Carcere e scuole: un progetto di prevenzione che ha sette vite Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2020 L’emergenza in atto ha imposto a noi, volontari e detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, di ripensare i nostri progetti, tra cui anche il progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità”. È un progetto complesso, che compie 18 anni e ha attraversato tempi difficili in cui nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza, perché un progetto con al centro le storie delle persone detenute non ha vita facile. Eppure, ce l’abbiamo fatta anche questa volta perché davvero nessuno vuole rinunciare a questo progetto, e dopo alcuni incontri di programmazione con i docenti ci siamo attivati per incontrare gli studenti a distanza. All’inizio avevamo qualche timore, perché veniva a mancare il contatto diretto, così importante quando le persone detenute portano la loro testimonianza, ma abbiamo deciso di provarci in un primo incontro, con due classi dell’Istituto Scarlcerle di Padova. E siamo veramente contenti dei risultati. Utilizzare un mezzo a distanza ci ha tolto la bellezza di leggere sui volti degli studenti l’interesse e l’emozione, ma ci ha permesso di coinvolgere persone che non abitando a Padova non avrebbero potuto partecipare: in quel primo incontro ad esempio abbiamo avuto con noi Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo Sergio Bazzega, ucciso nel 1976 in un conflitto a fuoco con un giovanissimo brigatista negli anni tragici della lotta armata in Italia, quando lui di anni ne aveva poco più di due. “La vittima, in generale, sente di avere il monopolio del dolore”: sono parole di Giorgio Bazzega, che ha per anni convissuto con la rabbia, il rancore, la droga usata come “anestetico”, ma poi ha incontrato sulla sua strada esperienze importanti che lo hanno portato a fare la conoscenza con una idea diversa della giustizia, quella che al male sceglie di non rispondere con altro male. In giorni di scuola strani, quando le lezioni si fanno a distanza e può sembrare un modo meccanico e senza calore umano, accade invece che si riesca ad aprire tanti dialoghi altrettanto “strani”, che mettono insieme persone che dovrebbero essere “nemiche” e invece hanno scelto di parlarsi: vittime, “carnefici”, figli innocenti di genitori detenuti. E così è successo che il 20 aprile, due classi dell’Istituto Scalcerle e poi il 23 moltissime classi del Liceo Curiel hanno “incontrato” in videoconferenza Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato Paolo Borsellino, ucciso dalla Mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, e poi Francesca, figlia di un detenuto, ex appartenente alla criminalità organizzata, e ancora due persone che hanno finito di scontare una lunga pena. “Mio padre diceva che il vero cambiamento, la vera lotta alla mafia può essere fatta soltanto con quella rivoluzione morale e culturale che deve necessariamente coinvolgere le nuove generazioni” ha detto Fiammetta, e forse è una rivoluzione anche che una persona come lei, invece di nutrirsi di odio, scelga di rifiutare la vendetta e di privilegiare sempre il dialogo, il confronto, la mediazione. Questi incontri in videoconferenza fanno parte del progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità” che la redazione di Ristretti Orizzonti ha rimodulato arricchendolo, nonostante le difficoltà dell’emergenza, ed è sostenuto dal Comune di Padova e, per la parte in carcere, l’unica però ancora ferma, dalla Casa di reclusione. La richiesta che abbiamo da tempo fatto, e alla quale speriamo di avere finalmente una risposta, è che anche il personale del carcere e i detenuti della redazione interna di Ristretti Orizzonti siano coinvolti in questo progetto, che segna davvero una piccola rivoluzione culturale: l’apertura di un dialogo “permanente” per una idea diversa di Giustizia che coinvolga vittime, persone detenute, loro figli, volontari e operatori. Ma un progetto così innovativo ha bisogno di reinventare anche le parole della comunicazione: e allora il progetto si chiuderà con una videoconferenza in cui Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, autore tra l’altro del testo “La manutenzione delle parole”, terrà una lezione e dialogherà sul valore delle parole: “Maggiore chiarezza e precisione delle parole significano più democrazia. Minore chiarezza e maggiore oscurità implicano meno democrazia. (…) Farsi capire è un dovere e capire è un diritto. Doveri e diritti richiedono impegno, fatica, tempo. (…)”. Hanno dato la loro disponibilità a portare la loro testimonianza, oltre a detenuti in misura alternativa o che hanno finito di scontare la pena, famigliari, volontari, molti famigliari di vittime di reato: Silvia Giralucci, Benedetta Tobagi, Giorgio Bazzega, Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Deborah Cartisano, Claudia Francardi, Lucia Di Mauro Montanino. “Nego la tua esistenza, questo è l’ergastolo” di Aldo Masullo* Il Riformista, 28 aprile 2020 Ventidue anni fa il Senato discuteva la legge per abolirlo. Nel suo intervento Masullo spiegò che “Il tempo non è la misura della vita” ed è “l’emozione fondamentale che ci caratterizza come uomini”. E che: “Di ora in ora l’ergastolano vede morire parte di sé stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova”. Pubblichiamo l’intervento che il filosofo Aldo Masullo, più volte parlamentare, tenne nell’Aula del Senato il 29 aprile del 1998 - esattamente 22 anni fa - in occasione della discussione dell’ultimo disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo votato da un ramo del Parlamento. Il Senato lo approvò il giorno successivo. La Camera non lo esaminò mai. Ritengo che la mia esitazione a prendere la parola in Aula in questo dibattito, legata al sospetto di dover parlare ad alcuni pazienti e superstiti colleghi che avrebbero educatamente dissimulato il proprio sorriso di fronte a qualche considerazione filosofica, è stata messa in fuga dal fatto che in questa discussione, nonostante tutto, qualche traccia di filosofia vi è stata. Ho sentito comunque - essendo gli autorevolissimi colleghi senatori intervenuti per lo più uomini di legge, avvocati, giuristi - considerazioni soprattutto di carattere giuridico e sociologico. Queste considerazioni si sono soprattutto divise tra quelle raccolte sul tema della catastroficità dell’abolizione della pena dell’ergastolo nel nostro codice, per le conseguenze che ne sarebbero derivate alla convivenza civile, alla tranquillità dei cittadini e, viceversa, le altre, che hanno tentato di mettere in fuga queste preoccupazioni. Mi pare che il succo di tutta la questione sia che la sfiducia nella giustizia - sfiducia che io condivido per lo stato attuale in cui essa si trova, e che ogni cittadino condivide, non tanto e soltanto nella giustizia penale, ma anche e soprattutto in quella civile e amministrativa, con tutte le conseguenze che ne derivano alla vita sociale - non ha tuttavia nulla a che vedere con il problema dell’ergastolo, problema tra l’altro a tal punto identificato da alcuni sostenitori dell’abrogazione con un puro e semplice o addirittura fantomatico simbolo da farmi credere che questo finisca per essere il dibattito su di una foglia morta, la quale sta lì sul ramo, non è ancora caduta, ma basta una piccola scossa all’albero e la foglia cade: la foglia appunto della pena dell’ergastolo. Quello che però vorrei dire, per quanto mi compete data la forma della mia cultura, è che, al di là della questione che attiene al problema dei cosiddetti valori - sia valori di carattere giuridico, sia valori inerenti alla vita stessa dell’uomo - non è stato, credo, messo in luce un punto per me fondamentale. Si tratta di un punto fondamentale perché, mentre tutti gli altri punti rientrano nell’ambito della relatività - relatività storica, relatività naturale, relatività di situazioni sociali - vi è un solo punto che ha un carattere secondo me assoluto. Si tratta di un assoluto pregiuridico, senza che esso sia un assoluto naturalistico. Di fronte al problema dell’ergastolo - abolirlo o non abolirlo - la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il sacrosanto diritto dell’uomo all’esistenza, che è cosa distinta. Vita è quella di tutti gli animali: anche l’animale bruto vive. Ma l’esistenza è cosa squisitamente umana, perché esistere, ex sistere, designa la condizione, che noi sperimentiamo momento per momento, dell’incessante nostro perdere parte di noi stessi, del nostro essere per così dire scacciati dall’identità nella quale stavano al riparo fino a questo momento e il nostro essere sbalzati verso un’altra identità, fuor della quale presto saremo ancora sbalzati: in questo momento io non sono più quello che qualche minuto fa ascoltava i suoi colleghi e fra qualche momento già non sarò più quello che adesso vi sta parlando. Il collega Fassone ha molto bene richiamato il tema del tempo. Ma il tempo non è tanto la misura della vita, quanto piuttosto l’emozione fondamentale che ci caratterizza come uomini. Cos’altro sono io se non la pena di ciò che ho perduto? Sulla letteratura del tempo si è costruita tutta la cultura umana. Se il tempo spaventa perché è perdita, ciò avviene per il fatto che non siamo stati educati ad accorgerci che il tempo, cioè l’accidente del mio perdere ogni volta qualcosa di me, si accompagna inevitabilmente, come ogni morte si accompagna alla nascita, all’apertura di una nuova possibilità. Nel momento in cui perdo qualcosa, nel momento in cui la foglia che sto guardando cade, si apre la possibilità di una nuova fioritura. Che cos’è l’ergastolo? Non è la negazione di un segmento di vita o di tutta la vita residuale dell’uomo. Esso è la negazione all’uomo di ciò che lo caratterizza più profondamente nel suo esistere, cioè il fatto che mentre qualcosa muore qualche nuova possibilità nasce. L’ergastolano, nella sua condizione, di momento in momento, di ora in ora, vede morire parte di sé stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova. Quando ciò avviene, l’apertura di possibilità non viene tolta solamente all’individuo stesso, ma anche alla società degli uomini. Non possiamo infatti mai dimenticare che, se siamo uomini, lo siamo diventati in mezzo ad altri uomini, perché siamo stati educati al linguaggio, perché altri si sono rivolti a noi con la dolcezza della madre, o di chi ne fa le veci, e si è così instaurato quel rapporto “io-tu”, senza di cui può darsi sì una società, ma una società di formiche o di api. Una società di uomini è fondata sullo spirito comunitario, sul fatto che in ciascuno di noi l’esistere è sentirsi coinvolti nel destino dell’altro. Questo punto è decisivo. L’ergastolo, simbolo che ormai viene addirittura assunto come una sorta di strumento esorcistico, per neutralizzare la paura e l’insicurezza, è la negazione stessa del vincolo comunitario, la negata legittimazione di una società come società. Si tratta di un vincolo pregiuridico. Senza un vincolo pregiuridico, non si potrebbero costituire la norma e l’ordinamento giuridico. Prima di costituirla che cosa saremmo? Saremmo forse meri animali bruti? No! Prima di costituire l’ordine normativo della società, siamo relazioni intersoggettive, rapporto con l’altro, comunità vivente. Violare, negare, sopprimere ogni apertura dell’esistente alla sua cositutiva possibilità, istante per istante, significa mortificare non solo il singolo, l’esistente, ma anche quella stessa originaria comunitarietà, senza di cui una società non è tale o è soltanto una società di insetti. Credo che questo sia un motivo di fondo. Ritengo che averlo lasciato sottolineare in un’Aula parlamentare per bocca di un povero filosofo come me non sia affatto incongruo con la pratica civile e politica, perché una società che appunto non voglia ridursi a società di api e di formiche è impegnata continuamente a ritrovare la ragione profonda di sé medesima, al di là degli ordinamenti, che sono mutevoli, al di là delle circostanze, che sono transitorie, ad attivare quella ragione profonda senza di cui la nostra vita di esistenti non sarebbe tale. Credo il Parlamento debba avere questa capacità. Già sono aleggiate, nelle parole di alcuni colleghi, riflessioni vicine a quelle che ora sto riassumendo, e io voglio semplicemente sottolinearle, con rispettosa enfasi. Credo che esse diano veramente respiro al Parlamento, e che un Governo e una maggioranza capaci di sentirsi portatori non di un ufficio di ordinaria amministrazione dello stato di cose presente, ma di un messaggio di civile rinnovamento e di ricostruzione morale, non possono fermarsi ai semplici calcoli delle economie sociali o delle economie giuridiche. Non possiamo dimenticare che, anche se vogliamo attenerci alle esigenze dell’economia sociale e dell’economia giuridica, vi è in ogni economia che attenga all’umano un fattore che non è una variabile dipendente ma un’invariante assoluta, l’esistenza appunto. Ho sentito parlare di uomo, di persona, di diritti umani e di diritti della persona. Una parola tuttavia non ho ancora sentito, ed è la parola “soggetto”. Cari colleghi, io ho l’impressione che noi, quando rivestiamo gli abiti pubblici nella loro oggettività, sembriamo vergognarci di guardare dentro la nostra soggettività. Ma così l’abito pubblico resta come un vestito che ricopre un manichino o sta sospeso ad un attaccapanni. Un abito pubblico che non rivesta un corpo vivente, un corpo che soffre e gioisce, che ha paura e speranza, è la negazione in termini di quella funzione che crediamo di star esercitando. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, amici e colleghi, credo che, nel momento in cui, attraverso l’approvazione di questa legge, abroghiamo un simbolo - come è stato detto - ormai privo di vita, un simbolo senza più alcun significato, un mero espediente esorcistico, nel momento insomma in cui seppelliamo questo simbolo morto, noi innalziamo un simbolo vivo. Segnaliamo infatti ai nostri concittadini che la forza del diritto e della giustizia non sta nella ferocia inumana, ma nella capacità di dare ordine di ragionante umanità ai nostri sentimenti, ai nostri bisogni, alle nostre passioni. Se facciamo questo, signor Ministro, e tutti insieme collaboriamo in questa direzione, noi additiamo all’intera nostra azione politica quell’asse culturale alto, senza di cui la politica rimane con la “p” minuscola, mentre tutti noi abbiamo la doverosa ambizione di fare una politica con la “P” maiuscola, intesa non all’amministrazione della situazione di fatto, o del futuro stesso come sostanziale ripetizione, ma all’apertura dell’autentica possibilità, del futuro come innovazione: a lasciare insomma a coloro che verranno dopo di noi le condizioni per un ordine morale più ricco e alto in cui stiamo vivendo”. *Filosofo e politico, scomparso il 23 aprile scorso all’età di 97 anni L’ultima torsione autoritaria di Bonafede: l’accusa commissaria i giudici terzi di Giovanni Fiandaca Il Riformista, 28 aprile 2020 Il ministro ha reagito alle critiche rivolte ai tribunali di Sorveglianza con la tentazione di costruire una nuova norma, con la collaborazione dei magistrati antimafia. Il fenomeno della legislazione “motorizzata” (per dirla con Carl Schmitt), se si manifesta con particolare evidenza in questo periodo di emergenza sanitaria, è tutt’altro che nuovo nel nostro paese. Esso è in vigore da non poco tempo e già un quindicennio fa, per stigmatizzare la tumultuosa e confusa produzione continua di norme in quasi tutti i settori della vita associata, non si è esitato a utilizzare metafore di tipo medico-psichiatrico: si è così di volta in volta parlato di “psicopatologia” delle riforme quotidiane, di legislazione “compulsiva”, di “nomorrea” o “sanzionorrea” et similia. A ben vedere, questa pulsione nevrotica ad aggiungere nuove norme (o a modificare norme preesistenti) nasce, spesso, da un vuoto sostanziale di elaborazione e strategia politica: prima ancora di comprendere le cause reali dei problemi sul tappeto, e di riflettere sui più efficaci strumenti di intervento, si ricorre in fretta all’espediente di creare nuove disposizioni normative (sempre più spesso di natura penale) come comodo e temporaneo tappabuchi, o come mero “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata. La novità di questi ultimi tempi consiste in un ulteriore aggravamento del fenomeno, che potrebbe indurre ormai a parlare di normazione “ad horas” o “all’impronta”. Una esemplificazione emblematica la individuerei nella celerissima proposta normativa che trae spunto dalla polemica recentemente esplosa in seguito alla scarcerazione per motivi di salute (e per prevenire il rischio di contagio da Covid-19) di alcuni boss mafiosi anziani e gravemente malati. Com’è noto, da alcuni fronti politici e da alcuni settori della magistratura inquirente si è obiettato che è pericoloso rimandare in detenzione domiciliare nelle zone d’origine mafiosi di grosso spessore provenienti dal regime carcerario del 41bis, dal momento che ciò rischia di riconsegnare un pezzo di paese alla criminalità organizzata. Inoltre, secondo il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, equivarrebbe a un segnale di debolezza consentire che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi e terroristi, perché “sarebbe come ammettere di non sapere gestire le carceri. E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41bis tutta la sicurezza necessaria”. Con tutto il rispetto per la professionalità e la competenza di Cafiero De Raho, personalmente non sarei altrettanto sicuro che l’attuale e mal funzionante sistema penitenziario nostrano riesca a garantire ai detenuti quella piena protezione dal contagio che egli sembra troppo ottimisticamente dare per scontata (la mia concreta esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti mi induce, purtroppo, a nutrire in proposito un certo pessimismo). Ma neppure mi sentirei di esprimere certezze, in termini di prognosi empirica, sul fatto che il ritorno di boss vecchi e malati nelle dimore originarie comporti, pressoché automaticamente, il ripristino del loro antico potere: darlo aprioristicamente per sicuro rischia di perpetuare una concezione mitica del mafioso quale essere onnipotente, e perciò esentato da tutti i limiti umani e dalle forme di fragilità cui sono soggette le persone comuni. Più realisticamente, penso - e credo di non essere il solo a pensarlo - che la valutazione preventiva del pericolo concreto di riassunzione di ruoli di comando andrebbe effettuata caso per caso, in rapporto alle diverse caratteristiche dei personaggi e dei contesti. Fatte queste premesse, passiamo a considerare il tipo di atteggiamento che il ministro Bonafede ha assunto per reagire alle polemiche di cui sopra. Per prima cosa, egli ha chiesto agli ispettori ministeriali di compiere accertamenti sulle scarcerazioni di boss già disposte dai magistrati di sorveglianza competenti, pur ribadendo - non senza ambigua ipocrisia istituzionale - che tali scarcerazioni “vengono adottate in piena indipendenza e autonomia dalla magistratura” (messaggio politico sottointeso: io non c’entro niente, spetta ai magistrati decidere; ma poiché hanno deciso in una maniera che anche a me pare inopportuna, come ministro mi riservo di sanzionarli). Nel contempo, ecco riemergere in Bonafede la tentazione compulsiva del miracoloso rimedio normativo: egli ha cioè subito annunciato di concordare col presidente della Commissione Antimafia sulla necessità di introdurre al più presto una nuova norma, che “mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia” (ed ha aggiunto di avere già emanato una circolare che va in questa direzione). Orbene, sorge spontanea una domanda: che vuol dire “coinvolgere” i magistrati delle direzioni antimafia nelle decisioni sulle misure extracarcerarie da concedere ai mafiosi? Si ipotizza di attribuire loro un potere di interlocuzione (sotto forma di parere o qualcosa di simile a un preventivo concerto con i magistrati di sorveglianza), o un vero e proprio potere interdittivo (che darebbe, peraltro, luogo a possibili obiezioni di legittimità costituzionale)? In effetti, è da escludere che i magistrati d’accusa siano i più adatti a farsi carico di un bilanciamento equilibrato fra tutti i valori, i diritti e le esigenze di tutela che richiedono di essere contemperati nella materia penitenziaria: essi, per specializzazione (per non dire “deformazione”) professionale, sono infatti portati a privilegiare in maniera unilaterale - direi quasi “totalizzante” - la sicurezza collettiva e l’efficacia del contrasto alla criminalità organizzata (per cui passano in seconda linea, ai loro occhi, la tutela dei diritti dei condannati, come appunto lo stesso diritto fondamentale alla salute e persino il diritto alla rieducazione). Mentre un orientamento tecnico e culturale incline a tenere conto di tutta la complessità delle diverse esigenze in campo è appunto tipico, tradizionalmente, dei magistrati di sorveglianza. Se le cose stanno così, prima di emanare nuove norme urgenti, il potere politico-governativo dovrebbe avere bene chiaro che esiste una connessione stretta tra le possibili forme di coinvolgimento della magistratura antimafia nelle decisioni giudiziarie sui boss che chiedono di uscire dal carcere e i possibili modelli di bilanciamento tra la rispettiva tutela della sicurezza collettiva e della salute individuale: nel senso che enfatizzare il ruolo valutativo delle direzioni antimafia equivarrebbe - inevitabilmente - a porre in primo piano la tutela della sicurezza; mentre attribuire loro un ruolo meno determinante lascerebbe maggiore spazio - come ritengo sia più giusto - a soluzioni giudiziarie di ragionevole compromesso tra i concorrenti valori in gioco. È, in ogni caso, da scongiurare una nuova disciplina dai connotati così generici o dal contenuto talmente pasticciato, da produrre ancora una volta l’effetto di trasferire sulla magistratura lo scioglimento di un nodo problematico che la politica non riesce - da sola - a risolvere. L’Italia unita da un grido: “in galera!!!” di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 aprile 2020 È scattata la grande offensiva. Obiettivo: abbattere la Costituzione almeno nelle sue parti garantiste. Ridurre il Diritto a un attrezzo in mano alle Procure. Stabilire una società dei giusti, fortificata dalla certa esistenza di una società dei reprobi. Da punire, punire, punire. Come? Galera, galera, galera. La galera, la punizione, il manganello: sono questi gli strumenti della modernità. L’obiettivo è lo Stato etico. E l’Italia si ritrova unita in questa santa crociata. Partita da due scarcerazioni legittime e doverose decise da due magistrati di sorveglianza. Una a Milano (Bonura) e una a Napoli (Zagaria). Tutti e due molto gravemente malati. Contro questi due magistrati si è scatenata la canea rabbiosa del partito delle Procure e di mezzo Parlamento. Chi guida l’offensiva? Ve lo abbiamo già detto nei giorni scorsi: il partito rosso-bruno che tiene insieme pezzi della sinistra giudiziaria e la componente più reazionaria della magistratura. A capo di questo partito c’è la trinità composta da Marco Travaglio, Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo. Chi li segue? Tutti. Giornali, Tv al completo, destra e sinistra parlamentare, e da ieri anche Italia Viva di Matteo Renzi. Sì, Renzi si è allineato a Gasparri. È sulla linea di tutti gli altri. Questa: il diritto vale per gli innocenti. I condannati non devono avere diritti. Sono moribondi e hanno già scontato quasi vent’anni di pena per una estorsione? Poco male, son mafiosi: cani, morirete comunque in cella. Persino in certi settori di Forza Italia ci sono segni evidenti di cedimento. Speriamo che domani nessuno di questi che oggi gridano venga a dirci: io sono garantista. Non ditelo più per favore. Noi prendiamo atto che l’Italia liberale è scomparsa. Ma almeno non prendeteci in giro. Si è scatenata la tempesta perfetta. Ha una forza bestiale: destra, sinistra, giornali, Tv e un pezzo - probabilmente ancora minoritario ma fortissimo - della magistratura. È un susseguirsi di grida feroci. Ciascuno cerca di essere più feroce dell’altro. Qual è l’obiettivo? Direi che gli obiettivi sono due. Il primo, politico, sono i voti. Voti da rastrellare in cambio di giustizialismo a buon mercato (potremmo perfino definirli “voti di scambio”). Il secondo obiettivo è quello che indicavano sul Riformista di sabato scorso: intimidire la parte più seria e scrupolosa della magistratura, quella più legata ai principi del diritto, e fargli capire che non è più aria di discorsi e di Costituzione: la magistratura è giustizialismo o non è. La Costituzione è anticaglia. L’offensiva è condotta con grande intelligenza da quella che abbiamo chiamato la magistratura “rosso-bruna”, perché unisce i reazionari di Di Matteo e Davigo con un pezzo di “Magistratura democratica” (credo, spero, non tutta), cioè la corrente di sinistra. Tanto rosso-bruna da essere, alla fine, riconducibile alla leadership del giornale rosso-bruno per eccellenza, e cioè il Fatto di Travaglio. È da lì che è partita la campagna. Da lì la si dirige. La cosa impressionante è che a questa offensiva si son piegati tutti. In magistratura i pochi elementi rimasti a combattere sul fronte del diritto sono isolatissimi e indicati come bersagli da colpire. Pensate alla giudice di Milano che ha deciso la scarcerazione di un signore che una ventina d’anni fa si macchiò di alcuni reati di estorsione, e che oggi, quasi ottantenne, combatte per la vita contro un cancro: avete ascoltato voci in sua difesa? Cioè in difesa di una magistrata molto seria ed esperta, con trent’anni di servizio? Sì, ci sono tre magistrati che ieri hanno presentato una richiesta di apertura di una cosiddetta “pratica a tutela” a suo favore. Però, curiosamente, i tre hanno presentato la richiesta in polemica con Maurizio Gasparri, deputato, senza neppure accennare alla fi gura del loro collega Nino Di Matteo. È vero che l’uscita di Gasparri, che addirittura ha chiesto la rimozione del giudice, è gravissima e ingiustificata. Ma Nino Di Matteo aveva fatto molto di peggio. Aveva parlato di “cedimento al ricatto mafioso”. Cioè, in pratica, aveva accusato la sua collega di favoreggiamento, o forse di concorso esterno in associazione mafiosa. Hanno protestato gli avvocati, le Camere penali. Stop: le Camere penali e basta. In politica non si è sentita una voce. Nella magistratura silenzio, silenzio, silenzio. Come è possibile: è solo paura? Paura di che, di chi? Di Travaglio, della sua capacità di trascinarsi dietro gli altri giornali e praticamente tutto l’apparato televisivo italiano? Possibile che Travaglio sia così potente? Sembra proprio di sì. Lo scenario che abbiamo davanti è duplice, e terrificante. Da un lato la possibilità concreta che invece di avviarci verso la separazione delle carriere - cioè l’avvicinamento del sistema italiano ai sistemi di tutto il mondo democratico - si compia un passo nella direzione inversa: quella di costringere la magistratura giudicante a sottomettersi alle Procure. Cioè all’accusa. Non sarà un passaggio leggero, né semplicemente formale. Ridurrà ai minimi termini il potere della magistratura giudicante e renderà quasi onnipotente il potere delle accuse. La sorte di un detenuto, in pratica, durante il periodo nel quale sconta la pena, non dipenderà più da un giudice terzo ma dal suo accusatore, che qualche volta, magari, è esattamente il suo persecutore. Sarà lui ad avere in mano il destino del detenuto per tutto il periodo della condanna. Se è ergastolo, per tutta la vita. Il detenuto sarà un oggetto alla sua mercé. E la magistratura sarà sempre di più un potere e sempre di meno un ordine. La sua arma non sarà più il diritto ma la forza politica. Dilagante. Il secondo scenario che si apre è quello della vittoria definitiva del giustizialismo. La resa senza condizioni dell’Italia liberale. In queste ore abbiamo assistito a cedimenti spaventosi da parte delle forze che si ispirano a idee liberali. A partire da Italia Viva, per non parlare del Pd. E persino settori di Forza Italia. A me una cosa pare chiarissima. Garantismo non vuol dire difesa dei politici dai magistrati. Vuol dire difesa dei diritti, di tutti. Dei politici e dei miserabili, dei migranti e dei mafiosi, degli innocenti e dei colpevoli. Non ci sono santi: è così. Chi oggi si scaglia contro la magistrata che ha scarcerato Bonura e contro quello che ha scarcerato Zagaria deve però farci un favore. In futuro non dica più: io sono garantista. Non lo dica più: non è vero. Accordo Pd-Cinque stelle sulla giustizia: decreto contro le scarcerazioni dei boss di Francesco Grignetti La Stampa, 28 aprile 2020 La decisione dopo il caso di Pasquale Zagaria. Rigettata dal magistrato l’analoga richiesta presentata da Cutolo. Un decreto è praticamente pronto e il governo, salvo colpi di scena, lo varerà giovedì per frenare le scarcerazioni di boss mafiosi che sono diventate uno scandalo. L’ultimo a protestare, ieri, don Luigi Ciotti. “Che sia lo Stato a offrire ai mafiosi opportunità di ricchezza e potere è davvero inaccettabile. Sì, perché va in questa direzione anche il permesso concesso ad alcuni boss mafiosi di commutare il regime carcerario del 41bis in arresto domiciliare”. Si corre ai ripari, dunque. Il decreto prevedrà che la magistratura di sorveglianza, quando c’è da decidere su un detenuto che è sottoposto alle misure straordinarie del 41bis, debba chiedere prima un parere alle procure antimafia. L’ultimo approfondimento tecnico, previsto per oggi, è se sia meglio la Superprocura nazionale o le diverse procure distrettuali. Ma l’accordo politico c’è, rivendicato sia dal M5S che dal Pd. Le procure antimafia saranno coinvolte quindi nella fase di decisione di una scarcerazione, ma anche a posteriori, dando loro la possibilità di un ricorso contro un’eventuale decisione di sospensione della pena a un mafioso per motivi di salute. In questo modo il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ritiene di avere trovato una risposta “di sistema” a una falla. Da qualche giorno, infatti, è sotto attacco personale. Gli si è scagliato contro Matteo Salvini. Ma anche Matteo Renzi non ci è andato leggero. “La scarcerazione dei super-boss di camorra e ‘ndrangheta - ha detto l’ex premier - è inaccettabile. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna. Oppure venga lui in Parlamento ad assumersi le sue responsabilità”. Anche il Cocer dei carabinieri è pesante: “Evitiamo di far diventare il Coronavirus il miglior alleato dei delinquenti”. Il punto è che a decidere le scarcerazioni sono i magistrati di sorveglianza, non un membro dell’esecutivo. Ieri, quello di Reggio Emilia ha deciso di rigettare l’istanza di scarcerazione del boss Raffaele Cutolo. Ma anche le eventuali colpe nella scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria da parte di Francesco Basentini, il magistrato che è a capo dell’amministrazione penitenziaria, sono tutte da verificare. Sono all’opera gli ispettori ministeriali. Quindi, anche se la sua poltrona traballa, è presto per tirare conclusioni. Pd e M5S, con lunghi comunicati, reagiscono. Come Andrea Giorgis, Pd, sottosegretario alla Giustizia: “È falso e irresponsabile attribuire al decreto Cura Italia (capitolo sull’alleggerimento delle carceri per il pericolo del contagio, ndr) la responsabilità di avere prodotto la decisione dei domiciliari per detenuti al 41bis. Al contrario, i boss erano espressamente esclusi dal beneficio”. Il decreto conterrà anche altre due norme molto attese dal mondo dell’avvocatura, che è in perenne conflitto con il governo. Si sbloccano gli esami di Stato per gli avvocati: fermo restando che sarà obbligatoria la presenza fisica del candidato, del presidente della commissione e del verbalizzante, per concludere gli scritti e per l’orale il resto della commissione seguirà da remoto. Si definisce anche il perimetro del processo penale telematico. Non saranno possibili le udienze di discussione e la formazione della prova (escussione testimoni e periti) in video-chat perché ne andrebbe dell’oralità del processo. Il decreto ricalca un impegno parlamentare. Domiciliari ai boss: lo Stato di Diritto vittima degli attacchi mediatici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2020 Dovrebbe arrivare giovedì in Consiglio dei ministri la stretta del ministro della Giustizia che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. I mass media hanno fatto la loro parte e alla fine dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri giovedì la stretta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla concessione degli arresti domiciliari, che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il culmine del bombardamento mediatico è stato raggiunto con la trasmissione “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Un programma tv dove sono stati invitati al dibattito tutte persone che sulla questione hanno un’opinione simile (non erano presenti né giuristi, né magistrati di sorveglianza e nemmeno il Garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto, però, la sfortuna di diventare capro espiatorio del presunto scandalo. Tutto è partito da un articolo de L’Espresso relativo ai domiciliari per motivi di salute concessi a un recluso al 41bis. Parliamo di Francesco Bonura, passato dal regime speciale alla detenzione domestica nei giorni scorsi proprio per le sue gravi condizioni. Un provvedimento della magistratura di sorveglianza limpido e motivato. Ma si è fatto leva sull’emotività e anche sull’ignoranza del tema per creare polemiche. A questo si è aggiunta anche il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria. Eppure anche questo provvedimento non dovrebbe rappresentare nulla di scandaloso visto che, alla luce dei principi costituzionali, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha concluso ritenendo sussistenti i presupposti di operatività dell’articolo 147 c. 1 n. 2 c.p. - tali da giustificare il differimento della pena per grave infermità fisica - essendosi in presenza di una patologia grave e qualificata che richiede al detenuto un iter diagnostico e terapeutico che viene definito “indifferibile”. Come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, il differimento della pena è dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, “lasciare il detenuto in tali condizioni - si legge nell’ordinanza - equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità”, non essendovi dubbio che “permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano”. Ma oramai la valanga ingiustificata di indignazioni ha sortito i suoi effetti. Il ministro Bonafede, per assecondare gli animi, ha promesso che farà di tutto per rendere più difficile la concessione dei domiciliari a chi attualmente si trova al 41bis. Non importa sapere, come detto, che i provvedimenti che hanno creato indignazione sono stati concessi per gravi motivi di salute. Per chi si è macchiato di reati mafiosi, il diritto alla salute diventerà un optional. Le norme, che potrebbero essere contenute in un prossimo decreto legge, dovrebbero limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Ovvero che tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia saranno sottoposte, per il via libera, sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Tradotto, chi è al 41bis o in alta sorveglianza difficilmente potrà ottenere un via libera da chi lo ha tratto in arresto. C’è da ricordare però che l’articolo111 della Costituzione stabilisce che il legislatore deve garantire la celebrazione del “giusto processo” affidando la decisione ad un giudice assolutamente neutrale. La terzietà del giudice penale è una terzietà diversa da quella dei giudici di sorveglianza: rendere vincolanti i pronunciamenti del Procuratore distrettuale o nazionale Antimafia significherebbe snaturare la terzietà del giudice di sorveglianza. Il problema, di fondo, è che è inimmaginabile, per un governo, muoversi a seconda delle indignazioni del momento. Non si possono fare interventi normativi in base a degli articoli di giornale o le trasmissioni televisive che hanno anche il potere di fuorviare e veicolare l’opinione pubblica. Altrimenti l’esercizio del potere esecutivo rischierebbe di diventare il terreno d’intervento privilegiato dei gruppi di pressione di ogni parte. La democrazia rischia di collassare e quindi di sostituirsi con la “dittatura della maggioranza”. Ed è così che lo Stato di Diritto muore e avanza sempre di più quello di Polizia. Il caso del boss ai domiciliari. Bufera sul capo delle carceri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 aprile 2020 Dopo l’episodio di Zagaria anche nel M5S c’è chi chiede un cambio al vertice del Dap. La poltrona del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, è a forte rischio. Nulla è stato ancora deciso, ma si fanno sempre più insistenti le voci di un’imminente sostituzione, sollecitata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede anche dall’interno del Movimento 5 Stelle. Il magistrato scelto due anni fa dal Guardasigilli per governare le carceri italiane è da tempo al centro di critiche e malumori, e già dopo i tumulti di inizio marzo (13 detenuti morti, 40 agenti penitenziari feriti e danni alle strutture per milioni di euro) i renziani di Italia viva ne hanno chiesto la rimozione, mentre il Pd esigeva chiarimenti sul suo operato. Bonafede ha resistito, ma dopo il “caso Zagaria” è difficile continuare a fingere che tutto vada bene. E la presentazione di un decreto-legge per stabilire un’interlocuzione obbligatoria con la Procura nazionale antimafia e le Direzioni distrettuali prima di decidere sulla scarcerazione dei capi delle organizzazioni criminali potrebbe non essere l’unica mossa del ministro. La concessione degli arresti domiciliari al boss della camorra casalese Pasquale Zagaria (fratello del capoclan Michele, soprannominato Bin Laden per la sua capacità di sfuggire alle ricerche quando era latitante), trasferito per motivi di salute dai rigori e l’isolamento del “41bis” alla casa della moglie a Brescia, ha suscitato scalpore e polemiche. Soprattutto per una frase contenuta nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari che l’hanno fatto uscire dalla prigione sarda dove non poteva più essere curato dal tumore scoperto ad ottobre: “Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale ove effettuare il follow-up diagnostico e terapeutico, ma non è pervenuta alcuna risposta, neppure interlocutoria”. Basentini, intervenuto telefonicamente domenica sera nella trasmissione Non è l’arena su La7, ha tentato di smentire. I suoi uffici hanno riferito di almeno tre comunicazioni inviate via e-mail alla Sorveglianza, tuttavia agli atti del fascicolo su Zagaria (ora all’esame delle Procure generali di Sassari e della Corte di cassazione, per le necessarie verifiche) c’è solo una lettera firmata dal direttore dell’Ufficio sanità del Dipartimento, indirizzata al direttore del carcere, in cui si chiedeva di “voler contattare, con la massima urgenza, i Reparti di Medicina protetta di Viterbo e di Roma, al fine di verificare se vi sia la disponibilità della presa in carico sanitaria del detenuto”. Il problema è che questa lettera è datata 23 aprile 2020, è arrivata nel tardo pomeriggio dello stesso giorno ed è stata protocollata la mattina dopo. Nel frattempo, la mattina del 23, il tribunale di sorveglianza aveva deciso di scarcerare Zagaria dopo quattro udienze e un mese di approfondimenti istruttori; tra i quali la ricerca di un’altra prigione attrezzata per le cure (non più possibili a Sassari a causa dell’emergenza coronavirus) tramite il Dap, notificata il 9 aprile. Ma fino al 23, a causa già definita, da Roma non sono giunti segnali. Due settimane di ritardo, decisive per la scarcerazione del boss. Trattato come un detenuto qualunque nonostante il cognome (e il soprannome), con un atteggiamento forse un po’ troppo burocratico da parte dell’amministrazione penitenziaria. Che ora potrebbe travolgere il suo capo. Boss scarcerati: se si dubita della buona fede dei giudici, li si denunci di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2020 Non entro nel merito delle polemiche che stanno accompagnando la concessione della detenzione domiciliare ad alcuni detenuti condannati per reati di mafia. Ho già scritto più nel dettaglio qualche giorno fa su queste pagine. Non entro dunque nel merito - vecchie norme, nuove norme, controlli di polizia o altro - ma vorrei riflettere sulla forma di queste polemiche stesse. Si criticano le decisioni dei giudici, ad esempio di quelli del tribunale di sorveglianza di Milano che hanno concesso la detenzione domiciliare a Francesco Bonura (è stato questo il caso che ha sollevato la questione, ma la stessa cosa vale per la scarcerazione di Michele Zagaria, dove tra l’altro il magistrato relatore del provvedimento è persona che da sempre ha posizioni limpide e lineari sull’argomento). Vi è un bivio dal quale non si scappa: si ritiene che i giudici che hanno preso questa decisione siano in malafede o si ritiene che siano in buona fede? Si ritiene che siano persone oneste o si pensa che siano collusi con la mafia? Questo vorrei sapere da chiunque abbia criticato quelle ordinanze. Se si ritiene che i giudici milanesi abbiano mandato a casa Bonura utilizzando la scusa della sua salute, gonfiando i dati sulla sua infermità, al fine di metterlo in condizione di continuare a portare avanti indisturbato i propri affari mafiosi, allora li si denunci. Non capisco da dove possa arrivare un tale pregiudizio, ovvero un giudizio che arriva prima di qualsiasi dato di fatto, poiché non credo che nessuno di coloro che ha criticato la decisione del tribunale abbia notizie sulla frequentazione da parte di quei giudici di ambienti di criminalità organizzata. Ma se è questo che si pensa, li si denunci. È un’accusa gravissima, sarebbe un reato gravissimo, non ci si può limitare a insinuarlo nelle colonne di un giornale. Si facciano indagini, si dimostri che è così, si mandino in galera quei giudici. Se invece si ritiene che i giudici siano in buona fede e abbiano deciso secondo coscienza, la cosa cambia. Il compito del giudice è quello di applicare al caso singolo le leggi generali vigenti. Nel nostro sistema di esecuzione delle pene non esiste alcun automatismo: il giudice valuta caso per caso. Assume tutte le informazioni, legge le relazioni del carcere, delle forze dell’ordine, le perizie dei medici, tutto ciò che può servire ad assumere una decisione consapevole che tenga in equilibrio esigenze di sicurezza, di salute e quanto altro, e poi delibera. Continua a essere un pregiudizio (giudizio emesso prima di conoscere) quello di chi sostiene che la decisione dei giudici, pur valutandoli in buona fede, sia scorretta, posto che costui non ha letto nessuna di queste relazioni, perizie, documenti. Anche questo secondo pregiudizio, seppur meno crudele, è rischioso per l’equilibrio del sistema democratico. La decisione caso per caso del giudice deve essere, appunto, del giudice. Si fonda su questo la divisione dei poteri e l’intero assetto della nostra Repubblica. La magistratura si autogoverna. Non può essere eterodiretta dal governo o dai media. Credo che bisognerebbe avere più rispetto per i giudizi dei giudici e meno per i pregiudizi degli altri. *Coordinatrice associazione Antigone “Chi è molto malato deve uscire dal carcere. Anche se è accusato di mafia” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 aprile 2020 Brandimarte, ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto: “Il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute”. Il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film del 1949 “Riso amaro” diceva: “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”. Questo riferimento cinematografico è uno dei passaggi migliori di questa nostra intervista a Massimo Brandimarte, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Lo abbiamo contattato per commentare le polemiche nate a seguito della concessione dei domiciliari a Pasquale Zagaria decisa per motivi di salute da parte del Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Cosa pensa di tutte queste polemiche? È giusto che se ne parli perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Ma se poi il dibattito deve trasformarsi in uno scarica barile non serve a niente. Per giudicare bisogna conoscere i fatti. Ma soprattutto esistono dei principi cardine dell’ordinamento penitenziario: il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti, indipendentemente dal reato commesso, e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute. L’altro principio secondo me importante è che tutte le misure alternative al carcere sono dinamiche: oggi posso ritenere che ci sia una situazione tale da dover predisporre i domiciliari, ma se domani la situazione cambia posso tornare indietro sulla mia decisione. Poi c’è il principio dell’autoresponsabilità del magistrato: qualunque magistrato nel momento in cui ha preso una decisione ponderata e vagliata può stare tranquillo senza temere nulla. A lei è mai capitato di non ricevere risposte dal Dap? In merito a possibili trasferimenti di detenuti, capitava spesso che il Dap rispondesse in ritardo o non rispondesse proprio. Il Dap è comunque una grande struttura burocratica e credo che il capo del Dipartimento non possa interessarsi di ogni singolo caso. Comunque quando ero in servizio, per i casi urgenti alzavamo il telefono per sentire direttamente i funzionari del Dap. E se non c’era risposta, io mi rivolgevo direttamente al ministro, perché i magistrati di sorveglianza rispondono direttamente a lui. Il ministro Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative ad istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia... Credo che sia un modo per cautelarsi a futura memoria. La mia esperienza mi dice che questi organismi investigativi sicuramente possono fornire elementi di valutazione di primissimo ordine. Sarebbero fondamentali. Il fatto è che le informazioni che andrebbero a fornire, essendo di carattere investigativo e non giudiziario, potrebbero avere una forza prevalente rispetto all’elemento che bisogna considerare in queste casi che è quello della salute che è appannaggio del magistrato di sorveglianza. Quindi potrebbe diventare una forzatura che andrebbe ad inficiare la tutela del diritto alla salute, specialmente se il magistrato di sorveglianza che deve decidere non è esageratamente coraggioso. Quindi potrebbe minare l’indipendenza della magistratura di sorveglianza. Da un punto di vista legale assolutamente no. Da un punto di vista psicologico il pericolo potrebbe essere una certa pressione che si andrebbe a riflettere nei confronti del Tribunale di Sorveglianza. Lei che soluzione propone? Si potrebbe ricomporre il quadro con armonia e tranquillità senza scaraventare colpe nei confronti di qualcun altro. Tutti lavorano al servizio della giustizia. Se c’è stata una valutazione non del tutto perfetta si può ricominciare dall’inizio, si può rivedere la decisione. Mi piacerebbe che tra tutti tornasse la concordia e mi aspetterei che da parte degli organi requirenti, cioè la Procura Generale, si acquisissero degli elementi seri e fondati, che una volta comunicati ai Tribunali di Sorveglianza possano servire per far riesaminare i casi. In questi giorni Di Matteo, Ardita, Maresca, De Raho hanno rilasciato numerose interviste dicendo che lo Stato è debole, cede al ricatto dei mafiosi. Ne esce una magistratura debole e irrispettosa delle vittime di mafia... Queste prese di posizione possono avere un effetto boomerang perché si riflettono in negativo sulla indipendenza di tutta la magistratura. Credo che a nessuno convenga avere una magistratura di sorveglianza che sia avvolta dal timore di dover prendere certe decisioni giuste ma che non le prende perché ha paura di assumere provvedimenti impopolari. Quando si parla di 41bis, è facile dipingere tutti i detenuti come mostri, come mafiosi sanguinari tralasciando le singole storie processuali e anche i possibili percorsi rieducativi fatti in tanti anni di carcere... Bisogna parlare con dati alla mano e non come se stessimo al bar dello sport. Parlare in maniera generica agevola le confusioni: ci può essere un boss che non si è mai macchiato di reati di sangue come Pasquale Zagaria. Ogni posizione va valutata singolarmente. E poi come diceva il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film “Riso amaro” “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”. “In prigione l’emergenza è sotto controllo. Le uscite non c’entrano con il virus” di Francesco Grignetti La Stampa, 28 aprile 2020 Intervista a Nicola Morra (M5s), presidente della Commissione Antimafia: “Vogliamo capire chi ha creato questo clima”. “Una cosa deve essere detta chiaramente: i mafiosi non sono delinquenti qualsiasi, ma soldati di un esercito che combatte la democrazia. Per questo sono in prigione. E i prigionieri di guerra non si liberano tanto facilmente, anche perché potrebbero tornare a combattere”. Nicola Morra, M5S, è il presidente della commissione parlamentare Antimafia. Ha appena convocato una plenaria della commissione, la prima dopo l’interruzione dei lavori parlamentari, per affrontare il tema delle scarcerazioni di boss mafiosi perché il problema è davvero serio. Presidente, la mafia coglie certi segnali. Non pensa che queste scarcerazioni, pur motivate da esigenze umanitarie, potrebbe interpretarle come un cedimento? “Guardi, stiamo tutti piangendo la morte a Napoli di un agente di polizia morto sul dovere. I rapinatori, a quel che pare, non sono affiliati alla camorra. Ma è devastante assistere contemporaneamente alla scarcerazione di boss mafiosi”. Peggio il pericolo di queste scarcerazioni oppure quello di contrarre il virus per dei detenuti anziani? “Al contrario di quanto si vuol far credere, in carcere c’è un rischio di contrarre il coronavirus che è statisticamente inferiore rispetto alla vita normale. Per i soggetti ristretti al 41bis oppure nei circuiti ad alta sorveglianza, poi, dove il distanziamento sociale è istitutivo, il rischio di contagio diminuisce ancora di più”. Che ruolo possono aver giocato le rivolte carcerarie? Da subito si ipotizzò che ci fosse una regia… “L’ipotesi resta verosimile, ma al momento non è provata. Se dietro c’era una mano, sarà come nei film e ne conosceremo il nome soltanto nei titoli di coda. Fa riflettere, però, che nei penitenziari calabresi non sia accaduto nulla. Eppure il sovraffollamento c’era anche lì, no? Nei lavori della Commissione ci interrogheremo anche su come sia stato creato un clima, con fatti atti e parole, volto a far credere che l’istituzione carceraria non fosse all’altezza del suo nobile scopo. Si è fatto credere che la situazione sanitaria fosse fuori controllo, e non è così. Ancora l’altra sera ho sentito in televisione dire che nelle carceri ci sono oltre 60.000 detenuti quando sono 53.000. Si sappia che le scarcerazioni, al contrario di quello che si vuol far credere, non hanno nulla a che vedere con il decreto Cura Italia e con l’emergenza coronavirus”. Lei non esclude, però, che per effetto delle rivolte, qualcuno sia intimidito… “Io so che stiamo aspettando anche noi di capire come mai i responsabili dei danneggiamenti non abbiano ad oggi ancora saldato il loro debito con l’amministrazione. Eppure era stato assicurato che si sarebbe dialogato solo con chi esprimeva pacificamente la propria protesta; al contrario si negava interlocuzione a chi ricorreva alla violenza”. “Rispettare il dolore delle vittime ma anche il diritto alla vita dei detenuti” Il Dubbio, 28 aprile 2020 Lo dicono le toghe di Unicost. La replica dopo le polemiche sulla scarcerazione dei boss per Covid: “Garantire la salute e la dignità minima dei detenuti”. E la politica non “scappi”. Garantire il dolore delle vittime, certo, ma garantire anche “il diritto alla vita, alla salute e alla dignità minima dei detenuti”. È il cuore della nota di Mariano Sciacca e Francesco Cananzim presidente e del segretario di Unicost, la corrente moderata della magistratura. Insomma, Unicost risponde così alle polemiche successive la scarcerazione di mafiosi in carcere, non ultima quella del boss Michele Zagaria, scarcerato per gravi motivi di salute ma divenuto oggetto delle attenzioni di stampa e Tv. Unicost richiama decisamente la politica alle sue responsabilità: “Nelle carceri che perdura da decenni, non vi è stato governo o parlamento che abbiano adottato misure adeguate a risolverlo: né dando reale e risolutivo impulso alle misure alternative alla detenzione, né operando con interventi idonei in materia di edilizia penitenziaria, né facendo l’una e l’altra cosa”. “Da ultimo anche la normativa d’emergenza, emanata a fronte della pandemia da Covid-19, si è rivelata inadeguata rispetto al sovraffollamento negli istituti penitenziari. Il necessario e dovuto bilanciamento dei beni costituzionali in gioco - da un lato le esigenze di sicurezza sociale e dall’altro la tutela del diritto alla salute e del diritto al trattamento - è stato sostanzialmente circondato non soltanto da appesantimenti procedimentali e burocratici, ma anche da una delega alla magistratura di valutazioni che spettano al governo e al parlamento. La politica è assunzione di responsabilità e, in questo ambito, selezione delle priorità di politica criminale e penitenziaria”. “Per garantire al contempo i diritti dei cittadini, il dolore delle vittime di mafia e di terrorismo e le esigenze di tutela sociale, con il diritto alla vita, alla salute e alla dignità minima dei detenuti, in presenza di una pandemia così grave occorre una accurata progettualità. E non può ritenersi sufficiente un formale “monitoraggio” dei detenuti esposti a rischio Covid, perché affetti da pregresse patologie. Di certo non si può accollare alla magistratura la “responsabilità politica” di sottoporre alla detenzione domiciliare pericolosi criminali, allorquando il circuito penitenziario non è in grado di garantire il diritto alla salute. Questa non è una responsabilità della magistratura. Auspichiamo e siamo certi, pertanto, che il Governo su questo tema interverrà da subito, con provvedimenti normativi, organizzativi e logistici adeguati, seguendo le indicazioni già fornite dalla Magistratura di sorveglianza, oltre che prevedendo il coinvolgimento delle Direzioni antimafia, nazionale e distrettuali”, concludono i due esponenti di Unicost. Don Ciotti (Libera): “Domiciliari a boss è misura inaccettabile” agensir.it, 28 aprile 2020 “Che le mafie siano pronte a trarre profitto dalla crisi socio-economica non prodotta ma certo aggravata dall’emergenza sanitaria, lo denunciamo da tempo. Profitti in termini di offerta usuraia di denaro ad aziende in difficoltà, di consenso ottenuto attraverso elargizioni di cibo e altri generi di prima necessità nelle periferie e nei contesti più poveri, di accaparramento di finanziamenti nazionali e europei nella deroga o riduzione dei controlli dovute all’emergenza”. Lo sottolinea Luigi Ciotti, presidente di Libera, che denuncia come “davvero inaccettabile” che “sia lo Stato stesso a offrire loro opportunità di ricchezza e potere”. “Sì - spiega don Ciotti - perché va in questa direzione anche il permesso concesso ad alcuni boss mafiosi di commutare il regime carcerario del 41bis in arresto domiciliare. Beninteso, il diritto alla salute è sacrosanto e inalienabile, un diritto che va garantito a tutte le persone, detenute o meno, senza distinzioni di sorta. Un diritto, non dimentichiamolo, stabilito dalla Costituzione col principio dell’umanità della pena e della sua funzione sociale, mai vendicativa. Principio nel quale Libera crede da sempre, impegnandosi a vari livelli per l’umanizzazione dell’intero sistema carcerario, nel rispetto della dignità delle persone detenute come di chi vi opera”. In questo caso, però, evidenzia il presidente di Libera, “non si parla di detenuti comuni, ma di persone responsabili di delitti gravissimi, che hanno colpito al cuore la nostra democrazia e ucciso tanti che la democrazia e la giustizia hanno servito con coerenza e coraggio, sino al sacrificio di sé. Ed è appunto una memoria sacra, quella delle vittime delle mafie, come sacro è il dolore dei loro famigliari. Moniti entrambi - memoria e dolore - a costruire una società libera dalle mafie e dalla corruzione, la società delineata dagli articoli della Costituzione e custodita nel suo spirito. Va contro questo spirito il provvedimento che trasforma la detenzione al 41bis dei boss mafiosi in arresti domiciliari”. Per don Ciotti, “tanto più inaccettabile, tale provvedimento, perché il 41bis garantisce il distanziamento sociale, perché nel caso di accertate patologie esistono all’interno del sistema carcerario strutture sanitarie in grado di accogliere e curare al meglio i detenuti malati. Non ultimo, perché nessuno di questi boss ha mai dato segni concreti di ravvedimento, collaborando perché sia garantita giustizia alle vittime e ai loro famigliari. Perciò il nostro invito è di porre al più presto rimedio a un provvedimento sotto molti aspetti scellerato, quali che siano le motivazioni che l’hanno indotto”. “Ha il cancro, qui cure impossibili. se Zagaria resta in cella morirà” di Angela Stella Il Riformista, 28 aprile 2020 Continua a far discutere la scarcerazione di Pasquale Zagaria, decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per motivi di salute. In tanti la definiscono ingiusta, scandalosa, immorale, vergognosa. Una lettura troppo semplicistica della vicenda che merita l’analisi delle carte. Prima di entrare nel dettaglio del provvedimento vediamo cosa è successo: Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello di Michele, boss del clan dei Casalesi, trascorrerà i prossimi cinque mesi ai domiciliari in un paesino in provincia di Brescia, insieme alla moglie e ai due fi gli. Potrà uscire solo per esigenze sanitarie. Era detenuto al regime di 41bis a Sassari per finire di scontare una pena di 20 anni. L’imprenditore edile era stato condannato per estorsione, sequestro di persona, detenzione illegale di armi ma non si è mai macchiato di reati di sangue. È considerato dagli inquirenti la mente economica del clan del Casalesi, dopo aver trasferito il settore di maggior interesse del clan, il cemento, a Parma, città nella quale, grazie a lui, la cosca ha pilotato l’aggiudicazione di appalti a ditte “amiche”. Ma ora cerchiamo di capire bene i motivi alla base della decisione del Tribunale di Sorveglianza riportando alcuni stralci dell’ordinanza, il cui estensore è il dottor Riccardo De Vito. Sono state necessarie, per acquisire tutti gli approfondimenti istruttori, quattro udienze, una a marzo e tre ad aprile al fine di esaminare le carte prodotte dalla difesa, la documentazione sanitaria del carcere, le informazioni delle forze dell’ordine. In merito al quadro clinico “non vi è dubbio - si legge nell’ordinanza - che il detenuto soffra di una patologia grave e qualificata - carcinoma papillifero della vescica, per la quale ha subito un importante intervento chirurgico di resezione transuretrale della vescica e un successivo ciclo di immunoterapia per instillazione endovescicale”. Il problema, scrive De Vito, è che “il paziente non può effettuare il follow-up post-chirurgico e post-terapia in quanto il Centro clinico di riferimento è stato individuato come Centro Covid-19”. Quindi, il magistrato ritiene che “sarebbe opportuno il trasferimento del paziente presso altro Istituto che possa garantire il prosieguo dell’iter diagnostico-terapeutico”. A seguito di tali informazioni, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari il 9 aprile chiede ulteriori approfondimenti al responsabile sanitario del carcere per “verificare se vi fossero ulteriori strutture ospedaliere in Sardegna ove poter effettuare il follow-up previsto - e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure”. Mentre il 23 aprile dalla casa circondariale di Sassari fanno sapere che il paziente non può effettuare i controlli previsti “né presso l’Aou di Sassari né all’interno della CC di Sassari”, “dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna”. Questi i motivi oggetti della decisione: esistenza di una malattia grave e necessitante cure che non possono essere effettuate nel circuito penitenziario, con concreta esposizione a un pericolo di esito letale; sussistenza di rischio di gravi complicanze in caso di contrazione del virus Sars-Cov-19. Pertanto, “all’esito di un confronto tra storia clinica del paziente e testo normativo, questo Tribunale reputa che [...] Pasquale Zagaria debba avere accesso al differimento della pena per grave infermità fi sica”. “Lasciare il detenuto - conclude De Vito - in tali condizioni, pertanto, equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità”. Inoltre i magistrati di sorveglianza hanno valutato anche la pericolosità sociale del detenuto, escludendola per vari motivi. Su questa scarcerazione il ministero della Giustizia vuole vederci chiaro e ha incaricato gli ispettori di Via Arenula di svolgere accertamenti, anche all’interno del Dap per fare luce sulle presunte mancate risposte alle richieste giunte da Sassari. Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia: domani su questo si riunisce la Commissione Antimafia, presieduta dal pentastellato Nicola Morra. D’accordo su questa proposta anche Franco Mirabelli, capogruppo dem in commissione Antimafi a e Walter Verini, responsabile Giustizia nella segreteria nazionale del Pd. Fratelli d’Italia chiede una audizione urgente del Guardasigilli e del capo del Dap Basentini nella stessa commissione. Critico anche Matteo Renzi (IV): “La scarcerazione dei super-boss di Camorra e Ndrangheta è inaccettabile. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna. Oppure venga lui in Parlamento ad assumersi le sue responsabilità”. In sostegno invece si esprime l’Associazione Antigone, con il Presidente Patrizio Gonnella: “La magistratura di sorveglianza deve poter svolgere il proprio lavoro in modo indipendente applicando la legge. La legge, a partire dalla nostra Costituzione, prevede che il diritto alla salute sia garantito ad ogni individuo”. Il Dap inviò la mail in ritardo. Ma Zagaria sarebbe uscito ugualmente di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2020 Sul caso degli arresti domiciliari al boss del clan dei casalesi, Pasquale Zagaria, c’è una relazione interna al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), per respingere l’accusa del giudice di Sorveglianza di Sassari, che ha scarcerato il camorrista, di non avere avuto dal Dap nessuna risposta su dove potesse essere trasferito il detenuto. Certo, il Dap diretto da Francesco Basentini si comporta in maniera burocratica di fronte a un caso che coinvolge un boss di quel calibro. Ma è anche vero che il giudice Riccardo De Vito, per garantire esami diagnostici a Zagaria, che non poteva effettuare a Sassari perché l’ospedale è Covid, lo manda nella casa della moglie nel bresciano, zona rossa proprio per il Covid-19. E, fatto ancor più importante, se si visiona il suo provvedimento, emerge chiaramente che i domiciliari li ha concessi a prescindere dall’asserito silenzio del Dap. A leggere le otto pagine del provvedimento, il giudice è proprio contrario all’ipotesi di trasferimento di Zagaria in un altro carcere a prescindere dal comportamento del Dap che, scrive lui, non gli ha mai risposto. “Pasquale Zagaria - scrive - oltre a trovarsi di fronte all’impossibilità di ricevere le indifferibili cure per la sua patologia, si trova anche esposto al rischio di contrarre la patologia Sars-Cov-2 in forme gravi (circostanza che ha anche impedito in maniera assoluta ogni ipotesi di ricovero negli ospedali)”. E quindi, benché Zagaria sia al 41bis, cioè in una cella singola, “potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”. Per giustificare i domiciliari a un detenuto malato e - sostiene - con più rischi di altri di essere contagiato, si rifà, tra l’altro, anche al giudizio della Corte d’appello di Napoli sulla presunta “non pericolosità” di Zagaria. E veniamo al Dap. Secondo quanto risulta al Fatto, non è vero che non risponde al giudice, ma è vero che si rivolge direttamente al Tribunale di Sorveglianza solo il 23 aprile, giorno della concessione dei domiciliari. Prima del 23 il Dap, però, prova a trovare un carcere alternativo a quello di Sassari da proporre al giudice, a cui spetta sempre la decisione. Il 14 aprile il Dap, sollecitato dal Tribunale di Sorveglianza l’11 aprile, chiede alla direzione del carcere di Sassari una relazione sulla situazione sanitaria di Zagaria, il 15 arriva la relazione in cui si spiega che gli accertamenti diagnostici e una cura di cui ha bisogno il boss non sono più possibili nell’ospedale di Sassari “perché destinato esclusivamente a emergenza Covid-19”. Attenzione, si spiega anche che Zagaria, operato mesi prima di tumore, non è grave, le sue condizioni sono “discrete e stabili”. Quindi il Dap pensa di poterlo trasferire in una cella singola nel carcere di Cagliari, in modo che possa andare nell’ospedale locale. Il 22 aprile lo stesso Dap, con una email urgente alla direzione sanitaria competente in Sardegna, chiede se l’ipotesi Cagliari sia fattibile. Il 23 aprile il Dap riceve un no, non solo su Cagliari, ma sull’intera Sardegna. Lo stesso 23 aprile il Dap, mettendo a conoscenza con una email urgente anche il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, scrive alla direzione del carcere sassarese affinché contatti immediatamente gli ospedali Belcolle di Viterbo o il Pertini di Roma, che hanno reparti di medicina protetta, per capire se ci sia lì un posto. Il giorno di quella email del Dap, inoltrata anche al Tribunale di Sorveglianza di Sassari, è quello in cui vengono concessi i domiciliari a Zagaria fino al 22 settembre. Email arrivata troppo tardi? Email ignorata? Pure questo aspetto sarà oggetto dell’inchiesta degli ispettori di Via Arenula attivati dal ministro Alfonso Bonafede. Come si sa, Zagaria non è l’unico boss che è stato scarcerato in questo periodo di coronavirus, a casa pure il capomafia di Palermo Francesco Bonura, altri boss campani e della ‘ndrangheta. Si è in attesa della decisione su Raffaele Cutolo. Diversi avvocati hanno presentato istanza dopo una circolare interna del Dap che chiedeva il monitoraggio delle condizioni di salute dei boss ultrasettantenni in questo periodo. Non è certo quella circolare ad aver indotto i giudici di Sorveglianza a scarcerare i boss. E neppure la norma Bonafede nel decreto Cura Italia, che esclude domiciliari “semplificati” per mafiosi e detenuti pericolosi fino al 30 giugno. Ma ora, per evitare pericolose strumentalizzazioni, il ministro Bonafede sta ultimando un provvedimento ad hoc per evitare altre scarcerazioni del genere. Se si fa in tempo, sarà riversato nel Decreto Aprile, così come la proroga della legge sulle intercettazioni, che altrimenti dovrebbe entrare in vigore il 1º maggio. Amnistia e indulto strade obbligate, o sarà caos processi di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 28 aprile 2020 Citiamo due impronunciabili parole: amnistia e indulto. Non sono il frutto della fantasia di qualche “garantista”, ma sono istituti disciplinati dal Codice Penale e previsti dalla Costituzione. Pur rappresentando, di fatto, la “resa” dello Stato, che non riesce a portare a termine il percorso di accertamento del reato ovvero di punizione del colpevole, essi sono determinanti per consentire al sistema di continuare a funzionare. Il Covid-19 sta ferendo a morte una Giustizia già lenta e impacciata che non porta a termine (quando ci riesce) i processi in tempi ragionevoli e tollera un’esecuzione della pena illegale, oggetto di numerose condanne inflitte al nostro Paese da organismi internazionali. Il blocco dell’attività giudiziaria ha comportato il rinvio di un numero impressionante di processi. Alle molteplici indagini in corso, ma ora ferme, si andranno ad aggiungere le nuove, per il prevedibile aumento della criminalità dovuta alla crisi economica in atto. In alcuni distretti di Corte di Appello - tra cui quello di Napoli - si dovranno adottare delle preferenze sui reati da perseguire. La ripresa poi si annuncia lenta, con processi “a distanza”, attraverso collegamenti a mezzo internet, con tutte le problematiche giuridiche e tecniche. Processi da remoto che violano principi base del nostro ordinamento e, tra questi, la pubblicità dell’udienza. Il processo, quale strumento per l’accertamento della verità, non è un “fatto privato” tra le parti, ma interessa tutta la collettività, che ha un diritto di controllo. In tema di esecuzione della pena, l’emergenza sanitaria si è inserita in quella cronica del sovraffollamento. Giorno dopo giorno, si registrano aumenti di detenuti positivi. Una “bomba epidemiologica”, che può scoppiare da un momento all’altro coinvolgendo l’intera nazione. Solo diminuendo le presenze si potrà svolgere una corretta prevenzione. I provvedimenti adottati finora sono risibili e in parte inapplicabili per la mancanza di braccialetti elettronici e hanno visto scarcerati e posti agli arresti domiciliari un numero insufficiente di detenuti, lasciando invariato il pericolo di un contagio a catena. E allora, se non ora quando devono trovare applicazione gli istituti dell’amnistia e dell’indulto? Se non ora, che stiamo vivendo un’emergenza sino a pochi giorni fa impensabile, che riguarda tutto il pianeta e che rischia di azzerare il nostro sistema Giustizia? Beneficeranno dei provvedimenti solo coloro che hanno commesso reati non gravi e chi deve scontare una pena, ovvero un residuo di pena, di minima entità. Non vi è altra strada per risorgere e per programmare una “nuova Giustizia”, questa volta efficiente e davvero “giusta”. Affidiamoci quindi ai due impronunciabili istituti dell’amnistia e dell’indulto, regolati dalla nostra Costituzione - la vera e sola “Cura Italia” - e ricostruiamo, sui suoi principi, il nostro Paese. *Responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane I processi online causa Covid sono già realtà. Da Davigo all’Anm: siano virtuali per sempre di Cristina Bassi Il Giornale, 28 aprile 2020 Gratteri: “Risparmieremmo milioni di euro”. I legali: difesa impossibile. Il processo da remoto, anche detto “smaterializzato” o “cancellato dall’Amuchina”, è il futuro della giustizia oppure spazza via una serie di diritti sanciti dalla Costituzione? Con la conversione in legge del decreto Cura Italia le udienze via webcam, almeno per i casi “urgenti”, sono una realtà. Una strada alternativa al dibattimento in carne e ossa che è stata messa nero su bianco e che spaventa molti. Il timore è che possa essere battuta anche dopo l’11 maggio, giorno fino a cui le udienze in aula sono ferme per l’emergenza Coronavirus. Sui fronti opposti stanno, a grandi linee, i magistrati (ma non solo) e gli avvocati. Al Csm la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo, Autonomia e Indipendenza, ha proposto che le novità “telematiche” diventino la regola, anche dopo la fine del lock down. Nicola Gratteri ha argomentato a Otto e mezzo: “Se il potere politico avesse dato ascolto alla mia commissione del 2014, quando parlavo di processo a distanza, e quindi di convalida degli arresti con il detenuto in carcere, il giudice nel suo ufficio, il pubblico ministero nel suo e l’avvocato da casa, oggi saremmo arrivati preparati e avremmo risparmiato non milioni ma bilioni di euro”. Pure Piero Grasso ha definito una “opportunità” la possibilità di effettuare le udienze penali da remoto. Si è detto “favorevole” all’opera di “ammodernamento della macchina giustizia anche mediante la digitalizzazione”. A Italpress ha dichiarato: “Lo sostengo da anni”. Non solo: “Non si capisce questo clima di scontro e barricate” da parte degli avvocati “verso strumenti che non saranno mai obbligatori ma condizionati” alle circostanze. Da parte sua l’Anm spiega che il processo da remoto “è l’unica risposta adeguata” alla situazione. Risposta che “consentirà una parziale ma significativa ripresa delle attività nel rispetto delle norme sul distanziamento sociale e delle ulteriori cautele che dovranno accompagnare le nostre vite nelle prossime settimane. Non si tratta di derogare ai principi e alle garanzie proprie del modello costituzionale di processo”. Questa disciplina, assicura l’Associazione nazionale magistrati, durerà solo fino al superamento dell’emergenza. Tuttavia non è razionale “rimettere alla sola volontà delle parti la scelta della modalità da remoto”. Sottolinea il presidente Luca Poniz (Rai Radio1): “Nessuno immagini scenari orwelliani”. Le polemiche sono “senza fondamento” per una soluzione “strettamente legata a questa fase”. Comunque, nella fase della ripresa “bisognerà continuare con i processi a distanza” nell’attesa di riaprire le aule “a macchia di leopardo”. I presidenti delle Camere civili e delle Camere penali, Antonio De Notaristefani e Gian Domenico Caiazza, si ribellano all’“intervento a gamba tesa” dell’Anm e alle “spinte giustizialiste” del governo. Il processo da remoto, si legge in una nota, ha “devastanti implicazioni” ed è incompatibile “con i principi costituzionali”. Ancora: “Le dichiarazioni di alcuni (soliti) magistrati adusi ai proclami mediatici svelano poi il disegno di rendere tali misure, che oggi si intendono sperimentare, stabili nel nostro ordinamento”. Aggiunge Caiazza: “Non c’è nulla di più fisico della discussione in aula”. Così gli avvocati milanesi Eugenio Losco e Mauro Straini sul blog Giustiziami: “Il processo è innanzitutto un diritto dell’imputato”, fin qui basato su “tre fondamentali pilastri: oralità, immediatezza, contraddittorio”. Un rito oggi compresso nelle due dimensioni di uno schermo, spazzato via “con un colpo di Amuchina” che rende “impossibile” esercitare la difesa. Civilisti e penalisti: l’Anm vuol imporre la giustizia virtuale di Errico Novi Il Dubbio, 28 aprile 2020 L’Anm difende le udienze a distanza “in un momento delicato”, in cui si attende che “il governo”, limiti “il processo da remoto”. Così i leader di civilisti e penalisti, de Notaristefani e Caiazza, replicano all’Associazione magistrati. La partita è durissima. Vede in conflitto avvocati e magistrati. E vede schierati, cosa non ordinaria, civilisti e penalisti in una nota congiunta. Un appello alla mobilitazione, firmato insieme da Gian Domenico Caiazza e Antonio de Notaristefani, presidenti, rispettivamente, dell’Unione Camere penali e dell’Unione nazionale Camere civili: “L’Avvocatura è chiamata a contrastare con la forza delle proprie iniziative l’intervento a gamba tesa di Anm”, favorevole all’ulteriore adozione del processo da remoto fino a fine emergenza. L’intervento del “sindacato” delle toghe è, per Caiazza e de Notaristefani, “palesemente volto a sollecitare le spinte giustizialiste presenti nella maggioranza governativa”. Il quadro è semplice. Venerdì alla Camera il governo ha accolto un ordine del giorno che chiede di limitare le udienze virtuali, e di escluderle per ogni attività istruttoria, nel civile e nel penale. Chiarissimo, come è chiara l’intenzione del ministro da cui dipende la partita, il guardasigilli Alfonso Bonafede: i suoi uffici sono già al lavoro per modificare le norme su udienze e indagini a distanza, in modo da recepire le indicazioni di Montecitorio. Saranno corrette dunque le disposizioni del decreto Cura Italia appena convertito in legge. Ed è proprio mentre il treno pareva in viaggio verso la stazione di arrivo, ossia una giustizia telematica attenuata, che l’Anm ha diffuso, domenica sera, un comunicato in cui chiede invece di mantenere in vigore quell’impianto, perché “è l’unica risposta adeguata” alla ripresa dell’attività negli uffici giudiziari”. Secondo Unione Camere penali e Unione nazionale Camere civili, la giunta dell’Associazione magistrati si inserisce - “a gamba tesa” appunto - nella speranza di far cambiare idea al legislatore, e al governo, e di indurli a rinnegare l’ordine del giorno passato venerdì scorso alla Camera. A uno sguardo veloce, il tentativo attribuito all’Anm da Caiazza e de Notaristefani parrebbe non avere chances di successo. Il governo ha detto sì alla virata sul processo da remoto e Bonafede ha già chiesto ai tecnici di via Arenula di lavorare alle modifiche. Secondo alcuni parlamentari di maggioranza, le norme potrebbero essere introdotte anche prima del previsto, “in un prossimo ddl di conversione di uno dei decreti emanati per l’emergenza coronavirus. Anche perché”, fa notare la fonte parlamentare, “se non lo facessimo noi lo farebbe sicuramente l’opposizione, per esempio Forza Italia che, con Costa, è molto vigile sul punto”. Quindi tempi veloci, magari abbastanza da far entrare in vigore la virata sull’udienza virtuale in tempo per il 12 maggio, quando inizierà la fase 2 della giustizia. Ma allora, verrebbe da chiedersi, perché Caiazza e de Notaristefani sono in allarme? Il motivo è semplice. Perché dopo l’ordine del giorno di Montecitorio, e pochi minuti dopo il comunicato dell’Anm, domenica c’è stato il discorso con cui Giuseppe Conte ha spento gli entusiasmi sulle “riaperture”. Il premier ha spiegato e illustrato un Dpcm, in vigore dal 4 maggio, assai prudente rispetto all’emergenza Covid. Distanziamento sociale confermato, cautele rigorose in tutte le attività pubbliche e private. In un simile quadro, assai lontano dalle aspettative generali coltivate solo fino a poche ore prima, si teme che l’esecutivo assecondi le richieste di Anm e si rifugi di nuovo nella scorciatoia del processo da remoto. Forse non finirà così. Ma Ucpi e Uncc vogliono scongiurare sorprese. L’Anm, notano Caiazza e de Nortaristefani, “interviene in un momento delicato, nel quale gli operatori sono in attesa che il governo, che ha fatto proprie le richieste parlamentari, mantenga rapidamente gli impegni assunti almeno per la drastica limitazione del processo da remoto, escludendo da tale modalità - come richiesto dall’Avvocatura e da tanti autorevoli esponenti della Magistratura - qualsiasi attività di istruttoria dibattimentale e di discussione”. Oltretutto sono tanti i capi degli uffici che, ricorda la nota, “in moltissime sedi giudiziarie” hanno già avviato “procedure per guidare la progressiva ripresa dell’attività secondo le ragionevoli proposte avanzate”, appunto, “da Unione Camere Penali e Unione Camere Civili al tavolo ministeriale, che prevedono una articolata selezione del numero delle cause da trattare e la loro chiamata scaglionata per evitare inutili assembramenti, e la trattazione scritta per i processi civili, nei casi in cui essa sia possibile”. Le udienze virtuali, incalzano Caiazza e de Notaristefani, comportano invece “implicazioni devastanti”. E i “diritti processuali” non possono “essere compressi in modo così determinante in nome della pandemia”, tanto più se tale ipotesi “proviene da chi è titolare dell’azione penale e della potestà statuale, per la corretta operatività delle quali le garanzie sono nate”. Passaggio, l’ultimo, non di poco rilievo. Penalisti e civilisti sperano basti a dissuadere l’Anm dall’insistere con le udienze smart. Bonafede ascolti giuristi e parlamentari sui rischi del processo virtuale di Silvia Vono* Il Dubbio, 28 aprile 2020 Non è possibile sostituire le aule dei tribunali con degli schermi. Nella giustizia penale relazioni ed emozioni hanno un’importanza decisiva. E ora è necessario che il guardasigilli si lasci guidare dalle riflessioni di chi, anche tra le forze politiche, trova pericoloso sacrificare diritti e garanzie in nome dell’emergenza sanitaria. In un contesto in cui ci accingiamo a studiare prospettive di realtà che prevedono un graduale ritorno alla ripresa della vita lavorativa e sociale, anche il mondo giudiziario, per assicurare una corretta riapertura di tutte le attività sospese, deve elaborare le proposte migliori affinché non venga mai a mancare il giusto connubio tra tutela della salute pubblica e tutela dei diritti dell’individuo. I diritti vanno intesi anche come necessità di ottenere processi di normale svolgimento pur facendo fronte a tutti quegli obblighi che il momento ci impone, senza però accelerare troppo sull’introduzione di misure radicali che sebbene sembrino assicurare sulla carta un equilibrio perfetto, finiscono per snaturare e sminuire l’importanza della giustizia. È già da diversi giorni infatti che avanza la tentazione, prima nel governo e ora soprattutto in una parte della magistratura, di “virtualizzare” totalmente le fasi dei procedimenti giuridici, in particolare quelli penali, nei quali è spesso richiesta, invece, non solo la presentazione di documenti ed elaborati (come avviene maggiormente nel processo civile), ma anche la presenza fisica delle parti interessate all’azione legale. A tal proposito, adducendo improrogabili e tecnicamente giusti motivi di incolumità, la macchina ministeriale aveva tradotto in emendamenti al decreto Cura Italia, poi approvati, questo “processo virtuale” che, svolgendosi quindi totalmente in remoto, eliminerebbe il rischio sanitario creando, però, allo stesso tempo, gravi scenari di problematicità legati in primis alla inconsistenza dell’esperienza umana in un processo, come è quello penale, in cui le relazioni e le emozioni hanno un’importanza fondamentale per mettere la capacità di giudizio nelle migliori condizioni di operare. Infatti, pur ritenendo necessario alleggerire il carico di lavoro tramite modalità non nuove ma piuttosto ben pensate, di “smart working”, non è ammissibile che le discussioni che solitamente si tengono in un’aula alla presenza di tutti i partecipanti vengano ora trasformate in “teleconferenze”, permettendo così che non si ponga la giusta attenzione all’importanza di ciò che avviene. Si rischia di non considerare il valore e la necessità di una corretta comunicazione tra avvocato e cliente, senza neanche considerare minimamente i possibili rischi di inquinamento telematico dell’intero processo dovuti all’esposizione del flusso di dati online, che è possibile solamente mitigare tramite l’uso di sistemi crittografici che proteggono da manomissioni e alterazioni. Si pensi solo all’enorme danno che il sistema giudiziario potrebbe subire se un processo, nel corso del suo svolgimento virtuale, venisse alterato nel flusso audio/video che si sta trasmettendo alle parti. È inoltre inammissibile che, in un mondo come quello italiano che ancora oggi soffre di gravi lacune legate al solo adempimento telematico di consegna ed elaborazione di documenti giuridici, e mi riferisco qui alle innumerevoli difficoltà che si sono riscontrate negli anni col Processo civile telematico, si possa solo anche ipotizzare di programmare e sfruttare con scioltezza e in totale sicurezza un sistema che permetta in tempi brevissimi di sostituire la realtà dei tribunali con degli schermi. Ci troviamo oggi ad affrontare un periodo complesso delle nostre vite, e sicuramente bisogna guardare con fiducia all’introduzione di strumenti alternativi per garantire che venga mantenuto il complesso equilibrio tra salute e libertà personali, ma non per questo dobbiamo derogare alle nostre garanzie costituzionali sul giusto processo. Auspico che il ministro Bonafede voglia ascoltare, e tradurre nelle necessarie modifiche normative, le istanze provenienti dal mondo giudiziario. Ma anche e soprattutto che voglia condividere decisioni spesso assunte, inaudita altera parte, e permettere anche ai parlamentari che operano nel mondo del diritto di lavorare insieme, affinché si possano costituire giuste modalità di ripresa delle nostre attività senza aggravarci ulteriormente di spese o difficoltà procedurali che finirebbero con il rendere inutili tutti gli sforzi finora compiuti per il miglioramento e l’innovazione del sistema processuale italiano. *Avvocata, senatrice di Italia Viva Sospensione pubblico servizio: ordinanza nulla se la difesa vede file dopo l’interrogatorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 aprile 2020 n. 12997. Non utilizzabili i video e audio, raccolti nell’ambito di un procedimento a carico di un’insegnante per la sospensione dal pubblico servizio, se messi a disposizione della difesa solo dopo l’interrogatorio dell’indagata. La corte di cassazione, con la sentenza 12997, accoglie il ricorso contro l’ordinanza con la quale veniva applicata la misura interdittiva di un anno nei confronti di una maestra indagata per maltrattamenti. Un’accusa, mossa nell’incolpazione provvisoria, basata principalmente su files audio-video che contenevano le prove degli abusi ipotizzati: atti consegnati al difensore il giorno dopo l’interrogatorio previsto dall’articolo 289 del Codice di rito penale che regola il procedimento che porta alla sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio. Un ritardo che, ad avviso della ricorrente, faceva scattare la nullità dell’ordinanza per la violazione del diritto di difesa. Per la Cassazione il ricorso è fondato. L’interrogatorio in questione deve, infatti, essere preceduto dal deposito di tutti gli atti sui quali si fonda la misura, nello specifico ampiamente utilizzati, per dare modo al difensore di estrarne copia. Se il Pm allega ulteriori atti, che siano o meno dipendenti dalle dichiarazioni rese dall’indagato, il giudice deve procedere ad un nuovo interrogatorio, sempre preceduto dalla messa a disposizione degli atti all’indagato e al suo difensore. Tifosi, tenuità del fatto se il fumogeno è lanciato verso uno spazio vuoto dello stadio di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2020 Tribunale di Frosinone - Sezione penale - Sentenza 23 settembre 2019 n. 942. Il lancio di un fumogeno durante una partita di calcio integra il reato previsto dall’articolo 6-bis della legge n. 401/1989, norma che sanziona diversi comportamenti pericolosi commessi da coloro che partecipano o assistono a manifestazioni sportive. Tuttavia, se la condotta è stata sostanzialmente innocua e non ha messo in pericolo gli altri spettatori sussistono le condizioni per la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 942/2019 del Tribunale di Frosinone. I fatti - Protagonista della vicenda è un uomo, tifoso dell’Ascoli, che in occasione della trasferta della propria squadra di calcio sul campo del Frosinone, valida per il campionato di calcio di serie B della stagione 2016/2017, durante la partita accendeva un fumogeno e lo lanciava dal settore riservato ai tifosi ospiti verso gli spalti sottostanti, causando “una densa cortina di fumo che avvolgeva alcuni spettatori con conseguente pericolo per gli stessi”. Individuato grazie ad un fermo immagine catturato dalle videoriprese delle telecamere dello stadio, il tifoso veniva chiamato a rispondere del reato di “lancio di materiale pericoloso, scavalcamento e invasione di campo in occasione di manifestazioni sportive”, previsto dall’articolo 6-bis della legge n. 401/1989, legge relativa alla tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive, più volte modificata per far fronte alle esigenze di prevenzione e repressione di fenomeni di violenza connessi soprattutto a competizioni calcistiche. La non punibilità per tenuità del fatto - Analizzate le immagini che dimostravano il potenziale pericolo corso dagli spettatori per via del fumogeno lanciato, il Tribunale ritiene integrato il reato de quo anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, essendo richiesto soltanto il dolo generico. Tuttavia, in presenza dei presupposti richiesti dall’articolo 131-bis cod. pen., - pena massima entro i cinque anni, offesa particolarmente tenue e comportamento non abituale del reo - il giudice opta per la concessione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, anche considerando che si trattava di persona incensurata e non dedita a condotte criminose in occasione di manifestazioni sportive. Ebbene, il Tribunale ritiene che “già solo dalla lettura del capo di imputazione” emerge con chiarezza che si è trattato di un fatto non particolarmente grave, in quanto il fumogeno è stato lanciato non direttamente verso altri tifosi o spettatori, bensì in una zona vuota dello stadio, “verso uno spazio che separava gli spalti dal campo di gioco”, con la conseguenza che il pericolo per gli spettatori posizionati sugli spalti sovrastanti alla zona in cui è atterrato il fumogeno “risulta decisamente attenuato”. Lavoro: configurazione del reato di caporalato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2020 Caporalato - Condizione di irregolarità e stato di bisogno dell’immigrato - Integrazione del reato - Insufficienza - Soggezione del lavoratore e sottoposizione a condizioni degradanti senza il rispetto di norme di igiene e sicurezza - Necessità. La sola condizione di irregolarità e lo stato di bisogno dell’immigrato non bastano per far scattare il reato di caporalato, caratterizzato invece dallo sfruttamento, dalla soggezione del lavoratore e dalla sottoposizione a condizioni degradanti senza il rispetto di norme di igiene e sicurezza. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 aprile 2020 n. 11546. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro - Requisiti - Mera condizione di irregolarità amministrativa del lavoratore - Reato - Esclusione. La mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo a integrare il reato di cui all’art. 603-bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono a una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 9 dicembre 2019 n. 49781. Intermediazione di manodopera - Caporalato - Assenza di profitto - Sussiste. Il reato di caporalato è configurabile anche in assenza di un profitto, essendo sufficiente l’aver reclutato manodopera posta in condizioni di sfruttamento. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 19 febbraio 2018 n. 7891. Lavoro e formazione - Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro - Caporalato - Finalità di lucro - Necessità - Esclusione - Fattispecie. L’articolo 603-bis del Cp, come modificato dalla legge 29 ottobre 2016 n. 199, punisce chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, sul solo presupposto dello stato di bisogno dei lavoratori e senza che sia richiesta, per l’integrazione della fattispecie, una finalità di lucro. Ciò che è del resto confermato dalla collocazione della norma incriminatrice nel titolo XII del libro II del codice penale riguardante i delitti contro la persona (nella specie, relativa a vicenda cautelare, la Corte ha pertanto disatteso la tesi difensiva che contestava il fatto che il giudice, nell’emettere la misura cautelare, aveva ritenuto irrilevante stabilire se l’indagato avesse agito a fine di lucro o semplicemente per aiutare i propri connazionali). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 19 febbraio 2018 n. 7891. Somministrazione di lavoro - Intermediazione illecita - Condizioni di lavoro degradanti - Reclutamento di manodopera - Reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro - Intimidazione - Sussistenza. Integra il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro la condotta di colui che recluta manodopera posta in condizioni di sfruttamento mediante l’intimidazione che scaturisce dall’illegittimo controllo del mercato del lavoro e dall’impossibilità, per i lavoratori, di procurarsi altrimenti i mezzi di sussistenza. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 marzo 2014 n. 14591. Lombardia. Coronavirus, 24 detenuti positivi nelle carceri lombarde: 21 solo a Milano Il Giorno, 28 aprile 2020 Istituito un centro Covid a San Vittore. Sono 24 i detenuti nelle carceri della Lombardia risultati positivi al coronavirus, di cui 21 negli istituti penitenziari di Milano. Il numero dei detenuti lombardi messi in isolamento precauzionale è invece pari a 230, con più della metà di loro (122) in custodia nelle carceri del capoluogo. Lo ha detto il provveditore dell’amministrazione carceraria della Lombardia, Pietro Buffa durante la sua audizione (in videoconferenza) davanti ai consiglieri della sottocommissione carceri di Palazzo Marino. Le problematiche maggiori, ha spiegato Buffa, hanno riguardato il carcere milanese di San Vittore soprattutto perché “non ha celle singole ma multiple”. Così “si è iniziato a ragionare sul collocamento dei sospetti positivi” e la scelta “che non è stata presa a cuor leggero” è stata quella di istituire un centro Covid a San Vittore, carcere che ha “un centro clinico strutturalmente migliore” rispetto a quello di altri penitenziari della Lombardia. Ora la situazione della principale casa circondariale di Milano è migliorata soprattutto per effetto del minor affollamento delle celle. “Quando scoppiò la rivolta del 9 marzo - ha spiegato il direttore del carcere milanese Giacinto Siciliano - c’è una vera e propria situazione di over booking, nel senso che non c’era più neppure una branda disponibile, per un totale di 950 detenuti. Ora le presenze si sono ridotte di circa 250 unità grazie soprattutto a trasferimenti e a misure di revoca della custodia cautelare in carcere da parte dell’autorità giudiziaria. Oggi a San Vittore sono detenuti 693 uomini e 63 donne. Una sezione del carcere è stata seriamente devastata dalla sommossa ed è rimasta chiusa per un mese, l’abbiamo riattivata 3 giorni fa. Ora stiamo cercando di alleggerire la pressione sulle celle per gestire meglio il rischio contagio”. Milano. Coronavirus, scarcerato un detenuto su quattro di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 28 aprile 2020 Trasferimenti, revoca della custodia o liberazioni per limitare la tensione dietro le sbarre e il rischio di contagi: quasi 600 via dalle celle. Il coronavirus come un decreto “svuota-carceri”. Il paragone non sembri azzardato. Perché i numeri forniti ieri durante la commissione Carceri del Comune di Milano dimostrano che quasi 600 detenuti (per la precisione 597) hanno lasciato le case di reclusione di San Vittore, Bollate e Opera dopo lo scoppio dell’emergenza Covid-19. Circa il 20-25 per cento sul totale. Un detenuto su quattro ha abbandonato le tre strutture milanesi negli ultimi due mesi. Scarcerazioni giustificate da norme di legge, certo, ma motivate anche e soprattutto dall’obiettivo di abbassare il numero di detenuti nelle strutture e quindi ridurre le percentuali di contagiati da coronavirus. Negli istituti di detenzione della Lombardia, infatti, finora sono stati registrati 24 positivi, di cui 21 negli istituti milanesi e 230 detenuti (122) con obbligo di isolamento. La situazione più esplosiva riguarda il carcere di San Vittore, dove il 9 marzo, a lockdown appena partito, è scoppiata una rivolta: i detenuti sono andati sul tetto dello storico immobile nel centro di Milano per protestare per le condizioni di detenzione ritenute inadatte a limitare contagi da Covid-19. Risultato: da allora a oggi sono state scarcerate 250 persone. “Siamo passati da 950 detenuti maschi a 693, mentre le donne sono scese a 63 - spiega il direttore del carcere, Giacinto Siciliano, nel corso della commissione consiliare riunita in videoconferenza. In totale abbiamo perso circa 250 persone”. Secondo Siciliano, “non c’è stata una significativa incidenza di scarcerazioni per la nuova normativa”: per alcuni c’è stata la revoca della custodia cautelare, altri detenuti sono stati trasferiti, altri per l’articolo 199. “È chiaro che noi come istituto siamo in una situazione più complessa, quando è scoppiata l’emergenza c’è stata anche una rivolta per colpa della situazione di overbooking, non c’era più una branda dove mettere una persona - aggiunge il direttore di San Vittore. La struttura, non essendo modernissima, è stata attrezzata per gestire al meglio la situazione. Siamo ottimisti sul fatto che si possa gestire nel modo migliore possibile. Stiamo cercando di portare a due tutte le celle triple, a 4 quelle da 8, a 5 quelle da 11. Questo ci consente di gestire meglio la parte della prevenzione”. Passiamo al carcere di Bollate. “Qui abbiamo 1.171 detenuti - afferma la direttrice Cosima Buccoliero. Dal 20 marzo al 10 aprile abbiamo avuto circa 220 scarcerazioni, soprattutto affidamenti provvisori, ordinari, terapeutici e differimenti di pena. Poche le detenzioni domiciliari, perché questo è legato alla difficoltà di avere un domicilio per alcuni detenuti”. La responsabile del carcere di Bollate, subito dopo, sottolinea un problema che deve essere ancora affrontato e risolto, quello dei detenuti che hanno il permesso di lavorare all’esterno e che rischiano di perdere il lavoro a causa della crisi economica dovuta all’epidemia. “Per molti di loro c’è il rischio licenziamento”, chiosa la Buccoliero. Ultimo capitolo: il carcere di Opera. Nella struttura alle porte di Milano ci sono state “circa 120 scarcerazioni, ma la capienza si è abbassata di 60 unità perché altre 60 sono arrivate da altre parti - spiega il direttore del carcere Silvio Di Gregorio. Opera non è stata colpita dal contagio ma ha avuto un decesso tra il personale”. Verona. La direttrice: “Detenuto positivo? Il carcere agì bene” Corriere del Veneto, 28 aprile 2020 “Contrariamente a quanto dichiarato dal Sindaco, la direttrice del carcere di Verona non ha fatto “quello che ha voluto”, ma ha ottemperato a una disposizione dell’autorità giudiziaria”. È un passo della nota diffusa ieri da Gloria Manzelli, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto. Ed è solo l’ultimo capitolo del botta e risposta tra istituzioni sul caso del detenuto indiano scarcerato perché positivo al Covid-19. Un passo indietro. Convinta che sia “impossibile rispettare, nel contesto del circuito penitenziario, misure di profilassi idonee a scongiurare pericolo di contagio per i detenuti e per chi lavora”, la direttrice dell’istituto penitenziario di Verona chiede alla Corte d’Appello di liberare un indiano infettato dal coronavirus, e solo in seguito risultato negativizzato. I giudici acconsentono e la scarcerazione avviene il 18 aprile. Ma qualcosa non funziona: l’indiano vaga per la città e viene trovato dai carabinieri solo il giorno successivo in stazione. Com’è potuto accadere? Il sindaco ha accusato la direttrice che “ha fatto quello che ha voluto, e quell’ex detenuto è stato messo in strada senza preoccuparsi del suo isolamento sanitario”. In sostanza Federico Sboarina ha spiegato di non aver affatto ignorato l’appello della direttrice (e lo dimostra una lettera protocollata), pur spiegando di non avere alloggi a disposizione. Il Comune sperava di avere più tempo. Ma in una lettera, successiva alla scarcerazione, il sindaco scrive anche che l’ospitalità di detenuti positivi al Covid “esorbita dal proprio ambito di competenza” pur avendo poi trovato, grazie alla Curia, una sistemazione per ospitare l’uomo. Ora interviene il provveditore. La direttrice - ricorda Manzelli nella nota - ha subito scritto a prefetto, sindaco e Usl spiegando la situazione e chiedendo loro “con sollecitudine un domicilio idoneo”, ma dalle autorità “non sopraggiungeva alcuna disponibilità”. Inoltre la sera del 17 aprile la Corte “disponeva di dare immediata esecuzione” al provvedimento. Quindi la direttrice non poteva far altro che liberare l’uomo. “La sua attività - conclude Manzelli - è sempre stata condivisa e supportata dal Provveditorato Regionale”. Bari. Covid-19 e carcere, il Garante regionale dei detenuti scrive al Sindaco consiglio.puglia.it, 28 aprile 2020 Il Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Piero Rossi risponde alla nota del Sindaco di Bari e della Città Metropolitana Antonio Decaro. La nota riporta, per opportuna conoscenza, l’atto di invito e diffida, notificato allo stesso Sindaco a firma di alcuni cittadini elettori, volto a sollecitare la verifica delle condizioni di convivenza dei detenuti nella casa circondariale di Bari “Francesco Rucci” in materia di contenimento dell’emergenza pandemica da Covid-19. “Al netto di tutte le considerazioni, piuttosto controverse, sui provvedimenti normativi nazionali, in ordine alla deflazione del sovraffollamento che affligge gli istituti di pena pugliesi, del che è ampio dibattito, alimentato anche dallo scrivente Garante, occorre dare atto che, seppure tra le mille difficoltà del caso ma con insperata (vista la partenza piuttosto confusa sul tutto il territorio regionale) tempestività, Direzione e Apparato sanitario interno hanno messo a punto sistemi di prevenzione del contagio che hanno scongiurato ad oggi i problemi temuti. Si tratta di interventi sia organizzativi (per lo più afferenti alle linee guida adottate dalla Giunta Regionale) che strutturali (col ripristino della funzionalità dell’ex sezione femminile che consente l’allocazione di detenuti singoli in cella per lo screening dei casi sospetti). Invero il comprensibile e legittimo stato d’ansia dei detenuti è stato più volte condiviso ed anche affrontato in occasioni di incontri propiziati dalla Direzione, col Garante regionale. In dette circostanze il confronto con alcune delegazioni di detenuti è stato acceso e civile e tutta la discussione è stata incentrata sulla efficacia delle iniziative governative di cui sopra. Fortunatamente registriamo, al contempo, una forte flessione (nell’ordine del sessanta per cento) di nuove carcerazioni, in forma di misura cautelare. Mentre la Magistratura di Sorveglianza fatica a dar seguito all’ingente carico funzionale determinato dalla mole delle istanze pervenute, per la possibilità di espiare i residui di pena in detenzione domiciliare. Il che determina una lenta e contenuta dimissione di astretti. Su altri aspetti tecnici e statistici saprà riferire la Direzione della Casa Circondariale di Bari. Il fronte della battaglia civile e sociale per la moral suasion rivolta al Governo in ordine a più efficaci strumenti per la piena tutela del diritto fondamentale alla salute degli astretti resta aperto, sul livello nazionale del dibattito”. Padova. La didattica on line arriva anche al carcere Due Palazzi di Massimo Zilio Il Gazzettino, 28 aprile 2020 In questi giorni i detenuti studenti dell’indirizzo amministrazione, finanza e marketing dell’Einaudi Gramsci possono seguire i corsi a distanza e soprattutto continuare la preparazione in vista degli esami. “Siamo riusciti ad attivare la didattica a distanza soprattutto grazie all’impegno e alla disponibilità della nostra dirigente Marisa Marsilio e del direttore Claudio Mazzeo - spiega Michela Zamper, insegnante della sezione carceraria. Anche gli agenti si sono rivelati molto disponibili: senza di loro non sarebbe possibile per gli studenti utilizzare gli strumenti per collegarsi alle lezioni”. Nella casa di reclusione è stata allestita un’aula che consente a sette studenti per volta di seguire le lezioni via skype, strumento raccomandato per la didattica a distanza da una circolare del Dap. Visti i numeri limitati e i circa settanta studenti che frequentano la scuola sono previste lezioni sia al mattino che al pomeriggio. “Abbiamo contattato tutti, ma ci stiamo concentrando su quelli dell’ultimo anno, una dozzina, che stanno preparando l’esame di Stato - continua Zamper - Speriamo che l’esame si possa svolgere in presenza, ma ancora non lo sappiamo. Abbiamo alcune difficoltà, perché non utilizziamo la stessa tecnologia della scuola, ma è importante essere riusciti a mantenere il contatto con gli studenti per non deteriorare il rapporto. Anche il garante nazionale Mauro Palma ha raccomandato il proseguimento della didattica per tutelare il diritto all’istruzione delle persone detenute. È un problema molto complesso, non sono in molti gli istituti, a livello nazionale, a essere riusciti a far partire le lezioni a distanza e per questo è particolarmente importante esserci riusciti”. Anche gli studenti hanno accolto positivamente questa possibilità. “Per loro è molto importante poter continuare con le lezioni. Quelli di quinta sono molto preoccupati per l’esame e fanno molte domande, ma per tutti è una bella opportunità, anche se ci sono diverse problematiche, ad esempio i collegamenti sono difficili e dobbiamo fare una turnazione visti i pochi posti. Presto però dovremmo riuscire ad aprire un’altra auletta. Intanto proseguiamo anche con la didattica cartacea, facendo arrivare agli studenti compiti e programmi”. Siracusa. #lascuolanonsiferma, parte la didattica a distanza nella Casa circondariale di Wilma Greco* epale.ec.europa.eu, 28 aprile 2020 Come è noto, in seguito alle disposizioni per il contenimento del Covid-19 in carcere, tutte le attività dentro le mura con operatori esterni, inclusi i percorsi di formazione e istruzione, sono state sospese, amplificando l’isolamento di cui soffrono abitualmente i detenuti e riportando indietro di molti anni il carcere, quando si configurava come luogo chiuso e isolato dalla società. Il 12 marzo, una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria autorizzava il proseguimento dei corsi di istruzione in carcere mediante le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione. A tutti è sembrata una rivoluzione copernicana, e forse per certi aspetti lo è, tanto che alcuni Istituti Penitenziari hanno faticato (e faticano ancor oggi) a darne attuazione. È datata 7 aprile la lettera del garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, indirizzata ai ministri Istruzione, Università, e Giustizia per lamentare come questa situazione di stallo comporti la lesione del diritto allo studio in carcere, volano di riscatto e reintegrazione sociale. In Sicilia, le prime sperimentazioni di Didattica a Distanza partono dalla Casa Circondariale di Siracusa: ritornano tra i banchi di scuola gli studenti dei corsi di alfabetizzazione e primo livello del Cpia “Manzi”, insieme agli studenti dell’Alberghiero di Palazzolo Acreide. Docenti e studenti interagiranno con il supporto della LIM (lavagna multimediale) e le piattaforme Go to meeting e Meet, rispettivamente per l’alberghiero e il Cpia. “Abbiamo già provato il collegamento - ci informa con entusiasmo la dott.ssa Cataldi, capoarea trattamentale- e funziona perfettamente, grazie al supporto della rete Linkem, che tra l’altro ha consentito a titolo gratuito la prosecuzione in remoto dei colloqui dei detenuti con le famiglie”. Le lezioni, ognuna della durata di 30 minuti, si svolgeranno sia al mattino che al pomeriggio, per permettere la partecipazione a tutte le classi. Tratteranno, in entrambe le modalità sincrona/asincrona, gli argomenti che gli studenti hanno già approfondito attraverso le schede e gli appunti che i docenti avevano avuto cura di fornire durante il periodo di chiusura totale della scuola. Come tutte le crisi, anche questa creata dal coronavirus è diventata l’occasione per sperimentare altre modalità di comunicazione, relazione e apprendimento, rese possibili dalla preziosa sinergia tra istituzione penitenziaria e istituzione scolastica, in un momento in cui la scuola tutta è messa alla prova della didattica a distanza e nei documenti ufficiali del Miur poco si parla della scuola in carcere. Una collaborazione necessaria se si pensa alla funzione rieducativa sancita dall’art. 27 della Costituzione; rieducazione che non può non passare attraverso la cultura e il potere trasformativo che questa ha su ogni persona. Per gli studenti ristretti la Fad è anche l’occasione per cercare di colmare il gap del digitale. Hanno cominciato a sperimentare le videochiamate con i famigliari; per alcuni di loro si è trattato del primo “appuntamento” con lo smartphone. Ultima cosa, ma non meno importante: docenti e studenti potranno incontrarsi, virtualmente è vero, e ciò sarà sufficiente a mantenere la relazione, a sentire la presenza di un’istituzione, la scuola, che dietro le sbarre insiste nel sopravvivere come meglio sa fare, per colmare il senso di vuoto e assenza che pervade spazi, celle, corridoi e persone. *Ambasciatrice Epale Sicilia Bergamo. La direttrice del carcere: “Il Fuori non si è scordato del Dentro” gnewsonline.it, 28 aprile 2020 “La Casa Circondariale di Bergamo si trova in un contesto territoriale fortemente colpito dall’emergenza sanitaria scatenata dalla pandemia di Covid-19. Sono stati adottati rigidi protocolli a tutela della salute del personale penitenziario e dei soggetti privati della libertà personale”. Con queste parole inizia un testo di Teresa Mazzotta, direttrice della Casa Circondariale di Bergamo, pubblicato sulla pagina Facebook del Corpo della Polizia Penitenziaria, in cui viene illustrato il rapporto che l’istituto sta vivendo con la città in questo periodo d’emergenza. “Il carcere avrebbe potuto rischiare di diventare una zona ‘chiusa’ - scrive ancora Mazzotta -, circoscritta e delimitata dalle sue mura, ma così non è stato: il carcere è stato in tutto e per tutto parte integrante del territorio bergamasco, un quartiere all’interno della città di Bergamo. E il Fuori non si è scordato del Dentro con molteplici iniziative”. Tra il sostegno morale e concreto assicurato da enti locali, Chiesa e associazioni di volontariato, la direttrice del carcere ricorda lo straordinario “impegno profuso dai cappellani, come don Fausto Resmini, scomparso il 23 marzo scorso, presente nel cuore e nei ricordi di tutti, per il suo essere persona di grande cuore e profonda umanità, pronto a sostenere e confortare tutti”. Conclude Mazzotta: “Come direttrice dell’istituto penitenziario di Bergamo, assieme al Comandante del Reparto, non posso che gioire per questi segnali di attenzione e profonda sensibilità: sono questi atteggiamenti che contribuiscono al superamento delle tensioni e delle preoccupazioni e che risvegliano sentimenti di speranza e positività, facendo confidare, veramente, sul fatto che noi, ce la faremo!”. Perugia. Ecco perché un prete decide di entrare in carcere di Milena Castigli interris.it, 28 aprile 2020 Intervista a don Saulo Scarabattoli, parroco della parrocchia Santo Spirito di Perugia e cappellano nella sezione femminile del Carcere di Capanne. In carcere. Non per espiare una pena, ma per alleviare le sofferenze degli altri: i detenuti. È questa la missione che da oltre 25 anni porta avanti mons. Saulo Scarabattoli, parroco della parrocchia Santo Spirito di Perugia e cappellano emerito del Carcere di Capanne. Don Saulo è uno di quei “preti con l’odore delle pecore”, come li definisce Papa Francesco. Vale a dire uno di quelli che si sporcano le mani per stare concretamente vicino al loro gregge. Il gregge di don Saulo non è (solo) la “solita” parrocchia, perché lui svolge la sua opera apostolica anche presso la sezione femminile della casa circondariale di Capanne (comune umbro in provincia di Perugia). Nel carcere femminile ci sono 2 sezioni ordinarie ed una sezione dedicata alle detenute madri e in stato di gravidanza. In Terris ha intervistato don Saulo per comprendere il ruolo e il valore della presenza di un sacerdote dentro una prigione. Salve don Saulo. È oltre un mese che non entra nel carcere femminile di Capanne a causa dell’emergenza coronavirus. L’ultima volta che ha incontrato le detenute le ha viste preoccupate per la loro salute? Temevano un possibile contagio in spazi tanto ristretti? “Sì, avevano paura, ma non angoscia. Una fondata attenzione per cosa stava accadendo nel mondo a causa della pandemia ma non il panico, almeno in quei giorni. Cosa sia successo dopo, non lo saprei dire”. Il carcere di Capanne ha molte persone al suo interno? “Non tantissime. Nella normalità, oscillano tra le 70-80 persone recluse. Ci sono poi dei picchi di anche altre 20 persone nuove che arrivano in un solo giorno, quando ci sono i trasferimenti da altre carceri”. È un problema? “Sì, ma non per la capienza, quanto per farle inserire nel tessuto sociale. D’altro canto, sono spostamenti inevitabili anche per alleggerire il surplus di presenze nelle altre carceri più grandi”. Il sovraffollamento è una delle piaghe peggiori delle carceri italiane. Anche Capanne è sovraffollato? “No, non lo è. Tanto che le detenute vengono spostate da altre case di reclusione a questa. Però, per tornare al problema covid-19, nonostante Capanne sia un modello positivo, il distanziamento sociale chiesto dal Governo non è assolutamente praticabile”. Perché? Come è strutturata la casa circondariale? “Perché tra un letto l’altro l’unica distanza è quella di un comodino. È evidentemente troppo poco”. Quanti letti ci sono in una cella?” “Il numero varia. Ci sono celle con due, tre o quattro letti. In situazione di emergenza vengono anche installati i letti a castello. Perciò Capanne non è sovraffollato, ma c’è comunque troppa vicinanza rispetto alle direttive del Governo per evitare possibili contagi”. Stacchiamoci dall’emergenza e torniamo alla sua lunghissima esperienza tra le detenute: oltre 25 anni insieme a loro. Qual è l’importanza della presenza di un sacerdote dentro al carcere? “C’è un livello visibile e un livello invisibile. Il livello visibile è quello del rapporto, dell’incontro, dell’aiuto concreto. È molto simile a quello che fanno gli altri volontari e operatori che lavorano o fanno opere di bene tra i detenuti. Per esempio, i volontari che donano dei vestiti; la Croce Rossa che dà anche aiuti economici; la Caritas che sostiene nella ricerca del lavoro a fine pena. Questo è il livello visibile e sono cose che faccio anche io nel mio piccolo: sono disponibile al dialogo, cerco di andare incontro alle loro richieste materiali: penne, quaderni, cancelleria varia. E a richieste più personali come poter telefonare alla famiglia. Sul piano visibile, il sacerdote fa un po’ da ponte tra reclusi, struttura penitenziaria e famiglie”. E il livello invisibile? “Sono 25 anni che vado a Capanne. Le prime volte mi chiedevo: ma che vado a fare? L’aiuto e il senso profondo del mio operato l’ho trovato nell’icona biblica della visitazione: Maria che va a trovare Elisabetta”. Perché? Quali sono le similitudini tra la visitazione della Madonna a sua cugina e la missione del sacerdote in prigione? “Maria, quando va da Elisabetta, non va a ‘fare qualcosa’. Va lì a salutarla, a stare con lei. E poiché Lei portava Gesù nel cuore e nel proprio ventre, il piccolo san Giovanni a sentire la sua voce esulta di gioia. Quindi, quella del sacerdote è una presenza, prima che un’azione concreta, che nasce da una motivazione diversa da quella degli altri operatori perché espressamente religiosa. Ma, esternamente, quello che si vede è simile a quello che fanno gli altri”. In 25 anni ne avrai viste e sentite tante. Hai mai scritto un libro delle tue memorie? “Delle mie no, ma nel 2006 raccolsi la testimonianza di una suora, suor Manfredina, nel libro ‘Da Torcoletti a Capanne. Un secolo di presenza delle suore tra le carcerate di Perugia’, pubblicato a cura della Provincia di Perugia”. Perché il titolo “Da Torcoletti?” “Perché Via Torcoletti, nel centro storico perugino, era la sede del carcere femminile prima dell’apertura del complesso di Capanne nel 2005. Lì, all’interno della casa di reclusione, per oltre ottant’anni - dal 1908 al 1992 - è stata presente una comunità di religiose, note come suore del Patrocinio di san Giuseppe, anche se il loro nome ufficiale è Suore di Gesù Redentore. Suor Manfredina, morta pochi anni fa ultranovantenne, ha seguito le recluse dal 1939 agli anni ‘70. Nel libro, scritto nel 2006 per ricordare il periodo di via Torcoletti, ho messo dei ‘medaglioni’, vale a dire le storie più significative di donne e ragazze incontrate da suor Manfredina”. Il libro è in commercio? “Non più, è esaurito. L’avevamo stampato in 500 copie. Tra l’altro, era stato stampato nella tipografia del carcere di Terni. L’essere stato prodotto all’interno di un carcere gli dona un valore aggiunto”. Torniamo al suo ruolo ministeriale diverso da quello degli altri operatori e volontari… “La presenza di un prete in carcere ha uno specifico, quello dei sacramenti: la celebrazione dell’eucaristia e il desiderio della confessione. A volte, non si può fare la confessione perché la persona è di un’altra confessione religiosa. Ciò nonostante, tante donne mi chiedono una benedizione. Alcune hanno anche dimostrato un desiderio di conversione. Ci sono state diverse esperienze di catecumenato: donne che in carcere hanno fatto un cammino di fede grazie all’opera dei catechisti e poi sono arrivate all’iniziazione cristiana”. Come cambia la vita di Chiesa tra le mura del carcere? “Cambia, tra le altre cose, il modo di fare l’omelia. Con le ragazze detenute, non si comincia mai dal ‘cielo’, ma sempre dalla ‘terra’; anzi, dal fango della terra. E poi da quello si passa al “sole”, che non si sporca con il fango, anzi: illumina le nostre miserie. Quindi, l’omelia deve essere breve: “se non bravo almeno breve” è il mio motto. E concretissima, anche magari partendo da dei fatti di cronaca, da uno spettacolo televisivo o da una lettera personale che è arrivata. Devi insomma “scendere” lì dove loro sono, nel concreto di una vita reclusa e limitata. Per poi camminare insieme verso qualcosa di più alto, quel sole che rende davvero liberi”. In conclusione: cosa rappresenta il sacerdote per un detenuto? “Una persona di cui si può fidare!”. Porto Azzurro (Li): Le canzoni scelte dai detenuti: “Così troviamo forza nei momenti bui” di Antonella Danesi Il Tirreno, 28 aprile 2020 I reclusi del carcere hanno partecipato al progetto #Distantimauniti. Un collegamento virtuale con le famiglie isolate nei giorni del Covid. In collaborazione con i volontari dell’associazione “Dialogo”, i detenuti della casa di reclusione di Porto Azzurro sono stati invitati a partecipare al progetto #Distantimauniti. Il desiderio è di creare un collegamento virtuale tra le persone che sono “recluse” nel carcere di Porto Azzurro e i familiari, gli amici, gli abitanti dell’isola d’Elba, dell’Italia e del mondo intero, anch’essi “reclusi” nelle proprie abitazioni per l’epidemia da Covid-19. Alcuni detenuti offrono così un messaggio di speranza, di vicinanza indicando il titolo di una canzone che desiderano condividere in questo momento di emergenza mondiale da Covid-19, accompagnata da un breve pensiero che motiva la scelta fatta, una dedica che offre un messaggio di speranza proprio da chi vive la separazione come quotidianità. Una risposta alla fragilità della condizione di tutti e di ciascuno. Un’occasione di comunicare. Cosimo (Salerno) La canzone che ho scelto è “Passerà” di Aleandro Baldi. In questa è racchiusa la mia idea di speranza e di come la musica può farci viaggiare e non farci sentire soli nei momenti di sconforto e solitudine. Come recita il testo: “le canzoni non guariscono amori e malattie, ma guariscono quel piccolo dolore che l’esistenza ci dà”. È proprio così. A volte mi basta una semplice canzone per uscire dal luogo in cui mi trovo, un luogo triste e buio. Appena metto il brano le pareti e il soffitto scompaiono e mi ritrovo nel luogo e con chi più desidero. Passerà? Certo che passerà questo tempo in cui tutti siamo costretti a passare le giornate chiusi in casa e lontano dalle persone che amiamo. Io me lo ripeto tutti i giorni e, credetemi, funziona. Perché sono certo che quando sarà tutto passato, sarà più bello riprenderci le nostre vite e vivere quelle piccole cose che prima ci sembravano così banali. Tutti insieme! #distantimauniti, ripetiamocelo ogni giorno! Alaeddin (Napoli) Il messaggio che vorrei dare a tutte le persone di qualsiasi razza, paese o provenienza è che siamo tutti esseri umani e che in questo periodo molto buio, non dobbiamo mai perdere la speranza. Quando cadiamo ci rialziamo ancora più forti di prima. Ringrazio tutti quei cittadini che hanno mandato un messaggio di solidarietà a noi detenuti. Faccio le mie condoglianze e chi ha perso i propri familiari. Vorrei chiudere dicendo che non ho mai visto, ora come ora, un’Italia così unita. Un abbraccio, andrà tutto bene. La mia canzone è “Credo negli esseri umani” di Marco Mengoni. Luigi (Salerno) 26 marzo 2020: deceduti 969, guariti 589, ricoveri 4492. 8 aprile 2020: deceduti 570, guariti 2099, ricoveri 1195. Per dare un messaggio di speranza ho scelto la canzone “Fuori dal tunnel” di Caparezza. Visto il diagramma che comincia una caduta verso lo zero penso che siamo a metà, e oltre, del tunnel. Molto presto saremo fuori da questo tunnel nel quale siamo caduti tutti, pazienti ed operatori sociosanitari, detenuti e forze dell’ordine. Da questo punto che va verso l’uscita si comincia a vedere uno spiraglio di luce e noi tutti non vediamo l’ora di una graduale ripartenza. Andrà tutto bene! Saliou (Senegal) All’Italia e agli italiani dedico: “You are not alone” di Michael Jackson. Cara Italia, ti dedico questa canzone per dimostrarti che tutti noi detenuti stiamo lottando con te, anche se le nostre voci non sono mai state sentite. Ti dedico questa canzone, ma soprattutto la dedico a quei super eroi senza poteri, ai soldati senza armi che lottano per salvare più vite possibile. Medici e infermieri meritano più che ringraziamenti. Meritano di più che essere chiamati soldati o supereroi. Anche se non è stato dimenticato, vi ricordo: restate a casa! Vi sembrerà di essere nella stessa nostra situazione di reclusi, ma è per il vostro bene, per quello di tutti! Così possiamo evitare l’aumento del contagio. Laviamoci le mani, non ci costa più di un minuto. Le nostre mani possono procurarsi germi e batteri. Manteniamo la distanza di almeno un metro, così possiamo fuggire dalle gocce di saliva che possono essere il mezzo di trasporto del contagio. È doloroso sentire che stanno morendo centinaia di persone quasi ogni giorno e tra quelle morti possono esserci padri, madri, sorelle, parenti, amici. Ognuno di noi ha perso un caro e sappiamo che fa male perdere una persona cara. Restiamo uniti, combattiamo insieme, perché certe battaglie si combattono insieme. Cara Italia, fammi vedere che sei forte! E lo sei, davvero. Quando siamo deboli, quando sembra che non ci sia speranza per nessuno… se ci credi non fallirai mai. Andrà tutto bene se stiamo insieme, come una squadra con lo stesso obiettivo. Abbiamo fatto la scelta di salvare la vita. È vero che avremo una vita migliore, tu e io. Ma senza dimenticare la Cina dove è scattato tutto, la Francia, la Spagna, il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America. Siamo con voi e non sarete mai soli! Francesco (Napoli) Ho scelto “Viva l’Italia” di Francesco De Gregori. Questa canzone è stupenda perché esprime l’Italia. In questo periodo triste per l’umanità intera ho pregato tanto per tutte le persone che oggi vivono le restrizioni. W l’Italia, del caffè, del valzer, l’Italia, metà giardino e metà galera. W l’Italia! Saliou (Senegal) La canzone che ho scelto è “Look in to my eyes (Everything i do) “ di Bryan Adams. “Guarda nei miei occhi e vedrai che cosa significhi per me. Cerca nel tuo cuore, cerca nella tua anima e quando mi vedrai lì non cercherai mai più. Non mi dire che non vale la pena di combattere, non puoi dirmi che non vale la pena di morire. Lo sai che è vero, tutto ciò che faccio lo faccio per te. Cerca nel tuo cuore e vedrai che non c’è niente da nascondere, prendi la mia vita, donerò tutto, sacrificherò tutto. Non c’è amore, come il tuo amore e nessun altro può dare più amore. Non c’è nessuna strada senza che tu ci sia, tutto il tempo, dovunque”. Ho scelto questa canzone di Bryan Adams per far capire che i medici, gli infermieri, i soccorritori stanno mettendo a rischio la loro vita, rischiando di essere contagiati, pur di salvare la vita dei malati. In una parte della canzone l’autore dice che donerà la sua vita, sacrificherà tutto, che tutto ciò che fa lo fa “per te”. Quindi aiutiamoli ad aiutare, evitando l’aumento dei contagi. L’intervento dello Stato nelle depressioni e le grandi guerre di Manfredi Alberti Il Manifesto, 28 aprile 2020 Covid-19. L’esperienza del lockdown non è solo privazione delle libertà: ci pone di fronte all’evidenza che i grandi obiettivi di utilità collettiva possono essere raggiunti solo con un forte intervento pubblico. Le recenti stime diffuse dal Fondo monetario internazionale indicano che il “Grande lockdown” potrebbe produrre a fine anno una recessione mondiale di proporzioni mai viste, almeno dai tempi della crisi del 1929. Guardando al caso dell’Italia il quadro appare ancora più fosco. La caduta del Pil prevista per il 2020 (-9,1%), infatti, potrebbe essere molto simile a quella avutasi nel 1945 al termine della Seconda guerra mondiale (-10,3%), determinando quindi una recessione decisamente più grave di quelle seguite alla Grande guerra (- 5,6% nel 1919), al famoso crollo di Wall Street (- 4,7% nel 1930), e al fallimento di Lehman Brothers (-5,5% nel 2009). Bastano questi dati a legittimare l’analogia, sempre più diffusa nel linguaggio giornalistico e politico, fra la pandemia di Covid-19 e l’esperienza della guerra? La questione merita a mio avviso una risposta articolata. Per molti versi è giusto ritenere fuorvianti e retoriche le metafore belliche utilizzate per descrivere la gestione sanitaria dell’epidemia, trasformando i morti in “caduti”, gli ospedali in “trincee” e medici e infermieri in “eroi”. La “chiamata alle armi” contro il virus, infatti, rischia di rendere più facile l’occultamento delle responsabilità politiche di coloro che hanno svilito la sanità pubblica negli ultimi anni, o di legittimare possibili restringimenti degli spazi di democrazia, come dimostra il caso dell’Ungheria. Le grandi guerre europee del passato sono state enormi carneficine con milioni di morti, mosse dal nazionalismo e dall’imperialismo, che nulla hanno a che fare con la cura dell’altro che è implicita nell’attuale sforzo di tutela della salute pubblica. Ciò nonostante, bisogna pur riconoscere che l’emergenza sanitaria sta producendo trasformazioni e ponendo alcuni problemi per certi versi comparabili, fatte le dovute distinzioni, a quelli di un’economia di guerra (come la gestione centralizzata di risorse reali e finanziarie e la rapida interruzione o riconversione di alcune produzioni), offrendo al contempo nuove opportunità per un ripensamento complessivo dell’assetto sociale ed economico. Per comprendere meglio questo aspetto, sarà utile rievocare ancora oggi quel conflitto e quella rivoluzione che poco più di cento anni fa sconvolsero il mondo: la Grande guerra e l’inizio dell’edificazione del socialismo in Russia. Non tanto per il precedente costituito dall’influenza “spagnola”, scoppiata tra il 1918 e il 1919, quanto piuttosto per il fatto che l’attuale pandemia, al pari di quei lontani eventi, ci pone ancora una volta di fronte ai limiti di un’economia e di una società fondati sull’uso privato delle risorse, e sollecita la sperimentazione di nuove e superiori forme di organizzazione sociale. Da questo punto di vista si rivelano illuminanti le riflessioni che Lenin fece tra il 1917 e il 1918. Nel settembre del 1917, scrivendo La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, Lenin riusciva a scorgere nell’economia di guerra, e in particolare nel “capitalismo monopolistico di Stato” tedesco, i germi del socialismo e della pianificazione. L’emergenza della guerra stava infatti accelerando la nascita di una gestione centralizzate delle risorse, capace, potenzialmente, di delineare un nuovo modo di produrre e distribuire la ricchezza, a vantaggio di tutti, anche se la macchina statale funzionava ancora a beneficio di pochi privilegiati. Il controllo statale sulla finanza e sulla produzione in tempo di mobilitazione bellica, notava Lenin, implicava ad esempio la necessità di superare l’uso privato, e quindi riservato, di informazioni vitali per la gestione dell’economia, come i dati commerciali delle aziende. Fatte le dovute distinzioni, anche oggi si pongono problemi analoghi nella gestione dell’emergenza sanitaria, rispetto, per esempio, all’utilizzo di quei Big Data che sono già, di fatto, raccolti a fini di profitto dai grandi monopoli privati dell’informazione, da Google a Microsoft, e che potrebbero essere messi a disposizione di tutti, sotto un controllo democratico, per scopi sanitari e di utilità sociale (si pensi, da questo punto di vista, ai casi pur diversi della Cina e della Corea del Sud). Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Oggi, più ancora che cento anni fa, la produzione capitalistica è già, in un certo senso, “socializzata”, cioè capace di connettere settori produttivi, mercati e consumatori. Queste potenzialità possono emergere coerentemente solo a patto di ricondurre sotto un controllo collettivo le informazioni e le decisioni sulla produzione. Da questo punto di vista l’esperienza del lockdown, che al momento appare a molti solo come una temporanea compressione delle libertà individuali, ci pone di fronte all’evidenza che i grandi obiettivi di utilità collettiva (la salute, il ripensamento dei consumi, degli stili di vita, della mobilità, dei tempi di lavoro, dell’uso delle risorse naturali) possono essere raggiunti solo con un forte intervento pubblico che indirizzi e coordini l’azione dei singoli. Sarà bene non dimenticarsene, e agire di conseguenza, una volta superata questa fase. Russia. Carceri: dopo Hiv e tubercolosi il colpo di grazia del Covid-19 di Michela Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2020 Il paradosso: detenuti e guardie sono senza protezioni, le autorità chiedono ai condannati di produrre mascherine. La Federazione supererà la soglia dei 90mila infetti dichiarati, ma non si conoscerà presto il numero dei positivi al Covid-19 rinchiusi nelle sue celle. Dopo America e Cina, la Russia ha la terza più numerosa popolazione carceraria al mondo. Asfissiati tra brande e orinatoi, in camerate sature di disperazione e miseria, rimangono ammassati i galeotti slavi, mentre il virus colpisce da una latitudine all’altra il loro Paese. Ufficialmente in otto prigioni, in sette diverse regioni russe, sono stati registrati contagi; ma oltre alla carenza dei test, c’è quella cronica delle informazioni che penetrano oltre il territorio recintato delle colonie penali russe. Quello che si riesce a sapere lo riporta il Moscow Times: nella lista dei malati ci sono 21 prigionieri e due guardie nel distretto ebraico siberiano; altri malati nell’istituto di correzione a Bira. A Rybinsk, sul Volga, dodici prigionieri hanno riferito di avere febbre alta. Pochi hanno contatti con i loro avvocati, ovunque le visite sono momentaneamente vietate e, insieme ai familiari, all’interno delle carceri è ora impedito l’accesso a medicinali e cibo che i parenti fornivano ai reclusi. In assenza di cure adeguate e strutture ospedaliere nelle vicinanze, un’immediata condanna a morte per i prigionieri può essere rimanere contagiati dal virus. Non hanno dispositivi di protezione, ma dallo scorso marzo, sono proprio alcuni detenuti in diverse prigioni a produrre mascherine. Fuoco e proteste nel ventre della Siberia. Nella colonia penale numero 15 ad Angarsk è scoppiata una rivolta, decine fra i 1.200 detenuti si sono tagliati le vene contemporaneamente per protestare contro la brutalità dei secondini e il fatto di essere stati lasciati senza protezioni contro il virus. A Yaroslav, riferiscono attivisti ed associazioni che aiutano le famiglie dei detenuti, molti pazienti riportano chiari sintomi di polmonite come avviene nel penitenziario federale Matrosskaya Tishina a Mosca, epicentro del virus. Nella Capitale, per estenuanti condizioni di lavoro e totale assenza di materiale protettivo, si sono licenziate decine di infermiere che hanno abbandonato i reparti del Kommunarka, l’ospedale visitato in scafandro giallo dal presidente Vladimir Putin. Una matrioska di tormenti, con una pandemia dentro l’altra: dietro le sbarre l’epidemia può trovare terreno fertile perché prima del Covid-19 esistevano già i focolai di altre malattie, soprattutto tubercolosi ed Hiv. Inascoltati gli appelli di amnistia rivolti dal gruppo Mosca Helsinki al Cremlino, che non ha dato alcun tipo di risposta. Dal Tatarstan a Murmansk sono solo i giornalisti indipendenti a fornire dati sulle sindromi respiratorie che colpiscono i reclusi in questi giorni. Quanto sia difficile avere notizie lo spiega bene un articolo apparso tre giorni fa sulla Novaya Gazeta, il giornale della Politovskaya, dal titolo “La legge sulle fake news è una trappola per giornalisti: ovvero perché è così difficile scrivere del virus in prigione”. A ribadirlo e ripeterlo ad alta voce è stata poi Olga Romanova, membro dell’organizzazione “Russia dietro le sbarre”, messa a tacere quando le autorità l’hanno richiamata subito per “diffusione di fake news”. Intanto il governo pensa già di ridurre le restrizioni dopo il 12 maggio, ma ciò sarà “possibile” solo se i cittadini si atterranno “rigorosamente a tutte le regole necessarie”: lo ha detto la direttrice dell’Agenzia federale russa per la Salute e i diritti dei consumatori (Rospotrebnadzor), Anna Popova, in un’intervista tv ripresa dall’agenzia Interfax. Arabia Saudita. La pena di morte abolita per i minorenni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 28 aprile 2020 Un altro passo avanti del Regno verso l’adeguamento alle norme internazionali. La scorsa settimana era stata vietata la condanna alla fustigazione. I minorenni non saliranno più sul patibolo in Arabia Saudita. Con un decreto Re Salman compie un altro passo verso la modernizzazione del regno ultraconservatore. Il testo approvato prevedere che “al condannato non potrà essere comminata una pena superiore a dieci anni da trascorrere in un carcere minorile”. “Il decreto ci aiuta a mettere a punto un codice penale moderno - ha spiegato il presidente della Commissione dei diritti umani, Awwad Alawwad - verranno messe in atto altre riforme”, ha aggiunto. Sono almeno sei i condannati, tutti appartenenti alla minoranza sciita, che ora usciranno dal braccio della morte. No alle pene corporali - Questa è la seconda grande riforma giudiziaria in una settimana grazie spinta riformista voluta dal principe Mohammed bin Salman. Venerdì scorso l’Assemblea generale della Corte Suprema, il più alto organo di giustizia del Regno, ha abolito la condanna alla fustigazione. Ora le sentenze dei giudici potranno prevedere pene detentive o multe (o entrambe). Il rapporto - Lo scorso 21 aprile Amnesty International, nel rapporto annuale, ha annunciato una buona notizia: nel 2019, le esecuzioni di condanne a morte nel mondo hanno subito un calo del 5% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il minimo storico degli ultimi dieci anni. Nel 2018 erano state 690, l’anno scorso 657. Un dato che però non include la Cina dove “la vera portata dell’uso della pena di morte in Cina rimane sconosciuta essendo questi dati classificati come segreti di Stato”. “La domanda - dice Amnesty - non è se la pena di morte verrà abolita nel mondo, ma quando”. In controtendenza Arabia Saudita, Iraq, Sud Sudan e Yemen hanno registrato un’impennata delle esecuzioni capitali. Riad ha giustiziato 184 persone nel 2019. La maggior parte di loro avevano commesso reati legati alla droga o omicidi. Escludendo la Cina, l’86% di tutte le esecuzioni riportate è avvenuta in soli quattro Paesi: Iran, Arabia Saudita, Iraq ed Egitto. I Paesi che hanno cancellato la pena capitale dai loro ordinamenti sono 106, altri 142 l’hanno abolita solo di fatto. Sono soltanto 20 gli Stati che ancora si ostinano a punire con la morte i condannati. Gli omicidi di Stato sono usati spesso come strumento di repressione politica, come in Iran e Cina. In Egitto, sono state 32 le esecuzioni capitali registrate nel 2019. Ancora critica anche la situazione in Iraq che ha visto raddoppiare le esecuzioni, passate da almeno 52 ad almeno 100. Progressi in numerosi Paesi dell’Africa subsahariana, segnali positivi anche dagli Stati Uniti e dal Giappone. Anche il numero complessivo delle condanne a morte nel mondo - non eseguite - è sceso ad almeno 2.307 in 56 nazioni contro le 2.531 riportate in 54 paesi nel 2018. El Salvador. Detenuti ammassati per punizione (ma con la mascherina) ilpost.it, 28 aprile 2020 Una distesa di uomini uno attaccato all’altro, senza alcuna distanza di sicurezza, ma con le mascherine. Sono le agghiaccianti immagini che arrivano dal carcere di Izalco nel El Salvador. Il presidente della repubblica centramericana di El Salvador, Nayib Bukele, ha radunato centinaia di membri delle pericolose gang criminali del paese che sono detenuti in diverse carceri per perquisire le loro celle, facendo una gran pubblicità all’operazione sui social network. La misura è stata decisa dopo un inatteso picco negli omicidi avvenuto nel weekend, ma ha attirato molte critiche per il modo in cui sono stati radunati i detenuti, ammassati a centinaia l’uno attaccato all’altro: un trattamento brutale anche in tempi normali, ma particolarmente preoccupante in un periodo in cui in tutto il mondo vengono presi provvedimenti per favorire il distanziamento sociale. El Salvador è il paese con il più alto tasso di omicidi per abitante al mondo: circa 62 ogni 100mila abitanti all’anno. È un dato che è comunque diminuito moltissimo, visto che nel 2015 era di 105 omicidi ogni 100mila abitanti. Un calo drastico è avvenuto in particolare nell’ultimo anno, cioè più o meno da quando si è insediato Bukele, 39enne ex sindaco della capitale San Salvador con un passato nella sinistra radicale ed eletto come indipendente con un partito di unità nazionale. Quelli dello scorso weekend sono stati però i giorni con più omicidi dall’insediamento di Bukele, con 23 omicidi venerdì, 13 sabato e 24 domenica. Secondo il governo, gli omicidi sono stati ordinati dai membri delle principali gang del paese - le due principali sono la MS-13 e la Calle 18 - che si trovano nelle principali prigioni. Per questo Osiris Luna Meza, a capo delle prigioni nazionali, ha annunciato estese perquisizioni e confinamenti solitari dei detenuti considerati più pericolosi, sostenendo sia necessario per contenere gli omicidi. Bukele ha pubblicato molte foto delle operazioni sui social network, attirando critiche che sono andate oltre quelle per l’abituale disumanità del trattamento dei detenuti, piuttosto comune nel paese. Molti infatti hanno protestato per le poche precauzioni prese per limitare un’eventuale diffusione del coronavirus. Il rischio che si diffonda nelle carceri, dove sarebbe difficilissimo da controllare, è tenuto in alta considerazione in gran parte dei paesi del mondo interessati dall’epidemia. Finora a El Salvador sono stati registrati pochi contagi ufficiali, 323, e 8 morti, con circa 20mila test eseguiti finora. Il contagio sembra essere sotto controllo principalmente per via delle tempestive e rigide misure restrittive introdotte da Bukele fin da metà marzo, ancora prima dei primi casi registrati nel paese. Da allora centinaia di persone sono state arrestate per averle violate, e in certe zone sono state le stesse gang a far rispettare con le minacce le norme di distanziamento sociale. Jose Miguel Cruz, esperto di gang criminali di El Salvador, ha detto al Washington Post che il picco di omicidi nel weekend ha “distrutto l’idea che il governo abbia il controllo totale sul crimine”. Secondo Cruz, la diminuzione delle violenze negli ultimi mesi era dovuta in parte alle attività della polizia, ma anche a una decisione strategica delle stesse gang, che ora sembrano aver deciso di tornare a uccidere in maniera molto visibile, per motivi ancora non chiari. Osservatori e analisti negli ultimi mesi avevano avanzato la possibilità che il calo degli omicidi dipendesse da un accordo segreto tra gang e governo, che però ha sempre negato questa tesi.