E ora il carcere attende una svolta di Fulvio Fulvi Avvenire, 30 aprile 2020 Sovraffollamenti, colloqui sospesi, tablet. Si cerca una soluzione per la “Fase 2”. Lunedì parte la “Fase 2”. Ma che cosa succederà nelle carceri italiane? Tutto resterà come adesso o cambierà qualcosa? E in che direzione? La pandemia ha portato a rigide limitazioni dietro le sbarre: vietati i colloqui con i familiari, volontari costretti a rimanere fuori, misure di distanziamento fisico (quasi impossibili nelle celle), niente corsi né laboratori con l’apporto di personale esterno. I detenuti sono troppo vicini, a causa del sovraffollamento, e quindi sempre più a rischio contagio (anche se con la mascherina). I numeri ufficiali del 28 aprile sulla diffusione del Covid-19 negli istituti penitenziari ci dicono che c’è stata un’impennata di casi positivi: 150 (il 6 aprile erano solo 37) sulle 53.345 persone ristrette nelle 190 carceri italiane dove la capienza effettiva è di 46.731 posti. E 13 tra i contagiati sono ricoverati in ospedale. Non si sa, peraltro, quanti detenuti siano stati sottoposti a tampone. Tra il personale, invece, i contagi sarebbero arrivati a 300, secondo i sindacati della polizia penitenziaria. Il “decreto aprile” firmato domenica dal premier Conte, prorogando di fatto le disposizioni precedenti, per le carceri stabilisce soltanto che “i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. “Si raccomanda - prosegue il provvedimento - di limitare i permessi e la semilibertà odi modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Nulla di nuovo, quindi, rispetto al precedente assetto anti-coronavirus. E le videochiamate con tablet e smartphone? Entrate come “surrogato” delle visite parenti, e come risposta alla rabbia montata con le rivolte all’interno di alcuni penitenziari nei primi giorni del lockdown, i detenuti si chiedono ora se resteranno anche dopo l’emergenza: potrebbe essere un modo per mantenere una continuità dei contatti con i propri cari, senza sostituire però i colloqui personali diretti, pur mantenendo la distanza di sicurezza di due metri. Ci sono stati carcerati che grazie alla tecnologia a Pasqua hanno potuto salutare genitori, nonni, zii, che non vedevano da anni. Perché non stabilizzare allora questa opportunità, sempre con la necessaria vigilanza? Anche le attività didattiche e culturali e i percorsi rieducativi si svolgono adesso con il supporto delle videoconferenze con la partecipazione di esperti, testimoni, studenti e degli stessi reclusi: perché non creare un “sistema” che coinvolga più istituti penali? “Si tratterebbe di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che metterebbe al centro la responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione - commenta Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti. Un’opportunità che offre, sostiene Favero, anche “gli strumenti fondamentali alle persone detenute, che non possono restare dei digitali” se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della vita di ognuno di noi”. È in atto, in questi giorni, un confronto tra il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e i suoi colleghi territoriali per individuare le linee da proporre al governo e riflettere sulle prospettive della “Fase 2”. Si è creata una specie di task force. “Ai Garanti allora diciamo che il volontariato e le cooperative sociali chiedono di essere coinvolti in questo dialogo - conclude Favero - e di esserlo da subito, perché è adesso che c’è bisogno di tornare a essere presenti capillarmente nelle carceri, ed esserlo portando idee, risorse, capacità innovativa”. Intanto la Corte europea peri diritti dell’Uomo ha chiesto chiarimenti all’Italia sulla situazione nelle carceri in merito all’emergenza coronavirus. La pronuncia si riferisce, in particolare, all’istituto di pena delle Vallette, a Torino dove è scoppiato un focolaio dell’epidemia. Dei delitti e delle pene. E del virus di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2020 Le misure prese in seguito alle rivolte scoppiate in piena emergenza sanitaria hanno riacceso il dibattito sulle carceri italiane. Provvedimenti che Alberto Nobili, magistrato simbolo della mediazione con i detenuti di San Vittore, difende nel nome di una Giustizia che non dimentichi la funzione di rieducazione assegnata a quei luoghi. Salito sul tetto di San Vittore, era sicuro che, ancora una volta, la soluzione non potesse che essere “fermezza e fiducia”. Quando, entrato nel cestello dei vigili del fuoco, Alberto Nobili ha raggiunto i detenuti del carcere milanese in rivolta, il suo è diventato il volto della Giustizia che cerca la mediazione. “Una strada che dovrà essere battuta sempre di più, e l’emergenza ha dimostrato che si può fare”, riflette il magistrato. Il Coronavirus ha stravolto anche l’amministrazione della giustizia: in un attimo, nuove abitudini hanno preso il posto di riti consolidati. E l’equilibrio trovato è destinato a lasciare tracce anche dopo la crisi sanitaria. “Per il carcere quanto è stato fatto per evitare il contagio sarebbe stato possibile a prescindere dal virus”, sospira Nobili. Nelle parole del magistrato - alle spalle quarant’anni di caccia a sequestratori, mafiosi e terroristi - non c’è la rivincita di chi vuole ricordare “io l’avevo detto...”. Piuttosto, c’è la consapevolezza che la strada aperta ora - con l’uscita di determinati detenuti - vada nella direzione indicata: “Se li mandiamo a casa, vuol dire che non sono pericolosi. E che quindi possono scontare in modo diverso la pena. Io penso a un carcere di qualità, senza sconti per chi va tolto dal contesto sociale; con misure alternative, invece, per gli altri”. I dati dicono che il carcere tende a riprodurre sé stesso, quando lo Stato “non offre col lavoro un’occasione di riscatto”, argomenta Nobili, mentre il tasso di recidiva - di ritorno, cioè, al reato - crolla per chi è stato in penitenziari (come Bollate) dove iniziative professionali rendono intenso lo scambio tra il mondo “di fuori” e quello “di dentro”. “Se lo Stato esercita solo la funzione sanzionatoria e non rieducativa favorisce la creazione di sacche da cui attinge la criminalità”. Una riflessione ancora più attuale ora che gli scenari di crisi economica allungano le ombre di usurai e mafiosi su famiglie in difficoltà. “Così avvenne anche negli Anni 70-80, quando le diseguaglianze si ampliarono e la ‘ndrangheta metteva a disposizione di chi era in crisi la liquidità accumulata con sequestri e droga”, ricorda il magistrato, che ha portato avanti - come l’ex moglie Ilda Boccassini - le prime inchieste sulle cosche calabresi a Milano. Analogie con il passato, nuove evidenze investigative: “Mentre il mondo è concentrato sulla pandemia, i trafficanti di cocaina trasportano dalla Colombia grossi carichi per riempire magazzini in Marocco. Tanto prima o poi la piazzeranno”. Tracce su cui indagare. Tenere lontani gli ex detenuti dai clan o da nuovi reati è una delle sfide più complesse della Giustizia, chiamata nel dopo emergenza a occuparsi ancor di più di prevenzione, oltre che di repressione. “La gran parte dei detenuti, quando esce, compie furti per ripagare debiti accumulati. Non succede quando si offre lavoro, ma non è possibile per tutti, con celle così sovraffollate”. Il punto cruciale del sistema penitenziario, da sempre, è questo: i numeri e le condizioni di vita. Anche dietro le rivolte, che hanno lasciato morti, devastazioni e danni milionari, c’era soprattutto la “volontà di denunciare le condizioni carcerarie: il Coronavirus non c’entrava molto”, chiarisce Nobili. Anche se ufficialmente le proteste erano contro il divieto ai colloqui, per evitare contagi. Il virus, però, è entrato in queste strutture, dove è impossibile garantire distanze. Così, l’urgenza della situazione ha portato a far aprire i cancelli per quei detenuti che potessero scontare altrove il resto della pena. “Significa che non erano pericolosi e che forse potevano fin dall’inizio scontare in altro modo la pena”. Parole che possono sembrare una contraddizione, con il ruolo di pubblico ministero. Sono invece il punto di arrivo di un magistrato attento anche a quello che succede dopo l’arresto. “Per questo sono riuscito ad aprire un dialogo con i detenuti di San Vittore. Sono andato sul tetto, insieme al pm Gaetano Ruta, per ascoltare. Senza promesse, ma con la garanzia di sentire le loro ragioni”. Come chiunque conosca l’ambiente, sa bene come il carcere possa rendere ancora peggiori, e per questo è divenuto per lui “un tarlo” sollecitare soluzioni diverse, innanzitutto per i tossicomani, come per molti migranti, “che rappresentano i due terzi della popolazione carceraria: andrebbero mandati in centri di cura, i primi; a svolgere servizi socialmente utili, i secondi, così da favorire il pacifico inserimento”. Quella Concordia, che discende dalla Giustizia, a sua volta mossa dalla Sapienza, come nella rappresentazione del Buon Governo, affrescata da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. “Il carcere in fondo funziona davvero quando la pena viene avvertita come giusta da chi la sconta”. In assenza di sempre attese riforme penitenziarie, è stato allora un virus a cambiare qualcosa. Molto è cambiato anche nell’amministrazione quotidiana, quando gli androni del Palazzo di Giustizia milanese si sono ritrovati svuotati dalle seimila persone che in media li attraversano ogni giorno. Alla fine, anche i processi per direttissima si sono svolti con magistrati e avvocati in collegamento telematico; come per i testimoni di quei dibattimenti, che non è stato possibile rinviare. Tutti i procuratori aggiunti milanesi, durante il lockdown, si sono ritrovati in cali conferente per condividere con il procuratore Francesco Greco questioni organizzative. Compresa la gestione dei tremila fascicoli aperti per violazioni al divieto di uscire di casa: “Con i primi decreti, chi veniva fermato senza valido motivo commetteva reato; poi il profilo penale è caduto, ma per tutti quei casi dei primi giorni noi dobbiamo chiedere al giudice di archiviare e mandare tutto al Prefetto per le sanzioni amministrative. Ora, con le nuove norme, ci arrivano gli accertamenti, ma i fascicoli vengono aperti senza indagati e mandati direttamente al Prefetto”. Chiaro esempio degli ingranaggi giudiziari, non facili da modificare. Quando si è in emergenza, il principio generale è semplificare. Anche l’amministrazione giudiziaria ha provato a farlo, tanto che il procuratore generale della Cassazione ha invitato a “procrastinare l’esecuzione della pena”. In pratica, mandare in carcere solo quando necessario. Ma certi cambiamenti richiedono interventi legislativi, oltre che buone prassi. Le testimonianze di questi mesi hanno mostrato, però, anche un altro volto della Giustizia “che non usa subito e solo il carcere, che dovrebbe essere l’extrema ratio”, avverte Nobili. Una Giustizia che prova invece a mediare. A ricucire gli strappi e, quando possibile, dialogare. Come nei percorsi di mediazione, più volte esplorati. Da mediatore in situazioni estreme, più volte Alberto Nobili ha fatto ricorso a “fiducia e fermezza” prima della rivolta di San Vittore: quando si offrì al posto dell’ultimo ostaggio per trattare con un uomo barricato in una banca; o quando riuscì a salvare un trentenne, che minacciava di suicidarsi dall’impalcatura del Palazzo di Giustizia. Lui, che ha catturato i sequestratori di Alessandra Sgarella o i primi ‘ndranghetisti della Lombardia durante il boom edilizio degli Anni 80, ha sempre creduto in una Giustizia conscia del mondo in cui agisce. Che guarda alla società. Una Giustizia senza benda sugli occhi, come nella raffigurazione del Palazzo milanese del Piermarini. Cdm, via libera al decreto di Bonafede contro le scarcerazioni facili dei boss di Liana Milella La Repubblica, 30 aprile 2020 L’ok è arrivato in tarda serata dal Consiglio dei ministri. Malumori dei renziani. Per Forza Italia è incostituzionale. Il Csm solidarizza con i magistrati di sorveglianza che si sentono commissariati. Il nuovo vice capo del Dap Tartaglia subito al lavoro. Il decreto legge anti-boss di Alfonso Bonafede è stato approvato ieri sera in consiglio dei ministri. “Nei limiti della Costituzione”, come dice alla Camera lo stesso ministro della Giustizia, perché il governo non può imporre ai giudici nessuna decisione, il decreto inserirà degli obbligatori via libera dati dai procuratori antimafia. E anche la Procura nazionale di Cafiero De Raho dovrà esprimersi sulle richieste di scarcerazione che con l’emergenza virus si sono moltiplicate. Finora alcune sono state accolte, e tra queste alcune hanno sollevato le proteste delle stesse toghe antimafia, come quelle di Pasquale “Bin Laden” Zagaria, di Francesco Bonura, di Vincenzino Iannazzo, e da ultimo quella di Pietro Pollichino di Corleone. In sospeso c’è pure la richiesta di domiciliari fatta da Raffaele Cutolo. Ma con il via libera al decreto di Bonafede tutto cambia. Anche se già partono le proteste non solo dell’ala più garantista - vedi la reazione del renziano Migliore e del forzista Costa - ma degli stessi giudici di sorveglianza che si sentono commissariati. Nonché dei colleghi del Csm che chiedono subito di affrontare il caso temendo soprusi. Intanto cambia il vertice delle carceri perché il Csm ha già dato il via libera al nuovo vice Roberto Tartaglia, ex pm a Palermo e attuale consulente della commissione Antimafia. Il decreto anti boss - Partiamo da qui, il piatto forte della giornata, anche per le polemiche dichiarazioni di Bonafede alla Camera durante il question time. Al momento, la bozza di decreto che dovrebbe essere approvata già stasera è composta di cinque articoli. Il secondo riguarda la concessione di permessi, domiciliari, scarcerazioni. Per i quali, un minuto dopo il via libera al decreto, i magistrati di sorveglianza, sia per i delitti più gravi, sia per i detenuti che si trovano ristretti al 41bis, il carcere duro per i mafiosi, dovranno obbligatoriamente chiedere il via libera ai magistrati della procura della città dove è stata emessa la sentenza. In particolare per quelli al 41bis sarà necessario anche il parere vincolante della Procura nazionale antimafia. Una regola che, ancora prima di entrare in vigore, già spacca la maggioranza perché il renziano Gennaro Migliore dichiara che “la volontà di sottoporre le decisioni della magistratura di sorveglianza al parere di altri organi giurisdizionali rischiano di comprometterne l’autonomia e l’indipendenza”. Mentre strali arrivano anche dall’opposizione perché il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa definisce il provvedimento “incostituzionale” e accusa Bonafede “di voler far decidere ai pm le scarcerazioni” ironizzando su un ministro che “sogna le procure che scorrazzano libere e belle nelle praterie del processo”. A far discutere è anche il tempo - 30 giorni (erano 40 nella prima bozza ma sono stati ridotti) - che viene dato alla procura nazionale antimafia per dare una risposta sulla licenza di concedere benefici. La collera di Bonafede - Ma in realtà non è affatto così perché è proprio lo stesso Bonafede, a Montecitorio, a mettere paletti di costituzionalità. Il ministro respinge con toni aspri “il messaggio per cui il governo starebbe scarcerando i mafiosi”, che “non è semplicemente fuorviante, ma è totalmente e inequivocabilmente falso”. Qui entra nel merito di cosa è possibile fare e cosa invece è vietato: “I principi e le norme della nostra Costituzione sono univocamente orientati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Ciò vuol dire che non c’è alcun governo che possa imporre o anche soltanto influenzare le decisioni dei giudici, in questo caso dei giudici di sorveglianza. Punto. Questo non è un principio liberamente interpretabile o su cui ci si può girare intorno. La Costituzione non lascia spazio a ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un ministero possa dettare la decisione di un magistrato”. Di conseguenza, il magistrato di sorveglianza è libero nelle sue valutazioni. Ma in quelle che farà in futuro dovrà anche valere il tasso di pericolosità dei soggetti che chiedono detenzioni domiciliari o scarcerazioni tout court. Le toghe di sorveglianza protestano, il Csm è con loro - Ma i giudici di sorveglianza non si tengono l’accusa di aver scarcerato i mafiosi senza ragione. Si sentono “colpiti da un attacco ingiustificato” che “rischia di ledere la loro autonomia e indipendenza”. Affermano anche di “non essere sottoposti a qualsivoglia pressione” e dichiarano che “continueranno ad avere come proprio riferimento null’altro che non sia la Costituzione e le leggi cui unicamente si sentono sottoposti”. E dal Csm arrivano già due prese di posizione di solidarietà: quella di Alessandra Dal Moro di Area che nel corso del plenum ha parlato di “toni violenti che rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione verso la magistratura di sorveglianza, impegnata nel fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri sovraffollati, valutando le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute”. Mentre i tre consiglieri di Magistratura indipendente (Paola Braggion, Loredana Micciché, Antonio D’Amato) hanno chiesto di aprire una pratica a tutela dei giudici di sorveglianza per via delle “dichiarazioni lesive del loro prestigio e della loro indipendenza, tali da turbare il regolare svolgimento e la credibilità dell’azione giudiziaria”. Insomma, parte il decreto, ma decolla anche un nuovo conflitto tra magistratura e politica, su un tema scottante come le scarcerazioni e i nomi eccellenti coinvolti. Per tutti quelli di Zagaria e Cutolo. Via libera al vice capo del Dap Tartaglia - Ma non c’è solo la novità del decreto legge che di fatto cambierà la procedura delle scarcerazioni inserendo un importante step di controllo. Cambia anche il clima al Dap, il Dipartimento delle carceri. Perché quello che Bonafede ha definito “un magistrato di grande valore, da sempre in prima linea contro la mafia”, e cioè l’ex pm di Palermo Roberto Tartaglia, da lui scelto come vice capo del Dap, entrerà subito in servizio, perché il Csm, che doveva confermarne il fuori ruolo (Tartaglia era già consulente della commissione Antimafia), ha bruciato i tempi e su proposta del vice presidente David Ermini, lo ha già dato oggi. Da più parti quello di Bonafede viene considerato una sorta di commissariamento dell’attuale capo del Dap Francesco Basentini che, dalle rivolte in poi, avrebbe scontentato il Guardasigilli per le sue decisione e i suoi interventi. Stop alle intercettazioni e limiti ai processi da remoto - Nel decreto di Bonafede ci sono altri due articoli da menzionare. Il primo, che rinvia al primo settembre l’entrata in vigore della legge Orlando sulle intercettazioni (stop a quelle irrilevanti che finiranno nell’armadio segreto delle procure). Il secondo sui cosiddetti “processi da remoto”, cioè la possibilità di tenerli via computer durante la fase d’emergenza del Covid. Anche qui una stretta perché non si potranno tenere con questo metodo quelli in cui è prevista “la discussione, l’esame di testimoni, di consulenti, di parti e periti”. Quindi quelli possibili saranno pochissimi. Peraltro nella magistratura c’era già forte fibrillazione per un sistema ritenuto inaccettabile per un processo penale. Boss fuori dal carcere, stretta del governo: per i domiciliaci sarà vincolante l’antimafia di Michela Allegri Il Messaggero, 30 aprile 2020 I condannati al 41bis potranno essere mandati ai domiciliari solo sulla base dei pareri, vincolanti, espressi dalla Direzione nazionale antimafia e delle procure distrettuali. È il decreto con cui il governo deciso di arginare le scarcerazioni di boss della criminalità organizzata che erano state disposte nei giorni scorsi dalla magistratura di sorveglianza, nel pieno dell’emergenza Coronavirus, per ragioni di salute. In un passaggio del decreto in via di approvazione da parte del Cdm c’è questo, ma non solo. La stretta infatti, potrebbe essere anche più severa: in una delle bozze si legge che è previsto un parere preventivo dell’ufficio diretto da Federico Cafiero De Raho e delle procure distrettuali anche per quanto riguarda la concessione di permessi ai boss che sono in carcere. “Il governo risponde con i fatti”, ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, illustrando alla Camera il provvedimento, liquidando come “totalmente e inequivocabilmente falso” il messaggio per cui “il governo starebbe scarcerando i mafiosi”. Un decreto che agirà senza minare “l’autonomia e l’indipendenza della magistratura - ha specificato il Guardasigilli - non c’è alcun governo che possa imporre o anche soltanto influenzare le decisioni dei giudici”. Un passaggio necessario per sottolineare che il parere preventivo delle procure non deve essere visto come una manifestazione di “sfiducia” nei confronti dei magistrati di sorveglianza, “che meritano rispetto”. Con l’emergenza virus, le richieste di scarcerazioni si sono moltiplicate. Tra quelle che sono state accolte, alcune, come quelle di Pasquale Zagaria, di Francesco Bonura, di Vincenzino Iannazzo e di Pietro Pollichino di Corleone, hanno sollevato le proteste degli stessi pm antimafia. Nel decreto ci sono altri due passaggi importanti: l’entrata in vigore della legge Orlando sulle intercettazioni viene rinviata a settembre, e vengono previste limitazioni per i processi da remoto. Non si potranno celebrare nella modalità di videoconferenza quelli in cui è prevista “la discussione, l’esame di testimoni, di consulenti, di parti e periti”. Ieri c’è stata anche un’altra novità: l’ex pm di Palermo Roberto Tartaglia, è stato nominato vice capo del Dap. Il decreto ha comunque suscitato le proteste dei stessi giudici di sorveglianza, che si sentono in qualche modo commissariati. Il loro coordinamento ha denunciato “la campagna di delegittimazione” a cui sono stati sottoposti. In loro soccorso sono scesi in campo i consiglieri del Csm: i togati di Mi hanno chiesto al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica a tutela dei giudici. E anche i consiglieri delle altre correnti hanno espresso il loro sostegno. Nel mirino c’è il secondo articolo della bozza, che riguarda la concessione di permessi, domiciliari, scarcerazioni: i giudici di sorveglianza dovranno obbligatoriamente chiedere il via libera ai magistrati della procura della città dove è stata emessa la sentenza. Per i detenuti sottoposti al carcere duro sarà necessario anche il parere della Procura nazionale antimafia. Ieri non si è placata nemmeno la bufera politica, soprattutto per la scelta del ministro e del capo del Dap di “disertare” la Commissione Antimafia dove erano stati convocati per “chiarire l’assurda concessione dei domiciliari a numerosi boss”, dicono i deputati della Lega. Ci sono state frizioni anche all’interno della maggioranza. Per Cosimo Ferri, di Italia Viva, le misure annunciate sembrano “finalmente serie”, ma per il suo collega di partito, Gennaro Migliore, che per le scarcerazioni chiede la rimozione dei vertici del Dap, il rischio è di compromettere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Anche Valter Verini (Pd) ha puntato l’indice sul Dap: “La vicenda del monitoraggio di tutti i carcerati ultra settantenni gravemente malati è stata gestita in modo sbagliato”. Il governo “depone” i Giudici di sorveglianza: sono troppo umani di Angela Stella Il Riformista, 30 aprile 2020 Su proposta del ministro della Giustizia, ieri il Consiglio dei ministri ha discusso il provvedimento che andrà a limitare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati che decidono le scarcerazioni. Saranno sottoposti alle decisioni del Procuratore della Repubblica o del Procuratore nazionale antimafia. “La lotta alla mafia è una cosa seria” ha detto ieri il Guardasigilli Alfonso Bonafede rispondendo al question time sulle “scarcerazioni” di boss: di fronte a “fatti allarmanti - ha proseguito - non si rimane inerti”. E allora il Governo passa al contrattacco attraverso un decreto legge, in discussione nel Consiglio dei Ministri di ieri sera alle 21:30, che andrà a limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura di sorveglianza. Come? Mediante alcune importanti modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 - Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. In particolare, per la concessione dei permessi e dei domiciliari nel caso di detenuti condannati per reati di grave allarme sociale come associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, terrorismo il magistrato di sorveglianza, prima di pronunciarsi, dovrà chiedere il parere del Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis, anche quello del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. “Salvo ricorrano esigenze di eccezionale urgenza - si legge del decreto - il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei predetti pareri”. Non finisce qui: il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sarà “informato dei permessi concessi e del relativo esito” con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati e nel caso di permessi concessi a detenuti in 41bis ne dovrà dare comunicazione al Procuratore della Repubblica e a quello nazionale antimafia. Tuttavia per il Ministro della Giustizia “non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo con grande sacrificio personale e impiego di energie. Si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto”. Non sono mancate le polemiche, a partire dal deputato di Italia Viva Gennaro Migliore, già sottosegretario alla Giustizia: “Le dichiarazioni rese dal ministro Bonafede destano grande preoccupazione. La dichiarata volontà di sottoporre le decisioni della magistratura di sorveglianza al parere di altri organi giurisdizionali, magistratura inquirente e Dna, rischiano di compromettere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Si tratta di un provvedimento che ha alimentato preoccupazioni espresse autorevolmente anche dalla Associazione Nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Intanto registriamo un’incomprensibile difesa a oltranza del Dap e dei suoi vertici, veri e unici responsabili delle recenti improvvide scarcerazioni”. Invece i parlamentari della Lega in Commissione Antimafia, convocata ieri pomeriggio, si sono lamentati che il Ministro Bonafede e il capo del Dap Basentini “non si sono presentati in commissione, nonostante la formale convocazione. Non hanno fornito neanche la documentazione richiesta ufficialmente per chiarire finalmente cosa stia succedendo in merito all’assurda concessione degli arresti domiciliari a numerosi boss mafiosi. Questa è omertà”. Solidarietà ai magistrati di sorveglianza arriva invece da Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: “C’è una cattiva abitudine a legiferare e assumere decisioni all’indomani di casi di cronaca sulla base dell’emotività. Compito delle forze politiche e di governo è quello di assicurare razionalità e ordinarietà alla materia penale e penitenziaria, e non quello di inseguire la realtà”. Intanto si è risolta positivamente la vicenda del trentenne modenese recluso nel carcere di Vicenza a cui, pur dovendo scontare una pena residua sotto i 18 mesi, era stata negata dal magistrato di sorveglianza di Verona la detenzione domiciliare con o senza braccialetto. Il Tribunale di Sorveglianza ieri ha ordinato che il detenuto venisse posto in detenzione domiciliare senza braccialetto elettronico. “Siamo soddisfatti del risultato”, ci dicono gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico. I legali si erano rivolti anche alla Cedu con una istanza urgente ma la Corte aveva deliberato di non voler indicazioni al Governo italiano di adottare una misura provvisoria. “Crediamo che ben difficilmente - proseguono i legali - sarebbero avvenute in tempi così rapidi la convocazione e la decisione del Tribunale di Sorveglianza se non ci fosse stato l’intervento della Cedu. Ovviamente dobbiamo valutare se proseguire nel giudizio davanti alla Corte al fine di ottenere il riconoscimento del fatto che per il nostro assistito vi è stata comunque violazione dell’articolo 3: costringere inutilmente una persona, in un contesto di pericolo di contagio, a rimanere in carcere quando non assolutamente necessario costituisce, per noi, un trattamento inumano e degradante”. Ci sarà da valutare anche eventualmente se vi sia stato nelle repliche del Governo un atteggiamento sanzionabile. Parere della Dna anche per visitare il papà morente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2020 Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, presenta al Consiglio dei ministri un decreto ad hoc per scongiurare i domiciliari ai detenuti al 41bis. Tutti sono in attesa di sapere in quale modo, visto che le decisioni spettano alla magistratura di sorveglianza in completa autonomia e dopo un’attenta valutazione. Ed è proprio questo il punto: in quale maniera potrebbe intervenire il potere esecutivo senza incidere sull’indipendenza della magistratura di sorveglianza? Il ministro Bonafede è stato chiaro durante il question time alla Camera. “I principi e le norme della nostra Costituzione sono univocamente orientati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ciò vuol dire che non c’è nessun governo che possa imporre e anche soltanto influenzare sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza”, ha detto il guardasigilli. Ha anche sottolineato che le scarcerazioni al centro della cronaca “sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale e impugnabili secondo la relativa disciplina”. Poi è passato all’intervento normativo. “Approveremo un decreto legge che stabilisce, per questo tipo di scarcerazione, che debbano essere obbligatoriamente acquisiti il parere della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo e delle Direzioni distrettuali Antimafia”. Il guardasigilli ha precisato che “non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo, ma si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto”. Il decreto, infatti, non aggiunge nulla di vincolante, presenterebbe degli aspetti di incostituzionalità. Però qualcosa cambia e di molto. L’autorità competente, prima di pronunciarsi, ha l’obbligo di chiedere il parere del procuratore della Repubblica del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41bis, anche quello del procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Inoltre il procuratore generale presso la Corte d’Appello deve essere informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati. La parte che potrebbe però creare qualche problemino è il passaggio nel quale si prevede: “Il magistrato di sorveglianza ed il tribunale di sorveglianza decidono non prima, rispettivamente, di due giorni e di quaranta giorni dalla richiesta dei suddetti pareri, anche in assenza di essi”. Nei casi di urgenza, come quelli in cui il detenuto è gravemente malato, se un parere non arriva, aspettare quaranta giorni può voler dire non fare in tempo. Forse è questo il punto in cui il magistrato di sorveglianza può non sentirsi di libero di prendere una decisione urgente. Ma c’è di più. Oltre per i domiciliari, anche per il permesso di necessità c’è bisogno del parere della procura Antimafia e in questo caso di massima urgenza il magistrato deve comunque aspettare un giorno dalla richiesta del parere. Cosa significa? Se la moglie del recluso al 41bis sta morendo, quest’ultimo fa richiesta urgente per il permesso di necessità. Il magistrato ha l’obbligo di chiedere il parere dell’Antimafia e attendere la risposta entro le 24 ore. A quel punto poi può concederla. Ma un giorno potrebbe essere fatali. La moglie del recluso al 41bis potrebbe morire nel frattempo e quindi non si potrebbero più vedere per l’ultima volta. Il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza è intervenuto, con un duro comunicato per difendere il loro lavoro, sottolineando che “si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni”. Ma non solo. Significativa la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza a favore del Dap e in particolare per la famosa circolare, criticata da più parti, che darebbe l’impressione di una sorta di “tana libera tutti” per chi è al 41bis. “Nel contesto della grave emergenza sanitaria da Covid19 - si legge nel comunicato dei magistrati di sorveglianza a firma della dottoressa Antonietta Fiorillo - non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio”. “Solidarietà ai magistrati di sorveglianza” è stata espressa anche dai consiglieri di Unicost: in particolare, il togato Mancinetti, intervenendo in plenum ha sottolineato che “ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, ma non si può cadere negli attacchi personali”. Gli esponenti di Magistratura indipendente hanno chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela per la magistratura di sorveglianza. Nel plenum è intervenuta anche la togata di Area, Alessandra Dal Moro, esprimendo, a nome del suo gruppo, “preoccupazione per le reazioni suscitate dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali sottoposti al 41bis”. Secondo Dal Moro, “i toni violenti rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione verso la magistratura di sorveglianza, impegnata nel fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri sovraffollati, valutando le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute”. Il paradosso è che sono stati proprio i mass media a far credere ai detenuti al 41bis di poter uscire grazie a alla circolare del Dap, difesa dal coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza. Un indizio, forse senza volerlo, lo ha dato il Fatto Quotidiano con un articolo di ieri. Racconta di un boss recluso a Rebibbia che invita un parente a chiamare l’avvocato perché dalla tv ha saputo che ci sono novità sui domiciliari anche per i 41bis. Come negli anni di piombo, anche se il piombo non c’è di Piero Sansonetti Il Riformista, 30 aprile 2020 Si inventa una emergenza mafia (o terrorismo), che evidentemente non c’è, per mettere in piedi una offensiva feroce contro i detenuti e per ribaltare i poteri dentro la magistratura, rendendo onnipotente il Pm. Mi ricordo che quarant’anni fa, quando imperversava il terrorismo e la mafia uccideva tutti i giorni, la tentazione dello stato di emergenza fu forte. Il ministro dell’Interno era Cossiga, e sui muri scrivevano il suo nome con le “esse” disegnate con il tratto gotico con il quale era disegnato il distintivo delle Esse Esse naziste. In realtà Cossiga si dimostrò poi un liberale. E le istituzioni fondamentali della democrazia si salvarono, anche se da quelle emergenze iniziarono a nascere tanti dei difetti che oggi scontiamo: gli anni di piombo sono gli anni nei quali la politica ha preso a delegare le sue competenze alla magistratura e a concedergli poteri sempre più vasti e inquisitori. Oggi la politica e i giornali stanno provando a ricostruire quel clima. Ci fanno credere che viviamo in una drammatica emergenza criminalità e che occorrono misure straordinarie di difesa della sicurezza. Perciò intercettazioni a tappeto, trojan, fine della prescrizione, fine della legislazione premiale per i detenuti, fine dei permessi, allarme scarcerazione e da oggi anche sospensione dei poteri alla magistratura di sorveglianza. La ragione di questa decisione, ovviamente incostituzionale, che è degna di un qualunque Paese totalitario? L’allarme generale. Non si sa bene allarme per che cosa, ma allarme. La criminalità comune è sempre più debole, i dati dicono che il numero dei delitti è in picchiata. Il terrorismo non esiste più e addirittura il nostro Paese è stato l’unico Paese europeo risparmiato dal terrorismo internazionale dei primi due decenni del duemila. La mafia? Forse chi governa oggi è troppo giovane per sapere davvero cosa è stata la mafia. Hanno sentito dire, si sono riempiti il cervello con le grida della retorica. Hanno imparato a memoria le trombonate di Di Matteo, di don Ciotti, di Travaglio, di Bonafede. Nessuno di loro - neanche delle persone che ho citato - probabilmente ricorda di quando la mafia faceva la guerra allo Stato davvero, uccideva, falciava politici di destra, di sinistra e di centro, magistrati, giornalisti. Metteva le bombe. Realizzava le stragi. In quegli anni, combattere la mafia seriamente, mettersi di traverso, provare a fermarla, era pericoloso sul serio. Molti ci hanno lasciato la pelle, anche molto i magistrati, Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, Scopelliti, Livatino. Gente seria, coraggiosa davvero. Allora c’era l’emergenza mafia. Oggi qualcuno può dire in coscienza che il problema del Paese è l’attacco assassino dei mafiosi? No, il piombo non si vede, però l’idea è quella di concentrare la politica, e unirla, del far fronte contro l’attacco mafioso e terrorista. E se provi a far notare che questo attacco non c’è e che le emergenze del Paese sono altre (lavoro, reddito, sviluppo, impresa, ritorno della giustizia, abbattimento della burocrazia, accoglienza dignitosa dei migranti…) viene additato come disfattista e amico dei mafiosi. E in questa risposta all’attacco che non c’è si fanno a pezzi principi essenziali dello Stato di diritto. La decisione dell’incontrastato ministro Bonafede di mettere fuorigioco i magistrati di sorveglianza (che sono gli unici che si sono impegnati in questi mesi per trovare rimedi al Covid) è gravissima sotto tutti i punti di vista. Ha due conseguenze drammatiche. La prima è quella di rendere la politica carceraria del governo rosso-giallo (o rosso-bruno), la più spietata di sempre. Varrà la pena di ricordare un’altra volta che l’articolo del codice penale contestato oggi perché troppo umanitario fu scritto dai fascisti. Questo Governo, sul piano della politica carceraria ci tiene a mostrarsi più spietato del governo di Mussolini. La seconda conseguenza è quella della ferita mortale allo Stato di diritto. In pratica si decide che una parte della magistratura giudicante viene sottoposta ai Pubblici ministeri. È una costruzione istituzionale che non si era mai vista, anche perché eccessivamente scombiccherata, in nessun Paese, né democratico né totalitario. In questo modo si abbatte il principio dell’indipendenza della magistratura, e cioè un principio sempre considerato come sacro dalla stessa magistratura. Figuratevi, personalmente io non lo ritengo affatto un principio sacro: in moltissimi Paesi democratici la magistratura non è indipendente. In America, in Francia. Lì però è l’ufficio del Pubblico ministero che è subordinato al potere esecutivo. Mai e poi mai il giudice. L’autonomia e l’indipendenza del giudice è connaturata a qualunque idea ragionevole di giudizio. Qui invece si inventa la teoria che il giudice è subalterno all’accusa. Per fortuna cominciano ad udirsi, seppur timide, alcune voci di dissenso. Nel Csm hanno preso posizione “leggermente” democratica sia Area (sinistra) che magistratura indipendente (a difesa dei giudici di sorveglianza accusati da Di Matteo di cedimento alla mafia. Però non se la sono presa con Di Matteo. Hanno messo nel mirino Gasparri. Difficile sperare che questi magistrati vengano allo scoperto per la difesa del diritto, se basta il nome di Di Matteo e l’ombra di Travaglio per terrorizzarli. I Magistrati di sorveglianza: “Delegittimati esponenti della Magistratura e delle Istituzioni” Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2020 Dopo giornate di scarcerazioni eccellenti - come quella del boss di camorra Zagaria - e l’intervento del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, i magistrati di Sorveglianza in una lunga nota rispondono e replicano anche alla politica che ha espresso preoccupazione sulle liberazioni di detenuti al 41bis. I giudici “non sono sottoposti a qualsivoglia pressione” e “continueranno ad avere come proprio riferimento null’altro che non sia la Costituzione e le leggi cui unicamente si sentono sottoposti”. I magistrati dicono di sentirsi “colpiti da un ingiustificato attacco” che rischia di ledere “l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione”, dopo le polemiche sulle scarcerazioni di condannati al 41bis. Il Guardasigilli sta lavorando a un provvedimento che punta a contenere le scarcerazioni disposte dai magistrati per motivi di salute con un maggior coinvolgimento nelle decisioni della Direzione nazionale antimafia e delle Direzione distrettuali e la nomina di un ex pm antimafia come Roberto Tartaglia è stato un segnale politico chiaro. Le toghe però parlano di una giurisdizione “esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, sostenendo che a rischio è anche “la serenità che quotidianamente deve assistere” i magistrati, “in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni”. Il coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza “respinge con forza la campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio, proveniente da più parti, anche da autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni, suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute” di alcuni condannati, al 41bis. Il riferimento sembra diretto al Nino Di Matteo, attuale consigliere del Csm, già pm antimafia e sotto scorta da anni per le minacce ricevute, che ha parlato di un “segnale tremendo”. “La Magistratura di sorveglianza è stata sempre consapevole della rilevanza degli interessi in gioco e del loro, quando possibile, bilanciamento ed ha sempre operato, nel pieno rispetto delle norme, in particolare dell’art. 27 della Costituzione che impone venga assicurata a qualunque detenuto, anche il più pericoloso, una detenzione mai contraria al senso di umanità, valutando - continua la nota - caso per caso previa interlocuzione, come avvenuto in questi casi, con tutte le Autorità coinvolte, che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati”. In tal senso, prosegue il Coordinamento nazionale dei magistrati di Sorveglianza “occorre ribadire la necessità che l’interlocuzione con chi ha responsabilità di prevenzione e cura nei confronti delle persone detenute sia sempre pronta ed efficace e consenta alla Magistratura di sorveglianza di assumere decisioni basate su elementi aggiornati e completi circa diagnosi, prognosi e profilassi necessari per la tutela della salute”. Nel contesto “della grave emergenza sanitaria da Covid-19 non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio”. Anche se bisogna ricordare che nel caso del boss Zagaria al magistrato che chiedeva al Dap di indicare una struttura dove il detenuto potesse seguire le terapie prescritte il Dipartimento non ha mai risposto, obbligando la toga a liberarlo. Il Conams ricorda “che le norme applicate nei casi in oggetto si rinvengono nel codice penale che, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, all’art. 147 prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di grave infermità fisica. Rammenta che ogni decisione, anche quella adottata d’urgenza, è destinata ad essere discussa nel pieno contraddittorio delle parti pubbliche e private ed è ricorribile nei successivi gradi di giudizio”. Antonietta Fiorillo: “Noi giudici di sorveglianza applichiamo il codice nel rispetto della Carta” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 aprile 2020 La misura deve essere colma se la dottoressa Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza, insieme al collega Marcello Bortolato ha firmato un duro comunicato per respingere “con forza la campagna di sistematica delegittimazione” portata avanti anche da “autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni” e suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati al 41bis. “I magistrati di sorveglianza - si legge nella nota del Conams - si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni”. Dottoressa Fiorillo, scrivete che alcuni si sono spinti fino al dileggio nei vostri confronti... Quello che chiediamo, come fatto anche in altre occasioni, è che si affronti il problema partendo dai dati reali: le norme applicate nei casi in oggetto si rinvengono nel codice penale che, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, all’art. 147 prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Questo può piacere o non piacere ma è la scelta di politica giudiziaria che ha fatto il Legislatore molti anni fa. I magistrati che si occupano dell’esecuzione della pena sono chiamati ad applicare questa legge in scienza e coscienza e a motivare le loro decisioni. Poi esistono dei rimedi tecnici da applicare alle decisioni prese, come le impugnazioni, che spettano agli organi competenti, come la Procura. Un riferimento importante nel comunicato è all’articolo 27 della Costituzione... Noi ci muoviamo nel solco della Carta Costituzionale che ha guidato il legislatore nell’emanare una legge sull’ordinamento penitenziario. Le nostre interpretazioni delle norme si muovono nell’ambito dei paletti posti dalla Costituzione e dalle sentenze della Consulta. La Magistratura di sorveglianza è stata sempre consapevole della rilevanza degli interessi in gioco e del loro, quando possibile, bilanciamento ed ha sempre operato, nel pieno rispetto delle norme, in particolare dell’art. 27 della Costituzione che impone venga assicurata a qualunque detenuto, anche il più pericoloso, una detenzione mai contraria al senso di umanità, valutando caso per caso previa interlocuzione, come avvenuto in questi casi, con tutte le Autorità coinvolte, che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati. Noi non applichiamo le nostre idee. Una legge una volta emanata deve essere applicata, secondo le corrette regole di interpretazioni. Le norme prevedono la tutela del diritto alla salute come diritto primario anche per le persone detenute condannate per reati di grave allarme sociale, valutando altresì l’attualità della pericolosità del soggetto attraverso il compendio di informazioni che la magistratura di sorveglianza richiede. Dopo giorni di polemica avete deciso di scrivere la nota soprattutto per parlare a chi non conosce i meccanismi... Il nostro obiettivo è che chi non ha le conoscenze specifiche capisca il giusto inquadramento del problema. In una fase così delicata del Paese in generale, alle persone vanno forniti i dati che ognuno poi può valutare liberamente. La nostra attenzione verso la situazione sanitaria degli istituti di pena in questo periodo di emergenza sanitaria va inquadrata in una attenzione generale verso tutto il mondo penitenziario: detenuti, agenti di polizia penitenziaria e tutti gli operatori che entrano e escono dal carcere. Ci interessiamo anche della salute della collettività: se si diffondesse l’epidemia all’interno delle mura carcerarie ciò potrebbe portare alla diffusione del virus fuori, un problema per tutta la collettività. Concludete il comunicato scrivendo che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione e continuerete a lavorare come sempre fatto... Il problema non è solo della magistratura di sorveglianza. Il giudice è una persona che deve sentirsi libero di poter garantire un giudizio terzo ed imparziale al cittadino, e applicare in scienza e coscienza ciò che è scritto nelle norme. Carceri focolaio, in due settimane quadruplicati i contagiati: “Oltre 150 i positivi” di Antonio Lamorte Il Riformista, 30 aprile 2020 Si aggrava la situazione nelle carceri italiane. Già allo stremo per via dell’emergenza sovraffollamento, negli istituti penitenziari la situazione è sempre più problematica a causa del Covid-19. Sarebbero infatti oltre 150 i detenuti risultati positivi al coronavirus nelle strutture del Paese. A lanciare l’allarme Gennarino De Fazio, segretario nazionale dalla Uil-Pa, l’organizzazione sindacale della polizia penitenziaria. “Mentre nel Paese la curva dei nuovi affetti da Covid-19 pare, fortunatamente, scemare con una certa costanza - ha dichiarato De Fazio - nelle carceri i contagi sembrano salire vertiginosamente. Mentre il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria continua a non rispondere a nostre richieste d’informazione, facendo sospettare che non abbia interesse alla trasparenza dei dati, dal bollettino di ieri del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale apprendiamo che sarebbero ben oltre 150 i detenuti attualmente positivi nei vari istituti penitenziari, senza sapere peraltro quanti di loro siano stati sottoposti a tampone; se si considera che erano 37 i positivi alla data del 6 aprile, la crescita sembra vertiginosa”. Nelle prime settimane di emergenza coronavirus la questione delle carceri era esplosa in tutta la sua drammaticità. Proteste e rivolte, anche violente, erano scoppiate negli istituti di tutto il Paese dopo la sospensione dei colloqui con i familiari. Gli scontri avevano portato alla morte di 13 detenuti. Appelli, sull’emergenza carceri, erano stati lanciati da più parti: dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da Papa Francesco, dall’Unione delle Camere Penali, dalla Cassazione, da ong e associazioni. Ma negli ultimi giorni centrale, cavalcato dall’indignazione e dalla propaganda politica, è diventato il tema della scarcerazione dei boss. De Fazio coglie anche questo aspetto nella sua nota: “Mentre l’attenzione mediatica viene catalizzata dalle scarcerazioni di detenuti al 41bis, rischia di passare inosservato il preoccupante trend di crescita dei contagi in carcere, pure a dispetto della diminuzione dei ristretti, passati da 56.476 del 6 aprile a 54.168 registrati alla data di ieri; insomma: 2.308 detenuti in meno, ma ben oltre 113 positivi in più. Non conosciamo, peraltro, con precisione il numero dei contagiati fra gli operatori - continua De Fazio - attesa la reiterata reticenza del Dap, ma stimiamo che potrebbero essere almeno 300 quelli attualmente positivi. Per questo continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta nella gestione dell’emergenza sanitaria, così come una radicale rifondazione del sistema penitenziario”. I “fatti di Sassari”. Una lezione lunga venti anni e un giorno di Dario Stefano Dell’Aquila napolimonitor.it, 30 aprile 2020 Il 3 aprile del 2000 nel carcere di San Sebastiano di Sassari era previsto un trasferimento di detenuti, in seguito alle proteste che nei giorni precedenti avevano infranto la vita quieta dell’istituto. Da qualche settimana, infatti, i detenuti protestavano per l’assenza d’acqua, le celle fatiscenti, la sporcizia. Una protesta rumorosa ma simbolica, la classica “battitura”, pentole e coperchi battuti a ripetizione sulle sbarre delle finestre. Una delegazione di parlamentari, per dare ascolto a quelle voci, si era recata in visita ispettiva nell’istituto. Preoccupato per gli sviluppi della situazione, Giuseppe Della Vecchia, provveditore regionale degli istituti di pena, propose ai vertici dell’amministrazione penitenziaria un nuovo comandante degli agenti di custodia e il trasferimento di una ventina di detenuti. Così, ottenuto il via libera per entrambe le richieste, il 3 aprile il nuovo comandante in pectore Ettore Tomassi, giovane ma già con esperienza, formatosi nel carcere napoletano di Poggioreale, guidò un centinaio di agenti in quella che doveva essere, sulla carta, un’operazione di routine. Qualcosa, però non andò come doveva, se qualche giorno dopo il pubblico ministero Gianni Caria si ritrovò tra le mani la denuncia dei familiari di quei detenuti e a avviò un’indagine che avrebbe riguardato ben novantacinque tra agenti e personale dell’amministrazione penitenziaria. Una settimana dopo, “i fatti di Sassari” erano sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali. Cosa era accaduto? Tra le tante testimonianze di quella che fu definita la “galleria degli orrori”, ecco cosa scriveva il deputato Giuliano Pisapia in una interrogazione parlamentare di quei giorni: “Secondo quanto riportato dal quotidiano La Nuova Sardegna dell’11 aprile 2000 e secondo quanto riferito all’interrogante dai parenti di alcuni detenuti del carcere di San Sebastiano a Sassari, questi ultimi sono stati vittime di gravi atti di violenza commessi da appartenenti alla polizia penitenziaria nel corso di un’operazione di trasferimento; in particolare, essi sono stati costretti a denudarsi, ammanettati con le mani dietro la schiena, trascinati nei corridoi, colpiti brutalmente con calci e pugni alla schiena, alle gambe e ai testicoli, sollevati in aria - sempre nudi e ammanettati - e ‘lanciati’ da un agente all’altro; ai familiari dei detenuti è stato impedito per diversi giorni di incontrare i propri congiunti”. Pisapia riportava le parole riferitegli dai familiari, secondo i quali il nuovo comandante “si sarebbe presentato ai detenuti con le seguenti parole: ‘Io sono il vostro Dio, qui in quindici giorni diventerete come agnellini. Sappiate che il lager è un paradiso, qui inizia l’inferno’”. L’allora ministro di grazia e giustizia Oliviero Diliberto, negli ultimi scampoli di vita del governo D’Alema (qualche settimana dopo, con Giuliano Amato presidente, il ministero di via Arenula andò a Piero Fassino), che aveva speso il suo mandato investendo risorse ed energie sulla polizia penitenziaria, e Gian Carlo Caselli, allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, disposero la sospensione e poi il trasferimento del provveditore, della direttrice del carcere Maria Cristina Di Marzio e del comandante degli agenti. Nel mentre, come tesi difensiva il provveditore e la direttrice dell’istituto, presenti il giorno del trasferimento, dichiararono di non essersi accorti di nulla, mentre il comandante ribadiva la correttezza dell’operato dei suoi uomini, riconducendo il tutto a qualche tensione dovuta alla estrema criticità della situazione. Di differente opinione, l’accusa. Secondo la procura l’intera operazione era nata con la precisa intenzione di dare un “segnale di cambiamento” ai detenuti, dopo le proteste dei giorni precedenti. Per una serie di rare coincidenze, “i fatti di Sassari” superarono i confini delle testate locali e furono l’occasione per parlare della “questione penitenziaria” come non accadeva da molti anni, andando anche oltre il singolo episodio di cronaca. Venne così alla luce una storia che in realtà era nota a tutti quelli che del carcere avevano un po’ di esperienza: l’esistenza delle “squadrette”, gruppi di agenti scelti chiamati a intervenire per riportare l’ordine nelle situazioni di criticità. Un ordine non sempre riportato con guanti bianchi e cortesie per gli ospiti, interventi che sfuggivano a ogni formalizzazione, ma non per questo arbitrari o casuali. Disposizioni date con poche righe burocratiche, dietro le quali si nascondeva una catena gerarchica che non arrivava mai agli anelli di vertice. Se qualcosa trapelava, tra vertici e autorità politica, era sempre un fiorire di punti interrogativi, silenzi e sorprese. Eppure, come ricordò Alessandro Margara, che guidò il Dap durante una breve stagione riformista, “i fatti accaduti nella prigione di Pianosa erano stati voluti o quanto meno tollerati dal governo in carica. In particolare, i trasferimenti erano effettuati secondo modalità volte a intimorire i detenuti stessi. La famigerata sezione Agrippa era stata gestita ricorrendo ad agenti venuti da altre regioni (ossia reparti speciali) che disponevano di carta bianca. Il tutto corrispondeva a un preciso disegno”. Finita quella triste stagione critica ed emergenziale, quei reparti speciali assunsero denominazioni e sigle ufficiali e pubbliche, tra le ultime quella dello Scop. Si venne a sapere, dal dibattito sulla stampa sviluppatosi dopo Sassari, che nel 1999 erano stati istituiti un ufficio speciale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ugap - struttura di intelligence creata per vigilare sulla “sicurezza degli istituti penitenziari” - e il reparto operativo dei Gom (Gruppi operativi mobili), dotato di circa seicento uomini guidati da un generale di brigata alle dirette dipendenze del capo del Dipartimento, “il quale - si legge sulla pagina ufficiale del ministero di giustizia - può disporne direttamente l’impiego per fronteggiare situazioni di emergenza e particolare pericolo”. Nell’aprile del 2000, pochi erano a conoscenza dell’esistenza di questo reparto, che fu affidato alla guida del generale Enrico Ragosa. La stessa Commissione giustizia della Camera dei deputati non sembrava fosse stata neppure informata della cosa. Nel luglio del 2001, per il G8 di Genova, i Gom furono chiamati a gestire la caserma di Bolzaneto dove giungevano alcuni dei manifestanti fermati e il risultato, in termini di immagine pubblica, non fu tra i migliori. Oggi Il Gom ha sede in Roma e si articola in dodici reparti operativi presenti presso altrettanti istituti penitenziari. Intanto, “i fatti di Sassari” portano all’attenzione dell’opinione pubblica dinamiche e poteri fino ad allora sconosciuti a chi non fosse del “settore”, si affacciano sulla scena politica i sindacati autonomi di polizia penitenziaria, tra cui il potente sindacato Sappe, deciso a difendere a oltranza gli agenti di Sassari senza cedere terreno nemmeno sul piano lessicale, anzi utilizzando un linguaggio crudo, espressione di una forza verbale che non ammette incertezze. Il sindacato, pur di fronte a una certa evidenza, nega i fatti stessi perché non sono questi il discrimine tra ciò che è giusto o ciò che è sbagliato. La scelta deve essere di campo, solo dopo viene la verità. Chi critica gli abusi o dubita del comportamento degli agenti è di fatto un nemico dello stato o un amico della criminalità o magari entrambe le cose. Così, organizzano una manifestazione nazionale dinnanzi al carcere napoletano di Poggioreale, dove si sono formati i protagonisti di Sassari e dove migliaia di agenti hanno fatto formazione sul campo. Quella manifestazione fa nascere sulla scena pubblica un nuovo soggetto politico. Gli agenti di polizia penitenziaria solo dal 1990 erano stati de-militarizzati e quindi avevano potuto organizzarsi sindacalmente. Forte di una compattezza e una radicalità rara nel mondo sindacale, i sindacati autonomi non stringono alleanza solo con le forze politiche del centro-destra, ma sapranno allearsi culturalmente anche con forze politiche diverse, dimostrando di essere il potere più forte e organizzato del sistema penitenziario, capace di costruire un discorso egemone sul carcere fondato su due semplici assiomi: più agenti, più carceri. Nel corso degli anni, seppure sul piano istituzionale siano nate figure importanti come il Garante nazionale per le persone prive della libertà e quelle dei garanti regionali, il discorso pubblico sul carcere si è mosso più lungo questi assiomi che ispirato a un’idea della esecuzione della pena rispettosa dei diritti fondamentali della persona e dei principi costituzionali. Ma siamo andati troppo avanti, forse. Torniamo ai fatti. Come sempre, superata la prima fase di burrasca, il processo per le violenze e i pestaggi di Sassari proseguì sgretolandosi strada facendo. In primo luogo si sgretolò sul piano mediatico, perché il processo fu seguito solo dai due principali quotidiani locali. Poi cominciò a perdere pezzi lungo il rito processuale. La tesi dell’accusa non fu accolta, il giudice decise che ogni singolo episodio di violenza andava esaminato a sé e non come parte di un unico disegno. Questa scelta, di valutare separatamente singoli fatti, in luogo di una lettura sistemica, affievolì ogni speranza che si facesse almeno chiarezza sulla catena di comando e sulle dinamiche che ne avevano segnato lo sviluppo. Alcuni degli imputati scelsero il rito abbreviato, altri agenti quello ordinario. Il provveditore Della Vecchia fu condannato in appello a un anno e quattro mesi, la direttrice a dieci mesi, il comandante degli agenti a un anno e quattro mesi. Nessuno fu sospeso dai pubblici uffici, di fatto tutti hanno continuato la loro carriera nell’amministrazione. Il provveditore fu mandato a dirigere la Scuola di formazione della polizia penitenziaria, l’allora direttrice al andò ministero di giustizia, il comandante a dirigere un istituto di un carcere del centro-sud. Altri sessantaquattro imputati furono assolti. Nel 2010, intervenne la prescrizione per gli agenti che avevano scelto il rito ordinario. Come riporta Daniela Scano, de La Nuova Sardegna, nella sentenza in cui applicò la prescrizione il giudice Massimo Zaniboni, del Tribunale di Sassari, scrisse “quel giorno nella casa circondariale di Sassari si passò da un luogo di detenzione legale, dove la libertà è privata a seguito di precise regole, anche costituzionali, a luogo dove la legalità cedette il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di manifestare la propria durezza al nuovo comandante”. Parole dure, ma prive di qualunque conseguenza giuridica. Per non avere soddisfatto il requisito di un’indagine approfondita ed efficace, nel 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a un risarcimento di 14 mila euro riconoscendo le violenze subite da uno di quei detenuti, Valentino Saba. Di lì a pochi anni, nel 2017, è stato finalmente introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento. Eppure, l’equilibrio dei poteri all’interno del sistema penitenziario, non è determinato dalla norma nel suo astratto, ma dalla capacità che le forze sociali e politiche hanno di affermare i propri discorsi, come insegna la storia recente di questi giorni del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Qui, a fronte delle accuse di violenze sui reclusi su cui la magistratura ha aperto una inchiesta, c’è stata l’immediata reazione di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria che hanno replicato alle segnalazioni del Garante nazionale e di quello regionale attaccandoli senza mezzi termini, parlando di un “piano di destabilizzazione contro il sistema carcerario e la polizia penitenziaria” e richiedendo misure per chiudere le carceri a ogni sguardo esterno. Sono passati vent’anni dai fatti di Sassari, ma, a volte, è come se fosse ieri. Giustizia, una riforma globale per salvarla dal coronavirus di Alberto Giannone* e Alberto Perduca** Avvenire, 30 aprile 2020 Nel variegato universo della medicina clinica si sta affermando la global health, visione di una sanità che trascende i confini per occuparsi anche delle aree del globo meno avvantaggiate sia sul piano economico che della organizzazione. La sua ambizione è di poter fornire servizi al più ampio numero di persone bisognose di cura, di essere cioè universale, sicura e tempestiva pur a fronte di contesti non favorevoli. Quando la giustizia del nostro Paese uscirà dalla paralisi quasi totale imposta dalla fase acuta del Covid-19 e dovrà affrontare la graduale ripresa di funzionalità, verrà utile ricordare quantomeno l’ispirazione della global health. Facile prevedere che le crisi relazionali, sociali ed economiche indotte da quella sanitaria, avranno un pesante impatto sull’apparato giudiziario chiamato a rispondere alle crescenti sollecitazioni civili e penali. I conflitti - tra imprese e persone - non diminuiranno di certo, al pari delle diverse forme di criminalità: organizzata, economica, da strada, di genere. Senonché l’apparato che dovrà sostenere queste impetuose domande è quello stesso affetto dalle croniche insufficienze che il Covid-19 sta impietosamente svelando in non pochi suoi comparti. Valga un esempio per tutti: il ritardo nell’informatizzazione dei servizi, messo a nudo allorché alla necessaria desertificazione degli uffici giudiziari dettata da ragioni di sicurezza avrebbe dovuto subentrare e supplire il telelavoro, di fatto realizzatosi in misura assai ridotta proprio mancando le connessioni e le dotazioni informatiche necessarie. fronte del già avviato gigantesco impegno dello Stato per rilanciare in primis l’economia, è realistico pensare che questo apparato non beneficerà - quantomeno nei tempi brevi - di finanziamenti importanti. Dunque, destinato ancora a rimanere povero, esso sarà chiamato a intervenire su un contenzioso civile e penale ben più pesante di quello attuale, dove il nuovo si sovrapporrà a quello già esistente, quest’ultimo per giunta immobile da lunghe settimane. Poiché l’uso sapiente delle risorse diventerà imperativo sin d’ora funzionamento del sistema penale non può sfuggire al test di effettività rispetto alla sua missione. Rimuovere questa verifica significa di nuovo rinunciare, più o meno consapevolmente, alla vocazione universale della Giustizia. Coloro che scrivono non ignorano, insieme a tanti, che l’inveramento di questa vocazione implicherebbe un intervento di lungo respiro, sui diversi piani della legislazione - sia sostanziale che processuale - e della organizzazione. E che quindi esso appare poco realizzabile nella sua interezza a fronte delle più impellenti priorità della ripresa dalla pandemia e del mai stabile quadro politico. on dovrebbe, però, perdersi questo drammatico momento per quantomeno attenuare il pan-penalismo - che alimenta l’incessante introduzione di nuove figure di reato - sì da abbattere la domanda penale, che già prima dl Covid-19 era assolutamente eccessiva rispetto alla capacità di risposta con le forze e al modello di processo in campo, che su qualsiasi delitto può impegnare tre gradi di giudizio ed almeno nove giudici. Così la seria sterzata verso la sanzione amministrativa per non poche ipotesi (ora) di reato potrebbe dar respiro, purché le pubbliche competenti vengano poste nelle condizioni effettive di applicarla. Sarebbe poi giudizioso lavorare su qualche limitata riforma che introduca elementi di razionalità e sostenibilità nel procedimento penale senza intaccare il nocciolo duro delle garanzie dei cittadini, siano essi indagati, imputati o vittime. Per convincersene bastano le relazioni annuali di presidenti delle Corti e di procuratori generali che da lustri si susseguono nel denunciare l’enorme arretrato giudiziario. Arretrato che non è solo una fredda statistica ma, quel che conta, la somma enorme di energie pubbliche e risorse finanziarie dissipate, legittime pretese individuali mortificate, tutele collettive mancate, perdita di credibilità delle Istituzioni. E allora, pensando ad un legislatore minimo che voglia togliere un po’ di piombo alle gambe della nostra affaticata Giustizia penale, è auspicabile l’apertura di cantieri lungo alcune direttrici mirate. Così, senza alcuna pretesa di completezza, varrebbe la pena di muoversi per: 1) approdare così come già avviene nel contenzioso civile al deposito telematico degli atti con formazione digitale dei fascicoli nonché all’invio con posta elettronica certificata al difensore di fiducia delle comunicazioni destinate all’assistito, invio ora ammesso solo per la fase emergenziale in corso; in generale: l’economia di tempo, dotazioni e persone sarebbe enorme tanto più se si pensa che tali notifiche distolgono non poco la polizia giudiziaria dalle proprie funzioni primarie; 2) abolire l’obbligo generalizzato di informare ex ante la persona offesa della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, compresa quella in cui l’autore del reato rimane ignoto: di nuovo il risparmio di risorse sarebbe rilevante e tanto più obbligato se si considera che percentualmente minime sono le opposizioni avanzate dalle vittime, alle quali andrebbe data comunque la facoltà di proporre reclami ex post su cui il giudice deciderebbe una volta ottenuto il parere della pubblica accusa, così evitando il rituale - comunque energivoro - delle udienze, per lo più stancamente ripetitive di quanto affidato ad atti scritti; 3) consentire ai giudici del dibattimento di acquisire documenti la cui controvertibilità di contenuto è spesso prossima alla zero, come ad esempio i tabulati del traffico delle comunicazioni elaborato in automatico dalle Società di gestione: posto che raramente la dialettica tra pubblico ministero e avvocato è in grado di apportare un qualche valore aggiunto sulla veridicità di quanto ivi registrato, si verrebbe in tal modo evitata l’irragionevole dilatazione dei dibattimenti insieme all’inutile - e financo farsesca - cross examination di un funzionario di polizia costretto a riferire sul contenuto dei tabulati... dopo essere stato autorizzato a leggerli; 4) prevedere la possibilità di celebrare da remoto processi-in tutto o in parte - a carico di imputati detenuti, tanto più se numerosi, ferma la facoltà dei difensori di essere fisicamente accanto agli assistiti ovvero di fruire di linee di comunicazione riservata con costoro: i protocolli responsabilmente intervenuti tra magistrati e avvocati in queste settimane non stanno dando cattiva prova sia in punto garanzia della difesa che speditezza del giudizio sicché l’esperienza ben potrebbe proseguire oltre la crisi sanitaria di queste settimane; 5) ammettere forme di motivazione semplificata e contestuale delle sentenze quando il giudice di primo grado accolga le conclusioni concordi di pubblici ministeri e difensori; 6) correggere l’attuale pressoché illimitata facoltà di appello delle sentenze prevedendone l’inammissibilità, ad esempio quando le condanne di primo grado hanno soddisfatto le istanze della difesa, l’imputato ha reso confessione, la pena inflitta è nel minimo assoluto; ovvero disincentivarlo ammettendo che il giudice di secondo grado possa essere più severo e restituendo alla pubblica accusa il pieno potere di impugnazione; 7) rendere non impugnabile la sentenza di patteggiamento, in cui la pena (anche nella sua entità temporale) è stata chiesta o accettata dallo stesso imputato; 8) contenere il giudizio della Corte di Cassazione ai casi di effettiva violazione di legge sostanziale e processuale, con esclusione del semplice vizio di motivazione che già i giudici di primo e secondo grado hanno redatto: per tale via la Suprema Corte - ad oggi composta da quasi 200 giudici penali gravati da oltre 50.000 ricorsi - potrebbe recuperare appieno il suo ruolo, naturale e cruciale, di orientamento uniforme nell’interpretazione delle leggi. Nel medio termine poi sulla base delle evidenze empiriche andrebbero fatti i conti sulla tenuta del nuovo codice di procedura penale in vigore da oltre 30 anni. Senza anticiparli né banalizzarli, quel che si può dire è che la scommessa di avere un processo pienamente accusatorio, in grado di essere vitale grazie alla definizione alternativa della stragrande maggioranza dei casi, è ormai persa posto che patteggiamento e giudizio abbreviato non coprono che il 10% circa degli interi affari penali. Idealmente sarebbe tempo di una riforma organica del codice di rito, con meno mitizzazione del modello e più attenzione al servizio. Senonché il dopo Covid-19 della fase acuta non sollecita soltanto Parlamento e Governo, qui ed ora, a rendere, pur parzialmente, meno distanti strumenti e obiettivi della Giustizia penale. Esso esige con pari forza, dagli operatori, l’uso sapiente delle risorse, in primis del tempo. Così l’utilizzo dello spazio nei Palazzi di Giustizia, il ricorso all’informatica, le tecniche di indagine, la selezione dei casi da portare giudizio, la pianificazione e tenuta delle udienze, la dialettica delle parti e le modalità di discussione e motivazione, dovranno ispirarsi ai criteri di sobrietà e necessità - né di più né di meno di quanto occorre - da valere per giudici, pubblici ministeri ed avvocati. Rimuovere questa necessità ignorando la fragilità del sistema penale impietosamente disvelata da questi tempi ed illudersi di tornare a tutto come prima sarebbe nel contempo atto di presunzione e di ulteriore fallimento. Non è da dimenticare infatti che quel “prima” è (anche) fatto da una giustizia penale che non poche volte s’è mostrata tardiva, monadica, autoreferenziale e insensibile al progresso tecnologico. * Alberto Giannone è Giudice del Tribunale di Asti **Alberto Perduca è Procuratore della Repubblica di Asti Processo penale, dimezzate le modalità da remoto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2020 Processo penale da remoto dimezzato. Il giudizio “dematerializzato” come uscito dalla conversione del decreto Cura Italia viene già fatto oggetto di profonde correzioni dopo la levata di scudi dell’avvocatura. Ma la magistratura esprime il suo disaccordo. Nella bozza di decreto legge all’esame del Consiglio dei ministri di ieri sera infatti viene previsto che il collegamento da remoto per lo svolgimento delle udienze penali che il Cura Italia prevedeva come modalità ordinaria di svolgimento delle udienze non potrà applicarsi se non con il consenso delle parti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio. Inoltre la modalità “video” sarà esclusa nelle udienze chiave per la formazione della prova, quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti. Il ministero della Giustizia traduce così con qualche giorno di ritardo l’accordo politico saltato all’ultimo momento alla Camera la scorsa settimana e viene incontro alla netta ostilità che da subito l’avvocatura aveva espresso sull’utilizzo, su larga scala, delle modalità virtuali nel penale. In un documento diffuso poche ore fa e firmato da Camere penali e civili si sottolinea come “è la difesa, nei processi penali, a dover accettare che il teste si trovi lontano dal giudice presso la Polizia giudiziaria, organo ausiliario del Pubblico Ministero; è l’imputato a essere costretto lontano dal giudice; è la parte a dover proporre le proprie argomentazioni da un luogo diverso dall’aula di giustizia, a giudici che non condividono più la contestualità e la segretezza della camera di consiglio. È il popolo a dover accettare che il processo sia segreto, rinunciando a ogni forma di controllo sociale”. Dove però l’affidamento alle parti della decisione sulle modalità di svolgimento vede l’Anm fortemente perplessa: “la soluzione di rimettere alla sola volontà delle parti la scelta della modalità da remoto per alcune attività, oltre a non considerare che il rispetto dei principi e delle garanzie è il primo scrupolo di ogni giudice che, ad esso, ispira l’esercizio del delicato potere di direzione del processo anche in tempi ordinari, impedirebbe ogni razionale programmazione di tali attività, perché non ancorata ad alcun presupposto oggettivo, con conseguente frustrazione non solo dell’efficienza dell’attività giudiziaria ma anche della tutela dei diritti dei cittadini”. In ogni caso, ma questo vale in materia civile, si prevede poi che anche quando l’udienza da remoto è possibile questa debba avvenire, oltre che con misure idonee a salvaguardare il contraddittorio, anche “con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario”. Nel decreto anche un impulso all’utilizzo del canale digitale per una serie di passaggi. Sino al 31 luglio, con modalità che dovranno essere definite dal ministero della Giustizia, presso tutti gli uffici del Pm che ne faccia richiesta a norma del terzo periodo, è autorizzato il deposito con modalità telematica di memorie, documenti, richieste e istanze indicate dall’articolo 415 bis, comma 3, del codice di procedura penale. Si tratta, per esempio, del risultato delle indagini difensive, delle richieste della difesa al pm per lo svolgimento di atti d’indagine, delle domande di interrogatorio. Come pure il canale digitale può essere utilizzato, sempre fino al 31 luglio, da parte della polizia giudiziaria per la comunicazione alla pubblica accusa di atti e documenti d’indagine. L’Ocf scrive a Bonafede: “La fase 2 della giustizia sarà un delirio” di Simona Musco Il Dubbio, 30 aprile 2020 La richiesta di Malinconico: “subito un tavolo unitario per la giurisdizione”. “La fase 2 sarà un delirio”. L’allarme arriva dall’Organismo congressuale forense, che ha redatto un dossier per monitorare la situazione dei tribunali in periodo d’emergenza. E ciò che emerge, stando alla nota di Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Ocf, è drammatico. “Ogni ufficio decide per sé, ma non solo ogni tribunale, perfino ogni sezione, talvolta”. E in assenza di certezze, l’unica cosa chiara è che “se il Governo non fissa delle linee guida comuni per tutti sarà il caos. Abbiamo parlato di babele giudiziaria, e mai termine fu più appropriato: ciascun ufficio appunto parla una lingua propria senza dialogare con gli altri”. Giustizia ordinaria - Per quanto riguarda la giustizia ordinaria, evidenzia Ocf, il “Cura Italia” prevede udienza in compresenza fisica, con assunzione di precauzioni nell’accesso e nell’interazione all’interno degli ambienti giudiziari; udienza da remoto, con l’ausilio di strumenti telematici; sostituzione dell’udienza con lo scambio di atti scritti la cui modulazione però è demandata ai regolamenti e ai provvedimenti emanati dei capi dei singoli uffici giudiziari. Giustizia amministrativa - La giustizia amministrativa ha disposizioni totalmente differenti. “Inspiegabilmente i termini processuali hanno ricominciato il loro decorso a far data dal 16 aprile - spiega Malinconico. Per tutta la durata della fase due inoltre, “tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati”. Giustizia contabile - Le attività sono regolate attraverso un generico richiamo alle disposizioni in materia di Giustizia ordinaria e amministrativa, ma “in quanto compatibili”, con ampia possibilità di regolamentazione da parte dei vertici degli uffici territoriali e centrali. Si prevede in via ordinaria il rinvio dei giudizi alla fine della fase due, ma con la possibilità di trattazione da remoto mediante strumenti telematici. Giustizia militare - Anche qui formalmente si applicano le disposizioni per la giustizia ordinaria, ma solo “in quanto compatibili”. Per il resto decide il giudice. “Un caos regolamentato insomma, che però non fa i conti con i classici problemi dell’inadeguatezza dell’apparato giudiziario italiano - conclude Malinconico - Qualche esempio: ovunque si registra tanto una grave insufficienza dei presidi sanitari atti a consentire l’accesso sicuro agli uffici, quanto la carenza di strumentazioni informatiche per il cosiddetto processo telematico. E per finire, nessuno ha pensato a garantire l’esercizio della funzione difensiva ai colleghi con disabilità. Una dimenticanza inaccettabile”. Il tavolo unitario per la giurisdizione - Con un’altra nota, Malinconico ha poi sollecitato il presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia e quello dell’Economia per la costituzione di un tavolo unitario per la giurisdizione. “Se la prima fase è stata caratterizzata da inammissibili differenziazioni nella regolazione delle attività giudiziarie nei vari plessi in cui la Giurisdizione si articola, con delle distinzioni non ammissibili e non spiegabili con il solo riferimento alle differenze dei vari riti, la questione si pone con maggior gravità e urgenza per la fase due, che ormai incombe”, scrive Malinconico. Che non dimentica di sottolineare la mancanza di misure adeguate a garantire l’esercizio della funzione difensiva ai colleghi con disabilità, “problema che incide contemporaneamente sulla problematica delle pari opportunità e sul diritto delle parti a essere difesi dall’avvocato verso il quale abbiano fiducia, sebbene portatore di handicap fisico”. Una situazione complicata, che rende, dunque, necessaria la costituzione di un “tavolo unico per la giurisdizione” “che, operando in una visione complessiva e unitaria della giurisdizione e riducendo le inutili differenziazioni tra i vari settori, metta al centro il ruolo propulsivo del Dicastero della Giustizia e, con una concertazione piena ed effettiva con le rappresentanze istituzionali e politiche dell’avvocatura, adotti le più opportune iniziative atte a consentirne l’esercizio nella salvaguardia delle garanzie costituzionali per le parti”. Magistratura democratica: “Il processo è virtuale, per ora. La giustizia no” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 30 aprile 2020 Parla il pm Stefano Musolino, coordinatore del convegno online di Magistratura democratica. La giustizia ai tempi del Coronavirus va avanti, la tecnologia sta aiutando a non fermare la macchina, ma i problemi non mancano. Stefano Musolino, pm a Reggio Calabria, è il coordinatore del convegno online che Magistratura democratica (Md) ha promosso per affrontare opportunità e rischi delle innovazioni. L’appuntamento per le toghe è oggi alle 16, ciascuno davanti al suo tablet. Dottor Musolino, le chiedo senza giri di parole: nel ‘processo da remoto’, quello via computer, le garanzie per gli imputati sono indebolite? Sì, purtroppo. Le forme non sono neutrali, ma inverano le garanzie. La relazione fra i soggetti di un processo si sostanzia in un rapporto fisico: c’è un diritto dell’imputato a guardare il suo giudice, nell’aula di udienza, che nessuno può contestare. La pensa così l’intera magistratura italiana? Ci sono sensibilità diverse. Noi di Md temiamo che il paradigma tecnocratico possa essere percepito come la panacea di tutti i mali e imporsi oltre l’emergenza. Secondo noi è un pericolo, perché la tecnologia può aiutare, ma deve essere al servizio dei diritti e delle garanzie. L’innovazione tecnologica non è più reversibile, ma non può essere la tecnologia a dettare la linea: serve spirito critico, senza la pretesa, nemmeno da parte nostra, di avere la verità in tasca. L’esperienza di questi giorni cosa sta mostrando? Durante questa emergenza una compromissione minima dei diritti e delle garanzie è resa necessaria. Le faccio un esempio: chi è arrestato in flagranza di reato ha diritto a comparire davanti a un giudice entro 48 ore, ma ora è fisicamente impossibile. Quindi, entro 48 ore si fa l’udienza da remoto, e la giustizia può andare avanti, grazie alla collaborazione di tutti, polizia e avvocatura comprese. Passata questa fase, però, l’eccezione non deve diventare regola, perché la presenza fisica in aula è un elemento essenziale. Diceva che con gli avvocati c’è stata collaborazione, non era scontato. Sì, nella gestione dell’emergenza si sono firmati molti protocolli. Poi, anche legittimamente, l’avvocatura ha cominciato a temere che quello che è una regola eccezionale possa diventare strutturale. E di fronte a ciò alza le barricate. Abbiamo visto i problemi, ma invece c’è qualche innovazione tecnologica che a suo giudizio dovrà rimanere anche nel futuro? Il processo civile è già tutto in digitale, il processo penale è molto più indietro. Tutto quello che riguarda la dematerializzazione degli atti va bene, ma l’udienza da remoto è un’altra cosa, perché il rapporto fra gli attori del processo è più delicato. Ci sono certamente situazioni nelle quali si può fare tutto a distanza senza ledere i diritti di nessuno: una separazione consensuale, ad esempio, o la nomina di un perito. Il problema che noi vediamo nasce quando l’innovazione tecnologica diventa un espediente per ‘liberarè dagli ‘intralci’ delle garanzie, come quelle del migrante nei procedimenti per l’asilo e quelle dell’imputato nel processo penale. È l’efficientismo “modello Davigo”? Diciamo che esiste un nesso profondo fra le posizioni che, da sempre, vedono diritti e garanzie degli imputati come un intralcio e il paradigma tecnocratico che si fa avanti adesso. In questi giorni si discute molto anche di presunte scarcerazioni facili, soprattutto di boss mafiosi. Il Dap è nell’occhio del ciclone, la nomina del nuovo vicecapo Roberto Tartaglia, ex pm antimafia a Palermo, ha tutta l’aria di un commissariamento… Io lavoro nella direzione distrettuale antimafia da nove anni, e posso dirle che la capacità dello Stato di fronteggiare il fenomeno mafioso dipende dalla capacità dello Stato di far rispettare le regole, anche quando tali regole determinano la scarcerazione di persone che hanno condanne per mafia. Bisogna fare attenzione a logiche semplificatorie che individuano un ultraottantenne malato come un nemico la cui morte in carcere risolverebbe i problemi. Così facendo si trasformano le persone in simboli: non solo è profondamente anticostituzionale, ma non serve. La supremazia dello Stato nei territori in cui essa è contesa della criminalità organizzata si afferma proprio attraverso il rispetto dei diritti di tutti. La riforma delle intercettazioni slitta a settembre di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2020 Slitta (ancora) la riforma delle intercettazioni. E si puntellano le decisioni dei giudici di sorveglianza su permessi premio e detenzione domiciliare con i pareri delle Procure e, nel caso di detenuti al 41bis, delle Procure antimafia. Questi due degli elementi chiave del testo della bozza di decreto legge all’esame del Consiglio dei ministri di ieri sera. A poche ore dall’entrata in vigore, viene ancora rinviata, al 1° settembre, la nuova disciplina delle intercettazioni, frutto di un lungo e faticoso lavoro di preparazione, cristallizzato poi nelle norme concordate nella maggioranza nell’ultimo consiglio dei ministri dell’anno scorso. Ora le difficoltà degli uffici giudiziari a fronteggiare anche solo l’ordinaria amministrazione hanno sconsigliato di fare debuttare una riforma con aspetti di novità molto significativi e che, comunque, nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo regime non sarebbe stata indolore. La Cassazione poche settimane fa aveva infatti sottolineato come si profilava problematica la previsione dell’applicazione ai procedimenti iscritti dopo il 30 aprile perché avrebbe fatto nascere questioni di diritto transitorio, per esempio, nel caso in cui all’iscrizione di un reato, avvenuta prima del 30 aprile, ne seguano altre in epoca successiva aventi ad oggetto nuovi titoli di reato. In questa ipotesi, puntualizzava la Cassazione, l’eventuale applicazione del principio dell’autonomia di ogni iscrizione, che è stato elaborato per il conteggio del termine di durata delle indagini preliminari, avrebbe provocato l’applicazione delle nuove norme per le indagini relative alle successive iscrizioni. Con l’effetto paradossale di un doppio regime nella medesima inchiesta. Sulla scia delle polemiche per le recenti scarcerazioni di alcuni boss della criminalità organizzata, la bozza di decreto legge rivede poi il percorso di concessione di alcuni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Senza però, ha precisato ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che questo possa suonare come atto di sfiducia nei confronti della magistratura di sorveglianza, “si fa solo in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto”. La scelta è quella di fare precedere la decisione del tribunale o del magistrato di sorveglianza dal parere della procura. Così, in materia di permessi, nel caso di detenuti per reati previsti dall’articolo 51 commi 3 bis e 3 quater del Codice di procedura penale (associazione criminale, terrorismo), l’autorità giudiziaria competente, prima di pronunciarsi chiede un parere al Procuratore del capoluogo del distretto dove si trova il tribunale che ha emesso la sentenza. In caso di detenuti sottoposti al regime del 41bis sarà necessario anche il parere del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Medesima procedura per quanto riguarda la detenzione domiciliare. In un caso e nell’altro vengono anche definiti i termini: per i permessi premio, la concessione non può arrivare prima di 24 ore dalla richiesta dei pareri, mentre per la detenzione domiciliare, i termini sono di 2 e di 40 giorni (nel caso del 41bis). La Procura generale della Corte d’appello è poi informata dei permessi concessi e del loro esito. C’è la società dei migliori, il resto è solo mafia di Armando Veneto Il Riformista, 30 aprile 2020 Dopo alcuni giorni dedicati quasi esclusivamente al distanziamento sociale ed alla reclusione volontaria, con il conseguente calo dei delitti, attendevo con ansia il tempo nel quale la mafia sarebbe tornata a spadroneggiare in TV e sui media. Attendevo con ansia, ma anche con la certezza che i cantori della giurisprudenza creativa e della galera a vita e per ceppi familiari non si sarebbero lasciati sfuggire l’emergenza per tornare alle loro ossessioni. Un susseguirsi di eventi ha placato la mia attesa; alcuni esempi lo confermano. Quasi contemporaneamente all’annunzio delle sovvenzioni a famiglie e aziende, erano insorti quanti paventavano ulteriori arricchimenti illeciti dei mafiosi; venne riaperta la contrapposizione tra il nord virtuoso (con l’accantonamento di mani pulite) e il sud a struttura mafiosa. Ed un sommo magistrato con vocazioni politiche, tanto da decidere chi debba o non candidarsi alle cariche pubbliche, offrì la soluzione miracolosa: siano i PM a gestire l’assegnazione delle risorse, probabilmente per i pochi non ancora raggiunti da interdittiva antimafia; almeno al Sud. Ancora: durante una trasmissione TV un noto conduttore aveva intanto zittito il politologo Luttwak che, rimbeccando il sommo magistrato, aveva osservato che gli investitori non vengono in Italia per timore dei magistrati, non dei mafiosi. Il povero Luttwak, catalogato tra gli esponenti del partito della mafia, aveva inteso dire, come esplicitò prima che le esigenze della pubblicità lo bloccassero, che era l’incertezza della giurisprudenza e la lentezza della giustizia a tenere lontani gli investitori. Non sapeva, Luttwak, che basta evocare certi poteri per mettere a repentaglio la libertà di parola. Cosa che non teme altro sommo magistrato che proprio in questi giorni tuona contro altri magistrati rei di avere scarcerato un moribondo, con l’assordante silenzio di altri magistrati che dovrebbero esercitare pur essi un potere; ma di controllo! E che dire di quanti, magistrati, giornalisti, politici disinformati, tramano o fanno da tramiti irresponsabili per demolire il processo penale accusatorio; quello nel quale un giudizio terzo rispetto alle parti, in pubblica udienza dirige il contraddittorio e, attraverso di esso, tenta di avvicinarsi alla verità processuale, o di sbagliare il meno possibile. Chi vive il dramma del processo “ da remoto” nel quale l’avvocato è “ospite”, come precisa la didascalia delle postazioni riservate ai difensori dalla piattaforma scelta dal Ministero della giustizia (rectius: dal cerchio magico che sovviene il Ministro nelle sue molteplici giravolte) sa come sia inesistente ogni rapporto dialogico; e come esso sia l’anticamera di un nuovo processo inquisitorio che, complice l’emergenza, si tenta di introdurre nel sistema, sconvolgendolo. “Tenete fuori gli avvocati dal processo” tuona il capo dei sommi magistrati: trattasi di ossessione da virus professionale; con possibilità di combatterlo solo mediante isolamento; anche se esso è reso difficile per la quantità di suffragi dei quali gode tra benpensanti, profittatori di contingenza e simili. Importante è schierarsi per la legalità; se poi essa non coincide con la giustizia (che include la norma morale prima che quella giuridica), poco importa. Ciò che conta è far parte degli onesti, scheletri negli armadi a parte: cioè della maggioranza ciarliera e combattente; magari conseguendo profitti o usando poteri (legittimamente?) conseguiti. Importante è manifestare quale sia il fine da raggiungere senza badare ai mezzi per conseguirlo: perché solo il fine prefisso dà gloria, acquisisce consenso, genera soddisfazione. Importante è essere riconosciuti quale adepto della parte migliore del Paese; perché tutto il resto è da aborrire; tutto il resto è mafia. Senza capire che la mafia si combatte seminando legalità vera; e vissuta senza arroganza; e senza violentare una storia fatta di ribellione ad ogni prepotenza. La Consulta deciderà a breve se mantenere il divieto ai detenuti al 41bis di scambiarsi oggetti agi.it, 30 aprile 2020 Vaglio della Corte costituzionale sul divieto, previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, per i detenuti in regime differenziato, di scambiarsi oggetti anche tra appartenenti allo stesso “gruppo di socialità”. I giudici della Consulta, martedì prossimo, in camera di consiglio - in base alle regole adottate in questa fase di emergenza Covid-19 - affronteranno la questione sollevata, con due ordinanze, dalla Cassazione, secondo la quale il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità determinerebbe, in “violazione” dell’articolo 3 della Costituzione, una “ingiustificata disparità di trattamento” rispetto ai detenuti in regime ordinario: tale divieto, si sostiene nelle ordinanze di rimessione, avrebbe esclusivamente “portata afflittiva”, e non potrebbe ritenersi “funzionale” a rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà. Secondo la Cassazione, inoltre, la “comune appartenenza al medesimo gruppo di socialità”, consentirebbe “a monte” lo scambio di qualunque contenuto informativo e il divieto previsto dall’articolo 41bis sarebbe “in contrasto” anche con il principio della finalità rieducativa della pena, enunciato dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto impedirebbe anche quelle “forme minime di socialità” che si estrinsecano nello “scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari” tra “persone che si frequentano ‘senza filtri’ ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali”. Il magistrato non è ex se personaggio pubblico: serve il consenso all’uso della sua immagine Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 29 aprile 2020 n. 13197. I magistrati non sono di per sé “personaggi pubblici”, solo perché svolgono una funzione indiscutibilmente di pubblico rilievo. Per cui la pubblicazione della loro immagine è legittima solo col consenso dell’interessato e solo entro i limiti per cui è stato prestato. Anche se ciò non esclude a priori che un giudice possa comunque assurgere a persona pubblica se ricorrono alcune circostanze o caratteristiche. Questo il chiarimento contenuto nella sentenza della Corte di cassazione penale n. 13197 depositata ieri. Il caso - La vicenda riguardava il comportamento di un avvocato che aveva più volte fatto volantinaggio dinanzi al palazzo di giustizia interloquendo in modo unilaterale - oltre che diffamatorio - con gli utenti al fine di diffondere accuse contro l’operato di alcuni magistrati di cui veniva anche riprodotta l’effige fotografica. Lo stesso avvocato aveva anche diffuso la notizia dell’imminente pubblicazione di un proprio libro dal titolo “Storie comiche di otto importanti pessimi magistrati”. E tutto questo mentre - già condannato per calunnia e diffamazione contro alcuni giudici - godeva della misura alternativa dell’affidamento ai servizi sociali. Misura poi aggravata con la semilibertà proprio a seguito di tali episodi, anche se con l’autorizzazione a svolgere la professione in ambito regionale. Concessione finalizzata alla rieducazione del condannato. La Cassazione conferma la visione del giudice di sorveglianza che aveva disposto l’aggravamento e non il rientro in carcere proprio per non escludere una chance di rieducazione. E la conferma si estende anche al punto delle specifiche prescrizioni imposte al professionista che anche dopo la condanna aveva proseguito nella critica non lecita dei giudici e di fatto offeso il decoro dell’istituzione Giustizia. Legittimo quindi avergli imposto la cancellazione del suo profilo Facebook, prescritto di non partecipare a piattaforme web essendo autorizzato al solo uso della propria posta elettronica e della Pec esclusivamente per consentirgli di svolgere la professione. Carceri e coronavirus, arriva la task force dei Garanti dei detenuti linkabile.it, 30 aprile 2020 Sedici Garanti regionali delle persone private della libertà individuale hanno scritto ai Presidenti delle Regioni per rappresentare la istituzione di una task force in materia di contenimento e coordinamento dell’emergenza coronavirus in carcere. Tra i primi firmatari Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania. Illustre Presidente, in data 21 aprile 2020, su sollecitazione del Ministero della Giustizia, il Ministero della Salute ha istituto in quella sede un Gruppo di lavoro interministeriale ad hoc per il contenimento dell’emergenza Covid-19 nel settore penitenziario, a cui sono stati invitati a partecipare anche il Garante nazionale delle persone private della libertà, l’Istituto Superiore di Sanità e tre rappresentanti del Gruppo tecnico interregionale della sanità penitenziaria. Come ogni altro luogo di convivenza forzata di una pluralità di persone, gli Istituti penitenziari sono particolarmente a rischio per le condizioni di potenziale diffusività del virus Covid-19, già purtroppo riscontrata in alcuni di essi. Dopo un periodo di incertezza, che ha generato confusione e preoccupazione tra i detenuti, i loro familiari e gli operatori delle amministrazioni penitenziaria e sanitaria, le Regioni e l’Amministrazione penitenziaria, ciascuna per la propria parte, hanno condiviso alcune modalità operative di prevenzione e di primo intervento (il pre-triage dei nuovi ingressi, la limitazione dei trasferimenti dei detenuti, l’isolamento dei positivi). Sopravvivono particolari criticità, relative - come è noto - alle condizioni di cronico sovraffollamento degli istituti penitenziari, che impediscono l’adozione delle misure di distanziamento sociale prescritte alla generalità della popolazione e, specificamente, la quarantena precauzionale dei detenuti che siano stati a contatto con persone di cui sia stata riscontrata la positività. In prospettiva è da valutare con particolare attenzione le misure da adottare nella cd. fase 2, che in ambito penitenziario sarà possibile identificare con il venir meno della interdizione ai colloqui in presenza dei detenuti con i loro familiari, la progressiva ripresa delle attività scolastiche, formative e lavorative all’interno e all’esterno delle carceri e la riapertura delle carceri al fondamentale contributo del volontariato e del terzo settore. Certamente sarà necessario il massimo coordinamento di tutti gli attori del sistema coinvolti nella prevenzione della ulteriore diffusione del virus e nella garanzia di uniformi livelli essenziali di assistenza per tutte le persone detenute. A tal fine, la normativa vigente prevede che il confronto tra le Amministrazioni centrali dello Stato e le Regioni si svolga nell’ambito del Tavolo di consultazione permanente istituito presso la Conferenza unificata a seguito del Dpcm 1 aprile 2008 di trasferimento delle competenze al Servizio sanitario nazionale dell’assistenza sanitaria delle persone detenute. Viceversa, l’autorità di Governo ha inteso istituire una nuova sede in cui le Regioni e le Province autonome, pur titolari della responsabilità del servizio sanitario negli istituti penitenziari come sul territorio, appaiono coinvolte in maniera marginale, in un organismo che appare squilibrato nelle rappresentanze tra Amministrazioni centrali dello Stato e Regioni e tra responsabilità sanitarie e di giustizia. Così composto, il Gruppo di lavoro potrebbe provocare - anche involontariamente - effetti perturbatori di quel modello di gestione della sanità penitenziaria che, ancorché bisognoso di ulteriori miglioramenti, nel suo insieme in questi anni è andato positivamente assestandosi. In qualità di Garanti delle persone private della libertà delle Regioni e delle Province autonome ci preme rappresentare alla Loro attenzione quanto segue: - l’accettabilità istituzionale del Gruppo di lavoro di cui all’oggetto solo in via temporanea (fino al termine dello stato di emergenza in corso) e limitatamente alle misure di prevenzione e assistenza in materia di Covid-19; - la necessità di una adeguata rappresentanza della Conferenza delle Regioni nell’ambito del Gruppo di lavoro o almeno di un chiaro mandato da parte della sua Commissione Salute ai rappresentanti del Gruppo tecnico invitati a parteciparvi. Sappiamo bene che nelle circostanze del momento le Autorità politiche e amministrative regionali competenti stanno fronteggiando la più grave crisi che il Servizio sanitario nazionale abbia dovuto affrontare dalla sua istituzione, ma dal 2008 l’assistenza sanitaria dei detenuti è parte organica di esso e delle sue articolazioni regionali in virtù della universalità del diritto alla salute riconosciuta dall’art. 32 della Costituzione. Questa responsabilità delle Regioni e del Servizio sanitario nazionale, se non sempre ha garantito in concreto le migliori condizioni possibili di assistenza sanitaria, certo ha consentito di rivendicarle alla luce del principio di eguale trattamento dei detenuti con i cittadini in stato di libertà, come recita l’art. 1 del d. lgs. 230/1999. Auspichiamo, quindi, che l’emergenza in corso possa essere un’occasione di potenziamento dell’impegno delle Regioni e delle Province autonome nell’offerta di servizi sanitari penitenziari e nella valorizzazione delle professionalità che vi sono impiegate. Sottoscrivono Stefano Anastasìa, Regioni Lazio e Umbria, Portavoce Samuele Ciambriello, Regione Campania Gianmarco Cifaldi, Regione Abruzzo Giuseppe Fanfani, Regione Toscana Giovanni Fiandaca, Regione Sicilia Enrico Formento Dojot, Regione Valle d’Aosta Mirella Gallinaro, Regione Veneto Leontina Lanciano, Regione Molise Carlo Lio, Regione Lombardia Marcello Marighelli, Regione Emilia-Romagna Bruno Mellano, Regione Piemonte Antonia Menghini, Provincia Autonoma di Trento Andrea Nobili, Regione Marche Paolo Pittaro, Regione Friuli-Venezia Giulia Piero Rossi, Regione Puglia Agostino Siviglia, Regione Calabria Uscire e poi? Senza lavoro è difficile ricominciare di Lucio Boldrin* Avvenire, 30 aprile 2020 Per una persona detenuta il giorno più bello dovrebbe essere quello della scarcerazione. Oggi, complice anche la grave situazione provocata dalla pandemia, si sono riaccese le polemiche sulle scarcerazioni e sulle misure alternative alla detenzione. Ma spesso ci si dimentica che, quando si esce dalla prigione, inizia un percorso che può essere anche più difficile: rientrare in famiglia, cercare un lavoro, affrontare una società per cui sei ormai “etichettato”. Il recupero e l’inclusione dei carcerati e degli ex carcerati è un aspetto fondamentale dell’amministrazione della giustizia. Recuperare alla società chi è stato in galera è molto più di un atto di solidarietà. E un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Elemento fondamentale per rompere l’isolamento e offrire la possibilità di ricominciare una nuova vita è la formazione al lavoro che, oltre a essere una garanzia per il proprio sostentamento materiale, diventa anche un’occasione di formazione in senso ampio, includendo un percorso di rieducazione a valori come la legalità, l’impegno e il sacrificio. Il ruolo degli educatori e degli psicologi all’interno degli istituti penitenziari diventa perciò molto importante nel risvegliare le energie positive e creative in persone doppiamente segnate dall’esperienza della devianza: per la scelta dell’illegalità che le ha portate a delinquere e per l’esperienza del carcere, spesso ancora più traumatica. Il primo passo consiste nella rottura dell’isolamento sociale e morale in cui viene a trovarsi il carcerato, per questo diventa importante creare occasioni di relazione con il resto della società, sia attraverso il lavoro sia organizzando incontri. Il livello di istruzione, coni deficit di tipo scolastico, formativo e professionale, è un’ulteriore difficoltà di accesso nel mondo del lavoro. Senza dimenticare l’età non più giovane della maggioranza delle persone recluse, che costituisce ovviamente un ostacolo aggiuntivi). A 45-50 anni è difficile trovare un lavoro, per un ex detenuto lo è ancora di più. Nella società vi sono pregiudizi rispetto a coloro che hanno compiuto reati: è difficile perdonare, riconoscere che colui che è stato detenuto possa rifarsi una vita. Lo stereotipo associa la sua figura all’impossibilità di cambiamento. Ma tutti meritano, a mio avviso, una seconda possibilità. Evitiamo di costruire muri tra le cosiddette persone “per bene” e gli ex carcerati, perché la sola conseguenza è che chi è stato in prigione finisce per tornarci. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Toscana. Reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, la Regione finanzia i progetti luccaindiretta.it, 30 aprile 2020 Stanziati 200mila euro: importo massimo di 30mila euro per ciascuna proposta. Nell’ambito del progetto sulle politiche per il diritto e la dignità del lavoro, approvato dal Consiglio regionale nello scorso mese di dicembre, la giunta toscana passa dalle parole ai fatti ed adotta l’avviso pubblico per il finanziamento di progetti formativi rivolti a soggetti in stato di detenzione negli istituti penitenziari della Toscana. Per questo nuovo avviso pubblico è previsto lo stanziamento complessivo di 200 mila euro a valere sulle risorse regionali del bilancio pluriennale 2021-22. I progetti saranno finanziabili per un importo massimo di 30mila euro ciascuno. “Perseguendo l’obiettivo istituzionale di garanzia e sviluppo della coesione sociale nonché la volontà di ridurre criticità e costi sociali alle comunità di appartenenza causati dalle recidive, con questa misura si vuole contribuire al recupero e al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti”, spiega l’assessore a lavoro, formazione e istruzione della Regione Toscana, Cristina Grieco, che aggiunge: “Attraverso questo avviso pubblico si permette la realizzazione di percorsi formativi finalizzati a ridurre il divario tra le competenze richieste dalle imprese e quelle possedute da soggetti in stato di detenzione nelle carceri toscane con pena residua minima di un anno”. I percorsi formativi, finalizzati al rilascio di certificazioni delle competenze o attestazioni di frequenza, saranno progettati sulla base del fabbisogno formativo, del numero e la tipologia di utenti coinvolti, la messa a disposizione dei locali così come individuati dalle direzioni degli istituti penitenziari in accordo con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Toscana ed Umbria. Gli interventi formativi verranno attuati da agenzie formative beneficiarie del finanziamento, in qualità di soggetto singolo od associazione temporanea di imprese o di scopo, se in regola con la normativa regionale sull’accreditamento, con la partecipazione attiva degli istituti di pena che aderiranno formalmente alla realizzazione del progetto formativo presso la propria sede. Emilia Romagna. “Non è mai troppo tardi”: video-lezioni a distanza per i detenuti piacenzasera.it, 30 aprile 2020 Un programma di video-lezioni a distanza per la scuola in carcere e per gli studenti dei percorsi di istruzione per adulti: la Regione Emilia Romagna lancia l’iniziativa #nonèmaitroppotardi2020, al via dal 27 aprile all’interno del palinsesto di Lepida TV (sul canale 118 del digitale terrestre dell’Emilia-Romagna). Ideato, prodotto e realizzato dal Cpia metropolitano di Bologna in collaborazione con il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, il progetto è stato accolto favorevolmente dall’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna, dalla Casa circondariale di Bologna e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e apprezzato anche dalla presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, Emma Petitti. Ogni settimana un tema diverso - informa la Regione - si parte con “la costituzione e le leggi” e si prosegue, nelle quattro settimane successive, con “la salute”, “l’istruzione”, “il lavoro”, “la parità di genere e l’amore”: 25 puntate della durata di 30 minuti ciascuna (dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 10). La programmazione completa e i contenuti delle video-lezioni sono consultabili anche sul canale 5118 di Sky, sulle pagine web www.cpiabologna.edu.it/ e http://lepida.tv, oltre che sul canale YouTube sempre di Lepida. “Nelle carceri - fa sapere la Regione - ogni attività scolastica è sospesa da fine febbraio, non essendo ancora previsto in questo tipo di strutture l’utilizzo della rete internet si è deciso di sfruttare il mezzo televisivo per riattivare la relazione pedagogica e didattica con la scuola, sul modello proposto da Alberto Manzi negli anni sessanta”. “In questi giorni di crisi - spiega il Garante Marighelli - abbiamo sentito la preoccupazione delle persone detenute in carcere di vedersi doppiamente segregate sia per l’espiazione della pena sia per le precauzioni sanitarie, tanto da perdere i contatti con la comunità esterna. Con la ripresa dei corsi scolastici in questa diversa ma non meno stimolante veste, vogliamo non solo contribuire a soddisfare un urgente bisogno di informazione, cultura e istruzione, ma anche dare un segno di attenzione e responsabilità pubblica nell’assicurare il diritto all’eguaglianza nell’accesso alla conoscenza quale strumento indispensabile per orientarsi e nutrire una speranza di reinserimento nella società”. Torino. Detenuto con il coronavirus, interviene la Corte europea dei diritti dell’Uomo di Irene Famà La Stampa, 30 aprile 2020 La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha chiesto chiarimenti al Governo italiano in merito alla situazione di un detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno risultato positivo al Covid-19 e tutt’ora recluso. A portare la questione a Strasburgo è stata l’avvocato Benedetta Perego dell’associazione Strali, che ha presentato un esposto. L’uomo, oltre ad essere positivo al Covid19, risulta affetto da altre patologie pregresse. Secondo quanto riferisce l’associazione, il detenuto è rimasto in carcere “nonostante la direzione sanitaria abbia rilevato, l’8 aprile, l’incompatibilità della malattia con la prosecuzione della detenzione”. Il ricorso - in termine tecnico una richiesta di misure provvisorie - sottolinea anche il “proliferare del contagio all’interno del carcere di Torino e la connessa impossibilità di garantire assistenza sanitaria continua a tutti i detenuti”. I giudici della Cedu hanno quindi “sollecitato il governo italiano a riferire in merito alle questioni attuali del ricorrente e alle misure predisposte dalla direzione del carcere per evitare il rischio di complicazioni della malattia”. L’associazione “auspica che la proposizione del ricorso e il conseguente intervento della Corte possano chiarire come è stato gestito il rischio sanitario derivante dalla diffusione del Covid19 all’interno del carcere di Torino e, in secondo luogo, contribuire alla piena tutela della salute delle persone oggi detenute negli istituti di pena italiani”. Verona. “Papà ha il coronavirus ma è chiuso in carcere. Deve andare in ospedale” L’Arena, 30 aprile 2020 “Mio papà si trova in una struttura detentiva dove ha contratto il coronavirus. Temiamo per la sua salute in quanto, essendo asmatico, avrebbe bisogno di tutte le cure necessarie, fuori dal carcere, in un ospedale”. Un appello accorato lanciato tramite il nostro giornale dalla figlia dell’uomo, Teresa Riillo, originaria di Isola Capo Rizzuto (Crotone), ma residente nel Veronese da 13 anni. Suo padre, Domenico Riillo, 62 anni, che ha subito due condanne ed è sottoposto a misura cautelare, si trovava fino ad un mese fa nella casa circondariale di Bologna. Qui molti detenuti sono risultati contagiati dal coronavirus e per questo anche Riillo è stato sottoposto a tampone: l’esito per lui è stato negativo. Due giorni dopo, i suoi cinque figli, tra cui Teresa, hanno cercato di mettersi in contatto con il genitore a Bologna, per potergli parlare, visto che non possono fargli visita. Al telefono hanno appreso che il padre Domenico era stato trasferito nel carcere di Tolmezzo (Udine), a seguito della decisione della direzione del carcere bolognese di allontanare, ridistribuendoli in altre strutture detentive, coloro che erano risultati negativi per limitare il contagio nel carcere emiliano. Una volta giunto nella casa circondariale friulana, Riillo ha iniziato a manifestare tosse e febbre. Ad un ulteriore tampone a cui è stato sottoposto, il crotonese è risultato positivo al virus e quindi è stato messo in quarantena. Il detenuto calabrese è un soggetto a rischio, essendo asmatico e soffrendo anche di altre patologie. A questo punto, i nipoti hanno iniziato a lanciare appelli sui social e sui media della sua terra d’origine e del Friuli, per avere garanzie sulle cure da assicurare al nonno. L’avvocato di famiglia che difende Riillo, lo scorso 11 aprile ha presentato istanza in tribunale affinché il suo assistito venga ricoverato in ospedale, dove potrà ricevere le cure adeguate. Ma finora il giudice non si è ancora espresso. “Non pretendiamo gli arresti domiciliari”, chiarisce la figlia Teresa, “ma chiediamo alla giustizia che papà possa almeno uscire temporaneamente dal carcere per essere ricoverato in una struttura sanitaria e curato a dovere”. “Attualmente siamo in contatto con i medici del carcere di Tolmezzo”, conclude la figlia del detenuto crotonese che risiede ad Oppeano, “ma, date le sue condizioni che lo rendono un soggetto a rischio, occorre che venga seguito da un’équipe di medici specializzati”. Una decisione che dovrà essere presa dal tribunale in tempi stretti, per dare la possibilità a Riillo di curarsi e superare indenne il contagio da Covid-19. Perugia. Per i processi penali agibili solo due aule. E una è in multiproprietà di Egle Priolo Il Messaggero, 30 aprile 2020 Furti in casa, casi di stalking, ma anche liti con i vicini o dissidi per l’eredità. Problemi di tutti i giorni, possibili nella vita di chiunque e che, per questo, riempiono le aule dei tribunali. O almeno riempivano, visto che per la sicurezza e le norme anti-contagio questi casi davanti a un giudice, penale o civile, non ci arrivano da marzo. E chissà quando ci entreranno, a Perugia, viste le difficoltà per la ripartenza che non sono solo quelle di tutta Italia, ma qui hanno sfumature anche più preoccupanti. Lo sa bene chi vive e lavora nel sistema giustizia e conosce in quali strutture si indossano toghe e si agitano fascicoli in città. Per cui la Fase 2 - nei tribunali di Perugia - difficilmente sarà semplice dal 12 maggio, quando sarebbe previsto il ritorno alla (quasi) normalità. Basti pensare che al tribunale penale di via XIV Settembre è agibile una sola aula, la E, quella nuova e con le finestre. Per le altre si resta ancora in attesa dell’ok della Asl anche solo per gli impianti di areazione non a norma, senza considerare le volte in cui si sono allagate o sono crollati i controsoffitti. Considerando anche che sono tutte interrate e senza finestre. E che fuori dalle porte (delle aule A e B, per esempio) spesso stazionavano anche 40 persone. Ci sarebbe anche l’Aula degli Affreschi a palazzo del Capitano del popolo, come sottolineato pure dal presidente del tribunale Mariella Roberti nell’ultimo protocollo sulle misure anti-Covid (al centro di una discussione con l’Ordine degli avvocati e quindi magari da affinare), se non fosse che la Corte d’appello ha già considerato l’aula al -2 di piazza Matteotti il suo piano B per le udienze che non si possono celebrare nella Goretti o che hanno bisogno delle dotazioni per i processi da tenere da remoto, su Microsoft Teams. Senza dimenticare che le udienze a distanza, con tutta la buona volontà, sono complicate: è tutto un “Mi sentite?”, “Segnale perso, diceva?”. Un delirio. Anche solo per le direttissime, figurarsi in un processo con testimoni. E il civile? Aule sottotetto e corridoi strettissimi, problemi di sempre. Non è certo il momento storico di tirar fuori il progetto della cittadella giudiziaria, ma il problema è reale e forse di difficile soluzione anche a voler immaginare soluzioni alternative, scatenate dal dibattito, come il ripristino dell’archivio della Corte d’appello in aula per le udienze. E allora che si fa? Al momento si aspetta. Soprattutto una linea guida, magari dal Ministero della giustizia, per evitare scelte disomogenee tra tribunali e sezioni, con gli avvocati a districarsi tra i vari protocolli, diversi pure dalle altre città. Il federalismo della legge uguale per tutti. Brindisi. Attivato nel carcere il “Telefono giallo”, supporto psicologico per i detenuti brindisioggi.it, 30 aprile 2020 Attivato nel carcere di Brindisi il “Telefono giallo”, un numero dedicato a supporto psicologico dei detenuti. “Anche nel Carcere di Brindisi, d’intesa con la Direttrice Anna Maria Dello Preite, sarà attivato nei prossimi giorni il Telefono Giallo, lodevole iniziativa dell’Associazione “Bambini Senza Sbarre”. Partecipa al progetto la Counselor Angela Corvino, che da anni porta avanti nel nostro carcere, il progetto di Genitorialità, con incontri periodici dentro le mura, tra genitori e figli dei detenuti, progetto attualmente sospeso per la pandemia in corso - ha detto il garante dei diritti della Provincia di Brindisi, Bruno Mitrugno - sono tante le domande a cui rispondere. Ad esempio, “Come aiuto mio figlio a trascorrere questo lungo periodo di separazione dal genitore detenuto?”. L’associazione Bambini Senza Sbarre si mette a disposizione per rispondere a queste e a tante altre domande che insorgono a causa dell’emergenza determinata dal Corona-Virus, che incide sulle nostre relazioni e i contatti tra i cari, ancor di più nel complesso ambiente di riferimento che è il carcere. Per questo, nel pieno rispetto di quanto previsto dal nuovo decreto “Io resto a casa”, l’associazione Bambini Senza Sbarre potenzia il servizio di supporto telefonico Telefono Giallo per le famiglie di persone detenute e lo attiva per i bambini figli di genitori detenuti, avvalendosi di operatori specializzati”. Il servizio, telefono e WhatsApp, è attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 18:00 al numero 3929581328 per ascolto, supporto psicologico e risposte specialistiche a coloro che si trovano ad affrontare questa difficile fase. È una possibilità per i familiari di non sentirsi soli e di ragionare insieme a specialisti sulle risposte da dare alle difficili domande che ogni giorno i figli pongono e per i bambini di costruire una comunità virtuale con scambio di bisogni e consigli, che potrà diventare appena possibile un vero e proprio gruppo di auto mutuo aiuto. Biella. Le mascherine anti Covid si producono in carcere di Paolo La Bua La Stampa, 30 aprile 2020 Una trentina di detenuti del carcere di Biella produrranno mascherine per combattere l’emergenza sanitaria. “Nello scorso mese di dicembre avevamo avviato un laboratorio sartoriale per produrre divise della polizia penitenziaria - spiega la direttrice della struttura penitenziaria di via dei Tigli, Tullia Ardito -. Il progetto è stato sospeso nelle scorse settimane, per avviare una riconversione, in modo da essere in grado di realizzare mascherine e altro materiale utile per contrastare il “Corona-virus”. Siamo pronti e tra pochissimi giorni le persone selezionate potranno iniziare i lavori”. Il progetto sartoriale legato alle divise della polizia è un fiore all’occhiello della struttura detentiva biellese, dove ci sono altri progetti legati alla coltivazione e alla vendita di prodotti agricoli realizzati in serre e orti. A regime avrebbe dovuto impiegare una cinquantina di persone, secondo gli obiettivi. “Però non siamo riusciti a coinvolgere e formare così tante persone, perché l’emergenza sanitaria ci ha bloccato l’iter, che riprenderemo una volta superata l’attuale situazione di crisi”. Il carcere biellese non è stato toccato dalla pandemia, secondo quando spiega la direttrice. “Attualmente i detenuti sono circa 550 - aggiunge -. Gli agenti in servizio invece circa 180, cui vanno aggiunti una ventina di impiegati amministrativi. Non abbiamo registrato contagi, per ora. L’aspetto più complesso comunque sta nella gestione dei trasferimenti, in entrata, che presuppongono visite mediche, controlli e accertamenti sanitari con tempistiche non sempre agevoli per le regole e la vita di un istituto carcerario”. Massa Carrara. Coronavirus, nel carcere si producono 2 mila mascherine al giorno voceapuana.com, 30 aprile 2020 Due mila mascherine in “tessuto non tessuto” ogni giorno. Questo il prezioso contributo dei detenuti della Casa di reclusione di Massa che tutti i giorni si dedicano alla fabbricazione dei dispositivi di protezione individuale obbligatori fin dall’inizio della pandemia, grazie alla conversione della tessitoria, che prima dell’emergenza tesseva lenzuola e coperte per l’amministrazione penitenziaria. “Ci è sembrato assolutamente necessario dare un contributo rispetto a quello che stava succedendo all’esterno” ha spiegato la direttrice del carcere, Maria Cristina Bigi, nel servizio televisivo di Striscia La Notizia. Le persone detenute che stanno lavorando a questo nuovo progetto, e che hanno cucito le mascherine proprio all’interno della Casa di Reclusione, doneranno le mascherine accuratamente fabbricate al personale penitenziario, ad altre carceri, alle Asl e agli ospedali per medici e infermieri. Gli uomini e i ragazzi all’interno dello stabilimento hanno allestito una vera e propria catena di montaggio, dove ognuno di loro ha un compito preciso per la fabbricazione dei dispositivi, realizzati in massima sicurezza con tutte le precauzioni igienico-sanitarie stabilite dal Decreto: alcuni di loro prima stendono il tessuto, dopo di che iniziano a disegnare dei rettangoli cioè la parte della mascherina che andrà coprire naso e bocca, altri si occupano di disegnare i lacci, e infine il tutto viene lavorato a macchina. Ultimo passaggio, ma non meno importante, è quello del controllo del dispositivo e della rifinitura, dove vengono ripulite e inserite nelle buste sanificate, sottovuoto e inscatolate. “Ci fa sentire orgogliosi fare tutto questo - rispondono in collegamento dal carcere con la giornalista Chiara Squaglia di Striscia La Notizia - facciamo una cosa importante e positiva, aiutiamo la gente che ha bisogno e i malati”. “È una cosa che ci dà la possibilità di riscattarci” conclude Aziz. Tempio Pausania (Ss). “Carcere e pandemia”: incontro in diretta su Facebook La Nuova Sardegna, 30 aprile 2020 Proseguono gli incontri di formazione in diretta Facebook rivolti agli avvocati organizzati dall’Unione delle Curie della Sardegna, l’organismo che rappresenta gli ordini forensi dell’isola, in collaborazione con i presidenti degli Ordini di Tempio Pausania, Carlo Selis, di Cagliari, Aldo Luchi, di Sassari, Giuseppe Conti, di Nuoro, Angelo Mocci, e di Lanusei, Gianni Carrus. Oggi con inizio alle 16 (tutti gli incontri si terranno alla stessa ora), si parlerà di “La vita in carcere durante la pandemia - contagi, trasferimenti e misure alternative” con Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza a Sassari e presidente di Magistratura democratica, l’avvocato Maria Brucale, presidente commissione carceri della camera penale di Roma ed esponente di “Nessuno tocchi Caino”, e Davide Galliani, docente di diritto costituzionale all’Università di Milano. Modera il dibattito l’avvocato Giuseppe Conti, presidente dell’Ordine degli avvocati di Sassari. Due gli appuntamenti di maggio. Il 5 sarà dedicato ai “Nuovi strumenti investigativi: l’uso dei captatori informatici (cosiddetti trojan) e l’agente sotto copertura”. Interverranno il procuratore di Oristano Ezio Domenico Basso, Francesco Paolo Micozzi, avvocato del foro di Cagliari e professore di Informatica Giuridica all’Università di Perugia. Modera il dibattito l’avvocato Aldo Luchi, presidente del consiglio dell’Ordine di Cagliari. Tema del 7 maggio: “Violenza sessuale sui minori” con Francesca Trebisonna, professoressa di diritto minorile all’Università di Modena e avvocato del foro di Cagliari, Marco Pingitore, psicologo, psicoterapeuta e criminologo a Cosenza e Giovanni Battista Camerini, neuropsichiatra infantile a Bologna. Modera il dibattito l’avvocato Carlo Selis, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Tempio Pausania. Catanzaro. “Poesia e arte ai tempi del Covid-19”, iniziativa in carcere lametino.it, 30 aprile 2020 “La poesia va oltre le sbarre. E diventa arte”. È successo al carcere di Catanzaro dove, in tempi di epidemia, l’accesso ai volontari è precluso per tutelare la salute dei detenuti. Tuttavia la presidente dell’associazione Universo Minori, Rita Tulelli, da sempre vicina alla realtà di Siano ed in particolare ai genitori detenuti e ai loro bambini, in questo periodo ha dedicato proprio ai piccoli una poesia intitolata “Il tesoro”, sul tema della diffusione del Coronavirus. La direttrice Angela Paravati ha invitato i detenuti a riflettere su questo modo di comunicare che è in sé un dono, e la risposta di un detenuto è stata a sua volta attraverso l’arte: ha realizzato un quadro ispirato a quei versi. “Per prevenire il rischio del contagio da Covid-19 non è più possibile per i volontari frequentare il carcere di Catanzaro fisicamente” ha affermato la direttrice Angela Paravati “ma la collaborazione tra l’Istituto e la comunità esterna può continuare: infatti i detenuti sono pronti a raccogliere gli spunti e le idee che i volontari possono fornire loro”. Un quadro diviso a metà, lungo il tronco di un albero, che si trova su una linea di confine solo pochi mesi fa impensabile. E, spiegano “rappresenta uno spazio e un tempo divisi, tra ciò che era un passato, pieno di vita e di luce, ricco di sentimenti positivi, descritti da delicati colori ad acquerello, ed un presente più cupo, ritratto tramite colori ad olio, una notte illuminata solo da una falce di luna, dove risalta un coronavirus creato attraverso materiale riciclato, sporgente rispetto al quadro, quasi a rappresentare la sua estraneità a una realtà di cui sembra essersi impossessato. Dal lato della luce le radici dell’albero sono ben piantate, e hanno addirittura un nome: vita, speranza, gioia, amore le parole indicate tramite etichette tricolori; dall’altro lato le radici sembrano invece più deboli e sono senza nome, senza identità. Da un lato un’altalena sembra solo aspettare che un bambino inizi a giocarci, dall’altro lato anche l’altalena è scomparsa, perché per i piccoli fuori non c’è più spazio. Questo il mondo di fuori visto dal carcere: com’era e com’è. Trasfigurato e ingentilito nel ricordo, e nuovamente trasfigurato per la paura attuale. Perché qui dove tutto è più lontano, si ascolta più attentamente e le notizie che arrivano da fuori diventano insieme arte, ricordo, paura e speranza”. Macaluso: “Battersi per i più deboli è una vita ben spesa” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 30 aprile 2020 “Una sinistra che è ancora tale non deve avere paura, vergogna, della sua storia, delle sue battaglie, dei principi di giustizia sociale e di progresso che ne hanno ispirato l’azione. Battersi per l’uguaglianza, per il lavoro, per difendere e ampliare i diritti sociali e di cittadinanza, ecco tutto questo lo racchiudo in una parola, nobile, alta: socialismo”. Novantasei primavere di lucidità e coraggio. Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, mantiene intatte energia, lucidità, passione politica che l’hanno guidato in tutta la sua lunghissima esperienza politica. Una esperienza che ha attraversato il secolo scorso e si proietta, con articoli e riflessioni che lasciano ancora oggi il segno, ai giorni nostri: la Sicilia dei braccianti, (fu lui a parlare a Portella della Ginestra il Primo Maggio del 1948, l’anno dopo la strage mafiosa, e l’anno scorso, a 95 anni è voluto tornare a parlare nel luogo dove la banda di Salvatore Giuliano sparò contro la folla uccidendo 11 persone), Togliatti che lo chiamò a Roma, la Guerra Fredda, la direzione dell’Unità ai tempi di Enrico Berlinguer, una vita assieme a Giorgio Napolitano nella corrente migliorista. Il Riformista, di cui è stato anche direttore lo ha intervistato e, per chi scrive, è stata una esperienza emozionante. Biagio De Giovanni ha sostenuto sulle colonne di questo giornale che la sinistra potrà avere un futuro solo se saprà inventare nuove vie all’uguaglianza, lontane dal socialismo. Massimo Salvadori, sempre su “Il Riformista”, ha sostenuto, invece, che fuori dalle socialdemocrazie, non c’è spazio per l’uguaglianza. Lei pensa che nel Terzo Millennio, socialismo sia un concetto, una parola, un orizzonte ideale e politico da archiviare per una sinistra che vuole rilanciarsi? Io penso di no. Penso che la battaglia di una sinistra che è sinistra, è l’uguaglianza. Una battaglia per i diritti, per il lavoro. Tutte battaglie che il socialismo ha espresso, portato avanti, non solo nel secolo scorso, ma anche nell’800. Si tratta di un patrimonio incancellabile, e dico questo non perché nostalgico del tempo che fu, ma perché la società di oggi, se non ci fosse stata questa forza, sarebbe stata diversa, e non certo migliore. Guai a dimenticarlo. Le prime battaglie laburiste per un sistema sociale più equo, più solidale, più attento e attivo verso le fasce più deboli della popolazione, sono battaglie che iniziarono con Turati e sono tutte cose che non possono, che non devono essere dimenticate. I grandi leader della sinistra sono stati tali perché hanno sempre pensato e agito tenendo in conto gli interessi nazionali e delle classi lavoratrici. Una sinistra degna di sé non ammaina bandiere gloriose e attuali come sono quelle della Resistenza e della Liberazione. Da questo seme sono nate poi nel ‘900 le grandi battaglie della sinistra, e in Italia anche con il Pci che, a mio avviso, esercitò una funzione socialdemocratica. Basti pensare cosa siano stati i Comuni amministrati dalla sinistra, cosa è stata l’Emilia Romagna dove il Pci ha rappresentato una forza fondamentale con una funzione socialdemocratica, con la costruzione di un sistema sociale straordinario. Pensiamo agli asili per i bambini, all’assistenza per gli anziani, al servizio sanitario pubblico… Pensiamo anche al ruolo progressista che a Milano ha svolto l’amministrazione socialista. Ritengo che questa forza è stata essenziale, e che ha contribuito fortemente alla modernizzazione e al progresso dell’Italia. Cosa rappresenta il “nuovismo” a sinistra e per la sinistra? Il nuovismo a sinistra è stato una grande deviazione. Il nuovismo non ha nulla a che fare con la sinistra. Il nuovismo non è sinonimo di progresso, ci sono forme di nuovismo reazionario. In questo tempo segnato da una crisi pandemica globale, da più parti si è detto e ripetuto che dopo il flagello del Coronavirus, niente sarà più come prima. Cosa significa questo per lei? Guardi, a certi slogan io ci credo poco. Nulla sarà più come prima se ci saranno forze politiche e sociali che faranno sì che davvero nulla sarà più come prima. Non sarà la pandemia in sé a determinarlo. Se guarisci dalla malattia non è detto che per questo diventi una persona migliore. Una sinistra degna di questo nome non deve aver paura o incertezza nell’affermare che non siamo tutti uguali davanti al virus. Il miglioramento può avvenire solo da un attivismo sociale di forze che si muovono in un orizzonte di progresso. Ma che ciò accada, specie in Italia, è tutt’altro che scontato. In questo sfortunato Paese possono vincere anche forze di destra, e una destra reazionaria, della peggior specie. Sottovalutare questo pericolo sarebbe esiziale. Guardando non solo al nostro Paese ma all’Europa, c’è il rischio che ad affermarsi sia un sovranismo ultranazionalista? Questo pericolo c’è, ma c’è anche una consapevolezza nelle forze più mature, non solo progressiste, che l’affermarsi di una economia che regga in questo mondo globalizzato, non può essere garantito dal sovranismo ma dall’Europa. Noi parlavamo dell’attualità del socialismo. Ebbene, io sono fermamente convinto che il socialismo del Terzo Millennio o è europeista o non ha futuro. Se tra gli Stati Uniti e la Cina, i grandi competitori mondiali, ci saranno solo Paesi europei disuniti, ciascuno di essi sarà solo una pedina nello scacchiere dominato da Washington e Pechino. Se vuoi contare davvero c’è bisogno di una Europa più unita, che non sia solo una moneta ma che abbia più poteri statuali, altrimenti con l’America e la Cina non ci sarà partita. Se l’Europa non va verso una federazione, con un esercizio unico del potere, a cominciare da campi cruciali come quelli fiscale, economico, sociale, con una economia sempre più integrata, se non si muoverà, con decisione, rapidità e condivisione d’intenti, in questa direzione, l’Europa si autocondannerà a un inesorabile declino. Nessuno si salva da solo. In questa ottica e dentro questo orizzonte deve dunque muoversi il socialismo del Terzo Millennio e la sinistra? Assolutamente sì, ma per farlo la sinistra deve ripensarsi. Di certo non può più vivere di rendita, perché questa rendita non esiste praticamente più. Guardiamo alla Francia, e a cosa si è ridotto quello che con Francois Mitterrand è stato un grande partito: il partito socialista. In Italia c’è il Pd e null’altro, ma non mi pare che sia una forza sufficiente per esercitare un ruolo incisivo in Europa. In Grecia, è tornata a governare la destra, c’è la Spagna, con un premier socialista, e il Portogallo, con un governo socialista… Sono cose importanti, certo, ma non sufficienti per poter sostenere che nel Vecchio continente spiri un vento socialista… Lei ha attraversato la storia della sinistra per una vita. E ancora oggi, i suoi scritti vengono letti da tanti giovani. Ecco, se oggi dovesse dire in poche parole a un “millennial” italiano cosa è il socialismo e perché vale ancora la pena di battersi per quei principi che l’hanno ispirato, che parole sceglierebbe? Gli direi: guarda cosa è questo Paese, il tuo Paese oggi, quello in cui stanno crescendo sempre più le diseguaglianze, guarda come crescono le povertà. Noi abbiamo un processo gravissimo di impoverimento, e ritengo che questo sia dovuto anche alla scarsa forza della sinistra. E quando mi riferisco alla sinistra non penso solo ai partiti, alle forze politiche, ma anche a fondamentali corpi intermedi sociali, come il sindacato. Il sindacato, la Cgil, che pure ha un bravo segretario come Landini, deve fare di più per estendere e radicare la propria rappresentanza. Pensiamo ai migranti, un nuovo proletariato, persone, lavoratori che vengono sfruttati nella raccolta dei pomodori, costretti a vivere in condizioni disumane, alla mercé di caporalati e di padroni senza scrupoli. A costoro, e a chi continua ancora a chiudere gli occhi di fronte a questa tragica realtà, io vorrei gridare loro: miserabili, che avete fatto! Ai migranti che lavorano nei campi, o che badano alle persone anziane, devono essere garantiti dignità, diritti, cittadinanza. Devono essere regolarizzati, perché sono persone inserite e inseribili nel mondo sociale e civile di questo Paese. A un giovane d’oggi direi questo: battersi per i più deboli è una vita ben spesa. Sanatoria e regole per i migranti invisibili di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 30 aprile 2020 Va evitata una guerra di religione: sottraendo gli irregolari ai ghetti senza assecondare l’idea di un “tana libera tutti” nel nome del Covid-19. È un’emergenza nascosta dentro l’emergenza maggiore, sanitaria ed economica insieme. E reca un segno duplice, a seconda della quantità di buonsenso con cui riusciremo ad affrontarla. Sono tra i 600 e i 650 mila gli immigrati irregolari in Italia: risorse, certo, ad esempio per le nostre campagne desertificate dalla fuga dei braccianti stagionali; ma anche possibili bombe sociali e veicoli di diffusione del virus, se lasciati nel cono d’ombra dell’illegalità. Dunque circola in questi giorni un appello di 360 accademici di quasi tutte le università italiane. Economisti e immunologi, giuristi, virologi e sociologi delle migrazioni e del lavoro chiedono al Parlamento e al governo un passo in più rispetto al disegno di legge già allo studio di cinque ministeri per la regolarizzazione dei braccianti immigrati di cui il Corriere ha anticipato la bozza il 17 aprile, proponendo in sostanza di estendere il provvedimento ad altre categorie di lavoratori stranieri: per ragioni sanitarie (e securitarie) prima ancora che umanitarie. La materia è complessa e merita un’analisi pacata dei pro e dei contro. Perché di tutto avremmo bisogno alla ripresa tranne che di una ennesima guerriglia tra migrazionisti e sovranisti combattuta sul palcoscenico del Covid-19. E invece le prime avvisaglie dell’infinita baruffa di posizioni pregiudiziali si sono manifestate appena è venuta alla luce la bozza del governo: anziché discutere seriamente di come porre rimedio alla perdita del 35% dei prodotti delle campagne paventata dal presidente della Coldiretti, si è finiti con l’accapigliarsi sulla trincea fra sanatoria e migranti di qua, voucher e prima gli italiani di là. In estrema sintesi, la bozza governativa prevede che “per sopperire alla mancanza di lavoratori nei settori di agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura” si possano mettere sotto contratto stranieri irregolari facendo istanza allo sportello unico per l’immigrazione: dal contratto, non superiore a un anno, genera, dopo le necessarie verifiche, il permesso di soggiorno, rinnovabile previo nuovo rapporto contrattuale. L’allargamento ad altre categorie di lavoro (l’appello cita “servizi alla persona, artigianato, industria e servizi ad essa collegati”, in sostanza tutte) apre prospettive ancora diverse. E rende plausibile l’uso della parola “sanatoria”. Mito migrazionista e babau sovranista, la sanatoria sta alle migrazioni un po’ come il condono sta all’evasione fiscale: non ha mai risolto il problema, che è strutturale e necessiterebbe di un piano organico mai neppure tentato. Per paradosso, la sanatoria più grande, con quasi 700 mila regolarizzati nel 2002, venne da un governo di centrodestra che aveva appena varato la molto controversa legge Bossi-Fini. Forse andava fatta prima del Covid-19 e in termini più coraggiosi, come dice non un ultrà delle Ong ma Marco Minniti (600 o 650 mila fantasmi sono una mina vagante per l’Italia se non si riesce né a inquadrarli né a rispedirli a casa, come ha dovuto imparare pure Matteo Salvini). Fatta ora, nei limiti della bozza di legge, riguarderà solo quelli che già stanno nei campi e nei villaggi informali, circa un terzo: ed è molto mirata dalla parte delle imprese, per i termini in cui è stata prevista la regolarizzazione e la temporaneità dei permessi. I voucher sono certamente uno strappo formale e forse una lesione alla dignità dei lavoratori, come dicono i sindacati. Ma, usati dentro un orizzonte temporale chiaro e ristretto, come chiedono Coldiretti e Confagricoltura, risponderebbero alle migliaia di domande già arrivate nei siti delle associazioni da disoccupati e cassintegrati: voucher stagionali, che non devono riscrivere un manuale giuslavorista, ma servire essi pure a salvare la filiera italiana. I due strumenti hanno entrambi ragioni fondate per essere chiesti e, visti dentro questa emergenza, possono essere usati insieme (mancano nei campi circa 370 mila braccianti). L’appello dei professori sposta il tiro su un terreno più ideologico. Infatti, saggiamente, si premura di specificare che non di questo si tratta (apparire umani ai nostri giorni pone in una condizione dialettica di svantaggio…) ma piuttosto di garantire che i fantasmi suddetti non vaghino senza accesso alla sanità e alle regole comuni, come untori inconsapevoli o soldatini della criminalità organizzata. Va evitata una guerra di religione: sottraendo gli irregolari ai ghetti dove sopravvivono a stento, senza tuttavia assecondare l’idea di un “tana libera tutti” nel nome del Covid-19. Come? Mettendo ordine in una materia nella quale, dalla crisi migratoria del 2014-2017 nessuno è riuscito a porre mano in modo organico. Non si può non vedere quei 650 mila invisibili, il virus non ce lo permette più. Il lavoro può essere la via per la loro emersione, ma con criteri stringenti su tempi e modi, controlli rigorosi dei requisiti e un corollario: per chi non rientra in questi criteri va imboccata la strada dei Cie e, quando possibile, delle espulsioni. Questa emergenza può diventare in definitiva l’occasione per un vero censimento delle irregolarità sul nostro territorio. Per un piano serio che la sinistra riformista non è mai riuscita a formulare, lasciando alla propaganda sovranista una prateria di comprensibile rabbia popolare. Non sarebbe male se qualcuno proponesse agli italiani di mettere nell’armadio per un paio d’anni faziosità e ideologismi, ragionando (addirittura) sui fatti. Migranti. Così l’Ue finanzia respingimenti e prigioni libiche di Filippo Miraglia Il Manifesto, 30 aprile 2020 Un esposto di Arci, Asgi e Glan alla Corte dei Conti Europea contro i 90 milioni di euro che Bruxelles mette a disposizione di progetti che sostengono il respingimento di persone verso la Libia, un Paese in guerra dove migliaia di migranti subiscono terribili abusi. Arci, Asgi e Glan (Global Legal Action Network) hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti Europea per le risorse, 90 milioni di euro, con le quali la Commissione Europea, di fatto, fornisce supporto finanziario a progetti che sostengono il respingimento di persone verso la Libia. Un Paese in guerra dove migliaia di persone subiscono terribili abusi. Risorse che l’Ue dovrebbe destinare allo sviluppo e alla cooperazione, ma che in realtà, in violazione degli obblighi di legge, contribuiscono a perpetrare gravi violazioni dei diritti umani. Con l’esposto presentato si chiede alla Corte dei conti di dare inizio a una special review (analisi) del programma di gestione integrata delle frontiere (International border management, Ibm) finanziato attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa e di assicurarsi che la Commissione europea sospenda il programma in attesa delle revisioni necessarie, come richiesto dal diritto dell’Ue. Un’Europa che contribuisce a gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale attraverso l’utilizzo distorto dei fondi destinati allo sviluppo, è un’Europa che manca ai suoi impegni e mina le sue fondamenta. Mentre la società civile delle due sponde del Mediterraneo, insieme ad autorevoli istituzioni internazionali, chiede a gran voce lo svuotamento dei centri di detenzione libici, la cooperazione dell’Italia con la Libia, sostenuta dall’UE, finanzia respingimenti illegali di uomini, donne e bambini, verso l’inferno libico, anziché assicurargli salvezza e riparo in un porto sicuro. Le risorse del Fondo fiduciario per l’Africa possono finanziare solo azioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo e non strumenti e formazione per il controllo delle frontiere. Tuttavia, l’Ue ha deciso di allocare queste risorse nel programma Ibm per ridurre il flusso migratorio dalla Libia, sostenendo la cosiddetta guardia costiera libica, con equipaggiamenti e formazione. Queste risorse, come ogni altro ambito di spesa dell’Ue, sono soggette a norme basate sul principio della buona gestione finanziaria, che includono, tra le altre cose, l’obbligo di un sistema di valutazione e monitoraggio dell’impatto sui diritti umani. Il Fondo fiduciario per l’Africa prevede che tali attività siano condotte da chi riceve i fondi, ossia i partner di attuazione. Ma è un sistema che si è già dimostrato fallace. L’Italia infatti, è stata già coinvolta in diversi contenziosi per i suoi programmi in Libia in materia di diritti umani davanti a organismi nazionali e internazionali: come sostenuto dal Comitato Onu contro la tortura, la cooperazione tra Italia e Libia acuisce il rischio dell’esercizio di forme di tortura da parte delle autorità libiche. Il programma Ibm è entrato nella sua seconda fase, senza sostanziali cambiamenti. Al momento non è proposta alcuna restrizione o condizionamento nell’uso dei fondi, né tanto meno il riferimento a un eventuale sistema di valutazione e di monitoraggio stabile sull’impatto del programma sui diritti umani. Il diritto dell’UE e il diritto internazionale, come si sottolinea nell’esposto, richiedono che l’Unione e i suoi stati membri condizionino il finanziamento attraverso misure concrete e verificabili, inclusa la chiusura dei centri di detenzione libici e l’adozione e attuazione di norme che garantiscano il diritto d’asilo da parte delle autorità libiche. Nonostante siano state avanzate ripetute richieste, le istituzioni dell’Ue si sono rifiutate di fornire informazioni sui tali finanziamenti, violando, di fatto, le norme di trasparenza finanziaria. La mancanza di programmi di monitoraggio dei diritti umani, e l’uso dei fondi per lo sviluppo a supporto di programmi sulla sicurezza, così come avvenuto per quelli finanziati dal Fondo Fiduciario per l’Africa, sono prove evidenti di una deriva molto pericolosa che le istituzioni dell’Ue e gli Stati membri hanno scelto. In assenza di una volontà politica sia a livello nazionale che dell’Ue, di mettere in campo alternative giuste e praticabili, il ricorso alla magistratura contabile può essere uno strumento efficace per fermare il processo di esternalizzazione delle frontiere e di distorsione dei fondi per la cooperazione. La risposta della Corte dei Conti dell’Ue è attesa per la metà di maggio. Marocco. Il focolaio del coronavirus sta nelle prigioni di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 30 aprile 2020 Più di 300 i contagiati negli istituti di pena. Anche in Marocco l’epidemia sta diventando un’emergenza sia dal punto di vista sanitario che sociale. Ieri, Mohamed el Youbi, il direttore del dipartimento di epidemiologia e lotta contro le malattie infettive, ha ragguagliato sul numero totale dei casi che hanno raggiunto i 4.252, anche se il totale dei decessi non ha assunto proporzioni disastrose attestandosi a 165. Ma a preoccupare è la situazione che si sta verificando nelle carceri. Sono attualmente 313 le persone, tra detenuti e agenti penitenziari, che sono risultati positivi ai test. Ben 303 dei contagiati sono rinchiusi dell’istituto di Oudaya nei dintorni di Marrakech mentre altri 10 sono stati riscontrati a Ksar Kebir, nel nord- ovest del paese. Immediatamente sono scattate le misure di sicurezza per affrontare la crisi, con la consegna al personale delle carceri di dispositivi di protezione personale. Almeno secondo quanto dichiarato dalle autorità, tutte le persone positive sono state poste in regime di quarantena. La necessità di effettuare test su vasta scala era stata provocata dopo che un prigioniero a Ourzazate era stato colpito dal Covid-19 la scorsa settimana. Un fatto quasi inevitabile visto il sovraffollamento che regna negli istituti penitenziari del Marocco che contano almeno 80mila detenuti. In proporzione ci sono 232 reclusi ogni 100mila abitanti (la popolazione marocchina è di 37 milioni). Le misure di distanziamento sociale sono dunque difficilissime da attuare e se dal 19 marzo è andato in vigore un severo lockdown (8.600 marocchini sono stati arrestati e incriminati per aver trasgredito le restrizioni e i divieti di uscire di casa senza validi motivi) nelle carceri la situazione è subito apparsa grave. Per questo motivo re Mohammed VI, all’inizio di aprile, ha ordinato il rilascio di 5.654 detenuti. Negli ultimi mesi. Amnesty International ha più volte sollecitato le autorità a rilasciare senza condizioni i prigionieri che sono finiti in cella solo per aver espresso critiche o aver partecipato a manifestazioni pacifiche contrarie alla monarchia. In particolar modo si tratta di attivisti del movimento Hirak el-Rif ma anche giornalisti e blogger. Insieme a loro molti in attesa di giudizio, anziani o solo sospettati di aver commesso qualche tipo di reato. È l’Associazione marocchina per i diritti umani ad aver reso noto che alla fine del mese di marzo ben 110 persone sono state arrestate per reati di opinione. Tra questi i casi i blogger Moul El Hanout e Youssef Moujahid, condannati a 4 anni per la pubblicazione di alcuni video sulla rete. Così come Abdelali Bahmad (Ghassam Bouda), 2 anni e mezzo per il suo appoggio al movimento Hirak. Quest’ultimo poi conta ben 43 prigionieri due dei quali, Nabil Ahamjik e Nasser Zefzafi, hanno protestato con uno sciopero della fame (terminato solo il 17 marzo per le condizioni di salute fragili che li avrebbero resi preda del coronavirus) per ottenere il diritto alle visite e cure mediche decenti. Perù. Coronavirus, Keiko Fujimori chiede “misure urgenti” per impedire morti in carcere agenzianova.com, 30 aprile 2020 Keiko Fujimori, leader del partito peruviano Forza popolare (Fp) e figlia dell’ex presidente Alberto, ha chiesto al governo il varo di “misure urgenti” per salvaguardare la salute dei prigionieri a fronte dell’emergenza del nuovo coronavirus. “Per favore, la morte non si sconfigge solo con le buone intenzioni. Tutti abbiamo diritto alla vita. Chiedo alle autorità competenti di adottare misure per salvare i reclusi e gli operatori”, ha scritto Fujimori, da fine gennaio in arresto preventivo per l’accusa di corruzione. Alcune settimane fa Fujimori, due volte candidata alla presidenza, aveva chiesto la possibilità di continuare ad attendere il processo fuori dal penitenziario di Lima, per il pericolo di contrarre la Covid-19. L’unica cosa che stiamo chiedendo, ha avvertito la figlia dell’ex presidente in una lettera aperta rilanciata sui social, “è non morire nell’indifferenza. Servono i test per scartare l’infezione, urgentemente. Ci sono molti reclusi con sintomi che non hanno l’attenzione di cui avrebbero bisogno”, ha scritto Fujimori invitando al tempo stesso a vigilare le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari e di tutti coloro che prestano servizio all’interno della struttura. L’allarme coronavirus nelle carceri peruviani, paese che sconta oltre 30mila contagi e almeno 854 morti, è particolarmente sentito. Le ultime statistiche parlano di almeno 13 prigionieri morti e 613 persone infette: 113 funzionari del carcere e circa 500 detenuti. Le strategie di risposta all’emergenza sanitaria sarebbero state all’origine di una violenta protesta scatenatasi a inizio settimana nell’istituto penitenziario Castro Castro, nel distretto di San Juan de Lurigancho. Scontri che hanno al momento fatto registrare nove morti. Secondo quanto dichiarato dal direttore dell’Istituto nazionale penitenziario (Inpe) Gerson Villar, la protesta è nata per chiedere un’estensione delle categorie beneficiarie dell’indulto concesso ad alcuni detenuti a causa della pandemia del nuovo coronavirus. I detenuti reclamano inoltre una maggiore disponibilità di medicine per il trattamento del contagio. Lo scorso 22 aprile il governo del Perù ha approvato un decreto che concede l’indulto a detenuti in situazione di vulnerabilità in 68 carceri del paese, a causa dell’emergenza sanitaria legata al nuovo coronavirus. Il decreto si applica a donne che vivono in carcere con bambini di età inferiore a tre anni, donne in gravidanza, adulti di età superiore ai 60 anni che non hanno commesso un reato grave, malati e detenuti che finiscono di scontare la pena nei prossimi sei mesi. Secondo il ministro saranno interessati dalla misura circa tremila detenuti. Keiko Fujimori è indagata per presunti finanziamenti illeciti alle campagne elettorali del 2011 e del 2016, provenienti dalla compagnia di costruzioni brasiliana Odebrecht, coinvolta in un maxi scandalo di corruzione in diversi paesi dell’America latina. A gennaio le autorità giudiziarie l’hanno condannata a 15 mesi di carcere preventivo per possibile rischio di fuga. La sentenza arriva a due mesi dal rilascio della leader di opposizione, scarcerata lo scorso 29 novembre dopo 13 mesi di reclusione. A dicembre 2019 Fujimori, figura a lungo molto popolare nell’opinione pubblica locale, aveva annunciato una pausa dalla sua attività politica per preparare la sua difesa nel quadro del processo per corruzione che la vede coinvolta.