Distanziamento e ipocrisia: in cella con il virus di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 aprile 2020 Dovremmo stare ad almeno un metro dagli altri, ma nelle carceri è impossibile per i detenuti e anche per gli agenti. Troppo facile (e persino benevolo) constatare che, per dire a “Otto e mezzo” che “contro il virus si è più al sicuro in carcere che fuori, visti solo 50 casi su 62mila detenuti”, l’altro ieri il procuratore Nicola Gratteri ha azzeccato la serata sbagliata. Non solo perché ben prima di ieri - giorno della morte a Bologna del primo detenuto, un 76enne arrestato a fine 2018 per mafia e con patologie concorrenti - già si contavano due agenti e un medico penitenziari morti, 21 detenuti positivi e almeno 257 persone in “isolamento sanitario” (pur bizzarro se ad esempio realizzato con 14 persone in 4 stanze a 3 letti e una a 2 letti). Ma soprattutto perché gli inflessibili (e giusti) fustigatori della violenza “dei” detenuti in rivolta il 7-10 marzo (13 morti e milioni di danni) appaiono invece teneri come pastefrolle di fronte alla violenza “sui” 61.235 detenuti (a fine febbraio) costretti a condividere in 50.853 posti corpi e sudori, cessi e letti a castello, epatiti (ce l’ha l’11%) e crisi di astinenza (30% i tossicodipendenti), disturbi psichiatrici (40%) e mancanza di acqua calda (un terzo delle celle) o docce (metà delle celle). Sotto custodia di uno Stato che per salute pubblica impone ai cittadini il distanziamento di almeno un metro, ma tollera che ciò sia ridicolo nelle carceri e che ancora limitate siano le protezioni per i 38.000 agenti. Con il timido decreto legge, denunciato “svuota-carceri” da Salvini e dal pm Di Matteo, a scontare gli ultimi mesi a casa sono andati solo 200 detenuti, a causa dei tanti limiti normativi (sui reati) e logistici (come il mistero dei braccialetti elettronici, “complessivi 5.000 resi disponibili, di cui 920 ad oggi”). Così, a ritardare che la pentola a pressione esploda, è al solito la supplenza dei giudici: stavolta di Sorveglianza, assuntisi la responsabilità di misure alternative o domiciliari per motivi di salute a 4.138 detenuti a fine pena, scesi a 57.097 in posti però pure diminuiti (per inagibilità) a 47.482. Quei 55 bambini da liberare. Sono in carcere, a rischio virus di Luigi Manconi La Repubblica, 3 aprile 2020 Racconta la Genesi che “il Signore mise un segno su Caino affinché non lo uccidesse chi lo avesse incontrato”. Che il sangue non fosse versato, questo voleva il Signore. In nessun caso. Neanche il sangue colpevole, del primo assassino. Iddio, nel suo ottimismo, non pensò di dover proteggere anche il sangue innocente. Quel sangue che più innocente non si può. Voglio pensare che ci sia questo, una malriposta fiducia, all’origine del fatto che anche ai bambini, gli Innocenti assoluti, accade di finire in galera. Oggi, mentre ci troviamo in una reclusione domestica pesante, ma più o meno privilegiata, 55 bambini sono detenuti all’interno del sistema penitenziario italiano, prigionieri con le proprie madri. Erano 59 qualche giorno fa, ma 4 di loro sono appena usciti con le mamme dalla sezione femminile di Rebibbia, a Roma. D’altra parte, da due giorni, un’opportuna, seppure contestata, circolare del ministro dell’Interno consente al genitore di muoversi col figlio minore purché in prossimità della propria abitazione. In un articolo su questo giornale, una simile misura era stata sollecitata da Chiara Saraceno che sottolineava l’importanza di “un’ora d’aria” per contribuire all’equilibrio psicofisico dei minori costretti all’attuale quarantena. L’ora d’aria è quel tempo concesso ai detenuti fuori dallo spazio, coatto e in genere miserabile, della propria cella. E quella locuzione può suonare due volte drammatica. Per quanti, quel respiro di libertà non possono godere (i detenuti tutti) se non tra enormi restrizioni, ristrettezze e strettoie; e per quei 55 bambini galeotti resi ancora più diseguali rispetto ai loro coetanei liberi, che hanno visto riconosciuto il loro diritto all’aria aperta. E, allora, non sarebbe proprio questo il momento giusto per cancellare un simile oltraggio alla nostra civiltà giuridica? Già ora è possibile ricorrere a soluzioni diverse dalla reclusione in cella, come prevede una legge del 2011. Sarebbe sufficiente realizzare un certo numero di case-famiglia, distribuite in 5 o 6 città, il cui costo, secondo una stima attendibile, non supererebbe il milione e mezzo di euro. Sarebbe una di quelle scelte straordinarie, reclamate con forza dal tempo straordinario che viviamo. D’altra parte, come ricorda Sofia Ciuffoletti (Il Foglio del 24 marzo), è esattamente quanto richiesto dall’Organizzazione mondiale della sanità nella sua guida per il Covid-l9. Liberare quei bambini trasmetterebbe un importante messaggio: la consapevolezza che il carcere è un luogo a rischio e terribilmente patogeno; e lo è tanto più quanto meno risulta trasparente e conoscibile. Basti pensare che i numeri del contagio sono oggetto di un tetro lira e molla tra le cifre rassicuranti, fornite dall’amministrazione penitenziaria, e quelle più drammatiche indicate dai sindacati degli agenti. Intanto, un dato certo c’è: ieri è morto un detenuto del carcere bolognese Dozza, Vincenzo Sucato, 76 anni, e sono risultati positivi due reclusi e un poliziotto dello stesso istituto. Per quanto riguarda, poi, gli effetti del decreto “Cura Italia” de117 marzo sullo stato di abnorme congestione del sistema penitenziario, si ricordi come vi sia prevista la possibilità per i detenuti semi-liberi di restare a dormire fuori dal carcere; e per i condannati fino a 18 mesi quella di scontare la pena ai domiciliari (con l’esclusione di una nutrita serie di categorie di detenuti). Il provvedimento è stato giudicato gravemente inadeguato dai garanti dei diritti dei reclusi e dai sindacati della polizia penitenziaria, da Nessuno tocchi Caino, da Antigone, dal Partito Radicale - che ha pronunciato l’impronunciabile richiesta di amnistia - e dal Csm. La previsione più attendibile è che, a fronte di un sovraffollamento di circa 10-12 mila unità, a uscire sarà un numero assai ridotto di reclusi. Una prima conferma è venuta dal ministro della Giustizia che, a una settimana dal provvedimento, ha dichiarato: “Sono 50 i detenuti che hanno beneficiato della misura” e “150 quelli in semilibertà che hanno ottenuto di non rientrare in carcere la sera”. Se le cose proseguissero con questo ritmo, più che di un fallimento si tratterebbe di una tragica beffa. Mancano informazioni dettagliate, ma se consideriamo un carcere come Rebibbia Nuovo Complesso, dove il sovraffollamento raggiunge il 153%, i dati non fanno presagire nulla di buono. A oggi si contano 452 domande di accesso alla detenzione domiciliare, 200 inoltrate alla Sorveglianza, tredici decise: 10 rigettate e 3 accolte. 3 (tre). Il ministro Bonafede, palesemente, è a disagio di fronte a una responsabilità più grande di lui, imbracato da due meccanismi perfettamente identici: il sostegno morale, si fa per dire, di Marco Travaglio e di tutti i giustizialisti di destra e di sinistra; e l’intimidazione morale, si fa per dire, di Matteo Salvini e dei suoi Lanzichenecchi di latta. Quella che ne esce peggio è la salute pubblica, in un luogo così contratto e insidioso come il carcere. Ma, a questo punto, c’è qualche poliziotto penitenziario seriamente convinto che la sua salute interessi davvero qualcosa a Bonafede e a Salvini? Coronavirus. Ass. Giovanni XXIII: “Liberate i bambini in carcere”! Vita, 3 aprile 2020 La pandemia attuale riapre una delle profonde ferite del diritto penale italiano. La legge n. 62/2011, in materia di detenute madri, presenta limiti che debbono essere superati. Se le prospettive di riforma erano già urgenti, ora sono ancor più esigenti a causa del sovraffollamento delle carceri “Non potremo mai accettare l’idea che dei bambini continuino a vivere dietro le sbarre, tanto più oggi nel pieno dell’emergenza coronavirus. Questi bimbi, che non hanno commesso alcuna colpa, sono esposti ad un enorme rischio in carceri sovraffollate”. È quanto dichiara Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in seguito alla notizia della prima vittima tra i reclusi e della diffusione della pandemia nelle carceri italiane, a partire da quello di Rebibbia. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2019 sono presenti nelle carceri italiane 48 bambini che vivono al seguito delle loro madri che stanno scontando la pena. “Si conceda alle mamme ed i loro figli di essere accolti presso le case famiglia - propone Ramonda - e, laddove questo sia impraticabile per le loro mamme, si liberino questi bambini con il collocamento presso parenti idonei e/o famiglie affidatarie”. La pandemia attuale riapre una delle profonde ferite del diritto penale italiano. La legge n. 62/2011, in materia di detenute madri, presenta limiti che debbono essere superati. Se le prospettive di riforma erano già urgenti, ora sono ancor più esigenti a causa del sovraffollamento delle carceri. “È indispensabile adottare provvedimenti eccezionali e indifferibili - conclude Ramonda - tali da non permettere a nessun bambino di continuare a scontare la pena in carcere con le proprie madri. Il Paese abbia a cuore le sorti di questi bambini che vivono in galera senza alcuna colpa. Il Paese non volti la faccia e protegga questi suoi figli”. Virus, la morte arriva in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2020 Il detenuto morto per coronavirus era da un giorno e mezzo ai domiciliari all’ospedale, quando oramai la sua situazione di salute si è aggravata tanto da finire ricoverato alla sala di rianimazione del policlinico Sant’Orsola di Bologna. In sintesi, ha avuto formalmente lo stato di detenzione ospedaliera il 30 marzo scorso, quando oramai è finito in terapia intensiva per poi spirare la notte del primo aprile. Parliamo di Vincenzo Sucato, classe 1944, era detenuto nel carcere la Dozza di Bologna ed era accusato di 416 bis. La verità è che da tempo presentava gravi patologie e, quindi, era in serio pericolo stando in un carcere dove, in seguito, erano stati accertati casi di contagio da coronavirus. Non solo. Non è vero - come scrive il Dap - che l’uomo è stato sottoposto al tampone dopo essere stato ricoverato presso l’unità di medicina d’urgenza. In realtà è stato sottoposto al tampone quando era già in carcere, proprio perché all’istituto penitenziario bolognese erano stati, da tempo, accertati casi di contagi tra il personale penitenziario. Da sottolineare che casi di positività sono stati resi pubblici dalla stampa il venerdì del 20 marzo. Il suo difensore, avvocato Domenico La Blasca del foro di Palermo, ha spiegato a Il Dubbio che l’istanza per i domiciliari era stata presentata il 16 marzo scorso, quando già cominciava a circolare la voce di alcune persone che avrebbero presentato sintomi da coronavirus. Voci all’epoca però ancora non confermate. L’istanza era della sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, eccependo che le condizioni di salute si erano aggravate e mancavano i farmaci specifici per la patologia glicemica di cui era affetto Sucato. Inoltre era stato colpito da un altro episodio di ictus celebri durante una notte e rilevato solo negli esami strumentali successivamente. Non solo, era un soggetto ad alto rischio della vita a ragione della stenosi carotidea sinistra dell’80% asintomatica con occlusione nota dell’arteria carotide destra. Ma il motivo principale della richiesta dei domiciliari era dovuto dal fatto che “essendo un soggetto di anni 76 anni - aveva scritto nero su bianco l’avvocato - affetto da numerose patologie, l’eventuale contagio del coronavirus avrebbe un esito fatale”. Il Gup ha però rigettato l’istanza il 19 e notificata il giorno dopo. Da sottolineare - ci tiene a specificare l’avvocato - che in quel periodo l’ufficio giudiziario era sommerso di richieste. Dopodiché - visto che le notizie di contagio sono state confermate - l’avvocato ha fatto ulteriore istanza il 24 marzo e, prima ancora, ha chiesto urgentemente una relazione alla direzione del carcere di Bologna sullo stato di salute del suo assistito e se erano state intraprese delle “cautele per prevenire il contagio del Covid 19 trattandosi di un soggetto ad altissimo rischio quoad vitam e l’esito dei recenti esami di cui si era in attesa di esecuzione sin dal mese di agosto 2019, ribaditi in data 23.01.2020 e non ancora eseguiti”. Ma nulla da fare, l’avvocato non ha ricevuto nessuna risposta dalla direzione del carcere. È stato poi il giudice a chiedere informazioni al carcere per valutare l’istanza. Lo ha scritto nero su bianco nel provvedimento premettendo che ha fatto richiesta della relazione sanitaria del detenuto “il 25 - si legge nel provvedimento - e poi sollecitata il 27 marzo”. Solo il 29 il giudice ha finalmente ricevuto una nota dalla direzione del carcere che il detenuto, a seguito dell’esito positivo del tampone, è stato trasferito in ospedale nella serata del 27. A quel punto - il 30 marzo - arriva finalmente il provvedimento favorevole alla detenzione ospedaliera. Ma oramai Sacuto si era aggravato e portato in terapia intensiva. Tempo un giorno e mezzo muore. L’avvocato Domenico La Blasca non ci sta e ha annunciato che farà una denuncia nei confronti dei responsabili della Casa circondariale di Bologna, presentandola alle procure di Palermo e Bologna. Il Covid uccide in carcere. I sindacati: “Commissariare” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 aprile 2020 A Bologna il primo detenuto positivo morto. La Uilpa: “Gestione diretta del governo”. Lettera dai reclusi di Rebibbia: “Non chiediamo indulto, ma trattamenti e più domiciliari”. È morto all’ospedale Sant’Orsola di Bologna - non in carcere, è l’unica nota consolatoria di una brutta notizia purtroppo attesa - ed è il primo, un detenuto positivo al Coronavirus. Secondo le stime della Uil-Pa, il sindacato di polizia penitenziaria che ha divulgato la notizia ieri, “è solo l’inizio”. Secondo il segretario nazionale Gennarino De Fazio, che accusa il Dap di “oscurantismo sui dati reali”, il virus “sta già dilagando nelle carceri”. Siciliano di 76 anni, accusato di associazione mafiosa, il detenuto morto a Bologna, V. S., dal 2018 su ordine del Gip di Termini Imerese era sottoposto a misura cautelare in attesa di primo giudizio, e da alcuni mesi era nel circuito ad alta sicurezza del Dozza. Sei giorni fa il tribunale siciliano gli aveva concesso i domiciliari in ospedale, dove era stato ricoverato per altre patologie il 26 marzo, molto probabilmente anche per evitare il piantonamento. Nel carcere bolognese, dove secondo i dati ufficiali sono stati trovati positivi altri due detenuti e un agente, e molti sono in isolamento, sarebbero stati eseguiti “150 tamponi, 92 su detenuti e 58 su poliziotti”. Finora sono morti per il Covid 19 anche due agenti penitenziari ma, riferisce De Fazio intervistato dal manifesto, “secondo le nostre stime tra i poliziotti ce ne sono almeno 200 positivi accertati in tutta Italia, e quasi il triplo in isolamento fiduciario”. Questa volta il decesso è avvenuto in ospedale, “speriamo non capiti mai in carcere perché allora sarebbe davvero messa a rischio la tenuta stessa degli istituti”, fa notare il sindacalista. “Secondo l’art.87 del “Cura Italia” - prosegue - potremmo essere dispensati dal servizio se solo fossimo venuti a contatto anche indirettamente con un paziente Covid. Eppure sono tutti al lavoro: il corpo di polizia penitenziaria sta dando prova di grande responsabilità e abnegazione”. Ma il problema è di tutti, avverte De Fazio: “Temiamo che proprio dal carcere, dove il virus è arrivato in differita, possa verificarsi un contagio di ritorno sul territorio italiano, una volta che saremo usciti dall’emergenza”. In questo momento tragico, chiarisce il segretario Uilpa, “nessuno vuole strumentalizzare l’accaduto”. Le carceri sono in perenne emergenza da decenni, ammette elencando le ben note problematiche: “Sovraffollamento in primis, debolezza dei modelli organizzativi, sanità a pezzi, personale sotto organico, offerta rieducativa carente”. Eppure, aggiunge, “non possiamo esimerci dal ritenere incompetenti e assolutamente inadatti a fronteggiare la situazione gli attuali ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, e il capo del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. In un altro momento avremmo chiesto la loro rimozione. Non lo facciamo per senso di responsabilità, ma chiediamo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di assumere pro-tempore, almeno sino al perdurare dell’emergenza sanitaria, la gestione diretta delle carceri. Perché - conclude De Fazio - indugiare ancora potrebbe determinare l’irreparabile”. A chiedere di intervenire subito sono in tanti. L’associazione Antigone che, come i Radicali italiani, indica la via nell’ampliamento delle misure contenute nel “Cura Italia”, stima: “Sappiamo che il 67% dei detenuti ha almeno una patologia sanitaria. Di questi l’11,5% era affetto da malattie infettive e parassitarie, l’11,4% da malattie del sistema cardio-circolatorio, il 5,4% da malattie dell’apparato respiratorio. Inoltre che il 62% dei reclusi ha 40 anni o più e che, al 31 dicembre 2019, ben 5.221 persone avevano più di 60 anni”. Per Rifondazione Comunista - Sinistra Europea, “bisogna concedere la detenzione domiciliare almeno a 10.000 reclusi”. Mentre il Partito Radicale e l’associazione Nessuno tocchi Caino affermano che solo con l’indulto e l’amnistia si possano “ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria” ma, in assenza di volontà politica, almeno “il Presidente della Repubblica eserciti intanto il suo potere di grazia a fini umanitari e la conceda anche cumulativamente, perché è una sua prerogativa che il Ministro della Giustizia non può ostacolare” (il 12 aprile la VI marcia per l’amnistia su Radio Radicale). Ieri comunque, la Campania e la Toscana hanno annunciato “a breve” test ematici per tutto il personale penitenziario e i detenuti. Ma è poca cosa. Mentre i Radicali denunciano che nel milanese Opera sono state distribuite agli agenti “bavagliette di cotone semi-trasparente al posto delle mascherine”, i detenuti di Rebibbia hanno scritto una lettera arrivata anche al Garante regionale del Lazio, Stefano Anastasia, nella quale descrivono una situazione “a dir poco apocalittica” molto frustrante e, spiegano, “malgrado l’immane sforzo” degli uffici preposti alla gestione dei detenuti, le misure finora prese “si stanno rivelando un buco nell’acqua”. Non chiedono “affatto” l’indulto, ma di “valorizzare al massimo le relazioni comportamentali dell’istituto” e di “concedere un automatismo” per i domiciliari “quantomeno per soggetti con pena residua tra i 15 e i 24 mesi”. Coronavirus, la morte del primo detenuto riapre il dibattito sulle carceri di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2020 “Subito 10mila ai domiciliari”. “Così cedimento dopo rivolte”. La prima vittima del virus fa tornare d’attualità la discussione sulle condizioni dei penitenziari. Dove ad oggi sono positivi 21 carcerati e 116 guardie penitenziarie (con due vittime). Antigone: “Allargare subito la platea di chi può avere diritto agli arresti domiciliari”. Il procuratore Gratteri e i consiglieri del Csm Di Matteo e Ardita contrari: “Così Stato indietreggia dopo le rivolte”. Le critiche al Cura Italia e il problema dei congegni elettronici: sono 5mila, ma solo 920 già disponibili. Intanto anche i sindacati di polizia penitenziaria si dividono: “Nei penitenziari il virus potrebbe essere in piena fase di sviluppo e ascesa”. “Caso di Bologna isolato, non esiste luogo più sicuro del carcere”. Le posizioni sono essenzialmente due. La prima: per evitare il contagio bisogna aumentare il numero dei detenuti agli arresti domiciliari e quindi fare uscire subito almeno diecimila carcerati. La seconda: nonostante l’emergenza coronavirus, non possono essere concessi gli arresti casalinghi ai detenuti in modo automatico, cioè senza valutare caso per caso il pericolo di fuga e di reiterazione del reato. E poi, in questo modo, lo Stato darebbe un segnale di resa. Soprattutto dopo le violente proteste delle ultime settimane. La morte del primo detenuto affetto da Covid-19 riapre il dibattito sulla condizione dei detenuti al tempo dell’emergenza. Una situazione che era già al limite, visto che secondo i dati del ministero della Giustizia nel nostro Paese i posti nei penitenziari sono meno di 49mila ma ospitano più di 58mila persone. Anche per questo motivo quello delle carceri rappresenta uno dei fronti più delicati con l’esplosione dell’epidemia, come si è visto con le rivolte scoppiate in tutta Italia nei primi giorni dell’emergenza. Ma il problema esiste anche fuori dall’Italia. L’esperimento degli Usa - Negli Usa, il paese con più contagi in assoluto (e una popolazione carceraria di 2milioni e 300mila persone) dal 23 marzo scorso alcuni Stati - tra gli altri California, New York, Ohio - hanno deciso di rilasciare i detenuti che hanno commesso reati minori, quelli più anziani e i malati. Dal 2 aprile, invece, il dipartimento di Giustizia ha ordinato ai detenuti delle carceri federali (circa 180mila) due settimane di quarantena: non potranno uscire dalle loro celle. Sono tutte misure pensate per provare a bloccare il contagio nei penitenziari: strutture sigillate e con pochi contatti con l’esterno, ma che rischiano di diventare enormi focolai nel caso di un’iniziale diffusione del virus. Anche per questo la morte del primo detenuto ha riaperto il dibattito anche in Italia. Penitenziaria: “Virus in ascesa nelle carceri” - Quello morto a Bologna - 77 anni, in carcere con accuse di mafia e con altre patologie pregresse - era uno dei due detenuti positivi ricoverati in strutture ospedaliere. In totale - secondo i dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - sono 21, 17 dei quali sono in isolamento in camere singole all’interno delle stesse prigioni. Molto più numerosi i positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria: sono 116, con due vittime, su quasi 38mila guardie carcerarie in totale. “Sembra che il virus si stia diffondendo in differita nelle carceri e che, mentre nel Paese pare si stia registrando il picco, nei penitenziari potrebbe essere in piena fase di sviluppo e ascesa. Per questo la gestione dell’emergenza dovrebbe essere affrontata in maniera molto più efficace e organica da molti punti di vista, sia per la parte che riguarda l’utenza detenuta, sia sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro e delle misure a protezione degli operatori e, di rimando, per gli stessi reclusi”, dice Gennarino De Fazio, del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria. La pensa diversamente Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, secondo il quale quello di Bologna “è un episodio che non fa testo. L’uomo soffriva di numerose altre patologie ed il Covid gli ha dato il colpo di grazia. Non esiste luogo più sicuro del carcere, dove i detenuti sono seguiti e curati”. I provvedimenti del governo - Le due posizioni all’interno dei sindacati penitenziari rappresentano fedelmente gli schieramenti che si sono formati sulla questione anche all’esterno delle carceri. Dove per prevenire il contagio il governo ha previsto alcune norme ad hoc inserite nel decreto Cura Italia. Ci sono due tipi di interventi: uno economico, con lo stanziamento di 20 milioni di euro destinati alla ristrutturazione delle carceri danneggiate dalle rivolte; e poi uno normativo per diminuire l’affollamento nei penitenziari. In pratica i detenuti condannati per reati di minore gravità, e con meno di 18 mesi da scontare, potranno farlo agli arresti domiciliari. Se però il residuo di pena è superiore a sei mesi i detenuti dovranno indossare il braccialetto elettronico, cioè quel congegno che consente il controllo a distanza. Il problema dei braccialetti - Il provvedimento del governo si è prestato a molteplici critiche per diverse ragioni, spesso anche opposte tra loro. A livello pratico c’è la questione dei braccialetti. Il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, ha detto alla Camera che con il Cura Italia potranno accedere ai domiciliari fino a un massimo di seimila detenuti. I congegni elettronici messi a disposizione dal dipartimento di Pubblica sicurezza sono cinquemila, di cui solo 920 al momento della firma del decreto tra Dap e Viminale il 27 marzo. Per “sbloccare” gli altri serve tempo, visto che il procedimento d’installazione è farraginoso: in media ci vogliono tra i due e i sei giorni e occorre il personale specializzato. Secondo i calcoli del garante dei detenuti, Mauro Palma, quel provvedimento “prevede l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana”. In questo modo ci vorrebbe dunque troppo tempo per consentire il rilascio di tutti i detenuti che hanno ottenuto i domiciliari. E anche per questo motivo se il guardasigilli ha chiesto al commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri, di attivarsi per reperire altri congegni elettronici. “Subito liberi 10mila detenuti” - Il provvedimento del governo divide anche sul fronte dei detenuti titolati ad accedere al beneficio dei domiciliari. Dopo la morte del carcerato a Bologna, i Radicali e il Garante sono tornati a chiedere all’esecutivo di ampliare la platea delle persone alle quali concedere i domiciliari. “Bisogna mandare agli arresti domiciliari almeno altri 10mila detenuti tra quelli che hanno un fine pena breve e coloro che soffrono di patologie o hanno età per cui un contagio potrebbe essere fatale”, dice per esempio Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Sappiamo - continua - che il 67% dei detenuti ha almeno una patologia sanitaria e che ben 5.221 persone hanno più di 60 anni. In questo momento di grande sforzo da parte del governo il carcere rischia di essere un luogo a rischio anche per gli operatori”. Chiede l’allargamento “della platea” dei beneficiari “a chi ha un residuo pena inferiore a quattro anni” l’associazione Nessuno Tocchi Caino, che però preferirebbe percorrere “la via maestra”, cioè quella dell’indulto o dell’amnistia. Il parere del Csm - I provvedimenti del governo hanno spaccato anche il Consiglio superiore della magistratura. La settimana scorsa l’organo di autogoverno delle toghe ha approvato un parere con cui definisce “inadeguate” le misure varate dall’esecutivo. E questo anche per “l’indisponibilità” dei congegni elettronici. “Questo consentirà di fatto ad un ridotto numero di detenuti di poter uscire dal carcere, poiché è notoria la indisponibilità di un numero sufficiente di braccialetti”, ha detto Giuseppe Marra, presidente della sesta commissione che ha messo per iscritto il parere. Che però è stato approvato a maggioranza, e non all’unanimità. Contro hanno votato i consiglieri togati di Area, la corrente di sinistra della magistratura, che avrebbero voluto chiedere al governo “scelte drastiche”. Quali? L’applicazione dei domiciliari a tutti quelli che devono scontare fino a due anni di pena. Una misura che farebbe aprire le porte del carcere a 21mila detenuti. “Così lo Stato dà un segno di cedimento” - Contrari al documento del Csm anche Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, per motivi però completamente opposti da quelli di Area. Durante il suo intervento a Palazzo dei Marescialli, qualche giorno fa, l’ex pm di Palermo ha definito “un indulto mascherato” il provvedimento dell’esecutivo, perché tra le condizioni ostative alla concessione dei domiciliari non è incluso “il pericolo di fuga e la reiterazione del reato”. In questo modo, secondo l’ex pm di Palermo, è stato creato un “automatismo che potrebbe prescindere dalla valutazione del magistrato di sorveglianza”. I due magistrati hanno bocciato le norme sulle carceri anche per un’altra ragione: “Questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali”. Quindi anche se nei fatti “non è un cedimento dello Stato rischia di apparire tale”. Fuori dal Csm pensa allo stesso modo Nicola Gratteri: “Scarcerare i detenuti è un pessimo messaggio da parte dello Stato. Dopo aver bastonato le guardie penitenziarie vengono scarcerati: sembra un premio”. Le indagini sulle rivolte - Dal ministero della giustizia fanno notare come la norma preveda che “il magistrato di sorveglianza possa sempre ravvisare motivi ostativi alla concessione della misura”. E sulle rivolte sottolineano che la possibilità dei domiciliari non è prevista, tra gli altri, anche per “chi ha partecipato ai disordini avvenuti nelle carceri negli scorsi giorni”. Anche su questo fronte, però, non c’è accordo tra politica e addetti ai lavori: “Le rivolte nelle carceri - dice una fonte investigativa al fattoquotidiano.it - sono state fatte dalla manovalanza ma organizzate dai boss, dai capi che spesso durante i disordini sono stati buoni nelle loro celle, consapevoli di quello che sarebbe successo dopo”. Detenuto morto a Bologna, Sgarbi contro Bonafede: “È omicidio premeditato” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 3 aprile 2020 C’è l’edizione speciale di Mentana: il caso Covid-19 nelle carceri, a partire da quello di Bologna, rischia di trasformarsi in una strage di Stato. Arriva l’appello di Amnesty International: “Governi di ogni parte del mondo stanno adottando provvedimenti per contrastare la diffusione del Covid-19 nelle prigioni: luoghi in cui l’impossibilità di applicare il distanziamento sociale e le inadeguate condizioni igienico-sanitarie possono favorire il contagio”. Alla fine anche la politica se ne accorge. La reazione del responsabile sicurezza del Partito Democratico, Carmelo Miceli, deputato in commissione Giustizia, è forte: “Nello stesso giorno un detenuto muore per Covid 19 e un assistente capo della Polizia Penitenziaria si toglie la vita. Non bastano gli appelli di Papa, garanti nazionali e regionali, magistrati, universitari, associazioni e sindacati per capire che c’è da tutelare immediatamente tanto i detenuti quanto la polizia penitenziaria? Il ministro Bonafede deve prendere atto che l’emergenza carceraria è una pentola a pressione che sta per esplodere. Cambi impostazione prima che sia troppo tardi”. L’altolà dell’alleato di governo risuona a chiare lettere, ma dal Movimento nessuno risponde. Per Forza Italia parla l’onorevole Ruffino: “Il ministro Bonafede non ha mosso un dito per alzare le tutele sanitarie del personale penitenziario e dei detenuti. L’idea dei cellulari per riattivare un minimo di relazioni sociali fra i detenuti e i loro familiari è una goccia d’acqua nel mare di difficoltà in cui viene a trovarsi il mondo carcerario. Delle due l’una: o il ministro provvede ad alleggerire la popolazione carceraria, secondo criteri di minore pericolosità sociale e anagrafe del detenuto, oppure rifornisce dei dispositivi sanitari essenziali la popolazione carceraria e il personale. Non esiste una terza possibilità per tutelare la salute delle persone, perché anche per gli agenti penitenziari come per i detenuti vale la tutela costituzionale della salute”. “L’associazione Nessuno tocchi Caino - Spes contra spem chiede al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica di prestare la massima attenzione al rischio di una pandemia estesa alle carceri, che avrebbe effetti disastrosi non solo per i detenuti e gli operatori penitenziari ma anche per la comunità esterna”, dicono i dirigenti dell’associazione Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, e chiedono al premier e al Colle “di intervenire con urgenza e di adottare tutte le misure necessarie volte a disinnescare la bomba ad orologeria, ora anche epidemiologica, che apprendisti artificieri della “certezza della pena” hanno da tempo dolosamente innescato nelle carceri e che ora non vogliono o non sanno più disinnescare”. L’idea potrebbe essere una moratoria dell’esecuzione penale, per pene brevi o residui brevi da espiare. “A Bologna è successo tragicamente quello che purtroppo avevo previsto”, dice Vittorio Sgarbi al Riformista, dopo averne parlato con il ministro al telefono: “Se non vuole essere accusato di omicidio premeditato, Bonafede deve consentire ai detenuti di essere distanziati in tutta Italia. A partire da tutti coloro che sono in custodia cautelare, e che devono uscire tutti: troppe intercettazioni vengono usate per mettere a rischio la vita di condannati senza sentenza”. Un uno-due letale, quello giocato da certa magistratura: “Prima ti intercettano i magistrati, poi una volta che stai dentro ti intercetta il virus, e muori. Quello che dimostra di non capire Gratteri, che dice di voler fare le carceri più grandi, perdendo così l’occasione di tacere. Una grande casa con le stesse regole delle case piccole, non cambia il margine di rischio individuale. La chiave di tutti i decreti legge è la distanza minima. Qui siamo alla tortura, alla violenza intenzionale, al tentato omicidio”. Per questa ragione, come aveva anticipato al nostro giornale, procede con la denuncia del ministro Bonafede a tutte le 130 Procure della Repubblica: ieri ha unito la sua iniziativa a quella del Partito Radicale. Procurata epidemia. E adesso si indaghi. Chi sono le persone detenute morte nelle rivolte in carcere di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 3 aprile 2020 Rouan, Artur, Marco, Salvatore e gli altri. Ecco chi erano le 13 persone morte in carcere durante le rivolte. Ecco chi erano le 13 persone morte in carcere durante le rivolte. Di alcuni detenuti si conoscono pochissimi dati. Per altri familiari e conoscenti aggiungono qualche tassello in più, ma c’è anche chi ha paura a chiedere verità e giustizia. Le istituzioni carcerarie continuano a negare informazioni e aggiornamenti. “Devono dirmi come è morto e perché. Era un ragazzo sveglio, non avrebbe mai rischiato la vita. Non ha preso volontariamente la droga o le pastigli. Non può essere. C’è qualcosa che non convince”. La mamma di Rouan Ourrad (meno probabilmente Abdellah o Abdellha, i cognomi con cui compare negli elenchi ufficiosi), chiusa nella sua casa di Casablanca, riesce solo a piangere. Ripete, da giorni, le stesse due domande. Come? Perché? A raccontarlo è l’imam che guidava le preghiere nel carcere di Modena, Abouabid Abdelaib, diventato un punto di riferimento per la famiglia d’origine dell’uomo. Rouan aveva 34 anni e origini marocchine. Era uno dei 13 detenuti che tra l’8 e il 10 marzo hanno perso la vita durante e dopo le rivolte scoppiate nelle case di reclusione di mezza Italia, azioni di protesta innescate dalla compressione dei diritti minimi, da timore della diffusione del coronavirus e dalla coabitazione forzata, dal blocco dei colloqui con i parenti e delle uscite in permesso o per lavoro, dalla sospensione delle attività trattamentali e dei servizi garantiti dai volontari, dal mancato afflusso di droga dall’esterno e da chissà che altro. Il suo cuore si è fermato mentre lo trasferivano al carcere di Alessandria. Al Sant’Anna gli restavano meno di due anni da scontare, il residuo di una somma di piccole pene per spaccio da strada. Avrebbe potuto chiedere una misura alternativa alla detenzione, ma fuori non aveva appoggi solidi. Il fratello più piccolo era ed è in cella, una sorella abita in Germania e un fratello in Francia, un altro ancora era rientrato in Marocco quando il padre è morto. A una trentina di chilometri da Modena sta un fratello gemello, El Mehdi, sconvolto, preoccupato, spaventato. “Quando Rouan è stato arrestato - si sfoga, al primo contatto - nostra madre ha perso il sonno. Non ci dormiva la notte. Per questo ero molto arrabbiato con lui. E poi c’erano problemi con i documenti, complicazioni da risolvere. Non ho fatto abbastanza per aiutarlo. Adesso non si può tornare più indietro”. E ora lui ha paura di ricadute negative, per sé stesso e per la famiglia, tanto da supplicare di cancellare i commenti usciti di getto. Almeno due detenuti - dal poco che si è saputo, aggirando il muro di silenzio alzato dalle istituzioni carcerarie e dai referenti istituzionali - avevano figli. Ariel Ahmad, cittadino marocchino di 36 anni, era padre di una ragazzina di 12 anni, avuta dalla ex convivente italiana. Non la vedeva da tempo. Non riusciva a togliersela dai pensieri e dal cuore. “Era un uomo timido, carino, gentile - dice Paola Cigarini, storica volontaria del carcere modenese, da settimane impossibilitata ad entrare in istituto - Ringraziava sempre, anche per le piccole cose. Non era una persona cattiva. Non riesco a pensarlo come uno che promuove una rivolta, un trascinatore”. Condannato in via definitiva per resistenza, spaccio e false attestazioni sull’identità (in occasione di un arresto fu registrato come Erial), sarebbe tornato in libertà il 14 gennaio 2022. Anche Agrebi Slim, quarantenne di origine tunisina, aveva una figlia. Ritenuto responsabile di un omicidio a Bologna, con la bimba e la madre in Francia, non aveva potuto vederla crescere. “La ex compagna era venuta in Italia per testimoniare a suo favore - ricorda l’avvocata di allora, Donatella Degirolamo - e così aveva fatto una amica. Poi io non le ho più viste. E nemmeno lui, credo. Mi è rimasta l’immagine di lui come di un uomo solo. Della bimba gli era rimasta una foto, scattata quando aveva un anno”. Dal Sant’Anna sono usciti con i piedi davanti, destinazione tavolo delle autopsie e morgue, anche Hafedh Chouchane (o Hafedeh Chouchen, 36 anni, tunisino, pochi giorni alla scarcerazione), Ben Mesmia Lofti (o Mesmia, 40 anni, tunisino) Alì o Alis Bakili (52 anni, pure lui tunisino). Per loro e per Agrebi e Ariel - lo ha scritto la Gazzetta di Modena - i primi esami post decesso confermano la tesi dell’overdose di un cocktail di psicofarmaci e metadone, disponibili in gran quantità. Non sono state rilevate tracce di una ingestione forzata del mix letale. Nessun segno di lesioni né di azioni violente. Il reato per cui la procura ha aperto un fascicolo, “omicidio colposo plurimo”, al momento si conferma una scelta tecnica, formale, necessaria per svolgere una serie di approfondimenti. Non risultano indagati, in questa fase pare non si prospettino scenari alternativi. Si attende l’esito degli esami tossicologici per confermare - o smentire - la direzione presa dall’inchiesta penale, cui si affianca un’inchiesta ministeriale. Forse convergeranno al Palagiustizia di Modena anche gli atti dei primi accertamenti sulla fine tragica degli altri detenuti “modenesi”, spirati dopo la decisione di smistarli in penitenziari non andati fuori controllo: oltre a Rouan, Ghazi Hadidi (o Hadidi, tunisino di 35 anni con una condanna definitiva per una violenza pesante, deceduto sulla strada per Verona), Artur Iuzu (moldavo di 31 anni, in custodia cautelare, arrivato a Parma senza vita) e Salvatore Cuono Piscitelli (mandato a Ascoli). Pure di quest’ultimo, sebbene fosse italiano, non si è saputo quasi nulla: aveva 40 anni compiuti in gennaio e il fine pena il 17.8.2020. Ghazi era assistito dall’avvocato Alberto Emanuele Boni, lo stesso difensore di Rouan. “Se è vero che questi ragazzi stavano male per aver ingerito metadone e pasticche ed erano cianotici - rimarca -non si capisce perché non li abbiano portati e subito negli ospedali più vicini al carcere, consentendo di curarli per tempo, di salvarli. Invece no. Hanno fatto una cosa insensata. Hanno deciso di spedirli in penitenziari di città lontane, non è dato sapere se in ambulanza o su blindati. Sono morti durante il viaggio. Lo Stato li aveva in custodia. Lo Stato, se vuole dirsi civile, dovrà dare spiegazioni. Perché non si sono prevenute le rivolte? Perché i disordini non sono stati contenuti, prima che arrivassero alle conseguenze costate la vita a tutti questi detenuti? E perché c’era tutto quel metadone disponibile? Si è sentito dire che si trattava di non pochi litri”. Kedri Haitem, 29enne tunisino, stava da pochi mesi alla Dozza di Bologna ed è morto lì, quando si sono spenti i fuochi e gli echi della rivolta. Arrestato nel 2019 per delle rapine, reduce da una lunga condanna per altre vicende scontata a Reggio Emilia, era in custodia cautelare, per legge “non colpevole”. In patria faceva il sarto, dentro l’aiuto cuoco e l’addetto a quella che nel gergo interno si chiama Mof, la “manutenzione ordinaria fabbricato”, piccole riparazioni, tinteggiature, interventi da muratore e idraulico. Sempre nel carcere reggino aveva percorso altre tappe di un cammino positivo ed era riuscito a conquistare un lavoro esterno, di pubblica utilità. Gli operatori avevano scommesso su di lui, la comunità esterna pure. Si prendeva cura di aree verdi e piante in un piccolo comune di provincia. Poi un inciampo, la liberazione a fine pena, il ritorno dietro le sbarre. Alla Dozza era seguito dai mediatori culturali. Alle prime avvisaglie del rischio coronavirus, a fine febbraio, i loro servizi non sono stati considerati essenziali - pur essendolo per molti detenuti stranieri e di conseguenza per il personale interno stremato - e il comune ha deciso di tenerli a casa, abilitandoli poi a lavorare via Skype e per telefono solo dal 25 marzo. Non è stato più dato l’accesso ai volontari, altre figure fondamentali. Alcuni reparti sono stati “espugnati” dai detenuti in rivolta, altri sono rimasti inviolati. Probabilmente anche Kedri ha ingerito psicofarmaci, saccheggiati in infermeria, e forse del metadone. La procura, per confermare o smentire che la causa del decesso sia una overdose e accidentale, chiede tempo. Devono essere depositati e valutati i risultati delle analisi tossicologiche. Non solo. Qualcosa sembra non tornare. L’oppioide, dopo i disordini di Modena e i primi morti, doveva essere messo in un posto ultrasicuro in tutte le case di reclusione. Radio carcere ipotizza che non sia andata così, non a Bologna, e che il ragazzo tunisino e i compagni lo abbiano trovato e bevuto, miscelato con il resto. Ed era della Dozza l’anziano recluso per mafia - posto agli arresti domiciliari in ospedale pochi giorni prima del decesso - stroncato dal coronavirus. Altro istituto, altre devastazioni, altre tragedia. I carri funebri hanno portato via dal carcere di Rieti i cadaveri di Carlo Samir Perez Alvarez (nativo dell’Equador, 28 anni), Ante Culic (41 anni, croato, fine pena il 27.5.2024) e Marco Boattini (40enne della zona di Pomezia, in attesa di processo d’appello). Per due non si trova nessuno disposto a parlare. “Purtroppo nemmeno il nostro ufficio è riuscito ad avere altri dati. E non abbiamo alcun contatto con le famiglie di origine”, è costretto ad ammettere Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio. Per Marco i giornalisti del Venerdì di Repubblica hanno trovato qualche brandello di storia e una cugina. Rosa. Era entrato in carcere “dopo una sentenza per una rissa aggravata, oltre che per questioni di droga. E la droga aveva caratterizzato gli ultimi passi della sua esistenza: la morte della madre lo aveva sconvolto. Il resto lo avevano fatto i rapporti sempre più sottili con il padre - che da tempo viveva all’estero - e con il fratello. La sua casa, nella zona di Pomezia, era diventata una sorta di “comune”: occupata da un gruppo di suoi amici balordi, in realtà spacciatori, che riempivano Instagram di filmati di Marco impegnato in cose demenziali, alle volte umilianti. Lavorava in una tipografia, aveva anche incontrato una ragazza che gli voleva bene”. L’altra spoon river di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci Venerdì di Repubblica, 3 aprile 2020 Ancora si attendono i risultati di autopsie e inchieste, ma la morte di 13 detenuti durante le rivolte in carcere sembra già essere stata archiviata. abbiamo ricostruito le storie di alcuni di loro. Partiamo da qui. Dai nomi, dai cognomi, dalle età. Carlo Samir Perez Alvarez, 28 anni. Haitem Kedri, 29 anni. Abdellah Rouan, 34 anni. Marco Boattini, 35 anni. Ghazi Hadidi, 36, Chouchane Hafedh 36. Erial Ahmadi, 36. Slim Agrebi,40. Salvatore Cuono Piscitelli, 40. Lofti Ben Masmia, 40. Ante Culic, 41. Artur Isuzu, 42. Alì Bakili, 52 armi. Sono tredici vittime che non troverete mai nella Spoon River del coronavirus. Eppure sono persone morte in prigioni italiane, mentre erano sotto la custodia dello Stato, per colpa di un effetto collaterale della pandemia: il panico. Erano i primi giorni di marzo. Le televisioni raccontavano di un Paese che era a un passo dalla serrata. Le direzioni dei penitenziari avevano bloccato, per tutelare la salute dei detenuti, ogni contatto con l’esterno. E questa, di fatto, si è rivelata l’involontaria miccia che dato fuoco alle polveri: da Milano a Palermo, da Roma a Modena, sono partite le rivolte. Intere sezioni sono state devastate. Agenti e guardie sono stati aggrediti. I vestiti sono stati incendiati e appesi alle grate, perché la gente vedesse. Diversi detenuti sono scappati e alcuni sono stati riacciuffati. Centinaia di loro sono stati trasferiti e subiranno condanne durissime. In tredici sono morti. “Tutti nella stessa maniera: overdose”, osserva l’associazione Antigone che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e che ha già presentato, in tal senso, esposti alle procure. Sei litri di metadone in tre - Tra i deceduti ce n’erano tre ancora in attesa di un primo giudizio. Altri avevano condanne definitive da scontare. Per Salvatore Cuono Piscitelli era questione di settimane e sarebbe uscito. Salvatore era nel carcere di Modena con Erial, Hafedh, Slim e altri sei. A Bologna c’era Haitem, che aspettava il processo. A Rieti erano in tre, Marco, Ante e C arlos, e in tre hanno bevuto sei litri di metadone, come raccontano le relazioni del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Marco era Marco Boattini. “E quello in carcere è stato l’ultimo atto della sua vita sfortunata”, racconta al Venerdì Rosa, la cugina. L’ultima (o forse l’unica) con cui Marco aveva mantenuto un contatto. Era entrato dopo una condanna per una rissa aggravata, oltre che per questioni di droga. E la droga aveva caratterizzato gli ultimi passi della sua esistenza, la morte della madre lo aveva sconvolto. Il resto lo avevano fatto i rapporti sempre più sottili con il padre - che da tempo viveva all’estero - e con il fratello. Casa sua, dalle parti di Pomezia, era diventata una sorta di “comune”: occupata da un gruppo di suoi amici balordi, in realtà spacciatori, che riempivano Instagram di filmati di Marco impegnato in cose demenziali, alle volte umilianti. Lavorava in una tipografia, aveva anche incontrato una ragazza che gli voleva bene. Poi il carcere, la droga. Quell’ultima bottiglia di metadone a cui attaccarsi. “Purtroppo non bisogna meravigliarsi di ciò che è accaduto”, sostiene Federico Pilagatti, sindacalista del Sappe, uno dei sindacati più attivi tra gli agenti di Polizia penitenziaria. “Un terzo dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza. Inevitabile che, per molti di loro, la prima reazione, a rivolta iniziata, sia stata assaltare le infermerie”. Potevate fare di più? “Muoverci prima”, dicono gli agenti. E questo lo sanno anche al Dap, che ha aperto una serie di inchieste interne. Radio carcere segnalava da tempo come stesse “salendo la temperatura”. L’interruzione dei colloqui e il divieto, o comunque le restrizioni, nella consegna dei pacchi, anche quelli alimentari, avevano prodotto tensioni e tossine. Foggia, Sudamerica - “Bloccare i colloqui ha significato, di fatto, interrompere l’ingresso di sostanze stupefacenti. Che non dovrebbe avvenire, ma avviene”. A parlare è uno degli investigatori che si sta occupando della grande evasione dal carcere di Foggia, l’evento più incredibile nella storia delle carceri italiane da molti anni a questa parte. “Una scena da Sudamerica”, la definisce. Il 9 marzo settantadue ospiti su seicento hanno forzato i cancelli e sono fuggiti. C’è la prova che dimostra come questo non sia successo per caso, che non sia soltanto l’esito di una protesta improvvisa: fuori dall’istituto penitenziario c’erano delle auto che aspettavano alcuni detenuti. Avevano i motori accesi, erano pronte a partire. Erano lì per prelevare esponenti di primo piano della mafia foggiana. Alcuni si sono consegnati dopo poche ore. Altri si sono dileguati. Il sistema non regge - Dicono, dunque, “ci siamo mossi tardi, forse si poteva prevenire”. Come? Introducendo, ad esempio, la possibilità di effettuare i colloqui con i familiari via Skype, cosa di cui si discute da tempo. Ma quando il ministero della Giustizia ha dato il via libera, era troppo tardi. Racconta Valeria Pirè, la direttrice del carcere di Bari, tra i precursori del video-colloquio: “È stato emozionante guardare detenuti che dopo anni rivedevano le pareti di casa, i loro cani e i loro gatti”. Il ministro Alfonso Bonafede ha riferito in Parlamento di aver distribuito 1.600 smartphone agli istituti e che altrettanti sono in via di acquisizione. Le associazioni chiedono- ora che non possono arrivare pacchi dall’esterno - l’innalzamento dei limiti di spesa per ciascun detenuto. Ma chiedono soprattutto più attenzione: al 29 febbraio il sistema penitenziario italiano disponeva di 50.931 posti, a cui bisogna sottrarne i 2.000 resi inagibili dalle rivolte dell’8 e 9 marzo. I presenti, il 25 marzo, erano 58.386. Quasi 10.000 in più rispetto a quelli che può sopportare il nostro sistema. Il segreto di Erial - Erial Ahmadi, tunisino, in quel sistema ci stava dal 20 dicembre 2018. È morto nel Sant’Anna di Modena 1’8 marzo. Diceva a tutti di essere marocchino, ma non lo era. E non si chiamava nemmeno Erial Ahamdi, quello era il nome che ha dato la prima volta che per lui si sono aperte le porte del carcere quasi due anni fa. Sulle spalle aveva cinque condanne (resistenza a pubblico ufficiale nel 2012, piccolo spaccio e, appunto, false dichiarazioni sull’identità) che gli erano valse una permanenza in cella per tre anni e mezzo. “Non era una testa calda, né un esagitato”, ricorda il suo avvocato, Lorenzo Bergami. “Gli avevano concesso il regime di semilibertà, poteva lavorare, all’interno della struttura, retribuito, si occupava delle pulizie”. Fine pena: 14 gennaio 2022. La vera pena, però, ce l’aveva dentro e non ne vedeva la fine. “Aveva una figlia di 12 anni avuta con una donna in Italia, con la quale non stava più e non sentiva più, ma quella bambina era il suo segreto doloroso”, racconta Paola Cigarini, del Gruppo Carcere-Città, che al Sant’Anna organizza incontri, un giornale interno, dei laboratori. “Una volta si ritrovò a pulire la stanza dove teniamo i figli dei carcerati in attesa del colloquio, quella stanza ha dei banchini bassi e delle piccole sedie. Erial stava pulendo, poi all’improvviso si è bevuto l’alcol e il detergente. Dopo quel gesto gli hanno tolto la semilibertà. Quando si è ripreso gli ho chiesto cosa fosse successo, perché nessuno capiva, mi ha risposto, con la testa bassa e lo sguardo al pavimento: ho visto quei giochi, quei banchi, e ho pensato a mia figlia, ho pensato che non so dove sia, cosa faccia, se sta bene o no”. Erial tartassava Paola perché voleva che gli comprasse il cappellino alla moda, le scarpe firmate. “Rispondevo di no, gli spiegavo che stava seguendo degli inutili stereotipi, e che avrebbe fatto meglio a risparmiare quegli spiccioli che guadagnava lì dentro. Lui mi fissava un po’, si abbassava, mi dava un bacio in fronte e diceva: “ho capito, ho capito”. Nessuno veniva a trovarlo. Fuori nessuno che lo aspettava. La solitudine di Chouchane - Anche Chouchane Hafedh non aveva nessuno, in Italia. Non un appoggio da un amico, un domicilio provvisorio, dove poter scontare la pena ai domiciliari. E infatti, pur avendone il diritto, era rimasto in cella al Sant’Anna. Tunisino come Erial, stava per tornare in libertà: a fine marzo sarebbe uscito. Mancavano pochi giorni. Ora la sua salma è nel frigo dell’obitorio, e non sarà rimpatriata come invece, da Mahdia in Tunisia, implora suo padre Mosei: la pandemia ha chiuso i voli internazionali da e per l’Italia, non c’è possibilità né voglia di fare il trasporto. Chouchane stava scontando una pena definitiva per spaccio. Aveva problemi con la droga, ma ancor di più con l’alcol. Soffriva di asma e aveva ottenuto in passato degli sconti proprio per via del sovraffollamento carcerario. Stare in un posto ristretto lo faceva stare male. Il suo legale, Luca Sebastiani, lo ha visto l’ultima volta qualche giorno prima della sommossa. Era sereno. “La famiglia è sconvolta, non può pregare neppure sulla sua tomba. Vuole capire cosa è successo. Sono come me: in attesa degli esiti dell’autopsia”. No all’uso dei braccialetti, così salveremo i detenuti di Franco Mirabelli* Il Riformista, 3 aprile 2020 Gli emendamenti Pd al Cura Italia per far fronte al sovraffollamento. Sbagliano la Lega e alcuni pm a dire che sarebbe un cedimento dello Stato. Gli autorevoli richiami di questi giorni, tra cui quello del Papa e quello del Presidente Mattarella, insieme alla realtà, in cui sovrappopolazione e Coronavirus rischiano di costituire un mix esplosivo, impongono alla politica una riflessione e misure urgenti sulle carceri. Insisto sulla politica, perché non possiamo delegare ai magistrati di sorveglianza l’onere e la responsabilità di intervenire per ridurre i numeri dei detenuti. Proprio perché abbiamo di fronte un’emergenza da fronteggiare il tema è questo: come possiamo intervenire subito? Il fatto che in Italia siamo tornati ad avere oltre 10 mila detenuti più di quelli che la capienza delle carceri può ospitare è un dato che dobbiamo affrontare e, certamente, sulle pene alternative e sulla depenalizzazione dei reati minori è necessario aprire una discussione in Parlamento. Così come serve una riflessione profonda sulla pena, la sua funzione, e tutto ciò che c’è e può essere messo in campo per garantire il rispetto del dettato costituzionale che, all’articolo 27, finalizza la pena alla rieducazione del condannato e proibisce comportamenti contrari al senso di umanità. Sono le questioni che affrontava la riforma Orlando, bloccata dal precedente governo e che andrà ripresa. Oggi la questione è l’emergenza: come interveniamo subito per impedire che l’epidemia si diffonda nelle carceri, come tuteliamo la salute di agenti, operatori e detenuti, come evitiamo che la diffusione del virus nelle carceri vada a pesare sulle strutture sanitarie esterne già congestionate? Sapendo che per rispondere a queste domande è prioritario diminuire le presenze negli Istituti penali. Questo è il tema, e spiace che la Lega e alcuni autorevoli magistrati presentino questa necessità come un cedimento dello Stato di fronte alle rivolte delle scorse settimane. Non è così: chi è stato protagonista dei vandalismi e delle aggressioni pagherà e non sarà certo scarcerato e non è così che si può liquidare la responsabilità dello Stato che deve garantire la salute delle persone recluse. Il recente decreto, che è ora in discussione in fase di conversione al Senato, introduce misure utili ma insufficienti e su questo ci stiamo confrontando con la maggioranza e col ministro Bonafede, perché pensiamo sia utile fare di più e subito. Credo che, come su altre questioni legate a questa emergenza, non sia questo il momento per aprire discussioni sulle responsabilità, che peraltro vengono da lontano, ma di lavorare per introdurre misure efficaci. Possiamo fare subito, e questo è il senso degli emendamenti presentati al Senato al decreto Cura Italia, tre cose importanti che possono ridurre, in questa fase la popolazione carceraria. Abbiamo già detto più volte, e non da soli, che prevedere, come fa la norma contenuta nel decreto, la detenzione domiciliare per chi deve ancora scontare fi no a 18 mesi, utilizzando i braccialetti elettronici solo per chi ha più di 6 mesi da scontare, riduce l’utilità del provvedimento. Non solo perché non sappiamo se la disponibilità delle apparecchiature sia sufficiente ma soprattutto perché i tempi di installazione e il personale, sicuramente numericamente insufficiente, non consentono di attivare più di qualche centinaio di braccialetti alla settimana, mentre è evidente a tutti l’urgenza di intervenire. Sarebbe utile, e consentirebbe di aumentare le persone che potrebbero essere messe agli arresti domiciliari subito, che ai magistrati venisse data la possibilità di mandare ai domiciliari chi deve scontare ancora 18 mesi, prevedendo l’uso dei braccialetti solo per chi si ritiene debba essere sottoposto a una maggiore vigilanza e ad un maggior controllo. L’altro provvedimento necessario è quello del differimento dell’ordine di esecuzione della pena, per chi deve tornare in carcere e ha ancora fi no a 4 anni da scontare, fi no al 30 giugno 2020. Si tratta di ridurre i nuovi ingressi di condannati che oggi sono ancora in libertà e attendono di rientrare in carcere per scontare il resto della pena. Infine vorremmo stabilire la possibilità di garantire licenze premio fi no al 30 giugno a quei detenuti che già godono della semilibertà o di permessi premio, anche nel caso non le avessero richieste prima dell’entrata in vigore del decreto. Sono persone che i magistrati di sorveglianza ritengono già meritevoli di benefici, a cui pensiamo di estenderli. Con questi interventi possiamo raggiungere l’obbiettivo di ridurre la popolazione carceraria di almeno 6/7mila detenuti, migliorando il decreto e ampliandone gli effetti, facendolo con realismo ed equilibrio, senza creare allarme sociale, cercando una sintesi dentro la maggioranza e con il ministro. Certo, forse altre misure, a partire dall’aumento degli sconti di pena per buona condotta, sarebbero giusti, ma penso, nell’interesse di chi sta in carcere, che oggi serva fare subito ciò che è possibile. *Vice Presidente senatori Pd e capogruppo in Commissione Giustizia a Palazzo Madama D’amato (Csm): “Detenzione domiciliare per chi ha un residuo di pena fino a 24 mesi” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 aprile 2020 Antonio D’Amato, consigliere togato del Csm di Magistratura Indipendente, già procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, nel 2007 al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, la settimana scorsa è tornato ad occuparsi di carceri. Con il suo voto a favore ha contribuito a dare il via libera al parere del Csm sul decreto legge “Cura Italia”. Dottor D’Amato, lei ritiene che la notizia del primo detenuto morto per coronavirus possa provocare nuovamente delle rivolte in carcere? Si tratta sicuramente di una notizia allarmante. Sono sicuro che l’Amministrazione penitenziaria ha già adottato e sta adottando tutte le misure necessarie per prevenire il diffondersi del contagio, anche a tutela del personale di polizia penitenziaria, particolarmente esposto. Certo, il carcere è un ambiente “chiuso”, e non si possono escludere strumentalizzazioni dei gruppi mafiosi volti a sobillare una intera comunità carceraria. Occorre essere vigili. Gli scienziati ritengono che i positivi reali sono molti di più di quelli individuati fino ad ora. Potrebbe essere così anche in carcere? Tutte le statistiche in genere soffrono delle cosiddette cifre oscure, ovvero dei dati che non emergono. Ecco perché quello a cui bisognerebbe tendere, dal 15 aprile in poi, è un monitoraggio diffuso e capillare attraverso i tamponi. Non soltanto per i detenuti (a cominciare proprio da quelli che stanno per essere scarcerati) e per il personale di polizia penitenziaria; ma anche per i magistrati più esposti, come quelli della Sorveglianza. Cosa ne pensa di alzare da 18 a 24 mesi il residuo di pena per accedere ai domiciliari? Non è una questione che si gioca sulla contrapposizione semplicistica e sbrigativa e, perciò fuorviante, “tutti fuori, tutti dentro”. Il problema è un altro: sappiamo valutare quali sono le conseguenze dell’allargamento dei beneficiari dei provvedimenti di detenzione domiciliare? Se è fondato il timore della diffusione del contagio all’interno delle carceri, bisogna porsi il problema dello spostamento dell’eventuale contagio dal carcere all’esterno. Si tratta di tutelare le famiglie dei detenuti. Questo è il tema. Ma in carcere ci sono situazioni di promiscuità, dato il sovraffollamento, che nelle abitazioni non ci sono... È vero, ma, in primo luogo per risolvere il sovraffollamento servirebbe la costruzione immediata di nuovi istituti penitenziari e l’attività edilizia potrebbe, in questo momento, costituire anche un volano per l’economia. In secondo luogo, come abbiamo detto nel parere approvato dal Plenum del Csm lo scorso 26 marzo, si potrebbero adottare interventi legislativi per differire l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi, per reati non gravi, fino alla fine dell’emergenza. In attesa che i braccialetti elettronici vadano a regime, data la situazione emergenziale, non sarebbe il caso di bypassare la relazione su pericolosità e reiterazione del reato per concedere la misura alternativa? In fondo chi si giocherebbe tutto se gli rimane poco da scontare... In mancanza dei braccialetti, in effetti, sarebbe più opportuno che chi ha la responsabilità politica dica: tutti i condannati con residuo pena fino a 24 mesi (eccezion fatta per i delitti gravi o di allarme sociale) finiscono di scontare la pena in detenzione domiciliare. Questa scelta politica consentirebbe di sgravare il lavoro dell’autorità giudiziaria, in questo momento molto difficile dell’emergenza da Covid19. In una proposta di emendamento del Cnf inoltrata al ministro Bonafede, si chiede di sospendere in maniera esplicita il termine dei 30 giorni che, una volta ordinata la carcerazione, consente di chiedere le pene alternative. Tanto più che i servizi sociale a cui chiederle ora sono chiusi... Il Decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 il “Cura Italia” prevede la sospensione dei termini processuali. Non escludo che la norma possa già essere interpretata in questa direzione; basterebbe un chiarimento proveniente dal ministero della Giustizia. Cascini: “Fuori dal carcere chi deve scontare tre anni, senza braccialetto” di Liana Milella La Repubblica “E non è un indulto mascherato”. Secondo l’ex pm di Roma e oggi consigliere del Csm, l’obbligo del distanziamento vale per i detenuti come per tutti noi. Bonafede invece insiste sui controlli col braccialetto. Pronte le misure del governo che andranno nel Cura Italia. “In queste ore il problema non è la certezza della pena, ma l’emergenza Covid-19”. E per questo Giuseppe Cascini, ex pubblico ministero a Roma, oggi consigliere al Csm per la sinistra di Area, parla con Repubblica e propone che escano dalle carceri al più presto tutti coloro che devono scontare ancora tre anni di pena. E che non entri neppure in cella chi è stato condannato a 4 anni ed è in attesa dell’esecuzione. Ben diversa la proposta del governo, siglata tra il Guardasigilli Alfonso Bonafede e i partiti della maggioranza (Pd, Italia viva, Leu) e che si trasformerà in un emendamento del governo al decreto Cura Italia lunedì prossimo al Senato: subito ai domiciliari chi deve scontare sei mesi come già stabilisce il decreto del 17 marzo; valutazione elastica per chi si trova al confine dei sei mesi (per esempio sette); chi ha di fronte ancora da sei a 12 mesi ottiene i domiciliari previo via libera del magistrato di sorveglianza che valuta l’eventuale rischio di reiterazione del reato e comunque la concessione della misura anche se non dovesse essere ancora disponibile il braccialetto. Oltre i 12 mesi il braccialetto è obbligatorio. Stanno scarcerando massicciamente detenuti in tutto il mondo, dalla Francia, alla Turchia, dalla Libia all’Indonesia. In Italia no, si scatenano polemiche anche per poche migliaia di persone, messe addirittura ai domiciliari. Che ne pensa? “C’è una fortissima sottovalutazione dei pericoli di diffusione del contagio all’interno degli istituti penitenziari. Tutti noi stiamo affrontando una prova durissima per seguire le indicazioni degli esperti. Siamo chiusi in casa. Usciamo solo per ragioni di stretta necessità. E questo perché ci hanno detto che il distanziamento sociale è l’unico vero strumento per bloccare l’epidemia. Chiunque conosca la realtà carceraria italiana sa bene che è impossibile assicurare dentro le carceri quel distanziamento sociale, nonché le altre misure essenziali di profilassi. I detenuti dividono le camere fra più persone, condividono i servizi, consumano pasti insieme nelle celle, gli spazi comuni sono limitati. Insomma, in carcere l’assembramento, che tutti dobbiamo evitare, è inevitabile”. Sì, certo, questa sua fotografia delle patrie galere è oggettiva. Ma chi governa forse, soprattutto dopo le recenti rivolte, ha più paura di una possibile evasione post scarcerazione, che del contagio. Non è forse così? “In questa vicenda si riproduce uno schema ricorrente nella politica e nel dibattito pubblico nel rapporto con il carcere. Che è considerato un ‘non luogo’, un ‘altrovè, che noi non vogliamo vedere, che sta dietro un muro, il muro di cinta appunto, e che non guardiamo. E questo ci consente di fare discussioni tutte ideologiche, tra chi invoca clemenza, e chi reclama rigore. Mai come in questo caso è impossibile tenere il carcere separato dal resto della società, perché il virus è in grado di attraversare le sbarre e i cancelli, e di diffondersi fuori dal carcere”. Sì, però ragioniamo sui numeri. Al momento c’è un solo detenuto morto a Bologna, di 79 anni, e ci sono 19 contagiati. Su 58mila detenuti. Se sono numeri veri, non le sembra che l’emergenza dentro le prigioni in realtà non ci sia? “Prevenzione significa intervenire prima che una cosa accada. Per conoscere la reale situazione del carcere oggi bisognerebbe sapere quanti tamponi sono stati fatti ai detenuti”. Voci autorevoli dalle carceri dicono che di tamponi ne sarebbero stati fatti pochissimi.... “Tutti ci dicono che il rischio vero non sono i malati, ma gli asintomatici, che rischiano di diffondere la malattia. Io mi auguro che non esploda il contagio in carcere, ma vorrei essere rassicurato sul fatto che chi ne ha la responsabilità stia adottando per i detenuti e per il personale le stesse misure di protezione che si adottano per il resto della popolazione”. Di conseguenza, le scarcerazioni secondo lei sono necessarie? “Certo, sono necessarie e anche urgenti. Siamo di fronte a un’emergenza e quindi servono rimedi straordinari. Ci sono circa 20mila detenuti che scontano una pena inferiore a tre anni per reati non gravi. Dovrebbero essere tutti collocati automaticamente in detenzione domiciliare almeno fino a quando dura l’emergenza”. E per quelli che non hanno una casa? “Lo Stato ha il dovere, in questa fase, di trovare delle strutture dove collocare temporaneamente i detenuti. Ci sono navi, ci sono alberghi, basta requisirli per qualche mese. Costa sicuramente meno di quanto costino i posti in terapia intensiva, e soprattutto dei costi economici e sociali che deriverebbero da un’esplosione dei contagi”. Ma poi lei questi detenuti li terrebbe sotto controllo con il braccialetto elettronico e del tutto liberi? “Vanno mesi ai domiciliari, quindi col divieto di uscire. Non credo ci sia bisogno di braccialetti in un momento in cui quasi tutti stanno a casa, e le città sono presidiate dalle forze di polizia. Semmai mi sentirei di proporre pene elevate per chi dovesse evadere dai domiciliari, perché non solo si sottrae alla pena, ma mette a rischio la salute pubblica”. La soluzione del governo, di dare automaticamente i domiciliari a chi deve scontare un anno, e gli stessi domiciliari ma con braccialetto, a chi ha ancora 18 mesi da fare, la convince oppure è un compromesso? “È una misura insufficiente, perché pochi detenuti hanno un domicilio dove stare, tant’è che se lo avessero non starebbero in carcere. E perché tutti sanno che non ci sono braccialetti a sufficienza per rendere effettiva la misura. In più, per decidere sulle istanze dei detenuti, ci vuole tempo e lavoro da parte del personale penitenziario e dei giudici di sorveglianza. Tempo e lavoro che noi oggi non abbiamo e comunque non ci possiamo permettere”. L’uso dei braccialetti è sempre stato controverso e soprattutto riservato a poche decine di detenuti. In queste ore, Bonafede e i suoi stanno cercando di ottenere il maggior numero di braccialetti dal Viminale e dal commissario Arcuri. Ma non si rischia di far passare prima l’emergenza? “I braccialetti costano e servono a poco. Non impediscono l’evasione, ma semplicemente ti avvisano che un detenuto è evaso. Non ha alcun senso spendere denaro per controllare detenuti che non scapperebbero mai e quei soldi andrebbero piuttosto investiti per individuare strutture in cui collocarli”. Al Csm, come gruppo di Area, avete consigliato al governo di bloccare le scarcerazioni di chi è stato condannato a 4 anni. Non è un tetto troppo alto? “Quattro anni è il limite di pena sotto il quale è possibile, in tempi normali, ottenere l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare. Non credo che cambi molto se nei prossimi sei mesi si bloccano i nuovi ingressi in carcere per questi condannati con la sola eccezione dei reati più gravi”. Tra i quali lei metterebbe anche la corruzione e i delitti dei colletti bianchi? “Oggi questi reati, per l’ordinamento penitenziario, sono già parificati a quelli di mafia e terrorismo. E quindi con la nostra proposta in quel caso non ci sarebbe la sospensione”. Bonafede dice che le sue misure non sono “un indulto mascherato”. Il suo collega Di Matteo dice invece che sono “un indulto mascherato”. Chi ha ragione? “I domiciliari sono una misura alternativa e non un atto di clemenza, che come tutti stiamo sperimentando, non è certo un beneficio. Nessun indulto né altro. Anzi valuto come insufficienti le misure di Bonafede. Ripeto, in questo momento il tema è l’emergenza Covid-19 e non invece la certezza della pena”. “Più sicuri in carcere che fuori”, dice Gratteri. Intanto a Bologna il primo morto di David Allegranti Il Foglio, 3 aprile 2020 “Si è più sicuri in carcere che fuori”, dice Nicola Gratteri, già ex aspirante ministro della Giustizia. “Si ha meno probabilità di infettarsi in carcere che non fuori”, spiega a Otto e Mezzo mercoledì 1 aprile il capo della procura di Catanzaro, spiegando che su 62 mila detenuti ci sono “solo 50 casi” di contagi per Coronavirus, lanciandosi dunque in una discutibile statistica carceraria (davvero paragoniamo senza distinzioni la popolazione detenuta con quella a piede libero?). “Bisogna essere più rigorosi”, ha aggiunto. Così rigorosi che intanto ieri c’è stato il primo detenuto morto, un settantaseienne deceduto a Bologna. Ma ci sono anche altri detenuti positivi, dice il Garante dei detenuti: “Nell’Istituto due persone detenute risultano positive e sono in isolamento, mentre altre quattro, che erano entrate in contatto con le persone ora in isolamento, sono in domiciliazione fiduciaria (quarantena)”. In carcere si muore insomma, altro che più rigore. Oltretutto sapere se quei “50 casi” citati da Gratteri siano veri o no (per il Garante sarebbero 21) è molto complicato visto che, come dice al Foglio il filosofo Emilio Santoro, “nelle carceri italiane si applica il ‘modello Corea del Nord’. Le informazioni non circolano. Io capisco il diritto alla privacy e quindi è giusto che non si sappiano i nomi dei detenuti, dei medici e degli agenti di polizia penitenziaria malati. Ma che non si possa sapere neanche in quale sezione lavorava l’agente che si è ammalato è grave. Un agente di sezione incontra tutti i detenuti che stanno in quel settore. Se noi applicassimo i criteri che applichiamo per la popolazione libera, queste persone andrebbero messe in isolamento fiduciario. E quindi, per quanto riguarda i detenuti, in celle singole. Ma ora sono tutti in celle doppie”. Insomma per Santoro è evidente la “disparità di trattamento nel diritto alla salute tra chi sta fuori e chi sta dentro. Se io fossi un detenuto o un agente e un altro compagno della mia sezione si ammalasse e dopo 10 giorni risultassi positivo anche io, chiederei i danni all’amministrazione penitenziaria. Per non parlare dei detenuti in custodia cautelare. Le Asl e le amministrazioni penitenziarie dovrebbero garantire a chi sta dentro il carcere le stesse misure di distanziamento che vengono ordinate a chi sta fuori”. Per questo, dice Santoro, “servirebbero altre strutture apposite, naturalmente molto più complicate da gestire degli alberghi per la quarantena dei cittadini, perché servirebbero misure di sicurezza adeguate”. Ma per Gratteri & soci il problema non esiste, perché in carcere si sta meglio che fuori. Non è purtroppo soltanto l’opinione televisiva di un magistrato costantemente sotto i riflettori. A Pisa due detenuti del carcere Don Bosco, un venticinquenne straniero e un italiano di sessantuno anni, si sono visti negare la richiesta di scarcerazione dal tribunale di sorveglianza. Il magistrato, dottor Antonio Pirato, respingendo l’istanza presentata per conto di uno dei detenuti, ha scritto nella sua ordinanza, datata 20 marzo, che le “mere preoccupazioni di carattere sanitario dipendenti da un ipotetico contagio virale passivo” non sono sufficienti a concedere la detenzione domiciliare. “Peraltro nell’ambiente penitenziario appare meno probabile con in (sic!) un ambiente extracarcerario alla luce delle misure adottate in questi giorni a livello amministrativo e giurisdizionale proprio in funzione del massimo contenimento del rischio epidemiologico intramurario”. Peccato che il 26 marzo, sei giorni dopo, Romeo Chierchia, segretario generale Ciisa Penitenziaria, abbia reso noto che c’erano tre contagiati nel carcere Don Bosco di Pisa, un medico e 2 agenti. Ieri Chierchia ha aggiornato il dato: i positivi al coronavirus sono saliti a dieci, 7 agenti di polizia penitenziaria e 3 dell’area sanitaria. A Pisa “il mancato utilizzo dei Dpi, Dispositivi di protezione individuale, ha esposto il personale a rischio”, dice Chierchia. Non è esclusa una azione penale nei confronti di chi ha sottovalutato il contagio, fanno sapere da Ciisa Penitenziaria. “Chi sbaglia deve pagare. A Pisa, intanto, all’agente in isolamento sanitario presso la caserma, non gli è stato consegnato un pasto caldo a causa della disorganizzazione della Direzione. La Regione Toscana fa sapere che non ci sono detenuti infetti al coronavirus, ma quanti tamponi sono stati effettuati nei confronti dei 3.473 detenuti? La diffusione è appena iniziata”. Ma in carcere si sta meglio. Lo dice anche il dottor Gratteri. Perché la situazione nelle carceri ci riguarda tutti di Massimo Ponti Left, 3 aprile 2020 Si stima che due detenuti su tre soffrano di patologie psichiatriche. Molti erano in attesa di trasferimento in strutture territoriali ma la pandemia ha bloccato tutto. Anche i colloqui familiari. Ora a migliaia si trovano a vivere in condizioni psicologiche ancora più precarie. “È come stare in carcere”. Quante volte in questi giorni abbiamo sentito pronunciare questa frase. Sentirsi limitati nei movimenti e negli spostamenti, nell’impossibilità di avere rapporti con gli altri, fa fare un accostamento, forse un po’ azzardato, con la realtà carceraria. In realtà le differenze sono numerose e sostanziali. Basti pensare al sovraffollamento, al vivere in sei in una cella di pochi metri quadrati senza un minimo di spazio vitale e di privacy, dove mantenere le distanze di sicurezza, in questo momento, è impossibile. Attualmente anche i colloqui familiari sono stati bloccati e i detenuti si trovano a vivere in condizioni psicologiche precarie. Gli ultimi avvenimenti violenti ci danno molto da pensare: le rivolte che hanno visto la morte di 12 persone, le evasioni di mafiosi, la distruzione di infermerie e di tutti quei luoghi dove viene condiviso uno spazio sociale e d’incontro, come ad esempio la sala musica e la biblioteca. Ci dobbiamo quindi interrogare su come i detenuti stiano vivendo l’emergenza imposta dal Covid-19 e tenere ben presente che, prima del coronavirus, le carceri erano già piene di persone affette da un altro virus, quello della malattia mentale. Al 30 dicembre 2019 è stato stimato che dei 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane, 41mila soffrono di patologie psichiatriche. In pratica due detenuti su tre. Molti erano in attesa di essere trasferiti nelle strutture territoriali (Rems) ma, a causa della pandemia, tutto si è bloccato. Immaginiamo che reazioni può aver scatenato, l’aver accarezzato per un attimo l’idea di uno spazio di maggiore libertà, dove fosse contemplata anche una possibile cura. I rischi di slatentizzare possibili depressioni nascoste, in questa situazione di emergenza, sono altissimi come anche l’emergenza di esordi psicotici, di forti crisi di ansia, di disturbi da stress e forme di ipocondria. Inoltre, la sospensione improvvisa dei colloqui con i familiari, senza essere riusciti a trovare una valida misura alternativa ad essi, ha significato togliere ai detenuti l’ora d’aria e il calore affettivo che ne traggono. In questo modo si possono sentire ancora più soli e abbandonati. Splendida è la lettera che un gruppo di detenuti di Rebibbia ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ci piace trarne un piccolo brano: “...non siamo carne da macello ma abbiamo mogli, figli, madri, anche loro dentro una prigione virtuale, a casa che sperano di vederci sani e salvi (non dentro una bara). Questa cosa gliela urliamo a gran voce”. In questo momento di lockdown nazionale si fa largo un pericolo in quelle menti fragili o già colpite dal virus della malattia psichica. Virus che, a differenza del Covid-19, nasce nei rapporti malati e violenti ma ha la stessa potenza di contagio e infezione, e nella depressione può arrivare nei casi estremi al suicidio: dall’inizio dell’anno, siamo già a 13 suicidi su 41 morti tra le sbarre. Per tornare all’emergenza sanitaria la situazione nelle carceri può diventare esplosiva se si creasse il presupposto di un severo contagio e anche per gli operatori che ci lavorano diventerebbe durissima, agenti, medici, psicologi, infermieri, educatori, come i loro colleghi ospedalieri che sono in prima linea e che rischiano tantissimo. È vero che il carcere è un mondo chiuso e l’isolamento è la difesa che la società attua contro chi sbaglia e non sta alle regole, ma se va in crisi per l’effetto della diffusione contagiosa del virus, va in crisi l’intero sistema e la tenuta psico-sociale di un intero Paese. In questo momento per tutti gli operatori in prima linea sia dentro che fuori dal carcere sembra di giocare a scacchi con la morte come ci raccontava Igmar Bergman nel film “Il settimo Sigillo”. Certamente tutto questo lascerà delle tracce profonde nelle nostre vite. Siccome non stiamo di fronte a una maledizione divina come si credeva nel 1300 al tempo della peste nera dobbiamo pensare che tanto prima o poi verrà un nuovo dottor Semmelweis, un nuovo Fleming a cui noi porteremo una rosa. Maura Palma: “L’emergenza non giustifica la negazione di diritti umani” di Valentina Stella Left, 3 aprile 2020 Per le sue battaglie di civiltà in difesa della salute dei detenuti e degli immigrati rinchiusi nei Centri per il rimpatrio, il Garante dei detenuti Mauro Palma è finito nel mirino di Panorama. “Se qualcuno vuole fermare il mio lavoro, ha sbagliato strada”, dice a Left. Sono giorni difficili per Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Da un lato l’emergenza sanitaria in carcere, avendo il coronavirus oltrepassato il muro e colpito sia i reclusi che gli agenti penitenziari; dall’altro lato un attacco mirato alla sua persona e alla sua attività da parte della rivista Panorama. Fausto Biloslavo lo ha definito “il garante più creativo del mondo”, per la “visione allargata delle sue funzioni”. Da queste pagine Mauro Palma gli risponde: “Se qualcuno vuole fermare il lavoro del Garante ha proprio sbagliato strada”. Dottor Palma, secondo lei perché è stato scritto quell’articolo? Quell’attacco innanzitutto rivela una scarsa informazione. Biloslavo si è concentrato su molti miei dati biografici ma ha dimenticato di scrivere che il Garante ha per legge nazionale - e anche per il fatto che ha ratificato un Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite - l’obbligo di occuparsi di tutte le aree della privazione della libertà. Proprio recentissimamente mi è stato ricordato, come a tutti gli organismi analoghi al mio, sia da parte dalle Nazioni Unite sia da parte del Consiglio d’Europa, che rientrano nelle mie aree di attività anche le case di ospitalità per anziani e altresì il controllo sulle regole della quarantena. Proprio in merito a quest’ultimo punto lo stesso autore, a febbraio, dalle pagine de Il Giornale, aveva parlato di “buonismo stupido” perché lei chiedeva al capo dipartimento della Protezione civile Borrelli informazioni sulle condizioni restrittive dei connazionali sottoposti alla quarantena… Oltre alla tutela della salute pubblica c’è anche la necessità, quando si restringono le libertà, di andare a vedere come lo si fa, come nel caso dei nostro connazionali. Panorama critica anche il suo impegno verso i migranti nei Centri di permanenza per il rimpatrio. Per quanto riguarda i Cpr, voglio ricordare che l’Italia aveva una questione in sospeso con l’Unione Europea, ossia una procedura di infrazione aperta nel 2014 che si è protratta fino al 2017, per il fatto che non aveva stabilito un organismo indipendente di monitoraggio dei rimpatri forzati. Quando è stato costituito il Garante e gli è stato dato, tra gli altri, questo compito. Ciò ha permesso al nostro Paese di chiudere la procedura di infrazione e quindi evitare di pagare penali. Perciò in realtà ci dovrebbe essere riconoscenza a questo nostro ampio raggio di azione. A proposito di Cpr, c’è il blocco dei voli tra molti Paesi e dunque i rimpatri forzati sono rimandati… Attualmente nei Cpr sono presenti 364 persone e il Garante sta verificando il numero di quelle la cui dimissione è prossima e compresa nel periodo dell’emergenza pandemica e quindi del blocco dei voli. Non ci sono casi di positività o sospetti. Tuttavia, i nuovi giunti vengono messi precauzionalmente in un modulo a parte. Abbiamo in corso una interlocuzione con il ministero dell’Interno sulla collocazione degli stranieri che escono dai Cpr e che non hanno un domicilio. Quindi, tornando alle ragioni dietro quell’articolo, lei che idea si è fatto? Qualcuno gli ha fatto osservare che c’è una interlocuzione positiva con il ministro della Giustizia e con quello dell’Interno, e questo urta qualcuno. Non a caso un sindacato di polizia penitenziaria ha voluto criticamente sottolineare che il ministro Bonafede in Parlamento abbia detto che si era sentito con il Garante, chiedendosi “perché parla col Garante e non con le organizzazioni sindacali?”. A proposito di polizia penitenziaria, Biloslavo cita il Sappe e il suo segretario Capece, che poco dopo fa uscire un comunicato in cui la si accusa di eccessiva sovraesposizione mediatica… La questione mediatica è una scusa. Loro non vogliono che la voce del Garante venga ascoltata. Ma io ribadisco che c’è un principio da affermare: non c’è eccezionalità che blocchi l’obbligo di vigilare sui diritti delle persone. Tuttavia il Sappe non rappresenta l’intero comparto degli agenti penitenziari. E infatti tutti gli ispettori responsabili dei reparti del Gom (Gruppo operativo mobile che ha tra i suoi principali compiti quello di custodia e controllo dei detenuti ad altissimo indice di pericolosità, ndr) mi hanno inviato un lungo messaggio di stima e di apprezzamento. Per me questo conta di più: il Gom e il Garante rappresentano due parti della stessa necessità. La parte di chi è chiamato a tenere il rigore e quella di chi è chiamato a dialogare con loro perché questo non debordi mai. Quello che più mi offende nel titolo di Panorama è dire che io sono contro gli agenti. Non è vero per niente. Io sono contro le violazioni. Questione carceri: le rivolte si sono fermate ma resta il problema di come gestire l’emergenza sanitaria… Il ministro Bonafede al question time del 25 marzo ha comunicato che, per fronteggiare la diffusione della pandemia, solo 200 detenuti sono usciti dal carcere. Se prendiamo la metafora del cammino il primo passo deve essere ben sostenuto e non diventare claudicante e poi deve essere seguito dal secondo e terzo passo. Appare evidente che l’orientamento volto a decongestionare l’affollamento delle carceri, delineato dal sia pur parziale provvedimento del decreto legge 18/2020, ha prodotto l’effetto indiretto di promuovere la trattazione e la valutazione positiva da parte dei Tribunali di sorveglianza di misure alternative alla detenzione prima non considerate. Questo non diminuisce la necessità di intervenire con strumenti più incisivi di natura legislativa e l’altrettanta necessità di svincolare l’adozione della misura prevista nel decreto già in vigore dall’effettiva applicazione di braccialetto elettronico. Un sistema nato per ospitare 47mila persone non può sostenere una capienza che vada oltre, perché altrimenti non si hanno gli spazi per isolare le persone laddove ce ne sia bisogno. In una situazione come quella attuale bisogna avere anche il coraggio di fare delle scelte che possono essere di non facile accettazione immediata da parte dell’opinione pubblica ma che servono ad evitarne altre che sarebbero più gravi. Cosa accadrebbe se il virus si diffondesse nelle carceri e ci fosse il bisogno di andare ad occupare posti letto in ospedale? Tra le sue sfere di competenza ci sono anche le residenze per persone con disabilità o anziane. Continua la collaborazione tra Garante nazionale e Istituto superiore di sanità per la ricerca sulle Rsa rispetto alla diffusione del Covid-19. Si tratta di un problema grosso e grave: noi come Garante siamo stati riconosciuti come partner dall’Iss con cui conduciamo uno screening e analisi delle varie strutture, ognuna con le proprie caratteristiche e criticità. Prima di agire bisogna conoscere. Emergenza carcere: basta con i silenzi e le reticenze indegne di un Paese democratico camerepenali.it, 3 aprile 2020 Le 10 domande dei penalisti italiani. I numerosi silenzi e le varie reticenze sull’emergenza carcere sono indegni di un Paese democratico. Le 10 domande dei penalisti italiani al Presidente del Consiglio, al Ministro della Giustizia, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La Giunta e l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, di fronte alle notizie sempre più allarmanti provenienti dal pianeta carcere in ordine al rischio di diffusione dell’epidemia negli istituti penitenziari italiani, registrano e denunciano la ostinata cortina di silenzi, reticenze e disinformazione che continua ad essere mantenuta in ordine alle seguenti 10 questioni, il cui chiarimento non è più oltre rinviabile: 1. È mai stato fatto un calcolo probabilistico del numero dei detenuti che dovrebbero lasciare le carceri in forza dei provvedimenti adottati con il Decreto Cura Italia, e dei tempi in cui ciò dovrebbe avvenire, al netto delle scarcerazioni alle quali stanno provvedendo da settimane -indipendentemente dal Decreto - numerosi Tribunali di Sorveglianza in applicazione delle leggi già vigenti? 2. Quanti sono, alla data di oggi e poi in date successive e precisamente individuate, i braccialetti elettronici materialmente e certamente disponibili, al netto dei 2.600 già da anni in dotazione ma tutti già impegnati per le custodie cautelari domiciliari? 3. Oltre al numero dei contagiati, quanti sono i detenuti certamente entrati in contatto con questi, e quali misure conseguenti sono state adottate per la loro quarantena? 4. Quanti sono i detenuti entrati in contatto con gli agenti di polizia penitenziaria ad oggi risultati contagiati, e quali misure conseguenti sono state adottate per la loro quarantena? 5. Il numero dei detenuti contagiati, ad oggi indicati in 21, è calcolato sui sintomatici? Ed in tal caso, vi è una ragione per la quale si sia ritenuto di non procedere ad uno screening dell’intera popolazione carceraria, date le condizioni sanitarie e materiali di potenzialità epidemica? 6. Gli agenti di Polizia penitenziaria ed il personale amministrativo sono stati tutti sottoposti a tampone? 7. È possibile sapere, senza reticenze o vuoti giri di parole indegni di un Paese democratico, se i reparti di isolamento per i contagiati o sospetti di contagio siano tecnicamente e sanitariamente tali, vale a dire celle singole con bagni e docce riservati? Quanti sono -visto che ci si ostina a non comunicarne il dettaglio- tra i 21 detenuti contagiati, quelli posti in stanze di isolamento singole, e quanti in stanze di due o tre letti, ed in quali carceri? 8. Quante mascherine e sistemi di protezione sono stati distribuiti tra i detenuti, e quanti tra gli agenti di Polizia penitenziaria ed il personale amministrativo delle carceri? 9. In caso di trasferimento del detenuto, viene effettuato il tampone all’interessato ed alla scorta? 10. La vigilanza sanitaria ed il governo medico sui rischi di contagio nelle e dalle carceri sono affidati ad una equipe di epidemiologi, o sono affidati alle singole direzioni sanitarie di ciascun penitenziario, ed in tal caso con quale livello di specializzazione? Lo ripetiamo: il rischio di epidemia nelle carceri riguarda i detenuti, la polizia penitenziaria ed il personale amministrativo e civile che in esse opera, ma riguarda ovviamente anche la intera comunità sociale, per la ovvia, catastrofica ricaduta sulle strutture sanitarie pubbliche di un eventuale contagio di massa. Rispondano a questi dieci quesiti, ciascuno per le proprie responsabilità, il Presidente del Consiglio, il Ministro della Giustizia, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Non vi è più spazio per silenzi e reticenze. La Giunta L’Osservatorio Carcere Ucpi Virus in cella. Papa e garanti: “è emergenza” di Marina Lomunno vocetempo.it, 3 aprile 2020 “In questo momento il mio pensiero va in modo speciale a tutte le persone che patiscono la vulnerabilità di essere costretti a vivere in gruppo… In modo particolare vorrei menzionare le persone nelle carceri. Ho letto un appunto ufficiale della Commissione dei Diritti Umani che parla del problema delle carceri sovraffollate, che potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. Sono parole di Francesco pronunciate all’Angelus di domenica 29 marzo: ancora una volta il Papa rivolge un pensiero particolare ai detenuti che in questo momento di emergenza - in qualche modo tutti noi in questi giorni, sebbene nella comodità delle nostre case, stiamo sperimentando cosa significa essere privati della libertà - soffrono doppiamente per le condizioni difficili in cui versa la maggior parte dei penitenziari italiani. E proprio per testimoniare questa attenzione al mondo carcerario, Francesco nelle scorse settimane aveva annunciato che le meditazioni della Via Crucis di quest’anno, che si celebrerà sul sagrato della Basilica di San Pietro davanti alla piazza vuota, sono state scritte dalla parrocchia della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova, comunità che opera da anni accanto ai detenuti. Una preoccupazione, quella di Papa Francesco, condivisa dai 250 sacerdoti che operano delle carceri italiane espressa in questi giorni anche da don Raffaele Grimaldi, per 23 anni cappellano nel penitenziario di Secondigliano e Napoli e ora Ispettore generale dei cappellani. “Le carceri sovraffollate sono luoghi in cui la pena risulta raddoppiata: al problema del tempo si aggiunge quello dello spazio. Tanto tempo sospeso, in spazi angusti, con questo terribile incubo del Covid-19 che incombe. Auspico un atto di misericordia e di clemenza. Abbiate misericordia, chi sta in carcere oggi rischia la vita. Incoraggio chi ha responsabilità pubbliche a compiere delle scelte umanitarie. Non si può mettere in pericolo la vita delle persone, che è un bene superiore… noi tutti ci uniamo alla preghiera del Santo Padre. La giustizia è tale se conosce la clemenza. Si torni a dare attenzione alla persona: chi ha sbagliato deve essere messo in condizione di rialzarsi”. Don Grimaldi ha inviato anche una lettera a tutti i ristretti nelle galere italiane: “Ho scritto un appello alla responsabilità di tutti, chiedendo ai detenuti di astenersi dai comportamenti violenti. Un dialogo aperto tra le parti, ecco la missione più profonda della Chiesa nei luoghi dove c’è sofferenza”. E citando l’Angelus del Papa, anche la Conferenza dei Garanti dei detenuti di cui fanno parte Bruno Mellano e Monica Cristina Gallo, rispettivamente garante regionale e del Comune di Torino, hanno inviato un appello al Presidente della Repubblica, alle Camere, ai sindaci e ai presidenti delle Regioni per ulteriori misure di riduzione della popolazione detenuta. “I provvedimenti legislativi presi dal Governo sono largamente al di sotto delle necessità” scrivono i garanti italiani “Se anche raggiungessero tutti i potenziali beneficiari (6 mila detenuti, secondo il Ministro della Giustizia), sarebbero insufficienti. Con quelle misure non solo non si supera il sovraffollamento esistente (almeno 10 mila unità), ma non si garantisce il necessario distanziamento sociale richiesto a tutta la popolazione per la prevenzione della circolazione del virus. Servono, e urgentemente, ulteriori misure, di rapida applicazione, che portino la popolazione detenuta al di sotto della capienza regolamentare effettivamente disponibile”. Perché la svolta digitale “anti contagio” può cambiare per sempre la giustizia di Stefano Bigolaro* Il Dubbio, 3 aprile 2020 Ci sono dei momenti in cui speri soltanto che tutto passi, e divenga per sempre un brutto ricordo. E in cui capisci che non sarà più come prima. Anche nel nostro piccolo mondo, che - oltre a trovarsi in pesanti difficoltà economiche - dovrà misurarsi con linee di evoluzione sempre più nette. 1. Uno studio legale non è solo un luogo fisico. Uno studio è il posto dove gli avvocati lavorano, si confrontano tra loro, ricevono i clienti. Speriamo tutti di ritrovarci insieme quanto prima nei nostri studi. Ma oggi che è diventato difficile, o pressoché impossibile, possiamo solo ringraziare la tecnologia, che in qualche modo ci consente di operare da casa. E l’idea dello studio legale come luogo fisico diviene meno scontata, più elastica. In un processo ormai interamente telematico, come è diventato anche quello amministrativo, gli atti e i documenti sono prodotti “a distanza”. E questo amplia, sinergicamente, le possibilità. 2. Un tribunale non è solo un edificio. Chiudono i Tar e il Consiglio di Stato. Non è un bel segno, ma è solo un segno. Non c’è ragione che rimangano aperti in questo periodo. Non ci sono adempimenti fisici da fare. Non ci sono udienze cui partecipare. E non ci sono i giudici, che non si trovano neppure tra di loro e decidono insieme, ma ciascuno da un proprio “remoto” (con modalità che prima o poi dovranno pur consentire la partecipazione anche degli avvocati). Il telelavoro è prima di tutto il loro. Ed è evidente, ad esempio, che non possono avere un futuro (ma neanche un presente) le copie cartacee cosiddette “di cortesià, da produrre in aggiunta agli atti telematici, in un incongruo “doppio binario”. Tutto ciò impedisce abitudini di vita che finora hanno avuto importanza fondamentale: trovarsi in tribunale coi colleghi, chiacchierare aspettando la chiamata, guardarsi attorno e capire l’ambiente. Ma sono tutti concetti che si modificano. Un tribunale non è un edificio attraverso il quale deve necessariamente passare l’esercizio della giustizia. Può essere un luogo virtuale. 3. Discutere se, quando e come serve. Un’udienza è importante anche quando non vi puoi essere fisicamente presente. Certo, non bastano le note scritte da depositare due giorni prima - ora previste nella giustizia amministrativa dal decreto legge 18 - a compensare la soppressione della discussione. Ma già sarebbe fondamentale la possibilità di partecipare e di interloquire telematicamente. A parte che, in un processo basato sugli scritti, della discussione in udienza si può anche fare a meno se costituisce un mero “doppione” delle difese già prodotte. Quando torneremo, prima o poi, alla normalità, molte cose saranno cambiate da sé. E ad esempio gli atti di presenza in udienza solo per spedire a decisione una causa avranno perso di significato (non potendo più trovare ragione in motivi “estetici” nei rapporti con il cliente). 4. Un processo non è solo una successione di atti. Ancor più in generale: a essere mutato dagli effetti delle tecnologie è lo stesso processo. Che deve giungere alla miglior decisione. E non c’è ragione di pensare che la decisione sia migliore se le forme utilizzate sono quelle tradizionali anziché quelle più avanzate consentite dalla telematica. La quale, ovviamente, fa sì che tutto si dematerializzi. Insomma, la rivoluzione digitale incide in un modo molto più profondo della semplice “trascrizione” dei vecchi istituti processuali in un nuovo linguaggio. E, per inciso: non è solo un residuo del passato, è anche profondamente sbagliato, in questo momento di emergenza, non usare tutte le possibilità telematiche in grado di evitare occasioni di possibile contagio. Perché mai, dunque, dover notificare per posta a un’amministrazione che non abbia ancora provveduto a inserire il suo indirizzo pec nel Reginde? 5. Un incontro non è uno spostamento. Lo stiamo vedendo con i clienti, impossibilitati a spostarsi. Ma anche i convegni, i congressi, gli incontri seminariali - per loro natura luogo fisico di confronto tra diverse voci- quando riprenderanno, spartanamente, dovranno tener conto della realtà. Certo, non è la stessa cosa. Qualcuno organizzerà l’incontro da qualche parte. Poco importa, potrebbe essere qualsiasi luogo. Non basterà una webcam: mancherà la possibilità di apprezzare la bellezza dei luoghi di un convegno, o comunque di “staccare” dalle occupazioni quotidiane. Non è lo stesso. Però questo è ciò che probabilmente, almeno per un po’, consentiranno i tempi. I quali ci imporranno anche i temi dei prossimi convegni: quelli, cioè, che la tragica esperienza che stiamo attraversando ci pone davanti. *Consigliere Unaa - Unione nazionale degli avvocati amministrativisti Spazza-corrotti, l’ordine di carcerazione resta sospeso se precedente la norma di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 2 aprile 2020 n. 11202. Sulla base della Spazza-corrotti non può essere revocata la sospensione dell’ordine di carcerazione, deciso con un provvedimento precedente l’entrata in vigore della nuova norma. La Corte di cassazione, con la sentenza 11202, ha respinto il ricorso del Pm contro l’ordinanza con la quale il Tribunale ha dichiarato inefficace l’ordine di esecuzione emesso, il 12 febbraio 2019, nei confronti di un indagato per induzione indebita a dare o promettere utilità. Un reato, previsto dall’articolo 322 comma 2 del Codice penale, inserito dalla legge 3/2019, la cosiddetta spazza-corrotti, tra quelli considerati ostativi (articolo 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario) per i quali è esclusa la concessione dei benefici penitenziari. Dopo l’entrata in vigore della legge più restrittiva all’indagato era stata revocata la sospensione. Per il tribunale la revoca era illegittima perché adottata sulla base di una legge sopravvenuta e peggiorativa. Ad avviso dei giudici era stato così violato il principio del tempus regit actum, in virtù del quale per l’indagato doveva valere il primo ordine di esecuzione, con il diritto ad accedere alla sospensione della pena. Di diverso avviso il Pm ricorrente che valorizza la natura squisitamente processuale della disposizione di legge, in virtù della quale andava applicata la nuova norma anche se sfavorevole. La Suprema corte respinge il ricorso, ricordando, oltre ai dubbi di legittimità costituzionale della spazza-corrotti, sollevati con l’ordinanza 31853/2019 - in merito a ragionevolezza e finalità rieducativa della pena - anche quelli relativi all’individuazione del regime temporale in assenza di una disciplina transitoria. Su quest’ultimo punto la Cassazione chiarisce che l’entrata in vigore della norma più restrittiva, proprio nel rispetto del principio del tempus regit actum, non può comportare la perdita di efficacia dei provvedimenti adottati in precedenza. Campania. Il bluff del braccialetto elettronico che non c’è: bloccati 215 detenuti di Mary Liguori Il Mattino, 3 aprile 2020 La “svuota-carceri”, questa volta, sembra destinata a fallire. Il decreto si sta arenando in fase di esecuzione, come aveva anticipato a Il Mattino il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, non ci sono braccialetti elettronici, dispositivo indispensabile per la concessione dei domiciliari per cui pochi, o nessuno, lasceranno la cella grazie al decreto emesso quindici giorni fa. Sulla carta, dalle quattro carceri casertane, dovrebbero uscire 215 detenuti. Nel dettaglio, potrebbero beneficiare della misura alternativa sessanta reclusi di Santa Maria Capua Vetere, cento di Carinola, quindici di Arienzo e quaranta di Aversa. Numeri irrisori, almeno per l’istituto di Santa Maria dove, a fronte di 818 posti disponibili, si trovano reclusi quasi mille detenuti. Sono, questi detenuti, coloro che posseggono i requisiti previsti dalla recentissima norma emanata per ridurre il sovraffollamento e limitare il rischio contagio. Ma difficilmente, per la maggior parte di loro, si apriranno per davvero i cancelli delle carceri. Passato il vaglio del magistrato di sorveglianza, le scarcerazioni sono destinate ad arenarsi in fase di esecuzione. Possono infatti uscire senza il braccialetto solo coloro hanno fine pena da sei mesi in giù. Dai 6 ai 18 mesi la norma prevede il mezzo di controllo elettronico. Per costoro, poi, non devono sussistere reati ostativi né disciplinari di rilievo nell’ultimo anno e dev’essere certificato che il soggetto non abbia partecipato alla sommossa del 7 marzo 2020. Sono poi esclusi tutti coloro che rispondono di maltrattamenti in famiglia o stalking. Torna sull’argomento anche Samuele Ciambriello, garante per i detenuti della Campania. “Riecco il braccialetto elettronico per i detenuti che però non si trova. Il testo del decreto legge, così come pubblicato in Gazzetta Ufficiale, di fatto finisce per non assicurare a tutti i detenuti in possesso dei requisiti per accedere alla detenzione domiciliare di poter beneficiare della misura. La disponibilità del braccialetto, infatti, è condizione per la concedibilità della detenzione domiciliare superiore a sei mesi. E poi non si trovano, nonostante tutti lo reclamano e gli scandali convenzioni-appalti costati fino ad ora 120 milioni di euro”. Nel corso di questi ultimi giorni, aggiunge Ciambriello, “si sono susseguite numerose le storie di ristretti che non hanno ottenuto i domiciliari proprio per la mancanza dei braccialetti o che come il primo caso in Italia di detenzione domiciliare grazie ad un magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere che firmato il provvedimento ma mancava in carcere e in questura il braccialetto”. Ciambriello si appella alla politica “affinché, quantomeno in sede di conversione del D. L. n. 18/2020, possa essere espunta dall’articolo 123 la necessaria applicazione del braccialetto elettronico per poter beneficiare della detenzione domiciliare. “Gli istituti penitenziari campani sono sovraffollati, è necessario limitare il rischio di contagio”. Campania. Carceri, al via 12mila tamponi per detenuti e personale Il Mattino, 3 aprile 2020 Allarme carceri, arriva la svolta tamponi: 12mila dovrebbero essere effettuati sulla Polizia penitenziaria e i detenuti. “Su indicazione congiunta di tutti i sindacati i test verranno eseguiti sul personale di tutta la Campania, al fine di scongiurare scoppi di focolai da coronavirus all’interno dei penitenziari campani”, fa sapere il vice segretario regionale della Campania dell’Osapp Luigi Castaldo. Un obiettivo raggiunto, spiega Castaldo, grazie al clima di collaborazione instaurato con il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Campania Antonio Fullone e con il direttore generale della sanità regionale campana Postiglione. L’Osapp, “ringrazia ed elogia lo spirito di Corpo e la solidarietà dimostrata da tutto il personale di Polizia Penitenziaria in questo travagliato periodo storico, dove ci si aspetta dal Governo scelte tempestive e coraggiose, nonché maggiori risorse umane ed economiche”. Si spera ora che la decisione di effettuare i tamponi possa servire ad allentare la tensione nelle carceri napoletane. È dell’altro giorno la battitura delle sbarre a chiedere l’indulto e Poggioreale, rito di protesta che consiste, per chi è carcerato, nel percuotere le sbarre con oggetti di metallo per fare rumore e far sentire la propria voce. Da casa invece i familiari si sono fatti sentire con mestoli e pentole. L’appello, che ha raccolto “like” e condivisioni, è stato pubblicato sul gruppo “Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano”. “I detenuti gridano tutti salvi! Tutti a casa! - si legge sul post - facciamo una battitura dai nostri balconi, come loro fanno contro quelle maledette sbarre, appendiamo striscioni per amplificare le loro grida...”. Questo flash mob “diffuso” non ha costretto l’amministrazione penitenziaria a rafforzare il personale già incrementato per le rivolte ma il livello di attenzione è comunque alto. Coronavirus: morto un detenuto a Bologna, positivi altri 2 e un agente penitenziario ansa.it, 3 aprile 2020 È morto all’ospedale Sant’Orsola di Bologna un detenuto positivo al Covid 19. È la prima vittima tra i reclusi. A quanto si apprende da fonti penitenziarie l’uomo era agli arresti domiciliari presso il nosocomio. L’uomo, un italiano di 77 anni, era ricoverato da giorni nell’Unità operativa Medicina d’Urgenza del Sant’Orsola. Durante il ricovero era stato sottoposto a tampone naso-faringeo che aveva dato esito positivo. Altri due detenuti del carcere di Bologna sono positivi al Coronavirus e sono in isolamento. Positivo anche un agente della Polizia penitenziaria dello stesso istituto. Altri 4 detenuti, entrati in contatto con quelli ora in isolamento, sono in “domiciliazione fiduciaria” cioè in quarantena. In “domiciliazione fiduciaria” ci sono inoltre altri tre poliziotti penitenziari. Lo riferisce Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà. Nel carcere di Bologna, sempre secondo quanto informa il Garante, sono stati effettuati 150 tamponi, 92 su persone detenute e 58 su poliziotti. Il detenuto morto a Bologna era un siciliano di 76 anni, Vincenzo Sucato. Arrestato nel blitz antimafia Cupola 2.0 e considerato reggente della famiglia mafiosa di Misilmeri. Sucato si trovava in una cella dell’istituto penitenziario di Bologna da dicembre 2018. Sucato sembra fosse affetto da altre patologie e aveva anche difficoltà respiratorie. Entrato in ospedale, dunque, non come paziente Covid-19, è stato comunque sottoposto a tampone, risultando positivo. Nel frattempo, il 28, ha avuto, su decisione del giudice siciliano, gli arresti domiciliari in ospedale. “Era in cella con un altro detenuto, asintomatico, che è in isolamento in carcere, così come le altre persone che avevano avuto contatti con lui”, spiega all’Ansa Antonietta Fiorillo, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. Siracusa. Dramma in carcere a Cavadonna: detenuto si toglie la vita in cella di Gianni Catania siracusaoggi.it, 3 aprile 2020 Un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Cavadonna, a Siracusa. L’uomo, originario della provincia di Palermo, era in detenzione dal 2013 e - secondo quanto si apprende - avrebbe dovuto scontare gli ultimi anni della sua condanna. Nella tarda serata di ieri ha però deciso di farla finita. Si sarebbe impiccato nella sua cella. Inutili, purtroppo, i tentativi di soccorso. Como. Lutto nella Polizia penitenziaria, muore suicida un assistente capo poliziapenitenziaria.it, 3 aprile 2020 Un Assistente Capo Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria, di 46 anni, originario della Campania e da molti anni in servizio nel carcere di Como, si è tolto la vita a Cantù, dove viveva con la famiglia. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Siamo sconvolti: sembra non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, sempre allegro e simpatico. Faceva servizio nelle sezioni detentive, a turno, ed era da circa sei anni in servizio a Como, dopo altre esperienze lavorative (anche a Milano San Vittore). Nessuno mai ha percepito un suo disagio”. Milano. Nasce in carcere, trasferita con la mamma da San Vittore a Bollate di Sarah Crespi La Prealpina, 3 aprile 2020 Negati i domiciliari a una 23enne arrestata in gravidanza. È nata a San Vittore, non il paese bensì il carcere. Gli ultimi mesi della sua vita fetale li ha trascorsi con la mamma dietro le sbarre, il primo vagito è risuonato nei corridoi di piazzale Filangieri. Oggi ha tre mesi e ancora non vede all’orizzonte uno spiraglio di libertà. Da poco è stata trasferita con la mamma nel super attrezzato penitenziario di Bollate, perché lì almeno c’è una sezione con l’asilo nido. La piccola non ha alcuna colpa, paga però quelle della madre, una ventiduenne di etnia rom residente vicino a Busto, arrestata insieme alla complice per un furto da 97mila euro, degenerato in rapina. Pure la figlia della socia non se la passa benissimo: ha solo sei mesi e l’accudimento materno non sa cosa sia. Gli avvocati Gianluca Fontana e Mario Fortunato la settimana scorsa hanno presentato istanza di attenuazione della misura restrittiva, ossia i domiciliari, anche a fronte del rischio di contagio del virus che nelle strutture detentive è una bomba a orologeria. Il gip non ha accolto la richiesta, le due zingarelle restano dentro, una con un neonato da allattare, l’altra separata dalla sua piccina. “Abbiamo già fatto ricorso in appello, siamo in attesa”, spiega Fontana. Sul rischio di reiterazione dei reati contestati non c’è granché da discutere a dire il vero. Le due ladre, lo scorso giugno, lavorarono in trasferta a Milano, perché è buona norma rubare fuori dal proprio territorio di residenza. E non scelsero obiettivi a caso. Individuarono un lussuoso appartamento a pochi passi da corso Como, in cui viveva una moldava trentatreenne decisamente facoltosa. Con i loro attrezzi da scasso riuscirono a scassinare la porta di ingresso senza che nessuno si accorgesse di nulla e si dettero alla razzia. Erano da poco passate le 21 di una serata di inizio estate, il palazzo era semivuoto. In meno di un quarto d’ora ripulirono le stanze fino all’ultimo spillo, scesero veloci e si incamminarono verso piazza Gae Aulenti. Non immaginavano che la proprietaria di casa, ritornata pochi istanti prima, le avesse viste allontanarsi con la sua inconfondibile borsa di Hermes rossa. Quando si resero conto di avere la donna alle loro spalle, si misero a correre, spintonarono e gettarono a terra una sessantenne svizzera reduce da un intervento chirurgico ma non riuscirono comunque a sfuggire alla moldava. Ne nacque una colluttazione, l’arrivo della squadra volante mise fine al parapiglia arrestando le due giovani. Se il colpo fosse andato a buon fine, avrebbe fatto la gioia di qualsiasi ricettatore: la Hermes da sola valeva 2.500 euro. Poi c’era un portafoglio di Prada, uno di Louis Vuitton, un altro di Dolce e Gabbana, un Rolex in oro e acciaio, un Patek Philipp, gioielli di Van Cleef, occhiali da sole di Chanel, Gucci, Fendi, zaini e bauletti Vuitton. E poi denaro in contanti, carte di credito e qualche pezzo di bigiotteria di fascia alta. A giugno compariranno in tribunale. A parere del gip “la presenza di prole correda l’intensità del dolo e l’assenza di capacità auto inibitoria, la maternità e la gravidanza non sono servite da deterrente” tanto sono elevati “il dolo e la pervicacia criminale”. E così si ripropone la nemesi storica. Monza. I detenuti di pronti a donare il sangue per l’emergenza virus di Annalisa Cretella agi.it, 3 aprile 2020 Il garante Carlo Lio: “Un grande gesto di umana solidarietà quello che arriva da un penitenziario dove si devono fare i conti con le celle troppo piene”. I detenuti del carcere di Monza si sono detti “disponibili qualora ci fosse la necessità a prestarsi come donatori di sangue”. Lo hanno annunciato al garante dei detenuti per la Lombardia Carlo Lio, che questa mattina è andato a parlare con un gruppo di loro, nel penitenziario, collegandosi, via Skype anche con il garante nazionale Mauro Palma. Per Lio, intervistato dall’Agi, si tratta di “un grande gesto, di umana solidarietà quello che arriva da Monza. Anche lì, come in tutti i penitenziari del Paese, si devono fare i conti con le celle troppo piene. Che in questo periodo di emergenza sanitaria si possono trasformare in pericolosi focolai di contagio. Durante l’incontro, alcuni detenuti si sono fatti portavoce delle richieste di tutti: fare chiarezza sulla possibilità che ci sia un indulto. Possono sperare oppure no? La risposta non è stata velata. “No” indulto e amnistia sono misure impossibili in questo periodo, “è folle”. “Per l’indulto - spiega Lio - non ci sarebbero i numeri necessari in Parlamento e neanche la volontà politica”. La situazione non è migliorata con le misure varate dal governo con il decreto Cura Italia per ridurre il sovraffollamento carcerario e così il rischio contagio da coronavirus nelle carceri. Per Lio “sono ampiamente insufficienti, perché hanno mutuato nel decreto la vecchia legge 199, per la facilitazione dei domiciliari. Ma l’hanno appesantita rendendo necessario il braccialetto elettronico. Questa condizione non va bene perché non ci sono braccialetti disponibili. Si fa un provvedimento senza pensare che poi non ci sono gli strumenti per applicarlo”. Il braccialetto, infatti, è indispensabile per la concessione della detenzione domiciliare a chi deve scontare pene residue sino a 18 mesi. C’è però chi lavora “nelle pieghe delle norme per velocizzare le procedure”. Sono due donne: un grazie, anzi “un monumento” il garante lombardo dei detenuti lo farebbe ai presidenti del “Tribunale di sorveglianza di Milano e Brescia, la dottoressa Giovanna Di Rosa e la dottoressa Monica Lazzaroni. Stanno facilitando l’attuazione di un decreto lacunoso”. Ma come? In pratica “stanno facilitando le uscite dei detenuti che ne hanno titolo, utilizzando la legislazione attuale ma sveltendo le procedure, perché si rendono conto che più gente esce e meglio si governa questa emergenza”. “I tempi di valutazione dei loro fascicoli sono ampiamente dimezzati. E, mi diceva ieri Di Rosa, che solo nel distretto di Milano ha già provveduto a rilasciare 340 detenuti”. Milano. Per una volta è in maschera la Polizia penitenziaria di Massimo Pisa La Repubblica, 3 aprile 2020 In mascherina. Nei raggi, ai piani, alla matricola, al centro medico. Tra corridoi vuoti, e lo sono dal 9 marzo, il giorno della rivolta di San Vittore poi sedata grazie al lavoro diplomatico dei poliziotti della Penitenziaria e dei magistrati Alberto Nobili e Gaetano Ruta. È da allora che la casa circondariale di piazza Filangieri è in regime di “reparto chiuso”: tutti in cella durante il giorno, apertura solo negli orari permessi. Attività tutte sospese. I volontari e gli avvocati non entrano da un mese. Gli ambulatori e l’infermeria devastate sono state ripristinate, i lavori per riaprire il Centro di Osservazione Neuro-psichiatrico, e adibirlo a sezione per eventuali malati di Covid da isolare, sono in dirittura d’arrivo. La quiete sospesa, che vedete documentata da queste immagini, è un equilibrio sottile. La popolazione di San Vittore si è decongestionata sensibilmente. “Gli uomini, da 950, sono diminuiti a 781 - elenca il direttore Giacinto Siciliano - le donne da 97 a 79. In parte sono stati scarcerati, altri trasferiti: cinquanta a Bollate, qualcuno in regione, una decina tra Piemonte e Veneto”. Sono state allestite postazioni Skype nei parlatori, sono arrivati smartphone per le videochiamate, rigorosamente ai familiari. Meglio, ma manca il resto. “Sui corsi online - aggiunge Siciliano - ragioneremo la prossima settimana. Le preoccupazioni ci sono, ma il personale di polizia le ha gestite fin dal primo momento con grande professionalità”. Resta, lo ribadisce il Garante dei detenuti Francesco Maisto, magistrato di grande esperienza e sensibilità, una situazione estrema, “nonostante l’impegno del personale: i posti letto, a San Vittore, ufficialmente sono 551; e 6 mila in tutta Lombardia con una popolazione che supera gli 8 mila. L’affollamento resta, così come i problemi strutturali. E la preoccupazione se dovessero diffondersi i contagi”. Gestire il dopo-rivolta, guardarsi in faccia nelle condizioni estreme a cui ti costringe San Vittore (e il carcere in genere) non sarebbe stato semplice nemmeno senza coronavirus. È mestiere da equilibristi. “Però, dopo il 9 marzo, i contrasti sono diminuiti e forse anche i detenuti - spiega il comandante, Manuela Federico - hanno capito che la situazione è complicata per tutti. Non ci sono state nemmeno “battiture”, le proteste rumorose che sono il primo segnale di disagio, nonostante il tam tam dall’esterno continui ad arrivare. Abbiamo, poi, trovato un grande aiuto dal procuratore aggiunto Alberto Nobili e dalla presidente del Tribunale di sorveglianza, Giovanna Di Rosa”. A Nobili compete anche il fascicolo sulla rivolta: sotto esame c’è una dozzina di posizioni per il sequestro di due agenti. Più complicato è dimostrare i singoli episodi di devastazione e saccheggio e l’orientamento è di evitare, dove possibile, il pugno duro. Milano. “I detenuti impazziscono, in carcere scoppierà tutto” di Luca Fazzo Il Giornale, 3 aprile 2020 “La gente fuori non si immagina quale possa essere la situazione dentro le carceri. Non so se è più la rabbia o la paura. Hanno blindato tutto, hanno tolto le speranze a chi le aveva e ora la situazione è destinata a esplodere. Non dicono la verità neanche sui morti: ufficialmente c’è stato solo un decesso a Bologna, ma io so che il coimputato di un mio amico, arrestato per una operazione della Procura di Brescia, era a Voghera si è ammalato ed è morto”. Sono passate quasi quattro settimane dalla rivolta che ha sconvolto ventidue carceri italiane per le misure contro il Coronavirus. Di quello che sta accadendo tra le mura delle prigioni non si parla più. Ma Franco M., milanese, pluripregiudicato, un ultimo giro in carcere se lo è fatto proprio nel mese cruciale dell’epidemia. Prima a San Vittore, poi a Cremona, a ridosso della prima zona rossa. Adesso è di nuovo a casa, agli arresti domiciliari. E il suo racconto è tutt’altro che tranquillizzante. “Mi hanno arrestato il 12 febbraio e portato a San Vittore. Il 21 febbraio alle quattro e mezza mi hanno svegliato: sei partente, vai a Cremona. Lo stesso giorno è scoppiato l’allarme per il primo ammalato a Codogno e hanno sospeso tutti i trasferimenti. Così l’allarme per il virus l’ho vissuto tutto a Cremona, nel carcere nuovo, vicinissimo al primo focolaio”. Che realtà ha trovato? “La prima decisione del ministero è stata di bloccare tutti i colloqui con i parenti, tutti i permessi, tutto il lavoro all’esterno. Chi non vive la realtà del carcere, non immagina cosa voglia dire la sparizione dei colloqui. Dentro si vive nell’attesa, tra un colloquio e l’altro. Adesso stop. Hanno alzato da quattro a nove le telefonate, ma che te ne fai della telefonata quando eri abituato a vedere in faccia tua moglie e i tuoi figli?”. La spiegazione ufficiale è che la sospensione dei colloqui è fatta nell’interesse soprattutto dei detenuti, per proteggerli dall’ingresso del virus nel circuito penitenziario. “Lo so. Ma non è che il carcere è diventato improvvisamente un ambiente sterile dove non entra e non esce nessuno. Gli agenti della polizia penitenziaria entrano ed escono tutti i giorni, vanno a casa, vedono gente: quando la mattina entrano in carcere possono essere infetti, né più né meno di un nostro parente. Portano le mascherine, è vero. Allora perché non fare i colloqui con le mascherine?”. I più arrabbiati, racconta Franco, sono i detenuti che fino al giorno prima erano stati ammessi al lavoro esterno al carcere, il primo passo verso la libertà e che se lo sono visti revocare di colpo. “Ai semiliberi hanno concesso la detenzione domiciliare, invece loro sono tornati dentro. Risultato: aumento del sovraffollamento in un carcere, come Cremona, già fuori dai limiti. Nella zona vecchia hanno aggiunto una branda per cella, in alcune anche due. Questo non ha fatto altro che aumentare il panico da epidemia. Qual è il risultato? Che la gente sta chiusa in cella per evitare contatti: alle undici del mattino, quando si fa il passeggio all’aria, un sacco di detenuti preferiscono non scendere perché non sai mai chi incontri. Ma tanto se non vai tu va quello della cella accanto che poi ti ritrovi in reparto. Così io al passeggio continuavo ad andarci”. Sull’onda delle rivolte, il ministro ha varato il decreto che prevedeva, per sfollare le carceri, gli arresti domiciliari per i detenuti con un residuo da scontare inferiore all’anno e mezzo. “Sa quanti sono usciti da Cremona grazie al decreto? Zero. Nessuno. Una presa in giro”. Colpa dei braccialetti elettronici che non si trovano, “il ministero dice che ce ne sono duecento in tutta Italia”; ma colpa anche, secondo Franco, dei giudici di sorveglianza. “Se sei sotto il giudice di Milano sei fortunato, e infatti a me in venti giorni hanno concesso gli arresti domiciliari. Ma chi sta a Cremona è sotto il giudice di Mantova che è uno solo e non sta certo dalla parte dei detenuti. Così gente che aveva diritto ad uscire per la liberazione anticipata è ancora lì da mesi che aspetta che sia fissata l’udienza. In questo caos l’abolizione dei colloqui è stato un taglio totale dal mondo esterno. E la cosa peggiore è che non c’è una data, tutto è bloccato a data da destinarsi. Come i processi, che la gente aspettava da mesi se non da anni e che vengono rinviati uno o due giorni prima dell’udienza. Sa qual è la realtà? Che dentro la gente sta impazzendo e fuori devono saperlo perché tra un po’ scoppia tutto”. Avezzano (Aq). Detenuto in quarantena, timori in carcere di Pietro Guida Il Centro, 3 aprile 2020 C’è molta tensione nel carcere di Avezzano, per un detenuto messo in isolamento. Si teme possa essere stato contagiato dal Covid-19. Per tale motivo sono state adottate tutte le precauzioni del caso, per evitare contatti con altri detenuti e con il personale di polizia penitenziaria. Ma i sindacati chiedono che venga eseguito subito il tampone al detenuto, visto che da diversi giorni è stato messo in isolamento con sintomi influenzali. Questa situazione, secondo il sindacato Uil, potrebbe provocare ulteriore tensione all’interno della struttura carceraria. In particolare, il detenuto sarebbe arrivato ad Avezzano alcuni giorni fa dal carcere dell’Aquila. Una volta al San Nicola sarebbe stato messo subito in isolamento, per essere sottoposto alla quarantena, che si concluderà tra una settimana. Su questa vicenda chiede chiarezza il componente della segreteria regionale Uil Pa Mauro Nardella, che ha inviato una lettera chiedendo chiarimenti al capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, al provveditore dell’amministrazione penitenziaria Lazio, Abruzzo e Molise Carmelo Cantone, al Garante regionale dei detenuti Gianmarco Cifaldi, per conoscere le modalità di svolgimento del trasferimento effettuato il 21 marzo. Non ha però avuto risposta. Tale richiesta, oltre che per sollecitare il tampone al detenuto, “nasce dall’esigenza di capire se all’atto del rilascio del nulla osta sanitario, siano state seguite le indicazioni previste dalle disposizioni dipartimentali in materia di Covid-19”. Nardella chiede di chiarire anche se “in precedenza il detenuto avesse o meno sintomi che potevano far pensare a una positività da coronavirus”. Il detenuto, secondo il sindacato, prima di essere trasferito ad Avezzano, se in presenza di sintomi, doveva essere sottoposto a tampone. Inoltre Nardella chiede “se risulta o meno essere stata avanzata dal medico della Casa circondariale, richiesta per sottoporre a tampone il detenuto”. Intanto ieri ad Avezzano sono risultate positive soltanto due persone. Si tratta di una donna di Avezzano e di un paziente ricoverato in una clinica, ma residente a Celano. La prima si trovava già in quarantena ed è collegata con uno dei primi pazienti positivi registrati ad Avezzano. Ora è in via di guarigione. Il secondo paziente, di Celano, è collegato al contagio nella clinica San Raffaele di Sulmona, dove erano ricoverati altri celanesi, ora in attesa del tampone. Padova. Rischio contagio, al Due Palazzi chiuso il laboratorio di pasticceria Il Gazzettino, 3 aprile 2020 Stop forzato per il dolce pasquale prodotto in carcere: niente colomba pasquale per i detenuti della casa di reclusione Due Palazzi, impiegati nella Pasticceria Giotto del carcere di Padova. Lo staff della pasticceria, gestita dalla cooperativa Work Crossing, ha annunciato la chiusura del laboratorio in ottemperanza al decreto “Chiudi Italia”. L’anno scorso la pasticceria aveva sfornato circa 12 mila colombe, realizzate da una quarantina di detenuti: “Anche loro hanno avuto accesso al fondo d’integrazione salariale - spiega Matteo Marchetto, presidente di Work Crossing. I clienti sono così affezionati alla qualità del nostro prodotto che siamo convinti di poter riprendere le attività. Ora però era giusto fermarsi per tutelare sia i detenuti che gli agenti di polizia penitenziaria da qualsiasi rischio di contagio”. Solidarietà per gli emigranti, solidarietà per gli immigrati di Enrico Pugliese e Rodolfo Ricci Il Manifesto, 3 aprile 2020 Pandemia. I nuovi emigranti italiani perdono il lavoro in settori di rilievo. I Paesi Ue non devono escluderli sulla base della residenza ufficiale o del loro non inserimento nella previdenza locale. Così è necessario che in Italia gli aiuti previsti dai decreti in atto non escludano i lavoratori stranieri, compresi quelli impiegati al nero o in condizioni di irregolarità. Forse su questo non si è riflettuto abbastanza. Pochi hanno parlato dell’angoscia per un congiunto lontano da casa - studente, operaio precario, o impiegato parimenti precario - confinato in un alloggio piccolo e affollato. Tra tanta solidarietà nazionale che abbiamo osservato - e soprattutto osservato decantare - è mancato uno sforzo di solidarietà interregionale. Non sappiamo se si poteva fare diversamente. E certo bisognava scoraggiare le partenze incontrollate Ma di certo potevano essere seguiti migliori e più umani criteri. Con tutto ciò ben più grave è la situazione per gli italiani che stanno all’estero. Tra di loro c’è una componente di dimensione non esattamente stimabile (ma pari almeno a un milione di persone) costituita da quella che è definita solitamente “la nuova emigrazione italiana”. Si tratta di giovani (e meno giovani) a diverso livello di istruzione e qualificazione caratterizzati da una situazione analoga mercato del lavoro. Siano essi camerieri, commessi di attività commerciali, impiegati in istituti di ricerca, collaboratori di studi di archistar per loro la condizione precaria è la norma. E al lavoro precario regolato si aggiunge anche all’estero il lavoro nero. La stragrande maggioranza di questi nuovi emigranti vivono in quattro o cinque paesi europei. E fino a tempi molto recenti hanno vissuto la loro esperienza migratoria come una sorta di emigrazione interna. Si partiva senza passaporto, si conosceva o si imparava presto la lingua. E il lavoro, per quanto precario, era migliore di quello che si poteva trovare a casa, ammesso che se ne trovasse qualcuno. Le notizie che vengono da associazioni operanti nel campo dell’emigrazione mostrano invece un numero significativo di casi di perdita di lavoro in settori dove i nuovi emigranti italiani hanno una presenza di rilievo. Non si tratta solo della chiusura dei ristoranti ma ad esempio anche della intera filiera alimentare che in paese come la Germania occupa decine di migliaia di nuovi emigranti italiani. E ci sono situazioni analoghe nel commercio, nelle attività di servizio ed altro. Naturalmente molti dei paesi destinatari della recente emigrazione italiana avranno messo in campo misure di sostegno ai lavoratori analoghe a quelle italiane. Ma ci sono seri problemi riguardanti l’effettivo accesso ai benefici. Innanzitutto ne sono esclusi i lavoratori al nero. In secondo luogo ci si scontra con e usuali limitazioni discriminatorie a livello burocratico. Su questo esprime serie preoccupazioni, avanzando qualche proposta, il Cgie (Consiglio generale degli Italiani all’estero) chiedendo al governo italiano di “sollecitare gli stati membri della Ue a farsi carico dell’emergenza di tali situazioni” e di “assicurare la sussistenza dei lavoratori stranieri, a prescindere dalla loro residenza ufficiale e inserimento nel sistema previdenziale locale”. E aggiunge la richiesta di agire direttamente per casi di “particolare delicatezza che possono riguardare fasce di popolazione non coperte dai welfare locali in paesi molto svantaggiati”. Ciò per quel che riguarda gli italiani all’estero. Ma a questa urgente esigenza di solidarietà ne corrisponde un’altra, parimenti urgente, nei confronti degli immigrati stranieri in Italia. È necessario che gli aiuti previsti dai decreti in atto non escludano i lavoratori stranieri: non solo quelli in condizione regolare (cosa prevista dalla legislazione italiana) ma anche quelli impiegati al nero o in condizioni di irregolarità. Il che corrisponde esattamente a quello che il Cgie chiede ai governi europei per gli emigrati italiani. Forte eco ha avuto sui social la decisione del governo portoghese di procedere alla immediata regolarizzazione di tutti i lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale. La motivazione del governo portoghese ha posto in primo luogo la questione dei diritti umani e della salute. In più non va dimenticato - e va ribadito in caso di sordità delle istituzioni - la indispensabilità di questi lavoratori per la vita economica e sociale del paese. Di questo si sono resi conto in molti e molte voci si sono espresse in questo senso nel nostro paese. Il manifesto ha dato notizia nell’articolo di Massimo Franchi dell’appello della Flai-Cgil che tra le altre cose chiede la regolarizzazione di tutti gli immigrati. E mai come ora un intervento di questo genere è al contempo urgente e possibile. Innanzitutto perché i lavoratori precari o al nero dell’agricoltura, e non solo, attualmente senza lavoro possano godere dei sussidi previsti per tutti i lavoratori dipendenti ma anche perché essi possano affrontare in condizioni di vita più decenti questa situazione. Ci sono anche dei buoni passi avanti in questa direzione. Nei giorni scorsi diversi esponenti politici e governativi, in particolare la Ministra dell’agricoltura e il Ministro, per il Sud hanno proposto la regolarizzazione dei lavoratori immigrati stranieri presenti sul territorio italiano. Non si tratta solo un fondamentale gesto umanitario, perché se le centinaia di migliaia di lavoratori (in nero) se ne vanno la filiera agricola e alimentare salta, come già sta saltando quella dell’assistenza familiare basata sulle badanti. E bisogna far presto prima che, passato questo momento di solidarietà, le proposte umanitarie e razionali abbiano la stessa sorte delle proposte sullo ius soli. Migranti. Il Viminale ai prefetti: “Stop alle espulsioni dai centri” di Carlo Lania Il Manifesto, 3 aprile 2020 Per contenere l’epidemia coronavirus: “Accoglienza anche per chi ha perso il diritto”. Stop alle espulsioni dei migranti dai centri di accoglienza. Con una circolare indirizzata ai prefetti, il Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale chiede di trattenere nelle strutture rifugiati e richiedenti asilo anche - spiega il capo del Dipartimento, il prefetto Michele di Bari - “se non hanno più titolo a permanere nei centri”. La circolare, datata 1 aprile, rientra tra le misure adottate dal Viminale per prevenire la diffusione del coronavirus e viene incontro all’esigenza di assicurare controlli e assistenza sanitaria anche ai migranti. Un’iniziativa in linea con quella adottata alla fine dello scorso anno quando, grazie a un accordo tra il ministero e l’Associazione dei comuni (Anci), si permise la permanenza all’interno dei Siproimi (ex Sprar) ai titolari di protezione umanitaria, anche oltre la scadenza del 31 dicembre prevista dal primo decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno. Sono 84.946 i migranti presenti nelle strutture fino al 31 marzo scorso, 22.420 dei quali trovano posto all’interno dei Siproimi e 62.428 nei centri di accoglienza. Tre, invece, le categorie di persone che fino a due giorni fa, quando sono state impartite le nuove direttive, rischiavano di ritrovarsi da un giorno all’altro in mezzo alla strada. La prima riguarda quanti si sono visti respingere la domanda di asilo e che ora potranno rimanere nelle strutture che li accolgono fino alla fine dell’emergenza pandemia. Poi ci sono coloro - e sono una minoranza- che hanno subito un provvedimento disciplinare, per essersi allontanati dal centro senza permesso o per un altro motivo. Infine quanti si trovano nei Siproimi. A parte i minori non accompagnati - per i quali la permanenza nella struttura non è in discussione - il provvedimento riguarda persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato e per le quali è previsto un percorso di integrazione della durata di sei mesi, rinnovabili per altri sei. Chi tra questi si trova alla fine del percorso, anziché abbandonare la struttura come previsto può rimanere e continuare a ricevere assistenza. La circolare invita poi i prefetti ad assicurarsi che i migranti vengano informati sui rischi della diffusione del virus e sulle misure di prevenzione da adottare, dalle limitazioni degli spostamenti alle distanze da mantenere anche all’interno dei centri, insieme a garantire, se necessario, strutture nelle quali mettere in atto la quarantena per coloro che dovessero risultare positivi al virus. Come per gli italiani, anche in questo caso l’obiettivo è quello di evitare i rischi di contagio sia per i migranti che per gli operatori, ma anche di evitare che si creino “situazioni di allarme sociale dovute al mancato rispetto, da parte dei primi, dell’obbligo di rimanere all’interno delle rispettive strutture”. Misure di prevenzione che per il Viminale devono essere rispettate anche da chi arriva in Italia via mare. Al momento dello sbarco i migranti devono essere sottoposti a screening sanitario e poi a quarantena per quattordici giorni. Solo al termine di questa procedura “e sempre che non siano emersi casi di positività al virus”, potranno essere trasferiti nelle strutture di accoglienza “previo - sottolinea ancora la circolare - rilascio di idonea certificazione sanitaria”. Pandemia di regimi di Roberto Prinzi Left, 3 aprile 2020 Dall’Iran all’Egitto, dal Bahrain alla Libia, dall’Arabia Saudita a Israele si leva il grido disperato dei detenuti alla mercé del coronavirus: Amnistia per tutti. D all’Iran alla Libia passando per il Libano e l’Egitto, il Covid-19 ha unito coloro a cui spesso non si dà voce: i carcerati. Rinchiusi in celle sovraffollate dove il rischio contagio è alto anche a causa di condizioni igieniche inaccettabili, i detenuti sono insorti chiedendo più o meno ovunque la stessa cosa: amnistia per non essere contagiati. In Bahrain, la monarchia sunnita di re Hamad ha provato a stroncare sul nascere possibili proteste liberando a metà marzo “una significativa porzione” della sua popolazione carceraria (circa 1.700 persone). Ma non è tutto oro quello che luccica: l’Istituto del Bahrain per i diritti e la democrazia (Bird) ha infatti denunciato come nella lista dei rilasciati manchino “importanti leader politici e difensori dei diritti umani” e come l’intero processo sia stato poco trasparente. Appelli per il rilascio dei prigionieri sono stati fatti da organizzazioni per i diritti umani anche negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita, ma sono per ora caduti nel vuoto. Ma se in questi Paesi del Golfo gli effetti letali del coronavirus sono stati al momento contenuti, diverso è il caso dell’Iran che fino a domenica contava ufficialmente più di 2.600 vittime e oltre 38mila contagiati. La situazione è drammatica nella Repubblica islamica al punto che le autorità hanno esteso via via il numero dei detenuti da rilasciare: sono al momento 100mila, 15mila in più rispetto a metà marzo. Tra questi ci sono anche i prigionieri politici, inclusi molto probabilmente dopo le pressioni delle Nazioni Unite. Teheran, piegata dalla crisi economica dovuta soprattutto alle sanzioni americane, ha capito intelligentemente prima di ogni altro Paese al mondo il pericolo della diffusione del virus nelle carceri: un problema sì sanitario, ma che può trasformarsi in breve tempo in un serio grattacapo politico. E così è intervenuta seguendo il famoso detto che prevenire è meglio che curare. E i risultati pare le stiano dando ragione. Basta guardare a cosa è accaduto in Libano dove proteste violente hanno avuto luogo a metà marzo nelle carceri di Roumieh (a nord est di Beirut) e Zahle (a est del Paese). In due filmati circolati in rete alcuni prigionieri insanguinati mostrano larghe ferite sul corpo accusando i secondini di aver premuto il grilletto. “Guardate cosa ci fa lo Stato” grida uno degli uomini. Un’accusa grave, ma che sembrerebbe essere fondata: una fonte anonima della prigione intervistata da al-Jazeera ha ammesso che due detenuti sono stati colpiti da pallottole ricoperte di gomma. “C’è stata una grande rivolta che ha portato la rottura di porte e la distruzione di attrezzature - ha detto. A quel punto le forze di sicurezza sono intervenute”. Si sbaglia a credere che dietro le proteste in Libano, come altrove, ci siano solo paure per la diffusione del Covid-19. Il virus rappresenta solo il punto di rottura di una situazione da anni insostenibile: è l’umanità invisibile a cui è tolta la voce qui e in gran parte del mondo ed etichettata per lo più come “problema di sicurezza” a reclamare il suo diritto ad essere trattata con dignità. Ecco perché liberarne alcuni - la Libia ne ha rilasciati 466 domenica - oltre a limitare i contagi, può aiutare anche a stemperare le tensioni, mai come in questa fase emergenziale del tutto superflue. Ma non tutti i governi dell’area sono così avveduti. Ne sanno qualcosa i detenuti egiziani, 60mila dei quali sono in cella per motivi politici. L’arrivo dell’epidemia potrebbe avere effetti devastanti visto l’affollamento carcerario e le scarse condizioni igieniche. L’attivista dei diritti umani Nasser Amin non ne ha dubbi e, intervistato dal portale al-Monitor, ha proposto il rilascio di “chi è detenuto in attesa del processo, di chi è sotto indagine, di chi non è incriminato e degli anziani”. Dopo tutto l’indicazione di Amin ha una base legale: l’articolo 201 del codice penale egiziano prevede in particolari circostanze la liberazione dei detenuti in cambio di altre misure. Ma dalle carceri sono usciti finora solo 15 oppositori del golpista al-Sisi. Il regime non conosce al momento alcuna clemenza. Anzi, dal 9 al 19 marzo, ha sospeso pure le visite dei familiari dei carcerati. Per il Cairo, in fondo, si tratta di criminali, spesso accusati di terrorismo così da non destare proteste nella comunità internazionale. “Terroristi” a cui non di rado è negato il trattamento medico. Un punto quest’ultimo non casuale. “Il regime usa la negligenza sanitaria come mezzo per uccidere perché sa che non comporta conseguenze”, ha scritto Rania Mostafa su Middle East Monitor. È quanto accaduto lo scorso anno all’ex presidente islamista Mohammad Morsi, un caso niente affatto isolato: le vittime di quella che Mostafa chiama “negligenza medica” dal 3 luglio 2013 (data del golpe di al-Sisi) all’anno scorso sono state 826. Sono una bomba pronta ad esplodere anche le carceri israeliane dove sono rinchiusi 6mila prigionieri palestinesi e dove già si sono registrati alcuni casi di positività al coronavirus. Le prigioni in Palestina sono storicamente un luogo centrale del conflitto contro le politiche d’occupazione israeliane, rappresentando un laboratorio politico importante. A differenza di quanto accade nel resto del mondo, la questione dei prigionieri è una causa molto sentita da parte della popolazione locale: non c’è famiglia qui che non abbia un caro detenuto e in carcere ci va poi il muqawim, il “resistente” colui che ha lottato in difesa della propria terra e della libertà del suo popolo. Senza dimenticare che, soprattutto negli ultimi anni, le prigioni hanno rappresentato l’unico luogo dove poter ricostruire l’unità politica perduta. Ecco quindi perché l’arrivo del coronavirus è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: i detenuti hanno protestato rifiutando i pasti, hanno chiuso alcune sezioni delle carceri, accusando le autorità carcerarie israeliane di aver utilizzato l’emergenza epidemica per privarne di altri diritti basilari. I detenuti minacciano uno sciopero della fame qualora la situazione non dovesse cambiare. Preoccupano in particolare le condizioni di 700 detenuti ammalati, 170 dei quali sono in gravi condizioni e necessitano di immediate cure. In una lettera pubblicata la scorsa settimana, 35 di loro hanno domandato: “Che succede se il Covid si diffonderà nelle carceri? Quali misure verranno prese in modo umano dal servizio carcerario israeliano?”. Ma Israele, in lockdown per un virus non più minaccia ma reale, non ascolta. Dopotutto trattasi di “terroristi”. Ecuador. Centinaia di cadaveri abbandonati in strada di Claudia Fanti Il Manifesto, 3 aprile 2020 Servizi sanitari e mortuari al collasso, la polizia raccoglie i morti. Intanto Lenin Moreno militarizza l’emergenza: da venti giorni stato d’eccezione, aumentano gli abusi contro i quartieri popolari. Ospedali allo stremo, cadaveri che si accumulano negli obitori e che i familiari non riescono a recuperare, corpi lasciati a casa per giorni e poi, in assenza di risposte da parte del sistema sanitario, abbandonati in strada dentro sacchi di plastica o dati alle fiamme. Sono immagini dantesche quelle che giungono da Guayaquil, in Ecuador, uno dei paesi latinoamericani più colpiti dal coronavirus: oltre 2.700 contagi, di cui 1.900 nella provincia di Guayas, e 93 vittime ufficiali. “Che sta succedendo al sistema di salute pubblica del paese? Nessuno vuole raccogliere i morti”, ha denunciato, in polemica con il governo Moreno, la sindaca di Guayaquil Cynthia Viteri, risultata anche lei positiva al Covid-19. “L’intenzione del governo è che tutti, non solo le vittime del coronavirus ma tutti i defunti di questi giorni, abbiano una degna sepoltura”, ha assicurato il vicepresidente Otto Sonnenholzner, dopo l’ondata di indignazione provocata dalla sua precedente dichiarazione che i morti per Covid-19 - peraltro difficilmente individuabili in assenza di tamponi - sarebbero stati seppelliti in fosse comuni. La realtà parla piuttosto di un collasso totale dei servizi sanitari e di quelli mortuari, aggravato dal rifiuto di molte agenzie funebri di continuare a lavorare per paura del contagio. Solo l’ultima settimana la polizia ha recuperato più di 400 cadaveri dalle strade della seconda città più importante del paese e ne restano ancora 115. Né certamente è di aiuto alle operazioni di raccolta il coprifuoco di 15 ore decretato dal governo di Lenin Moreno insieme allo stato di eccezione in vigore ormai da tre settimane. Una militarizzazione dell’emergenza fortemente criticata dagli organismi dei diritti umani, che denunciano violenze e atteggiamenti vessatori da parte delle forze di sicurezza nei quartieri popolari, in cui oltretutto stentano ad arrivare gli aiuti dello Stato. E un ulteriore motivo di difficoltà è legato al fatto che, di fronte alla decisione del governo di rendere obbligatorie le cremazioni, in città “esistono solo tre forni crematori, tutti privati, che chiedono cifre impossibili per le classi popolari”, come denuncia Billy Navarrete, segretario esecutivo del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani di Guayaquil: “È incredibile - ha detto - ma in questo quadro c’è anche chi persegue il profitto”. La situazione, in ogni caso, non è destinata a migliorare nell’immediato se è vero che, come ha affermato il ministro della Salute Juan Carlos Zevallos, la curva dei contagiati è esponenziale e le autorità sanitarie prevedono che solo nella provincia di Guayas, in cui si trova Guayaquil, le vittime arriveranno a una cifra compresa tra 2.500 e 3.500. In tale contesto grande preoccupazione è stata espressa dalla Conaie - la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador che ha giocato un ruolo determinante nella rivolta anti-governativa dello scorso ottobre - riguardo l’assenza di risposte concrete da parte del presidente Moreno verso la popolazione più vulnerabile: il governo, esigono in una nota le organizzazioni indigene del paese, deve adottare “tutte le misure necessarie, culturalmente appropriate ed efficaci, per proteggere le comunità e i territori da cui dipendono”.