“Nella fase di emergenza, incentiviamo le misure alternative al carcere” di Liana Milella La Repubblica, 4 aprile 2020 Coronavirus, il pg della Cassazione Salvi invia un messaggio alle corti d’appello di tutta Italia, chiedendo di privilegiare arresti domiciliari e braccialetto elettronico, salvo i casi di assoluta gravità. Il giurista Gian Luigi Gatta: “È giusto perché adesso la priorità è la salute pubblica”. Mentre la politica si divide, la magistratura si organizza da sé, sfruttando le leggi già in vigore, per affrontare e tentare di risolvere l’emergenza carceraria nei giorni durissimi del Coronavirus e dopo le rivolte di marzo. Il primo aprile, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, dopo una riunione via web con i Pg di tutta Italia, ha sottoscritto un documento di 19 pagine che, sfruttando le leggi attualmente in vigore, tenta di affrontare il surplus di detenuti chiusi nelle patrie galere che, per oggettiva mancanza di spazio, non possono rispettare le regole anti Covid-19 ovviamente obbligatorie per tutti gli italiani. La parola chiave con cui si chiude il testo è “detenzione domiciliare semplice”, indicata come la strada maestra da seguire. Non siamo di fronte ad alcuna forzatura, ma semplicemente allo sforzo di interpretare e applicare le norme già esistenti”. Come scrive Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale all’Università di Milano e direttore di “Sistema penale”, rivista online sulla giustizia che pubblica la circolare di Salvi e la commenta, “l’idea di fondo del documento è che l’esigenza di tutelare la salute pubblica, prevenendo la diffusione del contagio nelle sovraffollate carceri italiane, è in questo momento una priorità, che suggerisce ai pubblici ministeri l’opportunità di valutare le diverse opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione per ridurre la popolazione penitenziaria”. E infatti il punto di partenza è proprio questo: “Nel sistema processuale italiano il carcere è l’extrema ratio”. Di conseguenza, mai come in queste ore, “occorre incentivare le misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere” e questo “limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro presuntivo di pericolosità e con l’ulteriore necessaria eccezione legata ai reati da codice rosso”. Derivano da qui due input per i pubblici ministeri: “Arginare la richiesta e l’applicazione di misure cautelari e procrastinare l’esecuzione delle misure emesse dal gip”. Poi, valutare il fermo per l’indiziato di delitto e l’arresto in flagranza, privilegiando i domiciliari. Ancora accelerare la convalida dell’arresto e il processo per direttissima. Visto che i delitti sono in calo addirittura del 75% probabilmente per l’obbligo di stare in casa, il consiglio del Pg Salvi ai suoi colleghi è quello di optare per gli arresti domiciliari anche con braccialetto. “Ad eccezione dei casi di rilevante gravità e di assoluta incompatibilità, si dovrebbe privilegiare, rispetto alla custodia cautelare in carcere, la scelta degli arresti domiciliari, ove necessario anche con l’uso del braccialetto elettronico, se disponibile”. E se i braccialetti, com’è evidente dall’affannosa ricerca che in queste ore ne sta facendo il Guardasigilli Alfonso Bonafede, non ci sono? “In caso di indisponibilità - consiglia Salvi - la giurisprudenza di legittimità in materia impone comunque un bilanciamento delle diverse esigenze, tra cui quella della tutela della salute individuale e collettiva è particolarmente significativa”. Il Pg della Cassazione consiglia, in quel caso, di “applicare la detenzione domiciliare semplice: il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi ordinari fino a quando non dovesse essere possibile applicare il dispositivo di controllo, a meno che non sussistano gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. A ciò si aggiunge il suggerimento di sospendere o rinviare le misure cautelari già emesse e di rinviare quelle per le pene sotto i 4 anni. Per chiudere ancora con le parole di Gatta si tratta di “un documento di particolare interesse non solo per la prassi, ma anche per il valore che assume, in questo particolare momento che sta attraversando il Paese e, con esso, la giustizia penale”. Secondo il giurista il testo è “la sintesi di riflessioni maturate da chi è chiamato, istituzionalmente, a prendere decisioni che incidono non solo sulla libertà personale e sui diritti fondamentali dei detenuti, ma anche - nel contesto di un’epidemia in corso - sulla salute pubblica di tutti i cittadini, compresi gli operatori penitenziari e di pubblica sicurezza, che si trovano a contatto con le persone private della libertà personale”. Gatta considera “pregevole, a fronte dell’evidente insufficienza degli strumenti legislativi di nuovo conio, lo sforzo di cercare soluzioni nel diritto vigente, anche attraverso l’attività interpretativa e la proposta di adattare, allo scopo, soluzioni giurisprudenziali già sperimentate”. “Vanno incentivate le misure alternative” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2020 Documento di Giovanni Salvi, pg di Cassazione, alle Corti d’appello. Non solo il Csm, l’Associazione nazionale dei magistrati e ovviamente il coordinamento dei magistrati di sorveglianza. A chiedere di ridurre la popolazione carceraria ai tempi del coronavirus interviene anche Giovanni Salvi, il procuratore generale della Corte di Cassazione. Lo fa con un documento del primo aprile, indirizzandolo a tutti procuratori della Corte d’Appello. Ci tiene a sottolineare che non si tratta di avere la pretesa di stabilire delle linee guida, ma di costruire una base di lavoro comune. Il procuratore generale è netto sul fatto che le misure introdotte dal decreto “Cura Italia” non sono sufficienti per ridurre la popolazione carceraria: per questo ritiene che bisogna ragionare non solo con i nuovi strumenti normativi, ma anche con l’attuale legislazione carceraria già in essere che può essere ampliata nella sua portata interpretativa. Un documento che è comunque la sintesi di riflessioni maturate da chi ha la vocazione istituzionale di proteggere l’intera comunità penitenziaria composta non solo dai detenuti, ma anche degli agenti penitenziari e personale sanitario. D’altronde i casi di contagio all’interno delle carceri, seppur fortunatamente limitati, è già una triste realtà. Il primo fattore che il procuratore generale analizza è il ricorso alla custodia cautelare. Sottolinea innanzitutto che la situazione determinata dall’emergenza sanitaria ha un carattere eccezionale e quindi comporta il ricorso a parametri valutativi ugualmente eccezionali in sede di applicazione o sostituzione delle misure cautelari. “Oggi il rischio epidemico concreto e attuale - si legge nel documento - che non lascia il tempo per sviluppare accertamenti personalizzati, può in molti casi rappresentare l’oggettivizzazione della situazione di inapplicabilità della custodia in carcere a tutela della salute pubblica, in base ai medesimi criteri dettati per la popolazione al fine di contrastare la diffusione del virus”. Il procuratore generale ci tiene a ricordare che nel nostro sistema processuale “il carcere costituisce l’extrema ratio”. Per questo motivo ribadisce che occorre, dunque, incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere. “Ciò limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro presuntivo di pericolosità e con l’ulteriore necessaria eccezione legata ai reati da codice rosso”, ci tiene a precisare. Cosa consiglia, quindi, ai procuratori? Di arginare, “a monte” la richiesta dell’applicazione delle misure cautelari a rischio, anche a seguito dell’adozione di misure precautelari. Ma di arginare anche “a valle”, ovvero nel procrastinare l’esecuzione della medesima misura cautelare già emessa dal Gip. Il procuratore generale della Cassazione affronta anche il discorso della nuova misura alternativa della detenzione domiciliare relativa all’art. 123 trattato dal decreto legge “Cura Italia”. Sottolinea che in questo caso si prospetta la possibilità che l’istanza per l’applicazione della misura possa essere avanzata dal pubblico ministero e suggerisce di raccogliere tramite il Dap o tramite gli istituti penitenziari il dato relativo ai detenuti che si trovano in esecuzione di una pena residua non superiore a 18 mesi. Ma non solo. Il procuratore generale Giovanni Salvi ricorda che c’è un problema effettivo di mancanza dei braccialetti elettronici e porta avanti delle argomentazioni a sostegno della tesi che ritiene applicabile la misura anche in assenza di tali dispositivi. Interessante anche il discorso dei detenuti reclusi per reati legati alla loro condizione di tossicodipendenza. Ricorda l’importanza dell’applicazione provvisoria dell’affidamento terapeutico. “L’essenzialità del programma di recupero è inderogabile e, con l’emergenza sanitaria, forse solo un percorso riabilitativo di tipo comunitario appare effettivamente, in concreto, utile per il soggetto”, osserva il procuratore generale nel documento. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento al 121%, dietro le sbarre anche 48 bambini” Il Dubbio, 4 aprile 2020 Sono 15.716 le persone con un residuo di pena inferiore ai due anni: “Per il nostro ordinamento avrebbero potuto accedere già da tempo a misure alternative”. Sono 56.830 i detenuti attualmente in carcere, di meno rispetto ai giorni scorsi, ma i posti realmente disponibili rimangono comunque gli stessi: poco più di 47mila, confermando, dunque, la situazione di sovraffollamento. Un dato che si evince dal bollettino reso pubblico dal Garante nazionale dei detenuti. Nonostante il calo, dunque, il tasso di affollamento rimane del 121%, in maniera disomogenea sul territorio nazionale. “Tutti gli organi di monitoraggio dei sistemi penitenziari europei e non solo, siano essi indipendenti o addirittura interni alle amministrazioni stesse, raccomandano che non si giunga mai al 100% di posti occupati - segnala Mauro Palma - perché ci può essere sempre una necessità di spostamenti o di emergenze varie che richiedano una qualche flessibilità della sistemazione negli spazi disponibili. Questa possibilità teoricamente avanzata la stiamo vivendo direttamente e siamo a ben un quinto al di sopra di quel 100% che non si dovrebbe raggiungere”. Ciò significa che saranno necessari altri interventi, sia in termini numerici, affinché non si superi la soglia del 98% della disponibilità, sia in termini di rapidità, “perché gli interventi di decongestione producano effetti con un ritmo comparabile con quello inquietante e accelerato di ogni diffusione epidemica”. Ma c’è una terza questione, sollevata da Palma: “che qualunque misura venga adottata superi le contrapposizioni specifiche attorno alle modalità dell’esecuzione penale e si concentri sul bene specifico da tutelare in questo momento: un bene essenziale, nudo nella sua connotazione, che è quello della salute delle persone, quelle che sono ospitate nelle strutture privative della libertà, quelle che in tali strutture ogni giorno lavorano con professionalità e comprensibile apprensione, quelle che all’esterno di queste strutture potrebbero subire riflessi gravi qualora l’epidemia all’interno dovesse svilupparsi”. Un’attenzione, aggiunge il garante, ancora più importante alla luce delle notizie circa il fatto che l’assenza o l’inidoneità del domicilio proposto dalle singole persone detenute sta di fatto falcidiando le domande di detenzione domiciliare, “che pure avevano superato tutti gli altri ostacoli posti dall’articolo 123 del decreto-legge n. 18/2020”. Questioni che non hanno a che vedere, dunque, con la pericolosità o con la condotta del detenuto, “bensì con la sua solidità o fragilità sociale ed economica”. In carcere ci sono, inoltre, ancora 42 madri con 48 bambini. “Anche considerando che 26 madri con relativi figli sono negli Istituti a custodia attenuta (Icam) e il resto nelle sezioni specifiche dell’usuale carcere, questo può essere il primo piccolo ma significativo numero a cui guardare per una attenzione centrata sulla vulnerabilità delle persone - ha sottolineato Palma. Per simmetrica vulnerabilità, 986 persone detenute hanno più di 70 anni. Una serie di patologie presenti in maniera cospicua all’interno della popolazione carceraria può dare indicazioni per misure mirate che prendano atto di ciò che oggi viene richiesto perché quella tutela, costituzionalmente definita “fondamentale”, sia concretamente effettiva”. La proposta di Palma è anche quella di trasformare il residuo di pena in detenzione domiciliare: sono 15.716 le persone con un residuo di pena inferiore ai due anni “e per il nostro ordinamento avrebbero potuto accedere già da tempo a misure alternative. Parallelamente, 17.468 persone sono anch’esse in carcere senza alcuna sentenza definitiva (di questi 8.854 sono ancora in attesa del primo grado di giudizio)”. Emergenza carceri, lunedì il voto al Senato sulle misure straordinarie di Flavio Russo lumsanews.it, 4 aprile 2020 Pronto l’emendamento al Cura Italia che prevede l’estensione dei domiciliari. Arriverà lunedì in Aula al Senato la proposta della maggioranza con le misure straordinarie per lo svuotamento delle carceri, per cercare di contenere la diffusione del Coronavirus negli istituti. Il provvedimento diventerà un emendamento del governo al decreto Cura Italia, con il quale si proverà ad alleggerire l’incontrollabile situazione carceraria, sulla quale grava il peso di 10.000 detenuti in eccesso rispetto alle capacità d’accoglienza delle strutture. Andrà subito ai domiciliari chi deve scontare un massimo di 6 mesi, mentre per chi è prevista una detenzione fino ai 12 mesi ci vorrà la delibera del magistrato che valuta l’eventuale rischio di reiterazione del reato. Se la pena residua supera l’anno sarà necessario il braccialetto elettronico. Da ieri la questione carceri è esplosa con rinnovata energia, dopo il primo decesso di un detenuto legato alle conseguenze del Covid-19. Si chiamava Vincenzo Sucato, 76 anni, arrestato nel 2018 in Sicilia per associazione mafiosa. Era considerato reggente della famiglia di Misilmeri. Da dicembre era stato trasferito nel carcere di Bologna dove era in attesa del processo di primo grado. La morte è avvenuta all’ospedale Sant’Orsola, dove era stato ricoverato il 26 marzo, per una serie di patologie e per difficoltà respiratorie. Nel frattempo, il 28 marzo, aveva ottenuto gli arresti domiciliari, su disposizione del giudice siciliano. Nell’istituto emiliano è emersa la positività di altri due detenuti, per questo ora in isolamento, e di un agente della polizia penitenziaria. In quarantena anche altri quattro carcerati e tre poliziotti. Sono 150 i tamponi eseguiti nel carcere bolognese. Immediata la reazione delle associazioni che si occupano della sicurezza dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria: “La notizia non ci coglie di sorpresa, data la situazione complessiva della diffusione dell’infezione nel nostro Paese, ma ci preoccupa seriamente. Come abbiamo già detto, la situazione di sovraffollamento rappresenta un fattore di ampliamento del rischio”, dice il Garante nazionale Mauro Palma. Di “inadeguata gestione delle carceri, prima e durante l’emergenza sanitaria” parla il sindacato degli agenti carcerari, Uil-Pa. Albamonte: “Aspettare i braccialetti? Non c’è tempo da perdere. Ora subito i domiciliari” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 4 aprile 2020 L’ex capo dell’Anm: “Si rischia un disastro sanitario. Pensare che si possa “buttare la chiave” è un’idea metastorica e pre costituzionale”. “Non è il momento di fare campagna elettorale sui detenuti”. Il pm Eugenio Albamonte, segretario di Area Democratica per la Giustizia ed ex presidente dell’Anm, chiede alla politica uno sforzo di responsabilità per affrontare l’emergenza Covid nelle carceri. L’accesso semplificato alle misure alternative, previsto dal Cura Italia, rischia di trasformarsi in una chimera a causa della scarsa disponibilità di braccialetti elettronici. C’è una soluzione? Sono convinto che siamo ancora in tempo per consentire l’accesso alla detenzione domiciliare a prescindere dal braccialetto elettronico. Ciò può avvenire in due modi: o eliminando proprio la previsione del braccialetto elettronico dal decreto o rimettendo la valutazione al giudice di sorveglianza, anche se questa soluzione comporterebbe un inevitabile prolungamento dei tempi. Quindi delle due ipotesi è preferibile la prima. Manterrebbe i presupposti esistenti per accedere alla misura alternativa, cioè un residuo di pena non superiore ai 18 mesi, o allargherebbe la platea dei possibili beneficiari? Secondo me si può certamente ampliare la platea fino a comprendere chi deve scontare un residuo di pena fino a due anni. Anche perché stiamo vivendo una fase così particolare della storia del nostro Paese in cui c’è poco da temere rischi derivanti da un’eventuale ammissione ai domiciliari: non c’è mai stato un controllo del territorio così efficace, sia per la forte mobilitazione delle forze dell’ordine, sia per le pochissime persone in giro. In più sappiamo benissimo che di norma l’immissione a un beneficio ha una portata positiva, che incentiva al rispetto delle prescrizioni, su chi ne usufruisce. Non c’è nessun azzardo o pericolo per la sicurezza pubblica. Ma perché è necessario far respirare un po’ le carceri in questo momento? C’è un documento adottato in queste ore dalla Procura generale della Cassazione in cui si afferma autorevolmente che se in questa fase l’unica misura sanitaria che possiamo adottare è il distanziamento sociale, bisogna fare in modo di ottenere questo distanziamenti anche negli istituti penitenziari. Abbiamo circa 11mila persone in più rispetto alla capienza delle nostre strutture, il che significa che in carcere non c’è lo spazio sufficiente per adottare queste misure. Estendendo i benefici a chi deve scontare ancora due anni di pena si arriva quasi a eliminare il sovraffollamento? In base ai calcoli che mi vengono riferiti sembrerebbe di sì. Eppure, secondo alcuni suoi autorevoli colleghi, come il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, i detenuti sarebbero più al sicuro in carcere che fuori. A chi bisogna credere? Non sono affatto d’accordo che all’interno del carcere si sia più sicuri che all’esterno. Secondo le analisi degli immunologi, negli ambienti chiusi il contagio si diffonde più lentamente ma si diffonde. Il carcere non è un ambiente a tenuta stagna, è un luogo in cui ogni giorno entrano ed escono operatori sanitari, personale penitenziario, religiosi, detenuti che hanno scontato la pena. E cosa accadrebbe se si verificassero in un istituto focolai come quelli esplosi in alcuni paesi italiani? Prevenire è meglio che intervenire dopo. E forse siamo ancora in tempo a evitare disastri. Intanto un detenuto è morto per Covid e la quantità di tamponi disponibili è tutt’altro che certa. Chi vive in carcere è considerato un cittadino sacrificabile? Anche chi è attaccato a una visione del diritto metastorica e pre costituzionale deve comprendere che ciò che accade dentro un istituto di pena è destinato a ripercuotersi molto velocemente anche sulla comunità esterna. Anche una parte della politica è condizionata dall’idea un po’ populista del “buttiamo la chiave”, convinta che il carcere sia un non luogo in cui è possibile sospendere il diritto. C’è molta ideologia nel ritardo con cui l’amministrazione e il governo stanno affrontando il tema. E c’è anche molta propaganda. Oltre ai ritardi del governo, però, sul carcere sono soprattutto le opposizioni a erigere barricate… Proprio nel momento in cui si dice che le istituzioni devono marciare compatte e che anche le opposizioni devono farsi carico della loro parte di responsabilità nella gestione dell’emergenza, mi sembra solo un’operazione di speculazione politica quella di far leva su un certo tipo di sensibilità dell’opinione pubblica a scopo elettorale. Non è questo il momento. Paesi non certo liberali come l’Iran hanno scarcerato più di 85 mila persone per evitare una strage nelle prigioni. Perché in Italia parlare di misure alternative anche in tempo di emergenza è un tabù? Io ricordo che prima delle ultime elezioni politiche era pronta una riforma del diritto penitenziario che tutti attendevano da tempo ma l’allora governo di centrosinistra decise di non farla andare in porto perché temeva effetti sul consenso. Questo significa che tanti anni di campagne demagogiche sul carcere hanno prodotto i loro effetti. Lo stesso ministro della Giustizia è molto meno libero nel prendere i provvedimenti che dovrebbe assumere anche in virtù del fatto che il suo partito ha partecipato attivamente a questa campagna di orientamento, o disorientamento, dell’opinione pubblica rispetto al carcere. Cosa consiglierebbe di fare al ministro Bonafede per tutelare i detenuti? Smettiamo di parlare di braccialetti e possibilmente eleviamo la detenzione domiciliare ai due anni. E per poter prevenire eventuali focolai avviamo una campagna massiva per eseguire tamponi all’interno delle strutture carcerarie. Se non sappiamo quanto è diffusa la malattia negli istituti non possiamo fare alcuna attività di prevenzione. Oltre al tempo di pena residuo e al tipo di reato, si potrebbe pensare di tutelare i soggetti più vulnerabili, per esempio gli ultrasessantenni? Si possono trovare dei parametri per combinare la maggiore o minore pericolosità sociale dei detenuti con la maggiore o minore esposizione al pericolo per quelle stesse persone. Ma è chiaro che se non conosciamo la situazione sanitaria all’interno del carcere non possiamo fare nessun ragionamento. Anche i detenuti per reati gravi hanno diritto a una tutela. Come si può realizzare? Liberando gli spazi all’interno del carcere. Solo così si tutelano anche le persone che si sono macchiate dei reati più gravi e non possono uscire per un più elevato rischio di pericolosità sociale. In carcere, di presunto innocente, c’è solo il virus di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 4 aprile 2020 Forse non ci si fa neppure caso. Ma tra le decine di migliaia di detenuti accalcati in un potenziale enorme focolaio di coronavirus, un terzo è costituto da persone non condannate in via definitiva. Un Paese civile non può ignorare la loro condizione, e ogni provvedimento giurisdizionale sulla libertà dovrebbe soppesare tutti i fattori di rischio che gravano su quelle singole vite. Una serie di riforme che si sono susseguite ininterrottamente dagli anni Novanta fino ai tempi dell’ultimo Ministro della Giustizia ha invano cercato di tradurre in norme un principio costituzionale e una regola di civiltà e di buon senso, facendo sì che la carcerazione di una persona sottoposta a processo fosse un rimedio cautelare straordinario, come suole dirsi una extrema ratio, applicabile solo nei casi in cui nessun’altra misura potesse risultare idonea. La presunzione di innocenza, prevista dall’art. 27 della Costituzione, dovrebbe imporci un limite, farci dubitare, sospendere il giudizio sull’accusa, lasciare che i processi indisturbati facciano il loro corso, imponendo una limitazione solo dove ricorrano ragioni eccezionali con la consapevolezza sociale della eccezionalità di quel rimedio, contrario in sé ad ogni logica del processo, che vuole che la limitazione della libertà personale venga giustificata solo a seguito di una condanna definitiva. In coda, e non all’inizio di un processo, facendo sì - come oggi spesso accade - che la condanna preceda il giudizio. Si tratta di un valore costituzionale che trascende il dato processuale, richiamando non solo questi valori, ma anche il diritto alla vita, il diritto alla libertà personale, il principio di uguaglianza, e non da ultimo il diritto alla salute, che in questo drammatico momento deve essere posto al centro della valutazione della condizione carceraria, con riferimento alla intera popolazione dei detenuti, in gran parte costituita infatti da indagati e da imputati non ancora destinatari di una sentenza di condanna definitiva e come tali tutt’ora presunti innocenti. Il dato di quel terzo di detenuti in attesa di giudizio rispetto al numero complessivo delle presenze in carcere (18.952 su 61.230 persone a febbraio del 2020) mostra sotto un profilo numerico la evidente sconfitta, per non dire la scandalosa disfatta, di ogni principio costituzionale e di ogni possibile elaborazione normativa o giurisprudenziale fondata su di un minimo ragionevole garantismo. Quei valori sopra evocati evidentemente non sono sufficienti. Dire che una idea o un valore sono espressi dalla nostra Costituzione vale oggi meno che zero, è solo un modo di dire, una clausola di stile, per molti vale solo come un riferimento filologico, come fosse l’evocazione di un etimo misterioso, quasi si trattasse di un richiamo letterario e niente più. Ciò che infatti manca nel nostro Paese non sono i valori, dei quali sono oramai inutilmente pieni i nostri discorsi, ma una cultura dei valori, una cultura che ne rifondi il senso e la concretezza e, dunque, la necessità. Che li tiri fuori dalla logica perversa delle narrazioni e li restituisca all’essenza delle nostre vite, al senso della nostra convivenza e della nostra sopravvivenza, al mondo che vorremmo lasciare ai nostri figli. Una Costituzione, sebbene ricca di principi, non serve a nulla se non vi è una cultura condivisa che riconosca il suo valore e il valore di quei principi. Che faccia di quei valori la moneta corrente delle nostre transazioni quotidiane. La retribuzione del nostro lavoro, il cibo della nostra tavola, il costo delle nostre rinunce e il prezzo delle nostre vittorie. Ha opportunamente ricordato il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, il vertice di tutti i pubblici ministeri italiani, che “l’emergenza coronavirus costituisce un elemento valutativo nell’applicazione di tutti gli istituti normativi vigenti e ne rappresenta un presupposto interpretativo necessario”. Questo sta a significare che la tutela della salute del detenuto di fronte al dramma della epidemia Covid-19 deve essere posta al centro dell’interpretazione di ogni norma, di tutte le norme, senza distinguere quindi fra quelle che regolano l’esecuzione penale e quelle che regolano invece la custodia cautelare in carcere. Tutelare la salute delle persone detenute significa quindi tenere conto non solo della condizione soggettiva del singolo, ma delle condizioni nelle quali quest’ultimo è in concreto privato della libertà, esposto ad ogni contatto, senza dispositivi di protezione, impossibilitato al mantenimento del cosiddetto distanziamento sociale, costretto in condizioni igieniche approssimative, privo dei controlli e della necessaria assistenza sanitaria. Significa dunque, in ogni provvedimento giurisdizionale sulla libertà, soppesare tutti i fattori di rischio che gravano su quelle singole vite. Un Paese civile non può dunque ignorare quali sono le condizioni anche di coloro che sono privati della libertà prima ancora di essere condannati, né può ascoltare senza un sussulto la voce di chi sostiene che non vi sarebbe distinzione alcuna fra i cittadini costretti in casa dalle norme emergenziali e i detenuti in carcere, e di chi sostiene che il carcere è il luogo più sicuro e più controllato dove il virus non miete vittime, non si moltiplica, non si diffonde, non si trasmette, né provoca contagio. Sino a prova contraria. Perché si sa che in carcere di presunto innocente c’è oramai solo il virus. *Direttore di “Diritto di Difesa”, la rivista dell’Unione Camere Penali Italiane La rivolta nelle carceri negli audio inediti dei poliziotti penitenziari sequestrati dai detenuti di Antonio Crispino e Nello Trocchia Corriere della Sera, 4 aprile 2020 Maresca dell’Antimafia: “Situazione simile alla Colombia e pronta a riesplodere”. La poliziotta che a telefono piange per la disperazione mentre un centinaio di detenuti le vanno incontro agguerriti; il collega che chiede aiuto dopo che un gruppo di rivoltosi ha tentato di ucciderlo fulminato, prima allagando il carcere e poi appoggiando i fili della corrente a terra; il medico sequestrato in una stanza; le voci incredule degli addetti alla sorveglianza costretti ad assistere ai carcerati che scavalcano le recinzioni e rubano le auto ai passanti. Quello che è accaduto il 7 e l’8 marzo nelle carceri italiane è racchiuso in una decina di file audio che vi proponiamo in questa video-inchiesta e che restituiscono uno scenario da paese sudamericano. Testimonianze che inquadrano l’Italia “ai livelli della Colombia”, parola di Catello Maresca, oggi sostituto presso la Procura generale di Napoli che non ha remore nel fotografare “la situazione esplosiva” che in questo momento si registra negli istituti detentivi. Già, perché lo scandalo di quelle ore, per il magistrato dell’Antimafia, sarebbe solo una specie di antipasto rispetto a quello che si sta sedimentando in queste ore. “Succederanno cose peggiori di quello che è accaduto - dice il segretario nazionale del Sappe, il sindacato della Polizia Penitenziaria Francesco Pilagatti. Si sono viste cose che nemmeno nelle serie tv come Narcos esistono e il ministro della Giustizia e il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria che hanno fatto? Non solo hanno provocato questa situazione con provvedimenti sbagliati ma non hanno preso adottato rimedi efficaci”. Pilagatti fa notare che gli stessi criminali che stanno fomentando la rivolta ora rischiano di essere premiati con i benefici studiati per sedare quelle stesse rivolte. “I responsabili di questa situazione non sono di certo quelli che si vedono nei filmati. I boss restano dietro le quinte e, paradossalmente, godranno dei benefici mentre la manovalanza verrà trasferita o penalizzata”. Ma i racconti di chi ha vissuto quelle ore e che ha continuato a lavorare anche dopo fanno ben capire che l’obiettivo non è quello di ottenere benefici e che non si tratta di episodi isolati, come più volte ripetuto dai rappresentanti istituzionali. “Hanno preso in ostaggio dei colleghi poliziotti in servizio a Melfi. I detenuti urlavano ‘Qui comandiamo noi’ mentre sfasciavano tutto”. Queste sono le parole di una guardia penitenziaria in servizio che il 9 marzo, durante la rivolta, ha assistito al sequestro di colleghi da parte dei detenuti, tutti reclusi nei reparti di alta sicurezza, che per alcuni giorni, fino al trasferimento hanno fatto nell’istituto di pena quello che volevano. Parole che raccontano il dramma, la paura vissuta dall’agente ora assente per malattia. Una paura che non è sparita visto che la situazione nelle carceri resta molto grave. Il magistrato Catello Maresca, da anni in prima linea contro i clan, conferma l’allarme: “La situazione penitenziaria è drammatica. Bisogna intervenire subito e non certo scegliendo la facile strada, peraltro impraticabile, dell’indulto o dell’amnistia. Occorre un piano straordinario di interventi”. Una situazione esplosiva che ha incrociato il prolungato e indecente sovraffollamento nelle carceri con il rischio Covid-19. In uno degli audio inediti che il Corriere pubblica c’è il racconto del primo caso di contagio tra gli agenti e tra i detenuti e risale ai giorni delle proteste. Il Ministero della Giustizia ha calcolato in venti i detenuti contagiati, dati più alti secondo alcune sigle sindacali. Leo Beneduci, segretario del sindacato Osapp spiega: “Ma del personale non si preoccupa nessuno? Soltanto a Torino i positivi sono 8, non solo agenti; a Pisa sono 3. Bisogna evidenziare questi dati, il silenzio è nemico della democrazia”. Non c’erano solo sovraffollamento e pericolo Covid dietro le rivolte, a Foggia sono scappati 77 detenuti, tutti catturati tranne tre. Uno è Francesco Scirpoli, vicino alla mafia garganica, era in carcere per le rapine ai tir. Latitante in quella Foggia dove il 1 aprile è esplosa un’altra bomba contro un centro anziani di un imprenditore, Luca Vigilante, sotto scorta. Quella Foggia dove un’agente penitenziaria piangendo urlò: “Si sono presi il carcere, si sono presi il carcere”. Era il 9 marzo, il giorno delle sommosse che, senza interventi, rischiano di non restare un caso isolato. “Detenuti pestati dopo le rivolte”. Interpellanza di Riccardo Magi al ministro Bonafede Il Manifesto, 4 aprile 2020 È arrivata alla procura di Milano la prima denuncia per violenze subite in carcere da uno dei detenuti che hanno partecipato alle rivolte scoppiate il 9 marzo scorso in molti carceri italiani, dopo il lockdown imposto per il Coronavirus. L’uomo, che è “in sciopero della fame e della sete dal 22 marzo”, ha denunciato, tramite il suo avvocato Eugenio Losco, di essere stato preso a “calci e pugni” da “5-6” agenti penitenziari. Ma è solo una delle “numerose segnalazioni giunte all’associazione Antigone di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute” dopo le rivolte nelle quali sono morti in circostanze ancora da chiarire 13 detenuti. Il deputato di +Europa, Riccardo Magi, ieri ha presentato una interpellanza urgente al ministro di Giustizia perché riferisca puntualmente sui pestaggi e sulle cause di quelle morti. Ecco il testo. Interpellanza presentata dall’On. Riccardo Magi del 03/04/2020 Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della Giustizia - Per sapere - premesso che: sono passate tre settimane dalla morte in diverse carceri italiane di 13 detenuti a seguito delle rivolte nate contro la mancanza di informazione e di gestione della crisi dovuta alla pandemia da Covid-19; una protesta che ha avuto alcune espressioni violente, ma che ha coinvolto oltre seimila detenuti; solo dopo molti giorni si sono saputi i nomi dei detenuti morti, e le cause e dinamiche sono tuttora ignote, nonostante le richieste di trasparenza emerse sia dalla società civile, dal Garante Nazionale e dai garanti territoriali dei diritti delle persone detenute e dagli organi di stampa; l’11 marzo Lei ha svolto un’informativa urgente alla Camera e al Senato sui gravi fatti accaduti in alcuni penitenziari nella quale ha affermato che il tempo che le era concesso non le consentiva di riferire nel dettaglio dei singoli casi in ogni città, pertanto avrebbe trasmesso il giorno stesso una relazione dettagliata del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; da tale relazione non si evincono le informazioni più importanti relative a quegli episodi ma solo notizie sommarie riportate anche dagli organi di stampa; l’Associazione Antigone ha denunciato di aver ricevuto numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute successivamente alle rivolte; in particolare nell’istituto di pena di Milano-Opera, diverse persone si sono rivolte all’associazione raccontando quanto sarebbe stato loro comunicato dai congiunti o da altri contatti interni, e le versioni riportate, le quali parlano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche persone anziane e malati oncologici e gravi contusioni delle persone coinvolte, risultano tutte concordanti; sul caso di Milano-Opera, l’associazione ha inviato un esposto alla procura competente, e si appresta a farlo anche per altri istituti; nel corso del question time del 25 marzo scorso, con riferimento alle misure di cui agli articoli 123 e 124 del decreto legge n. 18 del 2020, lei ha affermato che “il numero degli effettivi destinatari della nuova legge è di 6 mila detenuti circa non condannati per reati cosiddetti ostativi e con pena residua fino a diciotto mesi, oggi già tutti potenzialmente destinatari della precedente n. legge 199 del 2010, e che dipenderà da diversi requisiti e variabili, come, per esempio, il domicilio idoneo, che dovranno essere accertati dalla magistratura” e che, a tale data, circa cinquanta detenuti avevano beneficiato della misura di cui all’articolo 123; 150 detenuti sarebbero stati interessati dalla concessione di licenze in virtù dell’articolo 124 del decreto-legge n. 18 del 2020. Come da lei specificato, “si tratta di detenuti già ammessi al regime di semilibertà che durante il giorno si trovavano già fuori dalle carceri e non vi rientrano più la notte”; il provvedimento del capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria d’intesa con il capo della Polizia che attua il decreto sopra citato afferma che il Dipartimento della Pubblica Sicurezza rende disponibili complessivi 5.000 braccialetti elettronici, di cui 920 alla data della firma del documento, avvenuta il 27 marzo; il provvedimento interdipartimentale prevede inoltre l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana; con il numero di installazioni attualmente previste, gli ultimi detenuti usciranno dal carcere infatti tra oltre tre mesi, quando auspicabilmente la fase acuta legata al diffondersi del Covid-19 sarà già ampiamente alle spalle: quali siano le cause della morte per ognuna delle 13 persone decedute, come accertate dalle autopsie, e nello specifico, ove dovute all’assunzione di farmaci, quali farmaci siano stati assunti e se fossero opportunamente custoditi, se il personale penitenziario fosse formato al riconoscimento e al soccorso in caso di overdose e se vi fosse disponibilità, accesso e formazione all’uso dei farmaci salvavita; quante morti siano avvenute nei luoghi della protesta e quante durante o a seguito delle traduzioni ad altro carcere, dettagliando luoghi, circostanze e tempistica; se prima del trasferimento ad altro carcere i detenuti siano stati sottoposti a visita medica, anche considerando l’avvenuta sottrazione di farmaci dall’infermeria; se il Dap abbia avviato delle indagini interne sui pestaggi denunciati da Antigone; quale sia il dato aggiornato relativo al numero di detenuti che abbiano beneficiato delle misure di cui agli articoli 123 e 124 del decreto legge n. 18 del 2020; alla luce delle informazioni riportate in premessa, come possano le misure recate dal decreto legge n.18 del 2020 rispondere alla necessità di incidere sul sovraffollamento carcerario in modo da rispettare anche nelle carceri le norme sul distanziamento. Emergenza, solidarietà dalle carceri: piccole cifre, grande valore di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 aprile 2020 Continuano le iniziative promosse nelle carceri di tutta Italia per partecipare alla gara di solidarietà a favore di ospedali e operatori sanitari impegnati nella lotta al Coronavirus. I detenuti della casa di reclusione di Alba “Giuseppe Montalto” - chiusa per anni dopo un’epidemia di legionella e lavori di ristrutturazione - hanno raccolto una somma da destinare all’ospedale cittadino San Lazzaro, riconvertito di questi tempi, come tante strutture di provincia, in presidio Covid-19. La donazione è accompagnata da una lettera in cui i cinquanta detenuti, che occupano l’unico settore aperto dell’istituto, precisano che si tratta di una cifra modesta ma ottenuta attraverso il “cuore”. E il cuore di un detenuto “non è diverso da quello di altre persone solo perché si trova al di qua di alte mura”. Mentre dalla casa circondariale di Monza arriva la disponibilità dei reclusi a donare il sangue. Il sentimento di vicinanza alla comunità si è tradotto anche per i detenuti del carcere di Livorno in una raccolta di circa 800 euro donati all’ospedale della città, un altro dei fronti in cui si combatte la guerra contro l’epidemia. Nel carcere di Poggioreale - nello stesso giorno in cui familiari dei reclusi nei penitenziari napoletani organizzavano un flash mob di ‘battitura’ per chiedere un indulto o un’amnistia - circa 200 detenuti hanno chiesto e ottenuto dalla direzione di donare 5 euro ciascuno per partecipare alla raccolta fondi in favore dell’ospedale Cotugno di Napoli. Analoga iniziativa anche dal carcere di Santa Maria Capua Vetere dove i detenuti hanno prelevato piccole somme dai loro conti correnti per destinarle alla lotta contro il Covid-19. “Noi dentro, voi state a casa” hanno scritto in uno striscione i detenuti di Piazza Armerina che hanno scelto di destinare quanto raccolto in una colletta alla Protezione civile. Nell’istituto sono state trasferite anche persone che hanno partecipato alle rivolte di marzo, ma il clima di collaborazione è stato favorito, spiega il comandante Puglisi “da incontri tenuti dalla direzione per spiegare le ragioni delle restrizioni. Sono state aumentate le telefonate previste e vengono garantite anche le videochiamate con le famiglie. Acquistati prodotti disinfettanti e tre volte a settimana viene effettuata la sanificazione dei locali comuni”. “Con immenso dolore siamo vicini a coloro che hanno perso i propri cari e a quelli che stanno ancora soffrendo per il Coronavirus: rispettando le regole, insieme ce la faremo”. Questo il messaggio dei reclusi del carcere di Ragusa che hanno anche organizzato una colletta raccogliendo 573 euro da donare all’ospedale di Modica “con la speranza che questo brutto calvario finirà presto”. I detenuti ringraziano anche per il maggior numero di telefonate e videochiamate concesse per supplire alla mancanza di colloqui ‘fisici’ con i familiari. “Da persone private della libertà personale, lontane dai propri affetti familiari - commenta la comandante Chiara Morales - il messaggio di speranza assume un pregnante e particolare significato. La donazione all’ospedale ci ha sorpresi e commossi per la partecipazione avendo coinvolto la quasi totalità dei reclusi”. Lazio. Coronavirus, dal Garante 35mila euro per i detenuti senza domicilio redattoresociale.it, 4 aprile 2020 Il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia ha deciso di destinare questa cifra per sostenere le spese alloggiative dei detenuti ammissibili alla detenzione domiciliare. Il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio ha deciso di destinare 35.000 euro per sostenere le spese alloggiative dei detenuti delle carceri della regione ammissibili alla detenzione domiciliare presso strutture presenti nel territorio della regione e disponibili ad ospitare detenuti senza domicilio e risorse per farvi fronte. La misura si aggiunge a quella già adottata l’11 marzo scorso per consentire ad alcuni detenuti in semilibertà e privi di domicilio di godere del primo periodo di licenza disposto dalla Magistratura di sorveglianza. “Come prevedibile, l’assenza o l’inidoneità del domicilio proposto dai singoli detenuti sta falcidiando in ultima istanza le domande che sopravvivono a tutte le altre condizioni di inapplicabilità delle misure decise dal Governo per la riduzione della popolazione detenuta durante la emergenza Covid-19. Si tratta, in questo caso, di una condizione che nulla ha a che fare con la pericolosità del richiedente o con la meritevolezza della sua condotta, ma esclusivamente con il suo benessere e le sue relazioni familiari e sociali: se sei solo e senza risorse, resti in carcere, anche se saresti potuto andare ai domiciliari. Una evidente ingiustizia”, dichiara il Garante Anastasìa. “Sarebbero servite ben altre misure per ridurre la popolazione detenuta e servono ben altri interventi da parte della Amministrazioni competenti. Sappiamo che almeno questi ultimi sono allo studio, nel frattempo cerchiamo di evitare che istanze accoglibili da parte della magistratura di sorveglianza siano per questa ragione accantonate o, peggio, rigettate”. Padova. Positività al coronavirus per due agenti della Polizia penitenziaria di Serena De Salvador Il Gazzettino, 4 aprile 2020 Se i colloqui restano sospesi fino a nuovo ordine limitando l’afflusso di persone esterne al carcere, la positività al Coronavirus di due agenti della polizia penitenziaria e i vuoti normativi sui metodi per mettere in contatto detenuti e familiari mantengono teso il clima al Due Palazzi. É arrivata giovedì dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia la conferma del contagio di due poliziotti in servizio alla casa circondariale. Il tampone nelle scorse settimane non ha lasciato dubbi e i due operatori risultano in malattia da diversi giorni, addirittura poco meno di un mese in un caso. La loro presenza all’interno del carcere si è quindi interrotta, ma i colleghi non nascondono i propri timori anche in virtù delle numerose richieste avanzate dalle sigle sindacali ai vertici ministeriali. A più riprese si è fatto appello affinché tutti gli agenti fossero sottoposti a una campagna di tamponi a tappeto, cosa che ad oggi non risulta eseguita nonostante una sessantina di loro viva stabilmente nella caserma del penitenziario. La direzione intende mantenere il riserbo sulla questione ma i numeri registrati in altre strutture non mancano di allarmare il personale, in particolare i sedici agenti positivi a Verona. I detenuti in entrata vengono tenuti separati dagli altri e al momento non risultano contagi fra i carcerati ma oltre al problema della salute ve n’è anche un altro a mettere in agitazione la polizia penitenziaria. Vista la sospensione dei colloqui di persona, il ministero ha disposto un forte incremento di quelli telefonici e telematici. Se prima dell’emergenza si ricorreva alla piattaforma Skype Business contrattualizzata a livello statale e di conseguenza con garanzia di adeguati controlli, ora il sistema è tanto sovraccarico da aver reso necessaria l’adozione di altri strumenti. Non solo la versione tradizionale di Skype ma anche programmi gestiti via smartphone come Whatsapp che consente chiamate multiple. Tim ne ha messi a disposizione sedicimila, 14 dei quali sono in uso al Due Palazzi suscitando non poche perplessità: “Tutti i detenuti possono farne richiesta poiché oggi i colloqui sono permessi con cadenza quotidiana. Solo considerando che al Due Palazzi si trovano circa 600 carcerati si capisce la mole di traffico spiega il segretario Sinappe Mattia Loforese - purtroppo il ministero non ha dato direttive specifiche e a Padova è stato adottato un protocollo interno. Un fatto certamente da elogiare, ma non è giusto che un singolo penitenziario debba fronteggiare problemi potenzialmente gravissimi”. Sì, perché le conversazioni multiple prevedono l’uso di due cellulari, uno per l’agente e uno per il detenuto che si collegano al parente a casa. Il carcerato può però muoversi all’interno del penitenziario avendo di fatto accesso a un dispositivo collegato a internet che lo connette con l’esterno: “É un servizio di cui usufruiscono anche pregiudicati di alto calibro, ad esempio chi ha fatto parte della criminalità organizzata. I cellulari non hanno blocchi di alcun genere perciò chi garantisce che non riescano a mettersi in contatto con altre persone oltre al familiare in video? - prosegue Loforese - è una responsabilità che non può ricadere sui singoli agenti. Senza contare che non è chiaro chi paghi gli abbonamenti di tali dispositivi dal momento che durante l’emergenza tutte le chiamate (anche quelle telefoniche tradizionali) non vengono più messe in conto ai detenuti. Non bastasse l’allarme sanitario, ci sono anche quello economico e quello della sicurezza”. Voghera (Pv). Il Ministero della Giustizia: “casi di contagio nel carcere, ma nessun morto” Il Giornale, 4 aprile 2020 “In merito all’articolo pubblicato nell’edizione milanese del 2 aprile a pagina 1, dal titolo “Dentro il carcere: qui scoppia tutto” il ministero della Giustizia precisa che “non risponde al vero quanto riportato nel virgolettato, attribuito a un detenuto agli arresti domiciliari, sulla morte di un detenuto a causa del Coronavirus nel carcere di Voghera”. La nota del Guardasigilli continua entrando nel dettaglio della situazione della diffusione del Coronavirus all’interno del carcere citato nell’articolo che riportava la testimonianza diretta di un pregiudicato ora ai domiciliari: “Nell’istituto penitenziario di Voghera si registrano alcuni casi di contagio fra i detenuti, per altro tutti asintomatici, per i quali è stato prontamente disposto l’isolamento in camera singola e dotata di bagno autonomo; un altro detenuto - conclude il ministero guidato da Alfonso Bonafede - si trova infine ricoverato presso una struttura ospedaliera”. Ferrara. Carceri: una miscela esplosiva di Stefania Carnevale* telestense.it, 4 aprile 2020 La notizia del primo detenuto - della Regione - deceduto per coronavirus in ospedale a Bologna, non arriva inattesa. Ad oggi, questo è il primo in Regione, ma un detenuto è morto a metà marzo nel carcere di Voghiera, mentre i contagi segnalati sono 21. Quello che preoccupa è il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, che è l’esatto contrario del distanziamento sociale richiesto dai decreti del Governo per frenare il contagio per coronavirus. A Ferrara ci sono 360 detenuti, con una media in questi ultimi tre anni che oscilla intorno ai 370, mancano le condizioni oggettive per attuare le misure di prevenzione, e il decreto Cura Italia non è in grado di assicurare in breve la sicurezza richiesta da tutti i Garanti dei detenuti, per tutti coloro che vivono in carcere, dai detenuti al personale di sorveglianza, medico, socio assistenziale. I detenuti vivono in due per cella, in circa 3 metri quadrati a testa, non hanno la possibilità nel caso di quarantena, di mettersi in isolamento, non possono fasi da mangiare, né hanno un credenzino medicinali, dove potersi approvvigionare da soli e i luoghi attrezzati a tutt’oggi per l’isolamento in carcere sono davvero pochi. Non è vero, infatti, che in quanto luogo di isolamento il carcere garantisca dall’aggressione del virus, perché fra agenti di polizia e personale socio assistenziale almeno 200 persone entrano ed escono tutti i giorni. Sono tutti dotati di mascherine, ma sono anche le persone più esposte al contagio, come il personale sanitario. Nell’unità mobile di pre-triage posta davanti al carcere, vengono controllati in entrata soltanto i nuovi ingressi in carcere, per arresti o trasferimenti e i detenuti che presentano sintomi sospetti. La società non può ignorare il problema, conclude Stefania Carnevale, perché l’esplosione del contagio in carcere avrebbe una gravissima ricaduta sulle strutture sanitarie e sul Paese intero. La situazione è molto delicata, come sostiene da tempo Mauro Palma, garante nazionale, e le misure adottate dal decreto Cura Italia non soddisfano, perché lente e macchinose, a partire dalla necessità di dotare di braccialetti elettronici i detenuti, che con un residuo pena dai 6 ai 18 mesi, esclusi quelli per reati cosiddetti ostativi, possono essere ammessi alla domiciliazione, una sorta di arresti domiciliari di fine pena. Dei 5.000 braccialetti previsti, ne sono disponibili 900, che verrebbero applicati in numero di 300 a settimana, 5.000 in circa 17 settimane, più di tre mesi, troppi per il coronavirus. Senza contare la difficoltà di accertarsi che il domicilio segnalato dai detenuti o individuato, per chi non ha casa, dai servizi sociali sia adeguato al provvedimento, che resta, comunque, una pena detentiva ed è soggetta ai controlli di polizia, oltre che al benestare di un giudice. Beneficerà senza problemi solo chi deve espiare un residuo pena inferiore ai sei mesi e i minorenni, i quali dovranno poi sostenere un percorso rieducativo che sarà attivato, entro 30 giorni dal ritorno a casa, dai servizi sociali. Non potranno accedere ai domiciliari i colpevoli di atti violenti contro l’ordine democratico, contro la persona, contro i minori in particolar modo, di reati di corruzione e di associazione di stampo mafioso. Elenco dei reati che escludono dalla domiciliazione: terrorismo, eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, peculato, corruzione,, scambio elettorale politico mafioso, riduzione o mantenimento in schiavitù, prostituzione e pornografia minorile, chi è colpevole di atti di violenza sessuale, sequestro di persona, maltrattamenti contro familiari e conviventi, stalking e per tutti i reati aggravati dalla matrice di stampo mafioso; i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; i sottoposti al regime di sorveglianza particolare; chi abbia avuto sanzione disciplinare per gravi infrazioni; i detenuti privi di domicilio effettivo e idoneo, anche per tutelare le persone offese. *Garante dei diritti dei detenuti di Ferrara Roma. “Mio figlio rischia di morire prima del processo” Il Riformista, 4 aprile 2020 L’appello della mamma di un detenuto. Riceviamo e pubblichiamo la lettera della mamma di J. (lo chiameremo con l’iniziale del suo nome): 44enne, da 6 mesi detenuto in attesa di giudizio nel carcere romano di Regina Coeli. J. è incensurato. È accusato di un reato contro il patrimonio. Soffre di asma ed è fortemente obeso, patologie che lo rendono un soggetto particolarmente esposto al contagio. L’Oms, nel rapporto sulla prevenzione del Covid nei luoghi di detenzione, dice che è necessario prestare maggiore attenzione al ricorso a misure non detentive in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale; aggiunge che la priorità dovrebbe essere data alle misure non detentive “per i presunti colpevoli”, come J. Il giudice però ha rigettato la sua richiesta di arresti domiciliari. Quindi J. resta in cella. E davvero non si capisce perché. Sono una mamma come tante in questo momento che ha un figlio in custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli a Roma, in attesa di un processo che non si sa quando verrà celebrato. Sono una mamma che in questi ultimi mesi si è trovata davanti un muro che non riesce a buttar giù, per dare spazio al “buon senso” che la situazione che il nostro Paese sta vivendo in questo momento ci impone di usare. E mi rivolgo a tutte le Autorità che hanno il potere di risolvere la situazione di mio figlio e quella di tante altre persone che, come lui, sono in attesa di giudizio e da considerarsi innocenti fino a prova contraria. J. è accusato di un reato patrimoniale (ancora da dimostrare) e non certo di reati violenti o di particolare allarme sociale ed è incensurato. Per come lo conosco, da madre, posso dire che mio figlio ha sempre vissuto con e per gli altri. Ma so che questo non conta per chi giudica Non è mia intenzione difenderlo ad oltranza. Verrà giudicato per quello che ha fatto o non ha fatto. In questo momento, sono qui ora a chiedere solo di dare vita ed applicazione alla nostra Costituzione, nella quale non è prevista la pena di morte! Ho vissuto tredici anni in Argentina dal ‘75 all’88. So cosa vuol dire la pena di morte… e in quegli anni mi sono sempre sentita orgogliosa di essere Italiana, di appartenere ad un popolo che lotta per i Diritti Umani e la vita! Ma oggi che lottiamo contro la minaccia del Covid-19, parlo di condanna a morte perché scientemente si stanno esponendo i detenuti tutti ad una infezione che può portare anche alla morte. È ormai di dominio pubblico, che le nostre carceri siano sovraffollate, che al loro interno non sia possibile tenere le distanze di sicurezza, né ci sono mascherine e guanti per tutti. E quando dico tutti intendo tutti: detenuti, personale della Polizia Penitenziaria e tutti gli operatori delle Case Circondariali. Anche loro in questo momento mettono a rischio la propria stessa vita. Mio figlio ha problemi di salute seri, perché portatore di patologie segnalate dalla Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Governo Britannico come condizioni che aggravano notevolmente il decorso della malattia, in caso di contagio da Coronavirus. Soffre da tanti anni di asma (certificata dal medico di base che lo segue da anni, e da uno pneumologo che lo ha visitato da poco in cella), e di obesità con l’Indice di Massa Corporea 41 (obesità di terzo grado). Per questa ragione abbiamo chiesto, attraverso i suoi difensori, non già di liberarlo, ma quanto meno di mandarlo a casa agli arresti domiciliari fino a quando si terrà il processo. Ma i nostri ripetuti appelli son caduti nel vuoto, senza altre spiegazioni esaustive e che abbiano valore superiore al rischio della vita. Non riesco a capire come si possa continuare a negargli i domiciliari quando esiste un’alternativa assolutamente valida rispetto al carcere, che possa garantire il rispetto delle prescrizioni dell’Autorità Giudiziaria, ma anche consentirgli di non esporsi ad un grave pericolo per la propria vita. Non sto chiedendo di azzerare la sua posizione, non sto chiedendo di non fare un processo. Sto implorando di non farlo morire in carcere per un contagio che non perdona. E forse dopo il processo potrebbe essere anche scagionato! Chi ridarà la vita a mio figlio allora? Chi mi risarcirà per la sua perdita? E che importa il denaro che potrei avere, se non avrò più lui? A chi dovrò chiedere conto della sua vita? Al Pm, al Gip, al Ministro della Giustizia? A chi? Già questa epidemia ci fa vivere sospesi e senza certezze, ma il saperlo lì a rischio ancora maggiore mi fa impazzire. Posso sentire la pena e il dolore. Non lo posso vedere, non posso parlargli perché può fare solo una telefonata a settimana di 10 minuti Avete dei figli? Se li sapeste in pericolo di vita che cosa fareste? Lo chiedo come mamma di un detenuto non condannato. Che ironia sarebbe se alla fine risultasse innocente e fosse morto per coronavirus in carcere! Mi chiedo come coloro che decidono sulle sorti di chi è detenuto possano dormire sereni, sapendo che il virus può arrivare domani, subdolamente, e palesarsi quando ormai è tardi per fare qualcosa. Cosa frena tutti dal prendere decisioni serie ed emergenziali? Ci vuole coraggio nei momenti di crisi per prendere le decisioni giuste, forse non accolte dal favore di tutti, ma che seguono valori veri e rimettono al centro l’Uomo. Ecco io vi chiedo di prendere una di queste decisioni che possano restituire valore alla vita e che la riconoscono come bene supremo. Vi chiedo di mandare a casa, agli arresti domiciliari mio figlio e tutti coloro in situazioni simili, non pericolosi per gli altri! Accanirsi con un diniego trovo che sia ingiusto, inumano, senza senso. Il nostro Presidente Mattarella lo ha indicato; il nostro Santo Padre Papa Francesco lo ha chiesto apertamente. A nome di tante mamme, vi supplico affinché non abbiamo a piangere i nostri figli! D.B. Napoli. Lettera ai detenuti di Crescenzio Sepe* Ristretti Orizzonti, 4 aprile 2020 Carissimi amici, vi scrivo in questi giorni difficili, pieni di paure e di preoccupazioni per il diffondersi di un virus che si sta espandendo in Italia e in molte parti del mondo e che colpisce soprattutto le persone più fragili come gli anziani. Capisco che anche voi siete in ansia per voi stessi e per le vostre famiglie, e che la condizione di reclusione vi tiene lontani dai vostri affetti in un momento così pieno di incertezze. Una condizione che è resa ancora più difficile dal fatto che non potete fare i colloqui con i vostri cari, per impedire che il contagio possa entrare all’interno del carcere. So che comunque state comunicando attraverso i telefonini cellulari anche con chiamate in video, anche se non è la stessa cosa che vedersi di persona, ma è comunque un modo per non interrompere i legami e per guardare negli occhi le persone a cui volete bene. E allora vi chiedo di mandare alle vostre mogli, ai vostri figli e alle vostre madri, il mio abbraccio paterno, e invoco su tutti la mia benedizione. Dite che il Cardinale vi è vicino e prega per voi. D’altra parte questa situazione la stanno vivendo tutte le persone libere, che sono costrette a restare a casa e non si possono incontrare con gli amici e i parenti come si era abituati a fare. E questo ci rende tutti un po’ carcerati e ci unisce a voi in questo tempo difficile in cui ciascuno deve fare la propria parte per evitare che il virus si possa propagare. È il momento in cui mantenere la calma, sostenere i compagni più fragili e pregare il Signore che non ci farà mancare il suo sostegno. Come quando stava nella barca con i discepoli, venne una tempesta e sembrava che stessero per naufragare. Gesù sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” Anche a noi il Signore dice di non avere paura e di continuare a rivolgerci a lui con fede e speranza. Rivolgiamo alla Madre di Dio il suo sguardo e ci affidiamo alla sua misericordia. Dio Vi benedica e ‘a Maronna v’accumpagna! *Cardinale, Arcivescovo Metropolita di Napoli Napoli. Il Gruppo “Carcere Vi.Vo.” a sostegno delle famiglie dei detenuti ilmezzogiorno.info, 4 aprile 2020 Il gruppo vincenziano Carcere Vi.Vo., a fronte dell’emergenza Covid-19 che sta versando il nostro Paese in uno stato di allarmismo e precarietà, ha donato agli istituti penitenziari di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli, una somma di denaro pari a 2000 euro a favore dei reclusi non esclusi. La donazione servirà a fronteggiare le spese di beni di prima necessità all’interno delle case circondariali. In un momento delicato come questo è importante stare vicino, in maniera concreta, ai detenuti e soprattutto alle famiglie che reclamano una difficoltà economica difficile da superare. Ed è proprio per questo che il sostegno economico è in parte giunto direttamente anche alle famiglie. “Il nostro compito è quello di aiutare chi in questo momento si trova in uno stato di necessità, non solo con la preghiera ma anche con un piccolo gesto”, ha dichiarato Carmine Uccello, presidente Carcere Vi.Vo. con sede a via Andrea d’Isernia 23, Napoli. Da più di trent’anni il gruppo di volontari opera all’interno degli istituti campani attraverso progettualità a favore dei reclusi garantendo anche un sostegno morale. Punto di riferimento di numerose famiglie che possono contare quotidianamente sull’impegno fattivo e morale dell’associazione. Importanti momenti di aggregazione sono gli incontri con i familiari, a cui viene garantito un piccolo sostegno economico, grazie alla bontà di diversi benefattori e un grande supporto morale, attraverso il confronto e la preghiera; non mancano momenti ludici per i più piccoli, quali tombolata, giochi e gite fuori porta. Una luce nel tunnel per le famiglie e per chi, per un motivo o per un altro, è costretto a vedere il sole a scacchi. Tanti i progetti futuri in sinergia con le istituzioni. Trieste. Carcere e coronavirus, appello alla responsabilità di Elisabetta Burla* triesteallnews.it, 4 aprile 2020 E siamo giunti a leggere la prima notizia di decesso di un detenuto per Coronavirus. Una notizia che, forse, la maggior parte delle persone leggerà distrattamente, qualcuno commenterà cinicamente riflettendo che tanto “era un delinquente” e cosa sarà mai, sono morte così tante persone, brave persone, oneste, che non avevano fatto nulla di male, perché mai dare attenzione a un fatto del genere. Non ci si aspetta che la popolazione possa capire la delicatezza del momento, non ci si aspetta comprensione - la politica della sicurezza ha ormai infettato il pensiero di molti - ci si aspetta un ragionamento, la logica e, se vogliamo, un intervento utile, non per i detenuti, per tutti. I detenuti sono al sicuro, chiusi nelle carceri, limitati nei loro spostamenti tra una cella e lo spazio comune dei tratti, una convivenza forzata tra persone sconosciute con cui condividere tutto: il tavolo su cui mangiare, la pentola, gli sgabelli, il telecomando (eh sì, hanno la televisione), il bagno. In numero ben più considerevole si usano, in comune, le docce. Gli spazi sono limitati, la distanza sociale di 1 metro è impensabile da rispettare e la quarantena, che tutti noi della società libera, rispettiamo - e a dirla con onestà non sempre, visti i numerosi controlli e le violazioni riscontrate dalle Forze di Polizia - non si può effettuare. Non si può! Il carcere non è un mondo a parte, non è una società autosufficiente, estranea e isolata dal resto, è una parte del tutto. Agenti della Polizia Penitenziaria entrano e escono dagli Istituti a seconda dei turni e degli incombenti; il personale civile e amministrativo, in genere, si reca in carcere per svolgere la propria attività lavorativa per poi tornare a casa; alcune udienze continuano a svolgersi, e alcuni detenuti sono ancora accompagnati presso le aule dei tribunali o delle corti d’appello, la videoconferenza non sempre funziona e non in tutte le realtà è attiva; la posta deve essere consegnata; l’acquisto dei generi di sopravvitto non può essere sospesa e la cucina per assicurare i pasti quotidiani deve pur rifornirsi dei generi alimentari necessari: altre persone che entrano, consegnano; e i medici e gli infermieri? Certo, anche loro entrano ed escono dal carcere come prima, e come sarà dopo questo periodo di pandemia per visitare e curare tutte le altre patologie di cui soffrono le persone che sono recluse. Patologie anche importanti. E ci sono i nuovi giunti, coloro che vengono arrestati e che entrano in carcere o che vengono trasferiti per motivi disciplinari, di sicurezza. Il sovraffollamento non consente di isolarli, non succede praticamente mai. È impossibile per gli spazi a disposizione. Ecco, non sono i detenuti che già si trovano reclusi nel singolo istituto, che possono essere il veicolo del contagio; sono tutte le altre persone che entrano che possono costituire il veicolo di contagio. E tutte queste persone che entrano e escono, che sono state e sono in contatto con altri, che continuano la loro vita, con i limiti imposti dalla quarantena, ma che si spostano sul territorio, quali protezioni hanno? Praticamente nessuna. Da febbraio 2020 i vertici dell’amministrazione penitenziaria hanno prescritto l’adozione dei dispositivi di protezione individuali (gel disinfettante, guanti, mascherine); fino a poco tempo fa si era fortunati ad avere il sapone, ora si vedono i distributori di gel disinfettante, qualcuno usa i guanti, le mascherine sono state oggetto di vivaci proteste. E sono assolutamente fondate. Una striscia di tessuto, sarà anche quello funzionale allo scopo, con due fori all’estremità dove infilare le orecchie; poco importa che ognuno ha una sua conformazione: faccia pasciuta, testa grande, naso pronunciato, le orecchie non possono fare ingresso nelle fessure, la mascherina non si può adoperare; faccia minuta, lineamenti sottili, le orecchie anche entrano nelle fessure ma la striscia può penzolare. Non parliamo dell’adesione al volto, praticamente impossibile anche per i pochi che dovessero rispondere alle “misure” della mascherina. Mascherine che - da molte fonti - apprendiamo essere lo strumento più efficace per evitare di diffondere il virus, mascherine quindi che dovrebbero proteggere le persone detenute che vivono in quella bolla che molti considerano estranea al resto del mondo. Ma che succede se in quel mondo dovesse diffondersi il virus? Ecco dovranno essere necessariamente trasportati in un luogo ove sia possibile l’isolamento e offrire le cure adeguate, negli ospedali. E allora il problema - forse - sarà compreso anche da coloro che non vogliono capire, che non vogliono comprendere. Sarà il caso che anche nelle carceri s’inizi ad effettuare i tamponi al personale - soprattutto a quello che entra in contatto con i detenuti - e che sia dotato di dispositivi di protezione individuale adeguati ed efficaci; sarà il caso che i tamponi vengano effettuati anche ai nuovi giunti con l’ulteriore previsione di vederli collocati in tratti diversi per un periodo di quarantena. Forse non ci si rende conto che detenuti e personale tutto sono delle persone, hanno dei genitori, dei fratelli, dei coniugi/conviventi, dei figli, sono preoccupati per la loro salute e per quella dei loro cari, sono in apprensione per quanto potrebbe accadere. Si chiede responsabilità e rispetto delle regole, si crede sia doveroso dare un segnale di responsabilità e di rispetto delle regole - incidentalmente disposte proprio da coloro che al momento non ne garantiscono l’adozione. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Verona. Carcere di Montorio, il Comune consegna mascherine e camici L’Arena, 4 aprile 2020 Ben 560 mascherine chirurgiche e 50 tute sterili di protezione provenienti dalla provincia cinese di Sichuan. E, ancora, 50 mascherine professionali FFP2 e 10 flaconi di disinfettante spray igienizzante. Sono questi i prodotti sanitari che, questa mattina, vicino alla tenda della Croce Rossa, allestita all’esterno del carcere, sono stati consegnati dal sindaco Federico Sboarina alla direttrice della Casa Circondariale di Montorio Maria Grazia Bregoli. Presenti anche alcuni rappresentanti della Polizia penitenziaria. Oltre al materiale professionale, destinato ad agenti della Polizia penitenziaria ed operatori sanitari in servizio nella struttura, sono state consegnate da parte del Comune ulteriori 500 mascherine di cotone lavabili, per le persone detenute. “In questa città non ci si dimentica di nessuno - ha sottolineato il sindaco nel consueto punto stampa in streaming. La consegna effettuata oggi, su richiesta della direzione della struttura penitenziaria, rappresenta un aiuto concreto alle necessità quotidiane di tutti gli agenti ed operatori sanitari in servizio nel carcere. Il Comune sta ricevendo importanti donazioni da parte di sostenitori esteri e da aziende pubbliche e private del territorio. Aiuti che, in parte, abbiamo scelto di destinare alla struttura carceraria cittadina. Un segno concreto di solidarietà ai tanti dipendenti che, quotidianamente, sono impegnati in prima linea per la garantire la sicurezza nel carcere ed il supporto sanitario a tutti i detenuti”. Cremona. Dietro i cancelli del carcere, tra rabbia e paura di contrarre il virus oglioponews.it, 4 aprile 2020 La testimonianza di un ex detenuto. “Il 21 febbraio - racconta ancora - alle quattro e mezza mi hanno svegliato: sei partente, vai a Cremona. Lo stesso giorno è scoppiato l’allarme per il primo ammalato a Codogno e hanno sospeso tutti i trasferimenti. Così l’allarme per il virus l’ho vissuto tutto a Cremona, nel carcere nuovo, vicinissimo al primo focolaio”. “La gente fuori non si immagina quale possa essere la situazione dentro le carceri. Non so se è più la rabbia o la paura. Hanno blindato tutto, hanno tolto le speranze a chi le aveva e ora la situazione è destinata a esplodere”. Inizia così la testimonianza, raccolta da Il Giornale, di un pluripregiudicato milanese, passato dal carcere di Cremona (ora è agli arresti domiciliari, ndr) durante i giorni in cui veniva scoperto il primo caso di coronavirus a Codogno ed esplodeva l’epidemia. “Il 21 febbraio - racconta ancora - alle quattro e mezza mi hanno svegliato: sei partente, vai a Cremona. Lo stesso giorno è scoppiato l’allarme per il primo ammalato a Codogno e hanno sospeso tutti i trasferimenti. Così l’allarme per il virus l’ho vissuto tutto a Cremona, nel carcere nuovo, vicinissimo al primo focolaio”. Questa la realtà che ha trovato: “La prima decisione del ministero è stata di bloccare tutti i colloqui con i parenti, tutti i permessi, tutto il lavoro all’esterno. Chi non vive la realtà del carcere, non immagina cosa voglia dire la sparizione dei colloqui. Dentro si vive nell’attesa, tra un colloquio e l’altro. Adesso stop. Hanno alzato da quattro a nove le telefonate, ma che te ne fai della telefonata quando eri abituato a vedere in faccia tua moglie e i tuoi figli?”. Non regge, secondo il milanese, la spiegazione di proteggere i detenuti dal virus: “Non è che il carcere è diventato improvvisamente un ambiente sterile dove non entra e non esce nessuno. Gli agenti della polizia penitenziaria entrano ed escono tutti i giorni, vanno a casa, vedono gente: quando la mattina entrano in carcere possono essere infetti, né più né meno di un nostro parente. Portano le mascherine, è vero. Allora perché non fare i colloqui con le mascherine?”. L’ex detenuto di Cremona racconta ancora come nella casa circondariale si vivesse tra la rabbia e la paura di contrarre il Covid-19: “Ai semiliberi hanno concesso la detenzione domiciliare, invece loro sono tornati dentro. Risultato: aumento del sovraffollamento in un carcere, come Cremona, già fuori dai limiti. Nella zona vecchia hanno aggiunto una branda per cella, in alcune anche due. Questo non ha fatto altro che aumentare il panico da epidemia”. “Qual è il risultato? - conclude - Che la gente sta chiusa in cella per evitare contatti: alle undici del mattino, quando si fa il passeggio all’aria, un sacco di detenuti preferiscono non scendere perché non sai mai chi incontri. Ma tanto se non vai tu va quello della cella accanto che poi ti ritrovi in reparto. Così io al passeggio continuavo ad andarci”. Milano. La sartoria del carcere di Opera produce mascherine per detenuti e agenti di Valeria Dalcore valoreresponsabile.startupitalia.eu, 4 aprile 2020 Nell’etichetta “cose belle fatte in carcere” c’è una storia di artigianato e di inserimento lavorativo di persone svantaggiate: i sarti detenuti nel carcere di Milano Opera hanno iniziato a produrre mascherine per la tutela di chi vive e lavora in carcere. Un lavoro di squadra, anche con gli agenti di polizia. Mascherine per agenti e detenuti, cucite con sapienza da altri detenuti: la sartoria sociale maschile del carcere di Milano-Opera si è messa al lavoro per aumentare la protezione di chi vive il carcere e chi vi presta servizio. Si chiama Borseggi, ed è una storia di artigianato nata più di 6 anni fa, già nota per l’etichetta “cose belle fatte in carcere”. Un nome che gioca sul filo dell’ironia ma che anche e soprattutto un riscatto sociale che nel lavoro e nelle competenze trova il suo motore quotidiano. I detenuti sarti, che normalmente confezionano borse, abiti, cuscini e grembiuli hanno immediatamente riconvertito la produzione dando vita a centinaia di mascherine con tessuti di cotone pesante ed elastici, per gli oltre mille detenuti e con loro con loro anche centinaia di agenti, lavoratori attivi e indispensabili per garantire la sicurezza delle carceri che devono tutelare se stessi e le loro famiglie. Nonostante queste mascherine in stoffa non siano un dispositivo medico-sanitario sono utili come barriera per coprire le vie aeree, se si rispettano tutte le precauzioni dettate dagli esperti, e soprattutto rappresentano un oggetto simbolico, frutto di un gesto di solidarietà e di speranza. Borseggi, progetto di Opera in Fiore per dare dignità con il lavoro - La sartoria Borseggi, che si racconta anche su Facebook e Instagram, è nata da un’idea della cooperativa sociale Opera in Fiore che dal 2004 promuove l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. “Sono giovani che scontando la loro pena mettono cuore e cervello nel lavoro, e hanno capito subito che il momento critico richiedeva la loro collaborazione. Si sono messi autonomamente all’opera, con il supporto prezioso degli agenti di Polizia Penitenziaria, veri e propri lavoratori di trincea che partecipano e collaborano con grande spirito di dedizione perché i sarti possano continuare a lavorare e gli arrivino i tessuti per continuare a confezionare mascherine” ci racconta Elisabetta Ponzone, socia della cooperativa e referente di Borseggi, progetto nato per aiutare i detenuti attraverso lavoro vero e retribuito a contratto, che occupa giovani tra i 26 e i 35 anni condannati a scontare lunghe pene. Essere occupati in una missione, prendendosi cura di un prodotto artigianale, aiuta anche a riflettere su sé stessi, dà obiettivi e dignità alla loro esistenza. Bottega artigianale già attiva da tempo con ritmi di produzione organizzati, si mette alla prova nell’emergenza dimostrando di aver appreso un mestiere e di saperlo adattare con spirito di comunità. Ci parla anche dell’enorme stress a cui sono già normalmente sottoposti gli operatori degli istituti penitenziari, che aumenta considerevolmente in queste settimane di isolamento. “I detenuti sono preoccupati per la loro salute, sono lontani dai loro affetti e non hanno contatti con le famiglie, e lo sono altrettanto gli agenti”. Per questo un gesto di cura come il confezionamento di una semplice mascherina può dare un segnale positivo anche tra celle e rigorosa quotidianità. Gorizia. La sindaca di Gradisca d’Isonzo: “Cpr a rischio, Covid-19 è arrivato anche qui” di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 aprile 2020 Nella zona di confine di Gorizia, il coronavirus acuisce l’emergenza. La prima cittadina Linda Tomasinsig: “Nel Cpr non c’è abbastanza sorveglianza sanitaria. Niente regole per chi esce per decorrenza dei termini”. “Ho reso pubblico il caso del detenuto nigeriano trasferito dal carcere di Cremona nel “nostro” Centro per il rimpatrio, e risultato poi positivo al Covid-19. A un sindaco spetta vederci chiaro e tutelare il diritto alla salute di tutti, dei cittadini, dei lavoratori e dei reclusi”. Linda Tomasinsig è la sindaca di Gradisca d’Isonzo, democratica, 45 anni, biologa. Ha denunciato in un post su Facebook una situazione che rischia di diventare fuori controllo, quella dei due centri di Gradisca, il Cpr dove si trattengono gli immigrati irregolari in vista dell’espulsione e il Cara, per i richiedenti asilo. Ha scritto una lettera ai ministri dell’Interno Luciana Lamorgese e della Salute, Roberto Speranza, al prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello e al governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga. Il Cpr di Gradisca è anche oggetto di un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi di +Europa. Nella zona di confine di Gorizia, il coronavirus acuisce l’emergenza. Sindaca Tomasinsig, il Cpr è un’emergenza nell’emergenza? “Dove c’è promiscuità la situazione si aggrava, è evidente. Ma soprattutto io ho chiesto e chiedo che il livello di sicurezza dal punto di vista sanitario del Cpr sia massimo. E poi va affrontato dal governo il problema delle uscite dal Cpr per decorrenza dei termini, come è accaduto nelle settimane passate, perché anche lì le cose finiscono fuori controllo”. Ma i rifugiati e i richiedenti asilo non saranno messi in mezzo alla strada, anche se il tempo di permanenza nei centri ad hoc è scaduto. “Così sembra. Il mio allarme infatti è per il Centro di espulsione degli irregolari, il Cpr, che attualmente ha 45 reclusi e vi lavorano decine di persone” Cosa è successo esattamente nel Cpr di Gradisca? “Da dicembre è stato aperto questo Centro per il rimpatrio. Qui peraltro a gennaio è morto un detenuto ed è stata aperta un’inchiesta. Ci sono state rivolte, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo. La tensione è alta. E nelle scorse settimane dal carcere di Cremona è stato trasferito un detenuto nigeriano, in attesa appunto dell’espulsione. Stava male. È risultato positivo al Covid-19, mi è stato garantito che è stato messo in isolamento. Poi è stato trasferito in ospedale. Ho reso pubblica la vicenda perché non si scherza con la salute di nessuno, sia di chi sta dentro recluso, che dei lavoratori - che vanno e vengono - e della cittadinanza tutta di Gradisca”. Secondo lei non c’è abbastanza sorveglianza sanitaria? “La sorveglianza deve essere massima. Il Cpr va monitorato ancora di più dello stesso Cara, ovvero del centro per i rifugiati e richiedenti asilo, limitrofo, dove ci sono 180 migranti. Ma quello che io temo, e su cui sto cercando di richiamare l’attenzione, è: cosa succede ai reclusi se, scaduta la decorrenza dei termini, vengono messi fuori”. Cosa ha scritto esattamente a Viminale e al ministero della Salute? “Ho lanciato l’allarme. Il progressivo rilascio per decorrenza dei termini delle persone trattenute, che d’altra parte non possono lasciare il territorio nazionale per la chiusura dei confini, come si gestisce? Vagano e dormono all’addiaccio? Quali sono le loro condizioni di salute? Sono stati in precedenza in quarantena o lo devono essere? O vale anche per loro il non rilascio? Per noi la difficoltà è enorme e non abbiamo neppure le informazioni complete”. I contagi a Gradisca sono molti? “Sono dieci su 6.500 abitanti, per fortuna. In generale in Friuli Venezia Giulia l’emergenza coronavirus pur grave, lo è meno che nelle regioni più colpite della Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. I nostri cittadini si sono armati di molto senso civico e rispettano le ordinanze di contenimento”. Lei ha varato misure particolari? “No, ho recepito quanto governo e Regione hanno deciso. Onestamente non c’è bisogno di moltiplicare la confusione”. Gran Bretagna. Terzo detenuto deceduto per coronavirus ilsussidiario.net, 4 aprile 2020 Triste aggiornamento dal Regno Unito, da cui rimbalza la notizia della morte di un terzo carcerato risultato positivo al Cronavirus. Il settantasettenne è morto in ospedale venerdì e presentava un quadro clinico aggravato dalla presenza di alcune patologie pregresse. Nel frattempo, l’ex ispettore capo delle carceri Lord Ramsbotham ha chiesto il rilascio anticipato di alcuni detenuti che scontavano pene brevi per aiutare i penitenziari sovraffollati a fronteggiare l’emergenza epidemiologica. Lord Ramsbotham si è detto “molto preoccupato” per gli effetti della crisi sulle carceri del Paese, dicendo che “il personale carcerario, numericamente ridotto dal virus, non è in grado di gestire la crisi”. Le sue considerazioni sono state messe nero su bianco all’interno di una lettera indirizzata al “Daily Telegraph” e scritta con una coalizione interpartitica di 50 membri della Camera dei Lord, poliziotti ed esponenti di spicco del mondo accademico e della beneficenza, che hanno tutti esortato i ministri a sospendere le pene detentive brevi. Ieri si è toccato tristemente il nuovo record di aumento giornaliero di decessi in Gran Bretagna, sono morte infatti altre 569 persone positive al coronavirus in UK. Crescono i numeri dell’epidemia per i sudditi della Regina, ormai anche in Gran Bretagna si è vicinissimi alla quota di 3.000 vittime, con il dipartimento della Salute britannico che ha ufficializzato che i casi accertati di covid-19 sono 33.718. Tunisia. Le autorità riducano il numero di detenuti durante l’emergenza Covid-19 amnesty.it, 4 aprile 2020 Amnesty International ha sollecitato le autorità tunisine a valutare urgentemente la riduzione del numero di persone in stato di fermo per aver violato le misure sanitarie di emergenza atte a prevenire la diffusione del Covid-19. Il 31 marzo, il presidente Kais Said ha concesso una grazia straordinaria a 1.420 detenuti con lo scopo di ridurre il rischio di contagio da Covid-19 nelle carceri. Sebbene si tratti di un’azione importante c’è ancora molto da fare per proteggere i detenuti, che restano a rischio durante il periodo di detenzione preventiva e di fermo da parte della polizia. Dopo l’annuncio del primo ministro Elyes Fakhfakh di un lockdown nazionale a partire dal 22 marzo, la polizia ha arrestato almeno 1.400 persone per aver violato il coprifuoco o le misure di isolamento. “Comprendiamo che chiunque violi il lockdown e le misure di distanziamento sociale potenzialmente mette a rischio il lavoro dello stato per il contenimento della diffusione del Covid-19”, ha dichiarato Amna Guellali, vice direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Ma l’arresto di un numero ancor maggiore di persone, considerato l’elevato rischio di trasmissione, mette in pericolo la loro salute e può solo contribuire a peggiorare ulteriormente l’attuale crisi sanitaria”, ha aggiunto Amna Guellali. Le autorità dovrebbero prendere in considerazione l’idea di rilasciare più detenuti, soprattutto coloro che si trovano in regime di detenzione preventiva e chi è particolarmente a rischio come i detenuti più anziani o coloro che presentano patologie pregresse. Amnesty International ha raccomandato alle autorità tunisine di prendere in considerazione l’adozione di misure di tipo non detentivo per le persone accusate di violazione delle misure di emergenza prese dallo stato per controllare la diffusione del virus. Per ridurre l’esposizione dei detenuti al Covid-19, le autorità dovrebbero, inoltre, evitare il sovraffollamento nei centri penitenziari di polizia o nelle celle dei tribunali. “Le condizioni igieniche e i servizi sanitari nelle carceri e nei centri penitenziari sono molto scarse. Le persone, spesso, si trovano in celle sovraffollate dove mantenere le distanze fisiche è praticamente impossibile”, ha concluso Amna Guellali. Ulteriori informazioni - Le tristemente note cattive condizioni e il sovraffollamento delle carceri tunisine rappresentano una grande preoccupazione per la diffusione del contagio da Covid-19. Secondo i dati del governo, le prigioni tunisine alla fine del 2018 ospitavano 22.600 detenuti, superando la capacità massima di 17.700 carcerati. Fino al 50 per cento di tutti i detenuti è in regime di detenzione preventiva e migliaia sono in stato di arresto per reati minori e non violenti, come l’uso o il possesso di sostanze stupefacenti. Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa, la popolazione carceraria è particolarmente esposta alle malattie infettive come il Covid-19 e le condizioni di detenzione possono accrescere i rischi. Il 25 marzo, Michelle Bachelet, Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha ammonito i governi delle conseguenze catastrofiche sia per i detenuti che per le comunità nel caso in cui non si affrontino le problematiche di sovraffollamento delle carceri e delle scarse condizioni di detenzione durante la pandemia di Covid-19. In ottemperanza agli standard e al diritto internazionale alle condizioni di detenzione, le autorità tunisine dovrebbero garantire a tutti i detenuti un pronto accesso all’assistenza medica. I detenuti dovrebbero godere delle stesse condizioni sanitarie a disposizione dei cittadini fuori dalle carceri, anche in materia di esami, prevenzione e cura del Covid-19. La storia di Ciham, diventata grande in una prigione dell’Eritrea di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 aprile 2020 Ieri Ciham Ali ha compiuto 23 e ha trascorso l’ennesimo compleanno in una delle congestionatissime carceri dell’Eritrea. All’angoscia di essere diventata grande in prigione si aggiunge la paura di morirci. Di Covid-19. Ciham Ali è stata arrestata quando aveva 15 anni, alla fine del 2012, poco dopo che suo padre - all’epoca ministro dell’Informazione del governo del presidente Afewerki - decise di abbandonare l’incarico e andare in esilio. Lei non ha commesso alcun reato, se non quello - inesistente per il diritto internazionale - di “parentela”, aggravato dalla circostanza che ha anche un passaporto statunitense: infatti è nata negli Usa ma è cresciuta in Eritrea. Da quasi otto anni Ciham non vede un avvocato né incontra la famiglia, che non sa neanche dove si trovi. Nello “stato-prigione” del Corno d’Africa, come raccontiamo da anni, languono migliaia di detenuti politici, giornalisti, fedeli di religioni messe al bando. Come Ciham Ali, non sono mai stati processati e sono senza contatti col mondo esterno, alcuni ormai da 20 anni. Le condizioni di prigionia sono così dure che Amnesty International le ha classificate tra i trattamenti crudeli, inumani e degradanti: le carceri sono sovraffollate, le forniture di acqua corrente, acqua potabile e cibo non scarse e i servizi igienico-sanitari insufficienti e inadeguati. Al 2 aprile, i casi ufficiali di coronavirus nel paese erano 22.