Carcere, ma ci sarà una Fase 2? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2020 Ma quale potrebbe essere la Fase 2 in carcere? Quando riapriranno le sale colloqui? Quando rientrerà il Volontariato? Quando finirà quel “distanziamento sociale” che nelle galere si è esercitato solo nei confronti della società esterna, scuola e volontari, che sono stati subito messi fuori, mentre tra detenuti continua la più rischiosa vicinanza? Sono domande che il Volontariato non si limita a porre astrattamente, ma a cui vorrebbe collaborare a trovare delle risposte. Le tecnologie sono “entrate” per il virus, ora non devono più uscire La cosa più drammatica che potrebbe succedere nella Fase 2 è che le tecnologie, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di diffondersi e inquinare le condizioni di vita già difficili, ne escano appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria. Abbiamo visto detenuti piangere dopo aver parlato in videochiamata con un genitore che non vedevano da anni, non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero possa finire. Zoom, Meet, Skype, quando le Videoconferenze sono cibo per la mente Le attività scolastiche in videoconferenza sono state autorizzate anche nelle carceri, ma funzionano ancora poco. Eppure, sono attività che potrebbero aprire grandi possibilità, soprattutto per ampliare gli spazi dello studio e dei percorsi rieducativi. In tanti oggi mettono le mani avanti dicendo che c’è il rischio che le tecnologie si sostituiscano alla presenza viva della società civile, il cui ruolo è fondamentale nelle carceri. Noi pensiamo che invece le videoconferenze possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci come quella di Fiammetta Borsellino, della figlia di un detenuto dell’Alta Sicurezza e di altri detenuti, che dialogano con gli studenti, è una opportunità che non deve riguardare solo l’area penale esterna, ma deve coinvolgere stabilmente anche il carcere e le persone detenute e non rimanere legata solo all’emergenza: si tratta infatti di una autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro la responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione. Ma dà anche degli strumenti fondamentali alle persone detenute, che non possono restare dei “senzatetto digitali”, se non vogliamo che il reinserimento diventi ogni giorno più difficile in una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita. Quando il deserto rischia di essere sia “dentro” che “fuori” Ecco, il reinserimento. Se già era complicato prima avere una offerta di lavoro per accedere a una misura alternativa, dopo, nella fase 2, diventerà una guerra tra poveri dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E “dentro” le persone si vedranno intrappolate, senza futuro, spaventate. E anche per le famiglie, sarà più difficile sostenere i propri cari detenuti. Ci vorrà allora il doppio di attenzione, anche rispetto al rischio di patologie come la depressione, da parte delle Istituzioni, ma anche di quel Volontariato che accoglie e sostiene i percorsi di reinserimento, e delle cooperative che sono più attrezzate per offrire opportunità lavorative a soggetti svantaggiati. Basta la salute? Il coronavirus ha distrutto le nostre illusioni di vivere in un mondo in cui non ci siano malattie che non si possano sconfiggere. Ma in un momento in cui ci sentiamo tutti più fragili, il carcere è diventato uno dei luoghi più a rischio in assoluto. In questo quadro già desolante di per sé, si inserisce una polemica per detenzioni domiciliari concesse a detenuti in 41-bis. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? una magistrata rispetta la legge e manda quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dà, non per l’emergenza coronavirus, ma perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. E cosa vede invece il magistrato antimafia Di Matteo in questa scarcerazione di un uomo con patologie così gravi, che difficilmente potrebbe uscire indenne da un contagio da coronavirus? “Boss scarcerati? Segnale tremendo, lo Stato sembra cedere al ricatto delle rivolte orchestrate dalle mafie”. Ricordiamo che le rivolte “orchestrate dalle mafie” hanno comunque fatto emergere tanta disperazione, rabbia e morte, ma nessun vero disegno eversivo; e poi non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Dove c’è stata qualche scarcerazione, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi. Gentili Garanti, noi vogliamo esserci Il Garante Nazionale, nel suo bollettino quotidiano, ci comunica che il 22 aprile si è svolta la riunione online tra il Garante nazionale e i Garanti regionali, che “hanno avviato una prima riflessione sulle prospettive della fase 2”. Ai Garanti allora diciamo che il Volontariato e le cooperative sociali chiedono di essere coinvolti in questo confronto sulla fase 2, e di esserlo da subito, perché è adesso che c’è bisogno di tornare a essere presenti capillarmente nelle carceri, ed esserlo portando le nostre idee, le nostre risorse, la nostra capacità innovativa, la nostra competenza anche nell’informare e sensibilizzare le persone “dentro” e la società “fuori”. GENTILI GARANTI, potete chiamarci a far parte di questa specie di Unità di crisi, che deve fare in modo che la fase 2 ci sia anche per le carceri? *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e Direttrice di Ristretti Orizzonti Il Covid-19 nelle carceri italiane: a Torino 60 casi, 100 a Opera, Rebibbia isolata di Stefano Vladovich Il Giornale, 26 aprile 2020 “Impossibile fermare i contagi”. Sessanta positivi fra i detenuti solo alle Vallette, a Torino, 14 contagiati anche fra le guardie penitenziarie. Venerdì a Roma il secondo caso in pochi giorni. Giuseppe Q., 47 anni, dal braccio G11 di Rebibbia viene trasferito d’urgenza al Sandro Pertini, uno degli ospedali attrezzati Covid 19 della capitale. Qui viene intubato. Ma le sue condizioni sono gravi tanto che viene deciso il trasferimento al policlinico Umberto I e ricoverato in coma indotto nel reparto di terapia intensiva. Era accaduto già a una detenuta, Susanna L., 34 anni. Adesso l’intera ala al primo e secondo piano è in isolamento totale dal resto della struttura che conta già 26 positivi. I primi a lanciare l’allarme sono gli agenti di custodia che, attraverso vari sindacati fra cui l’Osapp, diffondono dati da far accapponare la pelle. Nel carcere di Verona sono 20 i positivi fra agenti e personale sanitario, una guardia in rianimazione e 50 detenuti in terapia farmacologica. Tutto il resto del carcere in isolamento. Sembra un paradosso ma i detenuti venuti in contatto con gli oltre 70 positivi adesso sono in “quarantena” nelle loro celle. Stop alle attività comuni, ai colloqui con i familiari a ogni altro movimento fuori dai bracci. I numeri, parziali e per difetto, sono inquietanti: 85 positivi nel penitenziario di Voghera, uno morto il 10 aprile, il boss calabrese Antonio Ribecco. Ventisette Covid-19 in quello di Piacenza, 14 a Tolmezzo, Udine (dato aggiornato all’11 aprile), 8 al “Morandi” di Saluzzo, Cuneo, oltre ai 13 casi registrati in paese. A Firenze un caso positivo e 18 in isolamento. Peccato che i dati diffusi siano bloccati al primo aprile. Un detenuto deceduto anche alla Dozza, Bologna. Nel carcere milanese di Opera almeno 100 i detenuti contagiati dal Covid-19, una guardia morta ma anche in questo caso i dati sono aggiornati al 5 aprile. Altri numeri: 8 positivi a Brescia, una guardia e un medico deceduti, 15 isolati a Brindisi, due a Secondigliano (dato congelato al 30 marzo). Anche a Santa Maria Capua Vetere il medico del carcere di Verziano, positivo, è morto per il Covid-19. Aveva 61 anni. Al Pagliarelli di Palermo sono 11 i contagiati. Sarà un caso, eppure nel nuovo concorso per operatori socio sanitari da ben 1.500 posti, bando pubblicato il 20 aprile sul sito della Protezione Civile Nazionale, mille sono destinati alle carceri italiane, secondo indicazioni del ministero della Giustizia, e solo 500 agli anziani degenti nelle Rsa. Del resto la popolazione carceraria italiana conta più di 62mila soggetti. E su 36mila agenti almeno 190 sono positivi e 400 isolati. Rapporti che rendono l’idea. Secondo le associazioni dei detenuti, nelle carceri italiane sono violati i principi della costituzione, ovvero il diritto alla salute uguale per tutti. “Gli agenti di polizia penitenziaria - spiega Claudio Cipollini di Detenuti Liberi - e il personale medico rappresentano un rischio sia per i reclusi stessi che per gli altri”. Spesso gli agenti che vivono a ridosso del penitenziario, entrando e uscendo senza le dovute precauzioni (e soprattutto protezioni), possono diffondere velocemente il virus. A Roma in un “pizzino” scritto su una mascherina di carta i detenuti denunciano: “Questa ci date secondo voi del governo è così che pensate di tutelare la nostra salute? Da Rebibbia”. Insomma, ad aggravare il problema del sovraffollamento (oltre il 130 per cento della capienza limite), ci sono gli spazi in cella dove sei, otto “ospiti” hanno appena due metri quadrati a testa. “Difficile se non impossibile bloccare la pandemia in queste condizioni” spiegano. Il piano per affrontare l’emergenza più grave dopo le Rsa? “Fornitura straordinaria di Dpi, protezioni individuali - spiegano all’Associazione Antigone - a tutto il personale penitenziario. Sanificazione degli ambienti carcerari a cominciare dagli spazi comuni, a quelli adibiti a caserme e uffici del personale, officine e magazzini. Piano straordinario di assunzioni di personale penitenziario”. Coronavirus, Bonafede: “Coinvolgere l’Antimafia sulle scarcerazioni” di Liana Milella La Repubblica, 26 aprile 2020 “Gravi bugie sui boss scarcerati” ma Cutolo ha già chiesto di uscire. Il Guardasigilli annuncia un decreto d’intesa col presidente dell’Antimafia Morra che obbliga a sentire la procura nazionale Antimafia e le singole procure prima di liberare mafiosi e camorristi. Questa volta c’è di mezzo Raffaele Cutolo. E basta il nome per capire la portata della scelta e delle eventuali conseguenze. Già, perché è attesa, per lunedì, un’altra decisione della magistratura sulle scarcerazioni dei boss. Questa volta tocca a un pezzo da novanta come “don Rafè” che ha presentato, tramite la moglie e il suo avvocato, un’istanza di scarcerazione dopo 45 anni di detenzione per via del grave malanno che ha addosso. Per la seconda volta in tre giorni la reazione del Guardasigilli Alfonso Bonafede è furibonda. Con un post sulla sua pagina Facebook parla di “bugie gravissime” - e cioè che le scarcerazioni sarebbero frutto di una circolare del ministero - e soprattutto di un governo fermo non solo nel ricostruire le motivazioni delle scarcerazioni stesse, con l’invio degli ispettori, ma anche nel confermare una linea politica anti-boss. Partiamo da un dato, gli scarcerati, finora cinque, nell’ordine Francesco Bonura, Pino Sansone, Vincenzino Iannazzo, Pasquale Zagaria, Domenico Perre. Un diniego invece per Benedetto “Nitto” Santapaola. Via libera concessi dai magistrati di sorveglianza. Immediate polemiche della destra, durissimi gli attacchi di Lega e Fratelli d’Italia, e pure di Forza Italia, che pure si è battuta in passato per i domiciliari per motivi di salute a Marcello Dell’Utri. Tant’è. La destra accusa Bonafede per via di una circolare del Dap del 21 marzo diretta ai provveditori e ai direttori dei singoli istituti che, per via dell’emergenza, a loro volta devono segnalare ai magistrati i casi di malattie e anche i detenuti che superano i 70 anni. Nessun cenno a conseguenti obblighi di scarcerazioni. Ma tant’è, evidentemente la circolare ha messo in moto anche le richieste di detenuti anziani o ammalati che vi hanno colto la possibilità di lasciare le prigioni. Le richieste piovono, scattano via via alcune scarcerazioni, peraltro difese dagli stessi giudici come inevitabili proprio per lo stato di salute dei detenuti. Ma Bonafede non ci sta. Non si tiene l’indiretta accusa che l’origine delle scarcerazioni possa essere ricondotta al ministero. Interviene una prima volta tre giorni fa, mercoledì 22, parla di “cinismo che diventa puro e inaccettabile sciacallaggio”, di affermazioni “false, pericolose e irresponsabili” quando si attribuisce la responsabilità delle scarcerazioni ai decreti legge più recenti. Annuncia già l’intervento degli ispettori di via Arenula, ma definisce “importantissimo” il lavoro che in queste settimane di grande tensione nelle patrie galere, dopo le rivolte di febbraio, stanno facendo i magistrati di sorveglianza, ai quali si devono circa 6mila interventi su detenuti messi ai domiciliari proprio per via dei decreti legge. Ma le polemiche continuano soprattutto perché continuano anche le scarcerazioni, ultima quella di Zagaria, mentre si annuncia la richiesta di uscire di Cutolo. Da qui il nuovo post su Fb del Guardasigilli che usa espressioni molto forti. Come questa: “La lotta alle mafie è una cosa seria. Parlarne in maniera superficiale, gettare un tema così importante nella caciara quotidiana, mentire ai cittadini dicendo che c’è una legge (o addirittura una circolare) di questo governo che impone ai giudici di scarcerare i mafiosi, è gravissimo”. Si tratta proprio della circolare del Dap che invece non ha disposto alcuna scarcerazione. Mentre il centrodestra sostiene l’opposto. Bonafede ribadisce che “le decisioni sulle scarcerazioni per motivi di salute vengono adottate in piena autonomia e indipendenza dalla magistratura”, cioè quella di sorveglianza. Che, sempre tre giorni fa, dopo il caso di Bonura, è stata difesa anche dall’Anm. Il ministro ripete che, a questo punto, saranno gli ispettori del ministero a verificare comunque i singoli fascicoli. Poi l’annuncio di un passo politico, d’intesa con il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, saranno alcuni decreti legge ad affrontare la questione. Il divieto, cioè, di scarcerare chi attualmente si trova al 41bis, cioè il carcere più duro nel quale non sono ammessi contatti con altri detenuti. Bonafede conferma inoltre un’indiscrezione già anticipata 24 ore prima, e cioè che nel provvedimento del governo sarà espressamente scritto che “tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia” saranno sottoposte per un via libera sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Una misura però che non potrà essere operativa già lunedì quando sul tavolo dei magistrati di sorveglianza giungerà la richiesta del boss camorrista Cutolo. Cafiero de Raho: “No ai domiciliari per i mafiosi al 41 bis. Rischio di crisi criminale al Sud” di Giuliano Foschini La Repubblica, 26 aprile 2020 L’allarme del procuratore nazionale antimafia: “Le mafie non hanno burocrazia, dobbiamo fare in fretta. Il sostengo alle imprese non è prorogabile, il rischio usura è enorme”. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho è uomo di parole assai misurate. Per questo la scelta che ne fa, in questa occasione, è assai importante. “I mafiosi non possono tornare a casa. È impensabile fare uscire detenuti al 41 bis per l’emergenza Coronavirus. Bisogna curarli, assicurare loro tutte le protezioni. Ma rimandarli nelle loro abitazioni, seppur agli arresti, significa riconsegnare un pezzo di Paese alla criminalità organizzata. E, dunque, alla disperazione. Alla povertà. Far tornare i mafiosi a casa non significa aprire soltanto un’emergenza criminale. Ma accendere una bomba sociale. Economica”. Procuratore, ancora in queste ore un boss della ‘ndrangheta è stato messo ai domiciliari. Il problema del sovraffollamento delle carceri è una questione sempre più pressante. “È importante analizzare con attenzione le cose. È evidente che lo Stato ha il dovere di proteggere tutti i cittadini, a maggior ragione i detenuti che sono sotto la sua responsabilità diretta. La scarcerazione dei condannati al 41 bis va però in direzione opposta: primo perché sono contro una strategia del contrasto alle mafie. Ma poi va anche contro la stessa struttura carceraria: un detenuto in regime speciale di detenzione al 41 bis è, per definizione, in isolamento. Dunque, più protetto rispetto al diffondersi del virus rispetto a qualsiasi altra persona. Farlo uscire significa dare un segnale di debolezza che non possiamo permetterci”. Perché debolezza? “Le ragioni sono tante. Pensare che un’epidemia, seppur gravissima come quella del Coronavirus, possa produrre effetti sulla detenzione di mafiosi e terroristi sarebbe come ammettere di non saper gestire le carceri. E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza sanitaria necessaria. E anche psicologica: è giustissimo, per esempio, aver concesso il doppio colloquio telefonico. In ogni caso se anche in alcune strutture i mafiosi e i terroristi corressero rischi in tema di contagio, bisognerebbe lavorare e investire sui presidi sanitari e su tutto quello che è necessario per mettere quelle carceri in sicurezza. La risposta non può essere la scarcerazione”. Perché dice che la questione non è soltanto criminale? “I mafiosi sono tali perché attentano alla nostra democrazia e alle nostre istituzioni. Fare ritornare un capo mandamento a casa, come è accaduto, ha un significato quasi di resa agli occhi dell’opinione pubblica, è qualcosa di deflagrante. Per i mafiosi andare ai domiciliari è come essere liberi. Rientrati a casa sono in grado di riprendersi quello che lo Stato con grande fatica era riuscito loro a togliere: potere economico, considerazione sociale. Riattiverebbero in un attimo tutti quei traffici criminali che il lavoro delle forze di polizia, della magistratura, aveva interrotto”. Lei aveva denunciato proprio sulle pagine di Repubblica il rischio che la crisi sanitaria si trasformasse in una crisi criminale, in particolare al Sud. “E purtroppo ne sono sempre più convinto perché quelli sono i segnali che ci arrivano dal territorio. L’impatto economico delle chiusure è stato devastante soprattutto su quelle fasce sociali che non ha impieghi stabili. E nemmeno regolari. Le mafie hanno fatto le proprie fortune come agenzie di servizi, investendo sulle mancanze dello Stato. E lo stanno facendo anche ora: distribuiscono la spesa, investono la loro grandissima liquidità nelle attività imprenditoriali e commerciali in difficoltà”. Anche perché i cittadini hanno grande difficoltà ad accedere alle misure pensate dal Governo: le banche erogano con fatica i prestiti, 10 milioni di italiani sono a rischio povertà. “Credo che sia necessario snellire tutte le procedure verso l’accesso al credito. Le mafie non hanno burocrazia, dobbiamo fare in fretta. Il sostengo alle imprese non è prorogabile, il rischio usura è enorme. È evidente, però, che non bisogna andare in contro alla deregulation: i controlli sono necessari ma è importante verificare che i soldi stanziati vengano spesi per le ragioni per cui sono stati richiesti. Non si può bloccare tutto in partenza altrimenti è impossibile dare un’ulteriore spinta all’economia legale”. Le mafie stanno investendo sulla paura sanitaria? “Sì. Lo fanno commercializzando in dispositivi di protezione, sfruttando i canali aperti dal traffico di droga. Lo fanno falsificando. Anche per questo, a maggior ragione in un momento difficile come questo, i mafiosi non possono tornare a casa”. L’umanità smarrita camerepenali.it, 26 aprile 2020 Documento dell’Osservatorio Carcere Ucpi sulla grottesca vicenda del detenuto ammesso alla detenzione domiciliare per motivi gravi di salute. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia gli attacchi gratuiti e strumentali, in un momento così drammatico per il nostro Paese, mossi ad alcuni magistrati, colpevoli - senza appello - di aver applicato le norme contenute nel nostro ordinamento e che nessun tipo di condanna, sia essa per mafia o per reati di minore allarme sociale, può mai cancellare. Spiace ancor di più dover constatare come la piazza virtuale venga aizzata - more solito - dal cancan giustizialista della disinformazione “quotidiana” e soprattutto da dichiarazioni di particolare ed ingiustificato allarmismo, proveniente da settori che istituzionalmente dovrebbero, piuttosto, ergersi a tutela dei magistrati, chiamati ad applicare la legge senza dover subire nessuna pressione. Quando, poi, si è costretti a registrare un surreale dibattito tra alcuni esponenti politici, alcuni notoriamente giustizialisti, altri ondivaghi e contraddittori nel loro agire quotidiano, allora davvero dobbiamo ricorrere, ancora una volta, alle parole del Santo Padre, rivolte ai politici pochi giorni fa: “Fate il bene del Paese e non del vostro partito in questa emergenza”. Sarebbe stato più opportuno, prima di scatenare la solita canea, considerare alcuni degli elementi adeguatamente ponderati dal Magistrato di Sorveglianza di Milano, chiamato ad adottare l’unica decisione in grado di tutelare la salute di un detenuto quasi 80enne, condannato, per mafia, ad una lunga pena interamente scontata e con gli ultimi 9 mesi da espiare, affetto da una forma aggressiva di tumore al colon e per tale motivo sottoposto a chemioterapia ed interventi chirurgici. Siamo alla farsa ed all’offesa dell’umanità smarrita! Proprio nel giorno in cui il decreto “cura Italia”, del tutto insufficiente ad alleggerire il carico umano delle nostre carceri, come dimostrano i numeri che nessuna propaganda potrà mai mistificare, viene approvato, in Commissione, senza emendamenti - nonostante gli appelli di tutti gli operatori del settore (Magistrati di sorveglianza, Anm, Ucpi, professori di diritto penale, garanti territoriali), gli interventi delle autorità sovranazionali europee, l’Oms - si registrano curiose denunce, sia da parte delle forze di maggioranza, sia da parte di alcuni membri dell’opposizione, rivolte al Governo di avere “favorito l’uscita dei boss”, fomentando così, in maniera irresponsabile, la rabbia dei cittadini contro la magistratura colpevole di avere solo adottato provvedimenti ispirati ai principi insopprimibili di umanità e giustizia. 41bis e differimento della pena. Dibattito tra falsi miti e cultura del sospetto di Alessia Lambazzi 2duerighe.com, 26 aprile 2020 Dopo le rivolte di marzo, si accendono nuovamente i riflettori sul carcere. Questa volta la pietra dello scandalo è la scarcerazione di Francesco Bonura, boss detenuto in regime di 41bis, trasferito agli arresti domiciliari a seguito di un provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Una parte del Paese ha gridato allo scandalo paventando l’uscita in massa dal carcere di altri capimafia, legando a doppio filo la vicenda di Bonura e la possibilità che a qualcun altro possa toccare la stessa sorte al rischio del contagio per il coronavirus. Ma la realtà ci racconta una storia diversa e non permette fughe nel sensazionalismo. Nino di Matteo, magistrato consigliere del Csm, è stato tra i primi a commentare la notizia definendola “un’ulteriore grave offesa alla memoria delle vittime e all’impegno quotidiano di tanti umili servitori”. Un chiaro riferimento alla stagione della Trattativa stato-mafia da parte del magistrato che guidò il processo in quel periodo, una dura critica allo Stato che “sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte”. Accuse altrettanto potenti nei confronti dell’esecutivo anche da parte dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale ha imputato al governo l’esistenza di uno scenario in cui, dopo l’approvazione delle misure di emergenza per le carceri previste dal Dl Cura Italia, “gli italiani sono chiusi in casa, controllati con i droni e gli elicotteri, e i boss mafiosi vengono scarcerati”. Da parte sua, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha smentito le dichiarazioni rese dal Senatore della Lega ricordando che “tutte le leggi approvate da questa maggioranza e riconducibili a questo governo sanciscono esplicitamente l’esclusione dei condannati per mafia (ma anche di qualsiasi reato grave) da tutti i cosiddetti benefici penitenziari”, ma ci ha tenuto ad aggiungere che il Governo si sta attivando per effettuare le verifiche del caso, pur nel rispetto dell’autonomia della magistratura. Riferimenti al dolore delle vittime dirette e indirette della mafia, attacchi espliciti allo Stato responsabile di aver cancellato una pagina dolorosa della storia del nostro paese. Urge un po’ di chiarezza. Ci ha pensato il Tribunale di Sorveglianza di Milano ad arginare le polemiche diramando una nota esplicativa con la quale ha informato che “nel caso concreto si tratta di un detenuto di anni 78, affetto da gravissime patologie cardiorespiratorie e oncologiche, condannato alla pena temporanea di anni 18 mesi e 8 di reclusione, che avrà termine naturale tra meno di 11 mesi, potenzialmente riducibili a 8 per la concessione delle liberazione anticipata”, aggiungendo poi che il differimento della pena è stato disposto “anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio, indubbiamente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie pregresse”. Ecco, la chiave è in quella semplice ma fondamentale parola: anche. Il provvedimento attuato dai giudici di sorveglianza segue norme ordinarie e non ha a che fare direttamente con l’emergenza epidemiologica che il paese sta attraversando. Da rivedere è il nesso causa-effetto che lega la scarcerazione di Bonura all’emergenza coronavirus: il rischio del contagio non è alla base del provvedimento, semmai è un’aggravante da tenere in considerazione nel rispetto di quei dettati costituzionali che vietano l’attuazione di pene contrarie al senso di umanità e rendono la tutela della salute un diritto fondamentale, inderogabile, di ogni essere umano. Francesco Bonura è anziano ed è affetto da gravi patologie, dai suoi legali Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra apprendiamo, tra l’altro, che “nel contesto della lunga carcerazione Bonura ha subito un cancro al colon, è stato operato in urgenza e sottoposto a cicli di chemioterapia; di recente i marker tumorali avevano registrato una allarmante impennata”. L’ordinamento penitenziario e il codice penale non lasciano spazio a dubbi: è previsto il differimento dell’esecuzione della pena per tutti quei soggetti che, sottoposti a restrizione della libertà, in ragione della presenza di condizioni di grave infermità fisica risultano incompatibili con il regime penitenziario. Condizioni di salute particolarmente gravi, l’esclusione del rischio di fuga nonché di reiterazione del reato e un residuo di pena inferiore a quattro anni sono elementi necessari per essere ammessi alla detenzione domiciliare, con la possibilità di scontare la restante pena presso l’abitazione del condannato, ma anche “in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza”. Nel caso preso in esame le premesse sussistono tutte. Nessuna irregolarità, nessun trattamento di favore, nessuna liberazione di massa insomma. A meno che il diritto alla salute non sia considerato una gentile concessione o, peggio, un privilegio appannaggio esclusivo dei cosiddetti buoni e onesti cittadini. L’articolo 41bis si inserisce inizialmente all’interno dell’ordinamento penitenziario come norma di salvaguardia alla quale ricorrere in situazioni di emergenza sospendendo le normali regole di trattamento dei detenuti per ristabilire all’interno delle carceri l’ordine e la sicurezza violati. Da misura emergenziale e quindi temporanea, il 41bis cambia pelle. Siamo nel 1992, all’indomani delle stragi di Via D’Amelio e di Capaci, quando viene introdotto il regime speciale per i mafiosi, il cosiddetto carcere duro, non più in ragione del mantenimento di una sicurezza interna ma per motivi di sicurezza pubblica esterna. Il 41bis da quel momento in poi ha assunto un valore altamente simbolico in Italia e sembra che le posizioni a favore del suo mantenimento o della sua abrogazione definiscano in maniera netta i paladini dell’antimafia e i nemici della giustizia. Non c’è da stupirsi: le questioni relative al carcere hanno da sempre il potere di collocarsi direttamente nella sfera della morale, e chiunque allontani il discorso dalla forca ripulendolo dal giustizialismo che gli appartiene intrinsecamente diventa a fasi alterne buonista, ingenuo o, al contrario, complice dei cosiddetti criminali. La prigione stabilisce confini ben definiti e marca una linea illusoria tra il mondo dei buoni e il mondo dei cattivi, è quel luogo senza tempo in cui si tenta di annullare il divenire inchiodando la persona ad un ruolo dal quale mai potrà essere definita o esaurita. È il richiamo alla dimensione del sacro nella misura in cui si configura come un microcosmo separato, in senso spaziale e simbolico, dal resto della comunità. Oltre il cancello che si chiude rumorosamente alle spalle di chi ne varca la soglia, si incontra l’ulteriore condanna all’invisibilità: quel che non viene nominato, si sa, non esiste. E quando il sommerso tenta di emergere non lo fa con la voce autentica di chi vi abita, ma attraverso l’impersonalità dei numeri. Non è la verità di un volto ad essere ricordata, ma il reato. Non una storia di vita, ma un fotogramma rubato. Nell’ottica manichea che costringe a stare, metaforicamente, da una parte o dall’altra del muro pena la perdita della propria credibilità non è difficile comprendere le ragioni per cui il ministro della Giustizia italiano avverta la necessità immediata di specificare che, no, il Dl Cura Italia non prevede l’uscita dal carcere dei mafiosi. È meno comprensibile l’atteggiamento manipolatorio di chi fa appello al dolore delle vittime riportando alla luce lo strappo lacerante della perdita, un dolore privato che non potrà essere lenito dalla consapevolezza della sofferenza di chi quella perdita l’ha causata; o l’atteggiamento altrettanto discutibile di chi instilla negli italiani il pensiero malsano che il rispetto della dignità di qualcuno implichi la perdita delle proprie libertà fondamentali. Il mantenimento di uno Stato di diritto in cui tutti i cittadini possano fare appello al rispetto della propria dignità giova a tutti noi, anche quando sembra non riguardarci. Se adottiamo questo punto di vista quel cancello del carcere che si chiude rumorosamente non sarà sufficiente a spogliare le persone della propria umanità. E i confini, anche quelli più netti, potranno essere ridisegnati nella mente di chi intende superarli. Fasce orarie, sei giorni lavorativi e un po’ di remoto. Ecco la Fase 2 della giustizia di Davide Varì Il Dubbio, 26 aprile 2020 La bozza dei provvedimenti per far ripartire la giustizia italiana ai tempi del Coronavirus. Graduale ripresa dell’attività non limitata più ai soli casi indifferibili e urgenti, orari sfalsati per i dipendenti con la settimana lavorativa che passerebbe da 5 a 6 giorni e consolidamento della via digitale con le video-conferenze. Sono alcuni dei punti individuati nella bozza di accordo tra sindacati e ministero, letta dall’Agi, per aprire la “Fase due” negli uffici dell’amministrazione giudiziaria. Per far fronte alla “necessità di contenere al massimo la presenza negli uffici giudiziari di personale dipendente e utenti esterni”, si prevede di “diluire l’affollamento dei locali e, in generale, di alleggerire la mobilità urbana mediante un meccanismo di presenza a scacchiera, distribuire le prestazioni lavorative e l’apertura al pubblico degli uffici su un più lungo arco temporale, valorizzando al massimo le possibilità operative offerte dal contratto nazionale quali la previsione di turni anti-pomeridiani e meridiani, l’orario flessibile, il passaggio dall’orario su cinque giorni all’orario su sei giorni, includendo così anche la mattina del sabato”. Fine dell’oralità e sacrificio del linguaggio del corpo: così aumenteranno gli errori giudiziari di Simona Musco Il Dubbio, 26 aprile 2020 Nel documento della Camera penale di Roma tutte la falla del processo da remoto che uccide garanzie e diritti. “Nello spazio telematico si sacrifica scientificamente il 70/80% delle informazioni normalmente percepite dall’individuo attraverso il linguaggio del corpo; basterebbe già solo questo per affermare che il cambiamento che si prospetta all’orizzonte sarà una svolta infelice”. La frase tra virgolette rappresenta solo un passaggio di un lungo documento pubblicato dalla Commissione linguistica giudiziaria della Camera penale di Roma, che ha “smontato” il processo penale da remoto - pensato per superare l’emergenza coronavirus - evidenziandone tutti i limiti linguistici. Un’analisi semiotica che va ben oltre l’efficacia ovvia del linguaggio - centrale in un processo orale - per addentrarsi in quella che, agli occhi dell’avvocatura, appare come una vera e propria decostruzione del diritto alla difesa. Il processo da remoto, insomma, sfronda l’intervento del difensore di momenti vitali per la difesa stessa: prosodia, prossemica e cinesica, che gonfiano le arringhe e tutti gli altri interventi degli avvocati di sensi ed efficacia. A danno di coloro che rappresentano e, dunque, di un diritto sancito dalla Costituzione. Il nuovo modello processuale, si legge nel documento, incide così necessariamente “sul corretto accertamento del fatto”, attorno a cui ruota l’intero dibattimento. Partendo da un ridimensionamento della discussione orale, che rappresenta “un determinato modo di organizzare tutta la struttura del processo”. Che è soprattutto - e non anche - dialogo, aspetto da cui deriva l’esigenza di abbreviare le distanze tra i protagonisti dello stesso. L’efficacia del metodo dialettico consiste proprio nella formazione delle prove dinanzi al giudice “consentendo a quest’ultimo di averne una diretta percezione e di istituire un più genuino collegamento tra l’istruttoria e il giudizio finale”. L’oralità è il punto di contatto tra il giudice e la fonte di prova, “così da poter percepire direttamente egli stesso elementi irripetibili e non riproducibili in un verbale o in una trascrizione e che non potranno essere colti tramite un collegamento via etere da remoto, quali il tono della voce, il contegno tenuto, le eventuali incertezze o esitazioni, tutti elementi necessari e imprescindibili per vagliare la credibilità del dichiarante e, quindi, per accertare correttamente il fatto e giungere ad un equo giudizio”, scrive la Commissione. E non si tratta di un principio astratto: anche la Corte di Strasburgo riconosce e garantisce il principio di oralità e immediatezza “in quanto espressione del diritto dell’equo processo”, affermando che “coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza degli accusati devono in linea di principio essere in grado di sentire i testimoni e di valutare la loro attendibilità in prima persona. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni”. Insomma: la compresenza nel medesimo luogo fisico, per la Cedu, è fondamentale affinché possa parlarsi di giusto processo. Ma con le udienze da remoto viene meno anche un altro principio: la pubblicità del processo. Un processo il cui attore principale - l’imputato - rimane oltretutto relegato a figura di sfondo. “La pubblicità - scrive la Commissione - deve garantire la trasparenza e la presenza del pubblico funge da deterrente, anche per i comportamenti “inconsueti ed autoritari del giudicante”. Ed ecco, dunque, che un dibattimento a distanza rischia di eliminare le garanzie processuali, con il rischio concreto “di un aumento degli errori giudiziari, una piaga del nostro sistema, spesso taciuta e silenziata”. Ed è ancora una volta la Corte europea a sottolineare che la pubblicità del dibattimento “è principio volto a tutelare i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico e rappresenta così uno degli strumenti per contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali”. Il monitor aumenta le distanze tra chi parla e chi ascolta, mettendo al centro la sola immagine di chi, in quel momento, ha la parola. E ciò impedisce “di percepire adeguatamente i soggetti ascoltatori, di verificarne lo stato dell’attenzione, nell’oblio del costante insegnamento della linguistica”, problemi ingigantiti dalle possibili interferenze di natura tecnologica. L’uso di una piattaforma informatica, inoltre, “riduce l’immediatezza, il ritmo, la velocità e la spontaneità dello scambio comunicativo”, minacciato anche dalla durata dell’attenzione - naturalmente ridotta - davanti al monitor, trasformando chi ascolta in un soggetto “ricettivo-passivo”. E a ciò si aggiunge la mancanza di elementi paralinguistici, che si tradurrà in un linguaggio più conciso, con una semplificazione del linguaggio che potrebbe tramutarsi “in un impoverimento dell’atto comunicativo”. E non si tratta di semplici scelte stilistiche, bensì dell’esigenza “di dare forza comunicativa al discorso, il quale nel processo penale è di tipo persuasivo e argomentativo, del tutto opposto a un modello plasmato su una elencazione meccanica di dati”. Ma c’è anche la questione dello spazio, l’aula, all’interno della quale il giudice rappresenta l’arbitro delle interazioni, il regista, colui che ha in mano la gestione del turno di parola, da sempre attività di negoziazione. “Con la remotizzazione del processo vi è un rischio evidente - continua il documento -: la gestione del contraddittorio potrà avvenire mediante meccanismi meno graduali, meno negoziabili e più immediati”. E il ruolo di regista si limiterà ad una concessione o meno della loro stessa voce agli interlocutori. “In definitiva, il processo penale determinerà un inaridimento della complessità comunicativa tra i soggetti partecipanti al processo, con evidenti conseguenze sul piano dell’effettività del diritto di difesa”, si legge ancora. D’altronde, anche l’articolo 146 bis del codice di procedura penale “chiarisce l’importanza fondamentale della dimensione non verbale della comunicazione in aula, disciplinando quale debba essere la collocazione all’interno dell’aula della persona sottoposta a esame”, ovvero in modo da “consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”. Garanzia che con l’udienza da remoto viene meno. Lo spazio tra le parti e il giudice “consente loro di osservarsi reciprocamente e di verificare che la partecipazione al contraddittorio avvenga secondo modalità corrette”. Effetti negativi ancora più gravi nei casi in cui a testimoniare sono soggetti deboli, per i quali la comunicazione non verbale non è affatto secondaria, “ma costituisce un canale che spesso sostituisce quello verbale. I soggetti socialmente più svantaggiati - continua la relazione - rischiano di non essere adeguatamente compresi e ascoltati nel corso di un’udienza a distanza, ampliandosi così il loro svantaggio sociale”. Infine, a risentirne sarà la difesa d’ufficio: il processo da remoto amplificherà la distanza genetica tra un indagato e un difensore che non ha un mandato fiduciario. “Nel processo da remoto verrebbe meno la stessa dimensione empatica della comunicazione tra avvocato e assistito”, così come non sarà possibile garantire ad un imputato alloglotta un contatto continuativo con l’interprete e il difensore, “relegando l’effettività della difesa a mera dichiarazione di principio e rendendo i diritti illusori” e riducendo “il contraddittorio a mera parvenza virtuale”. Quando il processo a distanza rischia di non essere giusto di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril lavoce.info, 26 aprile 2020 Per consentire il proseguimento dell’attività giudiziaria anche nel corso dell’emergenza sanitaria, il governo propone di svolgere in videoconferenza l’esame di alcune parti. Ma è una scelta che rischia di minare il principio del contraddittorio. Il Parlamento discute in questi giorni la conversione del decreto legge n. 18 del 2020. Con l’emendamento n. 1900 il governo propone l’introduzione di disposizioni volte a consentire il prosieguo in sicurezza dell’attività giudiziaria, non solo nel settore penale. Tra le novità di maggior rilievo vi è la possibilità, prevista dall’articolo 83, ai commi 12 bis e seguenti, di svolgere in videoconferenza le udienze previste per l’assunzione dell’esame delle parti private, degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, dei consulenti tecnici, periti o interpreti. Ne sarebbero escluse soltanto le udienze previste per l’esame dei testimoni. Chiedersi come la celebrazione dei processi debba confrontarsi con l’attuale emergenza sanitaria non è cosa banale. Per un periodo non breve, sarà indispensabile mantenere un distanziamento sociale che impedisce le udienze come le conosciamo. Bisognerà evitare ciò che è usuale, ovvero l’assembramento di molte persone nella stessa aula, a volte persino accalcate una sull’altra, per l’elevato numero di processi nella giornata o delle parti, con relativi difensori. L’alternativa è tra rinviare ogni attività giudiziaria o modificarne lo svolgimento, in modo da evitare il più possibile comportamenti che rischiano di veicolare il contagio. Se si vuol continuare a celebrare i processi penali, va trovato un compromesso che corrisponda a un equilibrio virtuoso tra gli interessi in gioco. Se da una parte vi è la salvaguardia della salute pubblica, dall’altra c’è quella di non snaturare del tutto il sistema, delineando un giudizio dai risultati meno affidabili. La presenza fisica delle parti e del giudice in udienza è necessaria anzitutto per garantire l’effettiva partecipazione di tutti. Ma anche poiché l’assunzione della prova orale, salvo eccezioni, richiede il contraddittorio, che può svilupparsi compiutamente solo al cospetto di tutte le parti. L’esame incrociato, con i propri tempi serrati, le risposte all’impronta, le reazioni e il linguaggio non verbale che suscita, è attività delicata e complessa, il cui effetto sulla formazione della prova si esplica al massimo se i protagonisti si trovano faccia a faccia e non davanti allo schermo di un computer. Il paletto da non oltrepassare - Suscita, quindi, forti perplessità la scelta del governo. E ciò per molteplici ragioni. In primo luogo, la soluzione appare irrazionale. Non si comprende perché consentire l’esame di ufficiali di polizia giudiziaria, parti private, consulenti e periti rispetto all’esame degli altri testimoni: si svolgono tutti sempre oralmente e in contraddittorio, sicché pare illogico operare distinzioni. In secondo luogo, se il contraddittorio per la prova è il metodo meno fallace che contraddistingue il nostro ordinamento tanto da essere menzionato nell’articolo 111 della Costituzione, abdicarvi significa scardinare il sistema e riservare a certi (sfortunati) processi un metodo di verifica del capo di imputazione sicuramente meno efficace. Da ultimo, con buona pace della riserva di legge, il comma 12 bis è una norma in bianco, che per il proprio contenuto rinvia a un decreto del direttore generale dei sistemi informativi del ministero a cui spetterà indicare le caratteristiche tecniche idonee a salvaguardare contraddittorio e partecipazione. Non ogni regola che contraddistingue il processo ha la stessa portata nel definire un sistema. Questa del consentire al contraddittorio di potersi espandere al massimo nel formare gli elementi di prova a disposizione del giudice per verificare l’accusa ci pare un paletto che deve rimanere fermo e non può essere oltrepassato, pena l’abbandono di quel giusto processo delineato dalla Costituzione, che considera il metodo dialettico un pilastro fondamentale. Dove la tecnologia può aiutare - Ciò non significa che la tecnologia non possa aiutare a mantenere “in vita” il processo, sia pure una vita, come la nostra in questo momento, a scartamento ridotto. Nel cercare il compromesso virtuoso, infatti, potrebbe essere accettabile celebrare in videoconferenza udienze senza attività istruttoria orale. Ve ne sono e non sono poche. Si pensi, per esempio, a tutti quei procedimenti in camera di consiglio in cui le parti sono sentite solo se compaiono: si potrebbe prevedere che comunichino preventivamente via posta certificata se intendono partecipare. Oppure a quei processi d’appello o in Cassazione in cui le parti hanno già deciso di limitare la loro discussione richiamandosi ai motivi dell’atto di impugnazione. Ma, soprattutto, vi sono altre attività che potrebbero essere portate avanti senza alcun sacrificio per le garanzie del nostro sistema: le notifiche di avvisi, il deposito da parte della difesa di atti, memorie o istanze, a mezzo della posta certificata, per esempio; o la consultazione di fascicoli, digitalizzati ed esaminabili per via telematica dai difensori. Oppure i colloqui fra pubblici ministeri e avvocati, questi sì in videoconferenza, senza alcuna sofferenza per la fisionomia del processo. Timori e opportunità per il futuro - L’ingranaggio della giustizia ripartirà, come ogni altro. Ma qualcuno sostiene che dopo la pandemia niente sarà come prima. Temiamo che lo strappo a un principio di valore costituzionale come il contraddittorio, tanto fragile nella pratica perché poco radicato nella nostra cultura giuridica, rischi di non farlo più attecchire. L’abitudine a una cross-examination debole, perché a distanza, potrebbe, come già accaduto, tentare quella parte di magistratura che ancora considera le regole del processo accusatorio un faticoso orpello. La “mala pianta” della eccezione alla regola, innestata in una situazione di emergenza, rischierebbe di diventare a propria volta la regola, infestando tutto il sistema. Concludiamo però con una nota di ottimismo, per quanto secondo Ambrose Bierce l’ottimista sia “un sostenitore della dottrina che il nero è bianco”. Forse tra i cambiamenti portati dalle nuove abitudini ci sarà quella di affidarsi alla tecnologia, ove può rendere più comoda la vita, senza toccare i principi. Si potrebbe obiettare che non ci voleva una pandemia per accorgersene. Obiezione accolta. Magistratura Indipendente: “Legittima la critica alla procura di Milano” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 aprile 2020 Il consigliere laico del Csm Alessio Lanzi era stato “censurato” dai magistrati di Area dopo aver parlato di “giustizia spettacolo per il Trivulzio”. “Non c’è stata alcuna delegittimazione dei pm milanesi. Si è trattato di semplici opinioni, legittimamente espresse, che non ledono l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. I togati moderati di Magistratura indipendente prendono, dunque, le distanze dai colleghi progressisti di Area che in occasione del Plenum di questa settimana avevano messo nel mirino il laico in quota Forza Italia Alessio Lanzi, “reo” di aver criticato in una intervista la spettacolarizzazione con cui la Procura milanese sta conducendo le indagini sui decessi per Covid-19 nelle case di riposo del capoluogo lombardo. Era stato Giuseppe Cascini a voler porre la questione in apertura del Plenum di mercoledì scorso chiedendo l’apertura di una pratica a tutela del pm milanesi. “Il compito del Csm - aveva esordito il togato di Area - è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente”. Lanzi, per Cascini, doveva quindi “evitare di avventurarsi in una polemica così fuori luogo e fuori tempo”. “Siamo alle solite: in questo Paese quando si toccano certe Procure si attiva immediatamente una rete protezione”, si era difeso il professore milanese. “Io criticavo solamente - aveva aggiunto - alcune modalità operative della Procura. Ad esempio, la perquisizione del Pirellone è avvenuta in diretta tv: se si vogliono acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità”. “Si usano due pesi e due misure a seconda di cosa si tratti; nei confronti del centro destra va sempre bene tutto. La dichiarazione di Cascini è un atto politico, la critica dovrebbe intervenire unicamente sul merito delle mie dichiarazioni e sui relativi contenuti giuridici”, la replica piccata di Lanzi. Per poi aggiungere: “Nino Di Matteo ha attaccato durante il Tribunale di sorveglianza che questa settimana ha scarcerato per motivi di salute un boss detenuto al 41bis affermando che “lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte”. Bene, perché nessuno ha espresso solidarietà all’ufficio di sorveglianza di Milano?”. “Io ho voluto evidenziare che è in atto, soprattutto da parte di alcuni organi d’informazione, una campagna mediatica violentissima contro la Lombardia. Ci sono tanti dibattiti televisivi mirati con personaggi che sparano sentenze senza conoscere nulla e dove passano sotto silenzio comportamenti analoghi in altre Regioni”, aveva quindi concluso il professore milanese. “Difesa” accolta dai magistrati di Mi che, all’inizio di questa consiliatura, prima di convergere su David Ermini, avevano puntato su Lanzi come vice presidente del Csm. “Il consigliere - puntualizzano i consiglieri Paola Braggion, Loredana Micciché, Antonio D’Amato - ha precisato di non pronunciarsi sull’inchiesta in corso, criticando invece la spettacolarizzazione delle indagini e la ripresa Tv della perquisizione negli uffici della Regione”. “Il clima di “spiccata mediatizzazione” - proseguono i consiglieri di Mi - fa perdere di vista il processo vero per concentrarsi su emozioni da dare in pasto all’opinione pubblica. “Volevamo aprire sul punto un dibattito in Plenum ma non ci è stata data la possibilità”, aggiungono, ricordando che non c’è solo la Procura di Milano impegnata in questo momento “a chiarire i fatti e a verificare eventuali responsabilità penali”. Con una precisazione: “L’apertura di pratica a tutela richiede, secondo il regolamento consiliare, comportamenti lesivi per l’indipendenza e il prestigio della magistratura che non appaiono compromessi dalle dichiarazioni di Lanzi, il quale ha invocato prudenza e ha richiamato la necessità di non emettere sentenze affrettate o a celebrare processi di piazza, proprio nel rispetto delle vittime, del dolore dei parenti e di tutti quelli stanno impegnando energie e competenze per fronteggiare questa drammatica emergenza”. Insomma, per i consiglieri di Mi “le dichiarazioni di Lanzi risultano espressione di libero esercizio del diritto di critica. Dispiace constatare che la paventata apertura della pratica sia seguita ad una pubblica richiesta di smentita dell’intervista”, la stoccata finale ai colleghi di Area. Campania. Il Garante regionale dei detenuti: “Una vergogna la mancanza di braccialetti” di Renato Pagano cronachedellacampania.it, 26 aprile 2020 “Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sostiene di averne acquistati 5000 ma intanto anche nella nostra Regione i tempi di attesa per i detenuti che hanno ottenuto un’ordinanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico, sono diventati lunghi e vanno sia a compromettere i contenuti del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 e le scelte della Magistratura di Sorveglianza, sia creano sentimenti di angoscia in coloro che ne sono beneficiari. Tale frustrazione e malessere hanno portato un detenuto del carcere di Aversa a compiere un grave tentativo di gesto estremo, scongiurato soltanto grazie alla professionalità e alla prontezza del personale in servizio”. Lo dice Samuele Ciambriello, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale in Campania. “Voglio pubblicamente elogiare la Direttrice Reggente del carcere di Aversa, Carla Mauro, per la lettera - denuncia inviata al Ministero della Giustizia - Dap in cui chiede di “interessare nuovamente il ministero dell’interno - dipartimento di pubblica sicurezza - per ogni utile intervento atto a ridurre la lunghezza a dei tempi di attesa, che non soltanto va ad inficiare il criterio di semplificazione sotteso alla normativa deflattiva in parola, ma che soprattutto mina il clima generale dell’ istituto, già provato dal particolare periodo di emergenza nazionale”. La Direttrice, nella lettera inviata anche a me per conoscenza, sostiene di essere in attesa di 10 braccialetti elettronici per i suoi detenuti. È una vergogna, sia la mancanza di braccialetti, sia il fatto di volerli utilizzare per forza per fare uscire i detenuti che devono scontare ancora solo 18 mesi di reclusione, in misura di detenzione domiciliare. Ma la politica ha capito che il carcere è una polveriera con miccia corta?”, conclude il garante campano Ciambriello. Sicilia. Il presidente Musumeci: “No al rientro dei detenuti pericolosi nei luoghi d’origine” Giornale di Sicilia, 26 aprile 2020 “Esistono ragioni di sicurezza, di ordine pubblico e di buon senso per dire no al rientro di alcuni detenuti pericolosi nei luoghi dove vivevano e dove hanno commesso gravi reati. Ecco perché certe decisioni lasciano sbigottiti. E l’incredulità che provano alcuni magistrati, da sempre in prima linea, è la stessa che sta provando la gente comune. Se proprio si rende necessario assegnare agli arresti domiciliari personaggi mafiosi di spessore, allo scopo di decongestionare le carceri in questo periodo di epidemia, si prendano assolutamente in considerazione soluzioni diverse”. Lo afferma il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, alla luce dei casi Bonura, Iannazzo, Sansone e, per ultimo, Zagaria. Tutti detenuti condannati per mafia che hanno lasciato la cella in considerazione del loro stato di salute raggiungendo le rispettive abitazioni. Il governatore siciliano si rivolge al premier Conte e ai ministri dell’Interno Lamorgese e della Giustizia Bonafede, affinché si valutino misure alternative alla scarcerazione. Per Musumeci “la Sicilia è una terra che oltre ad avere pagato un altissimo tributo al potere mafioso, in termini di vite spezzate e di sviluppo negato, non può assolutamente correre il rischio che il ritorno a casa di alcuni boss, sia pure con tutte le restrizioni e i controlli del caso, riaccenda chissà quali dinamiche di potere all’interno delle organizzazioni criminali”. Verona. Businarolo (M5S): “Il carcere non è stato abbandonato” Corriere di Verona, 26 aprile 2020 “Non è vero che detenuti, agenti di polizia e dipendenti sono stati abbandonati”. Francesca Businarolo, deputata 5 Stelle e presidente della Commissione giustizia, respinge le critiche piovute dall’amministrazione comunale: “Risultano essere stato consegnati nel carcere di Montorio - spiega Businarolo - 8.590 maschere protettive. Di queste, 7.900 chirurgiche, 100 Ffp3, 480 Ffp2 fornite dal dipartimento di amministrazione penitenziaria e dalla protezione civile, e altre 120 Ffp 2 acquistate dalla casa circondariale con fondi messi a disposizione. Si aggiungono al conteggio le cento mascherine Ffp2 fornite dal Comune di Verona e le 1.500 lavabili e riutilizzabili messi a disposizione dalla meritoria cooperativa Quid. Sono arrivati, inoltre, 18 mila guanti monouso, 25 kit di protezione, 20 tute impermeabili, 10 visiere facciali e due termometri a infrarossi”. Quindi, la risposta ad alcuni esponenti della maggioranza comunale: “Non risulta pertanto corrispondere al vero quanto continuano ad affermare, cioè che se non fosse stato per la mobilitazione del Comune, agenti e detenuti si troverebbero senza protezioni. Fin da quando si è appresa la situazione di contagio nell’istituto veronese, il ministero della Giustizia si è attivato per assicurare le forniture”. Salerno. Pena alternativa al carcere? Sì, ma con il braccialetto (che non c’è) salernotoday.it, 26 aprile 2020 L’appello del cappellano della Casa circondariale. Frustrazione e malessere causati dal paradosso della “concessione non concessa”, hanno portato, in particolare, un detenuto del carcere di Aversa a tentare il suicidio: sarebbe dovuto essere trasferito presso la Domus di Brignano. Possibilità di godere di una pena alternativa al carcere? Sì, ma solo se muniti di braccialetti elettronici. Peccato che, al momento, di tali dispositivi in Campania non ce ne sia l’ombra. Nell’ambito delle misure anti-Covid-19 che stanno interessando le carceri, infatti, hanno creato angoscia e perplessità, tra diversi detenuti, i provvedimenti a loro carico legati all’utilizzo di un braccialetto al momento non disponibile. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sostiene di averne acquistati 5000, ma intanto anche in Campania i tempi di attesa risultano infiniti per i detenuti che hanno ottenuto la concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico. Il tentato suicidio - Frustrazione e malessere causati dal paradosso della concessione non concessa, hanno portato, in particolare, un detenuto del carcere di Aversa a tentare il suicidio, gesto scongiurato soltanto grazie alla professionalità e alla prontezza del personale in servizio. Il detenuto, cittadino straniero precedentemente ristretto nel carcere di Fuorni e preso a cuore dal cappellano della casa circondariale di Salerno, don Rosario Petrone, era stato trasferito nel carcere di Aversa, dopo essere stato preso di mira e bullizzato da alcuni compagni di cella. A seguito di un inter lungo e non semplice, il detenuto aveva ottenuto dal giudice la misura alternativa alla detenzione, presso la Domus Misericordiae di Brignano, a Salerno, struttura voluta e guidata da don Petrone. Unica condizione: l’utilizzo del braccialetto elettronico che, ad oggi, non è stato ancora fornito a nessuno nel nostro territorio. Da quell’illusione, secondo il cappellano, è nato il tentativo di farla finita da parte del ragazzo, attualmente ricoverato in ospedale, ad Aversa. L’appello di don Rosario - “Faccio appello al ministero dell’interno e al dipartimento di pubblica sicurezza perché vengano forniti i braccialetti ai detenuti e siano ridotti i tempi di attesa che ledono la dignità di chi, in sostanza, viene illuso con possibilità che poi, senza i necessari strumenti, non si concretizzano. Per giunta in un clima di tensione come quello di emergenza nazionale che stiamo vivendo. Pavia. La vicenda dell’ex carcerato che da 10 giorni vive all’ospedale San Matteo di Manuela Marziani Il Giorno, 26 aprile 2020 Nessun ente ha le carte in regola per occuparsene. Così per ora lo tengono in Pronto soccorso. Steven Spielberg nel film “The terminal” racconta la storia di un uomo che rimane bloccato in aeroporto. Sedici anni dopo, in tempi di coronavirus, un altro regista magari italiano potrebbe cimentarsi con la storia altrettanto kafkiana di un uomo che da dieci giorni vive al Pronto soccorso del San Matteo. Non è una scelta quella di un 63enne. Scarcerato da Torre del Gallo, si è ritrovato in mezzo a una strada. Con l’esplosione dell’emergenza Covid, infatti, anche per Giovanni (il nome è di fantasia), come per altri detenuti le porte del carcere si sono aperte, ma non è stata una riconquistata libertà. L’uomo, che soffre di diverse patologie e ha bisogno di farmaci e presidi sanitari, appena uscito da Torre del Gallo ha raggiunto a piedi il posto più vicino, via Vigentina. Per quattro giorni ha vissuto sotto una pensilina dell’autobus nei pressi del centro commerciale Carrefour e per quattro giorni non ha né mangiato né bevuto. Appena calavano le tenebre, si stendeva sulla panchina utilizzata da chi aspetta l’arrivo del pullman e si addormentava. Con poche persone in giro nel rispetto di quanto prevede il decreto del presidente del Consiglio dei ministri, però, la sua presenza non poteva passare inosservata. E così è stato. Subito dopo Pasqua quindi il 63enne è stato avvicinato da un’équipe del 118 e soccorso. Aveva bisogno di idratarsi e di mangiare qualcosa. Avendolo accompagnato al San Matteo, i sanitari si sono presi cura di lui occupandosi delle patologie croniche che accusa e che non gli permettono di vivere nei centri messi a disposizione dei senzatetto. Nel frattempo la macchina si è mossa per trovare all’uomo una sistemazione. Sono stati contattati i familiari di Giovanni per verificare se intendessero farsi carico del loro congiunto, ma si sono opposti. Il Comune di Rozzano, dove risiede, ha risposto che gli ingressi nelle strutture residenziali sanitarie in questo momento di emergenza sono bloccati e quindi non è possibile un trasferimento. Sono stati interessati quindi anche i Servizi sociali di Pavia che però non possono occuparsi di una persona residente altrove. E la Questura non si può muovere perché la questione non ha rilevanza penale. Pure gli enti caritatevoli, a loro volta chiamati in causa, non hanno potuto fare niente per Giovanni perché non hanno a disposizione i farmaci che deve assumere e i presìdi sanitari che gli sono indispensabili. Terni. Detenuti al lavoro, nasce il parco della legalità Il Messaggero, 26 aprile 2020 L’area verde delle Grazie diventa anche un “Parco della legalità”, per consentire a detenuti della casa circondariale che si trovino nelle condizioni di farlo, di svolgere attività socialmente utili, a titolo volontario e gratuito, nell’esecuzione di progetti di manutenzione, con l’obiettivo di stimolare il loro reinserimento sociale. Nella seduta di ieri la giunta comunale, su proposta dell’assessore al Welfare Cristiano Ceccotti ha infatti approvato una delibera su questo tema, che comprende le convenzioni tra il Comune di Terni, il Tribunale di Terni, la Casa Circondariale e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterno. “L’iistituto della messa alla prova, intervenendo nella fase processuale precedente alla sentenza, consente all’imputato di richiedere ed ottenere l’estinzione del reato (nel caso di un esito positivo della prova), attraverso lo svolgimento di un programma di trattamento elaborato d’intesa con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) e recepito dal giudice nell’ordinanza di sospensione del processo”, viene spiegato nel testo della delibera. Avendo aderito alle convenzioni il Comune di Terni impiegherà questa tipologia di detenuti attraverso lo svolgimento di un programma di trattamento elaborato d’intesa con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) e recepito dal giudice nell’ordinanza di sospensione del processo, consistente nello svolgimento di attività socialmente utili alla collettività nelle aree verdi del parco delle Grazie basso. “Dalla stipula delle due convenzioni e dalla proficua collaborazione con l’Uepe - aggiunge l’assessore Cristiano Ceccotti - è inoltre nata la volontà di aderire al progetto “Communitas: un orto, un sentiero, un giardino” proposto dall’Uepe stesso con l’obiettivo di realizzare nell’ambito del parco “Le Grazie” basso, il “Parco della legalità” con lo scopo di stimolare la partecipazione attiva della comunità e dei soggetti in esecuzione, favorendo altresì il buon esito sia delle misure alternative che rieducative”. Il progetto del Parco della legalità mira a coniugare non solo l’attività di recupero lavorativo di detenuti giudicati non pericolosi, ma anche - attraverso la sensibilizzazione dei cittadini - a favorire l’innalzamento del senso di legalità nella comunità cittadina. “Ci siamo mossi come sempre nell’ambito di un grande spirito di collaborazione con le altre istituzioni e con il mondo dell’associazionismo- dice l’assessore Ceccotti - con un vero e proprio gioco di squadra, ben consapevoli dell’importanza di questo tipo di azioni per la condivisione dei principi della legalità, per la reintegrazione nella comunità di persone che dimostrino buona volontà e che siano messe in grado di recuperare il senso civico”. “Ricordo anche che su questo tema qualche mese fa c’era stato un atto d’indirizzo presentato dal gruppo consiliare della Lega che chiedeva appunto di verificare soluzioni per “impiegare detenuti, selezionati e non pericolosi per la società, per lavori socialmente utili”. Livorno. Storie di videochiamate dal carcere di Anita Galvano livornotoday.it, 26 aprile 2020 “Uscirò nel 2025, non ho avuto il coraggio di dirlo a mia madre”. Karim non vede la sua famiglia da nove anni e quando ha saputo che, attraverso un pc avrebbe rivisto la madre, si è commosso: “Mi sono vestito bene, volevo essere bello ai suoi occhi”. Piccole cose che diventano grandi. La solitudine che si fa più sopportabile. La mente che torna a casa e gli occhi che si poggiano, di nuovo, su un dettaglio della cucina che sembrava dimenticato. Un cassetto della memoria che si apre e porta con sè profumi e sensazioni. Le videochiamate in carcere ai tempi del Coronavirus hanno restituito, seppure in maniera virtuale, un briciolo di libertà a chi l’ha persa dietro le sbarre, rendendo la pena più sopportabile. L’educatrice Alessia La Villa ha raccolto le storie dei detenuti della casa circondariale di Livorno, storie che raccontano la vita dietro le sbarre, che fanno intravedere un sorriso dietro la paura. Dopo aver raccontato la storia di Enrico, la seconda parla di Karim. E di una bugia a fin di bene. “Se avessi dato ascolto a mia madre non sarei qui” - Karim ha 26 anni e non vede la madre da quando ne aveva 17 anni, da quando cioè decise di lasciare la sua terra, il Marocco. “Dove vai figlio mio, rimani qui, mi diceva mia madre, ma io non le ho dato retta. Volevo fare una vita diversa come mio cugino che era partito anni prima e in Italia, a detta sua, stava bene”. Karim è figlio unico e appena arrivato nel nostro Paese ha raggiunto il cugino a Bergamo, città martoriata adesso dal Coronavirus. “Poi sono arrivato a Livorno. Mia madre piange sempre al telefono quando la chiamo. Lo sa che sono in carcere ma non sa ancora che ci devo rimanere fino al 2025. Non ho avuto il coraggio di dirglielo”. Quando Karim ha saputo che poteva fare una videochiamata con Skype non ci credeva. “Io mia madre me la sogno spesso. Sogno che siamo in Marocco e che sono rimasto lì a coltivare la terra vicino a casa nostra come voleva lei. Se le avessi dato retta adesso non sarei qui” racconta Karim, la voce rotta dal rimpianto di una vita che poteva andare in un altro modo. “Per videochiamare mia madre mi sono vestito bene, volevo essere bello per lei” - Una volta spiegato alla madre come si sarebbe svolta la videochiamata, i due si sono rivisti dopo tanto tempo. “Quel giorno - racconta Karim - mi sono vestito bene, ho chiesto al mio compagno di sistemarmi i capelli. Volevo essere bello, non come tutti i giorni. Mia madre toccava sempre lo schermo come se potesse toccare me. Io prima ho riso, poi mi sono messo a piangere. Mi ha detto che sono cresciuto e che non vede l’ora di rivedermi, io le ho risposto che è bella e che quando torno a casa le porto un bel regalo. Ho raccontato che in carcere non ci sto male, che ci devo stare ancora poco, ma adesso che ci possiamo vedere sarà diverso. Ad un certo punto ho sentito miagolare. Mia madre si è abbassata ed ha tirato su il nostro gatto. Lei dice che ha riconosciuto la mia voce e che mi cerca. Non lo so se è vero, ma anche se mi ha detto una bugia io sono felice” Ferrara. Esercizi di libertà ai tempi del Covid: il teatro in carcere arriva per lettera di Simone Fanti Corriere della Sera, 26 aprile 2020 All’interno della Casa circondariale G. Satta di Ferrara prosegue l’esperienza del teatro Nucleo con una modalità diversa che coinvolge una trentina di detenuti-attori. Le possenti mura del carcere non fermano chi calca il palcoscenico nemmeno al tempo del Covid-19. Il teatro Nucleo, fondato nel 1974 a Buenos Aires da Cora Herrendorf e Horacio Czertok e stabilitosi definitivamente a Ferrara nel 1978, prosegue la sua opera all’interno della Casa circondariale G. Satta della città estense. Lasciata la modalità vis a vis a periodi più facili (nella foto di Daniele Mantovani un momento dell’attività prima dell’emergenza sanitaria), con il Coronavirus si torna alle lettere. A seguito dell’impossibilità di accedere alla struttura detentiva, Horacio Czertok e l’attore e promotore dell’iniziativa Marco Luciano, hanno deciso di portare avanti la costruzione dello spettacolo Album di famiglia, nato all’interno del carcere con detenuti-attori, per corrispondenza attraverso il progetto Esercizi di libertà, in cui la preparazione della pièce avviene per via epistolare. Sospese le visite, le prove e molte attività formative, i membri del teatro Nucleo hanno ritenuto che the show must go on, non si poteva interrompere. Era troppo importante. “Soprattutto quando abbiamo visto le immagini delle rivolte in carcere - spiega Marco - abbiamo pensato che dovevamo inventarci qualcosa. Come ci è venuto in mente? La lettera supera i limiti carcerari ed è una modalità conosciuta da questi 26 detenuti-attori che hanno una scolarità e un’età molto varia (da 21 a 67 anni). Spesso per dare forma a una pièce, infatti, chiediamo a tutti di scrivere una lettera, a parenti o a un amico, e da questa enucleiamo i concetti che daranno vita e cuore ai nostri spettacoli”. “Il nostro lavoro serve anche ad allentare le tensioni - prosegue Czertok - e se n’è accorto anche chi inizialmente era contrario. Mi ricordo ancora gli inizi all’interno della casa carceraria ferrarese nel 2005 quando avvertivamo le comprensibili perplessità del personale penitenziario. Superate con il tempo. Anzi fu proprio il responsabile degli agenti penitenziari che venne da me e mi disse “mi devo ricredere… funziona”. Poche parole che accrebbero, se fosse stato necessario, l’entusiasmo del gruppo. Dopo due anni di lavoro intenso stava vedendo la luce Album di Famiglia: attraverso la figura di Amleto nelle varie riscritture del ‘900, da Heiner Muller a Laforgue, i detenuti hanno rielaborato le loro biografie con uno studio quasi antropologico sulla colpa, il lutto, l’eredità e il conflitto generazionale intorno al tema “padri e figli”, argomento comune proposto a tutte le Compagnie che fanno parte del Coordinamento Regionale Teatro-Carcere della Regione Emilia Romagna. “I livelli di alfabetizzazione sono molto diversificati - racconta Marco Luciano - e soprattutto gli ultimi arrivati hanno difficoltà a leggere i testi, ma la solidarietà dei compagni supera i limiti. Per questo nelle lettere affrontiamo temi complessi con una scrittura articolata - dalla pandemia alla libertà, dalla paura all’intelligenza collettiva - certi del sostegno interno al gruppo”. E, una volta proposti fuori dalle mura del carcere, gli spettacoli fanno da ponte tra società e persone detenute aprendo un dialogo che va oltre la pena, lo stigma e i pregiudizi. Larino (Cb). L’arte come evasione: l’esperienza dei Guerrilla Spam in carcere di Annalisa Filonzi artribune.com, 26 aprile 2020 L’arte serve a tessere relazioni, anche dove sono state interrotte, soprattutto con sé stessi. Da chi è recluso per lunghi periodi a chi è oggi “prigioniero” nella propria casa. Vi raccontiamo l’esperienza dei Guerrilla Spam nel carcere circondariale di Larino a cura del Premio Antonio Giordano. Evadere da un carcere di massima sicurezza attraverso il disegno: metaforicamente, attraverso colori non reali che hanno trasformato il cemento grigio del cortile dell’ora d’aria in ambienti di natura impossibile, ma anche concretamente, grazie ai poster con pensieri e immagini che i detenuti hanno affidato agli artisti e sono stati affissi “fuori”, al Parco Dora a Torino, per creare un contatto tra l’interno e l’esterno. Mani in alto! è il titolo del progetto che per tre anni consecutivi, dal 2017 al 2019, i Guerrilla Spam hanno realizzato nella Casa Circondariale di Larino, a cura dell’Associazione Culturale Giordano che organizza l’omonimo Premio di writing e Street Art a Santa Croce di Magliano, in collaborazione con il C.P.I.A. Campobasso sede di Termoli. Il titolo, che ricorda il momento dell’arresto, non vuole però essere una resa, ma uno sprone all’intraprendenza, al “fare” con le mani, per i circa quindici detenuti di varie nazionalità ed età della struttura di reclusione che ogni anno hanno partecipato, e che si trovano a scontare una pena, a volte per molti anni o per sempre, in spazi ristretti, privati della loro libertà. Chiamati a partecipare ad attività laboratoriali in classe ogni volta su una tecnica diversa, gli ospiti della prigione, per lo più ragazzi dai 20 ai 30 anni, hanno intrapreso un percorso artistico e formativo, ma soprattutto relazionale, anche in vista di un futuro reinserimento nella società, un’operazione concreta che li ha messi a confronto con modi di pensare divergenti, spesso spiazzanti, e li hanno costretti a ripensare diversamente se stessi attraverso l’arte. Un beneficio non solo per i detenuti, che pur nelle migliori situazioni vivono in condizioni critiche, ma anche per tutta la collettività. Insieme agli artisti i detenuti hanno anche ridipinto i cortili interni della struttura di reclusione, con progetti ogni volta meno esecutivi e più partecipati, che li hanno coinvolti nel pensare a geografie immaginarie, veri spazi di evasione in nature fantasiose; e riflessioni sul concetto di identità, con rappresentazioni di sé stessi e delle proprie “isole”, elementi spaziali ma anche autoritratti che raccontano chi si è, i propri mondi, le proprie origini. L’impossibilità di movimento, ci siamo accorti in questi giorni, è una grande privazione. L’arte dei Guerrilla Spam non ha preteso di cambiare la condizione di quei ragazzi reclusi, ma è stata sicuramente un’occasione per trascorrere momenti più sereni. D’altronde Dostoevskij diceva: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Quando sarà possibile, i Guerrilla Spam sono pronti a “tornare dentro” per vivere da vicino questa incredibile chance di apprendimento e miglioramento che un carcere, che abbia le necessarie condizioni di umanità, può dare a chiunque sappia guardare ai momenti critici come a un’opportunità. Valeria Parrella: “Vi porto a Nisida, l’isola-carcere dove si può rinascere” di Maria Vittoria Melchioni Gazzetta di Modena, 26 aprile 2020 La scrittrice napoletana presenterà il romanzo “Almarina”. “Dopo il lockdown servirebbe l’indulto”. Quattro domeniche per conoscere più a fondo i dodici autori finalisti del Premio Strega. Queste sono le nuove proposte di “Forum Eventi” che prendono il via domani online grazie a un’iniziativa di Bper, partner del riconoscimento letterario. Si comincia con Daniele Mencarelli, Gian Mario Villalta e Valeria Parrella, che abbiamo intervistato sul suo ultimo romanzo “Almarina” edito da Einaudi. È la storia dell’incontro, nel carcere minorile di Nisida, fra Elisabetta, insegnante di matematica cinquantenne che ha perso da poco il marito, e Almarina, una ragazza romena di sedici anni con alle spalle una storia di violenza familiare. Fra le due donne nasce un legame che non può essere spezzato, soprattutto quando si affaccia per entrambe la speranza di poter ricominciare una nuova vita. L’autrice racconta la libertà di due solitudini con una voce calda, intima e politica. Come mai ha scelto un carcere per raccontare una storia che fondamentalmente è una storia d’amore? “È una storia d’amore, ma non nasce dal desiderio di raccontare una storia d’amore, ma da quello di raccontare un posto particolare com’è un carcere minorile in mezzo al mare. In più c’era anche il desiderio di raccontare l’amore di un cittadino per la sua città e, per traslato, anche per il suo Paese, dato che penso che Napoli sia una cartina di tornasole dell’Italia”. Un carcere sull’acqua per di più, come un ossimoro: prigionia della struttura, libertà e spazio aperto del mare... “Io ci sono stata veramente per tenere alcune lezioni di scrittura creativa insieme ad altri scrittori napoletani molto talentuosi come De Giovanni, Lardone, Rinaldi, Virgilio e tutte le volte che uscivamo da lì ci chiedevamo: perché non scriviamo un romanzo su Nisida? È un posto incredibile: da un lato c’è la prigione che già di per sé è una cosa aberrante perché, come dice il direttore del carcere nel romanzo “Se c’è un minore colpevole, da qualche parte c’è un adulto colpevole”, e in contrasto c’è questo scenario magnifico, sembra un atollo del Pacifico, fatto a forma di ferro di cavallo. Raccontare il dentro e il fuori, raccontare di un posto dove i ragazzi invece di tuffarsi in mare, vivono le loro giornate dentro una cella, sebbene Nisida sia un carcere fatto molto bene, era una di quelle sfide che volevo pormi con questo libro”. Come ha ideato le due protagoniste? “Elisabetta è nata da una cosa che mi disse la mia amica Imma in una chat di gruppo. Lei è vedova e mentre scherzavamo durante il periodo natalizio su quante persone avevamo a cena o a pranzo, disse: “Non vi lamentate tanto del Natale, che a me mancano anche quelle “cesse” delle mie cognate” e io ho compreso da questa frase il dolore di una persona che doveva affrontare giornate tremende come quelle natalizie durante le quali si dovrebbe gioire e invece si ha un lutto nel cuore, ma anche la grande ironia delle donne che è ciò che ci permette di farcela sempre in un qualche modo. “Imma sei proprio un bel personaggio” le dissi e così nella narrazione attraverso Elisabetta le affidai il racconto dell’altra protagonista Almarina, per la quale ho tratto ispirazione da una alunna che vidi realmente nel carcere minorile e attraverso la quale ho raccontato soprattutto il desiderio di maternità. Una maternità un po’ sghemba, non di sangue. La tematica della maternità è una mia caratteristica sin dai primi scritti e mi mancava la narrazione di questo aspetto. Il rapporto tra le due è difficile. L’ho descritta volutamente non bella perché volevo che nell’innamoramento si avvertisse il peso della scelta”. Qual è la situazione attuale delle nostre carceri? “È molto drammatica. Ho chiesto via Twitter un indulto dopo il lockdown, dato che ci sarebbero tutti i presupposti per attuarlo. Il problema del sovraffollamento, della fatiscenza delle strutture, la detenzione (salvo alcuni casi in cui ci sono dei direttori illuminati) è una cosa orrenda. Il lockdown ha poi messo in evidenza la pericolosità anche sanitaria di luoghi come questi. La libertà è un diritto sacro e ora lo percepiamo nettamente anche noi, non credo che la detenzione faccia bene all’anima quando la vedo come una punizione per essa e per il corpo”. Il carcere redime? “Strutturato come ora, non credo. Una carcerazione fatta come quella di Nisida sì perché offre tutto quello che i ragazzi fuori non hanno avuto. Se avessero avuto gli educatori, i sacerdoti dei vari culti, gli psicologi, il maestro del coro del San Carlo, gli scrittori che vanno a fare le lezioni, l’allenatore di calcio e di basket, gli spazi all’aria aperta e l’affetto che ho visto offrire a Nisida, quei ragazzi non si sarebbero mai messi nelle mani della delinquenza. Il mio romanzo racconta che il problema è la società non il carcere”. Migranti. Gradisca, il virus entra nel Cpr. Paura tra i migranti: “liberateci” di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 aprile 2020 Nel centro di espulsione friulano 5 positivi al Covid-19. Proteste anche a Ponte Galeria. Nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo cinque persone sono risultate positive al Covid-19. Sono tutte asintomatiche e rappresentano circa il 10% dei trattenuti. “Quattro sono attualmente in quarantena nel centro stesso, mentre il quinto è stato preso in carico dalle autorità sanitarie del luogo di residenza”, ha scritto in una nota il Garante nazionale dei detenuti. Appresa la notizia, nella tarda serata di venerdì i reclusi hanno protestato chiedendo di essere liberati. Sono stati incendiati dei materassi. “Una struttura come il Cpr viaggia perennemente sul filo del rasoio ed è chiaro che la notizia della positività di alcune persone ha generato disagio e nervosismo”, afferma Giovanna Corbatto, Garante comunale delle persone private della libertà. Sempre a Gradisca, un mese fa era stato rilevato il primo caso ufficiale di coronavirus in un Cpr. La Garante ribadisce la richiesta alle istituzioni centrali di maggiore attenzione rispetto a uscite e ingressi nella struttura. Su come il virus sia entrato nel Centro si possono solo fare ipotesi, per ora. I cinque positivi erano dentro da oltre due mesi. Una pista è quella del personale, che ha contatti con l’esterno. Gli operatori dell’ente gestore sono stati sottoposti a tampone e si attendono i risultati. Per accertare se anche il personale di polizia ha fatto il test, Corbatto ha chiesto ufficialmente un riscontro al Questore. Un’altra pista riguarderebbe prestazioni sanitarie ricevute nei giorni scorsi da due reclusi in un ospedale della zona. A parte eccezioni, le prestazioni che non possono essere svolte in loco si realizzano nell’ospedale di Gorizia, dove la situazione è relativamente sotto controllo. Il 24 aprile il vicegovernatore della Regione con delega alla Salute Riccardo Riccardi ha parlato di due casi di Covid-19 in neurologia e due tra gli infermieri. Cinque i pazienti in terapia intensiva. Una protesta si è svolta venerdì anche nel Cpr di Ponte Galeria. All’origine il cibo scarso e una detenzione percepita come ingiusta, soprattutto ai tempi del Covid-19 che genera maggiori rischi di contagio per chi si trova in luoghi dove è difficile osservare il distanziamento. “Alla protesta, hanno risposto le botte della polizia. Due reclusi malmenati. Uno di loro, oggi, è di nuovo in infermeria per il forte dolore successivo alle botte”, scrive la rete Lasciatecientrare, che ha ricevuto video e foto visionati dal manifesto. Nei giorni scorsi nella struttura c’erano stati episodi di autolesionismo da parte di due uomini a cui è stato prolungato il trattenimento per altri 30 giorni. Al 24 aprile erano 250 le persone trattenute nei Cpr italiani. Dall’inizio dell’epidemia si registra un trend decrescente, per la mancanza di convalida di alcuni provvedimenti di trattenimento da parte dei giudici e per il numero ridotto di ingressi disposti dalle questure (circa 32 dal 15 marzo al 17 aprile). Questi numeri sono stati resi pubblici dal Garante nazionale, che si è detto “sorpreso” per la situazione del Cpr di Caltanissetta dove sono ancora recluse due persone “nonostante sia stata comunicata al Garante la sua chiusura ormai da alcuni giorni”. Il 26 marzo scorso la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovi si era rivolta alle autorità nazionali affermando: “Il rilascio dei migranti detenuti è l’unica misura che gli Stati membri possono adottare durante la pandemia da Covid-19 per proteggere i diritti delle persone private della libertà e più in generale quelli di richiedenti asilo e migranti”. Regolarizzare i migranti conviene a tutti di Cristina Ornano* Il Manifesto, 26 aprile 2020 Il virus del lavoro sommerso. Per affrontare un momento di crisi bisogna avere il coraggio di rimediare agli errori precedentemente fatti. Tra questi aver lasciato che tante persone nel nostro paese rimanessero prive di diritti. Il Covid19 colpisce senza distinzioni, in questo senso è molto democratico, ma non sono per nulla democratiche ed eguali le sue conseguenze, ad iniziare da quelle sanitarie, dipendendo esse dalla possibilità di accedere ad un servizio sanitario e dalla qualità e quantità di cure ricevute. Di certo non saranno eguali le conseguenze sociali ed economiche della pandemia che marcherà ancora di più le diseguaglianze e ne creerà di nuove. Nel nostro paese vivono oltre 250 mila cittadini stranieri in condizione di involontaria irregolarità. Un esercito che i cosiddetti Decreti Sicurezza 1 e Bis hanno drammaticamente ingrandito, creando insicurezza e ingiustizia. Viviamo tempi che richiedono la capacità di mettere in campo scelte innovative e lungimiranti. E tra queste, c’è anche quella di regolarizzare queste persone che costringiamo ipocritamente alla precarietà e al sommerso. Sono persone che assistono i nostri anziani e malati, che raccolgono frutta e verdura nei campi, accudiscono gli animali negli allevamenti, lavorano nei mercati, nelle manifatture e nelle aziende artigiane; lavoratori e piccoli imprenditori che ora lavorano in nero e che vorrebbero regolarizzarsi, pagare le tasse e fruire dei servizi. Sarebbe un’azione non solo giusta, ma intelligente e lungimirante, perché è una delle misure indispensabili per garantire la prevenzione sanitaria, in questo momento fondamentale, e far ripartire la nostra economia e per dare ossigeno al fisco. Un coro di voci autorevoli provenienti da chi ricopre primari ruoli istituzionali o li ha ricoperti, si è alzato in questi giorni a chiedere la regolarizzazione dei lavoratori immigrati irregolari ed a chiedere che ciò venga fatto prima possibile. Non è, infatti, difficile prevedere che gli effetti sul piano economico e sociale prodotti dalla pandemia siano, come è stato da più parti osservato, non dissimili da quelli prodotti da un conflitto bellico. Le moderne economie di guerra ci hanno insegnato almeno tre cose. La prima è che per uscire dalle crisi occorre saper fare scelte coraggiose, quindi abbandonare paradigmi, schemi e soluzioni precedenti quando se ne siano constatati, come in questo caso, gli esiti fallimentari, per adottarne di nuovi adeguati al cambiamento. La seconda è queste scelte sono tanto più produttive quanto più sono tempestive. La terza è quando si affrontano crisi sociali profonde, come quella in atto, la tenuta sociale può essere assicurata solo attraverso politiche di coesione, inclusive e solidali, capaci, come è stato efficacemente detto, di proporre “un nuovo contratto sociale che vada bene per tutti”. Continuare come prima significa, specie in questo momento, alimentare il circuito dell’illegalità e del sommerso, della cattiva imprenditoria, delle mafie e delle organizzazioni criminali. Regolarizzare è una scelta solidale e inclusiva che interessa e conviene non solo a chi è costretto alla irregolarità, ma a tutti noi, perché dà dignità e sicurezza alle persone e le fa vivere in condizioni di legalità, aiuta la nostra economia e il nostro fisco e la nostra salute. *Gip a Cagliari e presidente di Area L’Arabia Saudita abolisce la fustigazione, ma è record di condanne a morte di Giordano Stabile La Stampa, 26 aprile 2020 La punizione messa al bando sarà sostituita da carcere o multe. L’Arabia Saudita ha eliminato la fustigazione come forma di punizione per i reati minori. Sarà sostituita da carcere o multe. “La decisione è un’estensione delle riforme dei diritti umani introdotte sotto la direzione del re Salman e la supervisione diretta del principe ereditario Mohammed Bin Salman”, ha specificato un documento ufficiale del governo di Riad per illustrare la decisione. La flagellazione veniva ancora applicata per punire una serie di crimini codificati dalla legge islamica, o sharia, che è alla base del diritto penale nel Regno. Sono i giudici a interpretare i testi religiosi di riferimento e finiscono per affibbiare 10, 50 o addirittura 100 frustate per un’ampia gamma di violazioni, dall’inquinamento di acque o luoghi pubblici alle molestie sessuali. Per gli attivisti dei diritti umani la fustigazione è un relitto di un mondo medievale, come ancor più la decapitazione utilizzata per eseguire le condanne a morte, a volte sulle piazze pubbliche. La sua abolizione fa parte del programma di modernizzazione, anche dell’immagine, del Regno, lanciato dal principe ereditario assieme alla riforma dell’economia, che dovrà emanciparsi il più possibile dalle rendite petrolifera entro il 2030. Ma anche se le donne hanno acquisito il diritto a guidare un’auto, a viaggiare e ad andare al ristorante da sole, la situazione dei diritti umani rimane pessima. L’anno scorso è stato battuto il record di esecuzioni, 184 in dodici mesi. E in carcere rimangono proprio molti attivisti. Venerdì uno dei più importanti e conosciuti anche all’estero, Abdullah al-Hamid, è morto in ospedale a Riad, dopo essere finito in coma mentre era ancora dietro le sbarre. Al-Hamid, che soffriva di ipertensione, aveva co-fondato assieme Mohammad Fahad al-Qahtani l’Associazione saudita per i diritti civili e politici, conosciuta con il suo acronimo arabo Hasem. Nel 2013, sono stati condannati rispettivamente a 11 e 10 anni. Nel 2018, Hamid e Qahtani hanno ricevuto il Right Livelihood Award insieme all’attivista e avvocato Waleed Abu al-Khair “per i loro sforzi di riformare il sistema politico totalitario in Arabia Saudita”. E in carcere rimane una mezza dozzine di attiviste per i diritti delle donne, compresa Loujain al-Hathloul, già fermata in passato perché alla guida di un’auto. Egitto. Attivisti denunciano il rischio contagio nelle carceri di Pino Dragoni Il Manifesto, 26 aprile 2020 Dal regime solo una mini amnistia. Apprensione per Alaa Abdel Fattah e Mohamed al-Amashah in sciopero della fame. C’è apprensione per le condizioni di Alaa Abdel Fattah al suo tredicesimo giorno di sciopero della fame nel carcere di massima sicurezza di Tora 2, a sud del Cairo. L’attivista 37enne, icona della rivolta di piazza Tahrir, il 13 aprile ha cominciato un’astensione assoluta dal cibo, assumendo solo acqua e bevande calde senza zucchero. Tra i motivi della sua iniziativa c’è soprattutto il prolungamento a oltranza della sua detenzione, illegittima una volta trascorso il termine di 45 giorni dall’ultima udienza. Alaa, accusato di reati pesantissimi, tra cui adesione a un gruppo terroristico, si trova in carcere ormai da quasi sette mesi senza alcuna condanna, sottoposto a custodia cautelare in attesa di processo. A questo si aggiunge la negazione dei più basilari diritti, come la lettura e l’esercizio fisico. La famiglia denuncia che i parametri vitali di Alaa, comunicati dalla procura, indicano già un deterioramento rapido della sua salute. Sulla decisione di intraprendere questa forma radicale di protesta ha pesato molto anche la condizione imposta ai detenuti egiziani in conseguenza dell’epidemia di coronavirus. Dal 10 marzo infatti sono state sospese tutte le visite, e nessuna notizia entra o esce dalle carceri. “I familiari, da entrambi i lati delle mura della prigione, vengono tenuti in uno stato di panico”, hanno scritto in un documento i parenti dell’attivista. “Alaa storicamente ha sempre usato la sua figura, il suo corpo e le sue parole per combattere l’ingiustizia, subita da lui o da altri. Entrando in sciopero della fame ora vuole attirare l’attenzione sul dramma di decine di migliaia di prigionieri”, ha affermato la celebre scrittrice Ahdaf Soueif, zia di Alaa Abdel Fattah. A metà marzo la madre, la sorella e la zia di Alaa, anche loro militanti di primo piano, erano state arrestate per alcune ore e poi rilasciate per una protesta in cui chiedevano la liberazione dei detenuti per evitare il contagio nelle carceri. Celle sporche, sovraffollate, senza acqua corrente e scarsamente areate, insieme alla sistematica mancanza di assistenza medica, sono la norma nelle prigioni egiziane e rappresentano condizioni perfette per il propagarsi dell’infezione. Secondo recenti stime dell’Onu i detenuti egiziani sarebbero 114.000, quasi il doppio rispetto alle cifre ufficiali diffuse dal governo. Di questi almeno 60.000 sarebbero prigionieri politici, per lo più arrestati dopo il colpo di stato militare del 2013. Da oltre un mese organizzazioni egiziane e internazionali stanno chiedendo al regime di liberare il maggior numero possibile di detenuti, a cominciare da chi, come Alaa, non sta scontando alcuna condanna (almeno 25.000 persone secondo dati del governo). Eppure, a parte 15 attivisti liberati a metà marzo su ordine della magistratura, al-Sisi ha proclamato solo una mini-amnistia del tutto insufficiente. La situazione delle carceri egiziane in tempo di pandemia è arrivata persino a interessare il Segretario di stato Usa Mike Pompeo, che in una telefonata al ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha chiesto rassicurazioni sui diritti e la sicurezza dei cittadini statunitensi detenuti in Egitto. Da circa un mese infatti è in sciopero della fame anche Mohamed al-Amashah, giovane con doppia cittadinanza trattenuto da un anno nel complesso di Tora in attesa di processo. Affetto da una malattia autoimmune e da asma, al-Amashah rischia di subire la stessa sorte di Mostafa Kassem, altro cittadino egiziano-americano morto in carcere a gennaio dopo un lungo sciopero della fame. Intanto mercoledì il parlamento ha modificato la legge di emergenza ampliando i poteri della presidenza e delle procure militari, ufficialmente per combattere l’epidemia. Finora in Egitto si sono registrati 4.092 casi di persone positive al Covid-19, e 294 morti correlate. Il regime egiziano, che dal 25 marzo ha imposto il coprifuoco notturno in tutto il paese, è sotto accusa da più parti per le carenze strutturali del sistema e una gestione tutt’altro che trasparente dell’epidemia. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: “In Libia nuove armi letali” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 26 aprile 2020 L’inviata dell’Onu Stephanie Williams denuncia la presenza di droni-kamikaze e di un nuovo super-lanciafiamme russo. Il governo di Tripoli prepara l’assalto finale a Tarhuna. Appello alla tregua umanitaria di Italia, Germania, Francia e Ue: “Fermatevi per il Ramadan”. I tre principali Paesi dell’Unione Europea, assieme al “ministro degli Esteri” Ue Josep Borrell, chiedono una tregua umanitaria in Libia. Italia, Francia e Germania hanno aggiunto oggi la loro voce a quella dell’Onu per chiedere di fermare le armi durante il mese sacro del Ramadan. I ministri degli Esteri italiano Luigi Di Maio, francese Jean Yves Le Drian e il tedesco Heiko Maas sostengono che “il conflitto continua senza sosta, e gli sviluppi nelle ultime settimane aumentano le preoccupazioni, in particolare per la situazione tra la popolazione libica. Chiediamo a tutti gli attori libici di lasciarsi ispirare dallo spirito del mese sacro del Ramadan” e di interrompere gli attacchi. In Libia il conflitto è a un punto di svolta: le milizie e l’esercito del governo di Tripoli hanno circondato Tarhuna, una importante città tenuta dalla milizia di Khalifa Haftar, e si preparano all’assalto finale. Ma nel frattempo il generale di Bengasi sta ricevendo in extremis nuovi rinforzi e nuove armi per provare a fermare le sconfitte che ha subito nelle ultime settimane. Su questo l’inviata dell’Onu Stephanie Williams ha lanciato un allarme molto specifico: “La Libia sta diventando un campo di sperimentazione per nuovi sistemi d’arma”. Violando l’embargo delle Nazioni Unite, in queste ore stanno arrivando armi che ancora non erano state sperimentate in Libia. La Williams ha citato esplicitamente il caso del “Rpo-A”: “È il lanciafiamme/lanciagranate (di fabbricazione russa, ndr) Rpo-A, una sorta di sistema termo-barico che è stato schierato alla periferia meridionale di Tripoli”. Lo Rpo-A è sostanzialmente un lanciagranate che invece di sparare bombe esplosive lancia degli ordigni incendiari che agiscono come lanciafiamme a lunga distanza. Il secondo tipo di armi distruttive citate dalla Williams sono i droni-kamikaze: “Ci sono nuovi droni che stanno arrivando, incluso un tipo che sostanzialmente è un drone-sucida, che esplode al suo impatto a terra. Sono solo due esempi di armi schierate in contesto urbano (alla periferia di Tripoli, ndr) che sono totalmente inaccettabili”. La scorsa settimana il “Governo di Accordo Nazionale” di Tripoli ha anche lanciato un’inchiesta su un possibile uso di armi chimiche da parte della milizia di Haftar attorno a Tripoli. Una fonte libica vicina al Consiglio presidenziale dice a Repubblica: “Non siamo ancora riusciti a esaminare i corpi di alcuni nostri combattenti uccisi, ci sono alcuni segnali tipici dell’uso di armi chimiche, ma in altri casi ci sono i segnali di uso di questo super-lanciafiamme che evidentemente o viene utilizzato da mercenari della Wagner oppure è stato utilizzato da altri miliziani di Haftar”. Siria. Il processo che fa luce sugli abusi del regime di Francesca Gnetti Internazionale, 26 aprile 2020 La sezione 251 era famosa tra i rivoluzionari siriani. L’unità dei servizi segreti aveva una sua prigione su Baghdad street, a Damasco. E tutti sapevano che lì dentro non c’erano interrogatori senza tortura. Il centro di detenzione è composto da diversi edifici collegati e nascosti da un alto muro. Le celle si trovano nei sotterranei e dopo lo scoppio della rivoluzione contro il presidente Bashar al Assad, nel marzo del 2011, si riempirono così tanto che i detenuti erano costretti a dormire in piedi. Chi ne è uscito vivo ha raccontato di persone picchiate fino a svenire, colpite da scariche elettriche, appese per i polsi, infilate dentro uno pneumatico e percosse ancora. L’ufficio di Anwar Raslan si trovava al primo piano. Dal 2008 Raslan dirigeva la divisione delle investigazioni della sezione 251, responsabile della sicurezza interna del paese. Nel 2011 era stato promosso a colonnello. Riceveva gli ordini dall’alto, ma aveva abbastanza potere da decidere della vita e della morte delle persone che si trovavano sotto la sua autorità. Eyad al Gharib era un suo sottoposto. Era incaricato di individuare i manifestanti e arrestarli. Raslan e Al Gharib, che oggi hanno 57 e 43 anni, sono comparsi in un tribunale di Coblenza, nel sudovest della Germania, il 23 aprile, per l’apertura del processo in cui sono accusati di crimini contro l’umanità, stupro, aggressione sessuale aggravata e 58 omicidi. Secondo le ricostruzioni, tra il 29 aprile 2011 e il 7 settembre 2012, Raslan ha ordinato la tortura di almeno quattromila persone, 58 delle quali sono morte. Al Gharib avrebbe fornito assistenza in trenta casi. Sei siriani torturati nei sotterranei di Baghdad street hanno ricevuto l’autorizzazione a testimoniare in tribunale, ma a causa delle restrizioni introdotte per contenere la pandemia di covid-19 in tutta Europa, è prevista la presenza solo di tre di loro. È la prima volta che dei funzionari di alto grado dell’apparato repressivo di Assad sono portati davanti alla giustizia. Finora non si era mai parlato in un’aula di tribunale delle torture inflitte dal regime siriano ai suoi cittadini. Negli anni passati c’erano stati solo procedimenti contro soldati di basso grado in Svezia e in Germania o rinvii a giudizio simbolici nei confronti di figure di alto livello rimaste in Siria. “Siamo di fronte a un momento storico nella lotta per la giustizia in favore delle decine di migliaia di persone arrestate illegalmente, torturate e uccise nelle prigioni e negli altri centri di detenzione governativi in Siria”, ha dichiarato in una nota ufficiale Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. Come spiega Thomas Wieder su Le Monde, il processo è reso possibile dal fatto che la Germania ha fatto ricorso al principio della “competenza universale” che autorizza uno stato a perseguire gli autori di crimini particolarmente gravi a prescindere dalla loro nazionalità o dal luogo in cui i fatti sono stati commessi. Nel 2003, riferisce il Guardian, è stata istituita un’unità speciale per i crimini di guerra presso la polizia criminale federale tedesca, inizialmente incaricata di investigare sui sospetti genocidi avvenuti nella Repubblica Democratica del Congo e durante le guerre nell’ex Jugoslavia. Man mano che migliaia di profughi siriani facevano domanda di asilo in Germania tra il 2015 e il 2017, l’unità ha ricevuto più di 2.800 informazioni sui crimini commessi dal regime di Assad durante la rivoluzione. In particolare le accuse contro Raslan e Al Gharib si basano su due fonti d’informazioni, scrive ancora le Monde. La prima è il dossier che contiene 50mila foto fornite da Caesar, pseudonimo attribuito a un ex ufficiale della polizia militare siriana incaricato di documentare la morte e le torture inflitte ai detenuti nelle carceri di Bashar al Assad tra il 2011 e il 2013 e fuggito dal suo paese nel luglio del 2013. La seconda è costituita dalle denunce fatte alla procura generale di Karlsruhe, nel sudovest della Germania, da una trentina di siriani fuggiti dalle galere di Assad e rifugiati nel paese. Anche Raslan aveva cercato rifugio in Germania. C’era arrivato nel 2014, dopo essere scappato in Giordania alla fine del 2012 per unirsi all’opposizione di cui divenne un rappresentante di spicco, tanto da partecipare a una delegazione per i colloqui di pace promossi dalle Nazioni Unite a Ginevra. Al Gharib ha raccontato di aver disertato nel gennaio del 2012 dopo che tre suoi colleghi erano morti in scontri vicino Damasco e perché gli era stato chiesto di uccidere dei civili. Aveva presentato domanda di asilo in Germania nell’estate del 2018. Entrambi sono stati arrestati nel febbraio del 2019. Raslan non aveva cambiato nome ed è stato riconosciuto per strada da Anwar al Bunni, un avvocato siriano da lui arrestato nel 2005 e rimasto in carcere per cinque anni per il suo lavoro a difesa dei diritti umani. Alcuni osservatori, soprattutto all’interno dell’opposizione siriana, temono che perseguire un disertore possa dissuadere altri ex funzionari di Assad da fornire informazioni per il timore di finire sotto processo. Altri, come sottolinea Ben Hubbard sul New York Times, temono che “un numero ridotto di simili azioni penali possa far sì che i governi europei sentano che stanno facendo abbastanza e non c’è bisogno di altri sforzi per portare Assad e i suoi subordinati di fronte alla giustizia”. L’unità per i crimini di guerra della polizia federale tedesca sta assumendo nei confronti del regime siriano un approccio simile a quello che portò al processo di Norimberga organizzato dagli alleati dopo la seconda guerra mondiale per perseguire i capi nazisti, basato sull’analisi dei singoli ruoli svolti dagli individui all’interno del regime. Come ha spiegato in una nota Wolfgang Kaleck, segretario generale dell’European center for constitutional and human rights, la principale ong che assiste le persone sfuggite alle carceri siriane nella loro ricerca di giustizia, l’unità ha messo da parte una grande quantità di prove che aiutano a comprendere tutti gli ingranaggi del regime di Assad, nella speranza che si apriranno altri processi contro gli ex funzionari siriani nei paesi europei. “L’essenziale è che abbia luogo un primo processo”, ha detto Kaleck a Le Monde, “Se ce n’è uno, vuol dire che ce ne potranno essere altri. L’importante è cominciare un movimento, creare un precedente”. Anche Lynn Maalouf di Amnesty International la pensa così: “In un momento in cui i siriani si sentivano abbandonati dalla comunità internazionale, questo processo rinnova la speranza che almeno un po’ di giustizia sia possibile. Tutti i sopravvissuti e le famiglie delle vittime hanno diritto alla verità, alla riparazione e alla giustizia”. Le sparizioni forzate, le torture e le uccisioni avvengono ancora nelle carceri siriane. Ma finora tutti gli sforzi per giudicare gli autori e i complici dei crimini commessi dal regime di Assad si sono scontrati con due ostacoli: il fatto che la Siria non ha firmato lo statuto di Roma, il testo fondatore della Corte penale internazionale, e il veto della Russia al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha bloccato tutti i tentativi di chiamare in causa il tribunale. Per questo sono in molti a sperare che il processo, che potrebbe durare due o tre anni, non sia solo uno strumento per dimostrare le colpe di Raslan e Al Gharib, ma serva a mettere a nudo il sistema violento alla base del potere di Assad, che in nove anni di guerra ha distrutto intere città, ha ucciso centinaia di migliaia di persone, usando anche le armi chimiche, e ha costretto undici milioni di siriani a lasciare le loro case. E, soprattutto, possa mandare un messaggio a chi in Siria continua a sopravvivere sotto il regime. Come dice Al Bunni intervistato dal quotidiano libanese L’Orient-Le Jour: “Il processo in Germania manda un messaggio chiaro ai torturatori in Siria che continuano a commettere crimini in totale impunità. E manda anche un messaggio di speranza alle vittime, ai sopravvissuti e alle loro famiglie”. Argentina. Buenos Aires: una guardia è positiva al Covid, rivolta in carcere it.euronews.com, 26 aprile 2020 Numerosi detenuti del carcere di Devoto, a Buenos Aires, hanno dato vita ad una rivolta dopo aver appreso che una delle guardie della struttura è risultata positiva a Covid-19. La protesta si è diffusa in vari padiglioni e i detenuti hanno preso il controllo di almeno due piani dell’edificio, chiedendo trasferimenti e controlli sanitari per paura di un contagio di massa. In alcune aree della struttura, i prigionieri hanno bruciato i materassi e molti di loro sono saliti sui tetti della prigione, dopo aver rotto le coperture di lamiera. “Covid-19 è nel Devoto. Giudici genocidi. Il silenzio non è la mia lingua”, si legge su un cartello appeso dai detenuti alle finestre del carcere. Due giorni fa, un’altra violenta rivolta si era verificata nella prigione di Florencio Varela, alla periferia di Buenos Aires. A causarla, il messaggio audio “fake” di un falso medico che segnalava la presenza del coronavirus nella prigione. Mauritania. In carcere l’attivista antischiavista Mariem Cheikh dire.it, 26 aprile 2020 La Federazione Italiana Diritti Umani (Fidu) esprime in una nota seria preoccupazione per la sorte della attivista Mariem Cheikh, una delle dirigenti del movimento Ira-Mauritania, che lotta contro la schiavitù cui ancora sono sottoposti molti appartenenti alla minoranza nera Haratin nel Paese. Mariem Cheikh, madre di un bambino di meno di 2 anni, è stata arrestata il 13 aprile e per alcuni giorni le autorità non hanno comunicato dove fosse né le hanno assicurato l’accesso a un avvocato. Il 20 aprile numerosi militanti antischiavisti hanno manifestato per chiedere la sua liberazione, ma la manifestazione è stata repressa violentemente. La Fidu riferisce che Ira-Mauritania, non riconosciuta ufficialmente dal governo mauritano ma apprezzata a livello internazionale, ritiene che l’arresto sia stato dovuto a un post su Facebook contro i “mauritani bianchi” (Bidhans) che costituiscono la popolazione dominante. L’accusa sarebbe di violazione della legge 23 del 2018 che criminalizza la discriminazione, ma che secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, tre relatori speciali delle Nazioni Unite e il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd) manca di chiarezza giuridica e definisce la discriminazione in modo non conforme alla Convenzione internazionale in materia. La Federazione Italiana Diritti Umani ritiene che le autorità della Mauritania userebbero questa legge quindi strumentalmente per imbavagliare gli attivisti contro la schiavitù e impedire loro di denunciare le ingiustizie di un sistema “razzista e suprematista”. Secondo diverse associazioni per i diritti umani e Sos Slaves, l’arresto è avvenuto in modo provocatorio, disumano e irrispettoso delle disposizioni di leggi nazionali e convenzioni internazionali che garantiscono ai detenuti tutti i loro diritti umani, come consentire ai propri familiari di conoscere il luogo di detenzione, avere l’assistenza di un avvocato e comparire davanti a un magistrato entro i termini previsti. Per gli attivisti dell’Ira-Mauritania, “l’arresto di Mariem Cheikh è il segnale dell’ostilità che il regime del presidente Mohamed Cheikh Ghazwani, la cui elezione a giugno scorso è stata contestata dalle opposizioni, intende aprire contro il movimento di Ira-Mauritania, con lo stesso slancio del suo predecessore”. In febbraio, il leader della lotta antischiavista nonviolenta in Mauritania nonché deputato dell’opposizione Biram Dah Abeid, parlando al Summit di Ginevra per i diritti umani e la democrazia, aveva definito il sistema di potere in Mauritania “una forma di apartheid”. Il governo mauritano sostiene che, come nel diritto francese cui si ispira la Mauritania, nell’ordinamento interno la Costituzione mauritana ha il primato sugli impegni internazionali e in particolare sui trattati. Tuttavia, la Costituzione del 1991 stabilisce nel preambolo che la sharia (la legge islamica) è l’unica fonte di diritto in Mauritania, mentre agli articoli 1 e 5 definisce la Mauritania una Repubblica islamica e l’Islam religione del popolo e dello Stato. Ricordando che i diritti umani sono universali e devono valere per tutti e ciascuno al di là di qualsiasi interpretazione relativista, la Fidu chiede alle autorità della Mauritania di rilasciare Mariem Cheikh e di consentire un processo equo secondo gli standard internazionali.