Domiciliari e pene differite: ecco gli strumenti svuota-carceri di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2020 Mentre è in corso l’iter di conversione del decreto legge 18 del 17 marzo 2020, gli operatori chiedono a gran voce sostanziali modifiche alle novità introdotte dal governo per fronteggiare l’emergenza nelle carceri esplosa per il rischio di contagio da coronavirus. Si lamenta, in particolare, la farraginosità e la scarsa utilità pratica della “nuova” detenzione domiciliare (articolo 123 del decreto legge), modellata sulla falsariga dell’esecuzione della pena presso il domicilio disciplinata dalla legge 199/2010 ma vincolata, nel caso di pene da scontare superiori ai sei mesi, alla sorveglianza con braccialetti elettronici: strumenti la cui disponibilità è limitata e, con ogni probabilità, insufficiente per ridurre l’affollamento nelle carceri tanto da rendere possibile il rispetto delle distanze. Nell’attesa delle modifiche che probabilmente verranno messe in campo, occorre chiedersi quali strumenti siano, a normativa vigente, concretamente utili ai detenuti per fuoriuscire dal circuito carcerario con misure alternative o altri benefici. Iniziando dalla “nuova” detenzione domiciliare, si tratta di uno strumento di non agevole accesso poiché basata su presupposti applicativi più stringenti di quelli dell’esecuzione al domicilio prevista dalla legge del 2010. Ciò posto, e fermo che in entrambi i casi il limite di pena, anche residua, che consente l’applicazione del beneficio è il medesimo (18 mesi), dal punto di vista della strategia difensiva ci si orienterà necessariamente sulla “vecchia” misura nelle ipotesi in cui la “nuova” detenzione domiciliare sia in radice preclusa per il titolo di reato (ad esempio, condanne per maltrattamenti o per stalking). Al proposito, nel caso di cumulo di pene, sarà sempre necessario verificare se la pena corrispondente all’eventuale reato “ostativo” sia stata già espiata, così da consentire lo “scioglimento del cumulo” e l’ammissibilità della domanda. Qualora, nel singolo caso, sussistano i presupposti per entrambe le misure sotto il profilo del titolo di reato e delle altre condizioni, sarà pur sempre da preferire la “vecchia” misura domiciliare se la pena da espiare sia superiore ai sei mesi: si eviterà così che il beneficio sia applicato con il braccialetto elettronico, con il rischio che l’esecuzione del provvedimento sia differita fino alla materiale disponibilità dello strumento di controllo. Inoltre, sarà opportuno, ai fini della scelta della misura da richiedere, valutare le tempistiche della direzione penitenziaria, su cui grava praticamente l’intera istruttoria, laddove una difesa attrezzata potrebbe fornire al magistrato di sorveglianza quasi tutti gli elementi valutativi necessari a una celere decisione sull’istanza di esecuzione domiciliare in base alla legge 199/2010, soprattutto nel caso di detenuti tossicodipendenti per i quali possa aprirsi una prospettiva di inserimento in comunità. Lo strumento della liberazione anticipata resta, ovviamente, un’alternativa, per quanto non automatica né sempre risolutiva (lo è certamente in tutti i casi in cui la concessione della riduzione di pena consente al condannato di scendere sotto la soglia dei 18 mesi di pena residua da espiare). Più interessante è il differimento della pena (anche nella forma della detenzione domiciliare) nei casi previsti dall’articolo 147 del Codice penale. Il vantaggio, dal punto di vista della scelta difensiva, non risiede solo nel fatto che tale beneficio non sconta alcuna delle preclusioni previste per le misure domiciliari sopra considerate, ma è massimizzato nel caso di detenuti anziani (oltre i 60 anni) e/o con pregresse patologie gravi (come patologie oncologiche o polmonari, cardiopatie gravi, e simili): condizioni che, prima della pandemia, non integravano situazioni di infermità fisica così rilevanti da fondare l’applicazione del rinvio dell’esecuzione, ma che oggi potrebbero essere rivalutate sotto due profili. Anzitutto, ovviamente, in riferimento all’emergenza sanitaria, declinata nel senso che il soggetto anziano - se affetto da patologie di una certa importanza - è particolarmente esposto alle conseguenze anche letali dell’eventuale contagio. In secondo luogo, considerando il rischio che il sovraffollamento penitenziario rappresenta per il propagarsi del virus. Tale ultimo elemento, pur non bastevole in sé a fondare la concessione del differimento della pena, potrà essere valorizzato in presenza di condizioni di salute che rappresentino dei moltiplicatori del rischio. Carcere e coronavirus. Ognuno si assuma le proprie responsabilità di Gian Domenico Caiazza* lincontro.news, 6 aprile 2020 Il sistema carcerario italiano è da anni fuorilegge, indifferente agli ammonimenti prima ed alle condanne poi della giustizia sovranazionale. Il sovraffollamento è di nuovo ben oltre i numeri già oggetto della condanna Cedu nel caso Torreggiani, e non certo da poche settimane o da qualche mese. Una classe dirigente irresponsabile, cinicamente interessata solo al ricco dividendo elettorale delle scelte populiste del “Tutti in galera” e della declinazione farsesca e sgrammaticata del principio di certezza della pena, ha scelto lucidamente in questi ultimi due anni nemmeno il rischio ma la assoluta certezza di replicare la vergogna di un tasso medio di sovraffollamento carcerario oltre il 130%, immaginando e soprattutto lasciando immaginare alla pubblica opinione che questo fosse il volto di uno Stato forte, inflessibile con i criminali, protettivo verso le persone per bene, finalmente rispettoso del famoso principio di certezza della pena. Ora, però, arriva l’imponderabile, cioè una pandemia virale di grande aggressività e quel volto duro e tracotante all’improvviso impallidisce e balbetta. Hai deliberatamente ammassato gente, una gran bella fetta della quale peraltro solo in attesa di essere giudicata, nella discarica sociale dei fatiscenti penitenziari italiani, pretendendo che si arrangiassero in sette in celle da tre o in nove in celle da cinque, e ora sei di fronte al bivio: o riconduci di corsa la popolazione carceraria almeno dentro i limiti della massima capienza legale, nel tentativo di poter organizzare in modo almeno plausibile un’attività di controllo dell’epidemia, o ti scoppia in mano una bomba atomica. Deve anche essere ben chiaro che questa più che probabile esplosione non riguarderebbe solo i detenuti ma, come in tutte le epidemie che si rispettino, tutto il mondo esterno che ruota intorno al carcere. Perfino chi nutrisse l’indegna idea che chi sta in carcere è perché se lo è meritato e dunque peggio per lui, deve comprendere che ogni giorno nel carcere entrano e dal carcere escono migliaia di persone, dagli agenti di polizia penitenziaria al personale amministrativo e sanitario, dagli assistenti sociali ai cappellani e al volontariato. È di poche ore fa la notizia ufficiale di una detenuta positiva nel carcere di Lecce e di altre situazioni analoghe in corso di monitoraggio in tutte le carceri italiane. Di qui l’iniziativa delle Camere Penali Italiane che con un pubblico appello rivolto al governo ed a tutti i parlamentari della Repubblica, hanno formulato una proposta che se messa in atto consentirebbe di decongestionare le carceri in tempi brevi, senza interrompere la espiazione delle pene ma semplicemente sostituendone la esecuzione per pene inferiori a due anni con la detenzione domiciliare, una volta accertata la semplice condizione della esistenza, naturalmente, di un domicilio familiare stabile. In realtà la legge già prevede questa possibilità per pene residue fino a 18 mesi, rimettendone l’iniziativa ai direttori delle carceri. Qui si tratta di innalzare quel limite a 24 mesi e di applicare il principio con decreto legge, dunque lasciando ai tribunali di sorveglianza solo il compito di verificare la esistenza del domicilio familiare disponibile. Vedremo subito se le prime razioni ad una proposta di tale essenziale semplicità saranno ancora una vota ispirate a quella incredibile pervicacia securitaria. Invece di riflettere sulle responsabilità di una classe dirigente refrattaria essa per prima al rispetto delle regole e dei principi addirittura di rango costituzionale, si torna a fare la faccia feroce: “Non si aprano le porte di quelle celle”. Non sai dove finisce l’ignoranza e dove inizia il più desolante senso di irresponsabilità. Ma qui non c’è più spazio per le fanfaronate. Ognuno si assuma le proprie responsabilità, perché questa volta gli errori saranno chiari a tutti e potrebbero essere davvero imperdonabili. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Il governo non sta tutelando la salute dei detenuti di Laura Caroleo linkiesta.it, 6 aprile 2020 Saranno solo tremila i beneficiari della detenzione domiciliare prevista per i carcerati dal decreto Cura Italia e “non si possono stabilire distanze di un metro in celle di 3 metri per 3 se al loro interno sono recluse 4 persone. Si azzera ogni reattiva difesa immunitaria”. “Le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di lor natura”, scriveva Cesare Beccaria, ma il suo monito si è perso durante l’emergenza pandemica in atto. Le istituzioni sono immobili e il totale caos normativo di natura interpretativa e applicativa sulle misure detentive carcerarie rende tutto più complicato. Eppure “Il diritto alla salute”, anche “intramurario”, è annoverato tra i diritti fondamentali e considerato diritto naturale, riconosciuto dalle convenzioni internazionali. La stessa “quarantena”, fu istituita a livello sovranazionale nel XIV secolo come strumento di protezione contro il dilagare della peste nera - ma è sancito soprattutto dall’articolo 32 della Costituzione Italiana. Non sono bastate le esortazioni dell’Associazione nazionale magistrati, del Consiglio superiore della Magistratura e dello stesso Papa a convincere il governo ad affrontare con risolutiva determinazione la situazione all’interno degli istituti penitenziari. Sono delle vere e proprie bombe epidemiologiche non solo per i detenuti ma anche per i detenenti: la deflagrazione sarebbe distruttiva. Il 15 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha redatto delle linee guida applicabili in ambiente detentivo allo scopo di prevenire la diffusione del Sars-Cov 19. Tra queste raccomandazioni innanzitutto quella di osservare la distanza fisica di un metro. Ma come si può pensare, in Italia, di poter far rispettare questa cautela? Prossemica impossibile. Ed eccolo lì, il ritorno al problema del sovraffollamento carcerario che affligge il nostro paese. Secondo i dati del 29 febbraio forniti del Ministero della Giustizia, in Italia ci sono 61.230 detenuti (di questi soltanto 41.873 risultano essere condannati in via definitiva) a fronte di una capienza pari a 50.931 posti. L’Italia, non a caso, è stata condannata più volte, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalla Corte di Strasburgo per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, costretti a vivere in spazi angusti e in pessime condizioni igienico sanitarie. “È insopportabile che io, ogni anno, debba fare lo stesso resoconto; che nulla sia cambiato; che nonostante l’evidenza drammatica di una condizione disumana, non un passo sia stato compiuto, per rendere più degna l’esecuzione penitenziaria”, ha detto Luca Bisori, presidente della Camera penale di Firenze. Sempre L’Oms ha raccomandato misure di protezione personale quali igiene delle mani, disinfestazione degli ambienti e uso di mascherine protettive. Ma ancora una volta sembra difficile pensare che siano reperiti i dispositivi sanitari necessari per tutti coloro che ruotano attorno alle strutture carcerarie, quando mancano in molti ospedali italiani. “Il tema della compatibilità carceraria, cioè a dire del poter scontare la propria pena in galera è uno dei nodi cruciali del sistema penitenziario italiano”, spiega l’avvocato Salvatore Staiano, esperto di diritto penale e penitenziario, convinto che si debba evitare che i detenuti vivano un situazioni di abbattimento, di afflizione psicologica dovuta all’assoluta impossibilità difensiva contro il mostro invisibile del coronavirus. “Non si possono stabilire distanze di un metro in celle di 3 metri per 3 se al loro interno sono recluse 4 persone - continua l’Avvocato Staiano -, vi consegue una assoluta destrutturazione psicologica, i detenuti si sentono abbandonati e vinti. Si azzera ogni reattiva difesa immunitaria”. Il carcere, infatti, cagiona, depauperandolo, un indebolimento del sistema immunitario e a dimostrarlo sarebbero i dati relativi al dilagare dell’epatite C, dell’Hiv e dei problemi psichiatrici e di astinenza da sostanze stupefacenti. Il Decreto Cura Italia, che ha introdotto misure per contrastare gli effetti provocati dall’emergenza epidemiologica in atto, - viste anche le numerose rivolte scoppiate all’interno delle carceri a causa della “serrata” che aveva bloccato, per tutelare la salute dei reclusi, ogni contatto con l’esterno, vietando così ai carcerati i colloqui con i familiari -, prevede la detenzione domiciliare per chi debba scontare una pena o un residuo di pena fino a 18 mesi. Previsione, diremmo sommessamente, debole e inefficace; potendosi bene elevare la quota di pena ad anni 3 comunque restando all’interno delle previsioni “liberatorie” dello stesso ordinamento penitenziario. Ma saranno poco meno di tremila i beneficiari di questa misura. Inoltre, tale previsione, escludendo tutti i condannati per i reati ostativi, creerebbe una discriminazione: si andrebbe a tutelare la salute solo di una categoria di detenuti; basterebbe sogliare il beneficio anche in afferenza alla peculiare elevata pericolosità del detenuto postulante. Come se non bastasse, nel nostro sistema processuale, pur essendo considerato il carcere come extrema ratio, risulta che il 30% dei detenuti sia in carcerazione preventiva e in attesa di un esito definitivo, il che non esclude vi possa essere una assoluzione. Forse, la pandemia in atto, potrebbe incentivare l’utilizzo di misure alternative alla detenzione. Se si considerasse il coronavirus elemento oggettivo di inapplicabilità della custodia carceraria, si alleggerirebbe la pressione delle presenze non necessarie nelle case circondariali, permettendo così il mantenimento della distanza di un metro e tutelando il diritto alla salute di 61.230 detenuti e di circa 45.000 soggetti che sostengono, orbitandone all’interno, l’intero sistema penitenziario. Carcere, diritti, organismi internazionali al tempo del coronavirus Patrizio Gonnella sidiblog.org, 6 aprile 2020 Gli effetti sociali del coronavirus costituiscono una metafora della condizione carceraria. Siamo tutti prigionieri nelle nostre case, costretti ad assaggiare forzatamente frammenti di detenzione. Fino a questo momento, però, questo stato globale e permanente di reclusione non si è tradotto in una spinta a produrre azioni dirette a favorire in modo significativo il distanziamento sociale all’interno delle prigioni. Un distanziamento reso complesso dalla situazione generalizzata, non solo dunque italiana, di sovraffollamento della popolazione detenuta costretta a vivere in prigioni spesso malsane. Tale situazione è stata posta al centro delle preoccupazioni degli organismi internazionali che si occupano di privazione della libertà a livello sovra-nazionale. Il punto di partenza non può che essere di tipo numerico, rivolgendo uno sguardo ai numeri della detenzione e allo spazio vitale a disposizione per ciascuna persona reclusa. Sono oltre 10 milioni i detenuti nel pianeta, senza contare gli immigrati reclusi nei centri amministrativi di detenzione in attesa di espulsione. C’è chi ha evocato un’immagine suggestiva per descrivere l’impatto quantitativo della reclusione penale nel mondo: se tutti i detenuti si tenessero per mano potrebbero abbracciare l’intera circonferenza dell’equatore. Le ricerche dell’Institute for Crime & Justice Policy Research (Icpr) dell’Università Birkbeck di Londra offrono il più completo data-base sui numeri della detenzione a livello globale. Ci sono Paesi dove il tasso di sovraffollamento (numero di detenuti per numero di posti letto regolamentari) è spropositatamente alto. Le persone detenute vengono ammassate nelle celle, costrette a dormire per terra, e condividono un bagno alla turca in mezzo al camerone. Nelle Filippine i detenuti sono circa 215 mila e il tesso di affollamento è addirittura pari al 436% rispetto alla capacità ricettiva dichiarata (che già è poco rispettosa di standard abitativi dignitosi). Ovviamente siamo ben lontani da quel distanziamento sociale raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, non solo per i cittadini liberi, ma anche per chi vive negli istituti penitenziari. Ad Haiti, il Paese che svetta nelle classifiche mondiali per tasso di sovraffollamento, esso sfiora il 455%. I detenuti rinchiusi nelle carceri asiatiche (si pensi all’Iran così colpito dal Covid-19), centroamericane e africane sono quelli che più andranno a pagare le conseguenze dell’eventuale contagio che si diffonderà dentro. Gli Stati Uniti con i loro due milioni e 200 mila detenuti rinchiusi in ben seimila carceri federali, statali, locali, private, giovanili, militari producono un tasso di detenzione (rapporto tra il numero delle persone detenute e delle persone libere) tra i più alti al mondo. Un tasso di detenzione che però determina un sovraffollamento non generalizzato: in alcuni casi drammatico, in altri più gestibile. In Europa il riferimento all’Italia è paradigmatico. Il tasso di sovraffollamento è pari circa al 120% con punte tragiche in alcune carceri dove si sfiora il 200%. Secondo gli standard del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, fatti propri dalla Corte Europea di Strasburgo in una giurisprudenza che ha coinvolto anche l’Italia con la sentenza pilota Torreggiani, ogni detenuto dovrebbe avere almeno tre metri quadri a disposizione per evitare che il trattamento a cui è sottoposto risulti essere in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano, crudele o degradante. Cosa significa in concreto vivere in condizioni di affollamento carcerario? L’osservazione empirica aiuta a trasformare in immagini quello che la statistica non sempre riesce a chiarire. Nel 2019 Antigone ha visitato circa cento istituti di pena: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in oltre il 50% c’erano celle senza doccia per cui i detenuti erano costretti a lavarsi in spazi comuni, in circa il 10% mancava il wc in cella, in un quarto delle prigioni i detenuti vivevano in camere con meno di tre metri quadri a disposizione. In alcune case circondariali metropolitane i detenuti non avevano lo spazio per leggere stando seduti e le celle ospitavano letti a castello con tre piani, di cui l’ultimo sfiorava il soffitto. Tutto ciò per spiegare in modo diretto come gli effetti tragici della pandemia nelle carceri risultino essere strettamente correlati alla condizione di vita quotidiana presente all’interno degli istituti di pena, all’affollamento ingestibile, a edifici malmessi, alla scarsa disponibilità di prodotti igienico-sanitari, all’assenza di adeguato personale sanitario, alla composizione sociale della popolazione detenuta che presenta al proprio interno un gran numero di persone che hanno una pregressa condizione psico-fisica vulnerabile (non pochi sono i malati oncologici, diabetici, immunodepressi, cardiopatici, affetti da demenza senile). L’emergenza coronavirus nelle carceri non è però solo una questione di salute pubblica. Essa si innesta all’interno di un mondo, quello delle prigioni, che ha una sua tragica essenza patologica. I rischi da contagio producono ansia, solitudine, paura, panico, disperazione, disagio psichico che si aggiungono alla sofferenza connaturata alla pena e possono determinare una crescita esponenziale della violenza verso sé stessi e verso gli altri, nonché l’incremento di atteggiamenti auto-distruttivi. Le Dichiarazioni di principi in materia di Covid-19 del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (Cpt) e del Sotto-Comitato Onu per la Prevenzione della Tortura (SPT) presuppongono tutto questo. Esse acquistano un particolare rilievo in quanto provengono da organismi sovra-nazionali che hanno compiti di monitoraggio e di ispezione fondati sull’osservazione diretta e non sull’analisi da desk del quadro normativo nazionale. Non è un caso che le due Dichiarazioni sono tra loro sovrapponibili e si muovono nella stessa direzione. Volendo sintetizzarne i contenuti, esse contengono raccomandazioni rivolte agli Stati dirette a: assicurare ai detenuti un’adeguata informazione sanitaria sui rischi da contagio, prevedere un’ampia disponibilità di prodotti igienico-sanitari sia per i detenuti sia per il personale, accrescere le forme di contatto a distanza con i familiari che compensino la riduzione o l’azzeramento dei colloqui visivi allo scopo di non trasformare le misure di prevenzione medica in azioni vessatorie, un impulso alle autorità statali affinché assumano provvedimenti diretti alla deflazione carceraria. La Dichiarazione del Cpt è del 20 marzo 2020. Essa si fonda sul principio di non-discriminazione nella promozione e protezione del diritto alla salute. I detenuti devono godere di prestazioni mediche (sia nella fase della prevenzione sia in quelle della diagnosi e della terapia) identiche a quelle assicurate ai cittadini in stato di libertà. Non è giustificabile una differenziazione in peius del trattamento. Il Cpt ritiene legittimo ogni sforzo diretto a evitare il contagio internamente alle carceri purché i provvedimenti assunti non si traducano nella compressione di diritti fondamentali. È dunque ragionevole sospendere le attività di intrattenimento o di trattamento non essenziali, ma non si può comprimere il diritto di accesso quotidiano all’aria aperta per almeno un’ora al giorno. Sta all’amministrazione penitenziaria assicurare un godimento di questo diritto scaglionato nella giornata. Un tema di particolare rilievo è quello dei contatti con il mondo esterno e con i familiari. La legittimità delle restrizioni ai colloqui visivi è correlata dalla previsione contemporanea di un maggiore accesso a mezzi di comunicazione alternativi come le video-telefonate o le conversazioni tramite Skype. Seppur con colpevole ritardo, ciò è avvenuto anche in Italia: per la prima volta con circolare del 23 marzo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha autorizzato l’uso di whatsapp tramite smartphone di proprietà pubblica. In molti Paesi europei si stanno sperimentando nuove forme tecnologiche di corrispondenza tra il dentro e il fuori, così come monitorato dallo European Prison Observatory. Il detenuto non deve essere isolato dal proprio contesto socio-affettivo. Un tema delicato affrontato dal Cpt è quello della prevenzione della violenza. Le proteste dei detenuti, che è presumibile insorgano, devono essere contenute senza eccessi sproporzionati nell’uso della forza e delle armi. Le garanzie fondamentali contro i maltrattamenti restano in piedi anche in condizioni di emergenza, quali quelle date dalla pandemia. Lo stress a cui il personale è sottoposto richiede, a sua volta, supporto psicologico costante. Anche questa è una misura suggerita a prevenzione dei maltrattamenti: poliziotti in burnout è più facile che commettano abusi e violenze. Ovviamente, il tema centrale, al fine di evitare contagi a catena, è quello della deflazione carceraria e della riduzione dell’affollamento carcerario. Il Cpt insiste affinché si ricorra a misure alternative alla privazione della libertà sia nella fase cautelare che in quella esecutiva della sentenza. Le indicazioni non possono che essere generiche in quanto devono valere per Paesi che hanno legislazioni penali e penitenziarie molto differenti e tradizioni giuridiche tra loro molto distanti. Un’attenzione particolare è rivolta però ai gruppi vulnerabili e/o a rischio, come gli anziani e le persone con patologie preesistenti, auspicando forme di detenzione domiciliare. Anche l’SPT spinge verso l’adozione di misure non custodiali, richiamando le Standard Minimum Rules for Non-custodial Measures delle Nazioni unite, o Tokyo Rules del 1990. In Italia il Governo ha inserito alcune norme all’interno del Decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, ancora in fase di conversione. Gli articoli 123 e 124 modificano, seppur a tempo, le norme sulla detenzione domiciliare e la semilibertà. In realtà si tratta di cambiamenti minimi: si velocizzano i passaggi interni all’amministrazione penitenziaria ai fini dell’istruzione dell’istanza di detenzione domiciliare di coloro che hanno ancora diciotto mesi di pena da scontare (anche se allo stesso tempo vengono imposti alcuni limiti ulteriori rispetto a quelli pre-esistenti nella legge n. 199 del 2010 ai fini del godimento della misura: il detenuto non deve essere stato sanzionato disciplinarmente nell’anno precedente per fatti di particolare gravità, non deve avere partecipato alle rivolte degli inizi di marzo 2020, deve esserci la disponibilità in concreto dei braccialetti elettronici, salvo che il richiedente abbia un residuo pena da espiare inferiore ai sei mesi); si prevede nel caso della semilibertà che il periodo notturno possa essere trascorso nel proprio domicilio anziché in carcere. Va detto che, prima ancora dell’entrata in vigore del citato Decreto-legge, il numero dei detenuti era già in calo di alcune migliaia di unità per almeno tre ordini di motivi: una parte della magistratura di sorveglianza ha velocizzato notevolmente le proprie decisioni interpretando in forma estensiva la legislazione in corso; la riduzione del numero dei reati nelle città ha determinato un abbassamento del numero dei nuovi ingressi in stato di custodia cautelare; alcune procure hanno sospeso l’esecuzione di provvedimenti restrittivi nei confronti di persone a piede libero. L’emergenza sanitaria globale, dunque, ha investito drammaticamente il mondo delle prigioni e ha imposto un’attenzione istituzionale intorno allo stesso. Il monitoraggio da parte di organismi sovra-nazionali indipendenti, dei meccanismi nazionali di prevenzione (Npm) e delle organizzazioni non governative è ancora più necessaria in una fase complessa come quella attuale. Esso è una salvaguardia essenziale contro il rischio di maltrattamenti, discriminazioni, abusi. Gli Stati dovrebbero continuare a garantire, anche in piena pandemia, l’accesso degli organismi di controllo a tutti i luoghi di detenzione, in quanto l’emergenza, se non sottoposta a verifiche, rischia di tradursi in azioni illegittime. Il Papa: “Carceri sovraffollate, rischio calamità per il Covid-19” ansa.it, 6 aprile 2020 “La cultura dell’indifferenza è negazionismo. Non faccio il comunista, è il centro del Vangelo”. Il problema della pandemia del coronavirus può diventare nelle carceri una vera e propria “calamità”. Lo ha detto il Papa nell’introduzione della messa a Santa Marta, tornando così a chiedere alle istituzioni una soluzione. “Penso a un problema grave che c’è in parecchie parti del mondo. Io vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento delle carceri - ha detto Francesco -. Dove c’è sovraffollamento, tanta gente, c’è il pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, coloro che devono prendere le decisioni, perché trovino la strada giusta e creativa per risolvere il problema”. “C’è l’abitudine a vedere i poveri come ornamento delle città, come le statue, come una cosa normale”, ha detto il Papa nell’omelia della messa a Santa Marta, sottolineando che “tanta gente è vittima dell’ingiustizia strutturale dell’economia mondiale”. “Ma io li vedo? Me ne accorgo? - ha chiesto Francesco riferendosi ai poveri. Li incontreremo nel Giudizio e Gesù ci domanderà: come va con i poveri? Su questo saremo giudicati, nel rapporto con i poveri, non per il lusso, i viaggi, la nostra importanza sociale”. Il Papa ha anche criticato tutte quelle strutture di beneficienza dove lavora tanta gente stipendiata, e nelle quali dunque la struttura assorbe “anche il 40 per cento” delle offerte. Questo “è un modo di prendere i soldi dei poveri”, ha commentato. Non occuparsi dei poveri è “negazionismo”, ha detto il Papa nell’omelia della messa a Santa Marta aggiungendo: “Questo non è fare il comunista, è il centro del Vangelo, saremo giudicati su questo”. “Ci sono tanti poveri, c’è il povero che vediamo ma la grande quantità dei poveri sono quelli che non vediamo perché entriamo nella cultura dell’indifferenza che è negazionismo”, ha detto Francesco. Amnistia, indulto, misure alternative: le idee di Fiandaca per evitare l’epidemia nelle carceri di Francesca Donnarumma de Luca diritto.news, 6 aprile 2020 Per scongiurare l’esplosione di una bomba epidemiologica nelle carceri, secondo il Garante Fiandaca potrebbe essere utile il ricorso ai provvedimenti di amnistia e indulto. Giovanni Fiandaca, Garante dei detenuti della Sicilia, giurista, e professore di diritto penale all’università di Palermo, ritiene che in questo momento di grave emergenza sia utile sfoltire le celle in considerazione del fatto che ci troviamo in presenza di una pandemia e i criteri di valutazione degli spazi non possano essere gli stessi di un momento ordinario. Il Garante dei detenuti della regione Sicilia chiede in particolare che siano adottate “misure legislative molto più incisive e di pressoché automatica applicazione”. Nell’intervista rilasciata a Giorgio Mannino per Il Riformista ha spiegato quali provvedimenti potrebbero essere utili, in questo momento così difficile di emergenza sanitaria, per scongiurare “l’esplosione di una bomba epidemiologica nelle carceri del Paese”. Secondo Fiandaca l’ideale sarebbe “una misura di deflazione penale che punti a ridurre la presenza dei detenuti in una scala tra 10mila e 20mila presenze. I provvedimenti finora emanati consentono uno sfrondamento troppo limitato. La concessione delle misure alternative è sempre sottoposta alla decisione dei magistrati di sorveglianza. E succede che i magistrati di sorveglianza vengono sovraesposti e non sempre sono in grado di disporre di elementi di conoscenza per operare un confronto tra rischi di varia natura. Alcuni magistrati di sorveglianza sono più restii a concedere misure alternative, altri invece sono più favorevoli. Ci troviamo di fronte ad un eccesso di responsabilizzazione e a una disomogeneità di orientamenti che possono dare luogo a disparità di trattamento”. Ed ha aggiunto, nell’intervista rilasciata a Il Riformista, l’utilità di introdurre un meccanismo di applicazione quasi automatica dei provvedimenti di scarcerazione, per limitare la discrezionalità in questo momento del potere decisionale della magistratura di sorveglianza: “Chiederei provvedimenti più incisivi nel consentire le misure alternative per quei detenuti che devono scontare 4 anni o al limite 3 anni di pena. Ma chiederei anche una disciplina che consenta un’attivazione pressoché automatica dei provvedimenti di scarcerazione, riducendo al massimo il potere discrezionale dei magistrati di sorveglianza”. In merito al ricorso ai provvedimenti all’amnistia e indulto per scongiurare, in questa situazione di evidente eccezionalità e gravità, il dilagare dell’epidemia nelle carceri, Giovanni Fiandaca si è così espresso: “Come giurista dico che la situazione attuale sarebbe connotata da quelle caratteristiche di eccezionalità e irripetibilità che avrebbero potuto in teoria giustificare un provvedimento di amnistia o d’indulto. Il presidente della Repubblica può esercitare il suo potere di grazia in forma cumulativa. Sergio Mattarella può contribuire a decrementare la detenzione carceraria. Fino a pochi anni fa era mia collega all’università di Palermo. Col massimo del rispetto mi piacerebbe vedere un Mattarella più propositivo che stimoli le forze politiche. Che interpreti il ruolo come faceva Giorgio Napolitano”. La pena di leggere. A proposito di lettura in carcere di Giada Ceri minimaetmoralia.it, 6 aprile 2020 La cultura che rende liberi. I libri come chiave per uomini chiusi a chiave. La lettura libera-mente. E avanti così. Nulla, nemmeno una pandemia, riesce a far tacere certa retorica paternalistica che in carcere trova un terreno fertile per esprimersi (in assenza di contraddittorio). Questa e altre ragioni fanno dell’istituzione totale un osservatorio sociale di interesse collettivo. Qualche mese fa nella casa circondariale “Le Sughere” di Livorno è stato avviato un progetto di lettura ad alta voce con la riunione, ogni quindici giorni, di persone detenute per leggere e commentare un libro insieme da alcuni volontari. Ma l’iniziativa non ha ricevuto una larga accoglienza e la biblioteca dell’istituto, nella sezione di media sicurezza, ha continuato a essere poco frequentata. Poi ecco l’emergenza legata alla diffusione del Covid-19, con la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari allo scopo di prevenire il contagio, e un’idea per stimolare i detenuti alla lettura: una telefonata o una videochiamata in più per ogni libro letto. (Il bibliotecario e i volontari impegnati nel progetto individuano i testi da proporre con una scheda che deve essere compilata in modo da dimostrare che il libro è effettivamente stato letto.) “Vogliamo dare nuovo impulso alla biblioteca dell’istituto e ai progetti legati alla lettura”, ha detto il direttore, “perché crediamo davvero che oggi più che mai la conoscenza possa fare la differenza e che la riscoperta o la scoperta della lettura in un momento come quello attuale sia fondamentale perché, come diceva Pennac, un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa, persino da te stesso”. (Ma dagli apologeti della “cultura” non ti salva nessuno.) L’idea in sé non è nuova. “Aprire un libro, in Brasile, servirà ad aprire anche le porte del carcere”: così, o con sintesi non molto diverse, qualche anno fa varie testate giornalistiche italiane dettero notizia del Reembolso através da leitura, programma di recupero approvato nel 2012 negli Stati del Paraná e del Ceará sotto la presidenza di Dilma Rousseff e realizzato successivamente anche altrove nella repubblica federale. Il Reembolso permette, a determinate persone detenute, uno sconto di pena pari a quattro giorni in un mese per ogni libro letto fino a un totale di quarantotto giorni in un anno. La lettura del libro deve essere completata entro ventotto giorni, quindi viene verificata, a partire da una recensione scritta e da un colloquio sostenuto con un docente, sulla base di alcuni parametri prestabiliti (comprensione del testo; uso corretto dei paragrafi, dell’ortografia, dei margini; grafia comprensibile). La possibilità di accesso al programma dipende da una valutazione dei giudici che si riferisce al reato commesso; per ottenere lo sconto della pena occorre conseguire, nell’esame previsto alla fine della lettura, almeno un punteggio minimo pari a sei. Sui risultati dell’esperienza brasiliana non sono stati pubblicati dati precisi; tuttavia, il Reembolso è diventato per alcuni una fonte di ispirazione. Nel 2014 l’allora assessore alla Cultura della Regione Calabria presentò una proposta di legge che prevedeva l’istituzione di un corso di lettura e analisi critica per i detenuti, ricalcando il metodo brasiliano (con minime differenze) a partire dalla prospettiva di una pena che fosse non punitiva ma rieducativa: chi legge, dichiarò Caligiuri, conosce più parole, e chi ha più parole ha più idee; possedere più idee significa avere una visione del mondo, e qui torniamo al reo, perché chi ha una visione del mondo riesce a distinguere il bene dal male. Ma all’iniziativa, arrivata in Parlamento, non fu dato alcun seguito. Nel 2015 la deputata Pd Daniela Sbrollini inserì il metodo brasiliano in un nuovo progetto di legge, e anche di quello non si è saputo più nulla. Nel frattempo, però, i progetti, corsi, laboratori e concorsi variamente legati alla lettura e alla scrittura (autobiografica, creativa, giornalistica, poetica, teatrale…) hanno continuato a moltiplicarsi negli istituti penitenziari d’Italia, sia pur in maniera non omogenea. “Scrittura d’evasione” (corso di scrittura creativa nel carcere di Sollicciano); “Il tempo libero scorre” (laboratorio di lettura e scrittura creativa nel carcere di Milano-Opera); “Parole oltre il muro” (concorso riservato ai detenuti del carcere di Piacenza); il “Premio Goliarda Sapienza. Racconti dal carcere, rivolto a detenuti italiani e stranieri”… L’elenco, qui necessariamente impressionistico, comprende anche un Corso di scrittura per guida turistica, un Laboratorio di giornalismo sociale e infine il progetto proposto nel carcere di Livorno. Dunque, ci risiamo: “invogliare a correre il rischio della lettura” nei giorni del coronavirus. Ma si può fare di più, se non di meglio. Nell’aprile 2013 la Corte di giustizia dello Stato di San Paolo annunciò la possibilità di concedere ai detenuti la “pena della lettura”: espressione che farà storcere il naso a qualcuno ma a me non pare peggiore di altre, utilizzate magari con le migliori intenzioni, come “promozione dell’amore per i libri e della cultura”. L’amore per la “cultura”, appunto. (Metto il termine tra virgolette perché, preso da solo senza alcuna contestualizzazione, ha un significato tanto vago che se ne perde il senso. Cultura vuol dire semplicemente coltivazione: di cosa? Quando? Dove? Da parte di chi?) Se in Italia i lettori scarseggiano, i promotori dell’amore per i libri e la cultura si danno invece parecchio da fare. Anche oggi, anche in carcere, whatever it takes. Sembra un’altra era, ma è stato soltanto lo scorso 8 ottobre: in un incontro organizzato a Rebibbia dall’ufficio del garante delle persone private della libertà si discusse tra detenuti, insegnanti, volontari, direttrice, provveditore, magistrato di sorveglianza del metodo brasiliano e di una sua possibile applicazione in Italia. La cultura rende liberi? Allora non potrebbe aprire, oltre alla mente, anche le porte di un carcere? Formulai la domanda intendendola come una provocazione: il Reembolso e le sue declinazioni italiane possono essere giudicate in modi diversi, ma sta di fatto che la dimensione strumentale dello scambio è ben presente in varie forme dentro le nostre carceri (e fuori): la riabilitazione della persona ristretta (o rieducazione, o “trattamento”) si fonda su meccanismi di punizione e premialità e la nostra giustizia resta fondamentalmente retributiva. Possiamo allora provare, chiedevo, a rendere schietto lo scambio fra detenuto e amministrazione penitenziaria orientandone la strumentalità in una direzione più costruttiva, foss’anche “solo” quella di ridurre il danno che il carcere arreca? E possiamo magari, contestualmente, intraprendere una riflessione disincantata e non ipocrita su questa formidabile coppia, rieducazione e cultura, per capire quale genere di convergenza possa esserci tra le due, tale da far sì che il carcere svolga il compito che alle pene assegna l’articolo 27 della Costituzione? (Alle pene: non necessariamente al carcere). Vogliamo finalmente fare a meno del giudizio morale sulle intenzioni, sulla loro maggiore o minore schiettezza e libertà in un contesto - la galera - che è stato pensato e fatto apposta per privare della libertà? Per chiederci se la cultura possa e debba rendere migliore l’individuo, e cosa significhi “migliore”, cosa intendiamo per buono e se quello delle valutazioni morali non sia un ambito dal quale il diritto, almeno lui, dovrebbe in definitiva astenersi. Dice l’articolo n. 15 dell’Ordinamento penitenziario che il trattamento del condannato (“un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale”) è svolto avvalendosi principalmente, tra l’altro, dell’istruzione e delle attività culturali. Dicono i fatti che da tempo la galera è diventata, come la chiamò Alessandro Margara, una discarica sociale, in cui spesso finiscono persone che all’istruzione hanno avuto scarse o nulle possibilità di accesso. “Cultura in carcere”, insomma, non è una passata di fard sul volto di un lebbroso e fino a poche settimane l’idea brasiliana e i suoi successivi derivati non erano privi di interesse. Oggi però lo scambio fra lettura e qualche genere di beneficio in più di cui godere dentro quella che minaccia di essere una bomba epidemiologica - il carcere italiano, già condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo - assume un significato diverso e richiede alcune riflessioni. A partire da una domanda che rivolgo alla direzione delle “Sughere”: può essere oggetto di scambio qualcosa che ha a che fare con il diritto all’affettività? Udienze, arriva un altro rinvio: rischio ingorgo per la ripresa di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2020 Rischio accumulo per i procedimenti giudiziari. L’ampia sospensione dell’attività dei tribunali determinata dall’emergenza Covid-19 potrebbe provocare un ingolfamento di fascicoli alla ripresa. Intanto che lo stop previsto dal Dl cura Italia fino al 15 aprile sta per essere prorogato al 4 maggio dal Cdm atteso per oggi (e salvo ulteriori decisioni) si comincia a pensare alla fase 2, per ora fino al 30 giugno, in cui i capi degli uffici dovranno evitare l’affollamento con misure che vanno dalla limitazione degli orari di apertura al rinvio delle udienze. Uno stop che può mettere in crisi il sistema giustizia e bloccare l’andamento, magari lento ma comunque positivo, di riduzione dell’arretrato e dei tempi dei processi, riscontrato negli ultimi anni. Gli effetti dello stop - La sospensione ha ridotto al minimo l’attività degli uffici. Nel settore civile si tengono le udienze urgenti che riguardano i minorenni e i rapporti familiari e, nel penale, le convalide di arresto e di fermo, oltre alle udienze nei procedimenti a carico di detenuti se loro o i difensori chiedono di andare avanti. I magistrati stanno poi cercando di chiudere i procedimenti arrivati alle battute finali, tenendo le camere di consiglio in videoconferenza (come al Tribunale delle imprese di Milano) o sostituendo le udienze per la precisazione delle conclusioni dei difensori con il deposito telematico di note scritte (come alla Corte d’appello di Roma). Né si tornerà presto alla normalità. Non solo per la proroga della sospensione, ma anche perché i capi degli uffici giudiziari, consapevoli che l’affollamento dei palazzi di giustizia non è compatibile con le distanze da rispettare per contenere il contagio, stanno lavorando a provvedimenti che limitano l’accesso alle aule. L’effetto, inevitabile, sarà una riduzione degli affari trattati, perché molte attività non possono essere svolte senza la presenza delle parti e degli operatori della giustizia. Le criticità - La crisi ha spinto il ricorso alla telematica. Il ministero della Giustizia ha dettato le regole per i collegamenti da remoto (decreto del 20 marzo), Consiglio superiore della magistratura e Consiglio nazionale forense hanno siglato protocolli per disciplinare le udienze online. Ma non mancano difficoltà e nodi da sciogliere. A cominciare dall’impossibilità di assumere in videoconferenza testimonianze o dichiarazioni di consulenti e periti. Una questione di primaria importanza che investe il sistema di formazione della prova e, nel penale, il diritto al contraddittorio e l’oralità del processo. Anche se non toccano questioni di principio, ci sono poi i problemi amministrativi. Il principale consiste nell’impossibilità per il personale delle cancellerie che lavora in smart working di accedere ai registri civili e penali e di depositare gli atti. Molti tribunali hanno chiesto al ministero della Giustizia di sbloccare questa impasse che rischia di diventare un collo di bottiglia anche per i procedimenti oggi trattati in forma scritta e gestiti da remoto da magistrati e avvocati. La chance della mediazione - Per chiudere le liti civili e commerciali nonostante la giustizia ferma resta aperta la strada della mediazione e della negoziazione assistita, che si possono continuare a fare, online o anche di persona, rispettando le distanze. Per favorire l’utilizzo di questi strumenti, il tavolo per le procedure stragiudiziali voluto dal ministero della Giustizia e coordinato da Paola Lucarelli, docente all’Università di Firenze, ha elaborate un pacchetto di proposte per ampliare il ricorso alla mediazione: da un lato per renderla obbligatoria prima di andare in giudizio nei casi di inadempimento contrattuale causato dall’emergenza sanitaria, dall’altro per spingere la mediazione demandata dal giudice, con incentivi economici per le parti. La giustizia si fa in video di Roberto Miliacca Italia Oggi, 6 aprile 2020 L’emergenza Covid-19 fa chiudere i tribunali, ma le udienze si prova a farle da remoto Una giustizia congelata. Almeno fino a metà maggio, salvo disposizioni diverse, i tribunali d’Italia restano con i battenti chiusi e l’esercizio della giurisdizione, sia civile che penale, viene svolto nella modalità video conferenza per rispettare le misure di contenimento anti Covid-19 individuate dal governo. Come hanno reagito magistratura e avvocatura all’emergenza e al blocco “fisico” delle udienze? Abbastanza bene, secondo quanto emerge dall’inchiesta che Affari Legali ha condotto questa settimana. Molti nutrono dubbi sul fatto che la “giustizia” non sia stata considerata, dal governo, un “servizio essenziale” per il paese, e che quindi sia stata costretta a “subire” la sospensione di tutti i termini processuali, salvo pochissime eccezioni, rinviando sine die tutte le controversie pendenti. Questo congelamento della giustizia, in un paese che da sempre soffre del problema della lungaggine dei processi, potrebbe danneggiare ulteriormente la situazione. Magistrati e avvocati, invece, concordano sul fatto che le videoconferenze, in questa fase emergenziale, si stiano dimostrando essere uno strumento utile per proseguire, seppur con il contagocce, l’attività giurisdizionale. L’informatizzazione spinta di tutte le attività processuali obbligata dall’emergenza Covid, nonostante da qualche anno molte delle attività giudiziarie siano state digitalizzate per effetto della partenza del processo civile telematico, sta però mettendo alla luce alcuni limiti di un funzionamento efficiente, e cioè la necessità che ci siano maggiori risorse e uomini per far decollare, anche dopo l’emergenza, la nuova giustizia 4.0. L’Anm a Bonafede: “I giudici lavorano lo stesso, ma i tribunali devono restare ancora vuoti” di Liana Milella La Repubblica, 6 aprile 2020 L’Associazione nazionale magistrati chiede la proroga del regime a distanza e anche il rinvio della legge sulle intercettazioni, che doveva entrare in vigore il 2 maggio perché il Covid-19 rende impossibile organizzare gli uffici. Ecco come potrebbe cambiare la giustizia italiana. Nessuna riunione de visu, solo consultazioni online. Anche il sindacato dei giudici, l’Anm, che rappresenta 9mila toghe italiane, vive sul computer l’emergenza Covid-19. Nell’ultimo contatto di sabato è maturata la decisione di chiedere al Guardasigilli Alfonso Bonafede di rinviare dal 15 aprile fino a quando sarà necessario le regole per fare ugualmente giustizia, ma evitando contatti e presenze fisiche nei tribunali. Dunque, proprio la giustizia online già in vigore dal 17 marzo con il decreto Bonafede per tutte le cause urgenti e non rinviabili sia civili che penali. Ma con meccanismi ancora più stringenti che evitino al massimo contatti fisici tra tutti i protagonisti del processo. Inoltre l’Anm chiede anche il rinvio dell’entrata in vigore della legge Orlando-Bonafede sulle intercettazioni, che sarebbe dovuta partire il 2 maggio. Ma ecco qual è il vademecum sollecitato dall’Anm - che ha rinviato (per ora a fine maggio) anche il voto per rinnovare il suo parlamentino previsto ad aprile - e quale potrebbe essere, se Bonafede e il Parlamento acconsentono, il volto della giustizia italiana dei prossimi mesi. La casa del giudice diventa aula di udienza - Cosa chiede in concreto l’Anm? Dal 17 marzo i processi civili e penali urgenti, cioè quelli che non possono essere rinviati, si svolgono regolarmente, ma dove è possibile senza un contatto fisico, quindi a distanza. Anche se non mancano processi che continuano a celebrarsi nelle aule di udienza. Ma si tratta di un numero limitato. In via telematica si sono svolte finora le convalide degli arresti e i cosiddetti processi per direttissima. L’Anm, con un documento inviato ieri a Bonafede, chiede che questo regime non si fermi il 15 aprile, ma sia prorogato dal governo e non sia a discrezione dei singoli capi degli uffici, finché la situazione non si avvicina alla normalità. Scrive l’Anm che ciò è necessario “anche con l’adozione delle necessarie cautele, per evitare l’esposizione di migliaia di persone a un rischio ancora grave, peraltro in assenza dei dispositivi e delle misure di protezione che potrebbero al più ridurre, ma non certo escludere, il contagio e una diffusione ulteriore del virus”. Decisione di Bonafede, non dei magistrati - Il ministro della Giustizia ha già preparato un emendamento al decreto Cura Italia, per la parte che riguarda la giustizia e che andrà in discussione al Senato in commissione già da oggi. Nel quale è previsto un meccanismo per far svolgere i processi per via telematica fino 30 giugno. E anche la possibilità di fare le udienze con i sistemi informatici non solo nei casi di estrema urgenza (con i detenuti), ma anche per quelli con imputati liberi. Fino al 4 maggio dunque tutti i processi si fermerebbero, tranne quelli urgentissimi (con i detenuti nel penale; per assegni di divorzio e minorenni in difficoltà nel civile). In concreto, cosa è accaduto finora? Solo negli uffici giudiziari - per esempio a Napoli e a Milano - dove è stato fatto un protocollo, cioè un accordo tra giudici, pm e avvocati, sono stati celebrati i processi per direttissima e le convalide per gli arresti in cui c’erano gli imputati con i loro difensori e la polizia giudiziaria collegati via computer. Ma sono stati fatti fisicamente, nelle aule dei tribunali, anche quei processi nei quali gli imputati detenuti coinvolti hanno chiesto che si svolgessero comunque con la presenza fisica. Ma adesso, dopo la richiesta dell’Anm, cosa succederà? La regola varrà per tutti i tribunali italiani, a prescindere da eventuali accordi sottoscritti in precedenza. Quindi il processo telematico non sarà più un’eccezione, ma diventerà la norma. Almeno fino al 30 giugno. Potenzialmente, se il Coronavirus non dovesse essere ancora sconfitto, anche per il futuro. Si apre una strada che di fatto segnerà la storia della giustizia italiana. Con molti mugugni delle Camere penali che lamentano l’assenza, in questo modo, di un contatto diretto tra l’avvocato e il detenuto che resta in carcere e vede il suo difensore soltanto attraverso il computer. Le lamentele riguardano il fatto che l’imputato dovrebbe partecipare al processo seduto accanto al suo difensore nello studio, ma senza ritrovarsi in un’aula. Un’ipotesi che, secondo il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa, che è anche avvocato, sarebbe “se portata a regime, un sovvertimento di principi basilari del processo penale con una violazione pesantissima e probabilmente incostituzionale del diritto di difesa”. Ma il futuro sarà tutto telematico? In queste ore i protagonisti del processo - giudici, avvocati, forze di polizia - si interrogano se davvero il futuro della giustizia sia civile che penale sarà via computer. L’emergenza ha improvvisamente costretto tutti ad accelerare l’innovazione, al punto che anche la Scuola della magistratura di Scandicci sta lavorando su questo, addestrando le giovani o toghe al lavoro online. Da quello che risulta mentre i giudici civili sono più avanti nei processi a distanza, quelli penali affrontano maggiori difficoltà, che sono però insite nella complessità della procedura. Il rinvio delle intercettazioni - L’Anm chiede anche di rinviare l’entrata in vigore della nuova disciplina delle intercettazioni, perché “richiede un insieme di misure organizzative tecnologicamente complesse, all’evidenza impossibili da adottare e attuare entro il termine a oggi previsto”. E su questo è d’accordo pure il forzista Costa che dice: “L’Anm ha ragione e faremo proprio questa proposta quando il decreto Cura Italia arriverà alla Camera. Non ci sono le condizioni minime perché la riforma entri in vigore il 2 maggio. Comprendiamo che il Pd sia molto affezionato a queste norme, ma è evidente che le misure organizzative che mancavano all’inizio di marzo non possono certo essere adottate in questa fase. Almeno su questo pensiamo che non ci siano dubbi”. Medici in trincea, arriva il sì di Bonafede allo “scudo penale” Il Dubbio, 6 aprile 2020 Alche il Pd si schiera contro le cuase che colpiscono gli operatori sanitari in questo momento di emergenza. Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, avrebbe dato parere favorevole, con riformulazione, agli emendamenti al dl “Cura Italia” sulla responsabilità medica legata all’emergenza Coronavirus. La norma prevede che la responsabilità civile degli esercenti la professione sanitaria sia limitata ai casi di dolo e colpa grave. Allo stesso modo, sul versante penale, la punibilità sarebbe limitata ai soli casi di colpa grave. Nelle variabili da tenere in considerazione entrerebbero la situazione organizzativa e logistica della struttura, la novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, il numero di pazienti su cui è stato necessario intervenire e la gravità delle loro condizioni, la disponibilità di attrezzature e personale nonché il livello di esperienza e la specializzazione del singolo operatore. Ricorrerebbe la colpa grave, comunque, in caso di palese e ingiustificata violazione delle regole generali di base. Anche il Pd “è impegnato a tutelare - anche dal punto di vista penale e civile - il lavoro svolto durante questa drammatica vicenda della pandemia da medici e operatori sanitari e tecnici. Lo ha fatto in Senato, con un emendamento al decreto Cura Italia a prima firma del capogruppo Andrea Marcucci. L’iniziativa spiegano Elena Carnevali e Walter Verini - punta a contrastare e prevenire azioni, che non appaiono motivate, di alcuni singoli legali e a tutelare l’ammirevole lavoro e il sacrificio svolto dai sanitari negli ospedali e nel territorio contro il coronavirus”. E intanto gli Avvocati del sindacato Unaep (Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici) invitano tutti i legali aderenti all’associazione a sostenere la Protezione Civile alla quale l’Unaep ha già provveduto a versare una donazione di diecimila euro: “Quella del medico, insieme all’attività forense e all’insegnamento, è l’unica professione citata nella Costituzione Italiana e tutti noi sappiamo quanto il personale sanitario sia fondamentale in questo momento per la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale che è chiamato aduna prova difficilissima”. Plauso all’emendamento al decreto Cura Italia che prevede l’esonero della responsabilità giuridica degli operatori sanitari da parte del Centro Studi Borgogna, l’associazione di giuristi che, tra i primi, già qualche settimana fa, aveva lanciato una proposta al Governo allo scopo di applicare lo scudo penale e civile a medici, infermieri e a chiunque impegnato contro l’emergenza causata dal Covid- 19. Quarantena violata? In carcere di Stefano Loconte Italia Oggi, 6 aprile 2020 Multa fino a 3 mila € per chi trasgredisce gli altri divieti Carcere per chi viola la quarantena o dichiara il falso, e fino a 3.000 euro di multa per le altre trasgressioni delle misure volte a fronteggiare l’emergenza covid-19: è quanto stabilito dal decreto legge n. 19/2020, pubblicato in G.U. del 25 marzo e in vigore dal giorno successivo, che ridisegna il quadro sanzionatorio e, oltre a punire con la reclusione chi, positivo al coronavirus, esce di casa, o chi, fermato dalle Forze dell’Ordine, mente sulle ragioni del proprio spostamento, introduce una sanzione salatissima per chi viola le ulteriori prescrizioni. Per arginare la confusione normativa e sanzionatoria generata dai provvedimenti delle ultime settimane, nonché preservare la giustizia penale dal rischio di un ingolfamento che non sarebbe nemmeno bilanciato da un effetto deterrente o quantomeno da entrate nelle casse delle Stato, viene infine abrogata la contravvenzione coniata con il dl del 23 febbraio scorso. Considerato che ogni cittadino è destinatario di una o più misure e che potrebbe incorrere in una contestazione di violazioni, è bene conoscere il complesso quadro normativo e sapere cosa si rischia. Sanzioni fi no a 3.000 euro. A fronte dell’elevato numero di persone che continuano a violare le misure di contenimento del virus, il governo prova a intraprendere una nuova strada, abbandonando quantomeno di regola la sanzione penale, e ponendo a presidio delle misure un nuovo illecito amministrativo: dunque, si è deciso che l’inosservanza delle prescrizioni (siano esse adottate dal presidente del consiglio dei ministri o dai presidenti delle regioni) comporta il pagamento di una somma da 400 a 3.000 euro, aumentata fino a un terzo se il mancato rispetto avviene mediante l’utilizzo di un veicolo. Inoltre, nell’ipotesi di violazione delle misure previste per pubblici esercizi o attività produttive o commerciali, si aggiunge la chiusura da 5 a 30 giorni. Con la precisazione che in caso di reiterata violazione della disposizione la sanzione pecuniaria è raddoppiata e quella accessoria applicata nel massimo. Carcere per chi viola la quarantena. Per quanto riguarda i rapporti con altri illeciti, il disposto si apre con la clausola “salvo che il fatto costituisca reato”, con l’effetto che il nuovo illecito amministrativo non è applicabile quando l’inosservanza delle misure di contenimento integri un reato. Il decreto legge continua a riservare al diritto penale la prevenzione e la repressione dell’inosservanza della più rigorosa delle misure limitative disciplinate, in ragione del massimo grado di pericolo che essa comporta per la salute pubblica e per la propagazione dell’epidemia. Si tratta della violazione del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”. Fino a 12 anni se c’è contagio. Il nuovo dl chiarisce l’applicabilità a chi viola la quarantena dell’art. 452 c.p., che sotto la rubrica “Delitti colposi contro la salute pubblica” punisce con la reclusione da uno a cinque anni chi commette per colpa il reato di epidemia consistente nella diffusione di germi patogeni. Se dal fatto deriva la morte di più persone, il carcere sale da un minimo di tre fi no a un massimo di 12 anni. Laddove la trasgressione non comporti la diffusione del virus colpendo altri individui, pur con un trattamento sanzionatorio meno duro, il fatto resta reato, e in questo caso per la violazione della misura si risponde ai sensi dell’art. 260 t.u. leggi sanitarie, che punisce chi non osserva un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva. Il decreto inasprisce la cornice edittale originariamente prevista, sostituendo l’arresto fi no a sei mesi e l’ammenda da 40.000 a 800.000 lire con l’arresto da 3 a 18 mesi e l’ammenda da 500 a 5.000 euro. Abrogate le contravvenzioni bagattellari. Viene abrogata la disposizione con cui il dl n. 6/2020 poco più di un mese fa aveva previsto che il mancato rispetto delle misure di contenimento fosse punito ai sensi dell’art. 650 c.p.: del resto, l’efficacia deterrente della fattispecie era assai dubbia, considerato che essendo punita con le pene alternative dell’arresto (fino a tre mesi) o dell’ammenda (fino a 206 euro) sarebbe stata ammessa l’oblazione, il che significa che pagando la metà dell’ammenda, 103 euro, il reato si sarebbe comunque estinto. Ancora, il dl estromette da quelle contestabili anche le contravvenzioni previste “da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”, mettendo così fine alla questione, affacciatasi tra le procure, della possibile repressione dell’inosservanza delle misure attraverso il generale ricorso all’art. 260 t.u. leggi sanitarie, incriminazione più severa oltre che per la cornice editale per il fatto che non è soggetta a oblazione. Il potere dissuasivo delle sanzioni. Dunque, il rinvio all’art. 260 T.u. e alle sanzioni penali viene ora circoscritto al solo caso dei Covid positivi che escono di casa, mentre per le violazioni delle altre prescrizioni la minaccia del penale cede il passo all’irrogazione di sanzioni amministrative. La scelta non è tuttavia da leggersi come mitigazione dell’approccio repressivo: si è preso coscienza che le sanzioni amministrative offrono maggiore effettività sul piano della riscossione, nonché, in una situazione in cui prevale la paura del presente (si pensi oltre alle pecuniarie anche alle sanzioni accessorie della chiusura dell’esercizio o dell’attività), vantano un potere dissuasivo con cui il diritto penale non può competere. Applicazione nel tempo. Se l’abrogazione della suddetta disposizione è stata non solo opportuna ma quasi obbligata, persisteva il problema della sorte da riservare ai fatti antecedentemente commessi. Si è risolto con una norma transitoria, che rende applicabili retroattivamente le nuove sanzioni amministrative, prevedendo che tuttavia che “in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”. False dichiarazioni. Tanto prima quanto dopo l’entrata in vigore del nuovo dl, l’illecito amministrativo può concorrere con eventuali ulteriori reati connessi all’inosservanza delle misure di contenimento. In particolare, chi, fermato dalle Forze dell’Ordine durante uno spostamento, rilascia generalità mendaci rischia da uno a sei anni di carcere (art. 495 c.p.), che punisce chiunque dolosamente dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona. Se invece nell’autocertificazione si mente sulle ragioni (lavorative, di salute, di assoluta urgenza) addotte per giustificare l’abbandono delle mura domestiche, si risponde del reato di cui all’art. 483 c.p., che punisce con la reclusione fi no a due anni la “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, ovvero la condotta di chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Attenzione dunque non solo a quello che si fa, ma anche a quello che si dice. Tribunale di Sorveglianza: rischio di contagio da Covid-19 più elevato in carcere giurisprudenzapenale.com, 6 aprile 2020 Tribunale di Sorveglianza di Milano, ordinanza 31 marzo 2020, n. 2206/2020. Pres. Est. Dott.ssa Rosanna Calzolari. Il diritto alla salute, in uno Stato democratico, prevale anche in caso di condanne per reati ostativi e deve essere vagliato ancora con maggiore attenzione durante l’emergenza dovuta alla diffusione del contagio da Covid-19. Dopo il rigetto di un Magistrato di Sorveglianza di Pavia dell’istanza di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare per incompatibilità dello stato di salute di un detenuto - affetto da pluripatologie pregresse - con il regime carcerario, il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha fissato in tempi record udienza e ha provveduto alla scarcerazione. Il Collegio meneghino, preso atto delle malattie croniche dell’istante, ha ritenuto che “non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete” e ha “rilevato che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; ritenuto dunque che tali patologie possano considerarsi gravi, ai sensi dell’art. 147 c.1 n.2) c.p., con specifico riguardo al correlato rischio di contagio attualmente in corso per Covid 19, che appare - contrariamente a quanto ritenuto dal MdS - più elevato in ambiente carcerario, che non consente l’isolamento preventivo”. Il Tribunale di Sorveglianza ha quindi disposto il differimento pena nelle forme della detenzione domiciliare fino al suo termine. Natura di sanzione penale della confisca per equivalente Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2020 Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Profitto o vantaggio derivanti dall’illecito - Nozione. La confisca per equivalente ha a oggetto il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dall’autore del reato, assolvendo in tal modo a una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica, modificata a seguito della commissione del reato; ne consegue che il giudice, nell’applicare il provvedimento ablatorio, deve determinare la somma di denaro costituente il prezzo, il prodotto o il profitto/vantaggio effettivamente ottenuti dall’attività illecita. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 25 marzo 2020 n. 10649. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca di valore - Applicabilità per un valore superiore al profitto del reato - Esclusione - Pena illegale - Configurabilità - Fattispecie. La confisca di valore, avendo natura sanzionatoria, partecipa del regime delle sanzioni penali e quindi non può essere applicata per un valore superiore al profitto del reato, travalicando, in caso contrario, il confine della pena illegale. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato la confisca disposta nei confronti di soggetti condannati per riciclaggio per una somma pari al valore del bene riciclato, evidenziando come la misura ablatoria va invece commisurata al vantaggio coincidente con il prodotto, il profitto o il prezzo che l’autore del reato ha ricavato dalla sua attività criminosa). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 11 settembre 2019 n. 37590. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Finalità - Distinzione dalle pene accessorie. La confisca per equivalente differisce dalle pene accessorie perché persegue lo scopo di ripristinare la situazione economica del reo, qual era prima della violazione della legge penale, privandolo delle utilità ricavate dal crimine commesso e sottraendogli beni di valore a esse corrispondenti senza esplicare alcuna funzione preventiva, diversamente da quanto accade per le pene accessorie e le misure di sicurezza, compresa la stessa confisca diretta del prezzo o profitto del reato. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 12 maggio 2017 n. 23716. Misure di sicurezza - Misure di sicurezza (in genere) - Confisca di valore o per equivalente - Prezzo o profitto del reato - Beneficio dell’autore del reato - Disponibilità dell’imputato. La ratio essendi della confisca di valore o per equivalente, sta nella impossibilità di procedere alla confisca “diretta” della cosa che presenti un nesso di derivazione qualificata con il reato. La trasformazione, l’alienazione o la dispersione di ciò che rappresenti il prezzo o il profitto del reato determina la conseguente necessità di approntare uno strumento che, in presenza di determinate categorie di fatti illeciti, faccia sì che il “beneficio” che l’autore del fatto ha tratto, ove fisicamente non rintracciabile, venga a essere concretamente sterilizzato sul piano patrimoniale, attraverso una misura ripristinatoria che incida direttamente sulla disponibilità dell’imputato, deprivandolo del tantundem sul piano monetario. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 luglio 2015 n. 31617. Misure cautelari - Reali - Sequestro preventivo - In genere - Sequestro funzionale alla confisca per equivalente - Natura. La confisca per equivalente viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 31 maggio 2013 n. 23649. Sicilia. “Alta tensione nelle carceri, focolaio perfetto per nuove sommosse” palermotoday.it, 6 aprile 2020 Il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, Di Giacomo: “Il pretesto sarà sicuramente la scoperta di casi di Covid-19 tra detenuti”. Contagiato anche ex parlamentare siciliano. Il capogruppo Udc all’Ars, Lo Curto: “Anche gli agenti hanno il diritto a essere tutelati”. Cresce la tensione nelle carceri italiane, soprattutto in quelle del Sud. “Particolare attenzione deve andare a quelle siciliane e campane che potrebbero essere di nuovo l’inizio delle rivolte - dichiara il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo. Le aspettative nate dopo l’ondata di ribellioni non troveranno sicuramente soddisfatte le attese di tutti, soprattutto di quelli che hanno mosso le precedenti sommosse”. “Le aspettative delle menti delle rivolte, che hanno avuto come vittime i detenuti più deboli, non troveranno riscontro almeno nell’imminenza - dice Di Giacomo. Questo potrebbe portare a nuove sommosse che vedrebbero partecipi tutti i detenuti con pene residue basse che non sono rientrati tra le scarcerazioni per mancanza di requisiti. Lo scenario sarebbe lo stesso delle precedenti rivolte, ma le conseguenze sicuramente peggiori. Forte tensione anche all’esterno tra i famigliari dei detenuti, che allo stesso modo dei loro congiunti ristretti, troveranno delusione per la mancata scarcerazione degli stessi, diventando facile preda delle menti delle rivolte. Senza considerare il possibile appoggio esterno che potrebbe essere dato da gruppi anarchici”. Continua Di Giacomo: “Le carceri della Sicilia per quello finora detto sembrano poter essere un focolaio perfetto per dare inizio a nuove sommosse. Il pretesto sarà sicuramente la scoperta di casi di Coronavirus tra detenuti all’interno degli istituti penitenziari”. Così invece in una nota il capogruppo Udc all’Ars Eleonora Lo Curto: “Le carceri non devono essere luoghi di tortura e men che meno luoghi di contagio da Covid-19. In questi giorni stanno emergendo fatti che coinvolgono detenuti affetti da coronavirus per i quali non sono state assunte misure sanitarie di cautela. È notizia di qualche giorno fa la morte di un boss mafioso palermitano stroncato dalla polmonite causata dal virus e adesso apprendiamo che anche l’ex parlamentare siciliano Paolo Ruggirello, detenuto a Santa Maria Capua Vetere, è affetto da Covid-19. Auspico che l’Amministrazione penitenziaria e il ministero della Giustizia siano nelle condizioni di tutelare la salute dei detenuti, poiché in caso contrario questa ulteriore sofferenza per chi sconta una pena o addirittura è in attesa di giudizio, si trasformerebbe in un supplizio ingiustificabile”. Campania. Coronavirus nelle carceri, al via test rapidi per detenuti e agenti Il Mattino, 6 aprile 2020 Inizieranno questa settimana in Campania i test rapidi per detenuti e agenti per un primo screening orientativo finalizzato a prevenire la diffusione del coronavirus. Lo rende noto Ciro Auricchio, dell’Uspp, che esprime “soddisfazione” per l’iniziativa. “I controlli negli istituti penitenziari riguarderanno circa 4mila poliziotti e il personale medico e paramedico - fa sapere Auricchio - personale sotto ulteriore stress in queste settimane a causa delle proteste che si stanno verificando talvolta generate da notizie, non sempre veritiere, di casi di positività”. “Ribadiamo la necessità di un’informazione corretta circa i casi di contagio da Coronavirus negli istituti se riguardano gli agenti e, ancora di più, se riferiti ai detenuti”, aggiunge Auricchio. “In un periodo di estrema tensione infatti anche una sola notizia infondata rischia di ingenerare pericolosi allarmismi da cui possono derivare reazioni spropositate che facilmente vanno a compromettere i precari equilibri interni”, conclude il sindacalista. Napoli: Coronavirus: due detenuti in isolamento a Secondigliano, scatta la protesta Il Riformista, 6 aprile 2020 Non è stato confermato alcun caso di coronavirus nel carcere di Secondigliano a Napoli. A fare chiarezza è il Garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello: “Un detenuto, del reparto ligure ad alta sicurezza, ha mostrato dei sintomi ed è stato messo in isolamento presso un altro reparto”. L’uomo ha manifestato sintomi tipici del coronavirus come la febbre alta. “Verrà sottoposto a tampone nella giornata di domani”, ha precisato Ciambriello. Il compagno di cella è stato messo in isolamento di cella e dunque non può avere al momento contatti con l’esterno. La notizia dei detenuti positivi al Covid-19 ha dato vita a delle piccole manifestazioni di protesta nel carcere di Napoli Nord. I detenuti, dallo scoppio dell’emergenza, hanno sempre reclamato maggiori tutele in termini di precauzioni e distanziamento all’interno delle strutture carcerarie. Tra il 7 e il 12 marzo, alla sospensione dei colloqui con i familiari sempre per via del coronavirus, in diverse carceri italiane si sono verificate rivolte e scontri che hanno portato alla morte di 12 detenuti. Buone notizie invece dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. I test sierologici - condotti su 131 detenuti e 54 agenti di polizia del padiglione Tevere, isolato, dov’era recluso il primo detenuto positivo al virus in Campania - hanno dato tutti esito negativo. “Mi è stato assicurato - annuncia Ciambriello - che nelle prossime settimane in tutti le carceri della Regione verranno condotti test analoghi, che partiranno dal personale sanitario e dagli agenti penitenziari”. Il primo contagiato da coronavirus nelle carceri campane è Paolo Ruggirello, ex deputato della regione siciliana, in carcere da più di un anno per associazione mafiosa. Ruggirello era stato trasferito a Santa Maria Capua Vetere agli inizi di marzo. Napoli. A Secondigliano psicosi coronavirus: il chiarimento della direzione del carcere napolitoday.it, 6 aprile 2020 Dopo quanto accaduto nelle scorse settimane a Poggioreale, dove i detenuti hanno chiesto l’amnistia in quanto nella struttura a loro dire ci sarebbero casi di Covid-19 che li metterebbero a rischio, anche a Secondigliano l’atmosfera si sta facendo in queste ore carica di tensione. “Entrato il Covid-19 nel carcere, aiutateci” e “Siamo qui per pagare ma non con la vita”, recitano le scritte - su due lenzuola bianche stese all’esterno delle celle - ad opera dei detenuti. Sta circolando infatti, all’interno del penitenziario, la notizia su di un caso di Covid. Le persone detenute nel carcere hanno attirato l’attenzione con una “battitura” (cioè colpendo con oggetti metallici le sbarre delle celle), poi hanno mostrato le lenzuola. A Secondigliano si è registrata una sola situazione di un detenuto con febbre alta per il quale è stato attivato il protocollo interno precauzionale”. Lo sottolinea, all’Ansa, il dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria della Campania Antonio Fullone. “Lo stesso detenuto già oggi non aveva più la febbre e ha potuto anche contattare la famiglia”, fa sapere Fullone, che aggiunge: “verrà comunque eseguito l’iter previsto a tutela di tutti i detenuti e del personale che vi opera”, conclude Fullone”. Santa Maria C.V. (Ce). Positivo al Covid-19 un detenuto, scoppia la rivolta nel carcere di Mary Liguori Il Mattino, 6 aprile 2020 È entrato a Santa Maria Capua Vetere il 5 marzo il deputato regionale siciliano Paolo Ruggirello, quindi prima dell’attivazione del triage esterno cui vengono sottoposti i nuovi arrivati in carcere. Dieci giorni fa, l’ex parlamentare a giudizio nell’ambito di un’inchiesta sulle cosche catanesi legate al boss latitante Matteo Messina Denaro, ha iniziato a manifestare febbre a intermittenza e, sabato, all’esito positivo del test, è stato trasferito al Cotugno benché avesse solo 36 di febbre. I suoi due compagni di cella sono stati messi in isolamento e tutti i detenuti del reparto Tamigi, l’alta sicurezza, sono stati sottoposti al tampone. Lo screening è stato eseguito su 137 detenuti e 53 operatori di polizia. Ieri, in serata, il risultato dei test rapidi, tutti negativi. Un sospiro di sollievo che avrebbe dovuto far calare la tensione, ma così non è stato. In serata, infatti, i detenuti dei reparti Tevere e Nilo hanno inscenato una protesta che poi si è estesa in altre sezioni. L’istituto ospita mille detenuti (818 posti) e, già un medico e due infermieri sono stati trovati positivi al Covid, evenienza che ha avuto un forte impatto emotivo su reclusi e familiari. A gettare benzina sul fuoco, la carenza di braccialetti elettronici indispensabili per la concessione dei domiciliari. Misura di cui potrebbero usufruire solo 60 reclusi di Santa Maria e quindi non determinante in termini di sfoltimento della popolazione carceraria. Ma anche per queste poche decine di posizioni le misure si sono arenate in fase di esecuzione. Il mezzo elettronico è indicato espressamente dalla norma per la concessione dei domiciliari a coloro che devono espiare meno di 18 mesi e non hanno condanne per reati ostativi. La carenza di braccialetti è stata denunciata sia dai giudici che dal garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, che ieri ha ribadito: “Il rischio epidemico nelle carceri è concreto, bisogna sostenere misure alternative contro il sovraffollamento”. E i magistrati di sorveglianza stanno cercando di sopperire ricorrendo alla norma preesistente sui domiciliari a detenuti con patologie. “I magistrati di sorveglianza di tutto il Paese stanno lavorando nei parametri imposti dalla legge per dare un contributo concreto nell’ottica della prevenzione del contagio nelle carceri, con priorità, come legge impone, ai reclusi che soffrono di patologie che necessitano di continui contatti col personale sanitario”. Lo spiega Marco Puglia, magistrato di sorveglianza e consigliere nazionale del Conams. “Ricorriamo a misure alternative preesistenti che però richiedono iter più lunghi. Il caso positivo a S. Maria, il primo in un carcere campano, ci preoccupa - conclude - e per questo, noi magistrati, abbiamo già intensificato i contatti quotidiani via Skype con i detenuti, in modo che nessuno si senta abbandonato”. Ariano Irpino (Av). Battitura delle inferriate e urla in carcere, la protesta si ripete di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 6 aprile 2020 Detenuti in agitazione come in altre città italiane. L’osservatorio sulla sanità penitenziaria, riunito settimanalmente in video conferenza sta seguendo con la massima attenzione e scrupolosità, sia le attività di prevenzione che di controllo. In primis vi è stata la riduzione della movimentazione dei detenuti in questa delicata fase, trasferimento solo per motivi inderogabili, niente contatti con i familiari per motivi strettamente sanitari legati al rischio contagi da coronavirus. Da qui la protesta dei detenuti, amplificata anche dai due casi positivi riscontrati a Secondigliano. Un modo per farsi sentire alla luce tra l’altro della disposizione del capo del dipartimento che stabilisce il beneficio dell’alternativa di pena per coloro che hanno condanne inferiori a 18 mesi. Una protesta dunque per velocizzare questa disposizione. Situazione di ordinarietà, nessuna sommossa. La stessa responsabile della sanità penitenziaria dell’Asl di Avellino Gabriella Pugliese, tranquillizza: “Tutto sta funzionando alla perfezione, abbiamo il pre triage che è importantissimo e fondamentale, si valuta con attenzione la situazione clinica, i detenuti non vengono immessi direttamente nelle stanze comuni. Se vi è un caso sospetto di coronavirus, viene messo sotto osservazione nelle aree specifiche, ma in ogni caso anche se non sospetto, pratichiamo una sorta di quarantena in spazi appositi muniti di tutti i servizi necessari, dove loro permangono in un isolamento cautelativo. Osservazione mattina e sera, misurazione della febbre e quant’altro. E su questo devo dire che i medici e il personale sanitario, nei nostri istituti veramente stanno facendo un grandissimo lavoro. Tutto viene gestito in sede tranne qualche patologia seria che richiede il trasferimento esterno. Il livello di attenzione dunque è altissimo. Siamo dotati di termometri infrarossi, mascherine e tutti i dispositivi di protezione necessari. La situazione è sotto controllo e vi è una buona collaborazione con tutto il personale.” Bologna. Dozza, aumentano i positivi al Covid-19: “Vanno concessi i domiciliari” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 6 aprile 2020 L’appello del presidente dei penalisti D’Errico: ora i giudici riflettano. Due giorni dopo la morte del primo detenuto per coronavirus in Italia, il 76enne Vincenzo Sucato recluso alla Dozza di Bologna, quello delle carceri continua ad essere il fronte più delicato della battaglia all’epidemia. Ieri l’assessore Marco Lombardo ha spiegato in Consiglio comunale che oltre ai cinque casi di positività (quattro detenuti e un agente), altri cinque poliziotti della Penitenziaria sono risultati positivi al Covid dopo aver fatto il tampone all’esterno del circuito penitenziario. Il più colpito è il personale sanitario: 9 medici su 19 e 16 sanitari su 30, in servizio alla Dozza, si sono ammalati. Anche dopo la rivolta di un mese fa, la tensione tra le celle continua a salire: in una struttura che ospita 800 persone a fronte di una capienza di 500, è impossibile rispettare le distanze di sicurezza, anche per il personale. I reclusi non hanno disinfettante, mascherine, sapone. L’intervento di D’Errico - Un tema che naturalmente non piò lasciare indifferente il presidente della Camera penale di Bologna Roberto D’Errico: “La comunità deve riflettere, in una fase di assoluta emergenza i giudici italiani e i giudici di questa città devono valutare la misura degli arresti domiciliari come la misura cautelare allo stato prevalente, tranne che non ci siano eccezionali e straordinarie esigenze cautelari”. In Italia un detenuto su tre è recluso in attesa di giudizio e alla Dozza il reparto giudiziario, dove sono scoppiati i disordini, è quello più affollato, con circa 400 detenuti. “Tutte le persone che non sono straordinariamente pericolose - prosegue il presidente dei penalisti bolognesi - devono andare agli arresti domiciliari, tanto più in un momento in cui è impossibile per chiunque uscire di casa. Non basteranno i tentativi disperati del Tribunale di sorveglianza per combattere il sovraffollamento: la presidente Antonietta Fiorillo sta facendo l’impossibile per smaltire i fascicoli, ma quell’ufficio sconta una carenza di magistrati cronica, bisogna che i giudici agiscano in coscienza. Se anche Paesi come la Turchia o in Sud America ci si è posti il problema, è possibile che l’Italia debba rimanere preda di pulsioni politiche che vogliono il detenuto come un nemico da abbattere? Invito i giudici delle indagini preliminari, del tribunale distrettuale della libertà, del dibattimento e della Corte d’Appello a riflettere”. La prima vittima - D’Errico torna poi sulla vicenda di Sucato: “È vero che riguarda un altro distretto perché veniva da Palermo però domando a tutte le persone civili: un uomo di 76 anni già seriamente malato deve stare per forza in carcere in attesa di condanna?”. Dopo le rivolte scoppiate in 25 carceri italiane, il decreto Cura Italia ha previsto la scarcerazione per chi ha pene residue sotto i 6 mesi e da 6 a 18 mesi con braccialetto elettronico ma non per tutti i reati. A Bologna in 142 potrebbero lasciare l’istituto della Dozza ma “gli strumenti elettronici sono pochi - spiega D’Errico - è evidente che la norma sconta già un blocco preliminare. Noi non strumentalizziamo il tema, basterebbe ascoltare cosa ha detto papa Francesco sul rischio epidemiologico presente in carcere”. Milano. Don Rigoldi: “Ospito a casa mia i ragazzi ai domiciliari, non posso abbandonarli ora” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 6 aprile 2020 Il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano: “È rischioso ma devo occuparmene: sono da soli e senza alcuna risorsa”. Dopo decenni trascorsi a fondare comunità di accoglienza e dirigere centri per il reinserimento sociale, don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, ha appena festeggiato i suoi 80 anni creando in Lombardia la prima struttura per ragazzi (“di area penale”, come si legge nei rapporti degli istituti) a rischio di autolesionismo ed ex detenuti con problemi psichiatrici. Il lockdown per la pandemia lo ha sorpreso nel bel mezzo di una già complessa “vita quotidiana in comune”. Come sono le giornate in comunità al tempo del distanziamento sociale per l’emergenza sanitaria? “Questo sabato mattina io e Filippo siamo arrivati al supermercato alle 7,30 e ne siamo usciti alle 9,30 con un carrello carico di ogni bene. Perché noi viviamo insieme in dieci: nove ragazzi, che io chiamo della sezione “ripetenti”, e il sottoscritto, impegnato a fare da padre, ogni tanto da madre, qualche volta da Valium”. Non è rischioso di questi tempi per un 80enne? “Mi dicono che sono bravo, ma io non potrei fare diversamente, intanto perché non sopporto che un ragazzo che ho conosciuto al Beccaria sia in strada da solo e senza risorse, ma poi: come potrei io vivere da solo in un appartamento? È più di quaranta anni che vivo insieme a molti ragazzi e qualche ragazza. Da solo mi verrebbe la depressione”. Chi vive con lei adesso? “Tra quelli che stanno con me adesso, nel tempo del coronavirus, due sono agli arresti domiciliari e, quindi, fa semplice impedirgli di uscire. Altri hanno solo vincoli giudiziari di orari, altri ancora sono liberi e quindi occorre fare un patto che, finora, è stato sostanzialmente rispettato. Qualcuno mi chiede se ho paura”. Come si fa a superare la paura? “Se si ha paura, qualunque paura, non si va avanti di un passo, perché i ragazzi capiscono che hai paura e la paura è già un giudizio (“tu pensi che io sia aggressivo, cattivo), e allora sei fregato. Il segreto o, meglio, la normalità si chiama relazione, perché i ragazzi sanno che li guardo e li vedo, li sento e li ascolto, cerco di capirli, qualche volta prima che loro lo dicano. In una parola, sanno che gli voglio bene, sanno anche che ho un carattere “affermativo” che ammette poche volte il far diverso, e mi sopportano. Però ogni tanto chiedo anche scusa e, prima del virus, un abbraccio”. Come ha impostato la convivenza in quarantena? Come spiega ai suoi ragazzi ciò che sta accadendo? “Ogni giorno ci diciamo l’impegno a rimanere in casa o nel giardino, commentiamo i numeri del contagio e anche i numeri dei morti. Cinque cristiani e cinque musulmani. Io gli parlo di Gesù come di un grande eroe che ha difeso, con la vita, la verità su Dio e quella che è la strada giusta per essere donne e uomini veri, graditi a Dio. Cristiani e musulmani ascoltano interessati con la speranza che diventi per loro una scelta personale, ciascuno nella propria religione. Molta impressione e molta discussione ha prodotto la riflessione che ho proposto sulla Resurrezione”. Come la vivono i “ripetenti” musulmani? “Sono rimasti molto colpiti anche i musulmani, quando gli ho detto che la croce era il penultimo atto: l’ultimo atto, quello di vittoria, anche sulla morte, sul male, è la Resurrezione. Parliamo, parliamo tanto. Questi nove, con l’aggiunta di qualche ospite diciamo occasionale, parlano tanto quanto mangiano. Siamo arrivati a tre chili di pane al giorno. Ho incominciato a introdurre la polenta. Non si sa mai”. Ancona. Le mogli dei detenuti: “C’è rischio contagi, che il carcere non sia la loro tomba” centropagina.it, 6 aprile 2020 Quattro donne hanno messo nero su bianco i loro timori chiedendo al Tribunale di Sorveglianza di Ancona quali misure siano state adottate a Barcaglione per evitare il Coronavirus. Chiedono protezione per mariti e figli reclusi nel carcere Barcaglione di Ancona perché temono i contagi per il Coronavirus. Così quattro donne, tre mogli e una mamma, tutte dell’Anconetano, hanno scritto una lettera al Tribunale di Sorveglianza di Ancona. “Scriviamo perché è da settimane che conviviamo con l’incubo del Coronavirus e, pur invocando risposte, queste restano ignorate. Questa pandemia è di estrema gravità per il grande numero di vittime che sta mietendo e ha colpito anche alcune carceri italiane in cui purtroppo sono morti dei detenuti. Preso atto quindi di questa situazione quello che noi chiediamo al Tribunale di Sorveglianza è di conoscere che tipo di provvedimenti intende adottare per prevenire la diffusione del virus in carcere”. Le tre mogli e la mamma non chiedono atti di clemenza ma che venga garantito il diritto alla salute così come lo sancisce la Costituzione italiana. A loro avviso il tribunale sta sottovalutando il pericolo della diffusione del Covid-19 e delle forme in cui esso si propaga, “forse perché ancora non sono presenti dei casi nelle nostre carceri - dicono - e quindi non vede questo come un problema da affrontare”. Le quattro donne sostengono che prevenire è meglio di curare e che “lo stesso Oms ha dichiarato che l’unico modo per superare questa pandemia è il distanziamento sociale e che, chiunque conosce bene l’ambiente carcerario, sa benissimo che è impossibile per i detenuti perché tra l’altro non hanno in dotazione le mascherine. Perché farli morire così? Nelle carceri non è in atto alcun tipo di prevenzione. Nella situazione in cui ci troviamo il carcere rischia anche di diventare la loro tomba”. Rovigo. Approntati controlli per evitare l’epidemia in carcere Il Gazzettino, 6 aprile 2020 Una sala specifica nella struttura e una tenda per il pre-triage, esami a chiunque debba entrare. Il virus ha maggiori possibilità di propagarsi in ambienti chiusi. E nulla è più chiuso del carcere. L’otto marzo le strutture penitenziarie italiane sono state attraversate da proteste e rivolte. E anche nella casa circondariale di Rovigo i detenuti hanno battuto contro le sbarre per un pomeriggio, ma non si sono registrate situazioni difficili come in altre strutture. Come quella difficile del carcere di Modena, dove nell’ambito della rivolta, con un vero e proprio assalto con razzia all’infermeria, e con la struttura pesantemente danneggiata, sono morte nove persone. La casa circondariale, che aveva 548 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 369 posti, è stata svuotata. E qualcuno è stato accolto anche a Rovigo. A fare il punto sulla situazione sanitaria è il direttore generale dell’Ulss 5 Antonio Compostella: “Grazie anche a una collaborazione fra direzione della casa circondariale, gli operatori della polizia penitenziaria e il gruppo di sei medici, sei infermieri e una caposala della Sanità penitenziaria che fanno capo all’Ulss Polesana e che lavorano all’interno del carcere, sono state messe in atto tutte le misure di attenzione sanitaria. Sono state individuate stanze di isolamento, nell’area sanitaria, per tenere sotto controllo eventuali detenuti con sintomi sospetti. Il personale, sia medico che infermieristico, sta facendo un grande lavoro sia clinico che psicologico. Gli infermieri, durante il giro di terapia e quando i detenuti vengono in area sanitaria, li sostengono anche a livello psicologico. Da tre settimane è attiva una tensostruttura all’ingresso della casa circondariale nella quale viene eseguito un pre-triage da personale sanitario dell’Ulss, a tutte le persone che entrano in carcere a vario titolo, compresi sanitari e militari”. Anche magistrati e avvocati che sono dovuti entrare all’interno della struttura sono stati sottoposti a questo screening che prevede la misurazione della febbre e la compilazione di un formulario in cui si devono segnalare eventuali fattori di rischio. I tamponi eseguiti al momento all’interno del carcere sono stati una quindicina, spiega l’Ulss. I detenuti sono arrivati non solo dalla casa circondariale di Modena, ma anche dalle carceri di Padova e di Pordenone. Il dato del ministero della Giustizia aggiornato al 19 marzo era di 261 detenuti a fronte di 207 posti regolamentari. La situazione quindi è particolarmente delicata. Come spiega Gianpietro Pegoraro, coordinatore polesano e regionale della Fp-Cgil polizia penitenziaria, “siamo tutti un po’ preoccupati, anche se la situazione allo stato attuale sembra sotto controllo. Dal punto di vista dei dispositivi siamo stati riforniti, chiunque entra nella struttura viene controllato e gli viene misurata la febbre, ma il problema è che il contagio, come abbiamo visto, può avvenire anche attraverso persone asintomatiche. Vorremmo che venissero fatti i tamponi anche al personale, il prefetto si è mosso per questo. I problemi sono ovviamente gli spazi comuni e gli inevitabili contatti ravvicinati con i detenuti e fra i detenuti. Vorremmo che venissero fatte anche le sanificazioni. Per fortuna, a fronte delle difficoltà sorte con il blocco delle visite, c’è stata la necessaria attenzione e i detenuti possono fare videochiamate e più telefonate”. Trani (Bat). Coronavirus, il carcere dalla rivolta alla solidarietà: i detenuti donano 730 euro radiobombo.com, 6 aprile 2020 Dalla rivolta alla solidarietà, dalla salita sul tetto alla devoluzione di piccole ma significative somme dai loro conti correnti. L’emergenza sanitaria in carcere cambia completamente volto, mostrando finalmente la faccia più bella della medaglia dei detenuti. All’inizio della crisi, soprattutto a causa delle restrizioni dei colloqui con i familiari, in tutta Italia erano scoppiate rivolte nelle carceri culminate con le clamorose evasioni da quello di Foggia. Trani non ne era stata esente e, nel giro di ventiquattro ore, aveva fatto registrare prima tafferugli nelle celle, poi la salita sul tetto per protesta da parte di gruppi di reclusi. Fortunatamente non ne sarebbero scaturiti feriti, né danni ingenti, né particolari conseguenze. Così, dopo che le intemperanze sono rientrate, è tornato a crearsi un clima di reciproca, buona convivenza tra detenuti e polizia penitenziaria. E si è magari compreso che proprio il carcere, in quanto luogo isolato, rappresenta il migliore antidoto rispetto al virus in circolazione anche in città. Ciononostante, anche e soprattutto alla luce delle notizie che arrivano da tutte le parti, i detenuti si sono fatti essi stessi parte diligente e hanno devoluto dei loro conti correnti degli importi da devolvere alla Protezione civile impegnata nell’attuale emergenza covid-19: ad oggi, da un totale di 315 detenuti, è venuta fuori una somma di 730 euro, tutt’altro che trascurabile tenendo conto del fatto che si tratta di persone in prevalente stato di disagio economico. A tale raccolta fondi si aggiungerà pure quella in corso da parte degli agenti della Polizia penitenziaria: pure loro stanno operando una colletta, con il cui ricavato dare manforte alla Protezione civile. In altre parole nel carcere di Trani, anche se con ruoli diametralmente opposti, tutti remano dalla stessa parte, che è quella della solidarietà. Oristano. Il Garante dei detenuti: “Carceri senza sicurezza” La Nuova Sardegna, 6 aprile 2020 L’avvocato Mocci lancia l’allarme sulle condizioni sanitarie negli istituti di pena Il primo morto dentro le carceri per coronavirus è arrivato. I chilometri di distanza rendono tutto più ovattato, C’è però anche chi guarda con estrema attenzione a quel che succede in quel mondo. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, l’avvocato Paolo Mocci, parte da un presupposto: “Si deve capire che è interesse di tutti che i cittadini ospiti delle carceri non siano attaccati dal virus, anche per i riflessi che ciò avrebbe sulla comunità esterna. Se già gli ospedali non riescono a sopportare la mole di infetti liberi, è facile figurarsi l’acuirsi dell’emergenza nel caso di richiesta da parte anche dei pazienti detenuti”. Poi si entra nel vivo delle critiche, in parte già avanzate da istituzioni come l’Unione delle camere penali, l’Osservatorio carceri Sardegna, l’Associazione nazionale magistrati e i garanti locali. L’avvocato Mocci si sofferma in particolare sull’aver condizionato l’applicazione della misura della detenzione domiciliare all’utilizzo di braccialetti elettronici, che non sono disponibili, rischiando quindi di rendere inapplicabile questo istituto, inattuabile nella pratica”. Mentre si discute di queste misure, la situazione nelle carceri sarde è quanto mai esplicativa, con istituti di pena quanto mai sovraffollati dove non sono “adottate al suo interno le medesime misure di profilassi applicate all’esterno: dispositivi di protezione personale non sufficienti per tutti gli operatori penitenziari e troppo spesso non a norma, distanziamento tra persone inesistente, regole di igiene primaria inevase, locali inadeguati o inesistenti per l’eventuale isolamento dei positivi, assistenza e cura a opera del personale sanitario non proporzionato per numero e risorse, impossibilità dell’eventuale ricovero presso strutture ospedaliere locali per mancanza del reparto nosocomiale dedicato ai detenuti”. Il problema viene forse sottovalutato perché si è portati a vedere il carcere come un sistema chiuso, ma “le pareti che circondano una prigione sono tutt’altro che impermeabili - prosegue Paolo Mocci. Quotidianamente entra ed esce un numero importante di persone, come gli agenti di polizia penitenziaria o gli educatori, i sanitari, gli psicologi, gli amministrativi, che nonostante l’emergenza sanitaria, continuano a lavorare negli istituti. È quindi necessario affrontare il problema delle carceri per tempo, perché semmai accadesse che fosse l’emergenza a dettare le priorità e a governare le decisioni, si rischierebbero gravi conseguenze sulla salute dei detenuti, sul sistema sanitario e sulla sicurezza di tutti i cittadini”. Mantova. La solidarietà arriva in carcere, Caritas dona prodotti per l’igiene Gazzetta di Mantova, 6 aprile 2020 Vengono consegnati prodotti per l’igiene personale e per disinfettare gli spazi: problemi anche per chi in via Poma lavora. Bagnoschiuma, shampoo, deodoranti e prodotti per pulire e disinfettare gli spazi: anche questi sono generi di prima necessità. Che la Caritas ha destinato al carcere di via Poma: “Siamo entrati in carcere con un’importante consegna di materiale per l’igiene e degli ambienti - spiega la direttrice di Caritas, Silvia Canuti - materiale che, anche a causa delle restrizioni nelle visite, era ormai finito per molti detenuti. Siamo arrivati a tutti, a tappeto, grazie alla collaborazione con il nostro cappellano, padre Andrei, la direzione del carcere e le guardi”. Vista l’accoglienza positiva della prima fornitura, presto saranno consegnati altri prodotti a tutti i 130 detenuti. “Queste persone, così come le maestranze del carcere, alle quali abbiamo consegnato i prodotti per la sanificazione di pavimenti, maniglie, superfici, hanno mostrato di apprezzare il nostro intervento. Quindi torneremo”. Caritas è anche vicina a chi soffre per un lutto. Grazie al servizio dei “Cirenei del lutto”, chi sta affrontando il dolore per la morte di una persona cara potrà trovare il conforto di un gruppo di persone pronte ad ascoltare al telefono o leggere mail e messaggi. Si tratta di ventuno volontari tra psicoterapeuti, medici dell’Unitalsi, suore e sacerdoti, coppie. I loro contatti sono sul sito internet della Diocesi. “Sto rispondendo anche a chi si sente di aprirsi e raccontare, condividere il dolore e avere una lacrima di consolazione. Molte persone non comprendono ancora cosa sia successo, e, a causa delle restrizioni dettate da motivi di sicurezza, si sentono in colpa per non essere state vicine ai loro cari” Verona. Il prefetto manda l’esercito a sanificare il carcere borgotrentoverona.org, 6 aprile 2020 Questo è il primo intervento autorizzato dal Coidifesa, ne seguiranno altri in uffici pubblici e caserme. Il generale Tota: “Sinergia consolidata per sconfiggere il nemico invisibile. Siamo al servizio dei cittadini”. Bonificate le sale mensa, le cucine, gli uffici, gli spogliatoi, i locali doccia, i corridoi, le aree comuni, e quelle esterne. In carcere a Montorio, venerdì, è entrato l’Esercito. È iniziata venerdì mattina, nella Casa circondariale di Montorio, l’opera di sanificazione e bonifica degli spazi comuni interni ed esterni e di numerosi locali dell’istituto penitenziario veronese da parte del personale specializzato del comando delle Forze operative terrestri di Supporto (Comfoter di Supporto).Questo non è che il primo di una serie di interventi richiesti dal prefetto Donato Cafagna e autorizzato dal comando operativo di vertice interforze (Coidifesa), che i militari del Comfoter di Supporto effettueranno nei prossimi giorni al alcuni uffici pubblici e nelle caserme delle forze dell’ordine. L’opera di sanificazione è stata effettuata attraverso l’utilizzo di un atomizzatore di grande capacità, attrezzatura in grado di trattare vaste aree mediante la nebulizzazione di una soluzione disinfettante a formulazione multicomponente, attiva sul virus Sars-CoV-2 con tempi di contatto brevissimi. Le operazioni sono state coordinate sul posto dal colonnello veterinario Enrico Mancini, igienista del Comfoter di Supporto, accolto dalla direttrice della casa circondariale Mariagrazia Bregoli. I locali sono stati svuotati dalle persone, ma nell’arco di mezz’ora dopo aver arieggiato, tutti sono rientrati ai loro posti. L’azione svolta dai militari dell’Esercito fa seguito a quella dell’amministrazione comunale veronese che, venerdì, ha consegnato mascherine, tute di protezione e disinfettante spray destinati agli agenti della polizia penitenziaria, agli operatori sanitari in servizio nella struttura e ai detenuti. “Una fortissima sinergia, già consolidata quella tra l’Esercito e le altre istituzioni dello Stato che, oggi più che mai, risulta di fondamentale importanza in un momento di grande difficoltà per il nostro Paese”, ha commentato il generale di corpo d’armata, Giuseppenicola Tota, al comando del Comfoter di supporto. “Contribuire sensibilmente a sconfiggere questo nemico invisibile, rappresenta un motivo d’orgoglio per tutti gli uomini e le donne dell’Esercito italiano che ogni giorno indossano l’uniforme, consapevoli di essere sempre al servizio dei cittadini”, ha concluso Tota. Lo Stato aiuti subito le famiglie più povere. La mafia lo sta già facendo in tutta Italia di Paola Severino La Stampa, 6 aprile 2020 La criminalità organizzata ha iniziato a distribuire generi di prima necessità a chi non riesce a fare la spesa. Le grandi crisi portano sempre con sé grandi atti di eroismo e grandi occasioni per la criminalità. La pandemia che continua a diffondersi in tutti i Paesi del mondo, senza distinzione di razza, di latitudine, di parametri culturali, di modelli economici, non fa eccezione. Quanto agli atti di eroismo, credo che il comportamento dei nostri medici e dei nostri infermieri mostri un catalogo di condotte esemplari, apprezzate da molti commentatori anche oltre confine. Quanto alle occasioni per la criminalità, i primi sintomi iniziano ad affacciarsi, con una significativa differenziazione tra aree del Sud, più povere, ed aree del Nord, maggiormente industrializzate. Nel meridione, stando alle prime rilevazioni degli organi di polizia, la criminalità organizzata sta diffusamente consegnando pacchi alimentari a persone e a famiglie che non possono più permettersi di acquistare neppure il cibo quotidiano. Piccoli commercianti, ambulanti, camerieri stagionali, manovali senza un lavoro stabile, oltre ai tanti lavoratori in nero privi non solo di fonti di reddito, ma anche di ogni forma di sostegno alternativo, rappresentano la platea di riferimento ideale. Un numero rilevante di persone che potrebbero facilmente cadere nella trappola della grande criminalità, ricevendone un pronto intervento economico, a fronte di un prezzo elevato da pagare: l’affiliazione o la soggezione alle cosche locali che si presentano come la forma di sussidio più rapida e diretta. I buoni alimentari, di recente introduzione nel catalogo dei nostri meccanismi assistenziali, rappresentano anche per questo motivo una iniziativa importante e, se verranno distribuiti, tempestivamente e capillarmente, a persone e famiglie davvero bisognose, potranno testimoniare la vicinanza dello Stato a coloro che si trovano in gravi situazioni di difficoltà. Quanto alle aree del Nord, basta pensare alla sempre più evidente carenza di liquidità delle imprese e alla immensa mole di liquidità gestita dalla criminalità organizzata per comprendere che ci troviamo in una situazione di reale pericolo di inquinamento dell’economia. Per chi abbia qualche cognizione sulla evoluzione dei fenomeni mafiosi, è chiaro che siamo da tempo passati da una fase in cui alla criminalità era difficile “ripulire” il denaro sporco, ad una fase in cui esso è stato da tempo investito in attività apparentemente lecite, capaci di resistere ad ogni difficoltà finanziaria, perché comunque alimentate da capitali provenienti da riciclaggio. Le indagini svolte da alcune Procure del Nord ci hanno già evidenziato nel passato le dimensioni del fenomeno. L’occasione della pandemia è troppo ghiotta per non indurre questo evoluto modello di illegalità, che oggi può avvalersi della complicità di “insospettabili” colletti bianchi, ad operazioni di apparente salvataggio di aziende in difficoltà. Esse, tra l’altro, verrebbero viste dai titolari delle imprese, costretti a vendere o a consentire l’ingresso di nuovi soci dalla mancanza di capitali liquidi, come provvidenziali operazioni di sostegno, esattamente come accade per le famiglie povere del Sud quando ricevono in dono il pacco di cibo dalla cosca di turno. Un Nord e un Sud, dunque, diversificati nella fenomenologia sottostante, ma accomunati dal pericolo incombente di un rafforzamento della criminalità organizzata e, in parte, dalla strategia di possibile reazione. Anche per l’Italia settentrionale, infatti, il tempestivo avvio di forme di finanziamento garantite dallo Stato per stimolare ed accompagnare la ripresa produttiva, dovrà portare ad una distribuzione tempestiva e capillare alle imprese meritevoli. Una costante attenzione va, ovviamente, prestata ad evitare che si finisca per premiare iniziative inquinate dalla illegalità, causando così il doppio danno di sottrarre ricchezza a chi contribuisce alla crescita del Paese e distribuirla a chi rafforza gli assetti finanziari della criminalità. Inoltre, i crediti di scopo, la cui ratio sta tutta nella individuazione preventiva dei fini produttivi che ne giustificano l’erogazione a condizioni di favore e che dunque potrebbero segnare la rotta della ripresa economica, dovranno essere monitorati, per garantire che vengano portate a compimento tutte e solo quelle attività produttive alla cui realizzazione l’erogazione è vincolata. Si eviterà così che essi divengano occasioni di arricchimento per imprese i cui scopi sono ben diversi da quelli selezionati dai regolatori economici. L’Italia è in effetti dotata da anni di una legislazione estremamente articolata e di organi investigativi seriamente attrezzati per prevenire e reprimere i reati associativi tipici della criminalità economica, anche seguendo le tracce del fiume di denaro nero che essi producono. È importante però non abbassare la guardia e coordinare la nostra attività con quella di altri Paesi europei. Non tutti infatti si sono dotati dello stesso livello di strumentazione normativa, magari ritenendo di essere immuni dal pericolo di penetrazione delle grandi organizzazioni criminali e quindi alimentando quel fenomeno di cosiddetto “forum shopping” che consente alla criminalità di scegliere i Paesi a presidio debole per investirvi le proprie risorse e moltiplicare la produzione di profitti illegali. Si tratta di un errore gravissimo, perché il denaro nero e gli investimenti illeciti, così come il coronavirus, non vengono fermati dai confini. Questa drammatica occasione deve quindi indurci a sottolineare, ancora una volta, che la coesione europea e l’armonizzazione delle normative all’interno dell’Unione rappresentano una barriera da rafforzare per combattere con armi più efficaci la battaglia comune. Il doppio binario per chi non ha alcuna protezione di Roberto Rossini* Il Manifesto, 6 aprile 2020 L’epidemia da Covid 19 e le nuove povertà: alcuni strumenti necessari per creare un muro di contenimento. La crisi sanitaria che stiamo vivendo a causa del Covid19 ci ha costretto a importanti sacrifici da un punto di vista economico, ma anche a ripensare il nostro sistema di welfare e di tutela del reddito da lavoro. Quella che inizialmente era una crisi sanitaria, sta infatti aprendo una nuova questione sociale. Uno degli effetti più evidenti del Coronavirus è l’impoverimento generale della popolazione. Il rischio è che il tasso di povertà continui a crescere, con parametri del tutto diversi. Diversi da quelli tradizionali, poiché i nuovi poveri sono persone che fino a un mese fa avevano un reddito da lavoro. Secondo uno studio della Banca d’Italia fino a 260mila famiglie potrebbero cadere in povertà se l’emergenza durasse due mesi. Numero destinato a salire a 360mila unità se la pandemia dovesse prolungarsi. Di fronte a questi numeri che prefigurano una vera e propria frana sociale, è urgente intervenire con dei muri di contenimento. Gli interventi varati dal Governo vanno nella giusta direzione ma purtroppo non sono esaustivi. Nello scenario attuale abbiamo tre grandi strumenti, non necessariamente alternativi, di sostegno al reddito delle famiglie e dei lavoratori: gli ammortizzatori sociali in deroga anche per le piccole imprese e tutelano tutta la platea del lavoro dipendente, anche temporaneo o part-time (da questo punto di vista sono stati fatti notevoli passi in avanti verso l’universalità degli aiuti ai lavoratori); l’una tantum da 600 euro per il lavoro autonomo e parasubordinato; il Reddito di Cittadinanza a favore delle persone in povertà assoluta. Tre misure fondamentali, ma che da sole non riescono a coprire al 100% della platea dei lavoratori. Rimangono fuori da qualunque copertura assicurativa alcune categorie di lavoratori che, seppure “residuali”, rappresentano un numero significativo di persone che da un giorno all’altro si è ritrovata senza alcuna fonte di reddito. Gli addetti al settore domestico (colf e badanti), gli stagionali e intermittenti non coperti dal Cura Italia, così come gli atipici non dipendenti e gli autonomi che non “rientrano” nel decreto. Ma ci sono ancora due gruppi di persone: i lavoratori completamente in nero e i cittadini non italiani in condizioni di irregolarità, si pensi ai braccianti agricoli: si pensi al caso di Rosarno. Per tutte queste categorie è urgente trovare risposte rapide e immediate, che garantiscano la tenuta sociale del Paese. La strada che l’Esecutivo sembra percorrere - e che sarebbe auspicabile - segue un doppio binario. Il primo è un sussidio temporaneo per i lavoratori “scoperti” (poco meno di due milioni di persone). Il secondo è la distribuzione di buoni spesa o d’acquisto diretto di generi alimentari da consegnare alle persone in difficoltà da parte delle singole Amministrazioni. Fondamentale è e sarà il ruolo del terzo settore, esplicitamente riconosciuto dal Presidente del Consiglio, che insieme agli enti locali è un soggetto di prossimità e di sostegno alle comunità nel prendersi cura dei disabili, degli anziani, dei poveri, dei senza dimora e di quanti hanno bisogno di aiuto. Secondo la direzione tracciata da Governo, il welfare territoriale potrà supportare i Comuni non solo nell’erogazione degli aiuti che dovranno elargire, ma anche nella mappatura delle fragilità dei territori e nella ricostruzione della geografia della povertà. Infine sarà necessario modificare il RdC. Si dovrà pensare a una deroga al RdC che preveda, a fronte di un incremento del fondo stesso, da una parte una riduzione a due anni del periodo di residenza minimo in Italia dall’altra la maggior eliminazione possibile di alcuni vincoli burocratici. L’occasione sarebbe importante anche per lavorare sulla questione della scala di equivalenza, che come Alleanza contro la povertà da tempo richiamiamo: attualmente penalizza le famiglie numerose e con minori. Sono misure di equità, che avrebbero impatti relativamente limitati nei conti pubblici (date le risorse che si mobilitano in questo momento). Gli interventi da fare sono molti e occorre procedere con misura, con attenzione al frastagliato panorama sociale del Paese. *L’autore è presidente Acli e portavoce Alleanza contro la povertà Svizzera. Covid-19, si placano le proteste alla prigione di Champ-Dollon di Adriano De Neri tio.ch, 6 aprile 2020 Nella prigione di Champ-Dollon, a Puplinge (e), oggi è tornata la calma dopo due giorni di proteste da parte dei detenuti per le misure più restrittive adottate in relazione all’epidemia di Covid-19. Nelle serate di venerdì e di sabato, alcune decine di detenuti si erano rifiutati di tornare in cella dopo l’ora d’aria. Ma “oggi tutti hanno ottemperato”, ha detto a Keystone-ATS Laurent Forestier, portavoce dell’ufficio cantonale di detenzione. La ribellione era durata più di cinque ore. Sono stati dispiegati diversi agenti, ma non c’è stato uso di forza né feriti, ha precisato il portavoce. I contestatori sono stati messi in celle di sicurezza. Secondo la fonte, le rivendicazioni erano disparate e poco chiare. Alcuni chiedevano di essere rilasciati dal momento che certi Paesi hanno interrotto la detenzione a causa della pandemia; altri intendevano riprendere l’attività sportiva, specie il calcio. “C’è frustrazione a causa delle misure adottate contro il coronavirus”, ha osservato Forestier. I laboratori sono stati chiusi, ma le visite vengono mantenute con l’installazione di finestre in plexiglass. D’altro canto, però, in questi tempi di epidemia di Covid-19, le passeggiate prolungate mettono in pericolo l’intero carcere, perché in tali circostanze è impossibile far rispettare le distanze sanitarie, ha aggiunto. Marocco. Covid-19, re Mohammed VI concede la grazia a 5.654 detenuti agenzianova.com, 6 aprile 2020 Nell’ambito della costante attenzione Reale prestata ai detenuti negli istituti penitenziari e di riabilitazione, il Re Mohammed VI ha concesso oggi la sua Grazia Reale a 5654 detenuti e ha ordinato di adottare tutte le misure necessarie per rafforzare la protezione dei detenuti negli istituti penitenziari, in particolare contro la diffusione dell’epidemia del coronavirus, ha annunciato il ministero della Giustizia. I detenuti beneficiari di questa Grazia Reale sono stati selezionati sulla base di criteri umani e strettamente oggettivi, che tengono conto della loro età, del loro stato di salute precario e della durata della detenzione, nonché della buona condotta, del buon comportamento e della disciplina di cui hanno dato prova durante tutto il periodo di detenzione, precisa la stessa fonte. Tenuto conto delle circostanze eccezionali in Marocco associate allo stato di emergenza sanitaria e delle precauzioni che impone, tale processo sarà eseguito in fasi successive. In questo contesto e conformemente alle Alte Istruzioni Reali, i beneficiari della Grazia Reale saranno sottoposti a sorveglianza, a esami medici e alla quarantena necessaria, al loro domicilio, per garantire la loro sicurezza. Cina. Rilasciato dopo 5 anni di carcere l’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang agenzianova.com, 6 aprile 2020 L’avvocato cinese per i diritti umani Wang Quanzhang è stato rilasciato oggi dal carcere dopo quasi cinque anni: lo ha annunciato oggi sua moglie. Wang Quanzhang, 44 anni, è stato arrestato per la prima volta nel 2015 in una profonda repressione di oltre 200 avvocati e critici governativi in ??Cina. Ma Wang ancora non può tornare a casa dalla sua famiglia a Pechino. Dovrà invece restare in quarantena per 14 giorni in una proprietà che possiede nella provincia orientale dello Shandong come precauzione contro il coronavirus, secondo la moglie Li Wenzu. Li ha detto da Pechino, dove vive con il giovane figlio, che temeva che Wang sarebbe stato messo agli arresti domiciliari nonostante il suo rilascio dalla prigione e che sarebbe stato sorvegliato.