie conformi a quelle governative. Tra gli arresti figurano un dottore e un farmacista, rei di aver denunciato la mancanza di mascherine attraverso dei video diffusi su Facebook. Sorte diversa è toccata alla giornalista Ruth Michaelson del Guardian, intimata a lasciare il paese dopo aver pubblicato un articolo che riportava uno studio basato su modelli matematici il quale evidenziava come in realtà il numero delle persone contagiate sia molto più alto di quelle individuate fino a oggi. I dati aggiornati a domenica sera evidenziano 1.173 contagi, 247 guariti e 78 morti, con una crescita costante dei numeri. Nel frattempo, Hatem Abu el-Kassem, direttore del National Cancer Institute, uno dei centri oncologici più importanti d’Egitto, ha affermato che 12 infermieri e tre dottori sono risultati positivi al coronavirus, aumentando la paura di un possibile contagio di massa tra il personale sanitario, soprattutto dopo che il 29 marzo è morto il primo dottore. Preoccupazione anche tra i militari, dopo che due generali di alto rango sono morti a causa del virus. Entrambi i deceduti erano a capo di un importante progetto di ingegneria idrica. Dopo la notizia, l’esercito ha iniziato a isolare i soldati al rientro dalle ultime missioni sul territorio. Chiuse scuole e università fino a metà aprile, mentre gli esercizi commerciali rimangono, per ora, aperti fino alle 5 del pomeriggio. Per intimare gli egiziani a rimanere a casa, al-Sisi ha istituito un coprifuoco notturno dalle 7 di sera fino alle 6 del mattino. Chiunque violi le regole oltre a 4mila lire egiziane di multa (circa 235 euro), rischia il carcere. Non si ferma però il settore edile che contribuisce al 16% del pil nazionale, impiegando il 20% della forza lavoro, senza contare quelli a nero (si stima circa il 40%). Sono state prese soltanto poche misure di precauzione, ma le costruzioni continuano, in particolare a New Cairo, città interamente costruita da zero a meno di 30 minuti dalla capitale. Sul progetto al-Sisi si gioca gran parte del consenso politico del suo mandato: ritardarne il completamento non è ammissibile, almeno per ora. Turchia. Helin e Mustafa, volti della lotta dei prigionieri turchi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 aprile 2020 I due membri del marxista Grup Yorum in sciopero della fame: Bolek è morta, Kocac denuncia le torture. Gli avvocati, anche loro presi di mira dal governo: “Nelle carceri nessuna misura contro i contagi”. Helin Bolek e Mustafa Kocac, due prigionieri politici e un’unica lotta, sono i volti di quanto avviene nelle carceri turche, prima e dopo l’emergenza coronavirus. Due storie che da sole svelano l’utilizzo che della crisi il governo dell’Akp sta compiendo per quella che può essere definita una punizione di massa. Helin è morta lo scorso venerdì di sciopero della fame, Mustafa è vivo ma rimane confinato in una cella di Smirne tentando inutilmente di denunciare i cinque giorni di torture a cui è stato sottoposto nell’ospedale della prigione. Entrambi chiedevano lo stesso, la fine delle misure di repressione con cui Ankara ha provato a rendere invisibili il loro gruppo musicale marxista, Grup Yorum, nato nel 1985 e con 23 album alle spalle. Dal 2016 gli è vietato esibirsi in pubblico, i suoi musicisti sono stati più volte aggrediti, sette di loro sono tuttora detenuti, il loro centro culturale a Istanbul perquisito con violenza dieci volte negli ultimi due anni. Per questo, insieme a un altro membro del gruppo, Ibrahim Gokcek, hanno lanciato uno sciopero della fame. Ridotta a uno scheletro dopo 288 giorni, Helin è morta. Mustafa non mangia da 254, pesa 33 chili. È in queste condizioni che è stato torturato, brutalmente. Di loro si è a lungo parlato nell’evento su Zoom organizzato ieri da Giuristi democratici, Camere penali e Antigone e moderato da Barbara Spinelli a cui hanno preso parte avvocati turchi. Tra loro Didem Baydar Unsal di Haikin Hukuk Burosu (Studio legale del Popolo) e avvocata di Helin Bolek: “In Turchia - denuncia - le misure prese non raggiungono lo scopo, sono insufficienti: i detenuti in carceri sovraffollate non vengono considerate persone a rischio. Sono in corso scioperi della fame “fino alla morte” per difendere i diritti fondamentali, Helin Bolek ha perso la vita per la sua lotta. Siamo arrabbiati: le rivendicazioni dei nostri assistiti erano legittime e di facile applicazione ma non sono state ascoltate. Le persone attualmente in sciopero della fame hanno sistemi immunitari indeboliti e quindi sono più a rischio di essere contagiate dal virus”. “Le guardie carcerarie fanno avanti e indietro e non è possibile sapere se i materiali che entrano in carcere siano sterilizzati né se le persone che distribuiscono il cibo siano malati o meno - continua - Ai detenuti non vengono date mascherine, guanti o disinfettante. Il caso di Mustafa è illuminante: ha denunciato le torture ma non possiamo incontrarlo”. A scioperare sono anche gli avvocati, Aytac Unsal e Abru Timtik, vittime come i loro assistiti. Dal luglio 2016 al febbraio 2020, scrive in un rapporto il Consiglio nazionale forense, in Turchia sono stati arrestati 605 avvocati, 345 le condanne per un totale di 2.145 anni di prigione. “Nelle carceri l’unica iniziativa è stata proibire alle famiglie di incontrare i detenuti - spiega Ayse Acinikli, dell’Associazione degli Avvocati per la Libertà (Ohd) - Gli avvocati possono parlarci solo divisi da un vetro e con un telefono. Arrivano notizie di persone con la febbre alta e a Mardin una persona è risultata positiva. Il governo fa molta propaganda sull’indulto ma ha separato i detenuti in due gruppi: oppositori ed esseri umani. Gli sconti di pena non riguardano i detenuti politici, nemmeno quelli malati. Parliamo di circa 30mila persone, sebbene non ci siano dati precisi. Prima, al detenuto politico veniva riconosciuto uno sconto di un quarto della pena in automatico, in assenza di violazioni; ora con i nuovi provvedimenti sarà una commissione interna al carcere a decidere caso per caso”. “A Imrali per Ocalan non è cambiato nulla - interviene Ibrahim Bilnez, legale del leader del Pkk. Ma l’isolamento non è una protezione dal Covid visto che i dipendenti del carcere si spostano. Questa epidemia avrebbe potuto rappresentare un’occasione verso la pace, un’altra occasione persa”. Romania. La sfida al Covid dei ragazzi di strada a Bucarest di Alessandra Briganti Il Manifesto, 7 aprile 2020 “Morire di Aids o di coronavirus, che differenza vuoi che faccia”. Non ha mai conosciuto mezze misure Gabi, un uomo nascosto nel corpo di un ragazzo e due occhi cristallini che fanno trasparire un’età dell’innocenza che non ha mai vissuto. A sei anni Gabi scappò da casa in Moldavia, destinazione Bucarest. La sua vita l’avrebbe trascorsa lì, tra i canali e gli squat della capitale rumena, in bilico tra la voglia di riscatto e l’inesorabilità delle ricadute. Un destino comune a quello delle migliaia di ragazzi per strada divenuti il simbolo del disfacimento sociale della Romania post-comunista. Chi scappava da famiglie devastate da povertà e alcolismo, chi dagli orfanotrofi affollati dei bambini voluti dal regime di Nicolae Ceausescu. Quella cicatrice profonda che aveva aperto la caduta del comunismo fece il giro del mondo, ma con gli anni i ragazzi dei tombini di Bucarest sono diventati nient’altro che un complemento d’arredo della città. Sagome senza vita, volti senza storia. Alcuni sono riusciti a tirarsi fuori dalla strada, altri su quella strada hanno trovato la morte, altri ancora come Gabi sono lì che sopravvivono. Al freddo, alla fame, alla malattia. Ora l’epidemia rischia di spazzarli via come una folata di vento con le foglie. “Sono sopravvissuto a tutto, sopravvivrò anche a questo. E se non ce la faccio, ero comunque destinato a non vivere a lungo” racconta Gabi con spietata leggerezza. Eppure i più esposti al contagio sono proprio loro, non solo perché abitano la strada. Gabi come l’80% dei suoi compagni di ventura è sieropositivo. E questo non è che un esempio. In questi anni i ragazzi hanno sviluppato tutta una serie di patologie che li rende particolarmente fragili. Lo stesso uso prolungato della colla, impiegata per alleviare il senso di fame e di freddo, ha avuto conseguenze drammatiche sui loro corpi. Per Gabi come per gli altri la questione principale però è dove trovare i soldi per sfamarsi. Da quando è esplosa l’emergenza Covid, è venuta meno quella “microeconomia” di strada con cui i ragazzi riuscivano a sopravvivere: le pulizie nei ristoranti e nei pub, il lavaggio dei vetri, l’elemosina, il riciclaggio e la vendita di materiali come plastica, carta, rame. “I ragazzi hanno una diversa percezione del rischio. La loro è la prospettiva di chi è abituato a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo” racconta Franco Aloisio, responsabile di Parada, associazione che dal 1996 assiste i ragazzi invisibili di Bucarest. Associazione che resta il loro punto di riferimento anche durante l’epidemia. Al centro diurno di Parada i ragazzi possono fare una doccia, trovare cibo e riparo. Il comune di Bucarest non ha fatto mancare il suo sostegno. L’associazione ha ricevuto beni di prima necessità - dagli alimenti, alle coperte, ai prodotti per l’igiene e i disinfettanti - che i volontari di Parada distribuiscono non solo ai ragazzi di strada, ma anche alle migliaia di persone che vivono nelle baraccopoli e nei ghetti della capitale rumena. Intanto a Bucarest il contagio sta conoscendo un aumento esponenziale: 799 casi nel giro di sole due settimane. Il bilancio potrebbe aggravarsi anche per via delle pessime condizioni in cui versa il sistema sanitario. E anche per questo motivo la capitale ha agito per mettere in sicurezza i senza fissa dimora, mettendo a disposizione tre strutture alberghiere. Ma i ragazzi ignari del rischio scalpitano. Alla quarantena preferiscono la morte. Preferibilmente lungo quella strada che li ha cullati per tutta la vita, quella strada che ora potrebbe inghiottirli per sempre.