Coronavirus, emergenza carceri: è corsa all’aumento dei braccialetti elettronici di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2020 Il ministro della Giustizia Bonafede lavora a un piano per incrementare in maniera significativa il numero dei braccialetti per i detenuti ai domiciliari, rispetto ai 5mila attuali (ma 920 immediatamente disponibili). Sono 57.405 le persone detenute presenti oggi negli Istituti penitenziari, a fronte di meno di 48.000 posti regolamentari disponibili. “Ancora troppe per consentire che siano attuate le misure precauzionali indispensabili per impedire la diffusione del virus Covid-19”. È l’allarme lanciato Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, che ritiene indispensabili “nuove e incisive misure in grado di arrivare a una sensibile riduzione della popolazione detenuta”. Del resto è stato lo stesso Csm, in un parere del 26 marzo, a definire non sufficienti le misure varate dal governo con il decreto Cura Italia per ridurre il sovraffollamento carcerario e così il rischio contagio da coronavirus nelle carceri. Di più. Il Consiglio superiore della magistratura ha parlato di misure “inadeguate” a raggiungere gli obiettivi che l’esecutivo si è posto. E questo anche per “l’indisponibilità” dei braccialetti elettronici a cui è stata subordinata la concessione della detenzione domiciliare a chi deve scontare pene residue sino a 18 mesi. 920 i braccialetti disponibili - In realtà è stato ufficializzato nei giorni scorsi che sono 5 mila i braccialetti messi a disposizione per il controllo a distanza dei detenuti ai domiciliari. Ma sono 920 quelli “già disponibili” secondo quanto riferito dal Garante nazionale per i detenuti. E il provvedimento del capo del Dap e del capo della polizia che ha dato attuazione al decreto Cura Italia prevede l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana. I numeri attuali sono “ampiamente insufficienti” per affrontare l’emergenza, protesta l’associazione Antigone, facendo notare che in questo modo ci vorrebbe troppo tempo per l’uscita dalle carceri dei detenuti. “Con il numero di installazioni attualmente previste - evidenzia il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - gli ultimi detenuti usciranno dal carcere infatti tra oltre tre mesi, quando ci auguriamo la fase acuta legata al diffondersi del Covid-19 sarà già ampiamente alle spalle”. Via Arenula: piano per incrementare braccialetti - Ecco perché il ministro della Giustizia Bonafede lavora a un piano per incrementare in maniera significativa il numero dei braccialetti. Sarebbe in corso, infatti, un’interlocuzione col Commissario straordinario all’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, per provvedere all’acquisto di ulteriori braccialetti elettronici (e al relativo servizio di installazione) che andrebbero ad aggiungersi a quelli già disponibili. Nel 2017 Fastweb si è aggiudicata la gara bandita dal ministero dell’Interno per fornire e attivare braccialetti per 36 mesi. Ma si lavorerebbe a un servizio extra, con l’individuazione di un ulteriore fornitore che li possa installare. Difficile il rispetto delle distanze di sicurezza - Dopo le rivolte dei giorni scorsi nelle carceri italiane, con danni economici stimati nell’ordine di qualche milione di euro, la situazione, secondo il quadro fornito dai garanti territoriali dei detenuti, è “sostanzialmente calma”. Ma il livello di guardia e la tensione restano alti. Il Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) fa sapere che sono 116 i poliziotti penitenziari positivi al coronavirus, mentre i detenuti nella stessa condizione sono 19. Numeri che comunque non consentono di abbassare la guardia sul rischio che le carceri, dove il sovraffollamento rende difficile il rispetto delle distanze che impediscono il contagio, possano diventare una bomba epidemiologica. Lo ha ribadito Palma, affermando che anche se il numero di persone detenute attualmente risultate positive a seguito dei test è estremamente contenuto, “il problema è potenzialmente molto pericoloso, in grado di esplodere, soprattutto perché se non si realizza la possibilità di allentamento del numero delle persone detenute all’interno degli spazi esistenti, non ci potranno essere situazioni di effettiva separazione”. Braccialetti tra 4 mesi, a emergenza finita di Alessio Scandurra* Il Riformista, 2 aprile 2020 Il decreto prevede l’installazione di massimo 300 dispositivi a settimana. Invece di far presto si allungano i tempi per contrastare un disastro incombente. E i contagi aumentano. Il 22 febbraio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emanava la prima circolare contenente “Raccomandazioni organizzative per la prevenzione del contagio del coronavirus”. Da allora si sono succeduti molti provvedimenti sempre più allarmati ed incisivi, per fare fronte ad un’emergenza che si faceva sempre più pressante, fi no al primo decreto del Governo in materia, che l’8 marzo dettava “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, da un canto limitando, salvo casi eccezionali, colloqui con i familiari e permessi dei detenuti, dall’altro “raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative”. Nulla di vincolante dunque, soprattutto in chiave deflattiva, nonostante anche l’Organizzazione mondiale della sanità raccomandi di “prendere maggiormente in considerazione il ricorso a misure non detentive”. In questa direzione finalmente il 17 marzo il Governo introduce la prima misura deflattiva, una nuova forma di detenzione domiciliare, più spedita nelle procedure delle altre fino a quel momento in vigore, a cui dovrebbero poter accedere i detenuti che devono scontare meno di 18 mesi di pena. La norma prevede varie preclusioni, ad esempio per chi ha commesso reati particolarmente gravi o infrazioni disciplinari, ma soprattutto prevede che a questa misura si debba accompagnare l’uso del braccialetto elettronico, fatta eccezione per coloro che devono ancora scontare meno di 6 mesi. La domanda è scontata: ma questi braccialetti ci sono o no? Molti ne dubitavano ma abbiamo finalmente appreso, dal decreto attuativo delle norme introdotte il 17 marzo, che i braccialetti elettronici messi a disposizione saranno 5.000, di cui 920 già disponibili. Il provvedimento prevede l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana, dunque prima che siano tutti in funzione ci vorranno più di 4 mesi, decisamente troppi per un intervento che deve rispondere ad una emergenza attuale e ad un disastro incombente quale sarebbe quello del contagio di massa di detenuti e personale in carcere. Questo probabilmente spiega il misero bilancio fatto dal ministro Bonafede in Parlamento il 25 marzo. Ad una settimana circa dell’entrata in vigore del decreto le persone uscite grazie a questo erano in tutto circa 200. È evidente che il ricorso obbligatorio a braccialetti che scarseggiano non ha aiutato. E poi c’è da chiedersi, c’era davvero bisogno dei braccialetti elettronici? Da anni l’Italia ha un sistema di misure alternative efficiente e rodato. Al 15 febbraio le persone in misura alternativa erano ben 61.177, e praticamente nessuno di costoro indossava un braccialetto elettronico, riservati fi no ad oggi alle persone in misura cautelare. Eppure le misure alternative funzionano e ne viene revocata ogni anno, per la commissione di nuovi reati, una percentuale inferiore allo 0,5%. Dei braccialetti si sarebbe potuto dunque fare decisamente a meno facilitando invece l’uscita, anche a tempo, di più persone dal carcere. Il numero dei detenuti è attualmente in calo, grazie soprattutto agli sforzi della magistratura e delle direzioni degli istituti, i presenti sono ad oggi 57.405 a fronte di una capienza regolamentare di meno di 48.000 posti. Ma come è chiaro a tutti, non siamo più in una situazione regolamentare. Per gli isolamenti sanitari e le quarantene, ma anche per consentire una “distanza” adeguata tra i detenuti, è necessario scendere ben al disotto delle 48.000 presenze. In tutto questo ci ha scritto ieri un medico da un carcere del centro Italia: “nell’istituto dove lavoro continuano ad arrivare una media di 2 detenuti al giorno. Gli spazi sono già praticamente finiti per un flusso continuo e inarrestabile di nuovi giunti, spesso trasferiti da altri istituti”. Ad oggi dunque non sono state prese misure ad hoc per i detenuti più anziani o in condizioni di salute più precarie, le misure deflattive di carattere generale sono limitate e condizionate alla disponibilità di dispositivi che scarseggiano e mancano infine anche alcune banali misure di sicurezza. Ed intanto il tempo stringe ed i contagi aumentano. *Associazione Antigone Concedete i domiciliari, comunque di Giorgio Spangher Il Riformista, 2 aprile 2020 Il problema della situazione nelle carceri rimane sotto traccia e silenziato nonostante la diffusione del contagio tra i distretti e gli operatori penitenziari. A giorni il decreto numero 18 dovrà essere convertito in legge. Dovrebbe essere un’occasione per introdurre qualche aggiustamento alle previsioni in materia. Considerate le diverse valutazioni che le forze politiche e la magistratura evidenziano sul punto si tratterebbe di trovare nel sistema qualche punto di equilibrio senza alterare il sistema In sintesi si tratterebbe di: - prevedere che nel caso in cui il soggetto accetti le modalità di controllo la mancanza del braccialetto non sia di ostacolo alla concessione della detenzione domiciliare. - prevedere espressamente che la detenzione domiciliare si protragga anche dopo la fine dell’emergenza così da superare i dubbi della formulazione della norma. - prevedere l’abrogazione della previsione che affida al magistrato di sorveglianza la decisione di escludere la misura alternativa sulla base di non meglio precisate gravi ragioni. - prevedere che il soggetto in semilibertà non rientri in carcere. - prevedere il differimento dell’esecuzione delle pene detentive brevi. - prevedere l’abrogazione della previsione che sospende i termini di durata delle misure cautelari durante la sospensione delle attività processuali, ovvero in via subordinata se i termini scadono entro un arco temporale a medio termine che il soggetto sia collocato agli arresti domiciliari. - prevedere che con esclusione delle situazioni assolute o relative di pericolosità la misura cautelare in carcere sia mantenuta solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari Come si vede, si tratta di proposte che non sono destinate a scardinare l’attuale sistema ma deducibili da un possibile allargamento dei reticoli normativi attualmente esistenti considerata l’esistenza di una previsione di rilievo costituzionale che tutela la salute di ogni individuo come bene fondamentale. Il decreto del governo se ne frega dei detenuti non definitivi di David Allegranti Il Foglio, 2 aprile 2020 Non solo le misure per evitare la diffusione del contagio nelle prigioni sono insufficienti, ma non si preoccupano neanche di affrontare il problema, non esattamente secondario, dei detenuti in attesa di giudizio definitivo. La “Associazione tra gli studiosi del processo penale G.D. Pisapia” ha elaborato un documento per spiegare una cosa apparentemente molto semplice ma che l’esecutivo non pare affatto aver colto, quando ha predisposto le norme: il virus non fa distinzioni fra detenuti o operatori penitenziari, colpisce tutti. Quindi il rischio sanitario vale per chiunque, anche per “quel terzo sul totale costituito dai detenuti non definitivi”, scrive il direttivo dell’associazione presieduta dal professor Oreste Dominioni dell’Università di Milano-Statale, rispetto ai quali, invece, “non compare nel testo del provvedimento d’urgenza alcuna previsione, nonostante l’identità di condizioni, di pericoli e, quindi, di necessità di intervento, rispetto ai detenuti definitivi”. Secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i condannati non definitivi al 31 dicembre 2019 sono 9.143. Oltre dieci anni fa erano 15.165. “Il calo è essenzialmente legato alle misure introdotte a seguito della condanna Torreggiani”, dice al Foglio Giuseppe Caputo, ricercatore all’Università di Firenze. Nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per sovraffollamento, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) per trattamenti inumani o degradanti. Dieci giorni fa il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti umani o degradanti (Cpt) ha indirizzato agli Stati membri del Consiglio d’Europa alcune raccomandazioni nelle quali viene indicata come “imperativa”, specie nelle situazioni di sovraffollamento, l’adozione di tutte le misure alternative alla privazione della libertà. Le misure adottate nel decreto legge però permettono la scarcerazione soltanto di chi ha una pena residua da scontare (fino ai sei mesi o fino ai diciotto, a seconda se debbano o no portare il braccialetto elettronico). “I termini di durata massima della custodia cautelare sono il frutto, più o meno accettabile, di un bilanciamento tra il riconoscimento dell’inviolabilità della libertà personale e la necessità di far fronte alle esigenze cautelari”, scrive il direttivo dell’associazione. Pertanto, se si vuole dare una risposta alla situazione di assoluta emergenza che interessa i detenuti non definitivi al tempo del coronavirus, “dobbiamo partire dalla consapevolezza della necessità di individuare un percorso specifico, necessariamente subordinato ad un intervento del legislatore”. La soluzione, spiega Caputo al Foglio, “non può essere il ricorso agli arresti domiciliari, visto che una larga parte degli imputati si trovano in custodia preventiva in carcere proprio perché sprovvisti di un domicilio dove scontare gli arresti. I domiciliari finirebbero per risultare una misura classista, riservata ai benestanti, mentre il virus non fa alcuna distinzione di censo”. Una soluzione potrebbe essere far riaprire alcuni carceri chiusi o individuare strutture per far eseguire là eventuali misure cautelari custodiali. I problemi, insomma, non mancano. E questo perché, come osservano i giuristi dell’associazione, “nulla è stato fatto negli ultimi anni per migliorare le condizioni di vita all’interno delle nostre carceri, dove le carenze igienico-sanitarie si accompagnano sempre, nonostante le condanne della Corte di Strasburgo, ad un significativo sovraffollamento. Quindi, oggi ci troviamo impreparati a fronteggiare le situazioni di emergenza, ma anche colpevolmente in ritardo rispetto a situazioni di inadeguatezza cronicizzata del sistema della giustizia penale, in tutti i suoi momenti”. Così, la concessione della detenzione domiciliare stabilita per i condannati a pena residua non superiore ai diciotto mesi “dovrà misurarsi con una discutibile previsione sull’obbligatorietà del controllo mediante il cosiddetto braccialetto elettronico. Ma siamo sicuri della disponibilità di tale strumento? Ovviamente il problema si riproporrà, amplificato, nel caso in cui si decida di estendere la misura attenuata ai detenuti non definitivi”. Carcere: il contagio fa paura a tutti, in Europa di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 aprile 2020 Emendamenti Pd per cambiare le norme del “Cura Italia”. In Danimarca, Finlandia, Lettonia e Norvegia sospesa la custodia cautelare o rinviati gli arresti non necessari. In Francia domiciliari per pene inferiori a un anno. Ha registrato una scarsa partecipazione, fatta eccezione per Poggioreale, la “battitura dei ferri” organizzata nel Lazio e in Campania da gruppi antagonisti, ex detenuti e familiari dei detenuti per denunciare il rischio epidemia in carcere e chiedere misure energiche come l’indulto e l’amnistia. A riprova che le rivolte di inizio marzo erano tutt’altro che organizzate e manovrate. Nel frattempo però, è salito a 116 il numero degli agenti positivi al coronavirus e sono 19 i detenuti che si sono ammalati. La differenza del contagio tra i due sottotipi di popolazione penitenziaria (che grossomodo si equivalgono, essendo poco meno di 40 mila i poliziotti e 57.203 i carcerati, a ieri) sta molto probabilmente nel numero di tamponi effettuati. Di sicuro, in questo frangente la pressione psicologica sulla popolazione che vive nel carcere - dentro e fuori le celle - e sui loro cari è molto alta. Tanto che ieri l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti ha dovuto ammonire “coloro che a noi si rivolgono in modo aggregato e perentorio” e spiegare che l’autorità di vigilanza “non agisce come “sportello di pronto intervento”, né è tenuto a rendere conto circa le azioni conseguentemente intraprese e le interlocuzioni in atto con le Autorità responsabili”. Pur ribadendo necessaria la tutela della salute dei “lavoratori all’interno degli Istituti”, e la diminuzione della “densità delle persone all’interno del carcere”. A questo scopo, è evidente che le misure prese dal ministro Bonafede e contenute nel decreto “Cura Italia” non sono sufficienti. Al Senato, dove il provvedimento è in discussione per la conversione in legge, il Pd lavora ad emendamenti per correggere le norme sulla concessione della detenzione domiciliare ai carcerati che scontano un residuo di pena fino a 18 mesi, previo uso del braccialetto elettronico (indisponibili, al momento). Ma quello delle carceri che possono trasformarsi in focolai del virus è un problema che si pongono tutti, in Europa. Secondo i dati raccolti dall’Associazione internazionale delle Amministrazioni penitenziarie europee, EuroPris, molti Paesi hanno già preso misure deflattive: in Danimarca, Finlandia, Lettonia e Norvegia è sospesa la custodia cautelare in carcere e sono stati rinviati gli arresti, tranne che per estrema necessità. In Spagna e Repubblica Ceca il governo ha raccomandato questa prassi ai tribunali. In Francia le pene inferiori a un anno sono state sospese e convertite in detenzione domiciliare, salvo nei casi di violenza familiare. #IoRestoaCasa, ma detenuti trasferiti come se niente fosse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 aprile 2020 A causa del sovraffollamento, in diversi istituti penitenziari diventa sempre più difficoltoso attuare l’isolamento sanitario per 14 giorni nei confronti dei detenuti “nuovi giunti” come prevede il protocollo. Ma non solo. A tutto ciò si aggiunge un altro grande problema che rischia non solo di vanificare il lavoro di alcuni istituti dove ancora è possibile applicare il protocollo, ma anche di veicolare potenziali infettati dal virus Covid 19. Parliamo dei trasferimenti dei detenuti e agenti da un carcere all’altro. Ancora più preoccupante se tali trasferimenti provengono da quelle carceri dove si sono verificati episodi di contagio. C’è l’esempio del carcere di Sollicciano dove, per ora, i medici della Usl riescono ad attuare, passo dopo passo, il protocollo sanitario. Ma nonostante il decreto del 17 marzo i trasferimenti continuano, il rischio di vanificare tutto il lavoro si fa sempre più concreto. Una gestione, quella dei trasferimenti, che potrebbe mandare in tilt l’organizzazione interna degli istituti: diventerebbe impossibile gestire il protocollo per mancanza di spazi di manovra nello spostamento e isolamento sanitario dei contagiati con il risultato che potrebbe scoppiare un vero e proprio focolaio epidemico comunitario. Il carcere di Sollicciano rientra tra i più virtuosi per quanto riguarda l’organizzazione interna. Finora i medici riescono ad isolare i “nuovi giunti” o chi presenta sintomi. Ma sono cominciati ad arrivare nuovi detenuti da altri istituti e il sistema comincia a scricchiolare. C’è un caso emblematico. Un medico del carcere di Sollicciano, raggiunto da Il Dubbio, racconta che qualche giorno fa è giunto un detenuto dal carcere di Pisa, dove si sono verificati casi di contagio. Il recluso è stato trasferito nonostante si sia presentato con 38,5 di febbre. Teoricamente non risulta infetto perché era stato sottoposto al tampone ed è risultato negativo. Ma quindi che problema c’è? “Non vuol dire niente - spiega il medico - perché i tamponi hanno un 30% di falsi negativi. Ci sono persone in terapia intensiva con tamponi faringei negativi, ma ovviamente trattate come Covid, che magari quando gli fanno un lavaggio e aspirazione bronchiale risultano positivi”. Il medico sottolinea anche il fatto che potenzialmente possono rimanere contagiati anche gli agenti che effettuano la traduzione dei detenuti. Cosa fare? “Per prima cosa bloccare qualsiasi trasferimento!”, suggerisce senza mezzi termini il medico del carcere. Per ora a Sollicciano ancora si riesce a garantire l’isolamento sanitario, ma fino a quando se dovessero continuare a giungere i detenuti provenienti da altri Istituti? Ma questo è un problema che riguardano anche le altre carceri. I trasferimenti di detenuti e agenti che provengono soprattutto da quelle regioni maggiormente colpite dal Coronavirus, vuol dire far veicolare potenzialmente il virus da un carcere all’altro. In assenza di un intervento rapido ed efficiente, nel giro di due settimane la situazione potrebbe sfuggire di mano. Forse sarebbe il caso di prevenire prima. Dice il pm: “Ministro, scarcerali senza badare al consenso” di Davide Bigi Il Riformista, 2 aprile 2020 Albamonte, ex presidente dell’Anm a Radio Radicale. Parlando a Radio Carcere il magistrato segretario di Area critica le misure scarse e inadeguate del governo. “Serve coraggio: detenzione domiciliare senza braccialetti e ampliarla a due anni”. Eugenio Albamonte è un importante magistrato italiano. È il segretario di Area Democratica per la Giustizia. Dal 2017 al 2018 è stato presidente dell’Associazione nazionale magistrati e il suo mandato ha segnato il periodo di maggiore equilibrio e ragionevolezza per il sindacato delle toghe, più lontano dal delirio giustizialista che imperversa nella società e che lui stesso condanna, come dimostrano anche le sue parole di pochi giorni fa a Radio Radicale. Intervistato martedì scorso a “Radio Carcere” da Riccardo Arena e Rita Bernardini sulle misure adottate dal governo per prevenire la diffusione dell’epidemia nelle carceri, Albamonte non ha usato mezzi termini. Ha ricordato di aver sollecitato subito “la politica” e “in particolare il ministro della Giustizia” sul pericolo per le carceri quando il virus ha fatto la sua comparsa nel nostro Paese e si è detto preoccupato perché continua ad affermarsi “la visione del “buttiamo la chiave”“, basata “sulla vulgata che il carcere duro, il carcere crudo sia l’unico modo di difendere la società e che passa poi attraverso anche il panpenalismo a cui stiamo assistendo”, “una visione populista della giustizia penale e del carcere, dalla quale non si riesce a venir fuori neanche in momenti di drammaticità eccezionale come quelli che siamo vivendo”. Duro il giudizio sulle misure varate dal governo: “bastava un po’ più di coraggio”, ha detto, “era sufficiente fermare il proprio intervento nel semplificare le procedure per il riconoscimento della detenzione domiciliare, piuttosto che invece creare una misura nuova, che è la misura della detenzione col braccialetto, con l’ipocrisia di chi sa benissimo che i braccialetti non ci sono”. “Il ministro - ha sottolineato Albamonte intervenendo a Radio Radicale - non deve guardare il consenso, ma deve assumere una decisione coraggiosa, ovvero applicare senza braccialetti le misure di detenzione domiciliare, ampliarla eventualmente ai due anni, in modo tale da sfoltire molto rapidamente la popolazione carceraria. Se contemporaneamente si fa anche un lavoro di monitoraggio della presenza del virus, facendo tamponi individuali e censendo la popolazione dal punto di vista della positività, quello sarebbe la base di una qualsiasi operazione di messa in sicurezza”. E invece, ha proseguito il magistrato “La mia preoccupazione è che questo non si faccia perché poi non si sa come gestire il dato”, “Quando i numeri sono noti, a quel punto bisogna intervenire. Così, pur di non intervenire, non si censisce neanche la situazione. Questa è la cosa più pericolosa che in questo momento possa accadere”. Albamonte ha poi osservato come questo sia “il momento migliore per un’apertura di credito nei confronti di forme di detenzione domiciliare che mai come in questo periodo verrebbero rispettate, proprio per il contenimento sociale, c’è un controllo così capillare di chi sta in giro. Nessuno può pensare di andarsene in giro tranquillamente, ancor più a commettere reati impunemente”. Dopo aver denunciato lo scarso coraggio e l’ipocrisia delle misure messe in campo dall’esecutivo, dai microfoni di Radio Radicale l’ex presidente dell’Anm richiama a un senso di responsabilità anche le opposizioni che “stanno facendo argomento di propaganda politica, instillando nella cittadinanza il terrore che con queste misure chissà che cosa avremmo in giro per le strade, carcerati messi in libertà che saccheggeranno il Paese”. Una situazione come quella che stiamo vivendo, ha proseguito, richiede “a tutte le forze politiche, anche alle opposizioni di avere un atteggiamento ragionevole. Questo però non avviene”. “C’è un tema dunque di responsabilità collettiva: di chi non adotta le misure temendo per il consenso, ma anche di chi fa propaganda - ha denunciato Albamonte - gridando alla liberazione di chissà quali folle di pericolosissimi soggetti per le strade, a causa di quelle scarse e inadeguate misure che sono state prese dal governo”. Incivile lo Stato che li lascia morire: liberate i detenuti di Renata Polverini Il Riformista, 2 aprile 2020 Caro direttore, come milioni di italiani ho guardato l’altra sera su Rai1 Musica che unisce, spettacolo offerto da tanti artisti italiani per raccogliere fondi in favore della Protezione civile e trascorrere qualche ora lieta in un momento in cui non possiamo uscire da casa, tanto meno per assistere a un concerto o a un evento culturale. Mi è sembrata una bella iniziativa e ho pensato a quando, come Regione, organizzavamo - grazie alla straordinaria generosità di tanti artisti romani - i concerti nelle carceri del Lazio. Ricordo, in particolare, l’entusiastica partecipazione dei detenuti di Regina Coeli al concerto di Franco Califano. “Facce La Libertà”, chiedevano in continuazione al compianto Califfo centinaia di detenuti assiepati nell’androne o affacciati dietro le sbarre delle balconate, mentre lui prendeva tempo, esitava; sapeva che l’attesa avrebbe reso ancora più intensa e partecipata quella che, più di una canzone, in quel contesto rappresentava un inno, l’evocazione di un sogno agognato e proibito. Parliamo di una canzone in cui si dice, tra l’altro, che la libertà “va trattata con i guanti”, cioè con il massimo rispetto. Quel sogno però oggi è un incubo visto che i detenuti non possono permettersi quel “distanziamento sociale” che a noi - donne e uomini liberi - è imposto dalla legge. Sono rinchiusi in spazi angusti che una burocrazia imbecille pretende di considerare “a norma” conteggiando pretestuosamente i letti nel computo dei metri quadri che dovrebbero spettare a ogni carcerato per garantire una detenzione dignitosa. Una gran parte della popolazione carceraria italiana è in attesa di giudizio e quindi probabilmente innocente o comunque in attesa che lo Stato dimostri il contrario. Ma lo Stato non sembra avere fretta di farlo, neppure di fronte al rischio che l’estrema promiscuità cui sono costrette donne e uomini, colpevoli o innocenti non ha alcuna importanza, possa favorire il contagio di questo micidiale virus che sta uccidendo migliaia di persone “libere”. Alcune settimane fa in tanti istituti di pena questo timore - associato alle restrizioni alle visite dei familiari attuate dalla Amministrazione penitenziaria - ha suscitato una serie di rivolte culminate in qualcosa di mai visto prima se non nelle cronache di qualche Paese dell’America del Sud: la morte di quattordici detenuti. Ci vorranno mesi per conoscere le cause di quei decessi ma non sarebbe dovuto trascorrere nemmeno un giorno, dallo scoppio di questa emergenza, per convincere il ministro di Giustizia (sic!), in primis, e poi il Governo, le Camere e infine il Quirinale, a liberare quanti più detenuti possibile. Ci sono oltre centomila italiani, detenuti e detenenti, più le rispettive famiglie, che rischiano ogni giorno di essere contagiati e il numero di chi è stato già raggiunto dal virus, come spiegava bene sul suo giornale ieri, è già allarmante. Nel frattempo i tribunali sono chiusi, la giustizia sospesa, gli avvocati impossibilitati a fare il proprio lavoro. Sono sorpresa e amareggiata dalla insensibilità della classe politica italiana: ne ho parlato in questi giorni alla Camera con alcuni colleghi, ugualmente impegnati in questa battaglia, come l’ex ministro Orlando, e ho sottoscritto l’iniziativa degli amici radicali Sergio D’Elia e Rita Bernardini per chiedere subito amnistia e indulto. Mi conforta la battaglia quotidiana che il Suo giornale conduce in splendida solitudine per non consentire che continui il sonno della ragione che sembra aver colpito intellettuali e politici di questo Paese; un Paese che dovrebbe essere la culla del diritto ma dimentica che non si può togliere contemporaneamente la libertà, la dignità e persino la vita ai propri concittadini. Nel dibattito sulla fiducia al Conte 2 ho chiesto al presidente del Consiglio, mi sembra unica tra gli intervenuti, una attenzione speciale per i detenuti. Giuseppe Conte, nella sua replica, mi ha ricordato le (poche, per la verità) cose fatte dal Conte1 e assicurato l’impegno del nuovo Governo a “fare” qualcosa per il futuro; bene, il futuro è arrivato e non può più essere coniugato come un “futuro semplice”: è ora che diventi “futuro imperativo”. Emergenza carceri al tempo del coronavirus di Luigi Iorio* altalex.com, 2 aprile 2020 L’emergenza legata al “Covid-19” ha riportato al centro dell’agenda politica del Paese le tante difficoltà del nostro sistema penitenziario. Nelle scorse settimane, in ventisette istituti penitenziari, si sono verificati diversi casi di evasioni, aggressioni, decessi, danneggiamenti, emergenze sanitarie. Una realtà certamente accelerata dalla straordinarietà degli eventi che stiamo vivendo ma che è conseguenza di pregresse storture. Il sovraffollamento carcerario è da tempo una piaga sociale che affligge il nostro Paese, una realtà determinata dall’assenza di investimenti nell’edilizia penitenziaria, dalla mancata implementazione e attuazione delle misure alternative alla detenzione, dalla progressiva carenza di personale e dalla mancata approvazione di riforma dell’ordinamento penitenziario. Non è un caso che l’Italia sia già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Sent. Torreggiani) per le condizioni degradanti e inumane a cui sono stati sottoposti numerosi detenuti risarciti con ingenti somme di denaro pubblico. Le cifre sono semplici ed esplicative. Il numero di detenuti italiani è pari a 61.230, a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti (dati Ministero della Giustizia aggiornati 29.02.20), di questi 19.889 sono stranieri, 2072 donne, quasi un terzo in attesa di giudizio. La pandemia che ha colpito il nostro Paese ha riportato alla luce anche un’altra emergenza da sempre inevasa, quella dell’emergenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari. Secondo la “Simpse” (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria) il carcere resta un territorio di scambio di patologie e infezioni. Oltre il 70 per cento dei detenuti ha disturbi psicologici o clinico-psichiatrici; ancora molti sono i casi di soggetti sieropositivi all’Hiv o colpiti da epatite C o tubercolosi. A fronte di questo quadro sono sempre meno i medici impiegati. Secondo la Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), il rapporto medico - detenuto è pari a 1 per ogni 315 detenuti. In questo contesto, un ipotetico contagio tra la popolazione penitenziaria, in presenza di numerose criticità organizzative strutturali come la mancanza di macchinari per la terapia intensiva, causerebbe migliaia di decessi. È il motivo per il quale, in un momento storico come questo, la riduzione del numero di persone ristrette in carcere non dovrebbe essere letto come una debolezza dello Stato dopo le numerose sommosse delle passate settimane, bensì come un atto di salvaguardia della salute di tutti. Anche perché a vivere gli istituti penitenziari sono non soltanto i detenuti ma anche gli agenti di polizia penitenziaria (31.992 - dati Sappe), il personale amministrativo, gli operatori del diritto, il personale sanitario e i volontari, numeri che portano a più di 100mila unità. A seguito dell’evidente emergenza, il Governo ha introdotto alcune disposizioni nel D.L. 17 marzo 2020, n. 18. Si tratta degli articoli 123 e 124. L’art. 123, in particolare, dispone che “salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati, ai sensi della Legge n. 199/2010 e fino al 30 giugno 2020 la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso il domicilio”. L’art. 124 invece stabilisce che, “Licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà in deroga all’art. 52 ord. penit., possano durare fino al 30 giugno 2020”. Risposte apprezzabili che evidenziano l’attenzione del Governo al problema carcerario ma che al momento risultato ancora irrisorie. Gli ambienti carcerari costringono una intera popolazione a vivere in spazi angusti e a stretto contatto, ne consegue la necessità di adottare misure urgenti a carattere temporaneo per disinnescare l’emergenza. Non c’è molto tempo. Per questo occorrerebbe riportare, quanto prima, il numero della popolazione detenuta nei limiti della capienza ordinaria e in tema di esecuzione, preso atto della situazione di straordinaria emergenza, andrebbe innalzata l’applicazione del d.l. alla pena detentiva da 18 a 24 mesi, anche se residua; tanto più che si tratta di una disciplina di carattere temporaneo. Occorrerebbe poi il differimento (fino a fine emergenza) dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a quattro anni. In tal modo si limiterebbero, nell’attuale fase di emergenza, i nuovi ingressi in carcere. Ampliare l’ambito di applicazione dell’art. 124 D.L. n. 18/2020, concederebbe, inoltre, la possibilità per tutti i semiliberi e gli ammessi al lavoro all’esterno, che abbiano già dato prova di buona condotta, di permanere presso il proprio domicilio o altro luogo di assistenza. In ultimo, l’assunzione di nuovo personale medico socio-sanitario e penitenziario e il potenziamento di strumenti telematici per una maggiore comunicazione a distanza tra detenuti e familiari, potrebbero allentare le tensioni sociali che rischiano, come accaduto, di ampliarsi ulteriormente. *Avvocato Siamo più khomeinisti degli ayatollah? di Nicola Galati einaudiblog.it, 2 aprile 2020 L’Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme circa la possibile diffusione del Covid-19 nelle carceri. Le condizioni di vita nelle carceri, dove molte persone vivono ristrette in spazi limitati ed a stretto contatto per lunghi periodi di tempo, aumentano il pericolo di diffusione della malattia all’interno ed all’esterno degli istituti (essendo impensabile escludere in toto i contatti tra il carcere e l’ambiente esterno). La difficoltà di rispettare accuratamente le norme igienico-sanitarie, l’impossibilità di mantenere il distanziamento, la carenza dei dispositivi di prevenzione personale, la condivisione degli ambienti, favoriscono la diffusione e l’amplificazione della malattia. Tra la popolazione ristretta è, inoltre, alto il numero delle persone maggiormente esposte al rischio di gravi conseguenze in caso di contagio: anziani, soggetti afflitti da malattie pregresse, persone immunodepresse. Le carceri sono, pertanto, delle bombe epidemiologiche. L’emergenza è mondiale e sta portando le autorità delle Nazioni maggiormente colpite a prendere provvedimenti volti a diminuire le presenze nelle carceri, seguendo le indicazioni suggerite dall’Oms ma anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti e dal Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura. Misure in tal senso sono state adottate o sono in discussione in Iran, Francia, Spagna, U.S.A., India. In Italia la risposta del Governo è al momento tardiva ed insufficiente. La situazione degli istituti penitenziari italiani è ancor più critica in quanto segnata dal cronico sovraffollamento. Prima dell’esplosione dell’emergenza Covid-19 il numero di detenuti era pari a circa 61.000 mentre la capienza regolamentare era di circa 51.000 posti (ma i posti effettivamente disponibili erano circa 47.000); in data 30.03.20 i detenuti sono 57.590 (secondo il bollettino quotidiano del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale). Tale perdurante situazione di sovraffollamento (a cui si aggiunge la carenza di temponi e di dispositivi di protezione) aumenta notevolmente il rischio di diffusione del contagio (rendendo impossibile il rispetto del distanziamento ed ancora più difficile l’attuazione delle regole igienico-sanitarie) ed inoltre impedisce di approntare gli spazi idonei per l’isolamento dei contagiati e la quarantena delle persone entrate in contatto con i contagiati. Il Governo è intervenuto con il D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. “Cura Italia”) prevedendo, all’art. 124, licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà ed introducendo, all’art. 123, disposizioni in materia di detenzione domiciliare, in deroga a quanto stabilito dalla legge 26 novembre 2010, n. 199. In particolare, è stata prevista la possibilità di eseguire in regime di detenzione domiciliare le pene non superiori ai 18 mesi. Non possono accedere a tale misura alcune categorie di detenuti tra i quali, ad esempio, i soggetti condannati per alcune tipologie di reati (reati gravi, quali terrorismo e criminalità organizzata, ma anche maltrattamenti contro familiari e conviventi e stalking) ed i detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020. La norma prevede, tranne che per i condannati minorenni e per i condannati la cui pena da eseguire non è a superiore a sei mesi, la procedura di controllo mediante mezzi elettronici (il braccialetto elettronico). Non vi è alcun automatismo in quanto il magistrato di sorveglianza può non adottare il provvedimento qualora ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. La conclamata mancanza di braccialetti elettronici, le numerose eccezioni previste ed i tempi richiesti dalla procedura rendono di difficile applicazione la misura prevista che pertanto è inidonea a risolvere l’emergenza in atto. Critiche in tal senso sono giunte dal C.S.M., dall’A.N.M., dal Garante nazionale dei detenuti e dai Garanti territoriali, dall’Accademia (in particolare dall’Associazione Italiana Dei Professori Di Diritto Penale), dall’U.C.P.I., da numerose associazioni che si occupano di carcere. Il Ministro Bonafede ha riferito in Parlamento che le misure potrebbero riguardare 6.000 detenuti, stima ottimistica che non risolverebbe comunque il sovraffollamento. Secondo il provvedimento attuativo del D.L., i braccialetti disponibili sono al momento 920 e per arrivare ai 5.000 previsti serviranno alcuni mesi. Intanto la situazione resta grave ed il rischio di propagazione del contagio in carcere è sempre altissimo. Il Governo ed il Parlamento (ad esempio in sede di conversione del D.L.) dovrebbero ascoltare le proposte giunte da più parti (Magistratura, Avvocatura, Accademia) ed adottare misure coraggiose ed incisive per diminuire drasticamente e rapidamente la popolazione carceraria: introdurre una liberazione anticipata speciale; aumentare il limite di pena detentiva eseguibile presso il domicilio escludendo l’obbligo del braccialetto elettronico; differire l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne fino a quattro anni; ricondurre la carcerazione preventiva ad extrema ratio. Una volta superata l’emergenza sarà necessario affrontare la condizione delle carceri onde evitare il ripetersi di situazioni drammatiche. Il sovraffollamento carcerario è tristemente noto da anni (nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per i trattamenti inumani patiti dai detenuti a causa del sovraffollamento) eppure la politica ha ignorato o negato il problema. La riforma dell’ordinamento penitenziario, nata dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale, che avrebbe anche incentivato le misure alternative, è stata affossata per calcoli politici. I principi costituzionali, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 della Costituzione), e convenzionali, che vietano le pene ed i trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu), sono disattesi da tempo. Oggi i detenuti, gli agenti penitenziari, il personale e gli operatori sono esposti ad un rischio altissimo. Ciò che i cinici non considerano è che l’esplosione dei contagi in carcere aumenterebbe i contagi anche fuori da quelle mura e che il S.S.N. non sarebbe in grado di affrontare un’emergenza nell’emergenza. Lo Stato ha il dovere di garantire il diritto alla salute dei detenuti che non possono essere trattati come rifiuti della società. I detenuti sono padri, madri, figli, figlie, fratelli, sorelle, esposti ancor più di noi a questo nuovo comune pericolo. Non dimentichiamoli e non abbandoniamoli. La carezza del Papa al mondo delle carceri di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 2 aprile 2020 Mentre tutta l’Italia è agli arresti domiciliari, Dio parlerà il Venerdì Santo attraverso la voce di chi agli arresti c’è davvero: i carcerati e tutti coloro che vivono e lavorano dentro gli istituti di pena. Non è forse un segno potente questo, da cogliere, per pregare e riflettere? Per cavarne dal male un bene più grande?”. Non crede certo al caso don Marco Pozza, teologo e cappellano della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, che così spiega la grande novità della Via Crucis che papa Francesco si appresta a celebrare la notte del Venerdì Santo, annunciata il io febbraio scorso con una lettera inviata dallo stesso Pontefice al direttore de Il Mattino di Padova: la Via Crucis, quella tradizionalmente ambientata dentro il Colosseo, sarà condotta da 14 meditazioni preparate dalla parrocchia che ruota attorno all’istituto di Padova. “Tutta la parrocchia, nessuno escluso: vittime, detenuti, familiari, volontari, educatori, magistrati e agenti di Polizia penitenziaria, fino agli innocenti condannati ingiustamente”, precisa don Pozza, che assieme a Tatiana Mario, volontaria al Due Palazzi e giornalista, ha raccolto e scritto le meditazioni. “Sarà una Via Crucis “carcerata” in tutti i sensi”, spiega il prete padovano, “primo perché realizzata con l’aiuto del mondo del carcere; secondo perché non sarà più all’aperto ma “reclusa” in un luogo angusto in Vaticano, a causa delle misure anti-epidemia”. L’annuncio di Francesco cadeva in giorni difficili, drammatici per il mondo carcerario italiano, sconvolto da rivolte, violenze e morti, dopo lo stop imposto ai colloqui con i familiari dei detenuti per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Anche la tempistica, per don Pozza, non è stata casuale: “Papa Francesco ha voluto rendere pubblica la notizia proprio in quei giorni tribolati per dare un segnale di distensione, quasi inserendosi, a suo modo, nella difficile trattativa in corso. È come se avesse detto: la fatica e disperazione di voi carcerati e di voi operatori nei penitenziari è anche la mia. Vi apro le porte di casa, proviamo a parlarne perché mi state a cuore”. È come se, dentro il travaglio di quel momento, il carcere e Padova stessa fossero stati accarezzati da papa Francesco. “È così. E simbolicamente questa carezza è stata data anche a tutto il grande mondo del volontariato che quest’anno si incontra proprio a Padova, eletta Capitale europea 2020 del volontariato”, dice don Marco. Il sacerdote spiega poi come è nata questa idea singolare, ancora una volta, e spiazzante di papa Francesco: “Approfittando del bel rapporto di amicizia che intercorre tra me e il Papa, gli avevo girato, come faccio spesso, il testo di un giovane carcerato. Lo ha apprezzato a tal punto da propormi lui stesso di aiutarlo a scrivere la Via Crucis di quest’anno. In quell’istante è come se avessi sentito intorno a me il sorriso di tutto il mondo carcerario. L’ho solo aiutato a realizzare il progetto, individuando le 14 storie più significative insieme a Tatiana, con la quale ci siamo divisi le stazioni. Abbiamo consegnato i testi dei Vangeli della Passione a ciascuna delle persone che hanno accettato di raccontarsi alla luce della Parola, quindi le abbiamo raccolte sotto forma di intervista”. E ancora una volta il Pontefice ha dato, come la definisce don Marco, l’ennesima lezione di vita, “apponendovi in modo molto discreto, quasi in punta di piedi, soltanto pochissime correzioni, sostituendo in matita qualche sinonimo. Anche in questo mi è sembrato eccezionale. Ho visto veramente all’opera la Parola usata da Pietro”. Non è certo la prima volta che papa Bergoglio si piega sull’umanità sofferente delle carceri. Iniziò, all’esordio del suo pontificato, con la lavanda dei piedi nel carcere di Casal del Marmo. “Quel giorno - dice don Pozza - si è celebrato il fidanzamento tra Francesco e il carcere. Il matrimonio sarebbe avvenuto all’apertura del Giubileo della misericordia, quando trasformò la porta delle celle in Porta santa. E poi aggiungerei quella indimenticabile telefonata ricevuta domenica 6 novembre 2016, alla fine del Giubileo delle persone carcerate, in cui venivamo invitati a incontrarlo”. Questa sua particolare predilezione deriva certo da una frequentazione pluridecennale con il mondo delle carceri, fin dai tempi in cui era sacerdote in Argentina. “Ma dietro sta anche la convinzione che il centro lo capisci meglio se lo guardi dalla periferia. E cosa è una prigione se non uno dei posti più marginali della Terra, dove si danno appuntamento tutte le periferie di questa società? E, per dialogare con questo mondo, ha scelto un prete di galera come me”. Quando l’umanità è al di sopra del 41bis di Valentina Stella Il Dubbio, 2 aprile 2020 Negata a Domenico Audino la visita alla madre in fin di vita. Ci troviamo di nuovo a dovervi raccontare una vicenda che nulla sembra avere di umano e forse di legale. Una vicenda il cui epilogo è avvenuto prima che scoppiasse l’emergenza Coronavirus in carcere. È la storia del detenuto Domenico Audino a cui è stato vietato di far visita alla madre gravemente malata che nel frattempo è deceduta, senza poter salutare per l’ultima volta suo figlio. Domenico Audino è stato condannato, in concorso con altri, all’ergastolo in via definitiva nel 2012 per essere stato fiancheggiatore degli esecutori materiali dell’uccisione di Francesco Fortugno, vice-presidente del Consiglio Regionale della Calabria, avvenuta il 16 ottobre 2005. All’epoca aveva 27 anni. Oggi è rinchiuso nella sezione 41bis del carcere di L’Aquila. Ma torniamo ai fatti in oggetto. Il 13 dicembre 2019 il magistrato di Sorveglianza del capoluogo abruzzese accoglie l’istanza di permesso di necessità ex articolo 30 dell’Ordinamento Penitenziario avanzata da Audino, tramite i legali Barbara Amicarella ed Eugenio Minniti, per far visita alla madre in precarie condizioni di salute. La donna soffriva infatti di un grave tumore polmonare. Lo stesso giorno la Procura della Repubblica presso il Tribunale di L’Aquila presenta ricorso avverso tale decisione per due motivi: il detenuto aveva già fatto visita alla madre tempo prima e mancavano elementi di affidabilità fuori dal carcere, dato il suo spessore criminale. Il 7 gennaio 2020 il Tribunale di Sorveglianza rigetta il ricorso della Procura, come già in precedenza quando la stessa Procura della Repubblica si era opposta alla richiesta del detenuto di recarsi sulla tomba della nonna deceduta da poco. Lo fa con le seguenti motivazioni: la madre aveva una prognosi dall’esisto infausto a breve termine, con “recente e rilevante aggravamento”; sussistevano i requisiti di eccezionalità della concessione, specificando che “la pericolosità del soggetto non costituisce un limite normativamente previsto alla concessione del permesso di necessità”; occorre tener conto del “principio di umanizzazione della pena”. Nonostante questo, l’uomo non è stato trasferito in Calabria dalla madre ricoverata. Gli avvocati hanno fatto numerosi solleciti al Tribunale di Sorveglianza e alla Casa circondariale affinché a loro volta sollecitassero il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che pure si era opposto ma inutilmente, per eseguire l’ordinanza su esposta. Era stato prodotto a metà febbraio un ulteriore certificato medico dell’ospedale di Locri in cui si scriveva che la donna era in “imminente pericolo di vita”. Persino i carabinieri di Locri, come ci dicono i legali, qualche giorno prima del decesso avevano inviato una email al carcere rappresentando che la donna era in fin di vita. Alla fine l’uomo non ha potuto più rivedere la madre che è venuta a mancare. L’avvocato Eugenio Minniti commenta così al Dubbio: “Il Dap e la Casa circondariale non avendo dato esecuzione ai numerosi provvedimenti autorizzativi del magistrato di Sorveglianza e del Tribunale dell’Aquila hanno violato i principi della nostra Carta costituzionale; inoltre hanno commesso condotte negligenti violando la disposizione normativa di cui all’ art. 650 cp, e degli altri precetti penali che saranno ravvisati nei loro comportamenti assolutamente omissivi che difatti saranno oggetto di un nostro specifico esposto-denuncia dinanzi alle competenti Autorità Giudiziarie”. Inps e carceri. I disastri comunicativi dietro ai due collassi di Stato di Luciano Capone Il Foglio, 2 aprile 2020 Da Tridico a Basentini. Se il virus è una guerra occorre ricordarsi che dopo le Caporetto i Cadorna vengono rimossi. Alla fine la colpa è di un hacker, un altro nemico invisibile dopo il virus. Il clamoroso ko del sito dell’Inps nel giorno della partenza delle richieste del bonus da 600 euro è stato attribuito, secondo il premier Giuseppe Conte, a un “attacco hacker”. Nella versione del presidente dell’Inps Pasquale Tridico l’attacco dei pirati informatici è stato addirittura “violento”, anche se inizialmente aveva dichiarato che i problemi erano dovuti all’eccesso di traffico: “Stiamo ricevendo 100 domande al secondo, una cosa mai vista sui sistemi dell’Inps”. Cento domande al secondo non sono un numero esorbitante, un flusso da black friday, ma tanto è bastato a causare il black out dell’Inps. Pare che nei giorni scorsi i sistemi informatici dell’Inps siano stati oggetto di un attacco “denial of service distribuito” (DDoS), un’inondazione di traffico da più fonti che porta al blocco di un sito, ma che di certo non gli fa sputare dati sensibili di cittadini a caso. In ogni caso l’Inps, come tutte le organizzazioni pubbliche e private, ha il dovere di tutelare i dati delle persone anche dalle intrusioni. Il fatto è che, anche in questo caso, c’è stato un evidente errore di gestione e di comunicazione. Come è accaduto con la fuga di notizie del famigerato decreto dell’8 marzo, che ha provocato l’assalto ai supermercati e alle stazioni ferroviarie, allo stesso modo l’annuncio di un click day da parte di Tridico ha causato un assembramento ai cancelli virtuali dell’Inps che ha poi causato il collasso del sito. A nulla sono valse le precisazioni e le rassicurazioni sulla sufficienza dei fondi del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che aveva definito “assolutamente fuori luogo” il click day: ormai il timore di restare esclusi era entrato nella testa dei cittadini rimasti senza reddito, e così l’annuncio di Tridico ha causato l’affollamento che ha prodotto il crollo del fragile sistema informatico, anche perché nonostante l’errore l’Inps non è corso ai ripari con uno scaglionamento (geografico, alfabetico, per età) delle richieste. Durante una crisi la comunicazione non è un aspetto secondario ma sostanziale: un errore può causare danni enormi e spesso irreversibili. Oltre al decreto di Conte e al click day di Tridico, abbiamo visto un altro esempio fallimentare con le carceri. La pessima gestione e comunicazione dei provvedimenti da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha provocato rivolte, incidenti, evasioni e tanti morti. Anche in questo caso il capo del Dap, Francesco Basentini, che ha sempre negato l’esistenza del sovraffollamento carcerario, è rimasto al suo posto. Perché ormai con la scusa che “non è il momento delle polemiche”, chi occupa ruoli decisionali è diventato irresponsabile, proprio nel mezzo di una crisi senza precedenti in cui è necessario avvertire il peso della responsabilità. Sarà vero, come si ripete con questa continua e logora retorica bellica, che in guerra bisogna obbedire e stare vicini ai generali. Ma in guerra dopo le Caporetto i Cadorna vengono rimossi. No al processo penale virtuale. Il prossimo lo facciamo su Facebook? di Gian Domenico Caiazza camerepenali.it, 2 aprile 2020 La lettera dell’Unione al Ministro Bonafede, per chiedere che si torni nelle aule dal 15 aprile, nel rispetto delle ordinarie regole di cautela del distanziamento sociale, e che non si estendano, in sede di conversione del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, le già eccezionali disposizioni in tema di celebrazione a distanza dei procedimenti penali con gli imputati detenuti che ne facciano richiesta, ora anche ai procedimenti con imputati liberi. Non si può stravolgere il processo, violarne le regole basilari più sacre e secolari, cioè quelle della materiale presenza in aula dei giudici, dei pubblici ministeri e degli avvocati, della garanzia di segretezza delle camere di consiglio, della inviolabilità dei colloqui tra l’avvocato ed il proprio assistito. Occorre anche una riflessione seria sulla inopportunità di mantenere integra la sospensione feriale del mese di agosto, che peraltro prassi giudiziarie poco virtuose già di norma dilatano ben oltre quei trenta giorni. Il Governo receda da queste irragionevoli e gravissime prospettive di autentica illegalità processuale, che i penalisti italiani non mancherebbero di avversare, nei processi e fuori da essi, con tutta la forza della quale sono capaci. Signor Ministro, è da ieri pubblica la intenzione del Governo, con un emendamento già pronto per la conversione in legge del decreto Cura Italia, di estendere le già eccezionali disposizioni in tema di celebrazione a distanza dei procedimenti penali con gli imputati detenuti che ne facciano richiesta, ora anche ai procedimenti con imputati liberi. Come se non bastasse, si intende consentire fino alla fine di giugno una ulteriore smaterializzazione del processo che fino ad ora nessuno aveva osato neppure immaginare: potranno celebrarsi udienze nelle quali non siano presenti in aula non già più solo gli imputati (ora appunto anche liberi), ma addirittura gli avvocati, i pubblici ministeri ed i Giudici, che potrebbero dunque ascoltare ed esaminare consulenti e parti processuali da casa propria (mistero fitto, peraltro, sulla verbalizzazione della udienza). Se il Giudice è collegiale, i tre giudici (e perfino gli otto della Corte di Assise!) potranno pronunciare ordinanze o sentenze celebrando la Camera di Consiglio su piattaforme da remoto, ognuno da casa propria. Si tratta di misure destinate a stravolgere il processo ed a violarne le regole basilari più sacre e secolari, cioè quelle della materiale presenza in aula dei giudici, dei pubblici ministeri e degli avvocati, della garanzia di segretezza delle camere di consiglio, della inviolabilità dei colloqui tra l’avvocato ed il proprio assistito. I penalisti italiani hanno condiviso, in questa tragica emergenza, la eccezionale e del tutto transitoria esigenza sanitaria di distanziare senza eccezioni imputati detenuti ed arrestati dall’aula; ma che ora si preveda fino al 30 giugno prossimo, in una fase che è addirittura di superamento del picco epidemiologico, di allontanare da essa anche giudici, pubblici ministeri ed avvocati, ed i giudici di un collegio tra di loro, pare a noi una assurdità semplicemente inspiegabile. Per quale ragione, d’altronde, si pretende da centinaia di migliaia di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio di continuare a fare il proprio dovere sui propri luoghi di lavoro nel rispetto delle ordinarie regole di cautela del distanziamento sociale, mentre d’improvviso si reputa inaccettabile, a partire dal 15 aprile e fino al 30 giugno, che almeno giudici, pubblici ministeri ed avvocati, ove possibile e necessario con le altri parti a distanza, celebrino processi in aule comunque chiuse al pubblico ed ampiamente in grado di assicurare distanze interpersonali che si sa bene essere ovunque nelle aule ben superiori al metro? Sia ben chiaro, Signor Ministro: noi da subito abbiamo chiesto che le attività processuali ordinarie riprendessero quanto prima, già dopo il 15 aprile, sempre compatibilmente con le regole di cautela sanitaria valide per tutta la popolazione. Anzi, abbiamo pubblicamente denunciato le decisioni adottate da diversi uffici giudiziari di rinviare, senza alcun motivo plausibile, la celebrazione ordinaria dei processi di molti mesi oltre i termini indicati dalla normazione emergenziale, auspicando - e lo ribadiamo a Lei anche adesso- interventi volti a far revocare tali improvvide iniziative; e ci chiediamo anche se non sia indispensabile sin da ora aprire una riflessione seria sulla inopportunità di mantenere integra la sospensione feriale del mese di agosto, che peraltro prassi giudiziarie poco virtuose già di norma dilatano ben oltre quei trenta giorni. Ma questa esigenza di riavviare in modo deciso l’attività giudiziaria ordinaria, che sosteniamo con la massima determinazione, non ha nulla a che fare con questa insensata ed ingiustificabile devastazione delle più intangibile condizione di legalità del processo penale: il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato in aula. Distanziati quanto necessario, con guanti e mascherine ove davvero necessario, ma in aula; se non vogliamo che il virus finisca per annoverare tra le sue già numerose vittime, anche quel che resta dello Stato di diritto nel nostro Paese. La invitiamo, Signor Ministro, a prestare il massimo ascolto a questa nostra richiesta perché il Governo receda da queste irragionevoli e gravissime prospettive di autentica illegalità processuale, che i penalisti italiani non mancherebbero di avversare, nei processi e fuori da essi, con tutta la forza della quale sono capaci. Con viva cordialità. In Cassazione impossibile il deposito telematico degli atti di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2020 Al momento non si può effettuare il deposito telematico degli atti presso la Suprema corte anche se un emendamento al Dl Cura Italia potrebbe introdurre tale possibilità almeno fino al 30 giugno. È quanto emerge dalla relazione 28/20 del Massimario della Cassazione che interviene sulle modifiche temporanee al processo in Cassazione a seguito del Dl 18/20. Il documento ribadisce che, con eccezione dei soli atti relativi ai procedimenti non sospesi (minori, obbligazioni alimentari, cautelari sulla tutela di diritti fondamentali della persona e così via), i depositi di ricorsi, controricorsi e memorie, presso la Corte sono sospesi fino al 15 aprile. La relazione ricorda che gli avvocati possono trasmettere ricorso e controricorso mediante piego raccomandato indirizzato al cancelliere della Corte: ai fini della tempestività assume rilievo solo la data di consegna del plico all’ufficio postale e non quella di ricezione. Tuttavia tale facoltà è controversa per il deposito delle memorie finali non mancando pronunce di legittimità (ancorché in contrasto con altre) che hanno ritenuto inammissibili le memorie finali depositate a mezzo post. Il Massimario ricorda che l’eventuale approvazione dell’emendamento consentirà almeno fino al 30 giugno 2020 ai difensori delle parti, una volta adottato il provvedimento della competente direzione del ministero della Giustizia, di depositare atti e documenti (ricorso, controricorso e memorie difensive), in via telematica (rispettando le regole del Dm 44/11). Tuttavia sorgono perplessità sulla possibilità, presso la Corte, di dare attuazione alla vigente previsione del Dl secondo cui il capo dell’Ufficio può autorizzare lo scambio e il deposito telematico di note scritte. Nonostante, infatti, il primo presidente abbia già disposto, sia nel settore penale, sia in quello civile, un’autorizzazione in tal senso, è stata fatta riserva di comunicare le concrete modalità tecniche del deposito. La relazione fa notare che se si ammetterà la trasmissione della copia informatica del documento redatto dal difensore in formato cartaceo, una volta stampato l’atto allegato alla Pec, si avrà una mera copia fotostatica e non l’originale (che resterà nelle mani del difensore). Al contrario, consentendo la trasmissione di un atto informatico cosiddetto “nativo digitale”, firmato digitalmente dal difensore, la Cassazione, allo stato, non possiede un registro informatico per il deposito, la conservazione e la consultazione dei documenti nativi digitali e pertanto non sarà possibile assicurarne la conservazione nei registri di cancelleria. Inoltre, i registri informatici in uso alla Cassazione, non permettono di verificare se un qualsiasi atto telematico risulti, o meno, firmato digitalmente. Così ogni eventuale contestazione sollevata dalle parti, sostanzialmente, non è suscettibile di tempestiva verifica da parte del collegio chiamato a decidere. Antiriciclaggio, record di Sos nel 2019. Bene banche e poste, tra i professionisti segnalano solo i notai di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2020 Record storico per le segnalazioni antiriciclaggio e di finanziamento al antiterrorismo internazionale. Il rapporto annuale dell’Unità di informazione finanziaria segna il ritorno sopra quota 100mila (soglia superata solo una volta nel 2016, all’indomani dell’operazione di rientro dei capitali voluntary disclosure) con un’ulteriore crescita nel secondo semestre a 54.521 Sos (+12,2%). Nel 2019 sono state registrate in totale 105.789 segnalazioni, con un aumento del 7,9 per cento rispetto al 2018. L’incremento è dovuto soprattutto all’opera in crescita degli istituti di moneta elettronica (8,7% delle segnalazioni totali), oltre al contributo numericamente e storicamente preponderante di banche e Poste italiane (64,5%) mentre, con l’eccezione dei notai (4,4%), resta ancora marginale l’apporto dei liberi professionisti (0,3% il contributo dei commercialisti, statisticamente irrilevante quello degli avvocati). Stabili le segnalazioni dei prestatori dei servizi di gioco (6,1%). Ancora in calo invece le segnalazioni relative al finanziamento del terrorismo con una ulteriore riduzione (375 rispetto alle 409 del secondo semestre dell’anno precedente, che gia? evidenziava un calo rispetto allo stesso periodo del 2017). L’analisi territoriale sottolinea il nuovo incremento delle segnalazioni relative alla Lombardia (da 9.288 del secondo semestre 2018 a 10.954), al Lazio (da 4.697 a 5.662), alla Sicilia (da 2.898 a 3.765) e all’Emilia-Romagna (da 3.325 a 3.910), mentre registrano una contenuta diminuzione le segnalazioni relative alla Toscana (da 3.613 a 3.540). Nel periodo considerato l’Unità di informazione finanziaria ha trasmesso agli Organi investigativi (prevalentemente Gdf) 55.328 segnalazioni, con una ulteriore riduzione delle giacenze, portate ai minimi storici. Nello stesso arco di tempo sono stati adottati 21 provvedimenti di sospensione di operazioni sospette per un valore di complessivi 8,2 milioni di euro. Tornando alle categorie professionali, il Notariato continua a dimostrarsi al fianco delle istituzioni nella lotta ai fenomeni di riciclaggio e finanziamento al terrorismo. I dati sono in crescita rispetto al 2018 (+6,6%) con 4630 segnalazioni sospette inviate nel 2019, arrivando a coprire il 91,25% del totale delle segnalazioni inviate dalle professioni ed il 4,4% del totale delle segnalazioni. Il valore delle segnalazioni trasmesse dal notariato è di oltre 1,7 miliardi di euro, a dimostrazione che la lotta al riciclaggio di denaro sporco costituisce uno degli ostacoli più duri per lo sviluppo dell’economia italiana. Quattro quinti delle segnalazioni dei professionisti derivano tra l’altro da comportamenti sospetti del cliente. Non è diffamatorio l’uso di una foto chiaramente scollegata dal contenuto dell’articolo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 1° aprile 2020 n. 10967. Non scatta la diffamazione a mezzo stampa per l’accostamento della foto di un professionista a una notizia che non lo riguarda, se dal combinato di titolo, didascalia e contenuto del pezzo si evince chiaramente la sua estraneità alla vicenda raccontata dal giornalista. Così la Corte di cassazione penale, con la sentenza 10967 di ieri, ha accolto il ricorso dell’ex direttore de “La Repubblica” che era stato condannato nel 2017 per l’omessa vigilanza su un pezzo di una giornalista del quotidiano corredato di foto. Il fatto - L’articolo incriminato riportava la notizia della condanna di un medico, a fronte della posizione dell’Ordine di appartenenza, per la diffusa cattiva prassi di rilasciare diagnosi e certificati medici in base a consultazioni solo telefoniche con il proprio assistito. Il pezzo veniva corredato con foto che ritraeva un professionista intento a osservare la lastra radiografica di un paziente senza citarlo per nome e cognome e, anzi, vi veniva accostata una didascalia che riferiva della reazione dell’ordine professionale contro la diffusa prassi di certificare stati morbosi in assenza di visita diretta del richiedente la certificazione. Il medico ritratto nella foto era stato avvisato della circostanza da un suo paziente che lo aveva riconosciuto. Da qui la querela per diffamazione contro giornalista e direttore. Tribunale e Corte di appello hanno confermato la responsabilità penale fondandosi sul concetto di lettore medio assimilato però a quello di “lettore frettoloso”, che cioè scorre solo titoli e immagini del giornale che consulta, con la conseguenza di essere indotto a ritenere conferente l’elemento visivo con la titolazione degli articoli. Accostamento che, però, in tale circostanza la Cassazione considera incongruo in quanto l’articolo non era “sparato” in prima pagina determinando già un’attenzione superiore al concetto di fretta, in chi sfoglia anche l’interno di un quotidiano. L’assoluzione - Per la Cassazione, al contrario, in questa vicenda emergono diversi aspetti che conducono a scriminare il comportamento giornalistico e, in primis, l’aspetto della contestualizzazione di ogni singolo elemento che compone un servizio giornalistico. Infatti, in tale vicenda nulla porta a far ritenere che il medico nella foto fosse quello oggetto di condanna e di reprimenda professionale, a maggior ragione dal contrasto tra un titolo che parla di diagnosi al telefono e l’immagine di un medico che osserva con scrupolo l’esame diagnostico di un paziente. Tra gli altri fattori scriminanti la Cassazione indica: la mancanza di notorietà dello specifico professionista, che poteva quindi essere riconosciuto solo dalla ristretta cerchia dei propri conoscenti e pazienti, persone cioè dotate di conoscenza diretta della persona. E che se mossi a curiosità dall’immagine del medico riconosciuto avrebbero letto che la vicenda riportata non lo riguardava affatto. L’alt della Cassazione - I giudici di legittimità bacchettano però - anche se solo come negligenza scusabile - il comportamento del giornalista che accosta, come nel caso specifico, una foto tratta dall’archivio del proprio giornale, a un articolo diverso e successivo a quello per cui la persona ritratta aveva rilasciato il consenso all’uso. L’acquisizione di un’immagine col consenso dell’interessato non costituisce una liberatoria sine die al suo utilizzo a mezzo stampa. Correo responsabile solo se consapevole di agevolare la commissione di un reato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 1° aprile 2020 n. 11039. L’accertamento della responsabilità penale del correo a titolo di concorso di persone nel reato altrui non può prescindere dalla prova della consapevolezza di agevolare con la propria condotta, la commissione non già di una generica attività (potenzialmente) illecita, bensì la realizzazione di un reato specificamente individuato nei suoi elementi costitutivi. Questo il primo principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 11039/20. Il secondo tema affrontato dai Supremi giudici riguarda la tematica di prescrizione del reato nel caso di concomitante presenza di due fatti legittimanti il rinvio del dibattimento, l’uno riferibile all’imputato o al difensore, l’altro ad esigenze di acquisizione della prova: la predeterminante valenza di quest’ultima preclude l’operatività del disposto dell’articolo 159 cp e la conseguente sospensione nel corso della prescrizione. Il Collegio espone il seguente il seguente principio di diritto: “Il differimento del processo per disporre la rinnovazione della citazione dell’imputato per mancato rispetto del termine a comparire va necessariamente ascritto all’esigenza, prioritaria e assorbente, di garantire la regolarità del contraddittorio, esigenza che il giudice è tenuto ad assicurare ben potendovi provvedere anche d’ufficio e alla quale la concomitante istanza…Ne consegue che il rinvio del dibattimento per tale prioritaria causa non determina per tutto il tempo del differimento, la sospensione del termine di prescrizione del reato”. Toscana. Accordo Regione-Prap: test sierologico al personale degli istituti di Marco Belli gnewsonline.it, 2 aprile 2020 Nessun contagiato, a oggi, fra i 3.473 detenuti nelle carceri della Toscana. Per questo, al fine di rafforzare la prevenzione di possibili infezioni, tutto il personale amministrativo e quello di Polizia Penitenziaria in servizio negli istituti penitenziari della regione sarà sottoposto a test sierologico. La decisione è stata presa dalla Regione Toscana che ha accolto una richiesta avanzata dal Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana-Umbria, Gianfranco De Gesu. Proprio ieri, per fare il punto sull’emergenza sanitaria in relazione al sistema penitenziario, si era svolto in tal senso un incontro fra l’assessore al diritto alla salute Stefania Saccardi, il capo di Gabinetto della Regione Ledo Gori, il provveditore De Gesu e il direttore dell’Ufficio detenuti e Trattamento del Prap toscano Angela Venezia. “Sin dal 22 febbraio abbiamo condiviso con la sanità regionale le misure sin qui adottate per preservare dal contagio le comunità penitenziarie della Toscana. I risultati ottenuti ci incoraggiano a seguire il percorso intrapreso nel cui solco si pongono le scelte frutto dell’incontro”, ha affermato De Gesu. Al quale ha fatto eco l’assessore Saccardi: “Stiamo lavorando a stretto contatto con l’Amministrazione penitenziaria da quando l’emergenza Coronavirus è cominciata proprio per cercare di puntare sulla prevenzione piuttosto che sulla cura”. Nel corso dell’incontro è stata fatta inoltre una valutazione anche in ordine alle linee guida emerse dalla task force sul carcere e, anche in relazione ai numeri attuali, ne è stata riconfermata la validità e la sufficienza. Il gruppo di lavoro ha infine concordato di tenersi costantemente aggiornato, per adottare ogni misura che si rendesse eventualmente necessaria. Sicilia. Il Garante Fiandaca: “Interventi adottati finora non bastano” Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2020 “Per evitare il contagio è necessario ridurre la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare”. Qualche giorno fa insieme a tutti i Garanti dei detenuti italiani nominati a livello locale, regionale e nazionale, ha firmato una lettera-appello al Presidente della Repubblica, quale garante supremo dei valori costituzionali, e al Governo affinché approvi misure per evitare al massimo il rischio di contagio da Coronavirus all’interno delle carceri, eliminando le situazioni di pericolo e sovraffollamento. “Se si guardano solo i numeri generali - dice Fiandaca - la situazione delle carceri siciliane può sembrare migliore di altre regioni perché sulla carta, secondo un report aggiornato al 25 marzo, risultano 123 posti liberi. La realtà - prosegue- è profondamente diversa perché questo numero non tiene conto della disomogeneità tra i vari istituti, delle reali condizioni di vita all’interno degli stessi, e soprattutto del fatto che ci troviamo in presenza di una pandemia e che i criteri di valutazione degli spazi, così come per il resto della popolazione, non possono essere gli stessi di un momento ordinario”. Per Fiandaca occorre dunque adottare “misure legislative molto più incisive e di pressoché automatica applicazione, in grado di portare nel giro di pochi giorni la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare e fissare per gli over 65 infermi e per i detenuti affetti da gravi patologie puntualmente documentate criteri legislativi per eliminare, o comunque ridurre, la discrezionalità giudiziale rispetto all’assegnazione delle misure extracarcerarie”. Entrando nel dettaglio della ricerca fatta dal Garante dei detenuti e aggiornata al 25 marzo, la situazione sull’Isola si presenta a macchia di leopardo con istituti di pena dove ci sono ancora posti disponibili e altri, sovraffollati a cominciare da Catania, la provincia con il maggior numero di contagiati da Covid 19, dove a ad aver già superato la capienza regolamentare sono entrambi gli istituti penitenziari: al carcere Bicocca sono reclusi in 196 a fronte di una capienza regolamentare di 138 posti, mentre all’istituto penitenziario Piazza Lanza, vivono in 299 a fronte di una capienza di 279. Sovraffollate, nell’ambito delle città metropolitane, anche le celle del Pagliarelli a Palermo: 1356 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1182. “Il fatto da tenere in considerazione - insiste Fiandaca - è che la cosiddetta capienza regolamentare non considera una situazione di pandemia in corso, né lo stato aggiornato delle strutture”. Secondo quanto emerge dai dati, le condizioni di sovraffollamento interessano anche: il carcere di Agrigento (374 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 283), Augusta (481 detenuti a fronte di 360 posti), Caltanissetta (216 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 180), Enna (191 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 171), Gela (57 detenuti a fronte dei 48 posti regolamentari), Piazza Armerina (63 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49), Siracusa (567 a fronte di una capienza regolamentare di 526), Termini Imerese (101 detenuti rispetto ai 92 previsti sulla carta). Complessivamente nelle carceri si contano (dati al 25 marzo 2020) 6343 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6466 posti. Campania. Il Garante Ciambriello: “Per le carceri serve uno scatto di dignità costituzionale” di Giusy Santella mardeisargassi.it, 2 aprile 2020 L’emergenza legata al coronavirus continua e con essa la preoccupazione della popolazione penitenziaria che è ben consapevole delle conseguenze di un’eventuale diffusione della pandemia negli istituti sovraffollati e spesso fatiscenti. A tal proposito, abbiamo intervistato il Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello, che ci ha offerto una chiara fotografia della situazione nelle carceri locali e delle modalità di gestione di questa delicata fase, oltre che il suo punto di vista in merito alle misure da mettere in campo per scongiurare la trasformazione dei penitenziari in veri e propri lazzaretti. Qual è, attualmente, la situazione delle carceri? Che aria si respira tra la popolazione penitenziaria? “Comincerei da un dato nazionale: in tutta Italia abbiamo 116 agenti penitenziari positivi e 19 reclusi affetti da Covid-19, di cui 16 in Lombardia. Di questi, 13 sono in isolamento in carcere e 3 in ospedale. In Campania, non abbiamo detenuti contagiati, ci sono stati solo un medico e un infermiere extra mura risultati positivi. Tuttavia, quanti all’interno dell’istituto hanno avuto contatti con loro sono stati sottoposti al tampone, per fortuna con esiti negativi. È risultato positivo, invece, un agente penitenziario della provincia di Caserta che era in licenza a casa, ma è guarito ed è tornato al Nord in servizio. Questi sono gli unici dati veri; ho dovuto richiamare qualcuno di testate giornalistiche piccole ma anche grandi (come il Mattino) per aver diffuso notizie false che procurano allarme. Nei nostri istituti campani, ci sono 7.279 persone, 7400 invece nell’area penale esterna. 225 detenuti che erano semiliberi, cioè lavoravano di giorno e rientravano di sera nelle carceri di Secondigliano, di Santa Maria Capua Vetere, di Salerno e Benevento, adesso possono restare a casa fino al 30 giugno”. Cosa ci può dire in merito al decreto varato dal governo lo scorso 17 marzo? “Il decreto varato a livello ministeriale è stato indirizzato ai detenuti che devono scontare 1 anno e 6 mesi di carcere, ma la maggior parte di loro può uscire in detenzione domiciliare solo con i braccialetti elettronici. Una piccola parte, invece, i detenuti a cui mancano 6 mesi da scontare, può farlo senza braccialetto. Noi come Garanti di tutta Italia abbiamo detto che questo provvedimento è insufficiente, che non tiene conto dell’eccezionalità della situazione. Se siamo in un’emergenza, il diritto alla salute e alla vita valgono per tutti, prescindendo dal tipo di reato. Ci sono delle restrizioni, ad esempio per i delinquenti abituali, ma come si fa a individuare un delinquente abituale se si trova in carcere? Ci sono, poi, limitazioni per chi ha ricevuto un rapporto disciplinare all’interno delle istituzioni, ma basta aver alzato la voce o aver fatto per una cosa piccola e insignificante per averne uno. E poi per chi è condannato per un reato ostativo. Anche in questo caso, se la mia pena è di 10 anni ma sto scontando gli ultimi 6 mesi, perché non posso usufruire del beneficio? Sembra trattarsi di uno Stato vendicativo, che mi obbliga a stare fino all’ultimo minuto in carcere”. Rispetto a questo, qual è la posizione dei Garanti territoriali e regionali? “Noi Garanti territoriali e regionali abbiamo preso coscienza della situazione e abbiamo rivolto un appello al Presidente della Repubblica, ai deputati e senatori affinché in fase di conversione il decreto Cura Italia venga perfezionato. In questo modo, potrebbero uscire dalle carceri almeno 8/10mila persone. Attualmente, in tutta Italia ci sono 59mila detenuti: arrivare a quota 50mila significa raggiungere la capienza regolamentare. È necessario uno scatto di dignità costituzionale da parte dei parlamentari, che in questo momento mi sembrano pavidi. La politica, nel nostro Paese, pare congelata, eppure ci sono state pronunce in questo senso del Consiglio Superiore della Magistratura, dell’Associazione Nazionale Magistrati, dell’Unione delle Camere Penali, dell’Associazione dei Docenti di Diritto Penale. Bisogna andare verso ulteriori misure di rapida applicazione che portino la popolazione detenuta al di sotto della capienza regolamentare: come accennavo, i posti regolarmente disponibili sono solo 48mila”. La magistratura di sorveglianza riveste un ruolo fondamentale nell’applicazione del decreto. Cosa vorrebbe chiedere ai giudici? “Rispetto alla magistratura di sorveglianza, essa ha sempre un ruolo importante poiché è deputata a mettere in campo, una volta scontato un periodo di pena, misure alternative alla detenzione come la semilibertà o l’affidamento in prova. Ma ha un ruolo ancora più importante nell’applicazione di quest’ultimo decreto governativo, che ripete ciò che era già previsto dalla Legge Alfano (Ministro della Giustizia del 2010 per un governo Forza Italia-Lega) e ne riporta le misure in altra veste fino al 30 giugno. La politica in questo momento è pavida, cinica, bada ai sondaggi e al consenso in una società in cui si afferma meno Stato, più galera. Diversamente, dovremmo valorizzare le buone prassi del sistema costituzionale, non del buonismo e della misericordia cattolica che non c’entrano niente. In Italia, c’è ancora il modello della rieducazione e della risocializzazione e si realizza nelle misure alternative al carcere, dunque mi auguro che i magistrati di sorveglianza abbiano più coraggio e intervengano con tempestività e determinazione. Dovranno farlo proprio loro poiché in questi giorni non hanno molto personale amministrativo e di cancelleria a disposizione. Li vedo come i cavalieri dell’utopia: non devono farlo solo per vocazione, ma perché è un momento particolare”. I colloqui e i contatti con l’esterno risultano ancora sospesi. Quali sono state le misure messe in campo per ovviare all’impossibilità dei detenuti di incontrare i propri cari? “194 dei 1600 cellulari che il Ministero ha distribuito sono arrivati nella nostra regione e in questo momento tutti i detenuti, oltre alla telefonata ordinaria, possono fare 2 videochiamate di 15 minuti ciascuna in sostituzione del colloquio settimanale. Per i detenuti dell’alta sicurezza sono state implementate anche le chiamate ordinarie che prima erano 2 in un mese, mentre ora se ne può fare 1 a settimana. Questi provvedimenti sono molto importanti, le videochiamate sono gratis, mentre le chiamate ordinarie, così come era previsto, restano a carico dei reclusi. Inoltre, mi sono reso conto che l’amministrazione penitenziaria aveva stabilito che, data la sospensione della ricezione dei pacchi, i detenuti avrebbero potuto utilizzare gratuitamente le lavanderie, ma in realtà non tutte le 15 carceri campane ne hanno una e talvolta, là dove è possibile trovarle, sono insufficienti. Quindi, d’intesa con l’Assessore alle Politiche Sociali Fortini, che subito mi ha autorizzato, ho utilizzato una risorsa cospicua per acquistare 25 lavatrici da consegnare alle carceri campane scelte dal provveditorato della Regione Campania in base alla necessità. Nei prossimi giorni, ne arriveranno 6 nel carcere di Ariano Irpino, 5 nel carcere di Secondigliano, 2 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, 1 all’estrema punta delle carceri campane, nel Vallo della Lucania, 1 nell’istituto minorile di Airola, 1 nell’istituto minorile di Nisida e le altre a Benevento e Avellino. Si tratta di piccoli gesti dal valore non quantificabile. Non si può scrivere che il detenuto, non facendo colloqui e non ricevendo pacchi, può usufruire della lavanderia se questa non c’è, basti pensare che una grande lavanderia si trova solo nella Casa Circondariale di Poggioreale. Si crea un’inquietudine nel detenuto e nelle famiglie. Ho ritenuto di fare questo gesto sentendomi un agente di prossimità negli istituti e sapendo che questo, come tutte le altre cose, aiutano a mantenere un giusto equilibrio e una giusta serenità”. Prima di salutarci, cosa vuole dirci rispetto a ciò che ha raccontato? “Questa è la fotografia della situazione attuale dovendo però ammettere, per onestà intellettuale, che siamo sul filo del rasoio. Le carceri stanno scoppiando e quello dei Garanti è un SOS alla politica, al Presidente Mattarella. Non so se il nostro accorato appello riceverà risposte, ma vorrei che la politica comprendesse che stiamo per scoppiare. Se non si riduce il numero delle persone negli istituti penitenziari, qualsiasi emergenza sarà ingestibile. È chiaro che sono state predisposte le tende per i nuovi arrivi e che ogni carcere ha predisposto per eventuali sospetti o casi acclarati spazi idonei e celle singole con relativi servizi igienici ma se nelle grandi carceri, dove i detenuti sono anche in 10 nelle celle, scoppiasse l’emergenza, sarebbe impossibile da fronteggiare. Approfitto di questa conversazione per ringraziare i direttori sanitari, i medici, gli infermieri di tutti gli istituti penitenziari, ma anche le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, i direttori delle carceri, l’area educativa, poiché sono loro adesso che, oltre a stare vicino ai detenuti, devono aiutarli a predisporre le varie richieste da presentare ai magistrati di sorveglianza. Dunque, a queste persone va il mio ringraziamento”. Campania. Coronavirus e carceri, positivi agenti penitenziari a Secondigliano e Carinola Il Mattino, 2 aprile 2020 Il coronavirus è entrato in carcere. Sono almeno due i casi di contagio da Covid 19 segnalati in due penitenziari della Campania: quello di Secondigliano e quello di Carinola, tanto da sollevare una immediata richiesta di chiarimento da parte di organi sindacali di agenti di polizia penitenziaria. Chiedono l’immediata attivazione di misure di prevenzione e tutela, a garanzia degli agenti che in quest’ultimo mese hanno svolto un ruolo decisivo nel mantenere un clima di equilibrio all’interno delle due case circondariali. A chiedere garanzie in materia di sanificazione, i vertici di Osap, Sinapp, Uilpa, Fns Cisl, Uspp, che scrivono. “È del tutto evidente che l’esplosione del contagio tra le mura carcerarie rischia di trasformarsi in una onda di piena i cui effetti saranno difficilmente arginabili. Per questi motivi, oltre a ribadire una maggiore attenzione nella distribuzione quotidiana dei dispositivi di protezione individuale per il personale di Polizia penitenziaria, che al momento risultano ancora carenti, chiediamo che ci siano esiti scientifici, specie con l’adozione di tamponi”. Insomma, c’è richiesta di maggiori controlli, specie in una realtà di frontiera dove il contatto gomito a gomito tra colleghi e utenti è quasi inevitabile. Una realtà che ora attende risposte a stretto giro per evitare altri contagi. Piemonte. Coronavirus e carceri, il Pd chiede di combattere il sovraffollamento torinoggi.it, 2 aprile 2020 Furia e Miravalle: “Bisogna tutelare i detenuti, ma anche gli operatori”. “C’è un’emergenza nell’emergenza: le condizioni sanitarie degli istituti penitenziari italiani e piemontesi. È concreto il rischio di un’accelerazione del contagio tra la popolazione detenuta e gli operatori penitenziari (poliziotti penitenziari, educatori, direttori). A livello nazionale sono già risultati positivi 19 detenuti e oltre cento poliziotti penitenziari, ma si tratta di numeri destinati purtroppo a salire, anzitutto a causa del sovraffollamento. Prima dell’inizio dell’emergenza, erano ristrette in Piemonte 4.553 persone a fronte di una capienza regolamentare di 3.971 posti. In percentuale significa che in Piemonte il sovraffollamento è del 115% (con picchi, del 150% nel carcere di Alessandria e del 135% a Torino). A livello nazionale erano presenti oltre 61 mila persone a fronte di una capienza di circa 50mila posti. Solo con la riduzione del sovraffollamento è possibile far rispettare, anche in carcere, le norme igieniche prescritte dalle autorità sanitarie e garantire eventuali periodi di isolamento sanitario per le persone positive”. Così Paolo Furia, segretario regionale PD Piemonte e Michele Miravalle, responsabile giustizia della segreteria regionale Pd Piemonte. “Per riportare il numero di detenuti sotto la soglia regolamentare, serve un deciso intervento normativo di deflazione della popolazione penitenziaria che garantisca il fondamentale diritto alla salute di detenuti e lavoratori. Le misure previste dal decreto Cura-Italia sono un primo passo, ma ancora insufficiente. Per questo, il Partito Democratico, in linea con quanto richiesto dai Garanti dei diritti dei detenuti e dai sindacati di polizia, ha depositato in Senato una serie di emendamenti, firmati anche dalla senatrice Anna Rossomando in accordo con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, per allargare la platea di coloro che potrebbero accedere alle misure alternative”, aggiungono i due esponenti Dem, che però chiariscono: “Nessun indulto mascherato, ma la semplice applicazione dei diritti previsti dalla Costituzione. I detenuti che escono dl carcere continuano infatti a scontare la loro pena in detenzione domiciliare. Rimango esclusi da queste misure coloro che sono stati condannati per reati di particolare allarme sociale, come i reati di mafia e i reati sessuali”. “Chi è contrario a queste misure mette a rischio anzitutto la vita di chi in carcere ci lavora. Di fronte a emergenze sanitarie, non è il tempo di proclami giustizialisti”. Abruzzo. Nelle carceri abruzzesi non c’è ancora traccia delle mascherine annunciate giorni fa emmelle.it, 2 aprile 2020 Dopo le sommosse e le promesse del Ministro Bonafede, per i sindacati di Polizia penitenziaria nulla è cambiato. Delle mascherine non c’è ancora traccia nelle carceri abruzzesi. Dopo le sommosse all’inizio del lock-down e le dichiarazioni del Ministro Bonafede e del Capo Dap Basentini, per i sindacati abruzzesi della Polizia Penitenziaria i calcoli non tornano: ecco perché chiedono conto ai vertici del Dap sulla mancata consegna dei dispositivi di protezione individuale agli istituti penitenziari abruzzesi, attraverso una lettera di cui pubblichiamo un estratto: “In realtà, nella stragrande maggioranza degli istituti Abruzzesi manca una dotazione adeguata di mascherine, e quelle poche che sono state fornite vengono utilizzate come se fossero eterne anziché monouso; per di più le mascherine che vengono fornite attualmente sono del tipo a fazzoletto, ovvero quelle che il Presidente della Regione Campania, De Luca, ha definito “maschere di bugs bunny”e che oggettivamente risultano quantomeno di difficile utilizzo; non possiamo non chiederci dove siano state consegnate le 97000 mascherine di tipo chirurgico che secondo il capo Dap, dott. Basentini, sono già state distribuite ai circa 38.000 Poliziotti Penitenziari Tra l’altro quando il Provveditore Regionale, dott. Carmelo Cantone, in data 23.03.2020 ha risposto alle OO.SS. Abruzzesi, con nota DAP.PR20.23/03/2020.0022709.U, di aver disposto l’acquisto del numero necessario di mascherine, addirittura ffp2, eravamo ben consapevoli della difficoltà di reperimento delle stesse, ma siamo altrettanto consapevoli che, data la situazione, anche le mascherine dette “chirurgiche” avrebbero ben potuto sopperire all’assoluta mancanza di DPI in dotazione alla Polizia Penitenziaria. Le scriventi OO.SS., quali delegate alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori della Polizia Penitenziaria, chiedono di essere informate al più presto sulla reale destinazione della fornitura DPI “scomparsa”, e qualora risultassero distribuiti negli istituti gradiremmo conoscere il dettaglio delle stesse. Nell’improbabile ipotesi che i DPI fossero ancora depositati in qualche oscuro magazzino ne chiediamo l’immediata distribuzione. Ed in ogni caso chiediamo che il Prap si faccia promotore di un massiccio quanto immediato acquisto di mascherine, anche di tipo “chirurgico”, da fornire ai Poliziotti Penitenziari Abruzzesi senza ulteriori ritardi. Nell’attesa di riscontri valuteremo di adire le vie legali per stabilire eventuali responsabilità oggettive o omissioni perpetrate ai danni dei lavoratori”. Bologna. Detenuto di 76 anni muore per coronavirus dopo il ricovero in ospedale polpenuil.it, 2 aprile 2020 “Prima o poi doveva accadere, ed è purtroppo accaduto. È deceduto all’ospedale civile di Bologna il primo detenuto per coronavirus. Si tratta di un ristretto del circuito ad alta sicurezza, ricoverato qualche giorno fa in stato di detenzione e poi ammesso agli arresti domiciliari a seguito del trasferimento in terapia intensiva. Era italiano, aveva 76 anni e pare fosse affetto da altre patologie”. A riferirlo è Gennarino De Fazio, per la Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale, che dichiara: “si è naturalmente costernati per la perdita di un’altra vita umana, ma non vogliamo e non potremmo strumentalizzare l’accaduto. Il Ministro Bonafede e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno tante colpe e responsabilità nell’assolutamente inadeguata gestione delle carceri, prima e durante l’emergenza sanitaria, che sarebbe inutile, inelegante e finirebbe col depotenziare le nostre continue denunce tentare di attribuirne loro delle ulteriori. Purtroppo, questo nemico invisibile sta facendo stragi ovunque e il carcere altro non è che una parte della società”. “Certo - prosegue il leader della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - continuiamo a pensare che la gestione dell’emergenza sanitaria per Covid-19, la quale si unisce alle precedenti che attanagliano da molto tempo il sistema carcerario, dovrebbe essere affrontata in maniera molto più efficace e organica da molti punti di vista, sia per la parte che afferisce all’utenza detenuta, sia sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro e delle misure a protezione degli operatori e, di rimando, per gli stessi reclusi”. “Abbiamo peraltro già detto e scritto - afferma ancora De Fazio - della netta sensazione che il coronavirus nel “territorio straniero" delimitato dalle cinte murarie e chiamato carcere sia arrivato in differita e che pertanto, mentre nel Paese pare si stia registrando il picco, nei penitenziari potrebbe essere in piena fase di sviluppo e ascesa. Motivo, questo, che dovrebbe indurre ad adottare più efficaci e stringenti precauzioni e misure di prevenzione anche onde evitare che dal carcere possano svilupparsi i cc.dd. contagi di ritorno, che potrebbero far riprecipitare la situazione in tutto il Paese, quello che viene comunemente detto libero". “Ormai per noi è diventato quasi un mantra, e ce ne scusiamo, ma in coscienza, per senso di responsabilità verso il nostro Paese, prima ancora che verso gli operatori che rappresentiamo, siamo costretti a ripetere l’appello - conclude il sindacalista - la Presidenza del Consiglio dei Ministri assuma pro-tempore, almeno sino al perdurare dell’emergenza sanitaria, la gestione diretta delle carceri. Indugiare ancora potrebbe determinare l’irreparabile!”. Bologna. Il Garante dei detenuti Ianniello: “Virus alla Dozza, la direzione parli” di Caterina Giusberti La Repubblica, 2 aprile 2020 “Sui contagi impariamo i numeri dalla stampa, non c’è stata alcuna conferma ufficiale”. Il virus è arrivato alla Dozza, ma nemmeno il garante dei detenuti di Bologna Antonio Ianniello sa in quale misura. Il carcere, ha spiegato ieri in commissione, oggi ospita “820 detenuti in una struttura prevista per 500”: almeno due persone in celle di dieci metri quadri, “in assenza strutturale di distanziamento sociale”. Impossibile frenare un focolaio. Ianniello, qual è la situazione? “Nella sezione dove si è scatenata la rivolta, quella giudiziaria, gli spazi comuni sono devastati, in due piani non c’è linea telefonica, quindi possibilità di parlare coi familiari. Circa 500 detenuti sono reclusi in un regime di estrema chiusura, dal 10 di marzo non accedono neanche all’ora d’aria. La situazione è pesante anche per le guardie, gli ambienti di lavoro sono ridotti ai minimi termini”. Ci sono stati alcuni trasferimenti? “A ridosso dei disordini sono stati trasferiti i detenuti più coinvolti, ma parliamo di 70/80 persone”. Quand’è l’ultima volta che ha visitato il carcere? “Ho chiesto di accedere durante le rivolte, ma mi hanno detto che non c’erano le condizioni”. Possibile che in una situazione così tesa non vengano forniti dati ufficiali sui contagi? “Si parla di un numero sensibile di casi tra gli operatori sanitari, di alcuni casi fra la polizia Penitenziaria e, verosimilmente, di un detenuto. Ma diciamo che sarebbe auspicabile una comunicazione ufficiale, trasparente: un’informazione corretta è già una prima forma di prevenzione”. I tamponi sono stati fatti a tutti i detenuti? “Sicuramente a quelli che vengono trasferiti”. Le tende di pre-triage come vengono usate? “L’Ausl il 24 marzo mi ha scritto che stanno organizzando un presidio sanitario di fronte al carcere e si sta approntando un pre-triage per quelli che entrano nella struttura. Poi non ho più saputo niente”. Mascherine? “Ne sono arrivate, ma sicuramente gli operatori sanitari dovevano averle prima”. Nel decreto Cura Italia si parla di detenzione domiciliare. Quanti ne potrebbero beneficiare? “Da una prima verifica ci sarebbero 142 persone con pene sotto i 18 mesi e 45 con pene entro i 6 mesi che potrebbero usufruirne, ma è un dato lordo, perché il decreto prevede una serie di esclusioni. Il tema assolutamente urgente però è che quella misura è condizionata alla disponibilità di un domicilio, e molti non ce l’hanno: per questo stiamo cominciando a interloquire col volontariato locale, per verificare altre situazioni di accoglienza. Solo l’alleggerimento dei numeri potrà consentire adeguate misure di contenimento del virus. È vero che sono state predisposte 14 camere di isolamento, ma con due persone per cella, non si può pensare di attuare un protocollo sanitario efficace”. Napoli. I detenuti di Poggioreale squarciano il silenzio: “Dateci l’indulto!” Corriere del Mezzogiorno, 2 aprile 2020 Venti minuti di “battitura” per denunciare i rischi in regime di detenzione. Hanno fatto sentire la loro voce i detenuti del carcere di Poggioreale, a Napoli, squarciando il silenzio surreale di un quartiere popoloso ma oggi desolato come a Ferragosto a causa del coronavirus: per venti minuti hanno colpito con forza le sbarre delle loro celle, con qualunque oggetto avessero a portata di mano, per chiedere libertà e l’indulto, parole gridate con forza da tutti i padiglioni. La protesta lanciata da un gruppo di familiari su Facebook: anche i familiari, infatti, si sono affacciati ai balconi delle abitazioni per fare rumore con pentole e mestoli. Da stamattina il personale della polizia penitenziaria era in stato di allerta: si temevano tensioni che, però, secondo quanto finora si è appreso, non si sono verificate. Airola (Bn). Coronavirus, ricoverato impiegato nel carcere minorile: tamponi per detenuti e agenti di Luella De Ciampis Il Mattino, 2 aprile 2020 Il Covid-19 rischia di farsi strada anche nel carcere minorile di Airola. Un rischio legato al caso sospetto di un impiegato amministrativo della struttura, residente in un altro comune sannita, attualmente ricoverato all’ospedale Rummo, dove è stato trasportato con sintomi riconducibili al Coronavirus. Per il dipendente è stato effettuato il tampone, e, nel pomeriggio di ieri, il personale dell’Asl si è recato nella struttura per eseguire altri tamponi, cominciando dai dipendenti che sono stati a stretto contatto con il giovane. Si parla di circa 110 tamponi, che dovrebbero coinvolgere anche gli agenti di polizia penitenziaria e tutti i giovani ospiti della struttura. L’allerta è massima e le misure precauzionali strettissime per evitare che il carcere possa trasformarsi in un focolaio com’è accaduto per la casa di cura del capoluogo “Villa Margherita”. La notizia è trapelata ieri nel pomeriggio ma si attende l’esito del tampone effettuato sull’impiegato. Intanto, un nuovo caso a Paolisi è stato annunciato dal sindaco Umberto Maietta. Nel centro caudino ieri c’è stato l’ultimo saluto alla pensionata morta al “Rummo” e risultata positiva. Milano. Dalla Casa di reclusione di Opera i primi 60 detenuti ai domiciliari di Mario Consani Il Giorno, 2 aprile 2020 Sessanta in tutto. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, finora sono questi i detenuti che hanno cominciato a scontare ai domiciliari le loro pene residue - inferiori ai 18 mesi - dopo essere usciti dalla Casa di reclusione di Opera, che a fine febbraio 2020 ospitava, però, 1.347 carcerati per meno di mille posti letto. Per gli altri Istituti di pena milanesi e lombardi, dove le direzioni stanno cercando di accelerare il più possibile le pratiche a corredo delle istanze di scarcerazione, i lavori sono ancora in corso. Anche perché, nel frattempo, l’incendio che sabato 28 marzo 2020 ha reso inagibile parte del settimo piano di Palazzo di giustizia, ha costretto i magistrati di sorveglianza, competenti per le richieste dei detenuti, a trasferire temporaneamente i loro uffici in una sorta di “tribunale da campo” al piano terra. Intanto il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha comunicato che in tutt’Italia sono 19 i detenuti ammalati di ‘Covid-19’ e ben 16 di loro sono in Lombardia, tre dei quali sono attualmente ricoverati in ospedale, gli altri 13 “monitorizzati” nei diversi Istituti di pena, dove un’altra settantina di persone si trova in isolamento precauzionale. Per quanto riguarda la Polizia penitenziaria, dei 119 agenti contagiati, 40 sono lombardi che si stanno curando, altrettanti (dopo tampone) sono risultati positivi, ma asintomatici e comunque si trovano in isolamento. Intanto, il Garante per i diritti dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio sarà fisicamente nel carcere di Monza dove un gruppo di 50 detenuti ha chiesto espressamente di poterlo incontrare. Anche l’Ordine degli avvocati ha chiesto misure più efficaci per contrastare il sovraffollamento: “È improcrastinabile - si legge in una nota - un intervento che preveda, in via quasi automatica, l’immediata fuoriuscita dal carcere di un numero di detenuti idoneo a consentire la gestione dell’emergenza sanitaria negli Istituti penitenziari”. Secondo l’Ordine, l’intervento legato all’emergenza sanitaria dovrebbe prevedere - da qui ai prossimi sei mesi - la sospensione, a opera delle procure, delle pene residue sotto ai 4 anni (escludendo i detenuti per i reati associativi) “con facoltà, alla scadenza dei termini di legge, di domandare una misura alternativa alla detenzione”, che a quel punto sarà valutata dalla magistratura di Sorveglianza. Bologna. Lo sportello informativo e di mediazione della Dozza lavora a distanza di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 2 aprile 2020 Lo sportello informativo e di mediazione della Casa circondariale “Rocco D’Amato” lavora a distanza. In questo periodo di emergenza gli operatori del Consorzio Arcolaio, Società Cooperativa Dolce che gestiscono il servizio per conto del Comune di Bologna stanno gradualmente riprendendo i servizi dello sportello attraverso modalità telefoniche, video e skype. Le attività sono riprese dal 25 marzo e dureranno fino al 30 aprile. Durante le prime giornate di riapertura lo sportello ha tradotto in quattro lingue (inglese, francese, arabo e albanese) i comunicati della direzione della casa circondariale relativi alle misure per i detenuti previste nel decreto Cura Italia. Dal 30 marzo lo sportello è organizzato in questo modo: venti ore alla settimana di mediazione in lingua araba, dodici ore in lingua rumena, inglese, francese, russa e moldava, otto ore in lingua albanese. Si tratta di aiutare i detenuti, in particolare i nuovi arrivati, a soddisfare la richiesta di avvisare la famiglia, di supportarli nei contatti skype, di aiutarli a mettersi in contatto con i propri legali e di tradurre le informazioni relative al funzionamento della casa circondariale. Lo stesso vale per i detenuti in attesa di giudizio. Lo sportello lavora anche per fornire al corpo della Polizia Penitenziaria la traduzione di avvisi per i detenuti diramati dalla direzione della casa circondariale; sono inoltre possibili colloqui telefonici in supporto agli agenti di Polizia Penitenziaria in caso di situazioni critiche: in caso di bisogno uno dei mediatori in servizio si attiva da remoto. L’assessora Susanna Zaccaria, con delega al “Patto per la giustizia”, sottolinea il “grande impegno e la grande professionalità da parte degli operatori. In questo modo intendiamo garantire un servizio veramente importante per i detenuti nella consapevolezza che il carcere è parte della nostra città e della nostra comunità”. Asti. Le udienze in videoconferenza anche dal carcere per i detenuti di Manuela Macario La Stampa, 2 aprile 2020 La giustizia astigiana continua la sua attività, adeguandosi alle restrizioni imposte per prevenire il contagio da coronavirus. Ieri, 31 marzo, la Procura di Asti ha sottoscritto un protocollo con il Tribunale, l’Ordine degli avvocati, la sezione locale della Camera penale insieme alle case di reclusione di Asti, Alba, Alessandria, Torino, la questura e i comandi provinciali di carabinieri e guardia di finanza. Il documento stabilisce che le udienze di convalida d’arresto e fermo e gli interrogatori di garanzia siano fatti in videoconferenza, ad eccezione in casi di arresti in flagranza. Tra i nuovi provvedimenti digitali, il giudizio per direttissima viene escluso e le udienze saranno tenute in collegamento video, anche dal carcere per i detenuti, si legge nel protocollo che non riporta firme a causa dell’emergenza sanitaria in corso. In linea di massima, difensori e pm partecipano alle udienze da remoto, salvo rare eccezioni. Ascoli. Coronavirus, colloqui con i detenuti solo in videochiamata di Luigi Miozzi gazzettadiascoli.com, 2 aprile 2020 Niente più colloqui all’interno del carcere: a seguito dell’emergenza coronavirus i detenuti possono tenersi incontrare i propri familiari solo in videochiamata. È quello che accade nella casa circondariale di Marino del Tronto dove da circa un mese nessun esterno può varcare i cancelli del carcere ascolano eccezion fatta per gli agenti di polizia penitenziaria e del personale medico e paramedico. Pertanto, per evitare problemi di contagio all’interno della struttura di reclusione anche i colloqui con i parenti sono stati precauzionalmente sospesi. Di conseguenza, è stata data la possibilità a ciascun detenuto di poter mettersi in contatto tramite Skype con i familiari una volta alla settimana per un’ora al massimo e, per questo, all’interno della casa circondariale sono state predisposte dieci postazioni dalle quali quotidianamente vengono effettuati i collegamenti sotto il controllo degli agenti della polizia penitenziaria. Oltre al collegamento Skype, ogni detenuto ha la possibilità, così come avveniva anche prima dell’emergenza, di effettuare due telefonate alla settimana. Sebbene la situazione continua ad essere tenuta costantemente sotto controllo, le condizioni all’interno del carcere di Ascoli appaiono abbastanza tranquille. A tutti gli agenti sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale, tra i quali le mascherine ed inoltre sono stati anche predisposti degli appositi dispenser di liquido disinfettante a disposizione di tutti. Inoltre, dopo i solleciti della direttrice del carcere Eleonora Consoli e quelli del sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, il Sappe, la protezione civile ha montato all’esterno del carcere la tensostruttura all’interno della quale è possibile effettuare il triage e valutare le condizioni di salute dei detenuti che arrivano al carcere di Marino. Livorno. I detenuti delle Sughere donano 800 euro all’ospedale cittadino iltelegrafolivorno.it, 2 aprile 2020 Raccolta fondi all’interno della struttura. De Peppo: “Iniziativa che rappresenta vicinanza alla nostra città”. Ottocento euro sono stati donati da parte dei detenuti dell’alta e media sicurezza della casa circondariale delle Sughere di Livorno all’ospedale di Livorno dopo aver organizzato una raccolta fondi all’interno della struttura. A renderlo noto è il garante dei detenuti del Comune di Livorno, Giovanni De Peppo, che spiega come da parte dei detenuti della Casa Circondariale di Livorno nei giorni scorsi sia scattata la solidarietà e un sentimento di vicinanza nei confronti della comunità livornese. “L’epidemia del coronavirus - ha quindi aggiunto Giovanni De Peppo - sta coinvolgendo noi tutti a restare a casa e a sentirci corresponsabili della salute di tutti. In carcere il senso di ansia e timore è ingigantito dalla consapevolezza di essere in una comunità di cittadini ristretti e con maggiori fragilità rispetto al contagio. Proprio nel carcere di Livorno, il senso di responsabilità di tutti i detenuti e la loro condivisione con un’emergenza che ha travolto noi tutti, li ha spinti a realizzare una raccolta di fondi verso l’Ospedale di Livorno per rappresentare la vicinanza alla nostra Città”. L’iniziativa ha avuto subito un grande riscontro, tanto è che la cifra raccolta è stata significativa. “Tanti detenuti - ha spiegato De Peppo - mi ricordano che nei mesi prima dell’aggravarsi dell’epidemia, Livorno ha consentito il realizzarsi di tanti progetti e iniziative mirate a tutti quei percorsi di riscatto e riabilitazione preziosi per chi è ristretto e che oggi si sono inevitabilmente fermati. Il segnale di generosità che viene da chi è recluso - conclude il garante dei detenuti per l’amministrazione comunale labronica - assume un particolare valore e dà speranza affinché dopo la tempesta del Covid 19 tutto possa riprendere con maggiore responsabilità da parte di noi tutti non perdendo quei segnali e quei comportamenti che questo periodo così difficile ci ha insegnato”. Intanto per quanto riguarda la diffusione del Coronavirus all’interno delle strutture penitenziarie proprio in un incontro andato in scena oggi tra l’assessore alla salute della Regione, Stefania Saccardi, e il provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria De Gesu è emerso come finora non ci sia stato nessun contagio all’interno delle carceri di competenza della zona Toscana-Umbria. Nuoro. Il Garante Serra: “Grande prova di responsabilità dei detenuti” di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 2 aprile 2020 Il braciere Badu e Carros per ora è spento, ma la vigilanza è massima perché, come si sa, da queste parti basta un nulla per far divampare incendi difficili da domare. La metafora del fuoco nel carcere nuorese è datata (era il procuratore Marcello a parlare di braciere sempre acceso) dall’epoca in cui l’ex penitenziario di massima sicurezza ospitava il gotha della criminalità organizzata e del terrorismo. Ora, in tempi di coronavirus, è inutile negare che anche qui cresce la preoccupazione. “A Badu e Carros oggi ci sono circa 300 detenuti la maggior parte dei quali in alta sicurezza, i timori sono evidenti. Sono stati predisposti i presidi possibili compatibilmente con le dotazioni. All’ingresso sono state montate le tende della protezione civile, sono state predisposte le celle riservate, in due sezioni, all’isolamento in ipotesi di contagio, agli operatori penitenziari sono stati forniti i dispositivi di protezione, è garantita l’assistenza costante dei medici e degli infermieri - sottolinea il garante Giovanna Serra - In questa situazione di emergenza i detenuti danno prova di grande responsabilità e di consapevolezza sulle misure anti contagio, che hanno portato a sospendere i colloqui con i familiari, le attività trattamentali e i permessi”. Intanto è stato varato un sistema compensativo. “Sono state aumentate le telefonate, i detenuti possono chiamare tutti i giorni ed effettuare colloqui tramite skype e whatsapp al fine di garantire il contatto con i propri affetti”, dice ancora il garante. Scarsa l’efficacia del decreto legge emanato nei giorni scorsi dal governo che ha stabilito che possano uscire dal carcere i detenuti con un residuo di pena per un massimo di 18 mesi, da scontare in detenzione domiciliare, con l’uso “braccialetto elettronico”, strumento pressoché indisponibile. “Nel carcere nuorese su circa 60 ristretti con una pena inferiore ai 18 mesi soltanto due detenuti hanno potuto lasciare l’istituto”, dice la Serra. “In queste settimane di autentica passione per il nostro Paese e per il mondo intero, la popolazione carceraria, fatta eccezione per alcuni tentativi di rivolta, da condannare senza esitazione alcuna, sta dando prova di grande senso di responsabilità. Il carcere di Badu e Carros, da questo punto di vista, pur tra tante difficoltà, è un esempio virtuoso importante. Lo stesso deve dirsi per tutti coloro che quotidianamente prestano la propria attività lavorativa all’interno degli istituti, come il personale della polizia penitenziaria, quello amministrativo e sanitario”, dice l’avvocato Francesco Lai, responsabile osservatorio carcere Camera penale di Nuoro. Padova. La prof che insegna in carcere, l’esperienza diventa un libro di Gabriele Noli Il Tirreno, 2 aprile 2020 Susanna Barsotti ha avuto come studenti i detenuti del penitenziario di Padova “Vorrei che venissero valorizzate le possibilità di riscatto di chi ha perso la libertà”. L’impatto emotivo delle lezioni con classi affatto convenzionali era così forte che ogni volta Susanna Barsotti avvertiva il bisogno di dare forma (scritta) ai propri pensieri. Senza saperlo, stava mettendo nero su bianco A scuola dentro. Perché l’idea di tramutare quelle riflessioni in un libro è maturata più avanti, decisione presa al termine di “un percorso lungo e travagliato”. Necessario partire dal contesto: la casa di reclusione Due Palazzi di Padova. È qui che Susanna ha insegnato italiano, storia e geostoria dal novembre 2017 al giugno 2018: il suo battesimo del fuoco. Lei, viareggina, dopo la laurea triennale in lettere moderne a Pisa, si era trasferita nella città veneta per proseguire gli studi, conseguendo la magistrale in filologia romanza. Voleva mettersi alla prova come docente, per questo si è iscritta in graduatoria, indicando tra le preferenze anche il Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), che include il carcere maschile Due Palazzi. Dove sarebbe stata assegnata. “Nella lettera di convocazione era chiaramente specificato che nessuno, tra quelli chiamati prima di me, aveva voluto accettare l’incarico”. Lei invece sì, scelta dettata più dall’istinto che dalla consapevolezza, almeno in tale frangente. Sbrigate le pratiche burocratiche e lasciato l’impiego all’Ikea, a 26 anni si è ritrovata proiettata in una situazione mai contemplata, a prendere in fretta confidenza con il fatto che gli alunni sarebbero stati dei detenuti più grandi, in prevalenza stranieri. E che le lezioni si sarebbero tenute sì in un’aula, ma del carcere. “Il primo giorno non avevo portato del materiale, giusto un libro di mia sorella. Volevo che si presentassero, parlassero di sé: nel farlo, mi sono resa conto che si identificavano con la propria colpa”. Susanna è riuscita a stabilire una connessione stabile con quelli studenti. “Io cercavo di rendere le lezioni libere dall’oppressione di chi sa di essere rinchiuso: una specie di evasione mentale. A parte qualcuno che si stufava e tornava in cella, gli altri stavano attenti e mi rispettavano. Con uno di loro ho avviato una corrispondenza epistolare”. Si chiama Rocco Varanzano, autore della nota introduttiva del libro (edizioni Divinafollia, 334 pagine) “che non è un romanzo, ma una testimonianza diretta sviluppata sotto forma di riflessioni scritte con spontaneità e anche ingenuità, utili per metabolizzare certe situazioni”. Vi si ritrovano “il lavoro svolto con le mie tre classi, le emozioni, le lacrime, gli aneddoti, le urla, i momenti comici, quelli grotteschi”. Uscito (sfortunatamente) in concomitanza con l’emergenza sanitaria (“spero di poterlo presentare presto dal vivo”), A scuola dentro (edizioni Divinafollia) è acquistabile online. “Vorrei che, leggendolo, riflettessero sul problema della libertà negata e riuscissero a dare più valore alle possibilità di riscatto dei detenuti”. Istruzione e povertà: progressi a rischio di Danilo Taino Corriere della Sera, 2 aprile 2020 Uno dei grandi risultati della globalizzazione dei decenni scorsi è stato il crollo delle povertà, quella estrema ma non solo. Ora la tendenza si rovescerà se non si prenderanno misure radicali e mondiali, dice l’analisi delle Nazioni Unite. La crisi da pandemia “rischia di cancellare decenni di progresso nella lotta alla povertà e di esacerbare i già alti livelli di disuguaglianza nei Paesi e tra Paesi”. Lo scrivono le Nazioni Unite in un recente rapporto sulla necessità di rispondere all’impatto socio-economico del Covid 19. Uno dei grandi risultati della globalizzazione dei decenni scorsi è stato il crollo delle povertà, quella estrema ma non solo. Ora la tendenza si rovescerà se non si prenderanno misure radicali e mondiali, dice l’analisi: non solo per le perdite di reddito, per la chiusura di imprese e di piccoli business, per l’aumento della disoccupazione ma anche perché la chiusura delle scuole potrebbe fare balzare all’indietro la tendenza all’emancipazione delle ragazze, anch’essa migliorata negli anni passati. Soprattutto nei Paesi poveri. Già ci sono casi di aumenti dei prezzi dei generi alimentari che colpiscono i più vulnerabili. Se non si interviene in fretta e con decisione, la situazione peggiorerà, dice l’Onu. Nello studio si riporta la stima dell’Organizzazione mondiale del lavoro sull’esplosione della disoccupazione nel mondo, in tre scenari. Nel primo, il meno pessimista, perdono il lavoro 5,3 milioni di persone, nel secondo 13 milioni e nel terzo quasi 25 milioni. Con una riduzione dei redditi da lavoro che può variare tra gli 860 e i 3.400 miliardi di dollari. Per quel che riguarda l’istruzione, 166 Paesi hanno chiuso scuole e università. Più di un miliardo e mezzo di studenti ha un accesso precario all’istruzione o non ne ha affatto: 740 milioni di ragazze e 785 milioni di ragazzi. Più di 60 milioni di docenti non sono in classe. Molti tengono lezioni online, ma non è la stessa cosa, soprattutto dove i collegamenti web sono instabili. Le Nazioni Unite dicono che la pandemia avrà un forte impatto su tutti i 17Sustainable Development Goals che 195 Paesi si sono dati come obiettivi da raggiungere entro il 2030. I più direttamente colpiti saranno il terzo, il primo e l’ottavo, cioè quelli che riguardano il miglioramento della salute, la lotta alla povertà e l’economia. Ma interruzioni nella produzione e nella distribuzione di cibo rischiano di mettere in dubbio l’obiettivo di “Zero fame” nel mondo. E le donne rischiano di subire un aumento della violenza domestica e di vedere allontanarsi la “Parità di genere”. L’Onu chiede concordia globale per affrontare il momento. Regolarizzare gli immigrati, contro virus e caporalato di Teresa Bellanova* Il Riformista, 2 aprile 2020 Avviare immediatamente la mappatura dei fabbisogni di lavoro agricolo. È l’azione, già contemplata nel Piano triennale di prevenzione e contrasto al caporalato condiviso con Luciana Lamorgese e Nunzia Catalfo, che dobbiamo mettere in campo per due irrinunciabili priorità: fronteggiare l’assenza di manodopera che rischia di mandare in enorme sofferenza le nostre aziende agricole, incrociando in modo trasparente e legale domanda e offerta di lavoro; prevenire l’emergenza umanitaria che può determinarsi negli insediamenti informali affollati di persone che in questo momento non lavorano o lo fanno nella più totale invisibilità, sono a rischio fame, abbandonati a sé stessi e in balia della minaccia da virus. Oggi possiamo dire: non si contano vittime nella trentina di alloggi distrutti a Borgo Mezzanone venerdì notte per un incendio di forti dimensioni. Ma dobbiamo essere consapevoli: la prossima volta potrebbe non andare così; nel nostro Paese non sono più tollerabili ghetti o baraccopoli. Lo scrivo a chiare lettere e per tre ordini di ragioni. Una legata proprio a Borgo Mezzanone e alle baraccopoli. In quell’insediamento, dove al momento le cronache contano circa millecinquecento persone, non è andata così né il 4 febbraio scorso, quando una donna è morta gravemente ustionata in un rogo, né nell’aprile dello scorso anno, quando un incendio aveva provocato la morte di un ventiseienne gambiano. A ciò si aggiunge, e lo sottolineo, che in Italia non esistono filiere sporche: la nostra agricoltura è fatta di migliaia di aziende sane. Quelle che agiscono nell’illegalità vanno perseguite e noi ci siamo dotati di una legge contro il caporalato considerata tra le migliori a livello internazionale. Inoltre, l’agricoltura italiana è per un terzo caratterizzata dalla presenza di lavoratrici e lavoratori stranieri. A dirlo non sono io ma i numeri. I lavoratori stranieri occupati nei nostri campi sono circa 370 mila; se l’agricoltura incide sull’occupazione totale nel nostro Paese per una media del 4%, il dato sale oltre il 6% tra gli stranieri. L’agricoltura è un grande laboratorio di integrazione a cielo aperto. E questo a dispetto di chi considera “l’altro”, il “migrante” sempre e solo un nemico sociale su cui scaricare rabbia e rancore, e che sulla paura degli immigrati ha fatto vivere a questo paese 18 mesi di campagna elettorale permanente. C’è qualcosa di molto importante, anche sul piano simbolico, che va pienamente raccolto nella richiesta pressante di aziende e associazioni agricole. Che paradossalmente travalica sia il fabbisogno di manodopera stagionale che il rischio di raccolti lasciati a marcire nelle campagne, il che non può assolutamente accadere. È il bisogno di legalità che le aziende esprimono. Di piattaforme dove in modo trasparente e legale si incrocino domanda e offerta di lavoro. Lasciarlo inevaso sarebbe imperdonabile. Regolarizzare, sia pure temporaneamente, i lavoratori migranti degli insediamenti informali o meno è una risposta praticabile e dovuta. Per molte ragioni, umanità e giustizia soprattutto, tra cui il dato che quei lavoratori sono già nel nostro Paese, forse già nelle nostre campagne o ci potrebbero essere tra poco. Sono necessari uno sforzo e un coraggio all’altezza della sfida. Per impedire che negli insediamenti, è la spinta su cui si è mosso il Portogallo, si determini una gravissima emergenza sanitaria. Per fare i conti con l’assenza di manodopera nei campi, tema che nelle prossime settimane assumerà dimensioni ancora maggiori, quando molti prodotti ortofrutticoli andranno a maturazione. Per mantenere vivo, sicuro, stabile, il tessuto delle nostre filiere. Quelle che stanno garantendo in queste settimane il bene cibo al Paese, e non possiamo assolutamente permettere che vadano in sofferenza. C’è infine, ma non ultima, una ragione che detta tutte le altre: sconfiggere il caporalato. Per me, che l’ho conosciuto e sofferto sulla mia pelle e su quella delle mie amiche e compagne di lavoro, è quasi una ragione di vita. La norma contro il caporalato corre lungo due binari, non a caso, fortemente intrecciati: repressione e prevenzione. La repressione ha finora funzionato. La prevenzione è l’obiettivo che orienta e fonda il Piano triennale, definito di concerto con tutti gli attori istituzionali, economici, sociali coinvolti. Per la prima volta, con questo Piano, lo Stato si è dato un metodo preciso per la prevenzione e il contrasto del fenomeno. È un punto di svolta fondamentale. Nei giorni scorsi mi è stato chiesto se temessi che, a causa del coronavirus, la clandestinità sarebbe aumentata. Io non voglio temerlo, voglio evitarlo. Per me significa sottrarre in tutti i modi terreno alla criminalità e a quella zona grigia dove le mafie si insinuano offrendo servizi che invece deve essere lo Stato, il pubblico, a garantire dettandone le condizioni. Per questo vanno assolutamente smantellati gli insediamenti illegali, portando quei cittadini, quei lavoratori, nella legalità e nel lavoro regolare, offrendo loro i servizi adeguati e integrati, dai trasporti agli alloggi. Si può e si deve fare. Sconfiggere il caporalato. Impedire che negli insediamenti informali si determinino emergenze sanitarie o bisogno assoluto di cibo. Garantire alle imprese manodopera sottraendole, soprattutto quelle piccole e piccolissime, al giogo ricattatorio e micidiale dei caporali e della criminalità. È il terreno su cui ci misuriamo. Alla qualità delle risposte, al nostro saper essere adeguati, si lega, adesso più che mai, anche il futuro del Paese. *Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Rivedere il Testo unico sulle droghe: carceri sovraffollate per questo di Antonella Soldo* huffingtonpost.it, 2 aprile 2020 L’emergenza Coronavirus nelle carceri italiane è trascurata e rischia di deflagrare con conseguenze disastrose non solo per chi vive recluso, ma per tutto il Paese, poiché con questo virus non ci sono sbarre che tengano. Senza una risposta adeguata, infatti, sono rimasti gli appelli provenienti dalla comunità penitenziaria - dagli agenti, dai garanti, e dai detenuti stessi - affinché si mettano in campo misure straordinarie e urgenti per portare la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare di 50 mila unità, prevista dalla legge. Ma siamo ancora lontani. E pensare che paesi che non sono esattamente degli stati di diritto hanno fatto meglio di noi: in Iran hanno liberato 70mila detenuti e 38mila in Turchia, per evitare che nei penitenziari esplodessero focolai dell’infezione. Il sovraffollamento in carcere oggi impedisce il necessario distanziamento sociale richiesto a tutta la popolazione per la prevenzione della circolazione del virus e rischia di provocare una tragedia, come denunciato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e persino da Papa Francesco nell’Angelus di domenica scorsa. Ma la questione di fondo è un’altra: è che esiste una emergenza resa ordinaria nella nostra giustizia italiana, che del sovraffollamento - e quindi della violazione delle sue stesse leggi - ha fatto una regola. Carceri intasate non sono sinonimo di una giustizia che funziona: tutto al contrario. Perciò occorrono provvedimenti strutturali che riformino profondamente il sistema giustizia. A partire dalla repressione sulle sostanze stupefacenti. Un detenuto su tre è in carcere per reati legati alla droga, 1 detenuto su 4 è tossicodipendente, ed evidentemente il carcere non è il luogo più adatto alla cura di una dipendenza. La maggior parte di essi è stato arrestato per lo spaccio della sostanza meno pericolosa: la cannabis. La sostanza meno pericolosa ma, paradossalmente, la più perseguita sotto il profilo dei controlli, dei mezzi e degli uomini impegnati, del numero delle indagini e dei processi istruiti. Riguardano la cannabis il 58% delle operazioni antidroga, il 96% dei sequestri e il 48% di tutte le denunce alle autorità giudiziarie. Per questo bisognerebbe rivedere il testo unico sulle droghe giungendo alla legalizzazione della produzione, vendita e consumo di cannabis. Solo così si potrà risolvere - in maniera permanente - non solo il sovraffollamento delle carceri ma anche l’ingolfamento del sistema giudiziario, permettendo alle forze dell’ordine di concentrarsi su emergenze più serie e più pericolose. Come una vera guerra alle mafie e al narcotraffico. *Portavoce campagna “Meglio Legale” “Basta con le prigioni facili”, l’appello dell’Oms ai governi di Gianpaolo Catanzariti* Il Riformista, 2 aprile 2020 Tra i fattori determinanti per la diffusione del “coronavirus” gli esperti indicano l’omessa e tardiva informazione, il mancato ascolto delle autorità sanitarie, il ritardo nei piani operativi di prevenzione, l’inerzia nell’azione immediata di contrasto e controllo della linea del contagio. A ciò non sfugge, purtroppo, il mondo carcerario, già gravato da uno strutturale sovraffollamento, pur negato, in maniera tragicomica, dall’amministrazione penitenziaria (un anno fa il capo del Dap, Basentini, affermava che gli istituti penitenziari avrebbero potuto ospitare “molto di più” dei 60.000 di allora!). Da qui continui richiami, appelli, proposte, solleciti di tutti gli operatori di settore al Ministro, al Governo, alle forze in Parlamento per una urgenza non più differibile: ridurre drasticamente il carico umano delle nostre carceri. Consapevoli che ricondurre la popolazione detentiva alla capienza effettiva (poco più di 47.500 posti per 57.405 detenuti) non è solo una doverosa tutela della salute di centinaia di migliaia di persone che gravitano attorno al carcere. Rappresenta l’unica azione che può disinnescare una bomba epidemiologica che, una volta esplosa, produrrà effetti devastanti su tutta la comunità nazionale già gravata dal peso della lotta al “coronavirus”. Da ultimo, Papa Francesco, nella consueta preghiera di domenica scorsa, in solitaria, ha auspicato “misure necessarie per evitare tragedie future nelle carceri”. Ad oggi, purtroppo, solo silenzi, omissioni, mancanza di programmazione e soprattutto inerzie paurose di un Governo, preoccupato solo di “percorsi moderati ed accorte soluzioni” per alleggerire la concentrazione della popolazione penitenziaria. Una condotta irresponsabile che ha registrato, secondo quanto dichiarato alla Camera dal ministro Bonafede, la fuoriuscita dal circuito penitenziario di soli 50 detenuti. Il tutto condito da scarsa informazione e trasparenza che non serve certo a tranquillizzare soprattutto chi opera dentro un carcere e chi vi si trova ristretto. Rincorriamo notizie allarmanti, indiscrezioni, filtrate qua e là, dai vari penitenziari, dalle lettere e telefonate dei familiari dei detenuti impauriti dal silenzio dei loro cari, rompendo così l’invalicabile muro di gomma carcerario. Nemmeno un report trasparente ed ufficiale del Dap. Solo agenzie di stampa che segnalano 116 contagiati tra appartenenti alla polizia penitenziaria, 19 detenuti (anche se la sommatoria dalle varie regioni ci inducono a ipotizzare siano molto di più), diversi cappellani, medici ed infermieri. Alcuni purtroppo caduti per mano di un virus che si alimenta e diffonde proprio nel carcere, luogo più di ogni altro ricettacolo di infezione in ragione della sua alta densità umana. Si gioca sui numeri dei 900 braccialetti circa ad oggi disponibili, secondo notizie filtrate dal Dap, del tutto insufficienti a disinnescare la bomba. Senza nemmeno sapere quanti davvero, in ragione di un decreto-capestro, potranno andare in isolamento detentivo al domicilio. Il rischio di vedere vanificate le misure restrittive, sinora imposte dagli Stati europei alle rispettive popolazioni, ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità - Europa (Oms) a diffondere, un dossier davvero interessante dal titolo “Preparedness, prevention and control of Covid-19 in prisons and other places of detention”, secondo cui “la prevenzione dell’ingresso del virus nelle carceri è essenziale per evitare o ridurre al minimo il verificarsi di infezioni e di gravi focolai in questi luoghi e fuori di essi”. Nei paesi, come il nostro, ad alta intensità di contagio “l’approccio fondamentale da seguire è la prevenzione dell’introduzione della malattia infettiva nelle carceri” per il rischio di una drammatica diffusione dalla “prigione alla comunità esterna”. “La naturale evoluzione di focolai infettivi di proporzioni epidemiche o pandemiche, localmente, a livello nazionale e globale, presenta un potenziale impatto sulla sicurezza, sul più vasto sistema giudiziario fi no a minare l’ordine civile e democratico della comunità esterna”. Anche secondo l’Oms, quindi, occorre fare subito e fare bene, perché proprio nei luoghi di detenzione le condizioni di “stretta prossimità” inducono l’abbassamento delle difese immunitarie e, con la violazione dei diritti umani incomprimibili, la facile trasmissibilità del virus all’interno ed all’esterno. Occorre prestare - così si legge - “la massima attenzione al ricorso a misure non detentive, in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, anche durante il processo e dopo la condanna”, dando priorità alle misure non detentive per i “presunti colpevoli” ovvero coloro che, in custodia cautelare, sono in attesa di un giudizio definitivo. Un rapporto ricco di prescrizioni da osservare presto se vogliamo evitare la catastrofe del contagio, che non distingue tra condannati e detenuti in attesa di giudizio e che rischia di diventare un vero e proprio “contagio di Stato”. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Grecia. Quasi 2.000 migranti e richiedenti asilo detenuti nei campi sovraffollati La Repubblica, 2 aprile 2020 Le autorità greche detengono arbitrariamente quasi 2.000 migranti e richiedenti asilo in condizioni inaccettabili e negano loro il diritto di presentare domande di asilo, in due siti di detenzione recentemente stabiliti sulla Grecia continentale. È la denuncia di Human Rights Watch. Le autorità sostengono che stanno trattenendo i nuovi arrivati, compresi bambini, persone con disabilità, anziani e donne in gravidanza, in quarantena a causa di Covid-19, ma è probabile che l’assenza di precauzioni sanitarie di base non favorisca la diffusione del virus. È il modo migliore per diffondere il virus. “Se il governo si impegna seriamente a prevenire la trasmissione e la malattia di Covid-19 tra migranti e richiedenti asilo, deve aumentare i test, fornire più tende e offrire alle persone servizi igienici, acqua e sapone sufficienti e mettere in atto interventi di prevenzione”, ha detto Belkis Wille, ricercatore senior di Crisi e Conflitto presso Human Rights Watch. “Forzare le persone, alcune delle quali ad alto rischio di malattie gravi o morte, a vivere in condizioni igieniche sporche e anguste, strette insieme in spazi ristretti, è il modo migliore per diffondere il virus, per non parlare del degrado e delle condizioni disumane in cui le persone vengono trattenute”. Trattenuti solo in quanto migranti. I governi possono imporre legalmente una quarantena per separare le persone che potrebbero essere state esposte o che mostrano sintomi di una malattia infettiva. Una quarantena lecita dovrebbe essere necessaria e idonea a servire allo scopo di proteggere la salute pubblica. Dovrebbe essere imposto in modo non arbitrario e non discriminatorio. La Grecia, tuttavia, sta trattenendo i migranti a causa del loro status di immigrazione e non fornendo loro adeguate protezioni sanitarie, come indicato nei regolamenti sanitari internazionali o nella guida attuale dell’Organizzazione mondiale della sanità. Non saranno rilasciati dopo i 14 giorni di isolamento. Donne, uomini e bambini sono detenuti in condizioni non igieniche e anguste, indipendentemente dal fatto che il paese da cui provengono sia considerato ad alto rischio Covid-19, senza alcuna indicazione che verranno rilasciati se trovati privi di virus. Le autorità non sembrano aver testato i detenuti per il virus, oltre a misurare la loro temperatura all’arrivo. Né saranno rilasciati dopo il periodo di isolamento di 14 giorni raccomandato dall’OMS. Invece, devono affrontare una detenzione per immigrazione continua, anche se molto probabilmente la Grecia non può riammetterli in Turchia come paese di transito o restituirli ai loro paesi di origine nel prossimo futuro. In tali circostanze, non esiste alcuna giustificazione legale per la loro detenzione prolungata. Alcune testimonianze. Il 25 e 26 marzo, Human Rights Watch ha intervistato a distanza quattro uomini che hanno dichiarato di essere stati detenuti nel sito di detenzione di Malakassa dal 14 marzo. Ognuno di loro ha affermato che i circa 450 detenuti con loro avevano un accesso molto limitato all’acqua, all’elettricità, ai prodotti per l’igiene, abbigliamento e coperte. Dissero che i detenuti dormivano in tende anguste con un massimo di dieci persone, spesso appartenenti a famiglie diverse. Due degli uomini, che hanno avuto bambini piccoli, hanno dichiarato di non avere abbastanza latte e pannolini per i loro bambini. Dissero che le autorità non avevano adottato alcuna misura per prevenire la diffusione di Covid-19. I quattro uomini e un avvocato del Centro legale di Lesbo hanno tutti affermato che la polizia di guardia ai siti non stava permettendo a nessuno all’interno di andarsene, tranne che per le emergenze mediche. La risposta alla Turchia dopo il “libera tutti” dei migranti. Il 26 marzo, il parlamento greco ha ratificato un decreto del governo del 1° marzo 2020 che sospende l’accesso all’asilo per 30 giorni per le persone che sono entrate irregolarmente nel paese. Questa decisione adottata prima di qualsiasi misura per affrontare l’epidemia di Covid-19 in Grecia, prevede che i nuovi arrivi vengano immediatamente espulsi “dove possibile, nei loro paesi di origine” o paesi di transito, come la Turchia, senza registrarli. Il decreto della Grecia non faceva alcun riferimento alla prevenzione dell’infezione da coronavirus, ma era piuttosto una reazione all’annuncio della Turchia che avrebbe aperto le sue frontiere dell’UE ai migranti e ai richiedenti asilo che volevano andarsene. Le detenzioni nei porti e in altri punti di approdo. Da allora, tuttavia, non si sono verificate espulsioni perché la Turchia ha rifiutato di accettare deportati dalla Grecia. Invece, a seguito della decisione, le autorità greche hanno riunito almeno 1.974 persone che sono arrivate in Grecia dal 1° marzo e le hanno trasferite in due siti di detenzione recentemente stabiliti al di fuori della città di Serres, a 350 chilometri a nord di Atene, e su un terreno di terreni di proprietà militare fuori dalla città di Malakassa, 20 chilometri a nord di Atene. Altri nuovi arrivi continuano a essere detenuti nei porti e nei siti di arrivo. Dentro i recinti di Malakassa. Il 14 marzo, una nave navale greca ha trasferito 436 migranti, tra cui donne, uomini e bambini, nel sito di detenzione di Malakassa. Il governo ha continuato a trasferire gruppi di nuovi arrivati lì, secondo le persone detenute all’interno. Il 20 marzo, le autorità hanno trasferito almeno altre 603 persone in nave da Lesbo e altre isole greche al sito di detenzione di Serres. Secondo gli operatori umanitari che monitorano i trasferimenti e le persone all’interno, la polizia sta sorvegliando entrambi i siti. Il 17 marzo, il governo ha giustificato i trasferimenti affermando che faceva parte della sua risposta al virus Covid-19. L’avvocato del Centro legale di Lesbo. È stato in contatto con alcune persone dal loro arrivo a Lesbo e Chios, e il loro trasferimento a Malakassa e Serres, ha detto che la polizia ha dato alle persone che ha parlato con un ordine di detenzione di 3 giorni all’inizio di marzo, in attesa di espulsione. Proprio prima di trasportarli da Lesbo sulla terraferma il 14 marzo, la polizia ha dato loro un ordine di espulsione per la loro “riammissione immediata in Turchia”. Human Rights Watch ha esaminato copie di entrambi i documenti. Secondo il legale, il governo greco ha dichiarato apertamente che desidera espellere queste persone senza dar loro l’opportunità di presentare le loro domande di asilo. Il servizio di asilo è chiuso almeno fino al 10 aprile. Non è chiaro cosa farà il governo dopo la fine del periodo di sospensione di 30 giorni. Il servizio di asilo è chiuso almeno fino al 10 aprile a causa di Covid-19, quindi probabilmente non fornirà ulteriori informazioni nel prossimo futuro. I sindacati del personale di polizia di Atene, Attica nord-orientale e Attica occidentale hanno dichiarato in una dichiarazione del 26 marzo che le misure igieniche a Malakassa erano “inesistenti”, aggiungendo che di fronte al Covid-19, la situazione era “matematicamente evolvente in una bomba a fuoco lento, a causa della mancanza di protezioni sanitarie di base, come servizi igienici, pulizia, maschere, guanti, numero di persone residenti in tende, ecc.”. Turchia. L’indulto di Erdogan: avvocati e giornalisti rimarranno in cella di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 aprile 2020 Anche la Turchia si preparare a varare un provvedimento per concedere l’amnistia ad un gran numero di detenuti per contenere l’avanzata dell’epidemia di coronavirus. Infatti nonostante le misure di blocco quasi totale della circolazione il numero di casi nell’ultima settimana è salito vertiginosamente dal 1.872 a 13.531. La misura, discussa ieri, riguarda almeno 90mila persone rispetto ai 300mila prigionieri che popolano i penitenziari turchi. Il disegno di legge del Parlamento parla di arresti domiciliari, libertà condizionale e dimezzamento delle pene. Potranno uscire dalle celle dunque appartenenti alla criminalità organizzata e i condannati per omicidio non premeditato. Non saranno però rilasciati tutti coloro che sono stati incarcerati perché ritenuti oppositori politici di Recep Erdogan. Le porte delle carceri non si apriranno per giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani vittime della repressione messa in atto dal regime, soprattutto dopo il tentativo di colpo di st ato del 2016. Nel paese sta montando la rabbia per questa discriminazione. Per Veysel Ok, condirettore della Media and Law Studies Association, organizzazione di difesa legale senza scopo di lucro, “questo atteggiamento mostra esplicitamente le intenzioni del governo: i criminali comuni verranno liberati ma i prigionieri politici rimarranno dietro le sbarre. E ciò in questo momento, in un certo senso, equivale a un verdetto di pena di morte”. Le prime bozze della legge riguardavano anche gli autori di violenza sessuale e di genere, solo l’opposizione dei gruppi femministi è riuscita parzialmente a far rientrare questa intenzione. Molti commentatori si sono comunque dichiarati a favore del rilascio anticipato (soprattutto nella parte diretta agli over 65 e alle donne detenute con i bambini). Amnesty International però continua a guidare il fronte per la liberazione anche dei detenuti politici, in carcere rimangono infatti personaggi come Selahattin Demirtas e Osmala Kavala imprigionati in virtù della legislazione antiterrorismo che viene applicata a chiunque si opponga al regime. Secondo il ministro della Giustizia, Abdulhamit Gül, la pandemia non avrebbe fatto breccia nelle carceri sovraffollate della Turchia. Dichiarazioni contraddette da un medico ed esponente del partito filo curdo Hdp, Ömer Faruk Gergerlio secondo cui almeno un paziente positivo ai test è stato portato in ospedale proveniente dalla prigione di Sincan ad Ankara. Una rivelazione che gli è costata l’accusa di “provocare ansia, paura e panico”. Non è in ogni caso negabile che in Turchia in molti sono detenuti con pene (preventive) lunghissime rendendo il sistema carcerario al limite della capienza, è stato calcolato che le prigioni sono già al 121% della loro capacità e che il governo ha intenzione di costruire almeno altri 100 istituti di pena. Una situazione che verrà aggravata dalla macchina repressiva che continua a funzionare a pieno regime. L’epidemia rischia di essere una mannaia ancora più pesante sugli oppositori politici come dimostra l’arresto di almeno 7 giornalisti imputati per diffondere il panico e l’indagine su 385 persone che avevano espresso critiche sui social per come viene gestita la crisi.