Bruti Liberati: “Se il carcere va fuori controllo, è a rischio la sicurezza pubblica” di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2020 “Bisogna scarcerare subito”. Per l’ex procuratore di Milano di fronte all’emergenza coronavirus “ridurre il sovraffollamento è urgente, prima che la situazione possa diventare ingestibile”. “Si sente dire che nulla è e sarà più come prima dopo il Covid-19. È possibile pensare forse che il pianeta carcere sia in un altro sistema solare?”. È questo il fil rouge che segue l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella sua riflessione con Repubblica sulle conseguenze del coronavirus sulla giustizia e sul carcere. Se nulla è e sarà più come prima, anche l’approccio alle scarcerazioni dovrà essere differente, perché “se il carcere va fuori controllo, sarà di conseguenza a rischio la sicurezza pubblica”. Quindi “è nell’interesse generale della collettività, se si vuole, delle persone “per bene”, che il carcere sia gestibile, facendo uscire un numero significativo di detenuti, con esclusione delle categorie di pericolosi”. I braccialetti? “Adesso lasciamoli perché comunque è fuori del mondo la sicurezza matematica che nessuno di coloro che usciranno dal carcere commetta nuovi reati”. Carcere, giustizia, coronavirus. Un’emergenza quotidiana come questa diventa inevitabilmente dramma. Con 58mila detenuti coinvolti e migliaia di cittadini alle prese con una giustizia online. Che impressione le fa tutto questo? “Nell’Ottocento i grandi carceri venivano costruiti in città come Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano come ammonimento della sorte che spetta a chi viola la legge. Oggi queste strutture, ormai al centro delle città, ci ammoniscono che non si tratta di un altro mondo, del tutto separato. Da qualche decennio in carcere sono andate anche persone diverse dalla malavita tradizionale: tossicodipendenti provenienti da famiglie che hanno vissuto il dramma di non essere riusciti a sottrarre i loro figli da quella spirale e anche, per reati economici o di corruzione, persone di ambienti “per bene”. Questa, molto parziale, “livella” ha costretto molte persone “per bene” che sarebbero state chiuse nell’ideologia “legge e ordine” e del “buttare la chiave delle celle” a fare esperienza di quanto provvidenziali siano le misure alternative al carcere”. Lei la vede così? Io scorgo soprattutto interpretazioni e sensibilità diverse a seconda delle appartenenze ideologiche... “Le mura di cinta del carcere non tracciano la linea tra i buoni e i cattivi. In carcere sono legittimamente detenute persone condannate per aver commesso un reato o in custodia cautelare, quando il sistema di giustizia ha ritenuto questa misura indispensabile. Per tutta la mia carriera, come giudice e come pubblico ministero, mi sono occupato di penale e per diversi anni sono stato magistrato di sorveglianza. In carcere ho conosciuto sia molti violenti e sopraffattori, sia persone, anche tra condannati per reati non lievi, che non potevo liquidare nella categoria dei “cattivi”“. Giusto il primo aprile, anche il Pg della Cassazione Giovanni Salvi ha ribadito che “il carcere è sempre l’estrema ratio”, quindi se lo è in condizioni normali, adesso più che mai è necessario evitarlo... “Il Procuratore Generale, prima di indicare possibili interpretazioni, ha posto in modo netto la seguente questione: “L’emergenza coronavirus costituisce un elemento valutativo nell’applicazione di tutti gli istituti normativi vigenti”. Covid-19 ha mutato il nostro modo di vita, ha determinato sofferenze e lutti, conseguenze drammatiche sull’occupazione e sull’economia. Nulla è e sarà più come prima, si dice. È possibile pensare forse che il pianeta carcere sia in un altro sistema solare?” Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, ha inviato una lettera ufficiale agli altri capi degli uffici per chiedere uno stop alle carcerazioni. Misura giusta, inevitabile, oppure eccessiva? “I magistrati di sorveglianza sono impegnati, in condizioni difficilissime, nell’applicazione degli istituti che consentono misure alternative al carcere, ma sulla base della loro esperienza ne hanno indicato l’assoluta insufficienza a far fronte a una situazione eccezionale”. Anche lei è stato magistrato di sorveglianza a Milano negli anni Settanta e ha vissuto le rivolte di quel periodo... “Il carcere è relativamente isolato rispetto all’esterno, ma non è impermeabile. Oltre all’ingresso dei nuovi arrestati, vi è una serie di contatti con l’esterno che passano per gli agenti penitenziari e anche per tutte le persone che contribuiscono alla gestione della struttura. In caso di epidemia la situazione rischia di andare fuori controllo; sarebbe difficile garantire protezioni adeguate agli stessi agenti penitenziari. Tra i detenuti il timore per l’infezione, eventualmente anche sollecitato e sfruttato da quei, pochi ma di peso, detenuti pericolosi, potrebbe rendere la situazione ingestibile. Le prime vittime delle rivolte in carcere sono i detenuti non pericolosi (la grande maggioranza), assoggettati alle sopraffazioni dei, pochi, pericolosi, quando il controllo non è più assicurato dalla polizia penitenziaria. Le ricadute di una situazione fuori controllo sull’ordine e la sicurezza pubblica sarebbero disastrose”. Ci spiega con semplicità che si può fare per alleggerire (e non “svuotare” termine orribile) le carceri? “Ridurre il sovraffollamento del carcere è oggi necessario e urgente. Senza aspettare situazioni che potrebbe divenire ingestibili. Tutti gli argomenti “umanitari” sono già stati messi in campo. Ma a chi fosse insensibile propongo un messaggio in termini utilitaristici. È nell’interesse generale della collettività, se si vuole, delle persone “per bene”, che il carcere sia gestibile, facendo uscire un numero significativo di detenuti, con esclusione delle categorie di pericolosi. Nell’interesse dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nessuno, ovviamente, può garantire che per i detenuti che dovessero uscire vi sia “recidiva zero”. Ma la situazione di quasi-coprifuoco che è in atto di fatto riduce di molto la concreta possibilità di mettere in atto quei reati predatori che più possono preoccupare”. Lei ritiene che un’ipotesi di indulto o amnistia, come sollecitano i Radicali e le Camere penali, sia praticabile? “Vi è un ruolo oggi per gli intellettuali: personaggi pubblici autorevoli, non solo giuristi, di diverse tendenze, compresi sostenitori di “legge e ordine”, di “tough on crime”, ma consapevoli dell’eccezionalità della situazione si impegnino a far passare un messaggio di razionalità, che possa far breccia nell’opinione pubblica e indurre tutte le forze politiche, anche della attuale opposizione, a un’assunzione di responsabilità”. Il suo è un sì a misure di clemenza? “No, affatto. Oggi un indulto è impraticabile, ma vi sono misure che possono portare a una limitata, ma significativa e immediata diminuzione dei detenuti. Le disposizioni del decreto legge n.18 del 17 marzo 2020 sono del tutto insufficienti. La prossima sede parlamentare della conversione del decreto legge apre due astratte possibilità; quella, perniciosa, di emendamenti che restringano le pur limitate disposizioni finora introdotte e quella, virtuosa, di emendamenti che coraggiosamente amplino l’ambito di operatività delle misure già introdotte e vi aggiungano altre misure deflattive”. A cosa sta pensando? “Le proposte tecniche non mancano, dall’ampliamento della detenzione domiciliare, a quello delle riduzioni di pena per la cosiddetta “liberazione anticipata per buona condotta”, alla sospensione degli ordini di esecuzione per i reati non gravi. Si veda, da ultimo, il documento del 23 marzo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. Per i semiliberi si ipotizza che non rientrino in carcere la sera e così dovrà essere per un periodo non breve. Ma altrettanto si deve fare per gli ammessi al “lavoro all’esterno”, una condizione giuridica diversa, ma nella pratica assimilabile alla semilibertà. Aggiungo un aspetto che può apparire minore, ma non lo è”. E sarebbe? “L’inevitabile riduzione dei colloqui ha creato situazioni di tensione e molti detenuti comunque possono avere contatti solo telefonici con le loro famiglie. Sia questa l’occasione di un cambio di filosofia. Il 90% delle persone presenti in carcere non fa parte della criminalità organizzata: smettiamo di considerare le telefonate un “premio” da centellinare. Nei limiti delle possibilità pratiche consentiamo - ripeto, ai detenuti non di criminalità organizzata - la massima possibilità di telefonate, che possono comunque essere soggette a controllo. Consentire di mantenere i contatti con le famiglie non è solo, oggi, un gesto di umanità, ma è anche un investimento sulla futura risocializzazione del detenuto”. I braccialetti elettronici. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede li sta cercando disperatamente. Teme l’effetto boomerang di possibili fughe. Ma questi braccialetti servono o no? Soprattutto, adesso, non rallentano le scarcerazioni? “Non riusciamo a produrre in numero sufficiente mascherine, camici e apparecchi di respirazione. Pensa qualcuno, il Ministro o altri, che oggi vi possa essere una bacchetta magica che faccia comparire quei braccialetti che ieri non c’erano? Ho già detto che è fuori del mondo la sicurezza matematica che nessuno di coloro che usciranno dal carcere commetta nuovi reati. Ma indiscusse statistiche di lungo periodo hanno dimostrato che la percentuale di recidiva è enormemente più bassa per coloro che sono stati ammessi a misure alternative alla detenzione. Lasciamo realisticamente perdere ora i braccialetti e pensiamoci per il futuro quando potranno contribuire a ridurre gli ingressi in carcere di persone non pericolose. Oggi, con una Italia bloccata, le stesse possibilità di fuga sono ridotte. Piuttosto potrebbe essere necessario pensare a strutture essenziali dove far alloggiare e quindi poter controllare coloro che un domicilio non l’hanno”. Un’ultima riflessione sulla giustizia e sui processi civili e penali via web: come li giudica? C’è una possibile lesione del diritto alla difesa? Manca il faccia a faccia tra il giudice che condanna guardando negli occhi il suo prossimo condannato? È una via costituzionalmente lecita? O stiamo infrangendo i pilastri del diritto creando un precedente pericoloso? “L’emergenza è stata l’occasione che ha “costretto” molte sedi giudiziarie a recuperare il gap informatico allineandosi alle esperienze degli uffici più avanzati. Molte di queste prassi di emergenza, finora sottoutilizzate per pigrizia di alcuni e mancanza di iniziative del Ministero della Giustizia, dovranno andare a regime. Il modulo del lavoro dal domicilio, soprattutto per il personale amministrativo, consentirà di affrontare anche in futuro situazioni particolari con vantaggio anche per l’efficienza del sistema giudiziario” Davvero il suo è un giudizio totalmente positivo? “No, perché alla fine la macchina della giustizia si regge anche sul contatto quotidiano faccia a faccia (magari a distanza di un metro), sul parlarsi di persona tra tutti coloro che operano nei palazzi di giustizia: magistrati, avvocati, amministrativi, forze di polizia. Questo mi ha insegnato un’esperienza di quasi mezzo secolo: una parola di sostegno a un collega in difficoltà, uno scambio franco con un avvocato, un incoraggiamento a un amministrativo sopraffatto dai numeri, un confronto con la polizia giudiziaria, un atteggiamento reciprocamente rispettoso con l’imputato (e per me il saluto, lo sguardo di conforto di chi mi incontrava nel palazzo di giustizia in un momento tragico della mia vita privata). Diverso il discorso per il processo: anche qui molto si può e si dovrà fare in via telematica; in questa situazione di emergenza, con strumenti di presenza a distanza, si sono potute fare le udienze per direttissima ed evitare il collasso del sistema. Ma poi giudici, pubblici ministeri, avvocati e imputati nei momenti salienti del processo dovranno vedersi in faccia, sempre a distanza di un metro”. Fiandaca: “Serve un’amnistia per liberare subito 20 mila persone” di Giorgio Mannino Il Riformista, 5 aprile 2020 Intervista a Giovanni Fiandaca, Garante dei detenuti della Sicilia. Il rischio è quello di “una pandemia nella pandemia e bisogna intervenire prima che si verifichi la Caporetto nelle carceri”. Ecco perché “spero che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, abbia un atteggiamento più propositivo come lo aveva Giorgio Napolitano”. Giovanni Fiandaca, giurista, professore di diritto penale all’università di Palermo, con un passato in politica tra le file del Pd, da quattro anni è Garante dei detenuti in Sicilia. E suona la sveglia all’intero mondo politico e istituzionale affinché si possa “scongiurare l’esplosione di una bomba epidemiologica nelle carceri del Paese”. Professore, lei visita gli istituti penitenziari da anni: in queste ultime settimane che aria si respira? C’è un sentimento di preoccupazione diffusa tra tutto il personale penitenziario. La paura del contagio è comprensibile, è accentuata dal fatto che non si dovrebbe rimuovere il dato oggettivo che l’universo penitenziario può rappresentare una bomba epidemiologica. Le condizioni di vita carcerarie e la prossimità tra i detenuti sono fattori che possono agevolare il contagio fino a portare alla morte dei soggetti più anziani. Fattori che potrebbero fungere da moltiplicatori nella realtà esterna. Nel carcere di Bologna, è morto il primo detenuto trovato positivo al Covid-19. Esattamente. E ci troviamo dentro una situazione di profonda incertezza, nella quale avere contezza degli stessi numeri è molto difficile. Non sappiamo nulla, la bomba carceraria può esplodere nei prossimi giorni. Eppure qualcuno, non so su quali basi, sembra avere le idee più chiare. A chi si riferisce? Ho sentito il pessimo intervento del procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri. Gli vorrei chiedere sulla base di quali conoscenze dice che ci sono una cinquantina di detenuti positivi al Covid-19. Chi glielo ha detto? Con quale senso di responsabilità fa queste affermazioni? A noi garanti che cerchiamo di avere informazioni di tipo quantitativo, questo numero non risulta affatto. Risulta un numero molto più basso. Ma questo non ha valore. Perché i casi emersi non sono probanti, dovremmo chiederci piuttosto quanti tamponi sono stati fatti. La mancanza di trasparenza che caratterizza il funzionamento delle carceri, in questo momento, è accentuata. È inammissibile che un procuratore della Repubblica come Gratteri faccia affermazioni così irresponsabili. Purtroppo, in questi giorni, sentiamo pontificare in televisione magistrati che manifestano orientamenti di tipo populistico penale: una delle piaghe del tempo che viviamo. Secondo lei quali misure dovrebbe adottare il governo per disinnescare la bomba? L’optimum sarebbe una misura di deflazione penale che punti a ridurre la presenza dei detenuti in una scala tra 10mila e 20mila presenze. I provvedimenti finora emanati consentono uno sfrondamento troppo limitato. La concessione delle misure alternative, tra l’altro, è sempre sottoposta alla decisione dei magistrati di sorveglianza. E succede, com’è inevitabile, che i magistrati di sorveglianza vengono sovraesposti e non sempre sono in grado di disporre di elementi di conoscenza per operare un confronto tra rischi di varia natura. Alcuni magistrati di sorveglianza sono più restii a concedere misure alternative, altri invece sono più favorevoli. Ci troviamo di fronte ad un eccesso di responsabilizzazione e a una disomogeneità di orientamenti che possono dare luogo a disparità di trattamento. Quindi? Chiederei provvedimenti più incisivi nel consentire le misure alternative per quei detenuti che devono scontare 4 anni o al limite 3 anni di pena. Ma chiederei anche una disciplina che consenta un’attivazione pressoché automatica dei provvedimenti di scarcerazione, riducendo al massimo il potere discrezionale dei magistrati di sorveglianza. È difficile che il ceto politico possa recepire questo tipo di proposte ma ho fatto più volte appello alla politica, cominciando dal Pd, perché eserciti la maggiore pressione possibile per alzare la posta e convincere il ministro Bonafede e i vertici del Dap prima che sia troppo tardi. Lo scontro politico, però, è ancora aperto: come finirà? Non so come andrà a finire. Come giurista dico che la situazione attuale sarebbe connotata da quelle caratteristiche di eccezionalità e irripetibilità che avrebbero potuto in teoria giustificare un provvedimento di amnistia o d’indulto. Il presidente della Repubblica può esercitare il suo potere di grazia in forma cumulativa. Sergio Mattarella può contribuire a decrementare la detenzione carceraria. Fino a pochi anni fa era mia collega all’università di Palermo. Col massimo del rispetto mi piacerebbe vedere un Mattarella più propositivo che stimoli le forze politiche. Che interpreti il ruolo come faceva Giorgio Napolitano. Capitolo braccialetti elettronici. Il governo pensava potessero essere una soluzione: lei che ne pensa? Sono uno spot elettorale che interessa al ministro Bonafede e ai politici di centro-destra. Bisogna eliminarli. Cosa risponde a chi sostiene che il rischio di nuove misure alternative possa liberare soggetti criminali pericolosi? Nel bilanciamento costituzionale tra salute e sicurezza, questa deve cedere ampie porzioni di certezza alla tutela della salute. La Pandemia da Coronavirus vissuta dietro le sbarre di Rossella Avella interris.it, 5 aprile 2020 Intervista a don Raffaele Grimaldi, Capo dei Cappellani delle carceri italiane. “In questo tempo di grande smarrimento, paura, angoscia per tutti noi anche il carcere è stato coinvolto per ovvi motivi ma la mancanza di attività, di colloqui con i familiari, di assistenza religiosa e la solitudine hanno costretto a una sofferenza psicologica e quindi la paura ha preso il sopravvento. Ma nonostante questo limite psicologico, anche il carcere ha cercato di reagire a questa epidemia, avviando anche in diversi istituti attività lavorative come la produzione di mascherine protettive per fornire a molti dispositivi per difendersi dal contagio”. Così Don Raffaele Grimaldi, Capo dei Cappellani delle carceri italiane comincia il suo racconto ad Interris.it “non è facile gestire tra le mura delle nostre carceri questa difficile emergenza - sottolinea Grimaldi - poiché questo è un luogo di grande sofferenza che da molti è ritenuto il posto giusto per punire chi ha sbagliato: i ristretti si sentono gli ultimi della fila abbandonati al loro destino”. Cosa significa affrontare l’emergenza Covid19 dietro le sbarre? “Affrontare questo periodo di grande buio nei diversi istituti con problemi di mancanza di personale non è semplice - continua -. Con molta professionalità e spirito di sacrificio, le Direzioni stanno fronteggiando questo tempo di grande crisi attraverso il dialogo con i ristretti, l’aiuto nelle necessità primarie e offrendo loro più contatti telefonici con i familiari”. Ci sono state alcune rivolte nell’ultimo mese, si sentono abbandonati? “In quest’ultimo periodo ci sono state, come tutti sappiamo, diverse rivolte di marcata violenza con conseguenti decessi di detenuti. La situazione fortunatamente è rientrata dopo pochi giorni - dichiara Grimaldi a proposito delle turbolente manifestazioni di rivolta che si sono avute in alcuni istituti di detenzione. Molte sono state le ragioni: la mancanza di contatto con i familiari, una giusta attenzione in questo periodo delle loro ragioni personali, il terrore di essere contagiati e di non avere la giusta assistenza sanitaria. Il carcere, dunque, come d’altronde tutta la società, non era preparata a questa pandemia che ha sconvolto tutti i piani di una comunità avviata con i suoi programmi organizzativi”. Cosa chiedono i detenuti in questo periodo, di cosa hanno bisogno? “La prima richiesta è non essere abbandonati. In questi giorni i detenuti hanno gridato all’Indulto e all’Amnistia… Certamente questa soluzione non è prevista anche se il decreto emanato dal Ministro della Giustizia riguarda chi deve scontare ancora una pena detentiva di 18 mesi - spiega don Raffaele - Speriamo che la macchina burocratica sia più sciolta e più celere per evitare che altre manifestazioni violente possano scoppiare in altre carceri”. A Voghera un detenuto è risultato positivo al Covid ed è stato trasferito in condizioni gravissime al San Carlo di Milano dove ora è in terapia intensiva. Com’è la situazione nel carcere ora, rischia di trasformarsi in una bomba sanitaria? “I diversi casi di contagio accertati sono stati isolati. Questo è il tempo che ci chiede grande impegno e uno sforzo comune. Come ha ribadito Papa Francesco “Bisogna remare insieme” se vogliamo affrontare quest’emergenza sanitaria. Questo è il tempo in cui ci siamo “ritrovati impauriti e smarriti” ma deve essere anche il tempo per capire le soluzioni da intraprendere. Prima di ogni cosa mettere in sicurezza tutti coloro che svolgono attività lavorativa nelle carceri e che si espongono quotidianamente al rischio contagio, per tutelare la loro salute e quella delle persone con cui entrano in contatto. È un dovere proteggersi per non arrecare danni a chi è ristretto. La situazione attuale nelle carceri non è facile da gestire. La popolazione detenuta a volte si sente stanca di non essere ascoltata, e il carcere potrebbe diventare ancora una polveriera di rabbia e di violenza. Nelle carceri - conclude Grimaldi - mai come in questo momento, i detenuti hanno bisogno di maggiore informazione, di un’attenta vicinanza ai loro bisogni primari. Il sovraffollamento può essere in molte strutture fattore di rischio di contagio: celle piccole che ospitano più detenuti non riescono a garantire il distanziamento sociale di sicurezza. Ci auguriamo che l’emergenza e l’isolamento “fitte tenebre che si sono impadronite della nostra vita” possano gradualmente rientrare perché possiamo tutti riprendere serenamente le nostre attività. Andiamo avanti con l’impegno di sempre e abbracciamo il Signore della Vita che risorge per noi per abbracciare la speranza di un cammino migliore. Questo tempo certamente ci ha fatto rientrare in noi stessi ponendoci interrogativi vitali per il nostro futuro”. Nuove carceri non risolvono il problema del sovraffollamento di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril Corriere della Sera, 5 aprile 2020 Il coronavirus ha riportato attenzione sui numeri dei detenuti e sulle condizioni igieniche negli istituti penitenziari. C’è chi propone di costruire nuove strutture, ma i dati dimostrano che sarebbe controproducente. È notizia delle ultime ore la morte per Covid-19 di una persona detenuta a Bologna. La prima di altre che, probabilmente, seguiranno. D’altronde, stando ai dati divulgati in questi giorni, sarebbero 21 i detenuti risultati positivi al virus. Un numero che si teme sia già ora molto diverso e comunque destinato ad aumentare. L’allarme è stato lanciato, tra gli altri, dal Segretario Nazionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria: “Netta la sensazione che il coronavirus nel “territorio straniero” delimitato dalle cinte murarie e chiamato carcere sia arrivato in differita e che pertanto, mentre nel Paese pare si stia registrando il picco, nei penitenziari potrebbe essere in piena fase di sviluppo e ascesa”. Le soluzioni messe in campo - Le misure del Governo in questi giorni, pur rappresentando un passo nella giusta direzione, appaiono a molti ancora troppo timide per un’emergenza come quella che anche l’universo carcerario sta affrontando. Lo stesso Csm negli scorsi giorni ha avvertito come l’indisponibilità di un effettivo domicilio per molti detenuti e, soprattutto, la carenza di braccialetti elettronici, a cui è subordinata la detenzione domiciliare per chi deve scontare pene residue sino a 18 mesi, rischia di rendere inadeguati i provvedimenti. Bisogna agire in fretta e con misure eccezionali per riportare la popolazione carceraria nei limiti della capienza ordinaria se è vero che il distanziamento e l’igiene personale sono, a oggi, le sole misure efficaci per contenere il diffondersi del contagio. Ampliare l’accesso alle misure alternative alla detenzione, differire l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne meno gravi, anticipare il rilascio di chi deve scontare un breve residuo di pena e che abbia già ricevuto giudizi positivi da parte della magistratura di sorveglianza: tutte misure suggerite anche di recente dal professore di procedura penale Glauco Giostra sull’Avvenire del 21 marzo scorso, attuabili subito e a costo zero. I numeri delle carceri - Certo, se la riforma penitenziaria, scaturita dagli Stati generali dell’esecuzione penale, presieduti dallo stesso Giostra, fosse stata a suo tempo approvata, la situazione risulterebbe oggi molto più gestibile. Non bisogna, infatti, dimenticare come il sistema versi in situazione d’emergenza da molti anni. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, i detenuti nei 189 istituti penitenziari italiani sono attualmente 61.230 (un terzo costituito da detenuti non definitivi) per una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento pari al 119 per cento. Servono davvero nuove carceri? - In questo contesto, nelle ultime ore il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ha affermato che la soluzione al sovraffollamento carcerario sarebbe la costruzione di nuove carceri: “Io è da prima che entrassi in magistratura che sento parlare di sovraffollamento delle carceri. Perché non sono state costruite quattro carceri in Italia da cinquemila posti? A New York c’è un carcere di diciottomila posti, a Miami c’è un carcere di settemila posti, perché in Italia il carcere più grande ha millequattrocento posti? Che ci vuole a costruire quattro carceri? E risolviamo, e così la finiamo con il sovraffollamento delle carceri, con il disagio delle carceri”. L’idea è condivisa dall’attuale Governo che ha di recente ribadito come siano in corso opere di trasformazione di vecchie caserme inutilizzate e come sia inoltre prevista la costruzione di nuovi istituti penitenziari ed il recupero di altri edifici inutilizzati. A noi questa soluzione non sembra corretta, anzi ci pare che rischi di aggravare il problema. Più carceri = più detenuti - A seguito della prima condanna della Corte Europea nel 2009 (Sulejmanovic c. Italia) per “trattamento inumano e degradante” a causa dell’eccessivo sovraffollamento carcerario, il Governo aveva attuato un piano di costruzione di nuovi istituti penitenziari realizzando 4.400 nuovi posti a fine 2014. Ebbene, a partire da tale momento, il tasso di occupazione carcerario non ha fatto che aumentare. Del resto, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha evidenziato, in un report ufficiale del 2002, come “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno visto la loro popolazione detenuta aumentare di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Al contrario, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. D’altronde, se l’esempio portato sono gli Stati Uniti, non si può tacere che proprio qui c’è il più alto numero di detenuti al mondo (circa 2.2 milioni, il 20% circa della popolazione carceraria mondiale) ed in cui il drammatico fenomeno della cd. mass incarceration risulta connesso alla costruzione di nuovi istituti penitenziari. Quanto costerebbe costruire nuove carceri - Inoltre per costruire un nuovo carcere da 250 posti occorrono circa 25 milioni di euro. Vale a dire 100 mila euro a posto letto. A spanne, oggi, per risolvere il problema servirebbero circa 40 nuovi istituti per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro. Senza contare, ovviamente, l’aumento dei costi del personale e delle risorse. Ma anche la gestione quotidiana della detenzione: circa 136 euro al giorno per detenuto, mentre le misure alternative “pesano” circa un decimo. La (necessaria) riforma - C’è da sperare che l’attuale situazione ponga l’attenzione sulla tragedia del sovraffollamento e sulle condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti. Una volta superata l’emergenza sanitaria, anche nelle carceri, sarà necessario mettere mano a una complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario e forse, più in generale, del nostro sistema penale. In tal senso, come evidenziato nel White Paper On Prison Overcrowding del 2016 dal Comitato europeo per i problemi della criminalità, la costruzione di nuovi istituti penitenziari deve essere accompagnato dal rafforzamento delle misure alternative alla detenzione, dalla valorizzazione (se non dalla riscoperta) di quel principio, per cui il carcere preventivo va adottato solo quando ogni altra misura appare inadeguata e, infine, da una massiccia depenalizzazione. Senza tutto questo, l’aumento del numero delle carceri non risolverebbe il problema. Anzi, correrebbe il rischio di portare, come i numeri dalla testa dura suggeriscono, a un aumento della popolazione detenuta. Per Gratteri le carceri sono il luogo più sicuro contro il contagio di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 5 aprile 2020 Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, dott. Nicola Gratteri, fa certamente uso di un sistema di calcolo tutto suo, grazie al quale guarda, con compassionevole sufficienza, noi poveri fessi che ancora smanettiamo con le vecchie tabelline. È un nuovo sistema di calcolo, lo ha inventato lui e perciò lo chiameremo “il gratterio”. I risultati sono straordinari, saremmo tentati di dire perfino miracolosi se non fossero il frutto, sia ben chiaro, di una logica ferrea e rigorosa. Prendete il tema del carcere e del rischio epidemico. Il dott. Gratteri ci assicura che i nostri istituti penitenziari sono una barriera di sicurezza contro il dilagare del virus, ciò che rende i detenuti, in questa tragica pandemia, delle persone a ben vedere privilegiate rispetto a noi poveri liberi. Cosa saranno mai, ha detto sbigottito a una estasiata signora Gruber, 21 contagiati su 60mila detenuti e 200 agenti penitenziari su 120mila? Ecco, vedete? Noi lì con le vetuste tabelline e gli inattendibili grafici a calcolare l’incremento percentuale dei contagiati (prima uno, poi cinque, poi, 9, poi 15, poi 21, e cosi a seguire) traendone stupidamente i peggiori auspici, e lui lì a rasserenarci: calcolata con il gratterio, la curva è destinata ben presto a decrescere, per quei 21 + 120 sicuramente non va calcolato l’indice di contagio 1 a 3 valido per tutti noi liberi, quindi che restino tutti in carcere, non si ceda alle proterve manovre epidemiche della criminalità organizzata, da tutti noi altri callidamente favoreggiate, la questione si risolve da sé. È il gratterio, bellezza. Sempre grazie a questo straordinario nuovo sistema di calcolo, il nostro Procuratore ci ha per esempio assicurato, in una intervista come gliele sa fare Il Fatto Quotidiano, incalzanti, impietose, senza sconti, che se a suo tempo gli avessero dato retta, altro che sovraffollamento! Tanti detenuti in più -ci ha detto con sguardo che immaginiamo sognante- ma tutti in celle singole con bagno, intenti a studiare e a recuperarsi alla società scontando la pena dal primo all’ultimo giorno. Come? Ma perbacco! Costruendo in sei mesi (ha detto proprio così, sei mesi) quattro carceri da cinquemila posti (si, ha detto cinquemila), che perfino con le nostre tabelline fa ventimila, e il problema dei diecimila detenuti di troppo non è risolto, è polverizzato. Noi a occhio avremmo calcolato, per una impresa simile, venti-venticinque anni per le opere in muratura, un punto di Pil per costruirle e un altro punto, un punto e mezzo l’anno per mantenerle, ma è perché non usiamo il gratterio, tutto qui, è questa la nuova verità che, grazie alle Gruber e ai Barbacetto, giornalisti di inchiesta con la “i” maiuscola, finalmente ci illumina. Non parliamo poi della smaterializzazione del processo penale. Ci siete finalmente arrivati, ci dice con paterna ed un po’ malinconica severità il dott. Gratteri! Io lo dico da anni, vedete che si può fare? Godetevelo, questo mondo dei sogni! Basta una piattaforma, un buon computer, e tutti a casa, anche in mutande volendo tanto ti si vede a mezzobusto, prego avvocato a lei la parola, non si sente abbia pazienza, ripeta, no lei ha un pessimo wi-fi, abbia pazienza ci posti la discussione su Facebook. La Corte si ritira in Camera di Consiglio, ognuno da casa propria, e si discute di questo benedetto omicidio mentre i giudici, togati e popolari, cucinano o rassettano casa, caro non ascoltare che la Camera di Consiglio è segreta; o guardano di sottecchi una serie tv, ma per carità, sto sentendo, sto sentendo. Alla fine, per WhatsApp, ti arriva la parolina, per esempio: ergastolo, e tutti a casa, ah no ci siamo già. Ora, queste meravigliose sorti e progressive del processo penale, ci assicura il dott. Gratteri, ci avrebbero fatto per di più guadagnare, come si dice a Roma, “mijoni de mijardi”, sempre secondo la famosa unità di misura, e noi invece, duri di comprendonio, abbiamo dovuto aspettare una pandemia per capirlo. Speriamo bene per il futuro, dai. Ecco, grazie alla formidabile visione prospettica del dott. Gratteri, e soprattutto al suo nuovo, prodigioso sistema di calcolo, la verità è disvelata. Chi continua a non capirlo, paventando rischi epidemici nelle carceri e necessità di rientrare cautelativamente almeno dal vergognoso sovraffollamento del quale deteniamo il primato europeo, si rende strumento e complice della criminalità organizzata, che tiene le fila di questa inutile e pretestuosa gazzarra. Perciò io non voglio rogne, e dico che mi fido delle previsioni calcolate con il gratterio. Magari, ed è il caso di dirlo, mi gratto; quando non mi vede nessuno però, non vorrei beccarmi un concorso esterno. Seduti su una polveriera: il rischio sanitario per la popolazione carceraria di Alessandro Stomeo* lecceprima.it, 5 aprile 2020 L’idea erronea che il carcere sia un mondo a sé che debba appartenere solo a chi è recluso potrebbe, in questo momento, rappresentare anche un problema di salute pubblica per tutti. Le strutture detentive, tutte, non possono garantire, per come organizzate, neanche i minimi presidi sanitari di contenimento del rischio epidemiologico da Covid-19. Considerati i dati obbiettivi, e l’altrettanto indiscutibile condizione di forzata promiscuità all’interno delle carceri, il rischio che le stesse possano diventare focolai incontrollabili di epidemia è altissimo, se non scontato e ciò, oltre a mettere a repentaglio la salute dei detenuti e degli operatori, causerebbe, in caso di diffusione del virus, un fattore di esponenziale aumento di contagi con rischi di tenuta delle strutture sanitarie interessate. Il carcere di Lecce, ad esempio, con i circa mille detenuti ed altrettanti operatori (sanitari, di supporto, polizia penitenziaria) rappresenterebbe, in caso di diffusione interna del virus, una bomba epidemiologica incontrollabile. A destare preoccupazione, inoltre, è il completo isolamento dell’ambiente carcerario rispetto al resto della società, in termini di aggiornamento dei dati rispetto delle misure di contenimento, di test a tampone effettuati, di numero di contagi, di casi di ricovero ospedaliero. L’interruzione dei colloqui personali con i parenti, con gli avvocati, con le associazioni che si propongono di sorvegliare la vita all’interno delle strutture, unitamente all’impossibilità di avere interlocuzione diretta con i distretti sanitari all’interno delle strutture carcerarie, ha reso quello degli istituti di pena un interregno gestito come un non luogo avulso dal resto della società. Un fenomeno, quello appena descritto, già fisiologicamente presente in tempi di “normalità”, oggi si amplifica e può porsi al di fuori di ogni controllo di legalità. Le poche notizie che si raccolgono, frammentarie e non verificabili, non colmano, infatti, un preoccupante vuoto di percezione. La popolazione carceraria risente fortemente di questa condizione di totale inconsapevolezza del problema, delle misure adottate, della loro efficacia, delle misure di tutela, quindi percepisce un imponderabile rischio di incolumità che, come è già accaduto, può innescare anche problemi di ordine pubblico. La destabilizzazione psicologica dei detenuti - e di tutti gli operatori che svolgono diverse mansioni all’interno del carcere - rappresenta, infatti, la parte più nascosta del problema. Il numero dei detenuti in Italia è di 58mila (1150 nella Casa circondariale di Lecce a fronte di capienza regolamentare di circa 800 posti), ben oltre la capienza massima consentita di 50mila unità con tasso d’affollamento pari al 120 percento circa. Alla popolazione detenuta si devono aggiungere circa 38mila agenti di polizia penitenziaria (distribuiti in vari compiti e mansioni), oltre al personale direttivo, sanitario, agli educatori ed assistenti sociali. Ben oltre 100mila, quindi, tra detenuti e altri soggetti che frequentano l’ambiente carcerario, ad escludere magistrati, avvocati e visitatori per i quali si è bloccato ogni contatto con la popolazione detenuta con provvedimenti governativi già dal 9 marzo. Il Covid-19 è, però, già entrato nelle carceri. I dati a disposizione su scala nazionale, aggiornati al 22 febbraio, parlano di 19 casi di contagio tra i detenuti (uno solo noto nel carcere di Lecce), mentre 119 sono i contagiati tra gli agenti di polizia penitenziaria, 17 ricoverati mentre il resto in isolamento fiduciario; dati non aggiornati e che, probabilmente sono di maggiore entità. Considerata la tipologia dell’attività svolta (pubblica sicurezza), gli agenti venuti in contatto -all’esterno o all’interno del carcere - con soggetti, a loro volta già contagiati, non verranno posti in isolamento ma continueranno a svolgere attività, se possibile evitando mansioni che presuppongano contatti con la popolazione detenuta. Le notizie che si possono avere svelano l’assenza di presidi sanitari sufficienti per la popolazione detenuta, alla quale non sono state distribuite mascherine protettive adeguate né guanti protettivi, e le carenze riguardano anche il materiale fornito agli agenti di polizia penitenziaria; si aggiunga che i detenuti, per questioni di sicurezza, non possono detenere candeggina o alcool, che son invece ritenuti disinfettanti idonei per gli ambienti contro la propagazione del virus. Le strutture, per la capienza massima già sfruttata, non possono garantire isolamento dei contagiati, né distanziamento; i detenuti son almeno in numero di tre per ogni cella. La sorveglianza dinamica, ad esempio rimasta attiva nel carcere di Lecce, consente il libero spostamento dalla cella nelle ore diurne ma i luoghi di aggregazione fuori le celle sono angusti e non consentono distanziamento. Nessuna precauzione, nota, riguarda il monitoraggio e la disinfezione di pacchi o posta giunti dall’esterno. In questo momento di emergenza sanitaria, come in tutti i casi di stress, il “sistema”, inteso come organizzazione della nostra società a tutti i livelli, svela brutalmente i suoi limiti e le sue contraddizioni. Tutta la polvere nascosta sotto il tappeto, in tempi di ordinaria amministrazione, rischia di riemergere inesorabilmente in momenti di pressione. È evidente che la questione carceri, seppure oggetto di numerosi moniti di operatori della giustizia (associazioni, ordini, avvocati, magistrati e tanti altri) non è stata affrontata concretamente nelle sedi istituzionali, visto che le uniche misure adottate con gli articoli 123 e 124 del decreto legge del 17 marzo, che prevedono la detenzione domiciliare in luogo di quella in carcere per condannati con pena residua da espiare inferiore a 18 mesi, non ha dato ancora alcun tangibile risultato per le difficoltà note di applicazione dei dispositivi di controllo a distanza (braccialetti elettronici) che non sono disponibili perché in numero nettamente inferiore al fabbisogno. L’avere subordinato la scarcerazione alla misura dell’applicazione del braccialetto elettronico ha, di fatto, reso impalpabile, in termini di riduzione della popolazione carceraria, l’iniziativa legislativa. Si è trascurato, inoltre, tutto l’aspetto riguardante i detenuti in custodia cautelare, ancora non raggiunti da verdetto di colpevolezza o innocenza; si tratta del 30 percento circa della popolazione carceraria, non prevedendo alcuna misura deflattiva. Il problema, pertanto, è rimasto vivo e solo la riduzione straordinaria del numero delle presenze all’interno delle strutture detentive, con provvedimenti legislativi mirati e di rapida applicazione, garantirebbe il rispetto delle misure minime di contenimento del rischio contagio. Allo stato attuale delle cose, sarebbero necessari anche strumenti per il controllo rapido delle temperature corporee, presidi medico-chirurgici come saturimetri e costante controllo delle condizioni di salute di agenti e detenuti, anche in considerazione del fatto che moltissimi reclusi sono affetti da patologie che aumentano il rischio di letalità dell’infezione da Covid-19 (diabete, malattie cardiovascolari, e altre patologie). Una misura concreta sarebbe quella di estendere a tappeto i controlli con tampone a detenuti e agenti di polizia penitenziaria, come pratica di prevenzione anche nei confronti di asintomatici. Sarebbe opportuno, insomma, che si avesse la possibilità di adottare misure minime di contenimento effettivo all’interno degli istituti di detenzione e che si potesse avere cognizione della condizione in cui versano migliaia di detenuti ed in cui sono costretti ad operare migliaia di agenti di polizia penitenziaria e di operatori. *Avvocato Colpevoli fino a prova contraria. La detenzione carceraria nel pieno di una strage sanitaria di Carmen Maria Cirami inpressmagazine.com, 5 aprile 2020 L’intera società italiana è vessata dalle restrizioni preventive contro il Covid-19, ma c’è una parte della popolazione che molti relegano in un angolo: i detenuti nelle carceri e tutto il personale penitenziario. Da anni la situazione nelle carceri è critica, ma dopo la diffusione del coronavirus è precipitata nel baratro. Dopo l’inizio delle ribellioni e delle fughe la popolazione carceraria è scesa da 60.000 a 58.000. Michele Miravalle della Società Antigone afferma che la capienza delle carceri italiane si aggira a 50.000, quindi non hanno diritto al giusto spazio vitale. Di conseguenza il rischio di contagio è altissimo. Questa piaga affligge da decenni le carceri italiane, ma adesso costituisce anche un ostacolo per un possibile isolamento dei contagiati. Non vi è tutela nemmeno per il personale che è tenuto alla sorveglianza dei detenuti. Ne è un esempio Parma: vi è un’intera sezione detentiva sottoposta a quarantena preventiva per un detenuto con sintomi para-influenzali e cinque poliziotti sono risultati positivi al Covid-19. A cercar di far valere i diritti del personale sono i sindacati Sappe, Osapp e Sinappe. Essi mettono in evidenza la carenza di mascherine e di protezioni per gli agenti. Le richieste degli agenti e le rivolte non vengono ignorate dal Papa. Quest’ultimo durante l’Angelus chiede di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri e comunica la sua preoccupazione per tutti coloro che sono costretti a vivere in gruppo. Ma dopo le violente ribellioni dei carcerati, le richieste d’aiuto dei più esposti al contagio e l’appello dei sindacati quali provvedimenti ha deciso di intraprendere il Governo? La legge fa la sua parte - Nel decreto legge Cura Italia vengono confermate, all’articolo 123, le novità circolate finora sulle misure per alleggerire il sovraffollamento carcerario in questo momento di emergenza sanitaria. Esclusi dal beneficio i reati più gravi, i maltrattamenti in famiglia e lo stalking. Non potranno essere ammessi a tale procedura i detenuti ritenuti i delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Ne sono interdetti quelli sottoposti al regime di sorveglianza particolare, coloro che sono stati sanzionati in via disciplinare in carcere e chi si è reso protagonista delle sommosse degli ultimi giorni. Infine con l’articolo 124 le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semi-libertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020. Questo decreto inoltre prevede che i detenuti debbano tenere un braccialetto. Ciò va in conflitto con il Csm, che prevede una fornitura tardiva dei suddetti braccialetti e boccia la proposta. Tuttavia è doveroso chiedersi: cosa è stato negli anni precedenti in termini legislativi? Il 13/01/2010 l’ex premier Silvio Berlusconi aveva già dichiarato lo stato d’emergenza penitenziaria a causa del sovraffollamento nelle carceri. In risposta a ciò venne stabilita la detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena, elevato poi ad un anno mezzo. Una delle condizioni alla detenzione domiciliare era una condotta eccelsa, rilevata e poi registrata nella relazione che ogni magistrato doveva sottoscrivere. Dieci anni dopo, a causa della possibile strage sanitaria la relazione è abolita. Ogni minima intemperanza impedisce la detenzione domiciliare e le visite dei parenti sono state vietate. Dopo il provvedimento del mese di marzo, per evitare che le rivolte si facciano sempre più accese, alcuni enti come la Tim e la Fondazione San Paolo hanno fornito dei cellulari ai detenuti. Dunque è possibile dire che i loro diritti vengano tutelati oppure sono stati calpestati? La preventiva mancanza di dignità - Per ricordare ciò a cui ha diritto la popolazione carceraria è doveroso soffermarsi all’articolo 27 della Costituzione: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il sovraffollamento disumano delle carceri è un autentico attentato a quest’articolo che prevede tra l’altro il rispetto della dignità del carcerato e la sua rieducazione. Inoltre a fianco del sovraffollamento non si può dimenticare l’uso sproporzionato della carcerazione preventiva, degno di una visione che prevede il carcere anche quando sarebbero più giuste e più efficaci sanzioni immediate anche non detentive. La detenzione preventiva in molti casi condanna l’individuo prima che si possa accertare in maniera definitiva che sia colpevole. Le restrizioni ai colloqui sono necessarie ma costituiscono una possibile miccia, per chi già non viene trattato come uomo ma piuttosto come un caso penale privo di dignità. La rieducazione non può avvenire se manca il minimo spazio vitale. La società dimentica che seppur colpevoli sono uomini come noi. Coronavirus, 400mila mascherine al giorno prodotte dai detenuti per gli istituti di pena di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2020 Accordo tra il Guardasigilli Bonafede e il commissario Arcuri, tre le carceri coinvolte, Milano, Salerno e Roma. Serviranno soprattutto per il personale dei penitenziari di tutta Italia. I macchinari arriveranno a metà aprile. Saranno i detenuti, in tre carceri italiane, Bollate a Milano, Rebibbia a Roma e Salerno, a produrre mascherine per il personale degli Istituti penitenziari. 400mila al giorno. Con 320 detenuti coinvolti, 8 macchinari tecnologicamente avanzati, 3 stabilimenti produttivi situati all’interno di altrettante sedi penitenziarie. È questo il progetto, siglato oggi, per la produzione industriale di mascherine protettive realizzato in partnership fra il ministero della Giustizia e il commissariato per l’emergenza Covid-19. D’accordo il Guardasigilli Alfonso Bonafede e Domenico Arcuri. Come rende noto il ministero della Giustizia “la produzione servirà a soddisfare prioritariamente il fabbisogno di dispositivi protettivi in dotazione al personale che opera negli istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale”, ovviamente servirà “ai detenuti in base alle indicazioni delle autorità sanitarie” e consentirà anche, secondo quanto assicura via Arenula, “di mettere a disposizione della Protezione Civile l’abbondante parte residua per essere distribuita alle altre amministrazioni impegnate a fronteggiare l’emergenza sanitaria, prime fra tutte le strutture ospedaliere”. Secondo il ministro Bonafede si tratta di “un grande progetto industriale che nasce in un momento di particolare emergenza nazionale nel quale tutti stanno producendo il massimo sforzo per fronteggiare la diffusione del contagio da Covid-19. Grazie alla professionalità di tutti gli operatori dell’Amministrazione Penitenziaria, con la collaborazione del Commissario Straordinario Arcuri, anche i detenuti daranno il loro contributo in questa emergenza”. Arcuri aggiunge che “le prime sei macchine, che saranno acquistate dalla struttura del Commissario Straordinario e concesse a titolo gratuito all’Amministrazione Penitenziaria, arriveranno a metà aprile e saranno dislocate nei tre stabilimenti industriali individuati presso gli istituti di Milano Bollate, Salerno e Rebibbia presso il Servizio di Approvvigionamento e Distribuzione Armamento e Vestiario”. Partiranno subito Rebibbia e Salerno. Secondo Arcuri “ciascuna macchina sarà in grado di assicurare la produzione di 50mila pezzi al giorno” e vi lavoreranno 40 detenuti distribuiti in quattro turni da sei ore ciascuno. Arcuri aggiunge che i detenuti “saranno selezionati in base alle competenze personali e alle attitudini professionali maturate e verranno adeguatamente formati all’utilizzo dei macchinari e regolarmente contrattualizzati e retribuiti, con stipendi a carico dell’Amministrazione Penitenziaria”. Il ciclo produttivo, come precisa il commissario Covid-19, comprenderà anche la ricezione e preparazione del tessuto non tessuto (tnt), nonché lo stoccaggio e la sanificazione delle mascherine. Sicilia. Scoppiano le carceri: Palermo e Catania sono carnai di Giorgio Mannino Il Riformista, 5 aprile 2020 Pessime condizioni igienico-sanitarie, strutture fatiscenti e celle come carnai. Con buona pace del famigerato metro e mezzo di distanza che dovrebbe limitare i contagi da Covid-19. La bomba epidemiologica che potrebbe scoppiare nelle carceri non risparmierebbe la Sicilia. Dove l’emergenza sanitaria sta amplificando l’annoso elenco di problemi che vivono i penitenziari dell’isola. Tanto che “se la tensione era alta già prima, ora è a livelli massimi e le recenti manifestazioni di rivolta sono un segno concreto di un profondo disagio”, sottolinea Pino Apprendi, presidente regionale dell’associazione Antigone. E l’ultimo report - aggiornato allo scorso 25 marzo - sulla condizione delle carceri siciliane realizzato dal garante dei detenuti Giovanni Fiandaca, dipinge una situazione a macchia di leopardo. Catania, la cui provincia presenta il numero più alto di contagiati, ha superato la capienza prevista: al carcere Bicocca sono reclusi in 196 a fronte di una capienza di 138 posti, al penitenziario Piazza Lanza vivono in 299 a fronte di una capienza di 279. Sovraffollate e difficilmente controllabili in caso di rivolta sono le celle del Pagliarelli di Palermo, dove i detenuti sono 1356 a fronte di una capienza di 1182. Condizioni di sforamento che riguardano anche le altre carceri dell’isola. Che, però, è riuscita liberare 123 posti: infatti si contano 6343 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6466 posti. Fiandaca, però, avverte: “I numeri non tengono conto della disomogeneità tra i vari istituti delle reali condizioni di vita all’interno degli stessi, del fatto che ci troviamo in presenza di una pandemia e che i criteri di valutazione degli spazi non possono essere gli stessi di un momento ordinario. Servono misure alternative più incisive”. Anche perché a rischio non è solo la salute dei detenuti ma anche quella dell’intero personale che gravita attorno alle carceri. In particolar modo gli agenti di polizia penitenziaria. Una categoria, in Sicilia, sottodimensionata. E che ha le armi spuntate contro il virus e contro eventuali rivolte pericolose. “La situazione è molto pesante”, ammette Francesco D’Antoni, segretario generale del sindacato Uspp: “La nostra salute - prosegue - è a rischio. Mancano gli strumenti di protezione, quelli che sono arrivati non sono adeguati. Poi all’appello mancano 482 unità. Dovremmo essere 4266 in tutta la regione, invece, siamo 3784. Tra questi, 650 godono dei benefici della legge 104. Quindi dobbiamo fare un’ulteriore scrematura. Insomma se scoppiano gravi rivolte potremo fare poco. La Sicilia è allo sbando già da anni e l’emergenza sanitaria acuisce tutto questo. Se dovesse esplodere un caso in carcere, diventerebbe una bomba. Al momento stiamo tenendo ma non sappiamo ancora per quanto”. Intanto il comitato dei radicali “Esistono i diritti” ha indetto una marcia virtuale il 12 aprile per sensibilizzare le istituzioni regionali e il governo sul tema dell’amnistia per tutti quei soggetti non socialmente pericolosi: “Le carceri - morde Alberto Mangano, membro del comitato - sono luoghi potenzialmente esplosivi. I provvedimenti adottati finora non sono sufficienti. Il governo agisca, immediatamente”. Campania. Non ci sono braccialetti, i detenuti restano in carcere di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 5 aprile 2020 Dei braccialetti elettronici nemmeno l’ombra. Per non parlare dei magistrati di sorveglianza, ancora impegnati nell’analisi delle relazioni comportamentali. Il risultato? Dei 500 detenuti in Campania che hanno diritto alla detenzione domiciliare, soltanto 14 ne hanno finora beneficiato. La misura contenuta nel decreto legge varato dal governo due settimane fa stenta a decollare in un momento in cui, tra l’altro, quattro agenti di polizia penitenziaria risultano positivi al Coronavirus e l’amministrazione penitenziaria avvia uno uno screening sanitario su detenuti e personale. Il punto della situazione è stato fatto ieri, nel corso di una videoconferenza alla quale hanno partecipato il capo dell’amministrazione penitenziaria e i provveditori regionali. Il meccanismo attivato dal governo per svuotare le carceri ed evitare che si trasformino in pericolosi focolai sembra non funzionare. Non solo in Campania, ma in tutta Italia. Il motivo? Innanzitutto il ritardo nella fornitura di braccialetti elettronici, necessari per monitorare i detenuti che dovrebbero scontare ancora tra i sei e i 18 mesi di reclusione e per i quali si prevede ora la detenzione domiciliare. Quelli che finora sono riusciti ad abbandonare le celle per scontare la pena a casa, infatti, sono soggetti che avrebbero dovuto trascorrere meno di sei mesi in carcere: per questi il decreto legge non prevede il braccialetto. E poi c’è la questione della magistratura: in molti casi la Sorveglianza sta passando al setaccio le relazioni comportamentali relative ai candidati alla detenzione domiciliare, il che comporta un ulteriore allungamento dei tempi. Una nota positiva, tuttavia, c’è. Il Coronavirus, infatti, sembra aver invertito il trend che, negli ultimi anni, ha trasformato le prigioni in vergognosi carnai. “In Campania - spiega Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria - la popolazione carceraria è scesa da 7mila e 400 unità a meno di 6mila e 900. Basti pensare che a Poggioreale contiamo attualmente mille e 900 detenuti, il dato più basso mai registrato negli ultimi cinque anni”. Il motivo è presto detto: si arresta di meno e le misure che portano alla scarcerazione dei detenuti sono valutate e applicate in modo più benevolo. “Il risultato sono prigioni meno affollate e quindi più vivibili”, spiega Fullone che negli istituti penitenziari sta individuando spazi vuoti da destinare all’isolamento di eventuali detenuti contagiati dal virus. Il timore c’è, anche perché tre agenti di polizia penitenziaria in servizio a Secondigliano sono risultati positivi al Covid-19. A questi se ne aggiunge un altro a Carinola. Ecco perché, nelle prossime ore, saranno avviati test sierologici su 12mila e 500 persone tra detenuti e personale. Obiettivo: monitorare le condizioni di salute della popolazione carceraria per evitare che quest’ultima sia decimata dal Coronavirus. Molise. “Adottate disposizioni non inidonee a garantire il diritto alla salute” moliseweb.it, 5 aprile 2020 Impossibile da realizzare il “distanziamento sociale” nelle carceri. Le associazioni, Antigone Molise e Cittadinanzattiva Molise, premesse le attuali condizioni di detenzione in sovraffollamento cui versano attualmente le persone detenute negli Istituti di pena molisani, nei quali per ragioni oggettive non può essere praticato il “distanziamento sociale” tra detenuti e tra detenuti e personale della polizia penitenziaria, così come imposto dalla legislazione emergenziale volta a contenere il contagio da covid-19; premesse le disposizioni del D.L. n.18 del 17 marzo 2020 di modifica della L.199/2010 riguardante la detenzione domiciliare speciale. Ritenuto che tali disposizioni allo stato si rilevano comunque inidonee a garantire il diritto alla salute di tutti coloro che operano all’interno delle strutture carcerarie del Paese e della regione Molise in particolare, come d’altra parte confermato dall’incremento esponenziale di contagi nelle strutture carcerarie; ritenuto altresì che, solo rendendo i numeri della popolazione carceraria compatibili con la capienza delle carceri e dunque risolvendo il problema del loro cronico sovraffollamento, le condizioni della detenzione sarebbero rispettose della dignità umana e diritti fondamentali delle persone detenute cosi come scolpiti dalla Costituzione e dalla Cedu, e ribaditi in plurime pronunce dalla Corte di Giustizia Europea chiedono all’Ill.mo Presidente del Tribunale di organizzare le attività del Tribunale stesso al fine di garantire comunque la fissazione e lo svolgimento di udienze monocratiche e collegiali, in modo da rispondere, altresì, nel più breve tempo possibile alle istanze provenienti dalle persone detenute e di farsi istante e garante dinanzi al Ministero di Giustizia e Dap di misure e provvedimenti più incisivi e non più rinviabili di riduzione e deflazione della popolazione carceraria, in adesione e salvaguardia sostanziale dei principi costituzionali e sovranazionali di salvaguardia dei diritti dell’uomo, in un’ottica di reale e concreta professione di etica morale e sociale per la tutela dei diritti delle persone. Milano. Allarme epidemia tra i detenuti: “Bloccate gli ordini di carcerazione” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 aprile 2020 Richiesta alla Procura del Tribunale di sorveglianza “prima che diventino irrisolvibili i problemi di spazio”. In Lombardia dodici i positivi dietro le sbarre. Nelle carceri lombarde - dove 8.600 detenuti sono stipati in 6.200 posti (in Italia 56.830 in 47.000), con il 121% di media nazionale di sovraffollamento e il 139% regionale che a Monza e Como sfiora però il doppio della capienza teorica - già non c’era posto prima, figurarsi adesso che spazi di fortuna sono stati adibiti a improvvisati reparti di isolamento sanitario: isolamento sia dei sospetti contagi Covid-19 (su 30 detenuti ufficialmente positivi a livello nazionale erano 12 in Lombardia i nuovi giunti), sia delle quarantene (almeno 257 in Italia) di detenuti e di agenti penitenziari (120 positivi in Italia, due morti insieme a un medico penitenziario). Il risultato è che i direttori non sanno più dove mettere non solo i detenuti che già ci sono, ma anche i nuovi che man mano arrivano. Al punto che la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, dopo aver già scritto (senza risposta) al ministro della Giustizia insieme alla collega bresciana Monica Lazzaroni, e prima ancora che addirittura la Procura Generale di Cassazione sensibilizzasse i pm sul ridurre la popolazione penitenziaria, ha scritto stavolta alla reggente della Procura generale Nunzia Gatto e al procuratore della Repubblica Francesco Greco: una lettera per chiedere di “valutare l’opportunità di sospendere l’emissione di ordini di carcerazione” per “evitare rischi di contagio (provenienti dall’esterno verso l’interno) e l’estensione di zone di isolamento che sono già di difficilissimo reperimento anche a causa dei contagi interni”. Bollate - indica ad esempio Di Rosa - fa sapere che in un solo giorno gli sono arrivati 6 nuovi condannati definitivi arrestati in esecuzione di recenti ordini di carcerazione a pene non altissime e per reati molto risalenti nel tempo, “i quali devono essere poi necessariamente posti in isolamento”, con sempre maggiore “difficoltà delle strutture di sostenere tale situazione aggravata da recenti sfollamenti” (cioè dai trasferimenti da altri istituti in un quotidiano gioco dell’oca per mantenere l’”acqua” all’orlo della “pentola”, ndr). Da qui la richiesta del Tribunale, “stante l’esiguità dei posti messi a disposizione dei nuovi giunti” in carcere, e prima che irrisolvibili diventino i “problemi di allocazione dei detenuti”. Ormai solo i negazionisti ideologici fingono di non comprendere il rischio che carceri già sovraffollate diventino per l’intera collettività, se il virus vi prende pieno, quello che alcuni ospizi sono purtroppo diventati in queste settimane, e cioè lazzaretti moltiplicatori del contagio. E non a caso l’abbinamento è evocato dal ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia: “Le Rsa e le case circondariali stanno attraversando momenti non semplici nell’emergenza, per questo motivo chiedo alle Regioni di avviare attraverso le Asl un monitoraggio di Rsa e carceri, e di segnalare in tempo reale alla Protezione civile l’eventuale necessità di nuovo personale sanitario”. Mentre 48 ore hanno registrato il suicidio di un detenuto a Siracusa, di un detenuto a Roma e di un agente penitenziario a Cantù (tutti, come la morte per cause naturali da appurare di un 22enne in cella a Udine, non comunicati dall’amministrazione penitenziaria ma appresi per altri canali), il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ieri saluta le prime sei macchine, acquistate dal commissario Domenico Arcuri e da metà aprile montate a Bollate, Salerno e Roma Rebibbia, dove 40 detenuti produrranno 50mila mascherine al giorno. Udine. Morire a 22 anni: processo veloce e carcere crudele, ora la verità di Franco Corleone L’Espresso, 5 aprile 2020 La morte di un giovane detenuto nel carcere di Via Spalato il 15 marzo è stata tenuta nascosta per molti giorni non per caso. Forse si temeva che la tensione presente nelle carceri per il rischio legato al corona virus potesse esplodere di fronte a una tragedia inspiegabile o forse si è trattato del riflesso sempre presente per cui il carcere è una zona franca rispetto al diritto. Il dovere della trasparenza fa fatica a essere accolto come principio essenziale perché il carcere sia aderente ai principi della Costituzione. Ho ricostruito con l’aiuto dell’avv. Marco Cavallini la vicenda giudiziaria di Ziad Dzhi Krizh. L’accusa era di spaccio di sostanze stupefacenti legato a un episodio avvenuto a Udine nell’aprile del 2017; la cessione di pastiglie di Mdma aveva provocato la morte di un giovane ghanese e quindi oltre all’imputazione sulla base dell’art. 73 del Dpr 309/90 (la legge antidroga) vi era anche l’imputazione dell’art. 586 del Codice Penale (lesioni o morte come conseguenza di altro delitto, quale conseguenza non voluta dal colpevole). Krizh si era trasferito in Francia e fu arrestato con un mandato di cattura europeo nell’agosto 2019 a Parigi e tradotto in Italia in custodia cautelare. Il processo si concluse con rito ordinario il 3 dicembre 2019 con una condanna complessiva a 8 anni e sei mesi di detenzione (sei anni per l’art.73, primo comma; due anni per reati continuati e sei mesi per l’omicidio colposo). Un processo rapidissimo in cui la prova della detenzione e dello spaccio era affidata alla sola testimonianza raccolta nella fase delle indagini di una giovane donna assente nel processo perché deceduta nel frattempo. La proclamazione di innocenza manifestata da Krizh non fu accolta e il difensore il 28 febbraio aveva depositato i motivi dell’appello che si sarebbe svolto nei prossimi mesi. La morte interrompe la vicenda giudiziaria, ma resta la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 della Costituzione. La perizia è stata affidata al dr. Carlo Moreschi che è riconosciuto unanimemente per capacità e scrupolo e si attendono i risultati soprattutto per una verifica sull’assunzione la sera prima del decesso di psicofarmaci e in particolare di dosi eccessive di metadone e subutex come paventato da alcune fonti L’avv. Cavallini è stato nominato legale della famiglia e chiederà alla Procura di fare chiarezza su che cosa è accaduto nelle due ore tra il malore e la morte nella mattina di domenica 15 marzo. Chi ha soccorso il giovane? I compagni di cella a che ora hanno dato l’allarme? Sono intervenuti agenti della Polizia Penitenziaria? Il medico di guardia era presente? La rianimazione è stata fatta manualmente o con defibrillatore? Sono interrogativi che serviranno a rendere meno oscura la vicenda anche se non leniranno il dolore della madre che aveva parlato con il figlio proprio il giorno prima. “Morire in carcere” era il titolo di un articolo di Maurizio Battistutta scritto nel 2012 in seguito a due morti, una per suicidio, avvenute nel carcere di Udine e riprodotto nel suo volume di scritti intitolato “Via Spalato. Storie e sogni dal carcere di Udine” (Edizioni Menabò) di cui consiglio la lettura per gli stimoli di riflessione che offre. Nel 2018 si sono ripetute due tragedie; una transessuale e un giovane pakistano si sono suicidati nello stesso Istituto. Una lunga scia di morte assolutamente insopportabile. Firenze. “Indulto per salvare le mamme detenute dal Covid” quinewsfirenze.it, 5 aprile 2020 Siamo volontari penitenziari di lunga data. Sappiamo perciò come vanno le cose in carcere in tempi normali: una condizione dei detenuti “disumana e degradante”. Ora, in tempi di emergenza, sappiamo cosa dovrebbe succedere e non succede! Siamo rimasti basiti dai primi provvedimenti indecenti (nei modi e nei contenuti) che il ministro e il capo del Dap hanno preso nei confronti delle persone detenute. Aver troncato le relazioni affettive e di supporto con volontari e con i familiari, senza contestualmente accompagnare questa misura con adeguati provvedimenti compensativi, è stato veramente crudele, e non poteva che produrre la ribellione spontanea che abbiamo visto, e che ha prodotto la morte di molti detenuti. Di queste morti non si è saputa con certezza l’origine, mentre non ci risulta che qualche magistrato abbia preso provvedimenti per accertarne le cause. Quello che abbiamo visto sono stati la repressione ed i maltrattamenti che sono seguiti alle rivolte. Ci è stato detto e ripetuto dell’opportunità della quarantena sociale che ci è sembrata una misura di prevenzione del contagio anche ragionevole. Non poteva non valere anche per i detenuti. Ciò che sicuramente, non solo non è ragionevole, ma ha contribuito al pericolo di una diffusione colposa del virus nelle celle, è il fatto che tutto il personale, fin dal primo momento e fino a poco fa, è entrato in carcere ogni giorno ed in contatto coi detenuti senza alcuna protezione. Il ministro di giustizia e il capo del Dap, così solerti a vietare l’ingresso in carcere ai volontari e soprattutto ai familiari, sono responsabili di questi ritardi, che hanno messo il personale penitenziario nelle condizioni di poter far da vettore della diffusione del virus all’interno degli istituti. Ma c’è di più e dell’altro in materia d’irresponsabilità da parte del ministro e del capo del Dap. Fin dal momento dell’entrata in vigore del primo dpcm, è stato imposto a tutto il corpo sociale il distanziamento fra una persona e l’altra di un metro. Questo dispositivo, insieme a quello di non uscire di casa, è stato ed è perseguito utilizzando i corpi di polizia, l’esercito e persino i droni declinando la trasgressione come reato. In carcere questi dispositivi sono validi, o siamo nel territorio di nessuno? Come si fa a garantire un metro di distanza in celle super affollate? L’accatastamento dei corpi in tempi di pandemia da coronavirus è un reato, di cui sono responsabili ministro della giustizia e capo del Dap. Chi ci fa sicuri che non siano molti di più di quanto è stato detto i detenuti infettati e pure i poliziotti penitenziari? o qualcuno vuole farci credere che nelle città di Bergamo o di Brescia il carcere è un’isola felice? Si deve ricordare che stiamo parlando più di centomila persone che affollano le carceri italiane, tra personale di custodia, personale amministrativo e sanitario, oltre ai più di sessantamila detenuti. Il destino di queste persone è tutto da ricondurre alla responsabilità del ministro di giustizia, che ha il dovere civile, morale e giuridico di tutelare la salute e di impedire la propagazione dell’epidemia; propagazione che, vogliamo ricordarlo, costituisce un reato quando non siano state prese misure adeguate per arginarlo. Nella nostra qualità di cittadini volontari vogliamo unirci a quanti si sono già espressi, come, ad esempio, i garanti dei diritti dei detenuti di tutti i comuni e di tutte le regioni, che hanno chiesto misure urgenti, al fine di evitare catastrofi come quella di una pandemia nelle carceri del nostro paese. Deflazionare il carcere, ridurre di almeno un terzo la popolazione detenuta qui ed ora! A situazioni estreme, estremi rimedi: un indulto che mandi a casa tutti quelli con residuo pena inferiore a tre anni, in modo da consentire a quelli che restano il metro di distanza che può salvar loro la vita. Gli arresti domiciliari previsti dal primo dpcm (per gli ultrasessantenni con altre patologie) non sono sufficienti allo scopo di deflazionare il carcere di almeno un terzo della sua popolazione attuale. Intanto, per poterne beneficiare, bisognerebbe che tutti avessero un domicilio - basterebbe considerare che un terzo della popolazione è composto da persone migranti, tra le quali solo una piccola parte ha un domicilio considerato “regolare” dal Tribunale di sorveglianza. Vero è che l’indulto richiede una maggioranza oggi improbabile in parlamento, ma è anche vero che, data l’emergenza, il Presidente della Repubblica ha altri strumenti che potrebbero rispondere alla bisogna. A Lui ci rivolgiamo perché faccia uso dei poteri che la Costituzione gli affida, tra i quali quello di inviare messaggi motivati e urgenti alle Camere. Un appello particolare lo rivolgiamo a favore delle mamme con bambini in tenera età e addirittura alla donna incinta, all’ottavo mese, presenti nel carcere di Sollicciano. Salvatore Tassinari Beppe Battaglia, Gruppo carcere Ass. Il muretto-Comunità delle Piagge Alessandro Santoro, Prete delle Piagge-Firenze per contatti: Comunità delle Piagge 055/373737 Pisa. Il carcere “Don Bosco” e quelle sbarre doppie di David Allegranti Corriere Fiorentino, 5 aprile 2020 Due detenuti si sono visti negare la richiesta di scarcerazione perché la loro paura di essere contagiati sono secondo il giudice “mere preoccupazioni”. La società dei liberi si lamenta, anche comprensibilmente, per le restrizioni delle libertà personali. D’altronde, si ha la terribile sensazione che il governo non sappia cos’altro fare a parte dire alla gente di stare a casa (per chissà ancora quanto tempo). Ecco, adesso pensate ai 56.830 carcerati presenti nelle prigioni italiane, diecimila in più della capienza e con un tasso di affollamento del 121,75 per cento. Sono in pochi a interessarsi al loro destino, a eccezione di alcune meritorie associazioni, dall’Altro diritto ad Antigone (per non dimenticare naturalmente dei Radicali). Tra loro ci sono anche, riferisce il Garante dei Detenuti, 42 madri con 48 bambini. Per loro tutte le regole che l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda e tutta la pioggia di Dpcm e ordinanze. Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze (e da qualche retrobottega) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa c’è da aspettarsi da quella successiva con cui le altre persone vengono obbligate a mantenere una distanza sociale non valgono. Eppure la stessa Oms avrebbe previsto delle regole anche per evitare il contagio nelle carceri. Perché le stesse norme di sicurezza non dovrebbero valere per i detenuti, che sono esposti a un rischio sanitario enorme, tenuti in carceri sovraffollate (altro che social distancing) e senza che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aiuti a fare chiarezza sui casi di contagio nelle prigioni? Tuttavia c’è chi dice, come il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, spesso presente in tv, che in carcere si sta meglio che fuori, anche perché i contagiati in carcere sono “solo 50”. Lo ha affermato mercoledì a Otto e Mezzo. Il giorno dopo c’è stato il primo morto a Bologna. A parte il fatto che non si sa se i numeri sono esatti (il Garante dei Detenuti ha parlato di 21 casi), ma davvero paragoniamo senza distinzioni la popolazione detenuta con quella a piede libero? Davvero, come dice Gratteri, “bisogna essere più rigorosi?”. Il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi - non esattamente un eversivo - ha spiegato che “il rischio epidemico è concreto e attuale”. “Mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema processuale il carcere costituisce l’extrema ratio. Occorre, dunque, incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere”. Bisognerebbe avvertire Gratteri e i manettari un tanto al chilo. Compresi quelli che stanno a Pisa, dove due detenuti del carcere Don Bosco, un venticinquenne straniero e un italiano di sessantuno anni, si sono visti negare la richiesta di scarcerazione dal giudice di sorveglianza. Il magistrato respingendo l’istanza presentata per conto di uno dei detenuti, ha scritto nella sua ordinanza, datata 20 marzo, che le “mere preoccupazioni di carattere sanitario dipendenti da un ipotetico contagio virale passivo” non sono sufficienti a concedere la detenzione domiciliare. “Peraltro nell’ambiente penitenziario appare meno probabile con in (sic!) un ambiente extracarcerario alla luce delle misure adottate in questi giorni a livello amministrativo e giurisdizionale proprio in funzione del massimo contenimento del rischio epidemiologico intramurario”. Non erano così tanto “mere” le preoccupazioni dei detenuti, visto che qualche giorno dopo è stato reso noto che al Don Bosco c’erano tre contagiati, un medico e 2 agenti, nel frattempo diventati dieci, tra cui sette agenti di Polizia penitenziaria. Secondo Romeo Chierchia, segretario generale Ciisa Penitenziaria, a Pisa “il mancato utilizzo dei Dpi ha esposto il personale a rischio. Chi sbaglia deve pagare. La Regione Toscana fa sapere che non ci sono detenuti infetti al coronavirus, ma quanti tamponi sono stati effettuati nei confronti dei 3.473 detenuti? La diffusione è appena iniziata. Intanto il sindacato richiede, a distanza di 7/10 giorni, il secondo tampone al personale penitenziario di Pisa nonché la priorità sul Test sierologico. Tamponi e test sierologico a tutti gli agenti della polizia penitenziaria sul territorio nazionale”. Occuparsi dei detenuti non è un dettaglio aristocratico ma, se proprio ne avete bisogno visto che l’umanità non vi basta, un obbligo costituzionale. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). L’appello a Mattarella: “Una strage con il virus” di Francesco Faenza La Città di Salerno, 5 aprile 2020 La lettera dalle celle: “Presidente, ci aiuti”. Celle sovraffollate, assembramenti pericolosi, se il coronavirus “entra” in un carcere...sarà una strage. La stessa mattanza avvenuta in alcune residenze per anziani o nelle cliniche private del nord Italia. Questa volta, però, non ci saranno alibi. Nessuno politico potrà dire: non potevamo immaginarlo. È passato un mese e i 61mila detenuti italiani attendono un atto di clemenza. “Non chiediamo uno sconto di pena- precisano i detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi- ma la possibilità di scontare la condanna in condizioni di sicurezza”. Ci sono le misure alternative al carcere ma per i politici sono impopolari: “Fateci scontare la pena ai domiciliari” è il grido di dolore caduto nel vuoto. I detenuti hanno scritto al ministro della giustizia, Bonafede. Si sono rivolti ai politici locali, agli esponenti parlamentari del territorio. Nessuno si è mosso. Il coronavirus ha ucciso quasi 15mila italiani, terrorizzando la gente e scatenando dibattiti infiniti. Si parla degli anziani, come della categoria più a rischio. Si solidarizza con i medici e gli infermieri, a contatto con i contagiati. Ma su quello che potrebbe accadere nelle carceri italiane, nessuno profferisce parola. E così, i detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, si sono rivolti al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Il sovraffollamento delle celle è scandaloso, ci sono 11mila persone in più nelle nostre carceri”. La popolazione in stato di detenzione non è composta solo di uomini e donne: “Ci sono anche dei bambini” viene riportato nella lettera. Il decreto del ministro Bonafede porterebbe alla scarcerazione di 3mila persone. Altri 58mila resterebbero in gabbia. Con un sovraffollamento comunque micidiale, pari a 6mila unità. “Caro, Presidente - è scritto in calce alla lettera - abbiamo ascoltato il messaggio da Lei espresso a favore dei detenuti, ci auguriamo che presto Lei faccia qualcosa per noi, sollecitando chi di competenza. Viviamo nel totale silenzio e nell’indifferenza generale”. I motivi per liberare le persone costrette a stare in carcere sono diversi: “Il principio della riabilitazione delle pene, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, la rieducazione, il rispetto della dignità, non trovano alcun riscontro nella cultura dominante e diffusa. Vi chiediamo di intervenire prima che il coronavirus si diffonda nelle carceri, provocando vittime e panico. Non abbiamo né i mezzi né le attrezzature idonee per poterci difendere. Lei sa che siamo in una condizione in cui non formare assembramenti è pressoché impossibile. Guardando la condizioni in cui sia ammassati nelle celle, egregio Presidente, Lei capirà che la prima regola per prevenire e combattere il Covid-19 venga violata ogni giorno”. Nella lettera, i detenuti ricordano a Mattarella i suoi discorsi sul rispetto dei diritti della popolazione carceraria: “Auspichiamo che lei Presidente non si fermi di fronte ad una cultura allarmistica”. Nei giorni scorsi, i detenuti di Sant’Angelo dei Lombardi hanno iniziato una raccolta fondi a favore dell’ospedale di Ariano Irpino dove un focolaio di Covid-19 ha fatto scattare la quarantena per gli abitanti. È stata comunicata poi agli ospedali della regione Campania, la disponibilità a donare sangue per tutti coloro che hanno comunque bisogno di trasfusioni: “Ci teniamo a sottolineare che questo istituto di custodia è dotato di una sartoria, convertita alla produzione di mascherine facciali”. Genova. Detenuto di Marassi positivo al coronavirus di Michele Varì telenord.it, 5 aprile 2020 È un settantenne. Lo rivela il sindacato Sappe, “noi agenti senza protezioni adeguate”. Un anziano detenuto del carcere genovese di Marassi è risultato positivo al coronavirus. L’uomo, un italiano di settant’anni, è ricoverato da febbraio nell’ospedale San Martino per altre patologie forse legate al Covid-19. Per questo nessuno degli agenti e dei reclusi di Marassi è stato posto sotto quarantena. Lo svela il sindacato degli agenti penitenziari Sappe che denuncia la scarsa dotazione di sistemi di protezione dei poliziotti che operano nelle carceri. “Le donne e gli uomini appartenenti al corpo di polizia Penitenziaria devono essere sottoposti, tutti e con urgenza al tampone per l’accertamento dell’eventuale contagio al Coronavirus. Anche alla luce dei tanti contagiati e di già di due decessi nella Polizia penitenziaria avvenuti, per preservare i ristrettì da eventuali contagi incontrollabili in carcere”. A denunciarlo è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che aggiunge: “Denuncio che non siamo dotati di un adeguato numero di idonee mascherine e guanti per fronteggiare l’epidemia in un contesto, come quello penitenziario, ad altissimo rischio. Al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede chiedo di non ritardare ulteriormente un accertamento fondamentale per la sicurezza sociale”. Genova: Il posto più sicuro è il carcere di Marassi. La direttrice: dentro zero contagiati ligurianotizie.it, 5 aprile 2020 “Al momento non risulta nessun detenuto del carcere di Marassi positivo al Covid-19”. Lo ha riferito la direttrice dell’istituto penitenziario genovese, Maria Milano. Oggi il sindacato Spp aveva diffuso la notizia di “un detenuto infetto”, ma in realtà un 78enne, che è risultato positivo al terzo tampone, si trova ricoverato nel reparto riservato ai detenuti del Policlinico San Martino già da un paio di mesi. “Pertanto - ha sottolineato la direttrice del carcere - non può avere contratto il coronavirus all’interno della Casa circondariale. Ribadisco che al momento non c’è nessun contagio a Marassi”. Stasera anche il segretario del sindacato Uil Penitenziaria, Fabio Pagani, ha confermato che finora all’interno del carcere di Marassi non risultano detenuti positivi al Covid-19. Siracusa. Il Garante dei detenuti: “situazione di affollamento e assenza di mascherine” siracusanews.it, 5 aprile 2020 Visita all’indomani del caso di suicidio di un trentenne. Nella sua relazione Villari evidenzia come al momento nella struttura non vi siano casi di Covid-19 né tra i detenuti né tra il personale di polizia penitenziaria. Nella serata di mercoledì 1 aprile il detenuto trentunenne Luca V. si è tolto la vita impiccandosi con il cavo dell’asciugacapelli alla finestra del bagno della sua cella. Il giovane uomo, con reiterate patologie neuropsichiatriche, era oggetto dell’attenzione congiunta da parte dell’educatrice e dello psichiatra della struttura. Tuttavia, in preda ad allucinazioni e a manie di persecuzione, dopo cinque giorni passati senza dormire, nella serata di mercoledì ha dato corso al folle gesto. Il compagno di cella, che racconta sconvolto le fasi delle ultime giornate di Luca, sentiti i rumori provenienti dal bagno, si è precipitato immediatamente per soccorrerlo, insieme agli agenti accorsi subito alle sue grida di aiuto. Ma per Luca non c’è stato più niente da fare. Lascia due bambine e una giovane moglie. Affinché non si identifichi quest’uomo soltanto per la sua posizione giuridica, quella di un detenuto, il garante dei detenuti di Siracusa, Giovanni Villari ha chiesto al dottor Giuseppe Ragusa, medico psichiatra che lo seguiva con dedizione e passione, di descriverlo sinteticamente a parole sue. Ecco quanto trasmette di getto: “Il sig. Luca V. era un padre poco più che 30enne di due bambine. Un uomo che al centro dei propri colloqui ha posto sempre la famiglia, anche quando era più “richiestivo” del solito, sempre per permettere un maggiore contatto seppur con i propri mezzi; modalità che ad un occhio professionale possono apparire non proprio consone, ma forse dettate da “diversità” culturali, sociologiche, economiche ma anche mediche, umanamente parlando, perché in fondo era un uomo, un padre, un fratello, un figlio, un marito, un amico, come lo sei tu, io e chiunque altro. Umanamente parlando, sempre!” Riguardo alle azioni che avrebbero dovuto far seguito all’emanazione del Dpcm, secondo quanto afferma il Direttore Aldo Tiralongo, solamente due i detenuti sono stati sottoposti agli arresti domiciliari. La magistratura di sorveglianza competente in zona sarà ulteriormente sollecitata. “Permangono quindi le situazioni pregresse di sovraffollamento aggravate dalla traduzione nei blocchi agibili dei detenuti precedentemente allocati nei blocchi devastati nel corso delle proteste del 6 marzo 2020 - si legge nella relazione di Villari. Attualmente il Blocco 30, che dovrebbe ospitare “30 persone”, ne alloggia 52; i detenuti lamentano che in celle predisposte per quattro si sono ritrovati anche in otto. Alla data odierna risultano alla conta generale 559 detenuti presenti nella struttura. È comunque iniziata la fase di sopralluogo tecnico per quantificare i danni alla struttura e procedere ai lavori di ristrutturazione per riportare agli standard di sicurezza le sezioni danneggiate.” Per quanto riguarda la fornitura di Dispositivi di Protezione Individuale (Dpi) annunciata dal governo, questa non è ancora arrivata a Cavadonna, tanto che la direzione ha effettuato l’acquisto di 1000 mascherine, che però cominciano già a scarseggiare, tanto che non tutti gli agenti ne sarebbero provvisti. Nonostante la situazione di emergenza, comunque, non vi sono casi di Covid 19, né accertati né sospetti, né tra la popolazione detenuta, né tra gli agenti della polizia penitenziaria o tra il personale dell’area educativa. “Per quanto riguarda invece i detenuti malati di altre patologie, anche gravi - si legge ancora nella relazione - che necessiterebbero di interventi sanitari urgenti, le loro necessità vengono ulteriormente trascurate, anche a causa dell’emergenza sanitaria in corso. La struttura ospedaliera cittadina, che già prima dell’emergenza non rispondeva adeguatamente alle istanze del dirigente sanitario del carcere, si muove con ulteriore lentezza per garantire il diritto basilare alla salute dei detenuti.” Particolarmente gravoso il lavoro della polizia penitenziaria in questa fase di emergenza. Gli agenti denotano stanchezza per la tensione che scaturisce dalla gestione del numero così elevato di telefonate giornaliere. La rete telefonica, che in contrada Monasteri è molto carente, pesantemente oberata dal numero più elevato delle chiamate, spesso non sostiene il traffico. Le chiamate vengono spesso interrotte (anche negli uffici), generando irritazione e malcontento. Sono state comunque allestite postazioni per effettuare videochiamate con skype e predisposti alcuni smarphone per videochiamate tramite whatsapp. “Si spera - conclude Villari - in una graduale diminuzione del carico restrittivo. Il perdurare di queste condizioni all’interno degli istituti penitenziari potrebbe condurre ad una situazione difficilmente gestibile. Troppo scarse le risorse; nessuna attività trattamentale; impossibilità di attività esterne (art. 21); carenza di affettività sono urgenze che gridano riforme. Busto Arsizio. Fine pena ai domiciliari e ingressi in netto calo: detenuti sotto quota 400 di Angela Grassi La Prealpina, 5 aprile 2020 Nelle celle di via Per Cassano al momento il numero dei detenuti risulta in calo. Arrivate donazioni: l’apprezzamento del direttore Orazio Sorrentini. Niente rapine, niente colpi eclatanti. E niente furti nelle case, dove la gente sta rinchiusa per evitare il contagio. L’emergenza coronavirus ha risvolti su mille fronti, uno di questi riguarda la casa circondariale di via Per Cassano: crollano i reati, nessun nuovo detenuto entra nella struttura. Migliora, dunque, una situazione di sovraffollamento che era di nuovo tornata, un mese fa, a dati preoccupanti: 440 reclusi in spazi in cui dovrebbero esserne ospitati la metà. “Siamo sotto i quattrocento - rivela il direttore Orazio Sorrentini - Dopo tre anni di crescita costante, si registra un calo. La magistratura di sorveglianza sta concedendo maggiori detenzioni domiciliari a chi si avvicina al fine pena vicina, a chi ha davanti meno di un anno di reclusione. Ne ho parlato con i detenuti, avvisando che il loro numero è in calo e questo favorisce un piccolo distanziamento. Accade qui, come in tutta Italia: gli ingressi diminuiscono parecchio, non ne abbiamo avuto quasi nessuno nei giorni scorsi. La delinquenza è drasticamente calata”. Niente ladri e spacciatori, per adesso qualche caso di maltrattamento. Chi resta dietro le sbarre sta affrontando senza grossi guai l’emergenza coronavirus. Non ci sono contagi e tutto fa sperare che le cose continuino così. Restano sempre in vigore le restrizioni definite dal Dipartimento centrale: nessun colloquio visivo, soltanto telefonate. Per venire incontro al bisogno di sapere come stiano i parenti, a casa, la direzione ha attivato un nuovo servizio, oltre alle chiamate tramite pc su Skype. “Abbiamo ricevuto dal Dipartimento dei telefoni che permettono video chiamate - racconta Sorrentini - Non possiamo lasciarli in mano ai reclusi, è sempre rischioso. Si organizza un colloquio, lo smartphone viene collocato in una custodia di legno davanti alla postazione: non lo possono toccare e ogni volta l’apparecchiatura viene disinfettata”. Qualche segnale positivo si fa largo. Come la donazione ricevuta giovedì grazie all’interessamento del garante comunale Matteo Tosi. Un bancale di semifreddi della A-27Emmi dessert, in scadenza fra un mese, è stato consegnato dall’Associazione culturale Brughiera Càdamatt. Sono tremila confezioni, riservate alla polizia penitenziaria e ai detenuti, per dimostrare vicinanza. “Un gesto importante per chi è recluso: ricorda che là fuori molti stanno pensando a chi è qui - dice Sorrentini - Ringrazio il garante, un gesto molto apprezzato”. Altro messaggio di supporto arriva da Oblò, l’associazione che in carcere organizza corsi di teatro e spettacoli con i detenuti protagonisti: “Da tanti giorni siamo in silenzio, i pensieri si accavallano e vanno ai rapporti interrotti, soprattutto con chi non possiamo neanche virtualmente raggiungere - dicono da Olbò - Il pensiero è andato spesso ai nostri attori ristretti e a tutti i detenuti di Busto. Il loro isolamento è ancora più duro del solito. Ma non ci sono emergenze dal punto di vista sanitario ed è stata avviata la possibilità di accedere a videochiamate settimanali con la famiglia. Un bel segnale”. Biella. Tavolo carcere: “Siamo preoccupati per la salute dei detenuti e delle famiglie” di Paola Guabello La Stampa, 5 aprile 2020 Le associazioni del Tavolo carcere esprimono preoccupazione per la situazione all’interno della Casa circondariale di Biella. Con una lettera aperta sottolineano l’assoluta necessità che il “sistema” della casa circondariale sia affrontato come un tema relativo alla salute pubblica. A Biella, il bacino di persone che gravitano nella struttura di via dei Tigli è di circa 700 persone tra detenuti e operatori, di cui solo gli agenti di polizia penitenziaria, sono circa 300. “A fine turno lavorativo rientriamo nelle nostre abitazioni e il contagio, a causa del sovraffollamento e l’oggettiva difficoltà a mantenere adeguato il livello di condizioni igienico-sanitarie, porterebbe aumentare esponenzialmente dentro e fuori dal carcere” spiegano le associazioni del Tavolo Carcere. “La situazione all’interno della struttura è attualmente sotto controllo. Fortunatamente a Biella non si sono verificate rivolte, ma la “preoccupazione che non sfocia in rabbia” non è una condizione stabile e duratura”. Rispetto ai provvedimenti intrapresi fino a ora dal governo, secondo le associazioni vanno fatte alcune osservazioni. Ad oggi, nel caso specifico della Casa circondariale di Biella, solo due detenuti hanno usufruito della detenzione domiciliare prevista come misura dal Decreto per l’emergenza Covid-19. Questo, nonostante la direzione del carcere si sia attivata segnalando tutte le situazioni che avevano i termini e le condizioni per poter accedere a tale misura. “Consapevoli dell’attenzione che ha caratterizzato l’operato della direzione e dell’intero personale operante di Biella, auspichiamo una maggiore attenzione istituzionale su questo tema sia primaria, così come l’attenzione da parte di tutti gli esponenti politici per far sì che si arrivi a soluzioni efficaci per garantire la salute delle persone ristrette, degli operatori, degli agenti, di tutto il personale che opera all’interno della struttura” concludono le 13 associazioni firmatarie. Porto Azzurro (Li). Il volontariato carcerario al tempo del coronavirus quinewselba.it, 5 aprile 2020 Continua l’impegno dell’Associazione “Dialogo” a favore dei detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro. Non potendo accedere al carcere, i volontari inviano dei contributi in denaro per le telefonate. Così è possibile effettuare delle ricariche telefoniche richieste da alcuni detenuti che sono stati autorizzati a uscire dall’Istituto, appena oltre il ponte d’accesso, per mezz’ora la settimana utilizzando il loro cellulare. Inoltre, in accordo con l’area della sicurezza, i detenuti possono rifornirsi dei necessari generi di vestiario, raccolti nel locale interno messo a disposizione dell’associazione. Vengono forniti vari generi alimentari, compresi quelli specifici per un giovane celiaco. “Continua - spiega Licia Baldi, presidente della Associazione Dialogo - il servizio e la condivisione con quel mondo oggi più remoto che mai che è il carcere, con la sua umanità difficile, scartata, dolente. E in occasione dell’imminente Pasqua - che quest’anno non potrà essere celebrata con la Messa del Vescovo - ho inviato ai detenuti una lettera segno di vicinanza e di auguri, che estendo a tutto il personale penitenziario”. Questo il testo della lettera: “In questo periodo in cui un male oscuro e inimmaginabile tiene sospese tutte le nostre vite, io, che per oltre trent’anni ho varcato le porte del carcere per condividere, sia pure in minima parte, la vostra difficile condizione, non ho altro mezzo che il pensiero e la preghiera per esservi vicina e mi servo di queste poche parole per dirvi che, insieme con le amiche e gli amici volontari dell’Associazione, aspetto con fiducia il giorno in cui potremo tornare a riprendere il filo interrotto delle nostre attività con voi. Siate pazienti e prudenti e, forti dell’affetto dei vostri cari e dell’attenzione e della cura degli operatori penitenziari, ce la farete, ce la faremo, come dicono i manifesti appesi alle finestre di tante città e paesi d’Italia in segno di speranza e augurio per ciascuno e per la comunità tutta. Un abbraccio. Licia Baldi” Genova. Busta e francobollo: il filo diretto con i detenuti al tempo del virus di Davide Dionisi vaticannews.va, 5 aprile 2020 Il racconto dei volontari di Sant’Egidio che mantengono vivo il dialogo con chi è in carcere. “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. I versetti del Vangelo di Matteo per i volontari che ogni giorno sono alle prese con le consegne di beni di conforto, domandine, richieste di ogni tipo, colloqui e con tutto ciò che allevia la sofferenza del detenuto sono stati la strada maestra anche al tempo del coronavirus. Ma come, in mezzo ad una pandemia inattesa che ha creato nuove sofferenze a chi vive recluso? Offrendo inchiostro, fogli e francobolli a persone che, temporaneamente private della propria libertà hanno avuto l’occasione di mantenere un filo diretto con l’esterno. Una iniziativa che è stata interpretata come uno dei pochi mezzi per non troncare del tutto i legami con il mondo che sta fuori, con i propri familiari e non perdere la dignità e il rapporto con se stessi. Maurizio Aletti della Comunità di Sant’Egidio che opera nella casa circondariale di Genova-Marassi ci racconta che “In questo momento i detenuti sono soggetti a restrizioni ancora più pesanti perché non potendo ricevere nulla e, soprattutto, non avendo la possibilità di incontrare i propri familiari, sentono il peso maggiore del loro essere emarginati. Ecco, noi siamo lì a ricordargli che non sono esclusi” spiega Aletti. Già, ma in che modo? “Attraverso piccoli doni, dolci, biglietti contenenti messaggi di incoraggiamento, un po’ di tabacco, piccole somme di denaro”, risponde. “Questo per testimoniargli la nostra vicinanza e ricordargli che sono sempre nel nostro cuore. Qui a Genova ci è stato consentito, seppur brevemente e con tutte le precauzioni del caso, di incontrarli. Così gli abbiamo raccontato che ciò che loro possono vedere solo attraverso la tv, è purtroppo tutto vero. Le strade sono deserte, le persone sono a casa, i negozi chiusi e c’è ovunque molta preoccupazione per la presenza, e la diffusione, di un nemico invisibile che miete vittime”. Dalla Liguria al Piemonte. Paolo Lizzi, sempre della Sant’Egidio, svolge il suo prezioso servizio a Novara e a Vercelli. All’inizio di marzo, prima della rapida diffusione del covid-19, ha giocato, inconsapevolmente d’anticipo. Ma è stato un bene: “Il mese scorso avevamo pensato di distribuire alimenti soprattutto a Novara. Ci siamo mossi muniti di mascherine e guanti per la consegna di latte, caffè, biscotti, capi di abbigliamento e prodotti per l’igiene personale. Questo ci ha consentito di rendere fruttuosa la nostra spedizione perché con l’inasprimento delle misure di sicurezza, non abbiamo potuto più incontrarli”. Anche Lizzi, però ha pensato bene di mantenere vivo il contatto attraverso la vecchia cara corrispondenza: “Per non far mancare il nostro sostegno, inviamo decine e decine di lettere”. Lizzi ci legge, non senza commozione, la risposta di uno dei destinatari: “Grazie mille. Mi avete fatto una bellissima sorpresa, non me l’aspettavo. Vi ringrazio di avermi scritto. Grazie per tutto, per gli alimenti che ci avete portato a Carnevale, per i francobolli e l’immagine di Gesù. Spero che si risolva tutto, che si trovi il vaccino più presto possibile, prego ogni giorno perché soffro al solo pensiero che tutti stanno male. Sono preoccupato soprattutto per gli anziani che sono più a rischio, quelli che vivono nelle case di riposo. Penso anche ai bambini che non possono più uscire come prima o andare a scuola”. Nel Lazio, Silvia Marangoni, anche lei volontaria della Comunità di Sant’Egidio ha scelto, insieme agli altri volontari, la via più classica per comunicare con gli ospiti degli istituti: lettera e francobollo. Sistema certamente obsoleto ma che in carcere ha trovato la strada maestra per costruire ponti con l’esterno: “Abbiamo cominciato a scrivere lettere, manifestando il nostro dispiacere di non poterli incontrare. Devo dire che la corrispondenza cartacea per noi è comunque una modalità. Soprattutto negli istituti che frequentiamo meno. Anche perché non tutti possono accedere alla mail ufficiale perché è un servizio che ha un costo. Non tutti possono permetterselo”, rivela Marangoni. “Meglio mantenere vivo il contatto inviando una missiva. Le risposte puntualmente arrivano e sono tutte dello stesso tenore: paura, inquietudine, stress, incertezza per il futuro. Singolare quella di due ragazzi musulmani che hanno manifestato la loro profonda preoccupazione per i nostri anziani. Non dimentichiamo di pregare ogni giorno per loro, hanno scritto. È con i nostri volontari più anziani, infatti, che i detenuti hanno un rapporto speciale in virtù del fatto che sono loro che si occupano della preparazione dei pacchi che noi portiamo in carcere”. Secondo monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale: “La presenza dei volontari, anche attraverso la corrispondenza, è fondamentale. La situazione dei carcerati in questo momento è molto particolare e noi, per certi versi, ci troviamo nella loro stessa condizione perché nel nostro isolamento forzato viviamo il disagio di non poter vivere i rapporti umani”. Monsignor Muñoz sottolinea che: “Quando il rapporto con le persone si interrompe, si entra in una profonda crisi. I detenuti conoscono questa condizione perché la vivono abitualmente. Quello di incontrarsi e di avere relazioni è un immenso dono che la vita offre all’uomo e ce ne accorgiamo solo ora che non possiamo uscire di casa”. “Aggiungo - spiega il sottosegretario - che in un momento come questo è di fondamentale importanza la voce. Va bene il messaggio scritto, il Whatsapp, ma quando ascolto il suono di una persona, sento la persona stessa”. “Capiscono più di tutti - precisa - quanto è importante il contatto. Quando ricevono le visite, incontrano i familiari, vivono in prima persona la gioia dell’abbraccio. Nel momento in cui si accorgono che la società vive la loro stessa esperienza, si avvicinano”. Monsignor Tejado Muñoz, infine, ricorda la costante vicinanza di Papa Francesco ai detenuti di tutto il mondo: “Dobbiamo diventare tutti carezza, così come fa il Santo Padre tutti i giorni ricordando nella preghiera questi nostri fratelli. A loro regala sempre una parola di speranza e di vita. La nostra sarà una carezza che, per ovvi motivi, al momento non possiamo dare, ma che possiamo far arrivare attraverso la nostra voce e la nostra parola. L’uomo non può vivere senza l’altro e questo già lo sapevamo. Ce ne stiamo rendendo conto ora e in un momento così drammatico dobbiamo essere capaci di recuperare il senso dello stare insieme. Cosa che i detenuti conoscono molto bene”. “Io mi salvo da solo”, che grande illusione di Roberto Saviano L’Espresso, 5 aprile 2020 È il pensiero istintivo della società individualista di oggi, non solo negli Stati Uniti. E invece la lezione di questi giorni è l’obbligo della solidarietà. L’idea che hai dell’emergenza Covid-19 cambia a seconda del luogo in cui ti trovi. L’Italia non è colpita dalla pandemia in egual misura, dunque la prospettiva cambia a seconda che tu viva al Nord o al Sud. Cambia notevolmente. Così come le informazioni che ti raggiungono hanno un peso specifico diverso, vengono rielaborare, recepite e commentate in modo diverso. L’ascolto e il confronto sono fondamentali ora, non perché portano a comprendere cause o a prevedere effetti, ma per prepararsi, per seguire buone pratiche o per evitare errori, magari commessi in buona fede, ma che non hanno aiutato. In più, quello che oggi siamo chiamati a fare è dare fondo alle nostre conoscenze acquisite negli anni, e utilizzarle per tranquillizzarci, per razionalizzare, per riuscire ad accogliere tutte le informazioni senza farci prendere dal panico Medici, scienziati, virologi, ricercatori ne sanno più di tutti, il resto sono parole dette o scritte per testimoniare, ecco: non dobbiamo permettere a queste parole di allarmarci, non dobbiamo perdere la consapevolezza che tutto questo finirà. E mentre aspettiamo, prepariamoci alla fatica della ricostruzione, sapendo però che lo faremo insieme. Ancora diversa poi è l’idea che hai di ciò che sta accadendo, se osservi tutto da un Paese diverso dall’Italia che oggi è considerato, globalmente, tra i paesi più colpiti dalla pandemia e tra quelli che stanno pagando il prezzo più alto. Nessuno ha ancora pienamente compreso perché l’Italia sia stata colpita con una tale violenza dal virus e dunque non esistono ricette, non esiste una strada da evitare o una da percorrere per sentirsi al sicuro, a parte, naturalmente, l’obbligo di stare in casa. Quel che è certo, però, è che l’isolamento, la capacità che ciascuno di noi ha di comprendere quanto vale il proprio senso di responsabilità, oggi è il primo atto da compiere. Poi verrà tutto il resto. Ed è un gesto tutto sommato semplice, eppure quanto ci sta costando… A New York, dove mi trovo in questo momento, le cose sono illuminate da una luce diversa. Qui politici, nella sostanza abituati a una propaganda spinta fino alle estreme conseguenze, non hanno cambiato attitudine e questo ha reso le persone ancora più insicure dinnanzi a ciò che accadeva altrove e che presto sarebbe potuto accadere a casa propria. L’accaparramento di armi è stata la risposta più evidente a una incertezza che cresce, alla paura dei saccheggi, alla paura di scarsità di cibo, quasi si potesse davvero pensare mors tua vita mea. Presentare l’emergenza Covid-19 come una guerra che tutti insieme dobbiamo combattere è forse l’errore più madornale che si possa commettere. Ricreare scenari di guerra in un mondo, come quello Occidentale, che ormai della guerra non ha più alcun ricordo concreto è irresponsabile. In guerra manca tutto perché ciò che per primo viene distrutto sono le vie di comunicazione, bombardate per non far procedere il nemico. In guerra ciò che viene distrutto sono gli ospedali, per non dare tregua al nemico; ora, al contrario, gli ospedali vengono potenziati, ingranditi, ampliati. Non è guerra, è emergenza, è tragedia anche, ma non è guerra. Chi oggi è ascoltato ha il dovere di invitare alla razionalità. E invitare alla razionalità significa dire come il “mi salvo da solo” di chi compra armi pensando di doverle usare sia un abominio, la strada più sbagliata da percorrere. Sempre, ma oggi di più. La questione è che non ci si salva da soli, ma allo stesso tempo è difficile chiudere (se stessi in casa, attività, fabbriche) sapendo che non verrai aiutato… Ecco perché oggi tutti i Paesi devono ragionare in un’ottica di solidarietà: ci rialzeremo insieme solo se chi oggi sta subendo maggiori perdite, potrà contare sul sostegno dei Paesi meno colpiti. L’Italia si scopre più unita che mai, nel dolore sì, ma anche nell’aiuto. Se in un comune terminano i posti in terapia intensiva, si va in un altro comune, in un’altra regione, anche a centinaia di chilometri di distanza. Io, per la mia esperienza di persona sotto scorta, in questi giorni ho ragionato molto su come ci si senta a stare chiusi senza poter uscire liberamente. Vivo una libertà ridotta dal 2006, ma la mia sensazione è sempre stata quella di me fermo mentre il mondo fuori continuava a muoversi, come se io fossi sempre in ritardo, come se mi stessi sempre perdendo qualcosa. Oggi è tutto diverso, perché stare in casa, stare lontani gli uni dagli altri, non genera e non deve generare un senso di esclusione ma, al contrario, un forte, fortissimo senso di comunità. Profughi rinchiusi nei campi di detenzione con la scusa del virus Il Riformista, 5 aprile 2020 In attesa del nuovo patto sulle migrazioni che la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha dichiarato di presentare dopo Pasqua, in Europa dell’Est l’emergenza sanitaria del Coronavirus si sta trasformando in una crisi umanitaria. Infatti, accanto all’inefficienza dei servizi sanitari, in diverse zone dei Balcani, sta prendendo piede un preoccupante impulso all’autoritarismo, sulla scia della richiesta dei pieni poteri da parte del primo ministro ungherese Viktor Orbàn. Come si legge nell’articolo di Nello Scavo sulle colonne di Avvenire, nei giorni scorsi, con l’intenzione del contenimento dei contagi, la polizia di Sarejevo ha trasportato con la forza i migranti alla periferia della città, rinchiudendoli in campi di detenzione sprovvisti di qualsiasi assicurazione di sopravvivenza. Inoltre, si prevedono ulteriori retate nel corso della prossima settimana anche al confine con la Croazia. Massimo Moratti, vicedirettore delle ricerche sull’Europa di Amnesty International è intervenuto sulla questione definendola “inumana”, specie se si tiene conto del fatto che queste strutture “non assicurano forniture adeguate d’acqua né servizi igienico-sanitari, né garantiscono spazi per l’autoisolamento”. Moratti ha sottolineato anche l’ipotesi che, in queste condizioni, “si faciliterà il rischio di infezioni e di decessi inevitabili”. Ma la Bosnia non è l’unica a perpetrare simili barbarie. Oltre ai “muri” anti-profughi di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, in contrasto con i richiami da parte dell’Ue sulla distribuzione dei migranti, si stanno registrando abusi sui rifugiati anche in Grecia e Macedonia. Atene adesso dovrà fare i conti non solo con l’emergenza di oltre 40mila profughi sulle isole, dove il rischio di contagio è altissimo, ma deve anche fronteggiare i tremila migranti intenzionati a raggiungere la Macedonia del Nord e l’Albania che, in questa stagione, profittano di condizioni climatiche migliori. Tuttavia, proprio sul territorio ellenico si stanno registrando maltrattamenti e angherie. I legali di Border violence monitor si sono presi l’incarico di documentare le violenze con prove fotografiche e di denunciare le condizioni di decine e decine di persone ustionate da Taser, riportanti lividi e scorticature sul tutto il corpo. Stati Uniti. Coronavirus, il ministro della Giustizia: “rilasciare i detenuti” askanews.it, 5 aprile 2020 Registrati finora 141 casi di contagi e almeno sette morti nelle carceri. Il segretario alla Giustizia Usa, William Barr, ha ordinato di incrementare il numero di detenuti da scarcerare a causa delle “condizioni di emergenza” create dal coronavirus e di dare la priorità alle tre strutture carcerarie che hanno registrato un maggiore incremento di casi. Stando a quanto riportato dai media americani, Barr ha chiesto al direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Michael Carvajal, di dare priorità alle carceri federali di Louisiana, Connecticut e Ohio, dove 91 detenuti e 50 agenti sono risultati positivi al Covid-19. Sono almeno sette le persone decedute finora in queste strutture. I rappresentanti sindacali degli agenti penitenziari hanno sottolineato come tali numeri siano probabilmente sottostimati a fronte della carenza dei test. Inghilterra e Galles. Piano per il rilascio di 4.000 detenuti Il Manifesto, 5 aprile 2020 Un piano per il rilascio di 4.000 detenuti dia penitenziari britannici è stato messo a punto dal governo di Boris Johnson per far fronte all’emergenza coronavirus e alleggerire l’affollamento carcerario. Ad anticiparlo è stata ieri la Bbc. Il provvedimento, per ora riservato a Inghilterra e Galles, esclude comunque dalla libertà anticipata i reclusi condannati per crimini violenti o reati gravi. Al momento, secondo il ministero della Giustizia, sono stati registrati 88 contagi da Covid-19 in 29 prigioni del Regno. Siria. “Nelle carceri non è mai entrato un medico. Con il virus sarebbe morta certa” di Shadi Albairuti* L’Espresso, 5 aprile 2020 Guardo l’Europa preoccupata per il contagio. Penso ai mesi della mia vita che ho provato a dimenticare. È una storia che parte da lontano, parte ad Hama, la mia città di origine, nel 1982. La gente della mia città in piazza contro Hafiz al Asad, il padre di Bashar. Ricordo mio padre farci una carezza sul viso e uscire in strada. Poi ricordo l’assedio e la paura. Poi ricordo il dolore di mia madre e il nostro. Furono torturati a migliaia, uno degli uomini arrestati era mio padre. Lo ricordo sulla porta che ci saluta prima di andare a protestare e poi in un sacco bianco, cadavere. Avevo sei anni nel 1982, quando ho perso mio padre. Cresci solo con la memoria della perdita e il desiderio di vendicarti. Crescevo. E più pensavo a mio padre e cercavo nella testa il suo volto, più Assad ricopriva le nostre città con la sua immagine. Si può dire che io abbia seguito le orme di mio padre. Ho studiato economia a Dubai, lavorato a Londra, poi nel 2011 all’inizio della rivoluzione sono tornato a casa. La protesta mi chiamava, mi chiedeva di esserci. Non so se l’ho fatto più per me o per onorare la memoria di mio padre. Fatto sta che da Londra sono tornato a casa, a Hama. E quell’estate, l’estate del 2011 sono sceso in piazza, come fece mio padre. Se dovessi descriverti il giorno in cui mi sento di essere nato, la mia seconda data di nascita, è quel giorno. Il 3 luglio 2011, quando ho visto le facce dei soldati di Assad che non credevano ai loro occhi di fronte al fiume di gente in strada. Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L’Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole I servizi segreti di Assad hanno scoperto in fretta che ero tra gli organizzatori della rivolta e mi hanno prelevato a casa e confinato in una prigione. La prima settimana mi hanno privato del cibo e torturato con le scosse elettriche insieme ad altri detenuti. Poi mi hanno spostato in una cella singola e buia. Mi appendevano al soffitto, con i polsi legati. E restavo appeso così per ore, nudo. Dico ore ma non so quantificare, era un tempo indefinito che passavo in stato di semi incoscienza, quando ero sveglio pensavo a mia moglie che allora era incinta del nostro secondo figlio. Ero solo, tranne quando entrava uno di loro. E quando sentivo il rumore della porta che si apriva sapevo che avrebbero usato ancora cavi elettrici. Chiudevo gli occhi e pregavo Allah che durasse il meno possibile. Ho scoperto solo quando sono uscito, dopo sei mesi, che ero finito nel carcere di Palmyra. Il carcere in mezzo al deserto, per gli oppositori politici. Escono vivi in pochi. Nel mio caso solo per soldi. La mia famiglia ha venduto tutto ciò che aveva, corrotto un alto comandante delle forze armate e mi ha salvato. Ho passato sei mesi in un centro riabilitativo in Turchia. Non muovevo più le gambe. Vomitavo ogni volta che provavo a mangiare. Incubi ogni notte. Poi ho cominciato a fare quello che potevo per la rivoluzione, finché ho potuto entrare in Siria. E poi sono scappato via. Da allora, da quando ho messo in salvo la mia famiglia in Europa, mi dedico a sensibilizzare le persone sulle condizioni dei detenuti politici in Siria. Provo a tenere i contatti con centinaia di famiglie che aspettano da anni di avere notizie dei propri cari. Figlie che contano i giorni. Qualcuno, come Wafa Mustafa, ne ha contati 2464, sette anni in attesa di una notizia su suo padre. Nelle carceri del regime, oggi, ci sono ancora decine di migliaia di persone. Oppositori politici, manifestanti, attivisti. Spariti, semplicemente prelevati, rapiti, e spariti. I sopravvissuti stanno subendo quello che io ho subito per sei mesi a Palmyra nel 2011. E nelle carceri, come Saydnaya, se non si muore di torture si muore di sete. Si muore di fame. Si muore di infezioni. Si muore di diarrea. Si muore perché non c’è spazio per respirare, tanto sono sovraffollate. Un virus come questo, in un carcere siriano, significa una condanna a morte certa. Veloce, silenziosa più del silenzio che già copre il destino di tutti i prigionieri. Nelle carceri siriane non c’è luce. Ci sono esseri umani lasciati nudi in mezzo ai propri escrementi. Donne stuprate sistematicamente. Ecco, in un carcere siriano non credo sia mai entrato un medico. Ma un contagio può entrare, può entrare velocemente, entra con l’aria e fuori, sparsi nell’esodo o costretti ancora in Siria, ci sono centinaia di migliaia di famiglie che oggi si stanno chiedendo di cosa siano destinati a morire i propri cari. Se sarà una scossa elettrica a portarli via, un’ultima bastonata fatale, o l’impossibilità di respirare, effetto del virus. Per quello non possiamo smettere di chiederci cosa ne è stato di loro, cosa ne sarà di chi non può chiedere aiuto, scappare, salvarsi. *Rifugiato siriano in Olanda (a cura di Francesca Mannocchi) Grecia. “Noi profughi a Samos viviamo come animali: è questo il nostro virus” di Wahid Rahimi* L’Espresso, 5 aprile 2020 Ero un agente di polizia a Ghazni, in Afghanistan, una delle province più pericolose del paese. Il mio lavoro era proteggere la sicurezza della mia gente. Poi noi membri delle forze armate siamo diventati il bersaglio degli estremisti. I talebani mi hanno minacciato tre volte, le prime due volte mi sono fatto forza, mi sono detto che fosse giusto restare a casa mia, resistere e andare avanti. Ma l’ultimo avvertimento era serio, molto serio, e sono scappato. Ogni persona ha una ragione per lasciare il proprio paese. Io, per esempio, ho venduto tutto quello che avevo per arrivare qui, in Europa. Ho venduto per pochi soldi un pezzo di terra lasciata da mio padre, e i mobili, e un gioiello di mia madre. Per questo per noi, come ci chiama l’Europa? Profughi, rifugiati, come volete, per noi tornare indietro non è possibile. Quel Wahid lì, quello che aveva una vita dignitosa, che sembrava ancora un essere umano ti direbbe che la paura dell’epidemia si combatte innanzitutto prendendosi cura di chi hai accanto. Perché vedete in Afghanistan i villaggi nelle valli possono distare ore di cammino dal primo centro medico. Che non è necessariamente un ospedale, è una stanza, un baraccone, un’unità mobile di qualche generosa organizzazione non governativa. Sono i luoghi in cui di solito se ti sparano, o se sei capitato per caso e per sfortuna sulla linea degli scontri armati, o se eri sulla traiettoria di un attentatore suicida, ti stabilizzano e poi inizia la tua corsa verso un vero ospedale. La risposta del Wahid ancora afgano è: affronteremmo la paura del contagio con la consapevolezza di dover lasciar morire qualcuno. Semplicemente perché non abbiamo ospedali da raggiungere. Quando sono arrivato in Grecia pensavo che qualcuno si sarebbe preso cura di noi, ma così non è stato. Oggi la mia casa è una tenda. La definirei una tenda senza possibilità come la mia vita. E da qui risponde il nuovo Wahid, il profugo. Non vivamo come persone normali, ogni giorno che passi in un campo come questo è un passo verso la condizione animale. Ho comprato un pezzo di plastica per costruire una specie di tetto per ripararci dal vento e dall’acqua in caso di pioggia, di notte se ho bisogno di un bagno, cammino dieci minuti nel buio, sperando che il bagno chimico non sia intasato come gli altri. Non abbiamo elettricità, perciò non abbiamo acqua calda. Ci laviamo tutti - e tutti significa uomini donne e bambini - con l’acqua fredda all’esterno delle nostre tende. Ogni giorno ci mettiamo in fila per un pezzo di pane, e se siamo pazienti, cioè se nessuno grida e litiga, riusciamo a portare un pasto nella tenda. Ma per il dottore non c’è nessuna fila. Bussiamo alla porta della responsabile del campo e ci dice che non ci sono medici, semplicemente non ci sono. I più fortunati riescono a trovare degli antibiotici per i bambini, che quando piove si ammalano, hanno la tosse, non respirano di notte e quando si fa buio e qui non c’è altro che silenzio sentiamo solo bambini e vecchi tossire. Camminiamo nelle acque di scolo, i bambini giocano in mezzo ai topi. I bagni sono pieni di escrementi. L’acqua delle docce, quando funzionano, è inquinata. I bambini talvolta bevono acqua tossica e soffrono di diarrea. Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L’Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole Il virus in cui viviamo ogni giorno si chiama in un altro modo, non uccide con la polmonite ma ci sta uccidendo piano piano, perché ci ha reso animali. E questa è la risposta del nuovo Wahid, del profugo che non vive più come un essere umano. Sono qui da cinque mesi e ancora provo a lavarmi, a farmi la barba, a restare pulito come un uomo degno. Ma sento che sto perdendo la speranza. Penso che per voi non sia possibile sentire quello che noi sentiamo. Se arrivasse qui il virus? Se arrivasse qui il contagio, dove potremmo nasconderci? Come proteggeremmo i bambini, gli anziani? Non potremmo, tutto qui. E in questo non c’è molta differenza rispetto alle sorti degli afgani in Afghanistan. Qui certo non ci sono autobombe, ma ugualmente se ci ammalassimo aspetteremmo di morire, credo. La differenza è che siamo in Europa. E a volte quando sento parlare di disinfettanti e guanti mi viene da ridere. Mi guardo i piedi, sono in ciabatte nelle acque delle condutture che arrivano dai bagni e se sento nominare le precauzioni per il virus penso sia una presa in giro. Altre volte mi sento molto triste. Mi dico, basta un caso, solo uno, qui e siamo tutti morti. Prendetevi il tempo di avere paura per la vostra salute e per quella dei vostri cari, ma pensate anche a chi come noi non ha informazioni, né acqua, né tantomeno medicine. Non siamo arrivati qui per minacciare la vostra società, la vostra cultura. Siamo arrivati qui perché la felicità delle persone è in fondo una cosa semplice, e spesso significa un tetto, un pasto caldo, non avere paura di essere uccisi. Ora siamo qui e non possiamo fare né un passo avanti, né uno indietro. Se potete, pensate anche a noi. *Richiedente asilo a Samos (a cura di Francesca Mannocchi) Libia. “A Tripoli abbiamo paura: sotto le bombe, senza nessuna difesa dal contagio” di Asaad al Jafeer* L’Espresso, 5 aprile 2020 Da un anno siamo in ginocchio. Con la guerra civile migliaia di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e così anche le persone migranti, che hanno dovuto lasciare i posti, spesso malmessi, in cui vivevano. Molti civili hanno trovato riparo nelle scuole, che ora naturalmente sono sovraffollate. Pensare a un distanziamento sociale negli alloggi degli sfollati non è solo illusorio, qui, è irrealizzabile. Le condizioni dei migranti sono disperate. Molti di loro hanno bussato alle porte dei centri di detenzione perché non avevano altro posto dove andare. Chi aveva prima la fortuna - se così possiamo chiamarla - di avere una casa, l’ha persa perché distrutta dalle bombe o perché costretto ad abbandonarla in fretta per salvarsi la vita, e in molti casi parliamo di baracche senza acqua o stanze in cui vivevano tre, quattro famiglie insieme, con un solo bagno e condizioni igieniche al limite della vivibilità. Chi resta fuori, chi prova a vivere in strada si espone al rischio delle bombe. In queste disgrazie, tra i mali - perché non c’è un bene ora a Tripoli - ad alcuni le carceri sono sembrate il male minore. E le famiglie di migranti, soprattutto quelle con bambini, hanno chiesto di essere riportate nei centri di detenzione. Pensavano che almeno lì, forse, sarebbero stati risparmiati dalle bombe. Dieci giorni fa è stato diagnosticato il primo caso di Coronavirus a Tripoli, il paziente è un uomo di 73 anni, da poco tornato da un viaggio in Arabia Saudita. Aveva la febbre alta, è stato trasferito in ospedale, è risultato positivo al test. Oggi mentre ti scrivo, i casi ufficiali sono otto. Sottolineo la parola ufficiali perché in un paese in guerra avere dei dati ufficiali è pressoché impossibile. Temiamo che i casi siano molti di più, naturalmente, in molti ci stanno chiamando, come MezzaLunaRossa, per chiedere spiegazioni sui sintomi. Ma non c’è modo di testare le persone, è semplice. Tragico e semplice. Un pericolo sopra l’altro sulle vite dei libici, quando cala il sole sentiamo scivolare via ogni forma residua di speranza. Qualcuno, i più giovani soprattutto, cerca di impegnarsi in campagne di sensibilizzazione. Ma per quanto possiamo sensibilizzare i cittadini libici a restare in casa, sappiamo che non abbiamo modo di alleviare le pene dei migranti nei centri di detenzione, nel centro di Dhar El-Jebel a sud di Tripoli, lo scorso anno risultano 22 morti di malattie. Nel centro di Beni Walid sono a decine i casi di tubercolosi, non arrivavano medici nemmeno prima del coprifuoco, immaginate ora che nessuno esce più di casa, i centri sono abbandonati a se stessi e le organizzazioni internazionali non possono lavorare. Possiamo sterilizzare le strade, ma non possiamo fare niente per far fronte ai contagi nelle carceri, nei centri di detenzione, nei capannoni dove sono stipati i migranti. Abbiamo il dovere dell’onestà, i medici libici si sono spesso rifiutati di curare migranti, il nostro sistema sanitario è al collasso dopo quattro guerre in dieci anni. Se il virus si diffondesse qui non faremmo in tempo a contare i morti. Forse finirebbero nell’oblio come le decine già morte di tubercolosi in questi anni, senza che dottori e medicine facessero in tempo a raggiungerli. Guardiamo tutti con pena, dolore e solidarietà a quanto accaduto in Cina e ora da voi, in Italia. Quando accendo la televisione e ascolto il bollettino dei vostri connazionali morti a causa del virus penso anche immediatamente al vostro sistema sanitario. Che è virtuoso, accessibile a tutti. Quello che cerco di far capire alle persone, al nostro governo ma anche ai cittadini, è che non siamo in grado di fronteggiare le urgenze che ci impone la guerra, figuriamoci un contagio di massa. Due settimane fa fa il governo ha chiesto un cessate il fuoco umanitario, ma solo qualche giorno fa dalla finestra di casa mia a Tripoli vedevo colonne di fumo dei bombardamenti, hanno colpito anche la città vecchia della capitale. Doveva succedere prima o poi. Le guerre, d’altronde, non si fermano di fronte a niente, neppure di fronte ad un nemico oscuro come un virus. Centinaia di persone, ancora, ogni giorno, cercano di mettersi in fuga dalle linee del fronte, a giorni alterni una pioggia di mortai cade sulla città. Fuggire, ma dove? Le persone semplicemente non sanno dove andare. Ogni mattina esco di casa con i colleghi della Libyan Red Crescent a portare supporto, come prima della guerra e prima del Coronavirus. Abbiamo paura. Una paura che non ti so descrivere. Perché la guerra riuscivamo a circoscriverla nelle nostre paure, e nelle nostre parole. Questo nuovo pericolo no. Fino a un mese fa guardavamo l’Europa come si guarda un essere forte, solido. Ora guardiamo l’Europa spaventata e colpita e abbiamo paura della vostra fragilità. Perché la nostra sarebbe dieci volte più devastante. Se stati europei come il vostro hanno bisogno di aiuti dalla Cina, di aiuti esterni all’Italia e esterni all’Europa, mi chiedo, ci chiediamo: succedesse a noi, se fosse così pervasivo da noi il contagio, chi ci aiuterebbe? La risposta, il timore, è uno solo: nessuno. È l’angoscia, insensata, di vivere in un paese in cui entrano quotidianamente nuove armi ma non entrerebbero barelle o respiratori in caso di bisogno. Il Primo Ministro Sarraj ha imposto il coprifuoco. Molte persone con gli uffici chiusi non sono riuscite a ritirare i propri stipendi. Qualcuno non riceveva paga già da mesi. Per molti significa non poter fare scorte di cibo, e sapete bene quanto - con la paura di un contagio - anche solo sapere di avere più cibo di quanto ne serva allevi la preoccupazione. Abbiamo paura. Non che arrivi il virus, abbiamo capito che questo è inevitabile. È già qui tra noi. Abbiamo paura perché sappiamo che non possiamo reggere. Non possiamo prenderci cura dei feriti della guerra e della polmonite del coronavirus. Non possiamo curare chi non ha più un arto o è colpito dalle schegge e anche chi arriva in deficit respiratorio. Semplicemente non ci sono abbastanza posti letto, abbastanza ospedali e non ci sono medici. I nostri dottori e infermieri continuano a morire al fronte, negli ospedali da campo. Dai centri di detenzione nessuno usciva, prima, ma ora nessuno entra a portare aiuto e beni di prima necessità. Migliaia di persone rischiano di restare senza cibo e acqua ben prima di restare senza medicine. Ma figuriamoci se qualcuno si cura delle condizioni igieniche di migliaia di persone detenute. L’ultima volta che ho parlato con un migrante, eritreo, in un centro di detenzione stava tremando di freddo e fame. È tubercolotico. Morirà, probabilmente. I centri di detenzione qui in Libia rischiano di diventare luoghi in cui esseri umani moriranno e noi non avremo modo di sapere di cosa sono morti. E i libici. Ai libici viene chiesto di non muoversi di casa. E noi restiamo in casa, obbediamo. Ma sulle nostre case cadono le bombe. *Abitante di Tripoli (a cura di Francesca Mannocchi)