Carcere, ma ci sarà una Fase 2? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2020 Ma quale potrebbe essere la Fase 2 in carcere? Quando riapriranno le sale colloqui? Quando rientrerà il Volontariato? Quando finirà quel “distanziamento sociale” che nelle galere si è esercitato solo nei confronti della società esterna, scuola e volontari, che sono stati subito messi fuori, mentre tra detenuti continua la più rischiosa vicinanza? Sono domande che il Volontariato non si limita a porre astrattamente, ma a cui vorrebbe collaborare a trovare delle risposte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora non devono più uscire La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella Fase 2 è che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire. Zoom, Meet, Skype, quando le Videoconferenze sono cibo per la mente Le attività scolastiche in videoconferenza sono state autorizzate anche nelle carceri, ma funzionano ancora poco. Eppure, sono attività che potrebbero aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. In tanti oggi mettono le mani avanti dicendo che c’è il rischio che le tecnologie si sostituiscano alla presenza viva della società civile, il cui ruolo è fondamentale nelle carceri. Noi pensiamo che invece le videoconferenze possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci come quella di Fiammetta Borsellino, della figlia di un detenuto dell’Alta Sicurezza e di altri detenuti, che dialogano con gli studenti, è una opportunità che non deve riguardare solo l’area penale esterna, ma deve coinvolgere stabilmente anche il carcere e le persone detenute e non rimanere legata solo all’emergenza: si tratta infatti di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro la responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione. Ma dà anche degli strumenti fondamentali alle persone detenute, che non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Quando il deserto rischia di essere sia “dentro” che “fuori” Ecco, il reinserimento. Se già era complicato prima avere una offerta di lavoro per accedere a una misura alternativa, dopo, nella fase 2, diventerà una guerra tra poveri dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E “dentro” le persone si vedranno intrappolate, senza futuro, spaventate. E anche per le famiglie, sarà più difficile sostenere i propri cari detenuti. Ci vorrà allora il doppio di attenzione, anche rispetto al rischio di patologie come la depressione, da parte delle Istituzioni, ma anche di quel Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento, e delle cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati. Basta la salute? Il coronavirus ha distrutto le nostre illusioni di vivere in un mondo in cui non ci siano malattie che non si possano sconfiggere. Ma in un momento in cui ci sentiamo tutti più fragili, il carcere è diventato uno dei luoghi più a rischio in assoluto. In questo quadro già desolante di per sé, si inserisce una polemica per detenzioni domiciliari concesse a detenuti in 41bis. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? una magistrata rispetta la legge e manda quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dà, non per l’emergenza coronavirus, ma perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. E cosa vede invece il magistrato antimafia Di Matteo in questa scarcerazione di un uomo con patologie così gravi, che difficilmente potrebbe uscire indenne da un contagio da coronavirus? “Boss scarcerati? Segnale tremendo, lo Stato sembra cedere al ricatto delle rivolte orchestrate dalle mafie”. Ricordiamo che le rivolte “orchestrate dalle mafie” hanno comunque fatto emergere tanta disperazione, rabbia e morte, ma nessun vero disegno eversivo; e poi non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Dove c’è stata qualche scarcerazione, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di tutti, anche dei mafiosi. Gentili Garanti, noi vogliamo esserci Il Garante Nazionale, nel suo bollettino quotidiano, ci comunica che il 22 aprile si è svolta la riunione online tra il Garante nazionale e i Garanti regionali, che “hanno avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2”. Ai Garanti allora diciamo che il Volontariato e le cooperative sociali chiedono di essere coinvolti in questo confronto sulla fase 2, e di esserlo da subito, perché è adesso che c’è bisogno di tornare a essere presenti capillarmente nelle carceri, ed esserlo portando le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa, la nostra competenza anche nell’informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”. Gentili Garanti, potete chiamarci a far parte di questa specie di Unità di crisi, che deve fare in modo che la fase 2 ci sia anche per le carceri? *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e Direttrice di Ristretti Orizzonti Covid-19. Il Garante dei detenuti: “Nelle carceri 138 positivi, situazione stabile” Il Giorno, 27 aprile 2020 Notizie false e gonfiate, con dati disomogenei sommati tra loro in maniera da rappresentare una situazione di allarme sulla diffusione del Covid-19 negli Istituti penitenziari, che allo stato non c’è. Il Garante nazionale smentisce i dati pubblicati ieri da un quotidiano nazionale secondo cui in alcune carceri ci sarebbero centinaia di persone detenute positive, intere ali di alcuni Istituti isolate e oltre 500 operatori della Polizia penitenziaria contagiati dal virus. I dati riportati, alcuni aggiornati a 20 giorni fa, mescolano le persone riscontrate positive al virus a coloro che sono in isolamento precauzionale: due situazioni ben differenti tra loro. Il Garante nazionale condanna ogni tentativo di creare allarme, strillando numeri e dati senza fondamento, alimentando paura e preoccupazione tra chi vive e chi lavora in carcere e anche tra i familiari delle persone ristrette. Il dolore delle famiglie lontane e il timore per le informazioni fatte circolare che si sono riversate sul Garante nazionale ci spingono a fare nuovamente chiarezza, diffondendo i numeri reali, aggiornati e verificati della diffusione del Covid-19 negli Istituti penitenziari. Questa la situazione aggiornata a oggi tra le 53.658 persone ristrette (e non 62.000 come riportato): le situazioni di positività che attualmente riguardano le persone detenute sono 138 su tutto il territorio nazionale, 13 delle quali sono ricoverate in ospedale. La loro diffusione non è geograficamente omogenea, ma si concentra in alcune regioni - che coincidono con quelle in cui è maggiormente estesa la pandemia, come il Piemonte, il Veneto e la Lombardia - e in alcuni specifici Istituti, come quelli di Torino e di Verona, in cui nelle settimane scorse si sono evidenziati alcuni focolai specifici. Tuttavia, da alcuni giorni i loro valori si sono stabilizzati. Sono, invece, dieci le regioni in cui non si registra alcun caso di positività (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia), oltre che nella Provincia autonoma di Bolzano. Tra il personale penitenziario, i casi di positività si attestano attorno ai 230 nei 190 Istituti. Un numero alto, ma anch’esso stabilizzato da qualche tempo. Naturalmente, ciò non deve far abbassare il livello di guardia. Al contrario, va mantenuta alta l’attenzione per tutelare tutti: chi vive in carcere, chi vi lavora, e la comunità esterna a cui le persone detenute torneranno una volta scontata la loro pena. Il Garante nazionale prosegue nel suo compito di monitoraggio costante delle condizioni di tutela della salute in carcere e di rispetto dei diritti di tutti, in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, con la rete del Garanti territoriali e con le realtà del Terzo settore. Testimonianza del suo impegno di aggiornamento su tale situazione, in un’ottica di trasparenza, è il bollettino pubblicato ogni martedì e venerdì. Il Garante nazionale continua anche le sue visite ai luoghi di privazione della libertà, tanto più necessarie oggi, in una fase in cui tali luoghi sono maggiormente isolati. Coronavirus: Dpcm, per nuovi ingressi detenuti sintomatici valutare domiciliari agenzianova.com, 27 aprile 2020 In ambito penitenziario, “i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti, raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. È quanto si legge nel testo del Dpcm firmato ieri sera dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. “I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda - prosegue il provvedimento - di limitare i permessi e la semilibertà o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Il caso di Francesco Bonura, dal 41bis alla detenzione domiciliare di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2020 Breve nota in merito alla deontologia professionale. Leggo e rileggo il pezzo di Lirio Abbate uscito la scorsa settimana su l’Espresso che dava notizia della concessione della detenzione (non credo gli arresti, visto che era già condannato e detenuto) domiciliare a Francesco Bonura condannato per associazione mafiosa a 23 anni e recluso al 41bis nel carcere di Opera. Non desidero soffermarmi sulla visione giuridica del collega già ampiamente discussa ma mi chiedo - proprio dal punto di vista professionale - come sia stato possibile dimenticare di dire che alla persona in questione mancavano solo pochi mesi per terminare la pena e uscire in libertà. Non è una questione di poco rilievo e l’omissione condiziona pesantemente il servizio alla verità dei fatti che dovrebbe essere il primo obiettivo di un giornalismo sano e corretto. Ora all’articolo 2, nel definire i fondamenti deontologici della professione, il Testo Unico dei doveri del giornalista approvato nel dicembre 2015 recita: il giornalista difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona; per questo ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la sostanziale verità dei fatti… Ognuno è poi libero di pensare come vuole ma la sostanziale verità dei fatti non può essere adattata alle proprie convinzioni oppure omessa per banale negligenza. E se poi si cita Pippo Fava, come non dimenticare quel bellissimo articolo che segna la fine della direzione de Il Giornale di Sicilia in cui dichiara “Io ho un concetto etico di giornalismo…”. Meriterebbe una rilettura attenta. E poi ognuno può continuare a pensare quello che vuole e anche a sostenerlo - naturalmente - ma solo dopo aver svolto con serietà il suo mestiere. *Componente Consiglio di Disciplina Ordine dei Giornalisti Emilia-Romagna Boss scarcerati, in arrivo il decreto. Oggi attesa la decisione su Cutolo di Liana Milella La Repubblica, 27 aprile 2020 Il Guardasigilli Bonafede coinvolge i magistrati antimafia e manda gli ispettori ai giudici di sorveglianza, ma dopo le rivolte il direttore delle carceri Basentini finisce di nuovo tra le polemiche. I magistrati antimafia sono in rivolta contro le scarcerazioni dei boss. Sei sono quelle più note, ma c’è chi ne conta addirittura quaranta. Il capo della procura nazionale antimafia Cafiero De Raho con un’intervista a Repubblica.it, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, Catello Maresca, solo per citare le toghe più scatenate contro uno Stato che avrebbe abbassato la guardia contro la criminalità dimenticando le vite umane perse nelle stragi e i sacrifici fatti per assicurare i responsabili alla giustizia. Voci critiche soprattutto contro un Dipartimento delle carceri - il Dap guidato dall’ex pm di Potenza Francesco Basentini - che dalle rivolte di febbraio a oggi non ne avrebbe azzeccata una. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede coinvolge il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra e garantisce un decreto legge già per giovedì. Ma oggi potrebbe arrivare la decisione sulla scarcerazione di Cutolo che, se fosse positiva, aprirebbe una dura querelle contro il governo. Di cui ha approfittato subito Matteo Salvini che ha accusato il premier Giuseppe Conte di non aver detto una sola parola sui boss in libertà. Cutolo libero? - Ma partiamo dal palazzo di giustizia di Reggio Emilia, dove oggi i magistrati di sorveglianza dovranno decidere se accogliere o respingere l’istanza di messa agli arresti domiciliari per Raffaele Cutolo, “don Rafè”, presentata dagli avvocati e dalla moglie Immacolata Iacone. Il notissimo boss della camorra è in carcere ormai da oltre 40 anni e con una salute malmessa. Cutolo è detenuto a Parma e per questo sarà Reggio Emilia a pronunciarsi. Una scelta che si preannuncia difficile dopo le polemiche sulle precedenti, e recenti, scarcerazioni di altrettanti boss, decise sempre dai giudici di sorveglianza, quelle di Francesco Bonura e Domenico Perre a Milano, di Pino Sansone a Palermo, di Ciccio La Rocca a Catania, di Vincenzino Iannazzo a Catanzaro. Già negata la liberazione invece al capo di Cosa nostra catanese Benedetto “Nitto” Santapaola. Di chi è la colpa? - Ormai da giorni si assiste a uno scaricabarile tra ministero della Giustizia, Dipartimento delle carceri e giudici di sorveglianza. Il ministro Bonafede, subito dopo le scarcerazioni di Bonura e di Zagaria, con dei post su Facebook, ha ribadito l’impegno del governo nella lotta alla mafia e ha negato qualsiasi responsabilità e voce in capitolo sulle decisioni di mandare i boss ai domiciliari. In particolare, per il boss della camorra Pasquale Zagaria, che ha ottenuto dalle toghe di Sassari il via libera ai domiciliari, Bonafede ha subito attivato anche gli ispettori per verificare le scelte delle toghe. Il giallo di Zagaria - Nel caso di Zagaria in realtà si consuma un giallo. Perché nel provvedimento dei giudici è scritto che, nonostante fosse stato sollecitato a trovare una collocazione alternativa, il Dap non avrebbe risposto. Via Arenula, all’opposto, nega questa versione e assicura che sarebbero state ipotizzate più soluzioni (per esempio portare Zagaria a Roma), ignorate da chi ha deciso alla fine di autorizzare la scarcerazione. È un fatto che oggi Zagaria, detto Bin Laden, è ai domiciliari con la moglie a Brescia. La circolare del Dap - Ma ancora una volta, dopo le rivolte nelle carceri che sono scoppiate a febbraio e che hanno provocato 13 morti e oltre 35 milioni di euro di danni nonché il carcere di Modena praticamente distrutto, il Dipartimento è nel fuoco delle polemiche per via di una circolare inviata il 21 aprile ai direttori degli istituti in cui si raccomandava di segnalare all’autorità giudiziaria, per via dell’emergenza Covid, i detenuti con patologie, ma anche quelli ultra settantenni. Non era un ordine di scarcerazione - e questo ha sottolineato più volte Bonafede - che comunque è possibile solo con il via libera dei giudici di sorveglianza. Di fatto però dopo quella circolare sono aumentate le richieste di messa ai domiciliari dei detenuti over70 soprattutto se, come Cutolo, affetti da patologie. Boss scarcerati, in arrivo il decreto. Oggi attesa la decisione su Cutolo Il decreto di Bonafede - A questo punto tocca a Bonafede battere un colpo. Lui lo farà con un decreto legge, che dovrebbe essere approvato già questo giovedì. D’accordo con il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, Bonafede vuole coinvolgere la Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo e le singole procure distrettuali nel valutare le richieste di scarcerazione e dare o negare un via libera. Una strada, di fatto, per negarle, perché una valutazione di pericolosità attuale bloccherà automaticamente anche la possibilità di concedere gli arresti domiciliari per ragioni di salute. Come, in passato, è stato fatto per il capo di Cosa nostra Totò Riina. Bonafede pronto a un decreto per “murare” i reclusi al 41bis malati gravi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2020 Ecco l’effetto dell’uragano mediatico, partito dall’Espresso, sul caso di Franco Bonura, il detenuto al 41bis malato di cancro che ha ottenuto i domiciliari dai giudici milanesi: il guardasigilli vuole eliminare, con un decreto, la discrezionalità dei magistrati di sorveglianza. È la carambola perfetta che, grazie ai media, trasforma lo stato di diritto in stato di polizia. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo ha annunciato. D’intesa con il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, proporrà alcune misure volte ad affrontare la questione sollevata per prima da un articolo de L’Espresso relativa ai domiciliari per motivi di salute concessi a un uomo recluso al 41bis. Parliamo del caso di Francesco Bonura, passato dal regime speciale alla detenzione domestica nei giorni scorsi proprio per le sue gravi condizioni. Un provvedimento della magistratura di sorveglianza limpido e motivato. Ma si è fatto leva sull’emotività e anche sull’ignoranza del tema per creare una valanga di polemiche. Il ministro Bonafede, per assecondare gli animi, ha promesso che farà di tutto per rendere più difficile la concessione dei domiciliari a chi attualmente si trova al 41bis. Non importa sapere che i provvedimenti che hanno creato indignazione sono stati concessi per gravi motivi di salute. Per chi si è macchiato di reati mafiosi, il diritto alla salute diventerà un optional. Le norme, che potrebbero essere contenute in un prossimo decreto legge, dovrebbero limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Ovvero che tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia saranno sottoposte, per il via libera, sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Tradotto, chi è al 41bis o in alta sorveglianza difficilmente potrà ottenere un via libera da chi lo ha tratto in arresto. Vincolare la decisione del magistrato di sorveglianza vuol dire snaturare la sua terzietà. Infatti, per comprendere la discrezionalità del giudice di sorveglianza è opportuno soffermarsi sulla valenza della sua posizione di terzietà. Il giudice penale giudica un imputato e ha necessariamente una posizione di terzietà rispetto alla difesa e al pubblico ministero. Il giudice di sorveglianza è sicuramente terzo, in quanto giudice, però costituzionalmente la sua è una terzietà diversa da quella del giudice penale perché non è una terzietà di indifferenza, che impone al giudice di merito di non aver mai trattato il caso, al fine di escludere incompatibilità. Il possesso di elementi informativi in ordine al caso su cui si deve provvedere è invece fondamentale per il giudice di sorveglianza, che si avvale della conoscenza acquisita per formulare la decisione. Infatti, tra le informazioni ve ne sono talune, definite obbligatorie, la cui acquisizione è voluta dal legislatore e dalle quali non si può prescindere, come quelle da richiedere al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, al Questore, alla Commissione centrale per la definizione ed applicazione dello speciale programma di protezione, ai centri di servizio sociale, oppure, da rendere, da parte del procuratore nazionale o distrettuale antimafia. Tali pronunciamenti, però, non possono essere vincolanti, altrimenti la terzietà svanisce. Il problema, di fondo, è che è inimmaginabile, per un governo, muoversi a seconda delle indignazioni del momento. Non si possono fare interventi normativi in base a degli articoli di giornale che hanno il potere di fuorviare e veicolare l’opinione pubblica. Altrimenti l’esercizio del potere esecutivo rischierebbe di diventare il terreno d’intervento privilegiato dei gruppi di pressione di ogni parte. La democrazia rischia di collassare e quindi di sostituirsi con la “dittatura della maggioranza”. Ed è così che lo Stato di Diritto muore e avanza sempre di più quello di Polizia. Coronavirus: M5s, Cura Italia non è svuota carceri, richiesti atti magistratura agenzianova.com, 27 aprile 2020 I componenti del Movimento cinque stelle delle commissioni Antimafia e Giustizia prendono posizione sul tema delle scarcerazioni ai tempi del coronavirus e definiscono “vergognosa la propaganda con la quale si sostiene che il Cura Italia faccia uscire mafiosi dal carcere: le decisioni assunte in questo periodo sono state adottate dai giudici su leggi già esistenti”. I parlamentari aggiungono: “Nel rispetto della separazione dei poteri sancita dalla Costituzione repubblicana, ma anche in adempimento delle rispettive responsabilità, abbiamo richiesto di acquisire tutti i provvedimenti sulle scarcerazioni, la convocazione urgente della commissione Antimafia per esaminare tali atti: intendiamo svolgere fino in fondo il nostro ruolo di inchiesta e vigilanza. Anche dal ministro Bonafede abbiamo avuto garanzie di aver attivato gli ispettori ministeriali per le verifiche dovute sulle scarcerazioni”. Gli esponenti del M5s, poi, proseguono: “Sul piano legislativo, da tempo siamo impegnati su una riforma per aumentare collegialità e uniformità in queste decisioni, coinvolgendo in maniera strutturale la Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo (Dna) e le Direzioni distrettuali antimafia (Dda) sul territorio, per i pareri su tutte le decisioni relative alle istanze di scarcerazione avanzate dai detenuti per reati di mafia. Quanto accaduto”, concludono i parlamentari del Movimento cinque stelle, “sarà motivo per tutte le forze politiche di non contrastare l’esame della nostra proposta”. Boss scarcerati, l’affondo del pm Maresca: “Cortocircuito e confusione del Dap” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 27 aprile 2020 Il tema è troppo serio per essere affrontato per “tifoserie”: la fragilità del sistema di detenzione in Italia ha mostrato tutte le sue crepe con il diffondersi della pandemia. “Ed è per questo - spiega al “Mattino” Catello Maresca, il pm che con i colleghi del pool diede la caccia ai Casalesi - che va fatta finalmente chiarezza, altrimenti si rischia di fare confusione e cattiva informazione”. Temibilissimi boss mafiosi scarcerati. Tra loro c’è pure una vecchia conoscenza della Dda di Napoli: quel Pasquale Zagaria, fratello del super boss Michele, considerato la mente economica dei Casalesi, messo ai domiciliari per motivi di salute perché rischierebbe il contagio in carcere. “Nel nostro sistema penitenziario il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si occupa della gestione delle carceri, mentre la valutazione sul tipo di pena spetta, invece, alla magistratura. L’emergenza sanitaria Coronavirus ha provocato un cortocircuito istituzionale ed un rimbalzo di responsabilità tra Dap e magistrati”. I tribunali sono stati inondati di istanze di scarcerazione fondate sul rischio da infezioni, “sostenute - prosegue Maresca - anche da una errata interpretazione di linee guida fissate dal Pg della Cassazione, ispirate sul giusto principio di alleggerimento del numero dei detenuti”. Qualcuno ci ha marciato, approfittandone e insinuandosi nelle pieghe di questo caos? Probabile. “Perché - aggiunge il magistrato - molte di queste istanze sono totalmente infondate e sono state rigettate, mentre altre sono basate invece su pregresse patologie del detenuto: patologie, si badi bene, fino al momento precedente all’epidemia non sufficienti per richiedere la scarcerazione”. “In questo contesto è arrivata, con l’effetto di una bomba nucleare, la famigerata circolare del Dap del 21 marzo, che ha stilato un decalogo di patologie, oltre alla età superiore ai 70 anni, cui testualmente “è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze”, imponendo ai direttori delle carceri di comunicarlo all’autorità giudiziaria. L’effetto è stato quello di trasferire tutta la responsabilità della decisione in capo ai magistrati. Una mossa “ponziopilatesca”. È come dire sostanzialmente che, a prescindere dalle valutazioni concrete sul rischio contagio, il carcere è sempre luogo a rischio per i detenuti e che, quindi, il Dap non si assume la responsabilità per ciò che possa accadere a seguito di un contagio”. Ed è ciò che è accaduto per Pasquale Zagaria, il caso finora forse più eclatante di tutti. Così è successo quello che tutti avevano l’obbligo di evitare: e bene ha fatto il Guardasigilli e la Commissione antimafia ad attivare le giuste verifiche”. Maresca sottolinea anche che “da quanto emerge dal provvedimento della Sorveglianza, il Dap è stato incapace di prevedere e fronteggiare l’emergenza”. Anche perché il pericoloso detenuto avrebbe potuto essere trasferito in altro istituto di pena attrezzato: ma il Dap, dal 9 aprile più volte sollecitato dal Tribunale, ha risposto solo il 23 aprile. E così, non avendo risposta dal Dap (che invece sostiene di averla data in via interlocutoria) dopo 14 giorni, il giudice ne ha disposto la scarcerazione. “Se questo è il modo di gestire l’emergenza - conclude - non devono stupire le continue scarcerazioni anche di pericolosi mafiosi. I fatti ci dicono che non sono state adottate dal Dap misure sanitarie ed organizzative idonee. I detenuti più esposti sono stati lasciati dov’erano, e i pochi presìdi sanitari sono stati assolutamente inefficaci. Questo mi rende molto amareggiato e seriamente preoccupato per il futuro del Paese. Le mafie usciranno molto più forti di prima dall’emergenza Coronavirus”. I boss tornano a casa: fermiamo l’impunità e i “giudici di badanza” di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2020 Egualitario, non c’è dubbio. In un mondo retto su squilibri vertiginosi il Covid ha ucciso medici eccelsi e pazienti ignari di tutto. Ha ucciso Luis Sepulveda scrittore di fama mondiale e ospiti anonimi di residenze sanitarie. Lo abbiamo pensato in tanti. Ma io, divorato dalle mie allucinazioni domestiche, sono andato oltre. Ho pure pensato che, con l’aiuto della legge e di qualche magistrato, il C ovid ha realizzato un altro, supremo, capolavoro di uguaglianza: ha messo agli arresti domiciliari sia gli assassini mafiosi sia le loro vittime. Meglio, i familiari delle vittime; perché le vittime subiscono da tempo un diverso, più ultimativo genere di costrizione. Insomma, in nome del Covid è giunta per tutti la stessa misura coercitiva. Eri in carcere per reati gravissimi? Arresti domiciliari. Eri in ufficio, per strada, a scuola, libero di lavorare, amare, incontrare? Arresti domiciliari. Tutti insieme. Visti “causa e pretesto”, come direbbe Guccini, può sembrare umorismo grezzo. E invece, al di là delle spiegazioni giuridicamente sempre compite, contiene un nucleo di verità sconvolgente. Perché c’è sempre uno “spirito del tempo” in cui gli uomini vivono. Prima impalpabile, poi forte, sempre più forte. Oggi ne è parte dominante il virus. Non solo il Covid, ma anche gli altri che hanno mietuto vite in Asia o in Africa. Il nostro, dicono gli scienziati, è appunto il tempo del virus che dal mondo animale viene, va e poi ritorna. Ma dello spirito del tempo fanno parte anche altre cose, che cambiano di Paese in Paese. E nel nostro c’è qualcosa che da anni sale, sale come una marea: la benevolenza verso i boss mafiosi, la fine delle punizioni “troppo dure”, una generale domanda di impunità. Si avvertono i vagiti di un’era nuova, ne cogli i segni con lo stesso istinto con cui nella foresta gli animali sentono l’arrivo di un pericolo. I diritti umani. La Corte europea. Le perizie psichiatriche: pensate, li mandano agli arresti domiciliari (fatto vero!) perché soffrono la reclusione in carcere. E le perizie mediche: “potrebbe succedere” (“potrebbe”), come con i moribondi che poi vivono per anni. L’attacco incessante al 41bis. E infine il Covid. Intendiamoci, le organizzazioni mafiose hanno sempre vissuto alla grande sulle emergenze. Volete che non approfittino del Covid, per fare usura di massa, entrare nelle opere pubbliche e, anzitutto, per ottenere grazie e indulgenze plenarie? La pioggia di richieste di generosità che arriva dai loro avvocati è il segno che anche i boss, che fessi non sono, hanno capito lo spirito del tempo: adesso si può. Adesso che ogni motivazione è buona. Anche quella del rischio contagio. Perfino peri detenuti al 41bis. Come se non ci avessero spiegato per anni che il 41bis è condanna all’isolamento totale, senza contatti umani, neanche con i parenti. E come se la prima ricetta contro il Covid non fosse proprio il “distanziamento sociale”. Cosa c’entra quindi il rischio del contagio? Così, almanaccando su queste “storie italiane” durante la mia giusta reclusione, mi è sovvenuto un bisogno di igiene mentale: che le parole abbiano un’effettiva rispondenza ai fatti. Ho pensato cioè che il bambino che sente “magistrato di sorveglianza” immagina un tipo burbero che con una pila in mano cammina di notte in un carcere per accertarsi che tutto funzioni a dovere, che le condanne inflitte vengano effettivamente eseguite. Poi il bambino cresce, abbandona la pila e inizia a pensare che magari il famoso magistrato di sorveglianza deve anche garantire i diritti dei detenuti. Quindi si fa adulto e gli sembra che questa figura non sia poi così burbera. Ma sia invece estremamente premurosa verso il detenuto, forse ancor più se dotato di prestigio criminale, e che gli conceda a volte con attento studio delle leggi altre con garrula superficialità benefici insensati e quasi amorevoli, fino a potere essere giocosamente ribattezzato, con parole più appropriate, “magistrato di badanza”. Ah, lo spirito del tempo. Per fortuna non riesce a espellere da sé il senso stupendo del 25 aprile, festeggiato collettivamente anche stando a casa, con gioia di tutti. Con film, musiche e piazze virtuali. A conferma che anche agli arresti domiciliaci, si può fare praticamente tutto quel che si vuole. Bello, no? E se, festeggiato il 25 aprile, ci ribellassimo a questa marea impunitaria e facessimo dai nostri arresti domiciliari una nuova, più modesta ma sacrosanta, “resistenza”? Sebastiano Ardita: “Scarcerare i boss significa dimenticare cos’è Cosa Nostra” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2020 “Corriamo il rischio di una bancarotta per l’effettività del sistema penale”. Sebastiano Ardita, membro togato del Csm, commenta così le recenti scarcerazioni, anche di mafiosi del calibro di Pasquale “bin laden” Zagaria, dovute - almeno secondo le motivazioni di alcuni Tribunali di sorveglianza - all’emergenza Covid-19. Dottor Ardita, le scarcerazioni causa coronavirus sono una buona scelta? Per essere una buona scelta, si sarebbe dovuto provare con uno studio, statistico ed epidemiologico, che in carcere ci fosse un rischio maggiore per la vita dei detenuti. Ad oggi questa prova non c’è, ma c’è l’indizio opposto. Sono morte per coronavirus 26.383 persone libere e solo una persona detenuta che, peraltro, ha contratto il virus mentre era in ospedale e non in carcere. E siccome pare che siano usciti finora circa 6.000 detenuti, senza la prova della necessità di queste scarcerazioni, sono andate in fumo fatica, costi e credibilità della giustizia. A essere scarcerati sono anche i mafiosi. Ma non erano esclusi? I mafiosi erano esclusi - almeno sulla carta - rispetto alla detenzione domiciliare concessa dal “cura Italia”, ma grazie a quella iniziativa hanno beneficiato di un “effetto domino” nei procedimenti per incompatibilità col regime carcerario, che si basano su altri presupposti. Quali? Il nesso di causalità, indimostrato, tra carcere e contagio del virus ha trovato spazio in un provvedimento del governo ed è stato semplice trasferire questo concetto in una circolare del Dap che lo ha fatto proprio lanciando l’allarme sui nessi tra patologie pregresse e infezione (ma senza la prova che il carcere la favorisca). Infine si è ritrovato il tutto nei provvedimenti della magistratura di sorveglianza che ha ripreso per i mafiosi le medesime preoccupazioni espresse dal Governo. E così i mafiosi sono stati scarcerati con provvedimenti che - tra le altre motivazioni - contengono anche il riferimento al pericolo di contrarre in carcere il virus. Il governo e il ministro hanno responsabilità? Ce l’hanno nella misura in cui hanno risposto alle rivolte dei detenuti con una legge svuota-carceri. Ciò ha contribuito a sbilanciare fortemente il rapporto tra prevenzione penitenziaria e diritti individuali fino a far ritenere prevalente un rischio indimostrato per la salute individuale rispetto ad un danno certo per la prevenzione antimafia derivante dalla uscita di boss. Quindi non sono solo scelte dei Giudici di sorveglianza? Sono scelte di bilanciamento tra beni costituzionali - la salute del singolo e il pericolo della mafia - che risentono di un criterio di valutazione che il giudice trae anche dalla coscienza sociale. A ventotto anni dalle stragi, nella nostra società e nelle istituzioni la sensibilità rispetto al fenomeno mafioso è letteralmente crollata. Come rispondere a chi sostiene che avere riserva su queste scarcerazioni sia volere la pena di morte? Delle due l’una: o è stata applicata fino a qualche mese fa e non ce ne siamo accorti o forse prima lo Stato era più attento nel salvaguardare la vita dei cittadini che, anche loro, rischiano di essere condannati a morte. È possibile coniugare umanità ed essere convinti che purtroppo 41bis è necessario? L’umanità dell’esperienza penitenziaria non può essere messa in discussione, ma finché esiste Cosa nostra è necessario il 41bis. Solo che la nuova linea di Cosa nostra, quella della distensione nata dopo le stragi dall’alleanza tra Provenzano e Santapaola, rende invisibili i fenomeni e porta già a casa alcuni risultati. A parte Bonura, a Catania è stato scarcerato il boss Ciccio La Rocca, che è ottantenne, malato e capo di una famiglia mafiosa esattamente come lo è Nitto Santapaola, ma è solo meno famoso. Tragga lei le conclusioni. Giustizia e Covid 19, parla Sisto (Fi): “Il processo telematico è solo una barbarie” di Leonardo Petrocelli Gazzetta del Mezzogiorno, 27 aprile 2020 L’11 maggio scadrà il periodo di sospensione che ha finora sostanzialmente “congelato” la macchina giudiziaria italiana. Da quella data fino al 30 giugno si apre però una parentesi inedita che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, vorrebbe integralmente consegnare all’avvento del processo penale “da remoto” o telematico. A questa eventualità si sono opposti in molti, addetti ai lavori e non, riuscendo a strappare al Governo un accordo che sottragga alla “smaterializzazione” del processo almeno l’ascolto dei testimoni e la discussione. In prima linea nella battaglia, l’avvocato e deputato di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto. Sisto, cosa non la convince del processo da remoto? “Il processo da remoto è una astruseria impensabile, una odiosa speculazione sull’emergenza, costituzionalmente non consentita: ma che il ministro Alfonso Bonafede, che della Costituzione non sa che farsene, autorevolmente supportato da Piercamillo Davigo, ha cercato di far passare con il solito sistema dell’emendamento “nottetempo”, una sorta di borseggio parlamentare. Una scelta inspiegabile con termini tutti sospesi, che non è stata propria di alcun Paese europeo toccato dalla pandemia”. Cosa non va tecnicamente? “Si tratterebbe di un vero e proprio omicidio del processo con la distruzione di alcuni principi cardine stabiliti dall’articolo 111 della Costituzione: contraddittorio, oralità, pubblicità” Questi principi verrebbero meno? “Senza dubbio. La giurisdizione esige il controllo fisico: devo poter guardare in faccia il giudice, lui deve poter osservare me, così come il pm. Il testimone va sempre plasticamente valutato e i documenti esaminati nella loro materialità”. La rimozione del “controllo fisico” cosa comporterebbe? “L’indebolimento del dibattimento che è il luogo dove si forma la prova. Se tanto avvenisse, l’unico risultato sarebbe quello di conferire alle indagini un peso determinante. Proprio nella fase delle indagini c’è un enorme squilibrio fra accusa e difesa. La difesa però torna protagonista nel dibattimento. Se depotenziamo il contraddittorio rendiamo le Procure “maggioranza e maggiorenti” del processo. Sarebbe l’asfissia dei diritti della difesa. D’altronde da Bonafede, il peggior Guardasigilli degli ultimi cinquant’anni, non è arrivato finora alcun beneficio, se non per il giustizialismo, folgorato com’è da una inguaribile passione per le manette”. Non c’è nulla che le piaccia nella svolta telematica? “Le forme virtuali vanno bene per lo scambio e il deposito dei documenti, compresi gli atti di impugnazione, oggi esclusi da tale modalità. Stop. La tecnologia va utilizzata in conformità ai principi e per servirli. La sua irruzione non costituisce sempre un miglioramento, anzi: una riflessione sul trasferimento “trash” della comunicazione politica sui social dovrebbe fare riflettere” Premesso tutto questo, cosa è successo in Parlamento? “Bonafede ha cercato di far passare il processo “a distanza” (dove sarà il Giudice? Ah, saperlo...) con un emendamento al Cura Italia, passato con la fiducia al Senato. Trattandosi di un provvedimento praticamente omnibus - altra aberrazione - dove c’è dentro un po’ di tutto, dalle misure urgenti per l’economia in giù, non è stato possibile farlo riaprire alla Camera” E quindi? “Abbiamo fatto una battaglia durissima cercando anche di stanare il Pd, in evidente imbarazzo. Alla fine la Commissione Giustizia, a cui ho partecipato, si è espressa specificando che escussione dei testimoni e discussione non possono e non devono effettuarsi da remoto”. La presa di posizione è servita? “Con identici due ordini del giorno, uno di Forza Italia e uno del Pd, l’esecutivo ha dato disponibilità a modificare il processo da remoto nel prossimo provvedimento. Cioè nel “dl Aprile”, in arrivo nella prima settimana di maggio” Tutto risolto? “Guardi, abbiamo accolto la notizia con favore, ma la guardia resta altissima. Anche perché nella riformulazione notturna degli ordini del giorno, qualcuno ha cercato di fare il furbo: il riferimento alla discussione era magicamente saltato. Inutile dire che ci siamo sollevati immediatamente, ottenendo l’immediato ripristino della scelta originaria”. Dal 30 giugno in poi si dovrebbe tornare gradualmente alla normalità. O no? “Voglio esser chiaro: pur con tutte le cautele del caso, questa “cosa” deve finire il 30 giugno, nessuno sogni di andare oltre. Qualcuno, senza pudore, ha dichiarato che questa pericolosa trovata, pensata per 45 giorni, dovrebbe pensarsi come stabile soluzione, fedele al principio, tutto nostrano, che non c’è nulla di più definitivo del provvisorio: con buona pace del dott. Davigo, “questo matrimonio non s’ha da fare”. Sono in gioco il diritto di difesa dei cittadini, l’equilibrio dei poteri nello Stato, la stessa tenuta della democrazia”. Regolamento di conti nel Csm, ma sullo sfondo ci sono i movimenti per l’Anm di Paolo Comi Il Riformista, 27 aprile 2020 Una intervista di un consigliere laico diventa l’occasione per regolare i conti all’interno del Csm, ridisegnando equilibri e alleanze in vista della prossima tornata elettorale per il rinnovo dell’Anm, originariamente in calendario il mese scorso e rinviata al prossimo giugno a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. L’occasione per il “redde rationem” togato è stata offerta dalle dichiarazioni di Alessio Lanzi, membro laico in quota Forza Italia, rilasciate alla Stampa questa settimana. Il laico forzista aveva criticato il clima che si era creato in Lombardia, parlando di spettacolarizzazione da parte dei pm milanesi nella gestione delle indagini sulle morti sospette per coronavirus nelle case di riposo lombarde. L’indignazione del professore milanese, oltre che sul fuoco di sbarramento dei media sull’amministrazione di centrodestra della Regione Lombardia, si era concentrata sulle modalità di conduzione delle investigazioni. In particolare, una girandola di perquisizioni show effettuate senza soluzione di continuità dal tandem guardia di finanza/nas carabinieri, su delega dei pm, nelle Rsa lombarde e negli uffici della Regione Lombardia. Perquisizioni e sequestri di montagne di documenti rigorosamente eseguiti alla presenza di giornalisti e a favore degli operatori televisivi, verosimilmente non avvisati dai manager indagati delle Rsa. “Se sì voglio acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità”, le parole “incriminate” di Lanzi. Giuseppe Cascini, togato di Area, il gruppo di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica, aveva chiesto conto delle affermazioni al consigliere milanese. “Il compito del Csm - secondo Cascini - è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente”. Minacciando, quindi, di aprire una pratica a tutela dei pm milanesi se Lanzi non avesse fatto pubblica ammenda. La pratica a tutela è un istituto a cui il Csm ricorre quando sente minacciata l’autonomia e l’indipendenza di qualche Procura. Durante gli anni frizzanti del berlusconismo e dello scontro politica-magistratura erano frequentissimi i casi in cui vi si ricorreva a Palazzo dei Marescialli. “Non c’è stata alcuna delegittimazione della Procura di Milano”, regno incontrastato delle toghe di sinistra, hanno replicato i togati di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, rimasta travolta l’anno scorso dall’indagine sul pm romano Luca Palamara. “Le dichiarazioni di Lanzi risultano espressione di libero esercizio del diritto di critica: volevamo un dibattito ma c’è stato impedito”, si legge in un comunicato diffuso ieri dai tre consiglieri di Mi al Csm. La voglia di riscatto delle toghe di Mi è tanta. Dopo aver vinto le elezioni al Csm nel 2018, il gruppo di cui faceva parte Paolo Borsellino è finito all’opposizione. L’obiettivo per la prossima tornata elettorale è chiaro: catalizzare il voto dei magistrati stufi della contrapposizione politica. Sarà un miraggio? Condizioni di liceità dell’uso terapeutico di sostanze stupefacenti Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2020 Stupefacenti - Medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope - Somministrazione medica - Consentita a scopo terapeutico - Condizione necessaria. La somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell’art. 72, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, in relazione alle particolari condizioni cliniche del soggetto, praticando un trattamento debitamente prescritto ai sensi dell’art. 43 del testo unico e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 15 aprile 2020 n. 12198. Stupefacenti - Prescrizione e somministrazione medica - Per uso terapeutico - Disciplina. In tema di uso terapeutico di sostanze stupefacenti, già consentito dall’art. 72, comma 2, d.P.R. n. 309/1990, le disposizioni previste dalle normative regionali disciplinano le modalità e i presupposti della prescrizione e somministrazione di farmaci a base di sostanze stupefacenti o psicotrope, che può essere fatta direttamente dai medici di base, anche con trattamento domiciliare ponendo i costi a carico del servizio sanitario nazionale, con l’intento specifico di tutelare il diritto alle cure per tutti i pazienti, pur ribadendo che i preparati contenenti sostanze stupefacenti vanno prescritti esclusivamente “quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente”. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 19 luglio 2017 n. 35654. Professioni sanitarie - Illecito penale - Medico responsabile del sert - Cessione di medicinali stupefacenti a soggetti tossicodipendenti non iscritti al servizio - Assenza di prescrizione e piano terapeutico - Contesto - Prestazioni private a titolo oneroso - Artt. 43 e 72 d.p.r. 309/1990 - Violazione - Art. 73, co. 4°, d.p.r. 309/1990 - Cessione illecita di stupefacenti - Sussiste. L’art. 72, d.P.R. 309/1990 consente l’uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti “secondo la necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto” e a condizione che tali preparati siano debitamente prescritti secondo quanto previsto dall’art. 43 (apposito ricettario, dose prescritta, posologia, modo di somministrazione, data e firma del medico); integra, pertanto, il reato di cessione illecita di stupefacenti di cui all’art. 73, co. 4°, la condotta del medico responsabile del SERT che abbia ripetutamente ceduto un farmaco stupefacente a numerosi soggetti tossicodipendenti mai iscritti o solo successivamente iscritti al servizio, senza alcun piano terapeutico e senza prescrizione, consegnando direttamente lo stesso farmaco per un fabbisogno mensile o oltre, senza alcun rispetto delle regole d’affido e nell’ambito di prestazioni “private” a titolo oneroso, in modo tale da configurare un vero e proprio canale di approvvigionamento a buon mercato per i tossicodipendenti medesimi. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 12 aprile 2013 n. 16581. Stupefacenti - Medico - Somministrazione di farmaci contenenti sostanze stupefacenti - Reato - Condizioni - Finalità terapeutica - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie. La somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell’art. 72, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento debitamente prescritto ai sensi dell’art. 43 del testo unico e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti. (Fattispecie relativa alla ripetuta cessione a terzi, da parte del responsabile di un SERT, di un medicinale contenente una sostanza compresa nella tabella II Sez. A di cui all’art. 14, in cui la S.C. ha ritenuto il reato di cessione continuata di stupefacenti sul presupposto che le consegne erano sistematicamente avvenute al di fuori dell’attività istituzionale, in assenza di un piano terapeutico personalizzato e della correlata prescrizione medica). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 12 aprile 2013 n. 16581. Stupefacenti - Detenzione - Medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope - Cessione incontrollata di farmaci da parte di soggetto esercente attività di medico - chirurgo - Ipotesi di reato ex art. 73 del d.P.R. 309/1990 - Configurabilità. In tema di stupefacenti, la cessione incontrollata di farmaci contenenti sostanze stupefacenti, ancorché effettuata da un soggetto esercente attività di medico chirurgo, dà luogo alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 4°, del D.P.R. n. 309/1990 e non di quello, pur equiparato quoad poenam, di cui all’art. 83 del medesimo D.P.R., per il quale è richiesto che vi sia comunque il formale rilascio di prescrizioni, non finalizzate, però, ad un uso che possa definirsi “terapeutico” delle sostanze prescritte. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 12 aprile 2013 n. 16581. Calabria. Coronavirus, il decreto anti-covid non ha “svuotato” le carceri di Caterina Tripodi Quotidiano del Sud, 27 aprile 2020 Negli istituti il numero dei detenuti è aumentato. Il punto del Garante regionale Agostino Siviglia. L’allarme risuona da giorni dalle Alpi all’Etna: un ulteriore terribile effetto collaterale del Covid-19 sarà per la giustizia italiana perché il provvedimento “svuota-carceri”, inserito nel decreto Cura-Italia, sta mandando ai domiciliari perfino i boss. Ma i numeri ufficiali cosa ci dicono realmente ed in Calabria cosa sta succedendo? Si tratta davvero di un “fuori tutti” oppure una rondine, ovvero una manciata di casi eclatanti non fa primavera, e comunque non dipendono dalla recente normativa anti-covid? Ed allora procediamo con ordine. Intanto il decreto legge del 17 marzo scorso prevede la detenzione domiciliare solo nell’ipotesi di una pena detentiva non superiore a 18 mesi, inoltre per coloro che hanno una pena da scontare inferiore ai 18 mesi ma superiore ai sei mesi la concessione è subordinata al braccialetto elettronico; chi invece ha fine pena inferiore a sei mesi può andare alla detenzione domiciliare semplicemente dimostrando di avere la disponibilità di un alloggio. In entrambi i casi la valutazione è, comunque, rimessa alla decisione del magistrato di sorveglianza. Dalla misura sono rigidamente esclusi i delinquenti abituali, seriali, i terroristi, i detenuti sottoposti a un regime di sorveglianza particolare, e, come, ha recentemente anche precisato il Ministro Lamorgese, anche i detenuti sottoposti al 41bis. La titolare degli Interni ha però ulteriormente precisato: “Il 41bis è escluso dalla normativa anti-covid, ma l’ultima parola è del giudice”. I casi eclatanti dei mafiosi finiti comodamente a scontare la pena a casa propria quindi non sono dovuti alla normativa nuova relativa al Coronavirus e licenziata con il Cura-Italia di marzo ma bensì alla normativa che disciplina l’ordinamento penitenziario in base alle norme del codice di procedura penale già esistenti ed agli ultimi pronunciamenti giurisprudenziali nazionale ed internazionali (Edu) che, in casi specifici, indicano incompatibilità di determinati soggetti con il regime carcerario detentivo. In Italia le presenze nelle camere di pernottamento sono al 16 aprile 2020 circa 54.998. Si mantiene stabile il numero di positività al Covid, concentrato soprattutto in alcuni Istituti del Nord Italia. Non si registrano invece casi in dieci regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta) e nella Provincia autonoma di Bolzano. Nella riduzione di circa 6.000 presenze negli Istituti penitenziari, maturata dal 1°marzo, in 2.078 casi si è trattato di uscita in detenzione domiciliare (in 436 casi con applicazione del braccialetto elettronico) e in 425 casi di licenze fino al 30 giugno di persone semilibere (Fonte Garante Nazionale per questi due ultimi dati, ndr). Nonostante il calo, il tasso di affollamento rimane di circa il 120% e non è omogeneo nel territorio nazionale. Ma veniamo alla Calabria ed alle richieste effettive consentite dal Cura-Italia di marzo. “Il numero totale delle richieste di detenzione domiciliare presentate - spiega il Garante regionale dei diritti dei detenuti Agostino Siviglia - è leggermente superiore rispetto a quelle istruite e a quelle inviate senza accertamento perché palesemente inammissibili. La differenza è data da quelle con i domicili ancora in via di accertamento. Per quanto attiene altre misure alternative i dati non sono significativi. Non ci sono state flessioni in eccesso”. “Rispetto alla capienza regolamentare dei nostri istituti di pena prevedono 2734 detenuti, al 31.3.2020, ne sono presenti 2832, quindi, un numero addirittura superiore rispetto a quelli presenti alla data del 29.2.2020, che risultavano essere 2779. Se si considera, inoltre, che sono stati trasferiti 150 detenuti (dislocati fra i 12 istituti penitenziari della Calabria) provenienti dalle carceri in rivolta, si può agevolmente constatare che al detto incremento della popolazione detenuta non corrisponde, al momento, alcun alleggerimento del sovraffollamento carcerario, né per effetto delle recenti previsioni relative alla detenzione domiciliare, né per effetto dello sveltimento delle procedure definitorie delle altre misure alternative alla detenzione né, in ultimo, per effetto della sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, laddove siano state evidenziate comorbilità ad alto rischio in caso di contagio da Covid-19”. Quindi l’effetto avuto dalle ultime disposizione normative anti Covid in Calabria sarebbe esiguo? “Sì l’effetto è estremamente contenuto dovendosi sempre fare riferimento al potere decisionale del magistrato di sorveglianza e quindi al suo libero convincimento sulla pericolosità sociale del detenuto di riferimento, ovvero alla sussistenza di un domicilio idoneo”. Può farci qualche esempio e fornire un dato esemplificativo? “L’esempio paradigmatico è quello di Catanzaro. Qui praticamente il dato è zero su 80 richieste di rilascio per normativa anti-covid nessuno ha lasciato il carcere, a Reggio Calabria su sole 45 richieste ne sono state accolte invece nove. I numeri sono chiari per coronavirus non è uscito quasi nessuno tranne appunto quelle situazioni di comorbilità doppia o dovuta a più patologie che risultavano incompatibili con il regime carcerario e che, per di più, in caso di contagio sarebbero potute risultare letali”. Ma scusi quindi i boss condannati in maniera definitiva che escono per pericolo Covid… “Non escono per le misure anti-coronavirus ma a normativa invariata per il libero convincimento del giudice che sulla base dell’ordinamento penitenziario ovvero del codice finito può concedere misure alternative alla detenzione in fase esecutiva ovvero modificare la misura cautelare allorquando ci siano situazioni di patologia sanitaria incompatibili con il regime carcerario per come più volte chiarito sia dalla suprema corte di Cassazione che dalla corte europea dei diritti dell’uomo”. A fronte delle rivolte nelle carceri, il sistema penitenziario calabrese è sembrato saldo... “Ha retto fino al momento dell’urto del virus. Non si è registrato nessun contagio in nessuno dei 12 istituti penitenziari della Calabria e sono stati garantiti i colloqui via skype e con video chiamate con telefonini forniti dall’amministrazione penitenziaria e anche l’assistenza sanitaria è stata generalmente garantita seppur segnalo ancora una volta il mancato reclutamento dei necessari infermieri presso il carcere di Arghillà nonostante le continue rassicurazioni dell’Asp”. Umbria. Coronavirus, tamponi nelle carceri per 1.300 tra addetti e detenuti Il Messaggero, 27 aprile 2020 “Nell’ambito del Piano predisposto dalla Regione per la gestione delle fragilità indotte da Covid-19 - ha spiegato l’assessore regionale alla Salute, Luca Coletto - la priorità è riuscire ad individuare le persone in condizione di fragilità che, in questo periodo di emergenza, rischia di diventare ancora più grave, ma l’ulteriore sfida è quella di proteggere le comunità dal rischio di infezione evitando che possano trasformarsi in veri e propri focolai come, purtroppo, è già accaduto in altre regioni. A tal fine, sono stati definiti dei percorsi per garantire la salute degli ospiti di queste strutture e di tutti coloro che vi lavorano. In questo contesto, è stata dedicata grande attenzione alle 4 carceri del territorio regionale”. “Proprio ieri - ha reso noto Coletto - sono arrivati gli ultimi risultati di un primo monitoraggio che prevedeva di rilevare per ora la positività al coronavirus solo sui detenuti in mobilità al loro primo ingresso in carcere, mentre si sono privilegiati i controlli sulla polizia penitenziaria e sugli operatori che potrebbero involontariamente portare il virus dentro le strutture. Complessivamente - ha continuato l’assessore - su 2.482 soggetti, di cui 1.451 detenuti e 1.031 tra polizia penitenziaria, operatori e sanitari, sono stati effettuati 1.304 tamponi pari al 52,54 per cento dei soggetti totali: 276 tamponi sono stati fatti ai detenuti (19,02 per cento), altri 1.028 (99,71 per cento) al personale in servizio, gli unici a non essere stati monitorati sono stati i soggetti in ferie o assenti per un lungo periodo”. Dal monitoraggio nella prima fase era risultato positivo un detenuto, trasferito in Umbria e in isolamento già dal momento dell’ingresso nella struttura penitenziaria e che attualmente, dopo la relazione al magistrato, è agli arresti domiciliari nella sua residenza fuori regione. Inoltre, un operatore risultato positivo per contatti esterni e da subito in isolamento, è stato dichiarato guarito dopo l’esito di due tamponi negativi. Roma. Coronavirus, Uil-Pa: “non risultano detenuti positivi a Rebibbia” nuovasocieta.it, 27 aprile 2020 Sono state diffuse notizie di stampa secondo cui un detenuto del carcere romano di Rebibbia sarebbe stato intubato, in quanto affetto da coronavirus, e altri 26 sarebbero risultati positivi. In attesa di dati ufficiali, che mancano da ben 11 giorni, ci sentiamo di poter smentire l’assunto, quantomeno nella sua entità complessiva”. A parlare è Gennarino De Fazio, per la Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale, che spiega: “da più parti ci chiedono informazioni in proposito, ma, per quanto a nostra conoscenza, il detenuto del penitenziario di Rebibbia che è stato trasferito all’ospedale Sandro Pertini il 24 aprile pomeriggio è affetto da altre patologie e, sottoposto a tampone, è risultato negativo al Covid-19. Analogamente, non ci risulta allo stato alcun ristretto dello stesso istituto affetto da coronavirus”. “La situazione nelle carceri - prosegue il leader della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - è assolutamente delicata e riteniamo che sia stata affrontata con grande approssimazione sin dall’inizio della pandemia, come del resto da molti anni la generalità dei problemi che investono l’universo carcerario, ma non crediamo che l’accreditare dati errati giovi ad alcuno, men che meno a chi come noi ha a cuore le sorti e l’efficacia del sistema di esecuzione penale tanto da aver scelto di far parte del Corpo di polizia penitenziaria e di rappresentarne le donne e gli uomini che lo compongono; per questo sentiamo l’esigenza di ristabilire un quadro più realistico della situazione romana”. “Certo, - conclude De Fazio - in questo sono proprio il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con quella che ci pare una vera e propria forma di oscurantismo, a non aiutare e, anzi, a prestare il fianco a fake news e strumentalizzazioni: gli ultimi dati ufficiali del ministero risalgono al 15 aprile scorso e non vengono più aggiornati con frequenza neppure dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. Brindisi. Nuovo caso di positività in carcere: detenuti e agenti in quarantena brindisireport.it, 27 aprile 2020 Positivo al Covid-19 il dipendente di un’azienda che si occupa della distribuzione del vitto. L’Osapp: “Tamponi a tutto il personale”. Quindici persone, fra detenuti e personale, sono in quarantena dal pomeriggio del 24 aprile, dopo l’accertamento di un nuovo caso di positività al Covid-19 nel carcere di Brindisi che riguarda il dipendente di una ditta che distribuisce il vitto. Lo si apprende da una nota del sindacato Osapp a firma del segretario regionale, Ruggiero Damato. I detenuti che hanno avuto contatti, “sia pure non stretti”, chiarisce l’Osapp, con il contagiato sono stati messi in isolamento “in una sezione individuata dalla dirigenza e dal comando di polizia penitenziaria”. Gli agenti che avrebbero avuto dei contatti con l’addetto al vitto, invece, sono in quarantena presso le proprie abitazioni. “Pertanto - afferma Damato - l’ennesimo caso di persona positiva al Covid19 in un penitenziario pugliese avvalora ancor di più la necessità di effettuare tamponi sia al personale di polizia penitenziaria sia al personale civile, di cui ancora oggi non si ha contezza”. Il sindacato rilancia inoltre la proposta di “riconversione dell’ex struttura per minori di Monteroni (Lecce), in struttura Covid-19 destinata a tutti i detenuti affetti dal virus”. “Pertanto - conclude Damato - chiediamo al governatore Michele Emiliano di fare in fretta e rinnoviamo l’ennesima richiesta di una convocazione per un confronto”. Novara. Protocollo d’intesa tra S. Egidio e carcere per un sostegno ai detenuti di Monica Curino sdnovarese.it, 27 aprile 2020 Da diversi anni la Comunità di Sant’Egidio è presente in maniera del tutto gratuita nella casa circondariale di Novara, dove porta avanti visite e frequenti colloqui con i detenuti, soprattutto quelli più poveri, più soli e più lontani dalle loro famiglie. Alcuni esprimono necessità materiali, altri soffrono particolarmente il peso dell’isolamento e desiderano condividere con qualcuno preoccupazioni, pensieri, attese, sogni. Tutti, comunque, hanno bisogno di ritrovare le ragioni della speranza e di guardare con fiducia al futuro. Per questo accolgono con gioia l’aiuto concreto della Comunità diretta da Daniela Sironi (dalle distribuzioni di indumenti a quella di occhiali e libri), le iniziative culturali, le occasioni di incontro e di festa, l’ormai tradizionale pranzo di Natale, che la Comunità allestisce ogni anno nella tensostruttura interna al carcere. Dai primi di marzo, quando, in seguito al diffondersi del contagio del Coronavirus, è stato precluso ai familiari e ai volontari l’accesso in carcere, la Comunità di S. Egidio ha cercato modi alternativi per esprimere vicinanza e sostegno ai detenuti: dalla donazione di piccole somme di denaro per permettere ai detenuti più indigenti di telefonare ai propri cari, alla distribuzione di alcuni generi alimentari, dall’invio di lettere per esprimere vicinanza e conforto a chi sta affrontando un momento così difficile, nell’incertezza e nella paura. Venerdì 10 aprile, anche grazie al prezioso contributo della Fondazione Comunità del Novarese, è stata effettuata una distribuzione di mascherine, buste da lettera, francobolli e prodotti per l’igiene personale a tutti i detenuti delle sezioni ordinarie del carcere. Inoltre, sempre in questo mese di aprile, è stato firmato dalla direttrice del carcere, Rosalia Marino, e da Daniela Sironi, presidente della Comunità di Sant’Egidio Piemonte Onlus, un protocollo d’intesa. L’accordo, di durata triennale, non fa che consolidare quella stretta collaborazione che già si è avviata in questi anni fra le due realtà. Il protocollo consentirà ai volontari della Comunità di Sant’Egidio di “effettuare colloqui personali e attività di sostegno materiale e spirituale ai detenuti, realizzare iniziative culturali e inter-religiose, laboratori di pace sui temi della convivenza e dell’integrazione, attività artistiche, manuali e musicali, in una prospettiva di reinserimento”. Inoltre, dopo attenta valutazione, potrà essere offerta ad alcuni detenuti l’opportunità di svolgere attività di volontariato e servizi di pubblica utilità presso strutture di assistenza e aiuto in città. Verrà favorito l’accesso in carcere a mediatori interculturali, che “a titolo gratuito - si legge nel protocollo - aiutino i detenuti a mantenere legami significativi con le comunità di appartenenza e a vivere la libertà religiosa”. L’accordo fa seguito ad analoghe convenzioni stipulate dalla Comunità di Sant’Egidio in altre regioni e città italiane. La stretta sinergia fra gli istituti carcerari e Sant’Egidio punta ad abbattere quel muro di separazione che ancora troppo spesso separa il carcere dal mondo esterno e intende “richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica - spiegano da S. Egidio - sul valore riabilitativo e rieducativo della pena, così chiaramente espresso nella nostra Costituzione. Non solo: occorre far crescere intorno a noi, nelle nostre città, una nuova sensibilità, più solidale e aperta alle necessità dei poveri, anche di quelli “invisibili”, relegati nelle carceri”. Foggia. “Mio figlio detenuto nel carcere delle rivolte” di Annalisa Graziano* vita.it, 27 aprile 2020 “Nemmeno per un istante ho provato la tentazione di abbandonare mio figlio di fronte alla sua condanna”. Le parole della mamma di un detenuto hanno commentato la IV stazione (“Gesù incontra la Madre”) dell’ultima via crucis in una piazza San Pietro deserta. Un racconto intimo e personale, ma allo stesso tempo condiviso da molte famiglie, da molte donne. Sono tante le madri che hanno conosciuto lo stesso dolore e lo hanno scavato, trovando la forza di non piegarsi di fronte a una sofferenza così grande. Elena è una di loro. È la madre di un uomo detenuto nel carcere di Foggia, ormai da oltre dieci anni. Punto di riferimento di una famiglia ferita e di un figlio mai perduto porta, da quel giorno di molti anni fa, “un macigno”, con coraggio e dignità. Elena, l’emergenza sanitaria preoccupa particolarmente nelle carceri. Nel giorno della notizia del lockdown in molti Istituti sono scoppiate rivolte. A Foggia, un gruppo di detenuti ha distrutto alcune aree del Penitenziario, c’è stata un’evasione. Come ha vissuto quei momenti? Con molta ansia. Avevo parlato al telefono con mio figlio proprio il 9 marzo, era tranquillo. Anzi, mi aveva detto che sperava che l’emergenza sanitaria potesse rientrare presto, per poter venire a casa in permesso. Invece, poco dopo, è scoppiata la protesta. Lo abbiamo appreso dai telegiornali, dai siti di informazione. Ho provato grande dolore nel vedere quelle immagini. Non ho pensato per un attimo che mio figlio potesse aver preso parte alla rivolta, lo conosco bene. Ero preoccupata per tutta la situazione e per il futuro di quei ragazzi che vedevo scappare. Cosa pensavano di fare? La violenza, la fuga non possono mai rappresentare la soluzione. Mi angosciava quella loro scelta. Quando è riuscita a parlare con suo figlio? Dopo alcuni giorni. Ho provato più volte a chiamare in Istituto, appresa la notizia della rivolta, ma non rispondeva nessuno. Stavano gestendo un’emergenza, ho compreso la situazione e quindi non ho insistito. Ci ho riprovato due giorni dopo e mi ha risposto un agente molto gentile. Mi ha rassicurata e mi ha detto che avrei potuto parlare con mio figlio appena ripristinata la normalità. Così è stato. Era molto provato, ma stava bene. Anche lui non ha condiviso la scelta violenta. È difficile vivere il carcere con una pandemia in corso, ma non era quello il modo di rivendicare i propri diritti. Questo mi ha detto mio figlio. Dagli inizi di marzo sono stati sospesi i colloqui, i permessi ed altri benefici, proprio per prevenire i contagi. Come avete riorganizzato i contatti a distanza? L’Istituto consente più telefonate a settimana. Abbiamo iniziato con due, poi diventate tre. Inoltre, da qualche tempo ci è concesso un quarto contatto con videochiamata. Che sollievo poterlo vedere, almeno in video. Sa, noi non abbiamo mai preteso nulla. Abbiamo imparato ad accontentarci e, in un momento così difficile, sentirlo quattro volte a settimana va bene. L’importante per noi è che stia bene, fisicamente e psicologicamente. La preoccupazione c’è sempre, ma lui è un combattente. Anche noi non ci siamo mai arresi e abbiamo sempre affrontato il mondo esterno, il suo giudizio. La comunità spesso non si dimostra pronta a riaccogliere le persone che hanno avuto problemi con la legge. I pregiudizi sono lame affilate anche per le famiglie… Sì, è vero. Ma noi abbiamo creato una sorta di strato di protezione, fin dall’inizio. Lo abbiamo fatto per una forma di rispetto nei confronti del dolore di mio figlio, della vittima e dei suoi familiari. Sono eventi che non dovrebbero mai accadere, ma purtroppo fanno parte della storia dell’umanità. Non è una forma di giustificazione, il male non è mai giustificabile. La colpa si può espiare, ma non si può cancellare con un colpo di spugna. Dal giorno dell’arresto come è cambiata la vostra vita? All’inizio non è stato facile affrontare il dolore. Quando viene arrestato un tuo caro è come se ti scoppiasse una bomba in casa. Ti sembra di non riuscire a sopportare tanto dolore, non hai la lucidità per capire cosa sta accadendo. È come se qualcuno ti prelevasse da una barca e ti buttasse in mare. Hai solo due possibilità: andare giù oppure iniziare a muoverti, per cercare di arrivare alla riva. Io ho scelto la seconda opzione. Cosa si fa una volta giunti alla “riva”? Si cerca di capire, senza colpevolizzazioni. Ci siamo posti tante domande, come genitori. È un nostro figlio, noi abbiamo fatto e facciamo parte della sua vita in maniera piena. Ci si chiede se e in cosa si è sbagliato. Cosa non andava, perché non si è confidato con noi? Siete riusciti a trovare risposta alle vostre domande, a distanza di tanti anni? Non per tutte, alcune sono rimaste senza risposta. Abbiamo capito però che il bene primario è la vita di nostro figlio, che dobbiamo preservare il benessere della famiglia. Mi sono detta: è successa questa cosa, grave, ma dobbiamo andare avanti. Abbiamo pianto tanto, non glielo nego, a volte mi capita di piangere ancora; alcuni giorni sono ancora no, ma va meglio. Prima sentivo il peso di un macigno; oggi che può accedere ai benefici, qualche sassolino da quel masso sono riuscita a toglierlo. Non bisogna arrendersi, anche se c’è sofferenza, ma neanche fare finta di nulla. Quale messaggio si sente di consegnare alle madri che si trovano nella sua situazione di dieci anni fa? Vorrei dire loro di non abbandonare i figli, di essere presenti, di saper ascoltare. Ciò non significa giustificare le azioni sbagliate: bisogna sempre guardare alla realtà, non averne paura e ragionarci su, per essere migliori. Bisogna capire dove si è creato quell’intoppo. Solo l’amore di una mamma, di un genitore può sostenere anche quando è tutto buio; è un amore che non giudica. Un amore che però va meritato, che richiede un cambiamento necessario per il bene di chi ha sbagliato e, di conseguenza, della famiglia. Chi non ha vissuto un dolore di questo tipo giudica, ma non può sapere cosa si prova. Io le dita contro le ho sentite, seppur puntate alle spalle. Ho sempre tollerato e ho sempre desiderato il bene per tutti. Mai, nemmeno una volta, ho augurato a qualcuno di vivere ciò che ho dovuto affrontare io. Dove ha trovato la forza? In mio figlio, proprio in lui. Ha sbagliato, poteva vivere diversamente gli anni della sua giovinezza. In quelli trascorsi in carcere ha molto riflettuto, lo abbiamo fatto tutti. E io ho avuto una conferma: è il figlio che conoscevo. Non è lui che sta cambiando, sta modificando il modo di percepirsi. Prima si nascondeva agli altri, a sé stesso. Non tutti i genitori scelgono di stare vicino a un figlio che ha sbagliato, che ha commesso un reato, che ha ucciso... I genitori sono sempre un esempio. Non mi reputo migliore degli altri, assolutamente no. Ma credo che il nostro ruolo debba essere quello di amare, donarsi. Nei confronti dei figli, tutti, bisogna essere educatori, ma senza imposizioni. Il bene di un genitore può essere più forte del male. Non bisogna avere il timore di guardarli e guardarsi negli occhi. Non si possono abbandonare (si commuove), questo non si può fare. Lei ha altre figlie, non deve essere stato semplice per e con loro… Non lo è stato, infatti. I primi tempi sono stata sempre accanto alle mie figlie, soprattutto alla più piccola. Vivevo con la morte nel cuore, ma c’ero. Le ripetevo che non dovevamo piangerci addosso, che loro fratello, nostro figlio era vivo, sarebbe tornato. I miei momenti di sconforto erano e sono solo miei. Siamo molto uniti, ci adoriamo, ma certe cose vanno affrontate da soli. Suo figlio ha iniziato ad accedere ad alcuni benefici, prima dello stop a causa dell’emergenza sanitaria. Come pensa sarà questa nuova fase della sua vita? Sta iniziando a conoscere un mondo diverso da quello che ha lasciato, quando è entrato in carcere. Allora era poco più che un ragazzino. Deve iniziare a viverlo da persona adulta, molto più consapevole di prima. Deve imparare che la vita è questa, ci sono variabili, si vivono scossoni. Dovrà capire come gestire anche l’imprevedibilità. È sempre lui l’artefice del suo destino: ha sbagliato, ha pagato e sta pagando. Non si cancella ciò che è successo, ma non lo si può condannare per sempre. È importante che anche lui possa accettare ciò che è accaduto, perdonarsi, al di là della condanna. In questo percorso di riflessione e crescita la detenzione che ruolo svolge, è utile? Non lo è se isola. Chi sbaglia deve pagare, ma nel modo giusto. L’isolamento non può essere un obiettivo, annulla la persona. L’ergastolo è una condanna terribile, noi lo sappiamo. Poi, nel nostro caso, la situazione è cambiata, ma in quel momento solo la fede è riuscita ad aiutarmi. Mi ha dato la forza credere in qualcosa di superiore. La preghiera, la famiglia e il lavoro mi hanno fatto sopravvivere a quella sentenza. Una detenzione senza riflessione, opportunità, che non consente di mettersi alla prova e riscattarsi, non può servire. C’è un tema molto delicato, che ho spesso affrontato nelle mie interviste in carcere: la vittima e il perdono. È possibile secondo lei? Ci ho riflettuto tanto, lo faccio ancora (fa una lunga pausa). Ma io sono dall’altra parte… Le vittime e i loro cari meritano il massimo rispetto. Serve tempo, molto tempo per curare le ferite. E forse, in alcuni casi, pensare di poter chiedere perdono è troppo… Ho conosciuto Elena alcuni anni fa, in carcere, durante un’attività trattamentale aperta ai familiari. Era, è una donna molto riservata, come tutta la sua famiglia. Solo per questo motivo, abbiamo deciso insieme di utilizzare un nome di fantasia. Tutto il resto è racconto di vita vera: la sua, la loro. *Giornalista, operatrice del Csv Foggia, è volontaria negli Istituti Penitenziari di Foggia e Lucera e dell’Ulepe di Foggia. Con edizioni La Meridiana ha pubblicato “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” e “Solo Mia. Storie vere di donne” Porto Azzurro (Li). Al carcere inizia la didattica a distanza dei docenti del “Foresi” tenews.it, 27 aprile 2020 Da oggi inizia la didattica a distanza per gli studenti ospiti della Casa di reclusione di Porto Azzurro. “Riusciamo a far partire - spiega il preside del Foresi Enzo Giorgio Fazio - la didattica a distanza anche con la sezione carceraria del liceo scientifico. Un risultato reso possibile da diversi soggetti che ringrazio per il positivo contributo e la collaborazione: il direttore dott. Francesco D’Anselmo, la Polizia penitenziaria e l’Area pedagogica”. Viene utilizzata la medesima piattaforma impiegata per tutti gli altri alunni. In questo caso, però, è necessaria la mediazione degli educatori, non potendo i detenuti utilizzare la connessione internet. “Tutti - aggiunge il preside Fazio - riceveranno i materiali predisposti dai docenti. Per la Quinta classe, impegnata nell’Esame di Stato, attiviamo le videolezioni sincrone, in modo da consentire anche l’immediata interazione”. Per il Foresi si tratta di affermare alcuni principi. Primo fra tutti l’inclusione, perché la scuola non deve lasciare nessuno indietro. E, infatti, appena scattata la sospensione delle attività didattiche per l’emergenza sanitaria, i docenti, d’intesa con il dirigente scolastico e l’istituto penitenziario, avevano subito attivato un canale di invio di materiali da far pervenire agli studenti, utilizzando la posta elettronica. Ora, un passo avanti che riconosce fattivamente la pari dignità degli studenti, garantendo il diritto allo studio. Comunicato dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “R. Foresi” Portoferraio Turchia. Erdo?an svuota le carceri per il Covid-19, ma lascia dentro oppositori e giornalisti di Filippo Cicciù linkiesta.it, 27 aprile 2020 Con una contestata riforma giudiziaria, il Parlamento turco metterà in libertà circa 90mila detenuti, ma non gli intellettuali e i politici critici col governo, incarcerati con l’accusa di vicinanza a organizzazioni terroristiche. Una controversa riforma, votata d’emergenza per svuotare le carceri sovraffollate: è questo, in Turchia, uno degli effetti della crisi provocata dalla pandemia di coronavirus. Poco dopo la morte per Covid di 3 detenuti su un totale di 17 contagiati - registrata lo scorso 13 aprile - il parlamento di Ankara ha approvato un nuovo regolamento sull’esecuzione penale, proposto dal partito di governo AKP del presidente Erdo?an, che permette a circa 90mila carcerati di uscire di prigione prima dei termini di condanna. Di questa riduzione possono beneficiare i detenuti che abbiano già scontato almeno metà della pena, mentre chi verrà condannato per reati commessi entro il 30 marzo non finirà in carcere, ma sarà costretto alla libertà vigilata. Non tutti i carcerati possono però avvalersi degli sconti di pena: la riforma esclude infatti i prigionieri in attesa di giudizio e quelli condannati per reati relativi a traffico di droga, omicidi premeditati, abusi sessuali e violenza su donne e bambini. Resta in carcere anche chi è stato condannato per reati relativi al terrorismo, ed è su questo punto che le critiche dei partiti di opposizione e delle associazioni per i diritti umani si sono concentrate. Se il provvedimento allevia indubbiamente il dramma del sovraffollamento nelle carceri in Turchia - dove prima della legge erano recluse quasi 300mila persone in strutture con una capienza nettamente inferiore - la riforma ha ricevuto numerose critiche ed è stata approvata, il 14 aprile, dopo una dura battaglia parlamentare. Le formazioni politiche contrarie, come anche molte associazioni di avvocati, contestano il fatto che l’ampia definizione di “reati per terrorismo” costringerà a restare in prigione anche molti giornalisti, intellettuali e politici critici del governo che negli ultimi quattro anni sono stati incarcerati con l’accusa di vicinanza ad organizzazioni terroristiche. Si tratta di qualche centinaio di persone, tra cui spiccano nomi noti anche a livello internazionale come quello dello scrittore e giornalista Ahmet Altan, dell’uomo d’affari impegnato politicamente a favore delle minoranze Osman Kavala e dell’ex co-presidente del partito filo curdo HDP - il “Partito Democratico dei Popoli”, la terza forza politica più rappresentata nel Parlamento turco - Selahattin Demirta?. Secondo i critici, queste persone sono in realtà in prigione a causa di opinioni politiche critiche nei confronti di Erdo?an e non per i reati di terrorismo per cui sono stati condannati. Sarà questa una delle motivazioni che il socialdemocratico Partito Repubblicano del Popolo (CHP), principale partito di opposizione, porterà nei prossimi giorni davanti alla Corte Costituzionale nel presentare ricorso contro la riforma. La controversa scarcerazione di Alaattin ?ak?c?. Il provvedimento ha lasciato dunque in carcere molti dissidenti, tra cui 101 giornalisti, ma ha riportato in libertà personalità di spicco di diverso orientamento politico come Alaattin ?ak?c?, nome legato alla criminalità organizzata, già condannato per numerosi omicidi, protagonista di rocambolesche fughe di prigione e autore di azioni criminali che ricordano i film polizieschi italiani anni 70, tanto amati da Quentin Tarantino. La sua vita non è però una pellicola cinematografica e ha drammaticamente scolpito gran parte della politica turca degli ultimi quarant’anni. ?ak?c? è noto non solo per essere una figura di peso nel crimine organizzato: a partire dal 1987 è stato utilizzato dai servizi segreti turchi per guidare operazioni in incognito contro gruppi armati di sinistra o filo-curdi e il suo nome è fortemente legato all’estrema destra in cui ha militato fin dalla gioventù. Per questo non stupisce che nel 2018 sia stato visitato in carcere da Devlet Bahçeli, il leader del Partito del Movimento Nazionalista di Turchia (MHP), principale alleato in Parlamento del partito del Presidente Erdo?an AKP. All’epoca Bahçeli si espresse fortemente a favore del rilascio di ?ak?c?, citando le sue deboli condizioni di salute, ma anche affermando che “la sua lotta per la patria è riconosciuta dallo Stato”. Il rilascio di personalità come quella di Alaattin ?ak?c? mostra come la riforma sull’esecuzione penale sia motivata dall’emergenza coronavirus, ma celi anche trame politiche che riguardano gli equilibri del potere in Turchia. La visita che ?ak?c? ricevette in carcere da parte di Bahçeli nel 2018 arrivò infatti a pochi mesi dalla formazione della Cumhur ?ttifak?, un’alleanza a scopi elettorali tra il partito di estrema destra nazionalista MHP di Bahçeli e l’AKP di Erdo?an. Il rilascio del leader della criminalità organizzata era evidentemente una delle richieste che l’estrema destra faceva ad Erdo?an in cambio di un sostegno che c’è stato e si è anche rivelato vincente dal punto di vista elettorale. La scarcerazione di Alaattin ?ak?c?, e di altri detenuti vicini all’estrema destra del MHP, arriva però soltanto ora, a quasi due anni da quella visita in carcere e dopo essere stata rimandata più volte perché non particolarmente gradita all’elettorato islamista del presidente turco. Matrimonio a destra per Erdo?an. L’AKP di Erdo?an non è un partito di estrema destra ma una formazione ispirata all’islam politico che per anni ha raccolto ampi consensi anche da parte dell’elettorato liberale e da molti curdi di orientamento conservatore. Un partito politico che per più di un decennio si è opposto al nazionalismo, tipico di formazioni dell’estrema destra come il Mhp. Oggi, a quasi 20 anni dalla sua fondazione e dal suo primo successo elettorale, la situazione è radicalmente cambiata. Molti dei fondatori hanno lasciato per divergenze con Erdo?an. Tra questi, vi sono nomi altisonanti come Abdüllah Gül, ex presidente della Repubblica nominato dall’AKP nel 2007, Ahmet Davuto?lu, lo stratega della politica estera di Erdo?an, che ha formato nel 2019 un nuovo partito politico islamista (Gelecek Partisi, il Partito del Futuro) e Ali Babacan, ex vice primo ministro con delega all’economia negli anni d’oro della crescita economica in Turchia, anch’egli fondatore di un nuovo partito in opposizione a Erdo?an, il Deva Partisi (Partito della Soluzione) di orientamento liberale. La forte influenza del partito nazionalista MHP sulla riforma dell’esecuzione penale appena approvata dimostra come il presidente turco abbia oggi un forte bisogno dell’estrema destra per riuscire a governare. Quella tra AKP e MHP è un’alleanza che ha certamente aiutato Erdo?an a vincere nelle consultazioni politiche e presidenziali del 2018. Nello stesso tempo, ha anche contribuito a frantumare il consenso verso il presidente turco da parte dell’elettorato islamista e conservatore, portando alla fuoriuscita di molti membri fondatori dell’AKP e anche probabilmente anche alla sconfitta nelle elezioni municipali del 2019 per i candidati sindaci del partito di Erdo?an ad Ankara e Istanbul. Iran. Difensora dei diritti umani resta in carcere in condizioni di salute critiche di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 aprile 2020 Narges Mohammadi, coraggiosa difensora dei diritti umani in Iran, è in condizioni di salute critiche: ha un coagulo di sangue nei polmoni e, dopo ripetuti periodi di prigionia, ha sviluppato disturbi neurologici che le provocano convulsioni e paralisi parziali temporanee. Nel 2016 è stata condannata a 16 anni di carcere per aver diretto una campagna per l’abolizione della pena di morte e aver denunciato un’ondata di attacchi con l’acido contro le donne. Per ridurre il rischio di contagi da Covid-19 nei centri di detenzione del paese, le autorità iraniane hanno rilasciato decine di migliaia di detenuti tra cui anche alcuni difensori dei diritti umani e prigionieri di coscienza. Narges Mohammadi ha bisogno di uscire dal carcere al più presto. Amnesty International ha lanciato un appello in suo favore.