Sul 41 bis e la salute. Lettera aperta a Nando Dalla Chiesa di Davide Galliani Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2020 Caro Nando, ho letto il tuo articolo sui “giudici di badanza”. Badare ricorda sbadigliare, ma anche curare. Dipende dal contesto entro il quale lo usiamo. A proposito di contesto, ti riferisci allo spirito del tempo, che pare essere quello dei diritti umani. Infine, il problema è che i diritti umani non possono riguardare solo Caino, poiché esiste anche Abele. Scusami il riassunto, che però mi pare oculato. Provo a dialogare con te. Come tu ritieni la libertà di opinione la più importante tra le libertà, così da parte mia ritengo che prima di parlare di una decisione sia imprescindibile leggerla. Non mi dire che il tuo era un discorso generale. Sei un grande conoscitore della mafia, e questo mi basta per pensare che hai scritto in riferimento alle ultime ordinanze. Oltre a leggerle, vanno inquadrate nella loro complessità e dando importanza ai dettagli. Iniziamo dai dettagli. Il fine pena residuo. Converrai con me che se mancano dieci anni o dieci mesi non è proprio la stessa cosa. Il pubblico ministero e il suo parere favorevole. Non è che la mafia la conoscano solo cinque o sei pubblici ministeri, e anche qui spero converrai con me. Inoltre, mi ha colpito la richiesta di uno dei detenuti al 41 bis andato in differimento della pena. La riassumo: fatemi curare, dove volete voi, basta che mi fate curare. Umano, non ti pare? I dettagli sono importanti, coglierli aiuta, sono il pane quotidiano di ogni (bravo) magistrato. Veniamo alla complessità. Non voglio discutere dei precedenti giurisprudenziali, mi diresti che hanno sbagliato tutto. Nemmeno del fatto che ogni giudice, se coraggioso, può farsi precedente da solo, almeno quando la legge usa formule elastiche (grave infermità psico-fisica). E lascio da parte la questione se è meglio rifarsi a formule elastiche (il senso di umanità) o ad un elenco di condizioni che riteniamo incompatibili con il carcere (donna incinta, AIDS conclamato, Parkinson, Alzheimer). Mi interessano altre due questioni. La prima. Se monta lo scandalo sui giornali, gli esiti si faranno sentire. Il che va bene, ma il punto è come monta questo scandalo. Scambio di idee informate, di opinioni differenti? Dialogo insomma? Non mi pare proprio. Si straparla, il più delle volte. Come quando nel caso Viola la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia e il giornale per il quale scrivi ha intitolato “hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Una follia, che peraltro non è stata ripetuta quando la Corte costituzionale è intervenuta sull’ergastolo ostativo e i permessi premio. Ecco, la Consulta: quando dovrà decidere su queste tematiche, magari sul divieto di differimento per i 41 bis o altre simili ingegnate, sarà influenzata dalla polemica di oggi. Ti ripeto: fare pressione va bene, ma per Dio che sia informata (la lettura delle decisioni) ed esista un dialogo franco e aperto (tra diversi giornali, ma anche dentro lo stesso giornale, dando la parola a pensieri differenti). Concludo. Ti sei scagliato contro la sorveglianza, lo spirito dei tempi, i diritti umani, la Corte di Strasburgo (anche a te è scappata la Consulta, chissà perché). Ognuno ha i suoi elenchi, ci mancherebbe. Ti voglio però ricordare i casi nei quali la pena, se a tempo determinato, termina al 41 bis. Passi dal 41 bis direttamente a casa, libero, con tutte le restrizioni del mondo, ma libero. Sembra irreale, incredibile. Invece capita, e spesso. Sai che ti dico? Che non ha alcun senso. Chissà se è a favore di Abele. Bonafede sceglie l’ex pm antimafia Tartaglia per la vice direzione delle carceri di Liana Milella La Repubblica, 29 aprile 2020 Dopo le scarcerazioni dei boss, resta al suo posto il direttore Basentini, ma la nomina dell’attuale consulente della commissione Antimafia cambierà gli equilibri e rappresenta uno stop a qualsiasi cedimento alla criminalità. Mossa a sorpresa sul carcere e sulla direzione delle prigioni italiane del Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Dopo le rivolte di febbraio e dopo le recentissime scarcerazioni dei boss di mafia, camorra e ‘Ndrangheta autorizzate dai magistrati di sorveglianza, ecco la nomina di un vice direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È Roberto Tartaglia, notissima toga antimafia, un napoletano che per dieci anni ha svolto la sua carriera di pubblico ministero a Palermo, seguendo le più importanti inchieste e facendo esperienza in prima linea sulle trasformazioni criminali di Cosa nostra. Ma sempre con una stella polare, Giovanni Falcone, la sua vita e i misteri della sua morte. Anche alla commissione parlamentare Antimafia, dove attualmente era consulente chiamato dal presidente Nicola Morra, Tartaglia ha continuato a lavorare su Falcone e su Paolo Borsellino, desecretando gli atti che li riguardavano. Di lui Morra dice: “È un chiaro e determinato segnale di cambio di passo da parte del ministero. Tartaglia ha fronteggiato, insieme a Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene il fondamentale processo Trattativa Stato Mafia, ma anche la gestione di detenuti come Riina, Bagarella, i fratelli Graviano”. Ma c’è di più per poter parlare dell’uomo giusto al posto giusto, perché Tartaglia, come scrive via Arenula nel comunicato che annuncia la nomina, “nella sua carriera, è stato in particolare delegato alla gestione di numerosi detenuti sottoposti al regime del 41-bis, e fra questi ci sono Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Antonio, Giuseppe e Salvatore Madonia, Salvatore Lo Piccolo”. Alla vigilia di un decreto legge delicato, quello annunciato da Bonafede per giovedì, in cui sarà inserita la regola che prima di qualsiasi scarcerazione di boss mafiosi, soprattutto di quelli detenuti al 41-bis, cioè il carcere con maggiori restrizioni dovute alla caratura criminale dei soggetti che sono rinchiusi, i magistrati di sorveglianza dovranno chiedere il parere obbligatorio dei colleghi della procura nazionale Antimafia e delle singole Direzioni distrettuali Antimafia, la nomina di Roberto Tartaglia è un preciso segnale. Che va nella direzione più volte ribadito dallo stesso Bonafede in queste ultime ore, “nessun cedimento nella lotta alla mafia”. Inevitabile però, a questo punto, porsi il problema del significato della nomina di un uomo forte ed esperto come Tartaglia rispetto all’attuale capo del Dap Francesco Basentini, anche lui magistrato, pm a Potenza, dove ha seguito anche l’inchiesta Tempa Rossa, quella del caso Guidi. Siamo di fronte a una sorta di commissariamento? Erano vere le voci che, dalle rivolte in avanti, davano Basentini pronto a fare i bagagli? Bonafede voleva effettivamente sostituirlo? Quanto ha influito la scarcerazione di Pasquale “Bin Laden” Zagaria, noto boss camorrista, mandato ai domiciliari a Brescia, con i magistrati di sorveglianza di Sassari che scrivono nel provvedimento di non aver avuto indicazioni dal Dap su dove mandarlo, mentre il Dap sostiene il contrario, ma ha poche carte per dimostrarlo? E ancora: quanto ha pesato la circolare del 21 marzo che, dall’ufficio detenuti del Dap, chiede ai direttori di mandare ai magistrati di sorveglianza non solo l’elenco di detenuti con patologie, ma anche di quelli over 70 per verificare la compatibilità col carcere? Testo interpretato di fatto come una via alle scarcerazioni, quindi politically incorrect. Sicuramente Basentini - negli ambienti di via Arenula - viene considerato un capo che non ha affatto brillato nel suo lavoro, a cominciare da una riunione, appena nominato, con i magistrati di sorveglianza, per chiedere il rientro delle guardie penitenziarie dislocate nei loro uffici e sentirsi dire che, come conseguenza, il numero delle decisioni sulla concessione dei domiciliari sarebbe calato repentinamente. Non basta. Basentini non ha brillato nella gestione delle rivolte di febbraio, quando è stato accusato dai singoli direttori di essere rimasto a Roma senza monitorare de visu quello che stava accadendo. E senza riuscire ad avere un rapporto forte con i sindacati della polizia penitenziaria. Il malumore del Guardasigilli nei suoi confronti, per chi ne ha potuto parlare con lui, sarebbe stato palpabile, tant’è che più volte si sono rincorse voci di una possibile sostituzione di Basentini, sempre smentita dallo stesso ministro, con la motivazione che non si cambia un capo delle patrie galere mentre il palazzo brucia. Ma più voci si sono rincorse su colloqui dello stesso Bonafede con magistrati per verificarne la disponibilità a prendere il posto di Basentini. Ma è significativo che lo stesso Bonafede, in questa situazione difficile, non abbia mai dato un’intervista sulle rivolte in carcere nella quale avrebbe dovuto rispondere anche su Basentini. La circolare del 21 marzo ha fatto precipitare la situazione. Con l’aggravante che il foglio, che qui riproponiamo, è stato fatto firmare da Assunta Borzacchiello, per anni efficientissima addetta stampa del Dap, pronta in qualsiasi momento a fornire le indicazioni giuste per affrontare il complesso mondo delle galere. Quindi senza l’assunzione di responsabilità di un capo per una circolare gravida di possibili e dannose conseguenze, poi di fatto verificatesi. Le scarcerazioni di sei boss ha fatto il resto. E certo non ha giovato a Basentini una pessima performance domenica sera in una trasmissione televisiva in cui non è riuscito a spiegare cosa fosse in realtà accaduto per la scarcerazione di Zaccaria. Commettendo anche alcuni errori tecnici, come quello di sostenere che ormai le decisioni sanitarie sono tutte esterne alle prigioni. Mentre è noto che esistono i presidi sanitari e i centri di eccellenza (a Milano, a Viterbo, a Roma) dove, da sempre sono stati ricoverati detenuti malati ma al 41-bis. Valgano per tutti i casi Riina e di Provenzano: il primo muore a novembre del 2017 negli ospedali riuniti di Parma, il secondo nel luglio dell’anno prima detenuto a Milano. Ma di certo non vengono messi ai domiciliari com’è avvenuto per Zagaria che adesso se ne sta tranquillo a Brescia con la moglie. Basentini, comunque, resta al suo posto, affiancato però da un magistrato esperto come Tartaglia che certo potrà evitare, per la sua esperienza, casi come quelli finora accaduti. Il pm antimafia Tartaglia vicecapo Dap. Palma: “Il carcere non è solo 41 bis” di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 aprile 2020 “Commissariato” il numero uno, Francesco Basentini. La presidente della Consulta, Marta Cartabia, suggerisce alla magistratura di sorveglianza di “perseguire le finalità rieducative del condannato”. La recente polemica sulle scarcerazioni anticipate di alcuni boss mafiosi, ultra-settantenni e troppo a rischio in caso di contagio da Covid-19, che ha investito il Dipartimento di amministrazione penitenziaria facendo traballare la poltrona più alta, deve aver convinto proprio il numero uno, Francesco Basentini, ad ingoiare il rospo. Da ieri, infatti, per decisione del ministro di Giustizia Alfonso Bonafede, alla guida del Dap il capo non sarà più solo ma sarà affiancato dal pm antimafia Roberto Tartaglia, napoletano di 38 anni, un magistrato che era stato già proposto per la Direzione generale detenuti senza incontrare il plauso di Basentini. D’ora in poi sarà il suo vice, ed è un sollievo per i tanti addetti ai lavori che non ritengono l’attuale capo del Dap all’altezza della fase emergenziale che sta investendo il carcere. Attualmente consulente della commissione Antimafia, a 27 anni è arrivato a Palermo dove è stato per dieci anni sostituto procuratore e membro della Direzione distrettuale antimafia. Ha fatto parte del pool di inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia e ha seguito la gestione di alcuni detenuti e collaboratori di giustizia eccellenti come Riina, Provenzano (il cui “colonnello” Francesco Bonura è tra coloro che una settimana fa hanno ottenuto i domiciliari), Lo Piccolo, i fratelli Graviano e i Madonia, per esempio, tutti sottoposti al regime duro del 41 bis, o i pentiti Brusca e Spatuzza. Insomma, una personalità che di certo non può essere accusata di favorire i boss mafiosi e che perciò accontenta i grillini di stampa e di regime. Però tra coloro che operano in carcere e si occupano di diritti dei detenuti c’è anche chi mostra qualche preoccupazione: “Non ho nulla da eccepire sul nome però trovo disdicevole che ancora una volta si scelga un Pm ai vertici del Dap - commenta la Radicale Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino - gente che non ha mai messo piede in un carcere, luogo dove i principi costituzionali della pena sono sconosciuti”. Il Garante dei detenuti Mauro Palma saluta “positivamente” la nomina, “soprattutto perché quel ruolo era scoperto da tempo”, ma raccomanda di non ridurre ogni intervento sul carcere ai “9.832 detenuti odierni in regime di alta sicurezza o di 41-bis”. Piuttosto l’ufficio del Garante invita a riflettere di più “sulle possibili misure volte a ridurre l’affollamento carcerario”, non solo per arrivare a “rispettare la capienza effettiva degli Istituti di pena” (46.731 posti occupati da 54.168 persone) ma, essendo il numero di detenuti positivi già prossimo ai 150, Palma chiede “di non colmarla nella sua totalità, data la necessità che può sempre porsi di avere spazi disponibili per eventuali separazioni e isolamenti”. Anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, avverte: “La gestione delle carceri richiede una visione generale che tenga conto di bisogni educativi, di integrazione sociale, di salute e di sicurezza. Il management penitenziario deve gestire dunque un mondo complesso. Ci auguriamo che di questo se ne tenga conto in tutte le successive azioni di governo. Ad esempio in questa fase sarebbe importante, anzi decisivo, assumere almeno 300 nuovi direttori di carcere che possano con motivazione affiancarsi ai tanti impegnati sul territorio”. La nomina arriva casualmente proprio nel giorno in cui la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, dopo aver ricordato, nella relazione annuale sulle attività della Consulta, le sentenze n. 99, sull’applicabilità dei domiciliari ai “condannati affetti da gravi malattie psichiche sopravvenute” in carcere, e n. 253, “che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4-bis, comma 1, o.p. nella parte in cui non consente” ai condannati per mafia e terrorismo “la concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia”, suggerisce alla magistratura di sorveglianza di “perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete”. Bonafede nomina il pm Roberto Tartaglia vicecapo del Dap di Francesco Grignetti La Stampa, 29 aprile 2020 Mossa a sorpresa del ministro della Giustizia che indica il giovane pubblico ministero di Palermo che si occupava con Nino Di Matteo dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. È con una mossa a sorpresa che il ministro Alfonso Bonafede cerca di uscire dal pantano delle critiche sulla gestione delle carceri. Ha scelto come vicecapo dell’amministrazione penitenziaria un giovane pm di indiscusso carisma, Roberto Tartaglia, napoletano, 38 anni, pubblico ministero a Palermo da 10 e lì titolare assieme a Nino Di Matteo del fascicolo sulla Trattativa Stato-Mafia. Non un brusco avvicendamento con l’attuale responsabile, Francesco Basentini, ex procuratore capo di Potenza, ma quasi. La posizione di Basentini era già stata minata dopo le rivolte nelle carceri all’inizio dell’emergenza sanitaria. Una picconata quasi irrimediabile arriva però dallo scandalo delle scarcerazioni di boss mafiosi. Non che si possano addebitare a Basentini le scelte di tanti magistrati di sorveglianza. Un’improvvida circolare ai direttori degli istituti, però, invitati a “segnalare” alla magistratura di sorveglianza i detenuti ultrasettantenni da esaminate per la scarcerazione, senza distinguere tra soggetti ordinari e mafiosi sottoposti al 41 bis, è risuonata come un tacito invito a mettere tutti fuori. E il caso della scarcerazione del boss camorrista Pasquale Zagaria ha fatto il resto, essendo emersa una gestione del tutto burocratica da parte dell’amministrazione per un personaggio di tale levatura criminale. Bonafede a questo punto spera nel colpo d’immagine di Tartaglia. Il magistrato ha un curriculum di tutto rispetto. Attualmente è consulente della commissione parlamentare Antimafia. E infatti il suo presidente Nicola Morra si spende in un elogio a tutto tondo di Tartaglia: “L’indicazione del ministro Bonafede è un chiaro e determinato segnale di cambio di passo. Tartaglia ha fronteggiato, insieme a Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene il fondamentale processo Trattativa Stato Mafia, ma anche la gestione di detenuti come Riina, Bagarella, i fratelli Graviano. In commissione Antimafia, insieme agli altri magistrati consulenti ha lavorato alla desecretazione degli atti su Falcone e Borsellino. Sono soddisfatto di questa nomina perché diamo un chiaro segnale a chi crede che i mafiosi possano tornare a casa. Un augurio sincero di buon lavoro”. Il senso della scelta è palese. Tartaglia è uno che di mafia ne capisce. Ha seguito indagini e processi legati agli assetti mafiosi più attuali, occupandosi di alcuni dei mandamenti più importanti del capoluogo siciliano. E lo stesso ministro della Giustizia rimarca che “nella sua carriera è stato delegato alla gestione di numerosi detenuti sottoposti al regime del 41 bis, come Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Antonio, Giuseppe e Salvatore Madonia, Salvatore Lo Piccolo”. Ovvero i boss più pericolosi di Cosa Nostra. Sembrano soddisfatti molti sindacati di polizia penitenziaria. “Il curriculum di Tartaglia - dice ad esempio Giuseppe Moretti, dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria - fa ben sperare anche per affrontare la gestione delle emergenze”. Ma Tartaglia ha fama di grande efficienza e conoscenza della modernità. Qualche mese fa, quando si parlava di lui come di un possibile sostituto di Raffaele Cantone alla guida dell’Anticorruzione, parlava così al Fatto quotidiano: “La grande sfida è abbinare il dovere del rispetto della legalità con l’obiettivo dell’efficienza degli appalti”. E però conosce anche la storia italiana, i suoi vizi atavici. Diceva all’agenzia di stampa Agi qualche settimana fa, in un parallelismo tra la Napoli ottocentesca e l’Italia attuale: “Dalla legge del risanamento napoletano del 1885, che seguì proprio ad una epidemia di colera e che causò, per dirla in breve, effetti decennali di corruzione, appalti eseguiti male, politiche clientelari e rafforzamento esponenziale della potenza camorristica, a gran parte delle altre emergenze più recenti, la storia del nostro Paese mostra le tracce impietose della cronica sottovalutazione di questi frangenti di vulnerabilità. Ignorarli per inseguire il fine della “ripartenza a qualunque costo” non è solo eticamente inaccettabile, ma anche tremendamente illusorio: significa far finta di non vedere che in questo modo si costruiscono economie malate già in partenza”. Resa dei conti al Dap: partito il totonomine di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2020 Oramai è quasi certo. Cambieranno i vertici del Dap per volere del ministro della Giustizia. I nomi che circolano per la sostituzione di Francesco Basentini sono quelli di Catello Maresca e Giovanni Melillo. Mentre Roberto Tartaglia è stato indicato per ricoprire l’incarico di vice. Il motivo? Le polemiche sui domiciliari concessi per gravi motivi di salute ad alcuni detenuti reclusi al 41 bis. Eppure non si spiega cosa c’entri l’amministrazione penitenziaria con i provvedimenti della magistratura di sorveglianza. Le indignazioni veicolate dai media hanno scatenato un urgano tanto che il guardasigilli ha annunciato che introdurrà una nuova norma che inciderà sul lavoro dei magistrati di sorveglianza, quando devono decidere sulle istanze per i detenuti che si sono macchiati di reati mafiosi. Nel frattempo Bonafede ha già scritto al Csm per chiedere di nominare come vicecapo del Dap il magistrato napoletano Roberto Tartaglia, per dieci anni pm a Palermo e ora consulente della commissione Antimafia. Una scelta che non coglie nessuno di sorpresa. Tartaglia è uno dei magistrati che ha imbastito il processo sulla presunta trattiva Stato- mafia, una tesi che è il caposaldo della retorica grillina. La scelta quindi non è casuale, soprattutto dopo le recenti esternazioni di Nino Di Matteo, membro togato del Csm, che a proposito dei domiciliari ha parlato di uno Stato che si sarebbe piegato alla logica mafiosa. Sono pensieri che sono le basi del teorema giudiziario sulla trattativa. L’allora ministro Giovanni Conso, attenendosi alla sentenza numero 349 del 28 luglio del 1993 della Consulta, non prorogò il 41 bis a 18 mafiosi (su un nominativo di 336 persone). Secondo la tesi giudiziaria sarebbe stato un chiaro patto con la mafia. I pensieri ritornano quando non ci si capacita che esiste la detenzione domiciliare per ragioni di salute dell’art. 47ter, comma 2 bis, il quale prevede una forma di detenzione domiciliare per qualsiasi titolo di reato senza limiti di tetto di pena con un sistema “a termine” imperniato sullo stato di avanzamento della malattia legato a successive verifiche da parte del Tribunale di Sorveglianza che l’ha concessa. Traballa anche il posto del capo del Dap Francesco Basentini e si rincorrono nomi di possibili sostituti. Come quello del sostituto procuratore presso la Dda di Napoli, Catello Maresca. Colui che nel 2011 ha tratto in arresto il capo dei casalesi Michele Zagaria e ancor prima il fratello del boss. Ovvero Pasquale, la pietra dello scandalo dei domiciliari. Tra i papabili c’è anche Giovanni Melillo, il Procuratore della Repubblica di Napoli. Tra i nomi del possibile avvicendamento c’è anche il magistrato Sebastiano Ardita, consigliere del Csm. Resta il fatto che le accuse nei confronti del capo del Dap sono del tutto prive di fondamento. Soprattutto quelle avanzate da Giletti, permettendogli di non rispondergli come si deve. Il Dap ha poco a vedere con l’assistenza sanitaria. Quest’ultima è garantita dal ministero della Salute. Tutti i programmi di controllo sono gestiti appunto dal sistema sanitario nazionale, anche per la gestione degli interventi predisposti nell’ambito delle misure alternative, sia che riguardino l’affidamento ad un servizio di cura, ivi comprese le Comunità terapeutiche, sia nel caso degli arresti domiciliari. Così come, le aree sanitarie interne. Infatti è compito del ministero della Salute (a sua volta regioni e Asl di competenza) garantire che nei centri clinici ci siano, compatibilmente con le misure di sicurezza, condizioni ambientali e di vita rispondenti ai criteri di rispetto della dignità della persona. Non tutte le patologie, tra l’altro, sono compatibili con i centri clinici delle carceri. Motivo per il quale si verifica il ritardo nel dare il nulla osta al Dap. Tanti, troppi detenuti muoiono in carcere a causa di patologie mal curate, oppure diagnosticare troppo tardi. Ma nessuno si indigna e non ci sarà nessun Giletti a parlarne. Le indignazioni e le invocazioni di dimissioni arrivano soltanto quando un detenuto esce proprio per evitare la morte. Travaglista vero, antimafioso di professione di Piero Sansonetti Il Riformista, 29 aprile 2020 Pare che indagasse su Riina (ma aveva dieci anni, allora...) e su Messina Denaro (ma è ancora libero). L’esultanza di Morra che dice: “mafiosi prigionieri di guerra”. E allora vale la convenzione di Ginevra? Si chiama Roberto Tartaglia ed è stato indicato da Bonafede come vice del Dap. In realtà sarà lui il numero 1 perché Basentini, scaricato anche da Unicost (la sua corrente) è delegittimato. È un magistrato a 5 Stelle al quadrato. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ormai è delegittimato. Messo alla porta prima da Renzi, poi da Giletti, poi dai davighiani, poi da Bonafede. Renzi aveva chiesto che fosse rimosso per via dei 13 morti in carcere durante la rivolta. È caduto invece per ragioni opposte: hanno scaricato su di lui la colpa di avere consentito la scarcerazione di due detenuti in fin di vita. Si sa che i moribondi si tengono in cella, che diamine! ‘Sto Basentini deve aver confuso l’Italia con un Paese civile. Sciò. Non lo hanno ancora sostituito ma lo hanno commissariato. La biografia del commissario, cioè di questo ex Pm Tartaglia, è riassumibile in poche parole: allievo di Di Matteo. Di Matteo sarebbe quel membro del Csm che ha accusato la sua collega milanese che aveva scarcerato un detenuto ottantenne, più o meno, di “intelligenza con la mafia”. Cioè di avere ceduto al ricatto. Diciamo, a occhio, favoreggiamento. Di Matteo è l’ex Pm che credette al pentito Scarantino, che si era inventato tutto (o era stato imbeccato) e in quel modo mandò a puttane le indagini sull’uccisione di Borsellino. Di Matteo è quello che ha dato l’anima per mandare a processo il generale Mori, cioè uno dei pochi che dopo la morte di Falcone ha proseguito la sua opera di lotta alla mafia, giungendo, dopo 30 anni di latitanza, all’arresto del capo della mafia, cioè di Riina. A Tartaglia non possono essere addebitate le responsabilità del suo maestro, ovvio. Ma se volete indovinare la sua dottrina serve conoscere il suo maestro. È quella squadra lì. E infatti un altro grande eroe dell’antimafia professionale, Nicola Morra, 5 Stelle doc, ha esultato per la sua nomina, peraltro avvenuta per decisione del ministro cinquestellissimo, Bonafede. Per la verità, nella biografia ufficiale di Roberto Tartaglia, diffusa anche dall’Ansa, c’è scritto che ha indagato sui corleonesi di Totò Riina e ha svolto indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. Vabbè: Riina è stato catturato (dal generale Mori, cioè quello che Tartaglia ha contribuito a mettere sotto processo) nel gennaio 1993: Tartaglia aveva 10 anni. Quinta elementare. E Messina Denaro, se non siamo male informati, è ancora libero. Ecco: le carceri ora sono in mano a questo qua. Al “piccolo Di Matteo”. Chi di noi mai avrebbe pensato che dopo nemmeno due anni avremmo rimpianto lacrimando i tempi di Orlando come tempi di ipergarantismo? Quante critiche ingiuste a quel povero ministro! (Magari, se oggi dicesse qualche parola liberale anche lui non sarebbe male…). Oggi la situazione è questa. I rosso-bruni marciano trionfanti nei palazzi della politica e in quelli della Giustizia. Sembrano inarrestabili. Avanzano senza paura di nessuno, e la gran parte di quelli che in passato si era un po’ opposta, ora gli va dietro. Tartaglia negli ultimi tempi ha fatto il consulente di Morra all’antimafia. Volete che vi parli due minuti di Morra? Beh, basta dare un’occhiata all’auto-intervista che ha fatto pubblicare ieri dalla Stampa. In questa auto-intervista ci sono due perle. La prima, di tipo squadrista, sono le minacce ai pochi giornalisti, agli avvocati, e ai pochissimi politici che si sono battuti per l’indulto o per qualche misura di riduzione del numero dei carcerati (forse nella lista dei nemici Morra ha segnato anche il Papa e il Presidente della Repubblica). Minacce generiche ma pesanti. Sembra di capire che Morra voglia usare l’antimafia per indagare su di loro (su di noi). Indagare per che cosa? Beh, un concorso esterno non si nega a nessuno. La seconda perla è clamorosa. Morra dice che i mafiosi non devono essere scarcerati mai perché sono prigionieri di guerra. Oddio, prigionieri di guerra? Ma lo sa Morra che se sono prigionieri di guerra vanno trattati da prigionieri di guerra? Che vuol dire? Innanzitutto che è proibito chiedergli informazioni, e dunque tutte le dichiarazioni dei pentiti dal 1981 a oggi sono illegali e prive di valore e tutti i processi di mafia vanno annullati. Quelli passati, quelli presenti, quelli futuri. Il pentitismo è finito. Bisogna tornare a fare indagini e raccogliere prove. Un vero disastro. Poi che i detenuti per mafia non possono essere isolati, e quindi salta il 41 bis. Devono essere trattati alla stregua di ufficiali dell’esercito regolare. E sul loro trattamento deve vagliare la Croce Rossa Internazionale. È anche possibile la richiesta che siano consegnati a uno stato neutrale. Questo povero Morra, diciamo la verità, di politica e di storia ne sa poco (insegnava filosofia, credo…), è finito lì in Parlamento un po’ per caso nell’andata degli uno-vale-uno. Ne può combinare di guai. Il problema è che uno degli aspetti più delicati nella vita di una nazione democratica, e cioè l’aspetto carcerario - e anche quello della giustizia - sono affidati a lui, a Bonafede, a Tartaglia e a gente così. Capite? Il clan della forca lincia i giudici per linciare i diritti di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 29 aprile 2020 Bonura e Zagaria sono stati scarcerati perché malati di cancro. Ma il partito dei pm non lo dice e diffama i magistrati di Sorveglianza. Che devono essere abbattuti e sottomessi allo Stato di polizia. Lungi dal placarsi, l’inverecondo linciaggio di magistrati di Sorveglianza che fanno solamente il loro dovere, il loro difficilissimo ed ingrato mestiere, aggiunge ogni giorno sassi scagliati senza il benché minimo sentimento di misura, di rispetto della verità, e di senso del pudore. Stando alla solita filiera mediatico-giudiziaria dei guardiani della ortodossia politica, etica e legalitaria che imperversa senza freni nel nostro Paese, dobbiamo allora necessariamente presumere che magistrati di Sorveglianza da sempre ansiosi di sguinzagliare liberi ed impuniti per il Paese mafiosi, ndranghetisti, terroristi e criminali di ogni genere e natura, abbiano colto la ghiotta occasione della pandemia per realizzare finalmente la turpe missione alla quale hanno votato la propria toga. Occorrerebbe almeno che ci venisse data una spiegazione. Chi sarebbero, costoro? Giudici imbelli? Ricattati? Corrotti? Intimoriti? Sodali di quei criminali? Mi rendo conto che riuscire a ottenere una risposta, o almeno avviare una riflessione, mentre fischiano i sassi di questa indignazione berciante, protetta da un conformismo protervo e stomachevole, è impresa impossibile. E tuttavia, mentre puntuali giungono le notizie di ispezioni e tonitruanti riforme normative di stampo poliziesco, nemmeno è possibile rassegnarsi, tacendo di fronte a questo spettacolo indecoroso, indifferente ai fatti. Che sono due. Il primo riguarda un signore che ha espiato pressoché per intero la pena inflitta di poco più di 14 anni di reclusione, per gravi fatti di estorsione e altri reati connessi di stampo mafioso. Detratta l’ultima quota di sicura liberazione anticipata (ha già fruito legittimamente delle precedenti), sarebbe uscito dal carcere tra otto mesi. Senonché, ha un cancro al colon in uno stadio che - apprendiamo il Tribunale di Sorveglianza ha accertato essere talmente avanzato da determinare una condizione di incompatibilità con il permanere (per quei residui otto mesi) in carcere. Gli indignados che straparlano di inaudito cedimento al ricatto mafioso hanno dunque notizia che tale condizione sia falsa, o pretestuosa, o ingigantita ad arte? Non ho letto nulla del genere; non una tra quella pioggia di vituperanti e fiammeggianti parole di sdegno si è soffermata su questa senz’altro allarmante ipotesi. Nemmeno ci viene spiegato cosa cambierebbe, per la sicurezza sociale messa così irresponsabilmente in pericolo, l’anticipazione di qualche mese di quella libertà che il detenuto avrebbe comunque e definitivamente riguadagnato tra una manciata di settimane. Perché vi comunico una notizia su come funzionano le cose: perfino un mafioso, quando ha scontato la pena inflittagli, ritorna libero tra di noi. Oddio, i guardiani della pubblica moralità potrebbero cogliere l’occasione per proporre il carcere a vita per qualunque reato di mafia, e questo - mi diano retta - è il governo giusto per provarci con successo. Nel frattempo tuttavia le cose funzionano come vi ho detto. Il secondo è un condannato per fatti di camorra che ha un cancro alla vescica, giunto a uno stadio che richiede cure specialistiche indisponibili nel carcere dove attualmente è ristretto. Il Tribunale chiede formalmente al Dap di indicargli altra struttura detentiva attrezzata all’uopo, dove trasferire il malato. Il Dap non risponde, e dopo oltre venti giorni di silenzio il Giudice di Sorveglianza, al quale non possiamo chiedere né di cancellare d’imperio il diritto alla salute del detenuto, né di assumersi responsabilità gravissime e personali, lo scarcera perché possa curarsi. In quale modo, per quale ragione minimamente seria e credibile si deve immaginare che un Paese civile possa crocefiggere quei giudici? Occorre allora rassegnarsi a un dato di fatto: esistono magistrati di serie A e magistrati di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo, senza attendere di sapere (e sarebbe decisamente il caso) se e quanti di quegli arrestati saranno poi giudicati effettivamente colpevoli; e magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Se osi dire una parola sui primi, sarai crocefisso; se lanci la prima pietra sui secondi, seguirà linciaggio di massa, e l’immancabile decreto-legge: per aumentare il potere dei primi, guarda caso. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Coppi: “I diritti valgono anche per i mafiosi” di Giuseppe Alberto Falci huffingtonpost.it, 29 aprile 2020 Intervista a Franco Coppi, professore emerito di diritto penale: “Se in prigione non si può essere curati, si deve uscire: la Costituzione impedisce la disumanità. C’è anche la grazia”. “Nessuna isteria, nessuna emotività ma princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Nei giorni del coronavirus succede anche questo: Pasquale Zagaria, super boss della Camorra e fratello di don Michele (capoclan dei Casalesi), esce dal carcere per motivi di salute, a casa pure il capomafia di Palermo, Francesco Bonura. Su questo tema ascoltiamo il parere di Franco Coppi, professore emerito di diritto penale, nonché illustre avvocato di imputati come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. “Per me - insiste - lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità e senza lasciarsi condizionare dalla isteria del momento. Ripeto, ci sono dei princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Professore Coppi, dunque ci sono delle regole generali che garantiscono la salute di tutti i detenuti. Ma qui il punto è un altro: è giusto o non è giusto che anche capi della mafia o della camorra usufruiscano di queste garanzie? Certo che è giusto, non c’è una limitazione sotto questo punto di vista alla eventuale gravità dei reati commessi o meno. È un principio di carattere generale. D’altra parte, non deve dimenticare l’articolo 27 della Costituzione che stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità. Ora lasciare in carcere una persona che è affetta da malattia, che nel carcere non può essere curata, e potrebbe portare alla morte, trasformerebbe quella pena in un trattamento disumano. Quindi si deve tener conto di questi princìpi fondamentali. E lo stesso ordinamento penitenziario vuole che vengano rispettati i diritti fondamentali dell’imputato detenuto, e fra i diritti fondamentali c’è il diritto alla salute. Anche se può dispiacere che un boss di quel calibro possa riavere “la libertà” sta di fatto che la legge è questa e va rispettata nei confronti di tutti. Però il 41bis prevede che si possa anche fare in un regime ospedaliero. Non a caso c’è una frase presente nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari, che hanno consentito l’uscita dalla prigione sarda di Zagaria, che ha sollevato polemiche: “Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale, […], ma non è pervenuto alcuna risposta, neppure interlocutoria”. Dunque, la colpa è del capo del Dap, Francesco Basentini? Il problema è di verificare se correvano le condizioni per adottare il provvedimento. Se ricorrevano le condizioni, doveva essere adottato il provvedimento e non vedo perché possano essere affermate responsabilità di questo o di quello. Nel frattempo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si dice pronto a intervenire per correre ai ripari, e Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, rincara la dose: “Stiamo tutti piangendo la morte a Napoli di un agente di polizia morto sul dovere. [...] Ma è devastante assistere alla scarcerazione di boss mafiosi contemporaneamente oggi con la morte di agenti di polizia”. Si tratta di una reazione emotiva di un certo tipo di giustizialismo che continua a portare voti e soffia forte nel Paese? Bene, queste sono quelle cose che si possono dire sotto la spinta dell’emozione del momento. Bisogna ragionare a mente fredda. Se anche un boss mafioso sta morendo in carcere perché lì non ci sono le condizioni per poterlo curare, a quel punto va trasferito in un posto dove essere curato. Comunque la detenzione può essere trasformata in detenzione ai domiciliari per il periodo necessario a che lui recuperi un grado accettabile di salute. Anche alcuni magistrati, tra cui Nino Di Matteo e Cafiero De Raho, sbottano: “Lo Stato è debole e cede ai ricatti dei mafiosi”. Qualcuno arriva a paventare una pax tacita tra lo Stato e la mafia... Lo Stato dimostra la sua forza proprio anche nell’amministrare la giustizia con equanimità. Lo Stato non è lì per vendicarsi o per castigare ciecamente. Il suo distacco e la sua distanza dal delinquente sta proprio nel trattare quest’ultimo come essere umano. E in questo sta proprio la grandezza dello Stato. È la stessa ragione per la quale non si applica la pena di morte all’assassino: il rispetto per la vita è tale che lo Stato lo tutela perfino nei confronti di chi ha tolto la vita ad altri. Questo è il principio. Così facendo però si reinserisce nel suo ambiente originario un super boss. Non crede che siano necessarie delle misure di sorveglianza e cautela per la tutela della popolazione? Certo poi il giudice può disporre delle eventuali misure, penso allo stesso braccialetto elettronico che permette di controllare gli spostamenti. Quando si parla di 41 bis i detenuti sono tutti uguali, o si fanno delle distinzioni fra chi ha commesso crimini sanguinari e chi ha comportamenti meno efferati? Zagaria è uguale a Cutolo? Il problema è che uno, Zagaria, è affetto da una malattia e da uno stato di salute incompatibile con il regime carcerario rispetto a Cutolo o altri che non si trovano in questa situazione. Ecco per loro i rimedi per porre i termini a una carcerazione che sia particolarmente lunga, rispetto alla quale non ha più un senso una prosecuzione, ci sono. Ad esempio, si potrebbe pensare al rimedio della grazia. Non è scritto da nessuna parte che a un certo momento una persona non possa ottenere una riduzione della pena. O un provvedimento favorevole. Qui, nel caso di Zagaria, stiamo parlando sì di un super-boss ma che si trova in uno stato di salute non compatibile con il regime carcerario. Insomma dopo quarantacinque anni di carcere anche uno come Raffaele Cutolo, ribattezzato “Don Rafè”, capo della “Nuova Camorra Organizzata”, ha chiuso la partita con lo Stato? Senta, io con riferimento a casi specifici non mi pronuncio. La pena deve tendere alla rieducazione. Sono dell’idea che nella misura in cui fosse riconosciuto il raggiungimento di questa finalità, la pena non avrebbe più ragione di essere eseguita. Mi rendo conto che sono valutazioni molto difficili, molto delicate, è scritto nella Costituzione che la pena deve tendere a quel risultato. Se lo ha raggiunto, è legittimo chiedersi se ha un senso la prosecuzione della pena. Per concludere questa intervista la riporto all’inizio dell’emergenza Covid, a quando ci sono state le rivolte carcerarie. Ecco, quale ruolo possono avere avuto? Qualcuno paventò una regia... Spero che non abbiano avuto nessuna influenza. Il pm Maresca contro il buco nero dell’amministrazione penitenziaria di Annalisa Chirico Il Foglio, 29 aprile 2020 Carceri inadeguate per affrontare l’emergenza sanitaria, boss mafiosi ai domiciliari. Il sostituto procuratore di Napoli: “Così vengono vanificati gli sforzi dell’autorità giudiziaria. E la credibilità dello stato va in frantumi”. “La credibilità dello stato è andata in frantumi”, così Catello Maresca, sostituto procuratore generale di Napoli, commenta l’ondata di scarcerazioni in seguito a una circolare del Dap che ordina agli istituti di pena di censire i “soggetti a rischio” per età o patologie. Il risultato è che, tre giorni dopo, il boss siciliano Francesco Bonura è uscito di cella, e con lui oltre trenta detenuti appartenenti alla criminalità organizzata sono stati scarcerati. Tra i nomi di spicco quello di Pasquale Zagaria, fratello del boss dei casalesi Michele, recluso al 41bis e adesso ai domiciliari per una grave patologia. “Un capo mandamento che torna in libertà provoca danni diretti e indiretti - prosegue Maresca - In primo luogo, rappresenta un pericolo per l’intero territorio: i luogotenenti si riattivano, raccolgono le direttive e danno nuova linfa a un sistema illecito individuato grazie alle operazioni effettuate da magistrati e polizia giudiziaria. Le faccio un esempio: un imprenditore, che denuncia l’estortore, può riporre ancora la propria fiducia in uno stato che libera il condannato prima che sconti interamente la pena?”. Ma i domiciliari sono una modalità di esecuzione della pena. “Nel caso dell’associazione mafiosa, il trasferimento a casa comporta una serie di problemi pratici che fanno venir meno le garanzie di isolamento del 41bis, per esempio. Si materializza così un pericolo reale per la persona offesa e per la sua famiglia, nonché per chi ha collaborato con la giustizia. Arrestare e far condannare un mafioso comporta un gigantesco lavoro di persuasione sul territorio per convincere gli adepti a rompere il patto omertoso e affidarsi allo stato. Questa gente si fida dello stato se lo stato la tutela. Se le istituzioni mostrano cedimenti, la fiducia viene meno e il lavoro dell’autorità giudiziaria si complica”. Matteo Salvini ha espresso solidarietà a lei e al procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri per le minacce circolate sui siti web dei familiari dei detenuti. “Ho apprezzato le parole del senatore Salvini, come quelle di diverse associazioni che si battono contro la piaga mafiosa. Non dobbiamo abbassare la guardia, la mafia non va in quarantena. Le conseguenze di questa sfilza di scarcerazioni si faranno sentire nei prossimi mesi: mentre i cittadini sono sigillati in casa, i mafiosi continuano a operare, in molti casi prestano denaro alle famiglie in difficoltà, gli spacciatori continuano a vendere droga, insomma le attività criminali proseguono. Chi crede che il coronavirus abbia cancellato la mafia si sbaglia”. Le scarcerazioni, finite nell’occhio del ciclone, non hanno a che fare con il decreto che estende la detenzione domiciliare a chi sconta una pena inferiore ai 18 mesi. Anzi, il guardasigilli Alfonso Bonafede ha annunciato l’attività ispettiva. “La fonte normativa di queste scarcerazioni, come degli oltre trecento detenuti di alta sicurezza trasferiti a casa, è costituita dalla circolare del Dap che a marzo ha posto una questione sanitaria. Si è scoperto così che le galere ospitano anche detenuti malati le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario e con il rischio di contagio”. Il diritto alla salute non può essere sospeso. “È un diritto costituzionale che va garantito, esattamente come la certezza della pena. Questi due baluardi democratici devono marciare insieme. Ciò che accade e indigna è una grave sconfitta per lo stato: se un boss viene scarcerato vuol dire che in questi anni non si sono realizzati gli interventi necessari per un carcere capace di fornire un’assistenza adeguata”. Il carcere è fuori dall’agenda politica. “Le rivolte dell’8 e 9 marzo hanno evidenziato la cattiva gestione amministrativa. Bisognava prevedere, sanificare, informare, invece nulla è stato fatto. Ogni anno le risorse destinate agli istituti penitenziari subiscono tagli, un tempo esistevano strutture sanitarie di prima accoglienza, adesso manca il personale per i reparti di infermeria”. Italia viva ha chiesto la rimozione del capo del Dap, Francesco Basentini. “Non spetta a me individuare le responsabilità ma è chiaro che con questa circolare gli sforzi dell’autorità giudiziaria vengono vanificati. Il Dap è un dipartimento del ministero dotato di una propria autonomia. Mandare i capi delle ‘ndrine a casa è un errore di natura amministrativa, non giudiziaria”. La crisi economica dovuta al lockdown rafforza la mafia? “Prestare aiuto economico a una famiglia oggi in difficoltà significa, di fatto, reclutarla per poter pretendere domani, come contropartita, un supporto concreto all’attività illecita. Armi e droga, di solito, vengono nascoste in casa di persone insospettabili”. C’è chi propone di affidare la decisione sulla sorte dei detenuti condannati per mafia a un pool di magistrati in diretto contatto con la Dna e con le procure che hanno svolto le indagini, non con quelle competenti per territorio. “Va rafforzato il ruolo della procura nazionale antimafia: è l’organo più idoneo perché dispone di una conoscenza dettagliata del fenomeno”. “Cutolo è un ex boss, vecchio e malato, la Nco non c’è più Che senso ha il 41 bis per lui?” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2020 Il suo difensore in attesa della decisione del Giudice di sorveglianza. Il tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia dovrà decidere sull’istanza di differimento della pena per Raffaele Cutolo. C’è attesa per la decisione del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia sull’istanza relativa alla detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, avanzata dall’avvocato Gaetano Aufiero, del foro di Avellino, per conto del suo assistito Raffaele Cutolo. È detenuto al 41 bis del carcere di Parma e di recente è stato dimesso dall’ospedale a causa di una grave crisi respiratoria. Una decisione, da parte della magistratura di sorveglianza, che non sarà semplice. Soprattutto alla luce delle polemiche seguite alla concessione degli arresti domiciliari - con ordinanze cristalline e impeccabili - per gravi motivi di salute a due boss mafiosi. Uno è Francesco Bonura, gravemente malato, al quale mancano pochi mesi per il fine pena. L’altro è Pasquale Zagaria per il quale la pericolosità sociale è stata smentita già nel 2011, quando la Corte d’Appello di Napoli gli ha revocato la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Eppure i soliti giornali, dopo aver creato un uragano, travolgendo lo Stato di Dritto, grazie alle istituzioni che assecondano hanno stilato una lunga lista di nomi che secondo loro potrebbero uscire dal carcere accostando il nome del mafioso Leoluca Bagarella a quello di Raffele Cutolo. “Ma come si fanno a fare questi confronti - spiega l’avvocato Aufiero a Il Dubbio - con chi appartiene alla mafia, ha fatto stragi e gestisce un potere economico criminale”. L’avvocato sottolinea: “Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Vada a vedere - continua l’avvocato - in quale condizione vivono i suoi familiari ad Ottaviano”. Il legale di Cutuolo descrive così l’esatta dimensione delle cose. Che senso ha il 41 bis in questi casi? L’importanza strategica che ha svolto il regime differenziato nella lotta alla criminalità organizzata dovrebbe essere ben chiarita. L’obiettivo è volto a impedire che il detenuto continui a mantenere collegamenti, e possa dunque impartire ordini e direttive, pur dal carcere, con le associazioni criminali di riferimento. Se il 41 bis ha più volte superato il vaglio della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, questo è grazie a quei magistrati di sorveglianza che hanno emesso misure come quelle che ora hanno creato indignazioni. Intervenire con una norma per scoraggiare questi provvedimenti, vuol dire rischiare proprio di porre fine al 41 bis. Il paradosso è che potrebbe non superare più il vaglio grazie a chi invoca il pungo duro senza se e senza ma. Ma ritorniamo a Cutolo. Nel suo caso, al di là dell’incompatibilità di salute o meno con il carcere, c’è anche la questione dell’emergenza Covid 19. “Se Cutolo continua a manifestare grave patologie, e in particolare se quelle pneumologiche non hanno trovato definitiva soluzione - scrive l’avvocato nella sua memoria -, cosa accadrebbe in piena emergenza epidemiologica e con gli ospedali di Parma e dell’intera Regione Emilia Romagna ancora interessati all’emergenza come veri e propri presidi Covid- 19, se dovesse rendersi necessario e non rinviabile un ricovero del Cutolo, come avvenuto il 19 febbraio, in piena notte ed in fin di vita?”. Resta il fatto che al rientro presso il carcere di Parma, il personale sanitario dello stesso Istituto Penitenziario ha annotato il diario clinico di Cutolo con queste precise parole: “Il paziente deambula a fatica ed il bagno non è adeguato per poter aiutare il paziente nell’espletamento delle sue funzioni... il paziente necessita di una sistemazione più adeguata e di aiuto continuo”. Da allora, nonostante siano trascorsi 50 giorni, secondo l’avvocato Aufiero non risulta siano stati adottati provvedimenti finalizzati a una più mirata assistenza di Cutolo all’interno della cella in cui è ristretto: a oggi non è in grado di autogestirsi e la cella in cui è recluso per l’intero arco della giornata non è affatto adeguata, “ma, ciò che appare ancor più grave - sottolinea il legale -, l’intera sezione di 41 bis non ha un presidio medico notturno, con la conseguenza che potrebbe essere impossibile fronteggiare un’eventuale crisi del detenuto durante la notte”. C’è da chiedersi se per davvero un eventuale differimento pena per Cutolo, e in più provvisorio, possa davvero scatenare indignazioni. Al quel punto sarà davvero difficile delineare una linea demarcazione tra il bene e il male, tra lo Stato e la mafia. Ma soprattutto tra lo Stato di Diritto e quello di Polizia. Persone con un nome, ecco perché non dovete chiamarli “mafiosi” di Iuri Maria Prado Il Riformista, 29 aprile 2020 È perfettamente legittimo protestare irritazione se il responsabile di gravi delitti è scarcerato per ragioni di salute. Si può legittimamente ritenere che debba marcire in galera, come legittimamente ritiene il capo del primo partito italiano in felice accordo con l’ex alleato di governo nonché, in bella unità nazionale, con il ganzo di Pontassieve. Quello è malato, ha scontato quasi tutta la pena, rischia di morire “di galera”, non “in galera”, perché la prosecuzione della detenzione carceraria mette in pericolo la sua vita: e tu vuoi che ci rimanga, perché siccome ha commesso delitti importanti deve rimanerci - letteralmente - fino alla fine. E va bene: urli vergogna vergogna, e magari ci infili che mentre i vecchietti perbene muoiono di Coronavirus quelli lì, i mafiosi, se ne vanno a casa e noi gli paghiamo pure il biglietto (questo schifo l’abbiamo visto l’altra sera su TeleSalvini, ovvero la trasmissione di quel Giletti, Non è l’Arena, l’enclave leghista di Telecinquestelle ovvero la7). Tutto bene, per modo di dire. Ma la protesta cessa di essere solo discutibile e diventa illegittima quando pretende di imporsi sulla legge che quella scarcerazione consente, e se in modo sedizioso denuncia alla riprovazione pubblica i magistrati che l’hanno disposta. Perché allora non si tratta più dell’incensurabile, per quanto ripugnante, manifestazione dell’idea barbara secondo cui chissenefotte se un cittadino crepa di carcere: si tratta piuttosto della pretesa che lo Stato diserti la propria legalità e che i magistrati siano lo strumento di quella sovversione. Non basta. Perché tu puoi ancora menare tutto lo scandalo che ti pare se la giustizia carceraria non funziona proprio come vuoi, se cioè si limita alla tortura dell’isolamento, alla vergogna del sovraffollamento, alla regolarità del suicidio, e non prevede la sacrosanta pena supplementare della morte per assenza di cure. Ma in un Paese appena decente, che non è quello in cui siamo e non è quello che tu desideri, nessuno avrebbe diritto di rivolgersi a quegli esseri umani chiamandoli “mafiosi”. Dice: ma sono mafiosi! Come dovremmo chiamarli? Non così: perché il delitto che hanno commesso conferisce alla società il potere di punirli, non il diritto di degradarli a una cosa senza identità esposta allo sputo della folla. È un piccolo dettaglio di decoro civile che forse sfugge ai più, o almeno a quelli che fanno chiasso se un ottantenne in metastasi fruisce del diritto di curarsi: ma non è giusto revocargli persino il diritto al nome, istigando il pubblico a farsi coro - “Mafioso! Mafioso!” - di quella specie di lapidazione verbale. Perché è una persona quella che lo Stato rinchiude in un carcere, ed è una persona quella che ne esce quando ne ha diritto. In arrivo nuove regole su processi a distanza e salute nei tribunali di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2020 Udienze smart, emendamenti dagli uffici di via Arenula. La preoccupazione degli avvocati, ma anche degli accademici che hanno a cuore la Costituzione, riguarda ora la forma delle modifiche. Perché, sull’idea che il processo da remoto debba essere limitato, non ha dubbi neppure il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. L’ordine del giorno sulle udienze virtuali, votato venerdì scorso alla Camera, è chiarissimo, e prevede di escludere le modalità smart quantomeno per l’attività istruttoria. Il guardasigilli non intende distaccarsi dal “mandato”, nonostante il tentativo compiuto dall’Anm di dissuadere il governo dal dietrofront. Un ulteriore ripensamento di via Arenula è improbabile, ma intanto Unione nazionale Camere civili e Unione Camere penali hanno diffuso due giorni fa un durissimo comunicato congiunto contro la “incursione” della magistratura associata. In ogni caso restano due incognite. Innanzitutto la capacità dei testi normativi, che l’ufficio legislativo di via Arenula ha iniziato a predisporre, di escludere ambiguità interpretative. In secondo luogo, i tempi di effettiva presentazione delle modifiche in Parlamento. Sul punto va detto che, secondo quanto riferiscono fonti parlamentari di maggioranza, il ministro preferirebbe non inserire le nuove norme sul processo a distanza nel decreto in arrivo domani in Consiglio dei ministri. Quel testo dovrebbe riguardare solo le discusse modifiche sulle decisioni dei Tribunali di sorveglianza (di cui si dà conto in altro servizio del giornale, ndr) e il rinvio dell’entrata in vigore delle nuove norme sulle intercettazioni. Riguardo agli “ascolti”, si tratta dell’ennesimo di una lunga catena di slittamenti. Stavolta però il disagio è oggettivo: l’emergenza coronavirus ha impedito, nei tribunali, di completare sia le infrastrutture tecnologiche sia la formazione del personale. Ma appunto, la riunione di domani a Palazzo Chigi non dovrebbe contenere alcunché sull’organizzazione giudiziaria nella fase 2, tantomeno sul processo da remoto. Si rafforzano le ipotesi, veicolate da più fonti parlamentari, di un pacchetto di emendamenti in materia di udienze virtuali da presentare, quanto meno, direttamente alla Camera o al Senato. L’occasione potrebbe essere colta per esempio con il dl sull’emergenza, il numero 19 del 2020, da oggi in aula a Montecitorio. Le incertezze tengono comunque sulle spine l’avvocatura. Ed è forse per questo che proprio nel limbo fra la firma, domenica scorsa, del Dpcm per la fase 2 e l’effettivo spartiacque del 4 maggio l’Organismo congressuale forense abbia parlato ieri di “inadeguatezza delle risorse destinate dal Governo alla Giustizia”. L’Organismo coordinato da Giovanni Malinconico ritiene “insufficienti e contraddittorie” le misure fin qui adottate al fine di consentire “la continuità della giurisdizione”. Secondo l’Ocf, d’altra parte, un “piano integrato straordinario per una adeguata e piena ripresa dell’attività giudiziaria” andrebbe comunque sostenuto con “adeguate risorse”. Al momento il vero nodo coincide con quanto già sollevato dal Cnf e da tutte le altre rappresentanze forensi al tavolo tecnico riunito da Bonafede lo scorso 10 aprile: rapido ritorno nei palazzi di giustizia e uniformità delle misure organizzative anti-contagio. Nei giorni successivi il guardasigilli ha ricevuto da ciascuno dei partecipanti, anche dalle associazioni forensi specialistiche, documenti con proposte per uniformare i protocolli organizzativi degli uffici giudiziari e con sollecitazioni orientate, in prevalenza, a scongiurare l’uso delle modalità virtuali oltre l’emergenza. Due punti cardine più volte indicati come prioritari dall’avvocatura, con eccezioni per quei settori specifici in cui un ricorso più strutturato alla tecnologia è ritenuto viceversa necessario (dall’amministrativo al tributario, sui quali però non è via Arenula a decidere, e all’ambito giuslavoristico). Se sul processo a distanza la soluzione, come detto, arriverà in Parlamento a breve, resta da scogliere dunque proprio il nodo della compatibilità fra l’attività nei palazzi di giustizia e il distanziamento sociale imposto dal Dpcm di Conte anche per la fase 2, cioè dal 4 maggio in poi. Ed è proprio su tale aspetto che il guardasigilli sarebbe deciso ad anticipare nei prossimi giorni, all’avvocatura, le scelte che renderà concrete in un probabile prossimo decreto ministeriale, che dovrebbe offrire ai capi di tutti gli uffici giudiziari d’Italia indicazioni sulla sicurezza sanitaria. L’obiettivo è chiaro: riprendere i processi veri, nelle aule e non più solo sulle claudicanti piattaforme telematiche. Come gli avvocati chiedono con insistenza. Processi telematici flop. La battaglia dei legali di Andrea Ossino Il Tempo, 29 aprile 2020 Secondo gli avvocati potrebbero mancare le garanzie per un giusto dibattimento. La “fase 2 della giustizia” è alle prese con un difficile compromesso tra un sistema capace di garantire il distanziamento sociale e la salvaguardia dei principi costituzionali che regolano i processi. I dubbi sollevati dagli avvocati sono numerosi: i protagonisti del processo sarebbero lontani dalle aule, gli imputati potrebbero apprendere di dover andare in carcere guardando uno schermo, mentre piattaforme e server la farebbero da padrone creando un forte rischio per la privacy. La “fase 2 della giustizia” è alle prese con un difficile compromesso tra un sistema capace di garantire il distanziamento sociale e l’indispensabile salvaguardia dei principi costituzionali che regolano i processi. Il dibattito sul processo telematico è entrato nel vivo prefigurando una realtà non di certo orwelliana, ma che cambierebbe la fisionomia delle udienze. I dubbi sollevati dagli avvocati sono numerosi: i protagonisti del processo sarebbero lontani dalle aule, gli imputati potrebbero apprendere di dover andare in carcere guardando uno schermo, mentre piattaforme e server la farebbero da padrone creando un forte rischio per la privacy. E poi resta una grande incognita da sciogliere: la difficoltà di accesso al pubblico e alla stampa, che garantisce oltre al diritto all’informazione, anche una forma di controllo su chi esercita la giustizia. Nella Capitale, già nel 2008, avvocati, magistrati, politici e tecnici di ogni sorta studiarono per un anno intero, con tanto di inaugurazione del progetto pilota da parte degli ex ministri Renato Brunetta e Angelino Alfano, per capire come costruire un procedimento penale da remoto. Alla fine gettarono la spugna scontrandosi con i problemi di formazione del personale e le poche garanzie per la privacy. Dodici anni dopo, però, in piena emergenza sanitaria, l’Associazione Nazionale dei Magistrati si mostra favorevole all’idea che eliminerebbe assembramenti e mobilità, riducendo così le possibilità di contagio. Gli avvocati sono riluttanti all’idea di una smaterializzazione del processo che, secondo loro, non garantirebbe il rispetto dei principi costituzionali. Del resto anche adesso, quando il processo telematico è stato autorizzato solo per le convalide dell’arresto, i problemi sono evidenti. Lo dimostra la conversazione narrata dall’avvocato milanese Daniela Insalaco, che ha difeso una persona fermata a Roma. La conversazione è surreale: “L’arresto è convalidato, cominciamo subito col processo, come da protocollo”, avrebbe affermato il giudice. E l’avvocato: “Ma, signora giudice, non mi risulta che il protocollo per il virus abbia modificato il codice penale. Dovrei parlare prima col mio cliente e, in ogni caso, chiedo un rinvio, a termini di legge, per preparare la difesa”. Colloqui come questi, se il governo approvasse l’emendamento al decreto “Cura Italia” (prevede processi remoti almeno fino al 30 giugno), sarebbero sempre più frequenti. “L’avvocatura non è contraria al miglioramento del funzionamento giustizia attraverso innovazioni telematiche, ma chiediamo che vengano garantiti principi fondamentali su cui si fonda lo stato di diritto”, affermano Roberto Nicodemi e Giorgia Celletto, consiglieri dell’ordine degli avvocati di Roma. Lombardia. Il Pd chiede che la Regione individui immobili per detenuti contagiati askanews.it, 29 aprile 2020 “Per la salute di chi vive e lavora nelle prigioni”. “Il problema delle infezioni nelle carceri c’è e va affrontato da tutte le istituzioni, e se siamo d’accordo che la soluzione non sia mandare i detenuti nelle case popolari, non possiamo però concedere all’assessore Bolognini e alla giunta regionale di lavarsene le mani”. Lo hanno affermato per il Partito Democratico in Regione Lombardia la consigliera Carmela Rozza e il presidente della commissione speciale sulla situazione carceraria Gian Antonio Girelli, facendo seguito alle dichiarazioni dell’assessore regionale Stefano Bolognini. Per i due esponenti dem, “la strada giusta, come si indicava già il 12 marzo in una lettera inviata al presidente Fontana da parte della commissione speciale sulla situazione carceraria del Consiglio regionale, è che la Regione faccia un accordo con i Tribunali, si identifichi un immobile adatto e lo si dedichi a quello, con la debita sorveglianza delle forze dell’ordine. Hanno diritto alla salute - concludono Rozza e Girelli - i detenuti e chi lavora con loro, gli agenti di polizia penitenziaria in primis. I problemi vanno affrontati, non trasformati sempre in propaganda”. Milano. La Lega all’attacco del Sindaco Sala: “Regala case ai detenuti” di Enrico Paoli Libero, 29 aprile 2020 Ai carcerati 12 alloggi comunali, il Pirellone insorge: “Schiaffo a 13mila persone in lista d’attesa”. Le carceri scoppiano, si sa. Il problema (serio) riguarda il governo. Ma essendo l’esecutivo in carica incapace di affrontare la questione con risposte chiare, lontane dalle facili vie di fuga, finisce con il mettere le amministrazioni locali con le spalle al muro: servono case per i detenuti scarcerati, privi di “risorse abitative”, come sostiene il ministero della Giustizia. Tema, quello degli alloggi, altrettanto serio. Sono persone, non numeri. Perché se l’effetto macroscopico del dramma carceri è il ritorno a casa dei boss di mafia, tale da indignare la maggioranza degli italiani, esiste anche il problema dei detenuti comuni. Li faccio uscire, e poi? E poi succede quel che è successo a Milano. Il Comune, sostanzialmente, ha risposto “obbedisco” alla lettera inviata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, con la quale chiede di ospitare, seppur transitoriamente, “venti detenuti ammissibili a misure non detentive”, ma privi di una casa dove stare. La giunta Sala ha deciso di utilizzare “una quota residuale degli appartamenti di proprietà del Comune destinati all’emergenza abitativa”, come spiega l’assessore comunale alle Politiche sociali e abitative, Gabriele Rabaiotti. In pratica le strutture utilizzate per gli sfrattati e i casi eccezionali, legati a particolari vicende umane, ospiteranno i detenuti messi in libertà. Palazzo Marino, però, non si è limitato a dire sì al tribunale di Sorveglianza, ma ha deciso di coinvolgere le Regione. La lettera inviata dal Provveditore regionale del Dap e dal presidente del Tribunale all’assessore regionale alle Politiche abitative, sociali e disabilità, Stefano Bolognini, sembra voler tirar dentro la vicenda anche il Pirellone. Con la vicenda delle occupazioni abusive da parte dei ladri di case, pronti a sfondare porte e finestre nonostante l’emergenza sanitaria, non si è registrata la stessa collaborazione. Da qui la presa di posizione della Regione, determinata a non concedere “case popolari ai detenuti che devono scontare i domiciliari, come invece ha deciso il Comune di Milano”. “Il dottor Pietro Buffa (provveditore regionale del Dap, ndr) e la dottoressa Giovanna Di Rosa (presidente del Tribunale di Sorveglianza, ndr), avevano scritto alla Regione”, spiega una nota del Pirellone, “dopo aver ottenuto il via libera da Palazzo Marino per venti appartamenti, per chiedere il parere di Palazzo Lombardia. L’assessore Bolognini ha risposto che non è possibile procedere a questo tipo di assegnazioni”. “Case popolari ai carcerati? Purtroppo non è nostra competenza”, commenta l’assessore Bolognini, “altrimenti lo impediremmo. E uno schiaffo peri 13mila milanesi che aspettano la casa popolare. È una scelta del sindaco Sala e del governo, se ne assumano la responsabilità”. Ed è quello che il Comune ha fatto. Il Comune “ha offerto la propria disponibilità a ospitare transitoriamente una ventina di persone in 10/12 alloggi, utilizzando una quota residuale degli appartamenti di proprietà del Comune destinati all’emergenza abitativa”, spiega l’assessore Rabaiotti, “non verrà dunque tolta alcuna casa popolare ad alcuno”. “Questo è stato fatto in uno spirito di collaborazione istituzionale, comprendendo come la nota condizione di sovraffollamento delle carceri possa causare situazioni di forte criticità”. “Spiace dover registrare una volta di più l’arrogante disattenzione con cui il presidente della Regione Attilio Fontana, e i suoi assessori affrontano questioni delicate”, chiosa Rabaiotti. “Il governo del Pd fa uscire i detenuti dalle galere e il Comune del Pd li mette nelle case popolari”, replica il capogruppo della Lega al Pirellone, Roberto Anelli, “è uno schiaffo al buonsenso, alla certezza della pena, ai 13mila milanesi che aspettano un alloggio. È un’altra vergogna firmata Conte- Sala, anche se il Pd milanese cerca di negare perché evidentemente imbarazzato”. E poi c’è una terza posizione. “Sulle soluzioni per i detenuti sbagliano sia la Regione, che si scarica di ogni responsabilità, sia Rabaiotti”, afferma la consigliera regionale del Pd, Carmela Rozza, “che immagina un condominio misto con gli alloggi destinati all’emergenza abitativa. Le due istituzioni si incontrino con la Prefettura per individuare l’immobile in cui mettere queste persone e il presidio delle forze dell’ordine per la necessaria sorveglianza”. Salerno. Lettera dei detenuti: “Non siamo delle bestie, viviamo in condizioni disumane” di Tommaso D’Angelo cronachesalerno.it, 29 aprile 2020 Vogliamo essere trattati come detenuti, non come bestie. A scrivere sono in cinque carcerati della terza sessione dell’istituto penitenziario di Fuorni a Salerno. Tengono a precisare di non aver preso parte a nessun tipo di rivolta riferendosi a quella scoppiata il 9 marzo scorso come precisano, quasi a ringraziare, che il loro appello è rivolto a tutti quelli che stanno lottando contro questa pandemia. Ma, dicono i cinque detenuti, le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere non possono essere più taciute perché ledono la dignità di esseri umani. Il racconto che fanno della loro quotidianità nel carcere è legato molto anche a questo particolare momento di crisi seguito alla pandemia: non veniamo riforniti di nessun igienizzante, scrivono, a parte una volta al mese quando ci viene fornita una bottiglia di ammoniaca profumata. E tutto questo in una condizione disumana di sovraffollamento: siamo in sei persone all’interno di una cella di otto metri quadrati, le aree di passeggio sono sporche, igiene zero. Le aree dove si cammina fuori dalle celle sono piene di spazzatura e di residui di calcinacci. Non va bene neanche per l’igiene personale. Sempre sulla lettera si legge che sono state messe a disposizione ventisei lavatrici ma ad oggi, la lettera risale al 14 aprile scorso, scrivono sempre i cinque detenuti, non sono state ancora attivate. Così i detenuti sono costretti a lavare a mano i panni senza avere neanche la possibilità di farli asciugare al sole visto che mancano gli stendini. L’alternativa sarebbe aspettare una volta al mese quando si può fare il bucato nella lavanderia del carcere. Difficile il rapporto con la direzione della casa penitenziaria il cui comportamento viene definito non certo democratico. Neanche per la santa pasqua i detenuti, hanno potuto ottenere a loro spese, prodotti pasquali. Non sono riusciti a poter avere del formaggio per condire gli alimenti. Viviamo in una situazione allucinante e disumana che chiedono finisca restituendo dignità a chi sta scontando gli errori che ha commesso e non per questo deve essere considerato un animale privo di ogni diritto. Busto Arsizio. In carcere nessun caso di coronavirus di Francesca Cisotto varesenews.it, 29 aprile 2020 Il Garante: “Grazie ad agenti e direzione, meno allo Stato”. Solo ora iniziano ad arrivare i braccialetti elettronici mentre scende il numero dei detenuti. Matteo Tosi, garante dei detenuti del carcere di Busto Arsizio: “Arrivate le mascherine per gli agenti”. “Il carcere di Busto sta lavorando al meglio per garantire la salute di tutti, ma come gli altri istituti penitenziari è lasciato solo dal Ministero. All’origine della pandemia due detenuti hanno avuto problemi all’apparato respiratorio portando all’interno dell’Istituto molta paura e l’inasprimento di una situazione già delicata. Sono state seguite tutte le procedure del caso e non è successo nulla di grave. Inoltre sono stati messi in quarantena due agenti che hanno avuto casi di contagio tra i familiari”. A spiegare la situazione all’interno della casa circondariale bustocca è il garante comunale dei detenuti, Matteo Tosi sperando in un sostegno concreto da parte dello Stato. “La salute all’interno della struttura è ancora buona, ma non ci resta che sperare che la situazione regga poiché, per quanto vengano rispettate le regole, le persone che vi lavorano entrano ed escono. Sarebbe una buona presa di coscienza se arrivassero delle mascherine in più e più protettive per gli agenti penitenziari che sono forze dell’ordine come tutte le altre” - prosegue Tosi. Si sente una grande tensione all’interno della casa circondariale di via per Cassano; “se il virus entrasse dilagherebbe in un attimo e ogni sezione è composta da circa 60 persone”, ma quello che più preoccupa al momento è l’aspetto psicologico dei detenuti data la situazione incerta di alcuni. Ci sono state molte scarcerazioni (intese come proseguimento della pena in detenzione domiciliare), che hanno portato il numero dei detenuti a scendere ben sotto i 400 rispetto ai 445 circa di inizio pandemia, ma queste non bastano ad allentare la tensione che gioca a sfavore anche dei dipendenti del carcere. “Si capisce sempre meno sulla situazione di diversi carcerati - ha raccontato il garante Tosi. Alcuni di loro hanno ricevuto la possibilità di tornare a casa vincolati dal braccialetto elettronico, ma di questi dispositivi ne arrivano pochi, quindi a seconda della pena e dal giudizio del Magistrato solo alcuni possono essere effettivamente scarcerati. Si prevedeva di scarcerare tutti i detenuti sotto un anno, ma questo non è avvenuto nonostante il garante nazionale, Mauro Palma, aveva assicurato che fosse una proposta arrivata a buon punto. In una cella da due sono dentro in quattro per cui il distanziamento viene a mancare. Svuotare l’Istituto vorrebbe dire gestire tutto in maggiore sicurezza”. La tensione in carcere non si allenta nemmeno a tavola: “Il Coronavirus ha incrementato le situazioni di povertà. Le famiglie disagiate non hanno i soldi per i pacchi spesa ai loro congiunti e altre, invece, hanno problemi a raggiungere via per Cassano. Date le diverse collette che sono state organizzate sul territorio, l’augurio è che l’amministrazione comunale ci sostenga facendo arrivare qualche pacco alimentare in struttura” ha chiosato Matteo Tosi sottolineando che “l’aspetto fondamentale per mantenere un equilibrio all’interno di una qualsiasi casa circondariale è sentire la vicinanza della comunità”. L’abbandono dei detenuti risulta essere prettamente psicologico, ma la direzione si è occupata di prendere provvedimenti per allentare la tensione: “Sono annullati i colloqui fisici e qualsiasi attività di laboratorio, ma da una chiamata a settimana ora hanno la possibilità di farne tre, tra cui anche in modalità di videochiamata. Inoltre sono state date in dotazione le cuffie auricolari in modo che il detenuto possa chiamare i famigliari senza dover toccare il telefono, usato chiaramente da tutti. Si tratta di accorgimenti che umanamente parlando ha fatto sentire tutti più tutelati”. “I detenuti sono grati di aver ricevuto subito dalla direzione le chiamate in più e aver visto gli agenti con le mascherine, ma dall’altro la mancanza del braccialetto per poter scontare la pena ai domiciliari (tra i 12 e 24 mesi) ha lasciato l’amaro in bocca. Purtroppo si tratta di un problema che non dipende dal carcere, bensì dal Governo” ha concluso il garante che insiste nel chiedere più sostegno al lavoro della Polizia “perché sono gli uomini dello Stato che fanno la differenza”. Voghera (Pv). Inchiesta sulla morte del detenuto morto per coronavirus di Arcangelo Badolati Gazzetta del Sud, 29 aprile 2020 Il coronavirus ha ucciso un detenuto calabrese. Si chiamava Antonio Ribecco, era di Cutro ed aveva 60 anni. La procura di Catanzaro ne aveva chiesto e ottenuto l’arresto nel dicembre scorso nel quadro dell’inchiesta “Infectio” che ricostruisce le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Umbria. Il sessantenne, ritenuto capo promotore di un’associazione mafiosa operante in terra umbra, era stato arrestato dalla squadra mobile di Perugia. Trasferito nel carcere di Voghera, l’uomo non ha mostrato segni di malattia fino all’8 marzo quando, in un colloquio telefonico con la moglie, ha raccontato di avere disturbi influenzali. Disturbi per i quali aveva sollecitato l’intervento dei sanitari del penitenziario. Cinque giorni dopo, il 13 marzo, l’imprenditore ritenuto legato alla cosca di Nicolino Grande Aracri, ha rivelato ai familiari di non riuscire ad alzarsi dal letto e di avere problemi respiratori. Nessuno, tuttavia, immaginava che avesse contratto il Covid-19. E solo il 18 marzo la notizia è diventata patrimonio conoscitivo dei suoi congiunti per via delle notizie fornite loro dai parenti di altri detenuti. Cosa sia accaduto dall’8 al 18 marzo e come sia stato curato e assistito Ribecco non è del tutto chiaro: i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia, hanno stamane sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano state comportamenti colposi e omissivi. Antonio Ribecco, infatti, è stato solo successivamente trasferito nell’ospedale “San Paolo” di Milano e, dopo due giorni, nel nosocomio “San Carlo” sempre nel capoluogo meneghino dove in aprile è deceduto. “Ai familiari - spiega l’avvocato Figoli - non è stato mai comunicato che Ribecco stava male e che era stato trasferito in ospedale. È morto da solo senza che nessuno dei suoi parenti sapesse nulla. Vogliamo che la magistratura faccia chiarezza su quanto accaduto”. La famiglia del detenuto vuol capire se gli siano state assicurate cure adeguate. Crotone. Coronavirus, il Garante comunale: “Detenuto crotonese in Friuli sta bene” ildispaccio.it, 29 aprile 2020 Il Garante comunale dei detenuti di Crotone Federico Ferraro ha reso noto di avere ottenuto un riscontro in merito alle condizioni di salute del detenuto, di origini crotonesi, risultato positivo al tampone da Coronavirus e attualmente in regime di carcerazione in Friuli Venezia Giulia. La vicenda era stata sollevata nei giorni scorsi dal legale dell’uomo e dalla sua famiglia. “Da comunicazioni telefoniche del personale medico specialistico di turno, addetto al servizio sanitario nella struttura di detenzione - afferma Ferraro - è dato sapere che il detenuto, sta bene e non presenta stato febbrile o crisi respiratoria. Il personale ha attualmente impostato, per lui, una terapia appropriata e, tra circa 15 giorni, verrà effettuato nuovo controllo per ottenere riscontro medico in merito all’evoluzione sulla situazione clinica. La comunicazione intende tranquillizzare anche la famiglia che, nei giorni scorsi, ha rivolto un’accorata lettera alla stampa locale e al Garante al fine di attenzionare la vicenda e la sua evoluzione”. “Il Garante comunale di Crotone intende ringraziare per il pronto interessamento - è detto in un comunicato - il collega territorialmente competente, Garante regionale dei detenuti del Friuli Venezia Giulia, Paolo Pittaro, il quale aveva provveduto ad inoltrare nei giorni scorsi anche richiesta formale di informazioni alla direzione carceraria”. “Per quanto riguarda il carcere di Crotone - ricorda il Garante - nella mattinata di oggi verranno consegnate altre 150 mascherine di profilassi: urgono ancora guanti e materiale igienizzante per assicurare una situazione igienico-preventiva più adeguata”. Novara. Distanti ma vicini: la Comunità di Sant’Egidio per il carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 aprile 2020 La Comunità di Sant’Egidio fin dai primi di marzo, quando sono stati sospesi i colloqui con i familiari e l’ingresso dei volontari in carcere, è riuscita ugualmente a dare segnali forti di presenza e vicinanza ai detenuti della casa circondariale di Novara, come del resto è accaduto in quasi tutti gli istituti del territorio nazionale. La sede piemontese della Comunità ha donato piccole somme di danaro ai reclusi più indigenti, distribuito generi alimentari, mascherine, francobolli e prodotti per l’igiene personale. Alcuni volontari hanno intensificato la corrispondenza epistolare con i detenuti per aiutarli a vincere ansia, incertezze e ad affrontare una quotidianità con relazioni umane ridotte dalle restrizioni anti-Covid. La Comunità ha un rapporto particolarmente intenso e risalente con il carcere novarese, che si è tradotto in un protocollo d’intesa firmato il 10 aprile dalla direttrice del carcere, Rosalia Marino, e da Daniela Sironi, presidente della Sant’Egidio Piemonte Onlus. L’accordo, di durata triennale, oltre a prevedere la prosecuzione di attività di sostegno materiale e spirituale ai detenuti, comprende anche la proposta d’iniziative utili al reinserimento al termine della pena. In particolare potrà essere offerta ad alcuni detenuti l’opportunità di svolgere attività di volontariato e servizi di pubblica utilità presso strutture di assistenza e aiuto in città. Verrà, inoltre, favorito l’accesso in carcere a mediatori interculturali, che “a titolo gratuito - si legge nel protocollo - aiutino i detenuti a mantenere legami significativi con le comunità di appartenenza e a vivere la libertà religiosa”. Tante associazioni di volontariato attive nel campo dell’inclusione sociale, per ottimizzare i rispettivi contributi nel periodo dell’emergenza hanno creato reti solidali. Come a Cosenza, dove alcune associazioni (Prendicasa, Soccorso Speranza, I ragazzi di Cosenza Vecchia, quelli degli Anni Ottanta, quelli dello Sparrow e il Collettivo Femin) si sono affiliate alla Terra di Piero e hanno donato ai circa 250 detenuti della casa circondariale generi alimentari e prodotti igienizzanti. “In termini monetari è poca cosa - scrivono gli organizzatori sui social - ma in termini morali è un alto segno di vicinanza a una popolazione troppo spesso dimenticata e che ha perso la libertà ma non la dignità”. Intanto anche le amministrazioni locali lavorano per offrire nuove opportunità alle persone detenute, una volta terminata l’emergenza e riprese le ordinarie attività trattamentali. La giunta comunale di Terni ha approvato una delibera per lavori socialmente utili che comprende convenzioni tra il Comune di Terni, il Tribunale, la casa circondariale e l’Ufficio esecuzione penale esterno (Uepe). Gli ammessi alle attività di volontariato potranno curare uno spazio verde all’interno del parco cittadino “Le Grazie”. Un’area-simbolo della possibilità di reinserirsi nella società, che potrà divenire ‘parco della legalità’, secondo quanto previsto dal progetto “Communitas: un orto, un sentiero, un giardino” proposto Uepe. Cosenza. Pacchi solidali ai detenuti, arriva la Spesa Circondariale di Annalisa Ramundo dire.it, 29 aprile 2020 Un segno di vicinanza ai 237 detenuti della città calabrese reso possibile grazie all’associazione di volontariato La Terra di Piero. Si chiama Spesa Circondariale e nasce nel cuore della Cosenza solidale per offrire un segno di vicinanza ai 237 detenuti della città calabrese che ieri si sono visti recapitare biscotti, latte, zucchero, caffè, spazzolino, dentifrici e igienizzante grazie all’associazione di volontariato La Terra di Piero. Una “promessa mantenuta”, scrivono in un post su Facebook i volontari, che dall’inizio dell’emergenza hanno portato instancabilmente, casa per casa, spesa e pasti caldi, arrivando ad assistere circa 600 famiglie in difficoltà di Cosenza città e dell’hinterland, grazie a donazioni e contributi volontari confluiti nel progetto Spesa Solidale. “Abbiamo pensato: perché non farlo per i detenuti? - racconta all’agenzia di stampa Dire Sergio Crocco, presidente de La Terra di Piero. Ieri abbiamo portato questa spesa al carcere con due furgoncini, è stato scaricato tutto in magazzino e poi portato nelle celle. Abbiamo avuto dalla direttrice tutta la comprensione possibile”. Un gesto simbolico pensato e voluto “per esprimere ciò che pensiamo: che al di là degli errori che si possono fare chi entra in carcere perde la libertà, non la dignità”. Un segnale “di vicinanza- continua Crocco- a questa popolazione che per molto tempo è stata ghettizzata e dimenticata e che ora soffre molto, perché i colloqui sono diminuiti”. Accolto dai detenuti con gratitudine. “Da una psicologa che lavora nel carcere e collabora con noi ci è arrivato questo messaggio: ‘In carcere è appena finita la distribuzione dei pacchi spesa. In tutto 237 detenuti. I 13 pacchi in più (erano 250 in tutto, ndr) sono stati spacchettati e distribuiti al piano dei detenuti migranti, con meno risorse personali e più disagio e difficoltà in questo momento in cui i volontari non possono accedere in carcere dall’esterno. I musulmani in Ramadan hanno ricevuto porzioni maggiori dei loro prodotti che comunque sono stati distribuiti anche agli altri musulmani. Tutti vi ringraziano e mi hanno chiesto di farlo per loro’“. A sostenere l’iniziativa de La Terra di Piero anche “Cosenza Mmishkata, i collettivi Prendo Casa e Fem.In, i volontari del Soccorso Speranza, e due gruppi di ultras cosentini, Anni 80 e Cosenza Vecchia”, la stessa rete di Spesa Solidale, iniziativa partita “dall’11 marzo per aiutare una trentina di famiglie bisognose” e arrivata in poco più di un mese a coprire le esigenze di “600 famiglie, a cui ogni sera due cuochi nella nostra sede preparano primo, secondo e contorno, quando riusciamo anche frutta e dolce, che consegniamo dalle 19 alle 21,15. Lo scenario descritto dal volontario è quello di una vera e propria emergenza sociale. “Ogni giorno ci contattano dalle 10 alle 15 famiglie in più che si prenotano per la cena, persone che ci chiamano piangendo per chiederci di aiutarle”. Si tratta soprattutto “di precari e lavoratori in nero” che abitano nelle zone più popolari della città, a partire dal centro storico, “anche se abbiamo cominciato ad aiutare anche persone che abitano a Corso Mazzini, in centro, che magari hanno lavori più borghesi, come rappresentanti o agenti commercio. Sappiamo che la situazione è difficile- osserva Crocco- ma quello che sta facendo il Governo è totalmente insufficiente, lo tocchiamo con mano tutti i giorni. L’emergenza non è solo sanitaria, è soprattutto sociale, nei quartieri più popolari c’è una disperazione assurda, le persone non riescono a comprare nemmeno pannolini e pannoloni. Ho paura che così non possa durare”. A preoccupare gli attivisti è la tenuta sociale in città: “La gente non ce la farà più e, se la situazione non si risolve, andrà a finire male”. Ciò che serve, per Crocco, “è una maggiore presenza sul territorio da parte dei Comuni, che hanno sicuramente più risorse di noi. Anche il Comune ha distribuito i buoni spesa, poi ci sono gli aiuti della Croce Rossa e della Protezione Civile, ma noi siamo molto più radicati perché’ conosciamo bene i quartieri. Cosenza è una città molto solidale- si rincuora il volontario - appena faccio un appello su Facebook centinaia di persone si offrono per dare una mano, dalle aziende ai privati”. Catania. #lascuolanonsiferma: ai blocchi di partenza la Casa circondariale “Bicocca” di Wilma Greco epale.ec.europa.eu, 29 aprile 2020 Sulla bacheca Facebook del garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia, si leggono queste parole, datate 12 marzo: “veramente notevole la nota di oggi con cui il nuovo direttore generale dei detenuti dell’Amministrazione penitenziaria consente all’uso di Skype e della posta elettronica per gli esami, i colloqui con i docenti e la corrispondenza con i familiari. Il tutto finché dura l’emergenza, ma è la fine di un tabù: i detenuti entrano nel mondo digitale!”. Da quel momento in poi è stata una gara tra le scuole impegnate in carcere e gli Istituti Penitenziari di tutto il territorio. Non sono mancate soluzioni e sforzi organizzativi da ambedue le parti. Dalla Sicilia arriva anche l’esperienza della Casa Circondariale “Bicocca” di Catania, dove i docenti dell’Ipsseoa “Karol Wojtyla” interagiscono con gli studenti ristretti attraverso la piattaforma Gsuite Classroom. I device utilizzati sono i tablet forniti dalla scuola e la LIM, per sessioni di lezioni di 30 minuti, che coinvolgono tutte le classi. In particolare le classi 3 e 5 prepareranno gli esami conclusivi del percorso di istruzione. Un lavoro di squadra, condotto con l’area trattamentale e la direzione della Casa Circondariale, il tutto nel rispetto delle norme di sicurezza. L’Ipsseoa “Karol Wojtyla” non è nuovo alle innovazioni e alla messa a punto di buone prassi. Basti pensare al progetto “Vietato non toccare”, vincitore dell’Italian Teacher Prize. La prof.ssa Daniela Ferrarello, insignita dell’importante riconoscimento per la categoria degli insegnanti, ha utilizzato il premio per l’acquisto di computer e LIM per tutte le aule, libri di testo, quaderni, penne, materiale vario di cancelleria e soprattutto per costruire il laboratorio permanente di matematica “Vietato non toccare”, costituito da varie macchine matematiche e comprendente una sezione sulle macchine di Archimede, inteso quale centro di formazione per studenti e docenti. L’obiettivo, raggiunto, è quello di dare agli studenti ristretti le stesse opportunità dei ragazzi “fuori”. *Ambasciatrice Epale Sicilia (Si ringraziano i proff. Fabio Greco e Daniela Ferrarello per le informazioni condivise) Grosseto. Lezioni dei detenuti via Skype redattoresociale.it, 29 aprile 2020 Il 31 marzo sono riprese le lezioni per i 30 detenuti del penitenziario di Massa marittima iscritti ai percorsi formativi di prima alfabetizzazione, scuola media e primo biennio delle superiori. Didattica a distanza via Skype nel carcere di Massa Marittima. L’idea è della direzione della Casa Circondariale di Massa Marittima, rappresentata dalla direttrice Cristina Morrone, e del dirigente del Centro per l’istruzione degli adulti Cpia 1 Grosseto, Giovanni Raimondi. Il 12 marzo, il progetto è diventato reale: la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria autorizza il proseguimento dei corsi di istruzione in carcere mediante videoconferenze. Così, il 31 marzo sono riprese le lezioni per i 30 detenuti iscritti ai percorsi formativi di prima alfabetizzazione, scuola media e primo biennio delle superiori. Tutto questo, senza rischi: la direzione e tutto il personale del carcere massetano continueranno a svolgere il mandato istituzionale attenendosi al rispetto delle regole vigenti per contenere il rischio di contagio. Quindi piccoli gruppi di studenti, spazi idonei e distanze di sicurezza. Si apre così la porta al futuro e all’innovazione, garantendo ai detenuti ospiti una quotidianità un po’ più serena e attiva. Questa prima fase sperimentale prevede un programma di video-lezioni sincrone su Skype due volte alla settimana. Ogni martedì e venerdì, dalle 9,30 alle 11,00, gli insegnanti del Cpia di Follonica incontreranno i loro studenti “ristretti” nello spazio virtuale offerto da internet. Un filo che si riannoda. Dagli schermi del computer non si parlerà solo di didattica, ci saranno spazi per il dialogo e per riprendere i progetti e le speranze per il futuro a fine pena. Il primo collegamento del 31 marzo è stata una presentazione del progetto, accolto con grande emozione da parte degli studenti detenuti, che hanno subito chiesto notizie e rassicurazioni su quello che succede fuori dalle mura. Tanta la paura e tante le preoccupazioni, perché il carcere - come tutte le comunità chiuse - è uno dei luoghi di massimo potenziale di contagio. Se questo dovesse arrivare, le conseguenze potrebbero essere devastanti per i detenuti, per la polizia penitenziaria e per tutti coloro che gravitano su questa istituzione. Nelle prossime settimane, ai percorsi di istruzione scolastica si affiancheranno i corsi di formazione professionali legati alle attività del Laboratorio per la trasformazione dei prodotti agroalimentari del territorio, un progetto già attivo e sostenuto dal Pulmino contadino in collaborazione con Slow Food Monteregio. Certo le difficoltà organizzative e tecniche non rendono semplice lo svolgersi di tutte queste attività didattiche ma, grazie all’ottima collaborazione tra staff del carcere e insegnanti CPIA, oltre alle lezioni on line si faranno arrivare agli studenti dispense e materiali su cui studiare ed esercitarsi. Per supportare l’apprendimento degli studenti attraverso le nuove tecnologie, il CPIA si è impegnato a far pervenire all’istituto penitenziario nuovi computer e tablet. In un’ottica che vede l’emergenza come punto di partenza per potere proseguire ancora meglio in futuro. L’istituto penitenziario di Massa Marittima, grazie al mondo del volontariato e della scuola, può appoggiarsi a solide relazioni tra interno ed esterno, tra carcere e città, costruite in oltre 10 anni di scambio e progettualità. Oggi, un ulteriore passo verso il cambiamento, porta la realtà di Massa Marittima ad essere esempio e laboratorio per tutto il Paese. Il carcere cerca un futuro più vicino alla società, quella che i detenuti si troveranno a vivere da uomini liberi. E consapevoli. Bergamo. Un tir di prodotti igienizzanti donati da L’Orèal per il carcere di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 29 aprile 2020 Ieri mattina il cancello del carcere di Bergamo si è aperto per far entrare un tir carico di prodotti per l’igiene personale, donati da L’Orèal Italia. L’iniziativa è in coerenza con il piano di solidarietà europeo del Gruppo che sta distribuendo 400mila pezzi ad associazioni caritatevoli sul territorio che sostengono famiglie e persone colpite da Covid-19, ed è stata affidata alla mediazione dell’associazione Banco Building, una onlus che si occupa di fare da ponte tra aziende e mondo no-profit per eliminare gli sprechi e favorire la sostenibilità ambientale con il riutilizzo di materiali di vario genere. “Siamo orgogliosi di essere riusciti a rispondere alle richieste di associazioni che operano nel mondo delle carceri, dando così un segnale di attenzione a una realtà in crisi. Siamo certi che questa collaborazione, nata in un contesto drammatico, proseguirà anche in futuro” ha dichiarato Silvo Pasero, presidente Banco Building Onlus. Ad accogliere il tir carico di prodotti, e poi a scaricarli, hanno provveduto i detenuti che lavorano per la manutenzione ordinaria del fabbricato all’interno dell’istituto penitenziario, il Comandante e alcuni agenti di Polizia Penitenziaria. “Il diritto penale totale”. Il giustizialismo spiegato in venti tesi recensione di Giuliano Cazzola Il Riformista, 29 aprile 2020 Il saggio di Filippo Sgubbi. “Il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: un male insito nell’uomo. Una sorta di peccato originale”. Lo studioso mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale tanto da alterare l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato. L’opinione pubblica non si è ancora accorta che, col pretesto dell’epidemia del Covid-19, la legislazione d’emergenza ha azzerato non solo i fondamentali diritti di libertà (politici, religiosi, civili) ma ha trasformato in reati le più elementari regole di comportamento che gli esseri umani utilizzano da quando i cavernicoli hanno cominciato ad esplorare il territorio. Ormai la nostra esistenza è regolata da un solo diritto: quello penale. A questo proposito consiglio la lettura di un lepidus libellus di Filippo Sgubbi “Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, edito da Il Mulino. Già il titolo è eloquente, ma nelle 88 pagine del libellus, Sgubbi, ex docente di diritto penale e autore di pubblicazioni fondamentali nella materia, mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale, tanto da alterare le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato. Peraltro questo breve saggio è stato scritto prima che si affacciasse, anche nelle previsioni degli indovini, la prospettiva di un contagio con effetti devastanti sulla vita e le abitudini dei cittadini e distruttivi per l’economia, il reddito e l’occupazione. Il quadro tracciato da Sgubbi si è trasformato in una sorta di quadratura del cerchio nel rapporto tra lo Stato e il cittadino attraverso un uso repressivo della legge. Il diritto penale è divenuto ancora di più totale “perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua. Totale “perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale. Tanto che le norme sulla sospensione della prescrizione somigliano al sistema punitivo degli antichi Tribunali episcopali, i quali disponevano del potere di irrogare penitenze che potevano durare fino alla morte del trasgressore. E ancora, totale soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male. E qui Sgubbi - senza citare casi concreti ma consentendo al lettore di risalire a eventi della cronaca - denuncia gli interventi governativi che di fronte a fatti disastrosi, ampiamente presenti e diffusi dai media, pretendono di aver immediatamente identificato il responsabile, prescindendo dall’operato della magistratura reputato troppo lento nell’acquisire le prove e nel giudicare. Una forma di pretesa irrilevanza delle prove come quella manifestata da certi gruppi (l’autore di riferisce a movimenti come il #metoo) che mirano ad incolpare senza provare. A questo proposito l’autore si sofferma sul tema delle molestie sessuali di tipo verbale o non verbale, “indesiderate”, dove la tipicità penale del fatto scaturisce direttamente dal gradimento o meno da parte del destinatario. La percezione della vittima diventa elemento costitutivo del reato: “La condotta dell’agente può essere oggettivamente neutra, ma se viene percepita come lesiva dall’interlocutore diventa reato. Ne deriva che nei processi penali le prove non si limitano ad applicare il sillogismo classico dell’illiceità, confrontando il comportamento specifico dell’imputato con la norma di carattere generale, ma la ricerca verte anche sull’esistenza o meno della illiceità ovvero di una norma che sanzioni quel comportamento. È il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il cosiddetto concorso esterno nei reati associativi ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza - e quindi ex post - se la propria condotta rientra o meno in tale fi gura. La giurisprudenza - che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto - è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. L’apparato penale - spiega Sgubbi - costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni, diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali. La “distorsione istituzionale” viene così spiegata: La decisione giurisprudenziale diventa - secondo l’autore - una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente. Ma la critica (le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo) non si ferma qui. Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali - prosegue Sgubbi - la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari. Si staglia, poi, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto - sostiene Sgubbi - commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale. Non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Così talune categorie sociali sono “pure” per definizione e prive di colpa (esempio gli occupanti abusivi di case); anzi la loro condizione di illegalità, talvolta, è creatrice di diritti (come l’allacciamento abusivo alla corrente elettrica). Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza (un innocente è solo un colpevole che l’ha scampata); cioè saranno costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli può essere imputato nulla. Per gli impuri “la salvezza penale è ardua” perché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova. È la casta; e in quanto tale è condannata ad un costante e immanente sospetto di illecito. Si è cominciato e si continua così. Il fatto è che questi abusi sono sorretti da un sostanziale consenso. Nella serata del 25 Aprile, mi ha impressionato una trasmissione televisiva, durante la quale la conduttrice si collegava con un operatore a bordo di un elicottero delle Forze dell’Ordine che sorvolava Roma per individuare degli assembramenti ed orientare, dall’alto, l’intervento delle pattuglie dei Carabinieri. Io operazioni siffatte le ho viste compiere solo nel Cile ai tempi di Pinochet, quando la Cgil mi incaricò - come si faceva tutti gli anni - di recarmi a Santiago per parlare al comizio (proibito) organizzato dai sindacati dell’opposizione. La presenza di un sindacalista straniero alla loro manifestazione era un modo di proteggere quei lavoratori dagli interventi repressivi della Polizia del regime, che non gradiva far parlare di sé sul piano internazionale. Siamo a questo punto? La democrazia italiana sta diventando una “democratura”? L’emergenza non cambia i diritti di Davide Varì Il Dubbio, 29 aprile 2020 Cartabia: “Sacrifici solo temporanei, è nella Costituzione”. “Rieducare i condannati ma senza trascurare la sicurezza”. Prima il richiamo alla nostra Costituzione, unica “bussola” che consente di “navigare in alto mare in tempi di crisi”; poi il riferimento alle carceri e infine alla giustizia penale. Insomma, nella sua relazione annuale, la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia ha affrontato i punti più delicati del dibattito giudiziario e politico italiano. Lo fa ha fatto a modo suo: volando alto e nel rispetto assoluto del ruolo di ognuno. Ma questo non vuol dire che la presidente della Consulta non sia entrata nelle viscere delle questioni più delicate e per certi aspetti drammatiche che il Paese sta vivendo in queste settimane. Ma andiamo con ordine. Il momento più sentito della sua relazione è senza dubbio quello in cui la presidente della Consulta volge il pensiero a chi ha perso i propri cari, seguito dal ringraziamento per medici e infermieri che lavorano con “competenza, coraggio, generosità”. Nessun riferimento, invece, alla sua vicenda personale, al fatto che lei stessa si sia ritrovata a lottare per oltre un mese contro il virus, pur garantendo i lavori della Corte. Ed è proprio da lì, dal ruolo della Corte e della Costituzione, che ha preso le mosse la relazione della presidente Cartabia, da quell’unica “bussola” in grado di indicare la rotta. E proprio mentre il governo è impegnato in una serie di decreti di emergenza assai restrittivi delle libertà personali e nei giorni in cui è preso di mira dalle opposizioni che vorrebbero un maggior coinvolgimento del Parlamento, la presidente della Consulta invoca “la piena attuazione della Costituzione”. La quale “Costituzione - sottolinea la presidente, ed è questo uno dei passaggi più importanti e delicati - non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto”. D’altra parte la presidente ammette però che la stessa Carta “non è insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza, come recita l’articolo 77 della Costituzione in materia di decreti- legge”. Soprattutto di fronte a una “contingenza inedita e imprevedibile contrassegnata dall’emergenza, dall’urgenza di assicurare una tutela prioritaria alla vita, alla integrità fisica e alla salute delle persone anche con il necessario temporaneo sacrificio di altri diritti”. Del resto, ricorda Cartabia, “la Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi, dagli anni della lotta armata a quelli più recenti della crisi economica e finanziaria, e tutti sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando al suo interno - sottolinea - gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela sistemica e non frazionata dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti”. Poi il richiamo alla collaborazione istituzionale e, nello specifico, a “un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza”. Parole che Fi non si è lasciata sfuggire parlando di “severa tirata d’orecchie” nei confronti di un premier che da mesi va avanti “senza coinvolgere” opposizioni e Parlamento. L’altro passaggio che sembra riecheggiare le polemiche di questi giorni riguarda invece il ruolo della magistratura di sorveglianza, invitata a “perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete”. Per quel che riguarda la giustizia penale, la presidente Cartabia ammette che “una attenzione particolare è stata riservata, nel 2019, alla giustizia penale, proseguendo il cammino tracciato negli ultimi anni”, osservando però che “le novità non attengono tanto al terreno del processo penale, quanto ai terreni del diritto penitenziario, nel quale la giurisprudenza costituzionale si era mossa in passato con grande deferenza verso la discrezionalità legislativa”. Tuttavia, spiega Cartabia, “è sembrato sempre più inaccettabile che proprio là dove vengono in rilevo i diritti fondamentali della persona di fronte alla potestà punitiva dello Stato, la Corte costituzionale dovesse arrestare il proprio sindacato per mancanza di univoche soluzioni: perciò, anche in questo ambito una nuova sensibilità ha imposto alla Consulta di rinvenire nell’ordinamento soluzioni adeguate a rimuovere la norma lesiva della Costituzione, allo stesso tempo preservando la discrezionalità del legislatore”. Nella giurisprudenza costituzionale degli anni più recenti, ribadisce la presidente della Consulta, “emergono alcuni principi fondamentali, alla luce dei quali la Corte costituzionale svolge un vaglio di legittimità più puntuale anche in questi settori”. E ricorda a tutti, infine, “il principio di proporzionalità della pena, implicito nei principi di ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena ed esplicitamente formulato nella giurisprudenza delle Corti europee”. Prima il richiamo alla nostra Costituzione, unica “bussola” che consente di “navigare in alto mare in tempi di crisi”; poi il riferimento alle carceri e alla giustizia penale. Inizia così la relazione della presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia. Covid e libertà, il potere e il piacere di Grazia Zuffa Il Manifesto, 29 aprile 2020 Norme straordinarie, che incidono sulle libertà personali in nome di un’emergenza con la E maiuscola, come quella della salute, chiamano all’eccesso nell’esercizio di autorità: che si manifesta “in alto”, a livello dei macropoteri fino ad arrivare “in basso”, ai “micropoteri” che presiedono all’applicazione delle norme. In un paesino delle Alpi Carniche, qualche settimana fa un’anziana signora ripuliva dalle erbacce il suo campo, nei pressi di casa sua. Era sola nel prato e del resto non c’era anima viva a portata d’occhio, fatto del tutto normale in una zona montana il cui problema principe è la solitudine dello spopolamento, non le insidie epidemiche dell’affollamento. La signora è stata avvistata da una macchina di pattuglia. Ne è sceso un vigile urbano, che si è arrampicato su per la scarpata, urlando alla donna di tornare subito a casa, pena una salata sanzione pecuniaria (prevista per l’infrazione di uno dei tanti Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri contro l’epidemia di coronavirus). In una cittadina del Cremonese, mentre un parroco celebrava in chiesa la messa insieme a tredici fedeli, un carabiniere è salito sull’altare con un telefono in mano, intimando al celebrante di interrompere il rito e di rispondere al telefono: all’altro capo del filo c’era il sindaco, desideroso di comunicare di persona al parroco l’ordine di sospendere la messa (in forza del Dpcm antipandemia del 29 marzo). Il parroco, Don Lino, è diventato famoso perché l’irruzione del carabiniere è stata ripresa e trasmessa su molti canali televisivi. E anche perché non si è fatto intimorire e ha continuato a dire messa, ingaggiando poi una battaglia legale sull’interpretazione del decreto. Molto si potrebbe dire nel merito delle singole limitazioni, specie su quelle che vietano ai fedeli di presenziare alla messa, appena riconfermate, con non poche polemiche, nell’ultimo Dcpm sulla fase 2. Non è questo che qui mi interessa. Ciò che mi ha colpito nei due episodi (peraltro differenti in molti aspetti), è l’eccesso di zelo, per non dire la tracotanza, di chi quelle norme deve farle rispettare. Che cosa spinge un giovane vigile urbano a umiliare un’anziana donna rimbrottandola come una scolaretta? Una donna che con ogni probabilità conosce, visto che in un paesino di mille anime si conoscono tutti. Una donna che certo non minacciava la propria e l’altrui salute zappando l’orto in solitudine. E di quale missione salvifica si è sentito investito il carabiniere per brandire sull’altare quel telefono, a mo’ di inedito (e ridicolo) bastone d’autorità? Ho raccontato questi due fatti, ma di altri simili sono a conoscenza. Da qui la conclusione: norme straordinarie, che incidono sulle libertà personali in nome di un’emergenza con la E maiuscola, come quella della salute, chiamano “naturalmente” all’eccesso nell’esercizio di autorità: che si manifesta “in alto”, a livello dei macropoteri (ad esempio nel ricorso ripetuto e improprio ai Dcpm), fino ad arrivare “in basso”, ai “micropoteri” che presiedono all’applicazione delle norme: portati a indulgere a quel piacere in più che nasce da quel potere in più sui cittadini/e. Molto si è scritto a difesa delle norme di confinamento in casa e di divieto di varie attività, in quanto non anticostituzionali. Bene, a patto però di sottolineare la loro assoluta “eccezionalità”. Tenerla a mente, da parte di ognuno/a di noi, tenerla viva nel dibattito pubblico anche da parte di chi quelle norme ha emanato, è l’unico argine a difesa delle nostre “normali” libertà, per il dopo coronavirus. Magari allora il vigile abbasserà la voce e il sindaco rimanderà la telefonata. Le misure straordinarie che obbligano i cittadini all’isolamento sociale hanno un altro limite. Non li educano ai corretti comportamenti negli scambi sociali, che, seppur ridotti, dovranno pur riprendere, nella fase 2 o 3 o 4. In ogni modo, lo scenario futuro in attesa del vaccino si giocherà sulla capacità di ognuno/a di padroneggiare la propria salute. Se invece dell’ossessivo “resta a casa”, si informasse meglio sui rischi relativi alla permanenza del virus sulle superfici, o su come utilizzare in maniera propria le mascherine, ne risulterebbe un beneficio alla salute pubblica. L’informazione è un bene primario, come l’aria e l’acqua di Vincenzo Vita Il Manifesto, 29 aprile 2020 Ri-mediamo. La gravità della situazione determinatasi con il Covid-19 e l’andamento della crisi economica richiedono un salto di qualità: l’informazione è diventata decisiva non solo per il rispetto dei classici canoni deontologici, ma anche per garantire la sopravvivenza cognitiva di una società ferita e limitata nelle libertà. Oggi il tenace e fattivo sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella riferisce sul settore alla commissione cultura della Camera dei deputati. Qualche richiesta emersa dal vasto e articolato universo ha trovato spazio nei recenti decreti “Cura Italia” e “Liquidità. Tuttavia, la gravità della situazione determinatasi con il Covid-19 e l’andamento della crisi economica richiedono un salto di qualità. L’informazione è diventata decisiva non solo per il rispetto dei classici canoni deontologici, bensì anche per garantire la sopravvivenza cognitiva di una società ferita e limitata nelle libertà. Insomma, l’annunciata riforma per la cosiddetta fase 5.0 intanto potrà avvenire, in quanto i protagonisti del sistema arriveranno all’appuntamento illesi e vivi. Ricordiamoci che (dati della federazione degli editori) dal 2007 al 2018 le vendite dei giornali si sono ridotte del 46,5% e la raccolta pubblicitaria del 70%. Non solo. Nello stesso periodo le testate interessate al Fondo per il pluralismo e l’innovazione sono passate da più di 250 a 107. In un settore contiguo come la radiofonia, la parabola è stata persino clamorosa: da oltre mille stazioni si è arrivati a poche centinaia, stando alle richieste di finanziamento previste dallo specifico regolamento del ministero dello Sviluppo. Si sente l’urgenza di uno Stato innovatore capace di considerare le testate non una spesa, bensì un investimento strategico. Del resto, un recente studio del dipartimento della presidenza del consiglio mostrò che in Europa (ivi compreso il Regno unito) le risorse pubbliche sono assai rilevanti. Sembra profilarsi nel prossimo decreto del governo uno sforzo ulteriore: dal sostegno doverose alle edicole, al credito di imposta per la pubblicità e la carta, al ritorno della pubblicazione obbligatoria degli avvisi legali. E forse altro ancora. Ecco. È vero che nella scorsa legge di Bilancio fu rinviato il taglio del fondo deciso dall’esecutivo precedente, ma nell’emergenza attuale è indispensabile garantire almeno la copertura per il 2020 e recuperare i ben 43 milioni persi dalla quota percentuale prevista dal canone della Rai. Vi è, poi, il problema delle agenzie di stampa radiofoniche, che stanno in una specie di limbo. Vi dovrebbe essere un intervento per le iniziative digitali, se si è capito bene. Ma l’era digitale, affinché non si risolva in ulteriori impoverimenti e chiusure, richiede non uno spezzatino, bensì un consistente Welfare Communication, vale a dire una politica economica aperta e illuminata: spendere oggi per evitare dolorosi crolli domani. In tal senso va la giusta proposta avanzata dalla federazione della stampa di imporre un prelievo del 5% (a favore dell’editoria) sul fatturato degli Over The Top che, oltre a disporre gratuitamente dei nostri dati, fatturano cifre corrispondenti ai bilanci dei principali stati del continente. In vista della preannunciata tassa da introdurre stabilmente senza perdere altro tempo, nonché del recepimento della direttiva europea sul copyright per ciò che concerne la remunerazione della fatica intellettuale. Ultimo e nient’affatto ultimo: il lavoro. Rispetto alle misure già prese, ancorché irte di questioni interpretative, serve davvero un altro passo. La tragedia che stiamo vivendo spesso è raccontata da ottime/i croniste/i precarie/i o co.co.co. Vogliamo mettere fine una volta per tutte a simile amarissima piaga? Vale o no il principio generale per cui chi fa lo stesso lavoro ha diritto allo stesso contratto? Che il virus, almeno, scuota le coscienze. Sovraffollate e vecchie: le carceri di tutto il mondo fanno i conti con il virus di Ronaldo Schemidt Internazionale, 29 aprile 2020 Dall’inizio della pandemia molti paesi hanno dovuto fare i conti con sistemi penitenziari che già prima della diffusione del nuovo coronavirus avevano mostrato tutti i loro limiti. Istituti sovraffollati, in molto casi vecchi e spesso carenti dal punto di vista sanitario, si sono ritrovati a dover gestire una crisi di tipo planetario e in molti casi stanno facendo fatica a contenere il contagio. Il New York Times ha provato a capire cosa sta succedendo tra i detenuti e cosa stanno facendo i governi per rispondere all’emergenza. A marzo in tredici penitenziari colombiani sono scoppiate delle rivolte che hanno causato la morte di 23 persone. Come in altri paesi, compresa l’Italia, le proteste sono nate per un insieme di motivi: dalla paura per il contagio in luoghi per loro natura sovraffollati e chiusi, alle ulteriori restrizioni imposte ai detenuti, alle condizioni di invivibilità di molti istituti. Il 24 aprile i carcerati di Villa Devoto a Buenos Aires, in Argentina, sono saliti sul tetto, hanno bruciato dei materassi e mostrato uno striscione con scritto: “Ci rifiutiamo di morire in prigione”. “La facilità con cui il virus si è diffuso dietro le sbarre è diventata evidente a febbraio”, scrive il New York Times, “quando 555 detenuti sono risultati positivi nelle carceri delle province dello Hubei, dello Shandong e del Zhejiang, in Cina”. I casi si sono moltiplicati in tutto il mondo. Negli Stati Uniti - dove una ricerca ha documentato che il 96 per cento di circa 3.300 detenuti trovati positivi al virus era asintomatico - il sito Marshall Project ha denunciato il rischio che si corre nelle prigioni locali, dove ogni giorno migliaia di persone transitano (senza controlli sanitari) in attesa di un processo; a New York si sono registrati centinaia di contagi tra chi è detenuto nel complesso di Rikers Island; e anche negli istituti minorili sono decine le ragazze e i ragazzi risultati positivi. Per limitare i contagi e i morti, molti paesi hanno deciso di applicare a migliaia di persone le pene alternative alla detenzione. L’Iran da un lato ha represso chi manifestava in cella per le condizioni delle prigioni, dall’altra ha liberato 85mila detenuti. In Turchia il parlamento ha approvato una legge che permette il rilascio temporaneo di 45mila persone. L’Indonesia ne ha liberate 30mila. La Francia diecimila. Anche in Italia - dove secondo i dati del ministero della giustizia i contagiati tra chi sta scontando una pena sono 94 - sono state previste delle misure per diminuire il sovraffollamento nelle prigioni, ma dall’inizio dell’epidemia a oggi hanno potuto accedervi seimila persone. Negli Stati Uniti, scrive il New York Times, sono migliaia. “In molti paesi, le carceri sono sovraffollate”, ha dichiarato Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, “trascurarle avrebbe conseguenze catastrofiche”. Prigioni in subbuglio, il focolaio esplosivo dell’America latina di Federico Larsen Il Manifesto, 29 aprile 2020 Emergenza doppia. Sovraffollamento, misure insufficienti per contenere i contagi, sommosse e proteste attraversano tutto il continente. Numeri da incubo. L’allarme lanciato già a marzo dall’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet: 1 milione e mezzo di reclusi in “condizioni igieniche deplorevoli”. Dall’inizio della pandemia le carceri latinoamericane sono in subbuglio. Sospese le visite, moltiplicate le misure di isolamento, spesso in celle speciali, e ridotti i momenti di svago e socialità, si registrano proteste e sommosse in tutta la regione. A marzo, 1350 reclusi sono fuggiti durante le rivolte nei penitenziari di São Paulo contro l’annullamento dei permessi di uscita transitoria; il 21 marzo, 23 persone sono state uccise dalla polizia durante una protesta nel centro La Modelo, in Colombia; durante le ribellioni causate dalle condizioni sanitarie e le misure speciali adottante dovuto al Coronavirus, sono morti altri dieci detenuti in Venezuela, due in Perù, cinque in Argentina. Tra le principali denunce, quella del sovraffollamento è una costante. Salvo Messico, Belize, Uruguay e Cile, tutti i paesi latinoamericani hanno da tempo colmato le capacità del proprio sistema penitenziario secondo dati del World Prision Brief. In Bolivia le prigioni hanno un’occupazione del 363%, in Guatemala del 357% in Perù del 232%. In Brasile, dove i prigionieri superano il 167% della capacità penitenziaria, secondo dati del ministero della Salute del 2018 in carcere la possibilità di contrarre tubercolosi è 35 volte superiore. L’allarme era stato già lanciato a marzo dall’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet: un milione e mezzo di reclusi in America Latina si trovano in “condizioni igieniche deplorevoli” e i servizi sanitari penitenziari sono “inadeguati o inesistenti”. La politica sudamericana, dalla forte tradizione punitivista, ha cominciato a prendere nota. Il governo del Perù, nelle cui prigioni sono già stati registrati 613 casi positivi al Covid-19 e 13 vittime, ha concesso l’indulto a 3.000 persone, seguendo così i suggerimenti di organizzazioni internazionali come l’Onu, o Human Rights Watch. Cile e Colombia hanno concesso i domiciliari ad altri 7.500 detenuti, e in Argentina si discute tra mille polemiche una misura simile. É proprio a Santiago de Chile che si registra il focolaio più preoccupante di contagio: nel carcere di Peunte Alto su 1100 reclusi, 300 sono risultati positivi al test di Coronavirus. La Repubblica Dominicana ha registrato 239 casi tra i carcerati, mentre il Brasile ne ha informati 104 e quattro morti. Ufficialmente i contagiati nelle prigioni latinoamericane sono 1.400, anche se si teme che sia un dato poco affidabile: in Brasile ad esempio sono stati fatti solo 682 test su 773mila detenuti. Bachelet ha puntato il dito specialmente contro le misure preventive di privazione della libertà, che aumentano il numero di detenuti ben oltre le soglie internazionalmente stabilite con “motivi giuridici insufficienti”. In Argentina 6 prigionieri su 10 attendono la condanna definitiva in celle da un metro quadrato a testa. In Paraguay sono in custodia cautelare il 77% del totale dei detenuti, in Bolivia il 70% e in Venezuela il 63%. Ridurre la popolazione carceraria è dunque il principale consiglio di tutte le organizzazioni internazionali per il continente. Eppure, l’opposizione a iniziative simili è generalizzata, e nessun governante sembra voler assumerne il costo politico. In Argentina una senatrice del partito dell’ex presidente Macri ha addirittura accusato il governo peronista di voler creare “pattuglie di galeotti per attaccare giudici ed espropriare aziende come in Venezuela”, dopo pochi giorni di discussione pubblica. Un tabù che si sta trasformando lentamente in tragedia. Turchia. Ci sono 120 detenuti positivi in 4 carceri, nonostante la maxi-amnistia ansa.it, 29 aprile 2020 Sono 120 i detenuti in 4 prigioni turche risultati finora positivi al coronavirus. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia di Ankara, Abdulhamit Gul, precisando che tutti sono stati ricoverati in ospedale e risultano in buone condizioni. Due settimane fa la Turchia ha approvato una maxi-amnistia che ha permesso la liberazione di circa 90 mila prigionieri, un terzo del totale, per ridurre i rischi di diffusione del Covid-19 nei suoi sovraffollati istituti penitenziari. Il ministro ha inoltre reso noto che la concentrazione di persone nei tribunali si è ridotta del 95% a seguito dei rinvii di molti processi, la cui ripresa è attualmente prevista il 15 giugno ma potrebbe essere anticipata in caso di miglioramento della curva dei contagi. Libia, il pericoloso declino di Haftar di Alberto Negri Il Manifesto, 29 aprile 2020 Guerra e pandemia. Una dichiarazione roboante ma che segnala il fallimento dell’offensiva contro Tripoli. La situazione però potrebbe diventare ancora più pericolosa: la chiave sta nella mentalità di Haftar e del suo principale sponsor, gli Emirati Mohammed bin Zayed. Non ci sono alternative: o la vittoria o la sconfitta. Con la pandemia la diplomazia internazionale in Libia si è inabissata e parlano le armi che neppure il virus (pochi ancora i casi di contagio) e il Ramadan riescono a fermare. Il discorso dell’altra notte del generale Khalifa Haftar potrebbe sancire la spaccatura definitiva tra Cirenaica e Tripolitania. Una dichiarazione roboante in cui si è autoproclamato capo assoluto ma che segnala il fallimento dell’offensiva contro Tripoli: la battaglia di Tarhuna, dove a sud est della capitale è sotto assedio di Sarraj e delle milizie turche di Erdogan, sarà decisiva per l’unità futura del Paese. Se viene sconfitto sarà costretto ad arroccarsi in Cirenaica e a rivedere i suoi ambiziosi obiettivi, già ridimensionati dopo la ritirata dall’Ovest. In realtà la situazione potrebbe diventare ancora più pericolosa. La chiave sta nella mentalità di Haftar e del suo principale sponsor, il principe ereditario degli Emirati Mohammed bin Zayed. Per questi due attori del fronte sostenuto da Egitto, Arabia saudita e Russia non ci sono alternative: o la vittoria o la sconfitta. A Tripoli Haftar - che ha dichiarato nulli gli accordi di Skhirat per un governo nazionale - non è più ritenuto un interlocutore e circolano voci di un possibile accordo tra il presidente del parlamento di Tobruk, Aguilah Saleh, e Sarraj, per escluderlo. Se questo venisse confermato renderebbe furibondo e incontrollabile l’ex maresciallo di Gheddafi. La Russia, che pure ha inviato mercenari e aiuti ad Haftar, da qualche tempo nutre su di lui seri dubbi. Putin non l’ha mollato ma sia lui che Lavrov si sono legati al dito lo sgarbo clamoroso del gennaio scorso quando venne invitato a Mosca e rifiutò di firmare la tregua. La Russia in Libia e in Siria si gioca la sua presenza nel Mediterraneo. Come in Siria il concorrente principale è Erdogan ma proprio a Idlib russi e turchi stanno pattugliando congiuntamente l’area. Un segnale di collaborazione importante. Il Cremlino, vista l’incapacità di Haftar, è più favorevole a una trattativa che non a una soluzione di forza. Inoltre ha mosso altre pedine mandando una delegazione siriana a trattare con Haftar l’invio di nuove milizie: un modo per sostenere il generale ma anche per tenerlo d’occhio. Senza contare che Assad sta rientrando nel consesso arabo e ha riallacciato rapporti con le monarchie del Golfo ritenute da Mosca essenziali per la ricostruzione siriana. Haftar è pericoloso perché ha ancora il pieno appoggio degli Emirati che gli hanno messo a disposizione la tv Al Arabiya: qui è ospite fisso Al Mismari, il portavoce del generale che davanti alle mappe illustra conquiste e offensive che restano sulla carta. Con un’enfasi che la tv emiratina ha riservato soltanto all’occupazione di Aden da parte del Southern Transitional Council (Stc), sostenuto dal principe Bin Zayed: un’altra complicazione nella guerra per procura tra Iran e sauditi. Non importa se poi le grandi manovre di Haftar vengono puntualmente smentite dai fatti, come è accaduto quando sembrava che il generale fosse sul punto di impadronirsi dell’Ovest e dei terminali Eni di Mellitah: quasi tutti sono cascati nella trappola mediatica degli Emirati. Il nocciolo della questione è che finora Emirati, Egitto e Arabia Saudita, Russia - un po’ meno la Francia - ritengono che in Libia sia indispensabile l’uomo forte: l’obiettivo rimane la capitolazione di Tripoli e la fine dell’Islam politico con la cacciata dei Fratelli Musulmani. Cosa sempre più complicata perché l’arrivo della Turchia, che rifornisce di armi e droni Sarraj, ha mutato il quadro interno a Tripoli. Con l’appoggio di Erdogan le milizie a maggiore contenuto ideologico islamista stanno tentando di prevalere sulle altre più legate ad attività puramente criminali. Sia chiaro: quelli che trafficano migranti non si sono certo fermati ma Ankara ha l’obiettivo di domare i cacicchi libici. Sempre più nebuloso appare il ruolo dell’Onu e dell’Europa: le Nazioni Unite stanno ancora cercando di nominare un inviato e la missione navale e aerea Irini per applicare l’embargo alle armi è un ectoplasma. Haftar viene rifornito via aerea o via terra dall’Egitto mentre Sarraj e i turchi protestano che loro sono il governo legittimo e quindi si sentono penalizzati. Ma è una manfrina: tutti fanno quel che vogliono. La guerra per procura libica è sempre più in mano agli attori esterni. Con il blocco dell’export di petrolio da gennaio il Paese perde due miliardi di dollari di entrate al mese e a fine anno le riserve valutarie saranno quasi esaurite. Senza contare che con la pandemia e il calo drastico della domanda mondiale le quotazioni del barile sono crollate. Quando l’Europa e il nostro ministero degli Esteri alzeranno la testa dall’emergenza epidemia, troveranno sulla sponda Sud una Libia ancora più lontana. Cosa sta succedendo nelle carceri di El Salvador di Rossana Miranda formiche.net, 29 aprile 2020 Il giovane presidente ha diffuso le foto su come si stanno gestendo le divisioni di detenuti nelle carceri per ridurre la violenza. Una strategia molto pericolosa, secondo gli esperti. Ecco misure e rischi. “Sono finite le celle di una stessa gang, abbiamo mescolato tutti i gruppi terroristi nella stessa cella, in tutti i centri penali di sicurezza. Lo Stato si rispetta!”. Con questo tweet, accompagnato da una serie di immagini agghiaccianti, il viceministro per la Giustizia di El Salvador, Osiris Luna Meza, ha annunciato nuove misure nelle carceri del Paese. L’obiettivo è ridurre l’operatività di molti detenuti, che continuano ad emettere ordini all’esterno. Negli ultimi mesi, il numero di omicidi in El Salvador è aumentato e secondo le autorità gli ordini sono partiti dalle carceri. I tweet e le immagini sono state retwittate dal presidente Nayib Bukele e da molti account ufficiali del governo. Nelle foto si vedono ammassati membri di gang rivali (gli esperti lo capiscono dai tatuaggi con i quali si identificano), tutti inginocchiati, alcuni con mascherine, senza che sia rispettata la distanza di sicurezza per evitare il contagio di Covid-19. Da marzo in El Salvador è stato dichiarato il lockdown per contenere la diffusione del virus. “Le maras (organizzazioni criminali che operano in Centroamericano) sfruttano che quasi la totalità delle forze di sicurezza stanno controllando la pandemia”, ha scritto Bukele su Twitter, il mezzo in cui comunica gran parte delle comunicazioni importanti. Successivamente, ha deciso di annunciare lo stato di emergenza nelle prigioni, autorizzando la polizia e l’esercito di fare uso “della forza letale” per contenere l’ondata di violenza nel Paese. “L’uso della forza letale è autorizzata per la difesa personale o la difesa della vita dei salvadoregni - ha scritto -. Chiediamo all’opposizione ad essere dalla parte della gente onesta, e alle istituzioni di smettere di proteggere chi uccide il nostro popolo”. La scelta è supportata, secondo Bukele, dalle informazioni in mano all’intelligence che molti degli ordini per gli omicidi sono partiti proprio dalle celle. Da quando è arrivato alla presidenza a giugno del 2019, Bukele è riuscito a ridurre il numero di omicidi nel Paese, grazie ad una strategia di sicurezza. L’indice di omicidi è passato da 51 ogni 100.000 abitanti nel 2018 a 35,8 nel 2019. Per anni, El Salvador è stato uno dei Paesi più violenti al mondo, soprattutto per le attività di organizzazioni come Mara Salvatrucha (MS-13) e Barrio 18, che si dedicato al narcotraffico e l’estorsione. Venerdì scorso, media locali hanno riportato una ventina di omicidi in un solo giorno, una tendenza che si è mantenuta tutto il fine settimana. Bukele ha annunciato le misure, tra cui la sospensione di qualsiasi contatto tra detenuti con l’esterno, il confinamento assoluto, 24 ore al giorno, e l’isolamento dei capi delle gang. “Tutte le celle dei membri delle bande resteranno sigillate […] Non potranno più vedere fuori dalla cella. Ciò impedirà loro di comunicare con segnali verso il corridoio. Resteranno dentro, al buio, con i loro amici dell’altra banda […] Chi opponga resistenza - ha aggiungo Bukele - sarà abbattuto con la forza proporzionale e possibilmente letale dalla nostra forza pubblica”. Non si sono fatte attendere le critiche. Come riportato dalla Bbc, la Commissione Interamericana di Diritti Umani ha dichiarato di essere preoccupata per lo stato di emergenza delle prigioni in El Salvador, che “mette a rischio il diritto delle persone private dalla propria libertà”. Secondo la Commissione di Diritti Umani di El Salvador, mischiare i membri di diverse gang nelle stesse celle “porterebbe un rischio totale, giacché ci saranno rivolte e omicidi selettivi o collettivi”. “Bukele cerca di dare carta bianca ai membri della forza pubblica per uccidere - ha spiegato José Miguel Vivanco, direttore per le Americhe di Human Rights Watch. Le sue indicazioni alla polizia o alle forze armate contraddicono gli standard internazionali”. Jeannette Aguilar, ricercatrice ed esperta di sicurezza e violenza, ha detto alla Bbc che queste misure di isolamento sono una bomba ad orologeria che potrebbe aumentare gli scontri: “L’isolamento permanente in condizioni precarie, con questo livello di ammassamento e con l’emergenza coronavirus, potrebbe fare esplodere nuovi conflitti a causa dello stress a cui si sottopongono i detenuti”.