La bomba nascosta di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 25 aprile 2020 Ogni giorno entrano ed escono dalle carceri trentamila persone. Se scoppia un focolaio è un disastro anche per le città che le ospitano. Volete che non ci sia la sempiterna ombra della mafia anche dietro le rivolte nelle carceri? Ci sono già segretissimi dossier sul tavolo delle procure di mezza Italia. Si indaga su regie occulte ed esterne ai penitenziari, su boss che mandano avanti i malacarne e organizzano le ribellioni di città in città nei giorni del Coronavirus, su pericolosi intrecci fra mafiosi di tutte le mafie ed estremisti di varia natura e colore. Magari venissero smascherati e in fretta. Ed invece si corre il rischio di fare esplodere una bomba sanitaria mentre i fascicoli delle inchieste si riempiono di molti sospetti e tantissime chiacchiere. Il rischio è duplice, perché nell’ombra si confondono le responsabilità di chi al governo dimostra di considerare secondario il tema del Covid-19 negli istituti di pena. Nessun piano di emergenza, nessuna pronta risposta, nessuna programmazione. E quel poco che si è fatto ha provocato un tale pandemonio che era meglio non prendere iniziative. In compenso la pancia del paese si mostra soddisfatta. Che i detenuti se ne stiano in carcere e zitti per le colpe che hanno commesso. Il populismo giudiziario è ormai una deriva. Dice bene Santi Consolo, fino a un anno e mezzo fa capo del Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, e oggi presidente onorario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, quando propone un cambio di prospettiva: “Le precauzioni, le attenzioni e le cautele non bisogna predisporle per spirito cristiano o altruismo, ma per puro egoismo in favore del personale che non è detenuto, ma non ha smesso di lavorare in carcere per alto senso del dovere. Abbiamo visto cosa è successo nelle residenze per anziani, la propagazione del virus sarebbe micidiale”. Non rischiano solo i 54.998 detenuti, ma anche “le 30.000 persone che giornalmente vanno a lavorare nei 190 istituti di pena d’Italia, ubicati in gran parte nei centri urbani delle città”, spiega Consolo, “sono trentamila paia di gambe attraverso cui il virus si potrebbe muovere a doppio senso di circolazione, in entrata e in uscita. Non saranno le sbarre a fermarlo. Agenti penitenziari, personale amministrativo, educatori, uomini e donne che la sera rientrano a casa in famiglia: non si può correre il rischio di intervenire quando sarebbe troppo tardi”. Eppure i segnali per capire che il problema è serio sono arrivati da più parti. Basta metterli in sequenza: gli avvocati penalisti se la prendono, un giorno sì e l’altro pure, con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, big sponsor del capo del Dap Francesco Basentini; i sindacati degli agenti della polizia penitenziaria e alcune forze politiche chiedono con forza le dimissioni di entrambi; il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi parla di “concreto e attuale rischio epidemico” per cui sarebbe opportuno “incentivare le misure alternative”, visto che il carcere nel nostro sistema “costituisce l’extrema ratio”; Papa Francesco coinvolge i detenuti e affida loro i pensieri da leggere durante la Via Crucis e non c’è messa in cui non rivolga una carezza ai carcerati. E il governo che fa? Finora sono stati concessi gli arresti domiciliari a circa seimila detenuti. I manettari denunciano il “liberi tutti” sotto forma di indulto mascherato, si scandalizzano per lo Stato che si piega di fronte ai delinquenti, mostrandosi debole. Pugno duro ci vuole. Consolo prova ad analizzare i numeri senza partigianeria: “La capienza effettiva, cioè i posti agibili, erano 47mila prima delle rivolte che, da ciò che leggo sui giornali, i manettari primi giorni di marzo hanno provocato danni per alcune decine di milioni di euro in moltissimi istituti penitenziari. È ragionevole ipotizzare che almeno altri duemila posti siano andati persi. In carcere ci sono oggi 55 mila detenuti. Mi pare che il sovraffollamento sia evidente e la deflazione degli ultimi giorni è dovuta al ruolo di supplenza che ha svolto la magistratura, non di certo alle iniziative del governo”. Secondo l’ex capo del Dap, i reati sono notevolmente diminuiti negli ultimi due mesi, i magistrati hanno ritardato ordini di carcerazione e concesso, laddove possibile, gli arresti domiciliari. Non ci sono stati nuovi ingressi in carcere solo perché la magistratura ha fatto prima della politica (la storia ci insegna che non sempre è stato un bene), ma è contro la politica che si finisce per sbattere. Basta citare la farsa dei braccialetti elettronici alla cui applicazione viene subordinata la concessione degli arresti domiciliari. “Personalmente ritenevo che, stante l’emergenza, almeno diecimila braccialetti si sarebbero potuti reperire con immediatezza”, dice Consolo, e invece i braccialetti sono pochissimi, costosissimi e introvabili. I detenuti sono in lista di attesa. Capita che restino in carcere fino a quando non si trovi uno degli aggeggini da piazzare alle caviglie. Una nuova fornitura di 4700 pezzi è prevista per fine maggio, pare. “È l’ennesimo ritardo”, dice Consolo, “il 31 gennaio il governo ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria. Di conseguenza si è assunto anche il compito di assicurare, per quanto possibile, la cura della vita e della salute di tutti, nessuno escluso. Cosa è stato fatto dal 31 gennaio al 7 marzo 2020, quando si è avuta notizia di gravi rivolte e disordini dentro le carceri? Si è fatto il punto della situazione attuale? Almeno tre forze politiche che sostengono il governo hanno chiesto le dimissioni del capo del dipartimento. Non spetta a me dire se siano stati commessi degli errori, cosa sia giusto e cosa sbagliato, e mi interessa poco. Non giudico il lavoro del capo del Dipartimento. Se nulla è stato fatto”, aggiunge, “devo ritenere che ha bene operato e merita di continuare a gestire questa emergenza”. Da una parte si impone il distanziamento sociale come regola principale per il contenimento dei contagi nella vita di tutti i giorni, dall’altra le carceri sono sovraffollate e il distanziamento resta inapplicato e inapplicabile. Lo sono da sempre strapiene, le carceri, ma nei giorni di pandemia non ci si può girare dall’altra parte: “Devo ripetere cose ovvie, e nessuno può dire che non lo sapeva: i detenuti si trovano in condizione coatta di non distanziamento interpersonale, le condizioni igieniche non sono delle migliori, in molte sezioni non c’è possibilità di disporre di docce in camera, ma nei corridoi, quattro o cinque persone condividono la stessa cella. Gli agenti di polizia penitenziaria continuano a reclamare mascherine, guanti, schermi protettivi, igienizzanti. Si annuncia che le mascherine saranno prodotte in carcere, ma non ci sono riscontri soddisfacenti a queste affermazioni”. Eppure per Consolo, che nel lavoro come occasione di riscatto ha sempre creduto, negli istituti di pena ci sono macchinari e maestranze che da subito avrebbero potuto e dovuto produrre mascherine, ma si è finiti nel pantano della burocrazia e delle autorizzazioni dell’Istituto superiore di sanità. È giusto che i dispositivi siano a norma, ma non si possono aspettare i tempi ministeriali per rifornire ottanta mila persone, fra detenuti e personale, delle mascherine necessarie. Tra detenuti e agenti si contano circa trecento casi di positività al Covid-19, anche se i dati non sono aggiornati. Pochi si potrebbe pensare, troppi se, come suggerisce Consolo, iniziassimo a considerare gli istituti penitenziari alla stessa stregua di “fabbriche mai chiuse” dove la paura del contagio si somma alla pressione psicologica della detenzione. del Paese. Ci sono tutti gli strumenti per sapere quali benefici si possono dare ai detenuti che stanno scontando una pena senza provocare allarme sociale. Penso a chi deve scontare residui di pena anche fino a due anni o poco più per reati non particolarmente allarmanti o, in alternativa, ai detenuti che hanno dato prova di buona partecipazione al loro recupero sociale. Non si devono mettere in libertà, ma vanno applicate misure alternative al carcere. È così che si dovrebbe ragionare per non compromettere la sicurezza pubblica. I magistrati di sorveglianza sono disposti a collaborare, hanno lanciato un appello ma il ministro della Giustizia ha ritenuto opportuno non rispondere”. Due anni o poco più, dunque niente mafiosi libertà per mafiosi con lunghe pene da scontare? “Siamo seri, di sicuro i mafiosi sono sottoposti a un regime di isolamento che li obbliga al distanziamento sociale. Pensi ai detenuti al 41bis. Per gli ergastolani non al 41bis sono previste stanze singole. Loro sì che rispettano il distanziamento. Va ricordato comunque che le misure alternative sono concesse dal Tribunale di Sorveglianza organo collegiale e sono soggette a impugnazioni”. A conti fatti ci sono circa diecimila detenuti in più rispetto alla capienza massima degli istituti di pena. Ci sono due strade da percorrere. La prima, conclude Consolo, “è eseguire tamponi a tappeto, rendere noti i risultati, fare un bollettino almeno bisettimanale sul modello giornaliero della Protezione civile” e nel frattempo - ed ecco la seconda strada - “valutare seriamente misure alternative al carcere con efficacia deflattiva, avviare il dialogo con tutti gli operatoti e con la popolazione detenuta secondo criteri di verità, trasparenza e correttezza dei dati forniti per disinnescare la bomba rischio salute alimentata dalla non conoscenza della situazione reale”. In realtà, c’è una terza strada: girarsi dall’altra parte. E se nelle carceri oggi cantassero Bella Ciao? di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 25 aprile 2020 Repressione e democrazia. Memorie resistenti delle galere fasciste. Detenuti e violati: chi ha combattuto il nazifascismo conobbe la tortura. E la ripudiò. Imprigionati, stremati, torturati nelle carceri del regime fascista. Le memorie partigiane costituiscono un affresco tragico della vita in galera. “Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”, scriveva Piero Calamandrei nel 1949. “A pensarci bene, credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale”, gli replicava Altiero Spinelli, che scontò ben 10 anni nelle carceri di Lucca, Viterbo e Civitavecchia. La pena è afflizione. La galera non ha nessun legame con la rieducazione. Sono fermamente convinto dell’inutilità del carcere, come è organizzato attualmente. Non corregge il colpevole, ma lo avvilisce e a lungo andare lo stronca fisicamente, oltre che moralmente”, scriveva Michele Giua, chimico, appartenente a Giustizia e Libertà, condannato a 15 anni di carcere, di cui ne espiò oltre la metà. Dissidenti e partigiani hanno vissuto in carcere a fianco ai detenuti comuni, mai guardandoli dall’alto verso il basso. “Già, la galera è fatta per i cristiani ma troppe volte questi ci stanno alla maniera delle bestie”, affermava Giancarlo Pajetta, che ha trascorso 12 anni e 6 mesi nelle carceri per minorenni di Torino, Roma e Forlì e in quelle per adulti di Bologna, Roma, Civitavecchia e Sulmona. Un vero esperto di galere italiane. “La galera è galera”, è la tipica espressione auto-assolutoria di chi interpreta l’istituzione penitenziaria con un cinismo intollerabile. Quello stesso cinismo che Vittorio Foa, condannato nel 1936 a 15 anni di reclusione e liberato nel 1943, riassunse nel descrivere il direttore del carcere di Civitavecchia: “Era una gelida canaglia”. Secondo Lucio Lombardo Radice, matematico che scontò circa due anni di prigione tra il 1940 e il 1942: “La deformazione carceraria arriva, necessariamente, fino all’assurdo, nell’agente di custodia”. Il carcere, nella sua innaturale essenza dolorosa, è più forte dell’umanità dei custodi. “La Custodia non tollera l’allegrezza, specialmente collettiva, dei condannati. I detenuti li si vorrebbe rassegnati e tristi”, scriveva Francesco Fancello, tra i fondatori del Partito sardo d’azione, che scontò 5 anni nelle carceri di Viterbo, Civitavecchia e Roma. Fortunatamente, nelle carceri c’è stato un processo di democratizzazione che ha reso molti direttori e poliziotti capaci di resistere a chi chiedeva loro di far marcire i detenuti in galera. La vita dei custoditi è nelle mani dei loro custodi, e da questi dipende il loro destino. “Mi accompagnarono fino a Foggia un appuntato e un carabiniere… Cominciammo male fino dal primo momento; mi misero le manette così strette che mi fecero subito male. Io tacqui sopportando il dolore iniziale ben deciso a sopportare in silenzio: in nessun caso e per nessuna ragione avrei domandato di allentarmele. Dovevo risparmiare quell’umiliazione”. così Giulio Turchi, comunista sovversivo, scrisse in un meraviglioso diario d’amore alla sua moglie Emma, dopo dieci anni di carcere fascista, mentre due guardie lo stavano accompagnando al confino. La repressione fascista era un mix di violenze, abusi, segregazione, tortura. Alcuni resistevano alle torture, altri no. Così Adele Bei, sette anni e mezzo di carcere, più due e mezzo di confino: “I continui interrogatori, le botte, gli strilli, gli insulti che durarono dieci giorni nei sotterranei della Questura di Roma, a nulla valsero. A verbale fu trascritto “La sottoscritta non intende dare spiegazioni sul suo operato”. Luciano Bolis fu torturato per lunghi quindici giorni a Genova nel 1945 nelle carceri fasciste. La tortura tornerà tragicamente a Genova nel luglio del 2001. “Come convenuto, il capitano “Pietrino” Loretelli diede però l’ordine agli artificieri” e così saltò il ponte della Badia per rendere difficile il transito ai tedeschi lungo la Sassoferrato-Scheggia. Sono state vite lunghe, quelle partigiane, come quella di Woner Lisardi, morto sul finire del 2018. Mentre suo padre scappava dal carcere fascista, lui a 19 anni diventò partigiano e così ricordava il suo 25 aprile 1945: “Tutta la piazza, unita in un moto di fraternità solidale e di grato ricordo delle nostre imprese e di tutti i morti che c’erano stati, si trovò a cantare Bella Ciao. Fu uno dei momenti più belli della mia vita”. Sarebbe bello se anche dalle prigioni italiane si sentisse oggi cantare Bella Ciao, inno della libertà e della liberazione. Le carceri al tempo del Coronavirus: paure, problemi e tensioni di Massimo Rossi* consulpress.eu, 25 aprile 2020 Il carcere è un luogo alieno alla collettività, mentre invece dovrebbe essere una dimensione in cui la collettività si riconosce e riconosce sé stessa in una fase particolare: quella della espiazione. Le carceri in letteratura sono sempre state descritte o come luoghi di penitenza massima con indicibili sofferenze per i condannati, o luoghi assoluti rispetto alla società civile, specchio di una perfezione quasi maniacale nell’infliggere la pena. Le carceri sono state anche luoghi in cui venivano rinchiusi i dissidenti e prigionieri di guerra. Luoghi comunque lontani al sentire della persona integrata. In questa ottica ognuno di noi pensa di sapere cosa sono le carceri ma in realtà non lo sa sino in fondo. Non sa soprattutto cosa dovrebbero essere in Paese civile e democratico. Certo non un luogo in cui tutto è possibile e dove i reclusi perdono i loro diritti. Ma ancora oggi nei commenti delle persone si avverte questo; il carcere, come dimensione aliena, rispetto alla collettività civile. Come è il carcere lo sanno coloro che hanno studiato diritto (ma non tutti) e coloro che in qualche misura si sono occupati di detenuti; lo sanno gli operatori penitenziari, lo sanno le famiglie e i figli dei reclusi e lo sanno i diretti interessati. Il carcere è un luogo in cui la società (nel rispetto dei dettami normativi sostanziali e processuali) tiene separati da sé stessa dei soggetti condannati ad una pena detentiva o collocati in applicazione di una misura cautelare. Ciò perché deve assolvere fondamentalmente due funzioni per i detenuti: quella di espiazione di una pena e quella di misura di contenimento per esigenze cautelari. Nel secondo caso è una eccezione che deve essere ben valutata e la sua applicazione deve avvenire sempre nel rispetto delle leggi vigenti. Nel primo caso il carcere è il luogo ove un imputato condannato ad una pena definitiva è recluso in ossequio all’art. 27 Cost. che recita che la detenzione deve tendere alla rieducazione del soggetto in questione. Rieducazione che ha il fine principale di ricondurre nella collettività e nella società civile all’esito della espiazione, un soggetto in grado di rapportarsi ad essa senza commettere altri reati. La cosa che sfugge ai più (ai non addetti ai lavori in modo particolare) è che nel momento in cui lo Stato prende in carico un detenuto - sia quale soggetto sottoposto a misura cautelare, sia quale soggetto che deve espiare una pena detentiva definitiva - lo Stato è responsabile della persona che ha ospitato all’interno dell’istituto penitenziario. Questo è un passaggio fondamentale; questo è un passaggio di civiltà etica e giuridica. Come è fondamentale, in virtù dei principi della nostra Carta Costituzionale, che il soggetto interessato non possa essere sottoposto a misure che vadano ad incidere sulla sua integrità psicofisica o, peggio, siano degradanti o disumane. La pena è un tempo nel quale lo Stato limita la libertà personale ma ha una funzione ben precisa: quella di rieducare il reo per ricondurlo nella società. Fatta questa rapida, ma speriamo non inutile, disamina, parliamo di come in realtà sono tenute le carceri italiane attualmente. Le case di reclusione sono tutte (o quasi) in una condizione di sovraffollamento e quindi in una situazione in cui il detenuto è in sofferenza e lo sono anche gli agenti di polizia penitenziaria. Questo fatto determina che gli agenti penitenziari e le strutture che assistono i detenuti sono in forte difficoltà non tanto e non solo nel contenimento dei soggetti reclusi quanto nel consentire agli stessi l’esercizio di quei diritti ad essi riconosciuti che sono il cuore della rieducazione del reo. Correndo il rischio di essere ripetitivi, vogliamo sfatare un diffuso luogo comune, secondo il quale i detenuti non avrebbero diritti. I detenuti godono di tutti i diritti costituzionali garantiti ai cittadini, escluso quello della libertà di circolazione. I detenuti godono altresì di tutti i diritti previsti dal diritto penitenziario e quindi possono godere di tutti quei benefici previsti in tema di riduzione dei tempi della pena, in ragione della buona condotta del reo. In una situazione già difficile per l’affollamento oltre il numero consentito si è inserito da un lato l’insorgenza del virus e dall’altro un’informazione martellante e decisamente contraddittoria come quella che si è avuta dal 20.02.2020. Ovvio che il virus presentato dai mezzi di comunicazione come altamente trasmissibile, altamente pericoloso specie in chi ha (magari) altre patologie, altamente virulento in spazi ristretti e per questo necessitante di distanziamento sociale per eliminare i rischi di trasmissione, ha generato un comprensibile stato di confusione all’interno degli istituti di pena (in particolare in quelli più sovraffollati). L’istituto di pena è per sua natura un luogo in cui le persone stanno molto a contatto e devono fidarsi le une delle altre; sì, fidarsi, intendendo di poter credere nelle persone con cui si condividono gli spazi, anche se può sembrare strano visto il luogo e le persone che lo abitano. In realtà il carcere è il mondo di dentro, il mondo limitato, ma è in ogni caso vita e relazioni. Un’informazione non precisa e puntuale ha portato i detenuti ad andare in fortissima agitazione. Ad aggravare ciò il Governo - senza spiegare nulla - ha pensato bene di vietare i colloqui con i parenti. Si badi bene che nella logica di evitare il contagio, la misura può essere considerata ineccepibile (sebbene non la migliore) ma in un contesto di mancanza di informazioni o di informazioni parziali e/o imprecise, il discorso cambia e parecchio; se poi si considera lo stato di sofferenza degli individui la miscela per ovvie ragioni diventa esplosiva. I colloqui con i parenti sono la finestra sul mondo esterno, sono la normalità che entra in carcere, sono la vita di ogni giorno che penetra le mura del penitenziario. Chiudere i colloqui (dicendo poco o niente) era inevitabile che fosse un comportamento altamente pericoloso. La cella non è più un luogo di protezione ma viene percepita come un luogo in cui il detenuto è in pericolo, in balia di un virus e quindi in attesa della morte; lasciato lì a morire in perfetta solitudine e senza cure (non sarebbe mai accaduto ma la percezione dei detenuti deve essere stata verosimilmente questa.) I detenuti hanno percepito, e non poteva essere altrimenti, il vuoto attorno a loro; il vuoto umano e si sono sentiti come buttati nella pattumiera dalla società esterna, dalle persone libere. In una situazione già esplosiva si è determinato quel corto circuito che ha generato le rivolte. Molti hanno detto e scritto che le rivolte erano preordinate; personalmente non credo che così fosse ma semplicemente il sentimento di sgomento e di abbandono è stato generalizzato. Purtroppo, le rivolte hanno procurato anche dei morti (tutti tra i detenuti) e delle devastazioni; oltre che delle evasioni di massa (come nel carcere di Foggia). La realtà era che non evadevano per scappare ma per salvarsi. Questo va capito, altrimenti si sfalsa tutto il ragionamento. Ci si deve chiedere se tutto ciò potesse essere evitato. Riterrei di si, in luoghi già per definizione a rischio, dove la comunicazione è grandemente limitata, a maggior ragione deve intervenire la prevenzione. Si doveva informare prima e spiegare poi la portata delle misure che venivano adottate e dare una dimensione esatta al fenomeno. L’incertezza rende gli uomini vulnerabili e pericolosi per loro stessi e per gli altri. Si doveva rappresentare che lo stop ai colloqui era momentaneo e che poi sarebbero ripresi (come è successo) i colloqui protetti a tutela di tutti. Necessario sarebbe stato un provvedimento “svuota carceri”, non una amnistia ma una misura che mettesse alla detenzione domiciliare tutti coloro che hanno un residuo pena di 3 anni (con il braccialetto elettronico) o inferiore e tutti coloro che hanno un residuo pena pari o inferiore ad anni 1 e mesi 6 senza altra misura di controllo (senza braccialetto elettronico). Purtroppo, anche qui, tocchiamo un tasto dolente: i braccialetti non ci sono e non essendoci abbastanza questa ipotesi diventa non realistica e non attuabile. Questa ipotesi avrebbe consentito di rendere le carceri molto più vivibili e quindi più in linea con uno spirito rieducativo della pena. In un panorama di sovraffollamento, di detenuti per lo più stranieri e con patologie, il clima venutosi a creare con il virus non poteva che essere letale per tutti: detenuti, agenti e parenti dei detenuti. La ragione storica di tutto ciò è però paradossalmente molto più semplice. La situazione carceraria non è mai stata al centro di nessun programma di governo degli ultimi 30 anni; non è un argomento che raccoglie consensi se non utilizzato per un giustizialismo becero ed ignorante. Vorrei fare riflettere su una cosa: l’immagine in questo senso aiuta. Molti di voi avranno visto i video della fuga di massa dall’Istituto Penitenziario di Foggia, se si guardano con attenzione i detenuti che escono dalla porta principale, si può distintamente vedere il loro smarrimento. È lo smarrimento della libertà conquistata illegalmente; sembrano gazzelle braccate da leoni più che persone libere (infatti non lo sono). Ma attenzione, essi non sfuggono al carcere, alla pena, alle guardie o ad altro se non al virus che non hanno ma che ha colpito le loro menti e si chiama: terrore. La stragrande maggioranza è tornata in carcere, si è costituita e solo uno sparuto gruppo è stato ripreso qualche giorno dopo. La libertà ottenuta con una evasione non è libertà ma promessa di una ulteriore carcerazione ma loro lo facevano per sottrarsi alla morte non per sottrarsi alla pena. Lo Stato deve prendersi cura effettiva dei detenuti perché una volta che costoro lasciano gli istituti e sono restituiti alla vita reale devono essere soggetti integrati. Occorre dunque una politica di contenimento nella prospettiva di un reinserimento altrimenti tali luoghi diventano solo centri di specializzazione del crimine e centri in cui il soggetto viene disumanizzato. *Avvocato Penalista e Cassazionista in Siena Giachetti: “Trasferimento di detenuti positivi al Covid-19” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2020 Ennesima interrogazione del deputato di Italia Viva. Si chiedono notizie sui detenuti di Bologna arrivati a Tolmezzo e sugli altri spostamenti dopo le rivolte dello scorso 7 marzo. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, è una mosca bianca in un Parlamento dove fioccano interrogazioni sulla vicenda di alcuni detenuti al 41bis mandanti ai domiciliari per motivi gravi di salute, dove in realtà i fatti sono cristallini e a tratti anche ovvi visto che viviamo ancora in uno Stato di Diritto. Giachetti, invece, quasi in solitudine, chiede al ministro della Giustizia e a quello della Salute trasparenza sui dati, trasferimenti e misure per prevenire il contagio Covid-19 nelle carceri. Giachetti si fa portavoce del Partito Radicale, che vorrebbe avere risposte chiare su ciò che sta avvenendo nelle nostre patrie galere. Il deputato parte dalla premessa che secondo quanto riportato da testata triesteallnews.it sui 5 detenuti che erano stati trasferiti dal carcere di Bologna a quello di Tolmezzo sono risultati positivi al Covid-19. Un fatto - secondo i sindacati - che poteva essere evitato, se fossero stati bloccati i trasferimenti degli utenti. Il deputato cita anche la notizia data da Il Dubbio, nella quale la moglie di un detenuto trasferito da Bologna a Tolmezzo, ha denunciato che il marito, affetto da gravi patologie anche tumorali, sarebbe risultato positivo al Covid-19 e si troverebbe in isolamento con un altro detenuto positivo, in condizioni igieniche disastrose. Giachetti parte anche dal presupposto che le notizie di trasferimenti di detenuti sono reperibili su tutti i mezzi di informazione, soprattutto a seguito delle rivolte che si sono verificate in numerose carceri italiane a partire dal 7 marzo 2020 e sulle quali ha riferito in aula a Montecitorio il ministro della Giustizia l’11 marzo 2020. Nell’interrogazione ha anche sottolineato alcuni aspetti. A partire dal fatto che sono stati effettuati migliaia di trasferimenti in piena epidemia Covid 19 in corso. Giachetti spiega che i detenuti positivi al coronavirus sono in aumento. Alla luce di tutto questo Giachetti chiede ai ministri diversi chiarimenti. A partire dalle effettive condizioni in cui si svolge l’isolamento delle 5 persone - risultate poi positive al tampone - trasferite da Bologna a Tolmezzo. Chiede quale sia il numero dei detenuti trasferiti dal 7 marzo 2020 in poi con specificazione dell’istituto di partenza e di destinazione. Quali precauzioni siano state prese per evitare il diffondersi del contagio nelle operazioni di trasferimento dei detenuti e se non si ritenga di doverle sospendere. Il deputato chiede anche quanti tamponi sono stati eseguiti nei confronti dei detenuti trasferiti a vario titolo e se ci siano tutti gli accessori per garantire l’isolamento sanitario Infine chiede quale sia il motivo per il quale le “schede trasparenza degli istituti penitenziari” non siano aggiornate costantemente almeno a ritmo mensile e se i ministri non ritengano necessario adottare le iniziative di competenza per verificare le condizioni sanitarie delle carceri secondo il modello di cui all’articolo 286bis codice di procedura penale, che riguarda il diverso profilo della situazione legata all’Hiv. Csm: nessuno difende i giudici che scarcerano? di Piero Sansonetti Il Riformista, 25 aprile 2020 Cascini, capo della corrente di sinistra, aveva chiesto provvedimenti contro il laico professor Lanzi. Aveva detto: non si criticano i magistrati. E su Di Matteo che ha accusato di mafia i colleghi? Silenzio, è un alleato. Il Csm tace, tace, tace. Eppure è successa una cosa che non ha precedenti: un suo membro togato ha accusato i colleghi del tribunale di sorveglianza di Milano di aver ceduto al ricatto mafioso. Ha detto esattamente così. Non c’è nessuna forzatura nel far notare che li ha accusati di concorso esterno. Il membro togato in questione, lo sapete, è Nino Di Matteo. Il casus belli è la scarcerazione con otto mesi di anticipo (anzi, il differimento degli ultimi otto mesi di pena) di un detenuto che ha già scontato più di 17 anni per estorsione (mafiosa) e stava al 41bis, e ha il cancro, ed è malato di cuore, e ha 78 anni. Possibile che nessuno nel Csm o nell’associazione magistrati scatti a difesa dei suoi ragionevolissimi colleghi di Milano? Eppure ci sono tanti precedenti nei quali Csm e Anm sono scattati eccome a difesa dei magistrati, solo perché questi erano stati criticati. Penso al caso-Gratteri (il povero procuratore generale di Catanzaro, Lupacchini, è stato cacciato e degradato sul campo, dal Csm, per aver criticato l’intoccabile Gratteri: cose mai viste), o penso alla Procura di Firenze, difesa a spada tratta sempre da Csm e Anm, perché qualche giornale (pochi) e Matteo Renzi l’avevano criticata per una inchiesta che non si sa bene neppure che fi ne abbia fatto, ma che suscitò un pandemonio giornalistico e televisivo. Ora io ricopio tre righe dell’intervento svolto tre giorni fa dal consigliere togato del Csm Giuseppe Cascini, capodelegazione della corrente di Area (che è la corrente di sinistra, costituita essenzialmente dal vecchio gruppo di Magistratura democratica) in polemica con il consigliere non togato del Csm, il professor Lanzi, che aveva, in un’intervista, denunciato il processo mediatico messo in moto a Milano contro la Regione Lombardia. Io non so se Lanzi avesse ragione o torto. So quale era (almeno fi no a giovedì mattina) il parere di Cascini. Eccolo: Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni ed espressioni che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio precedente. Dopodiché Cascini ha intimato a Lanzi di smentire l’intervista (con una specie di moderno autodafé, pratica di autocritica medievale che effettivamente è sempre stata abbastanza ben vista da qualche settore della magistratura italiana) prevedendo in alternativa l’apertura da parte del Csm di una “pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano”. Ora capite bene che le dichiarazioni di Lanzi (che oltretutto non è un togato, e che all’interno del Csm appartiene alla minoranza) sono rose in confronto alle bordate di Di Matteo. Lanzi, ovviamente, non ha accusato nessuno di intelligenza con la mafia. Come è possibile a questo punto non aprire una “pratica a difesa” dei magistrati milanesi messi sotto accusa da Di Matteo? Io penso che non basti neppure la “pratica a difesa” (della quale, comunque, ancora nessuno ha parlato). Cascini (vi giuro: è uno dei pochi magistrati importanti che non mi sta affatto antipatico, anzi, che spesso ho apprezzato per molte sue posizioni, stavolta proprio no) è il capo di Area, come dicevamo, e Area, alleata coi davighiani e coi non-togati grillini, ha la maggioranza assoluta in Csm, e comanda, e decide le nomine, e spartisce, ovviamente, e tutto il resto. Chiaro che già in partenza era un’alleanza innaturale quella tra sinistra e Davigo (ricorda un po’ il milazzismo, ma dubito che siano in molti a sapere cosa fu il milazzismo, in Sicilia, negli anni Cinquanta: vi suggerisco, casomai, di farvelo spiegare da Pignatone, che sicuramente lo conosce bene, oppure guardate su Wikipedia). Ora però siamo giunti a una situazione estrema. Cascini dovrà spiegare questa svolta reazionaria di Area, non tanto a noi ma ai suoi colleghi. E forse dovrebbe anche chiedere la ritrattazione di Di Matteo (senza autodafé) e magari anche le dimissioni. Di cosa ha paura? Possibile che tutti siano terrorizzati da Marco Travaglio? Ma che poteri avrà questo Travaglio? So bene che, soprattutto in questa fase, le nomine contano molto. Ma c’è un limite, secondo me. Io pensavo che il fondamento di una corrente di magistrati fosse non solo di potere ma, almeno un minimo, di idee. Non è così. P.S.1. ho letto anche l’articolo di Travaglio contro i magistrati che scarcerano. Mi dispiace che mi tocchi, proprio il 25 aprile, fare osservare come le norme umanitarie usate dai giudici milanesi siano state varate al tempo del fascismo. Che Travaglio, forse, condanna come regime eccessivamente liberale. P.S.2. Il milazzismo fu l’alleanza tra Pci e Msi Quando la retorica del “sotto controllo” produce scarcerazioni facili di Gennaro Migliore* Il Mattino, 25 aprile 2020 La scarcerazione di alcuni detenuti sottoposti a regime di 41bis è stata occasione di polemiche e successive smentite da parte del ministro Bonafede. Dopo un’accurata ricognizione, è doveroso segnalare numerose criticità. È bene precisare; che si esce dal carcere, nel caso di detenuti sottoposti a regimi così restrittivi, solo ed esclusivamente se lo Stato non riesca a garantire la sicurezza sanitaria del detenuto e, quindi, accertando una totale incompatibilità con il regime carcerario. A titolo d’esempio, durante i governi Renzi e Gentiloni, i detenuti Bernardo Provenzano e Salvatore Riina non lasciarono il carcere, poiché le loro gravi condizioni di salute ricevevano una adeguata tutela nel regime detentivo. Oggi assistiamo alla scarcerazione di quattro boss mafiosi: Francesco Bonura di 78 anni e Vincenzo Di Piazza di 79, appartenenti a Cosa Nostra; Vincenzo Iannazzo boss della ‘Ndrangheta di 66 anni; infine, ieri, il boss della Camorra Pasquale Zagaria di 60 anni. Per ciascuno di costoro i magistrati hanno rilevato l’incompatibilità con il regime carcerario. Eppure sarebbe il caso di guardare un po’ più a fondo, senza cadere in deliri forcaioli, ma avendo chiaro che si tratta di scarcerazioni molto critiche. Prendiamo il caso di Zagaria, detenuto a Sassari e malato di tumore. Ho letto l’ordinanza di scarcerazione, dove si scrive che le cure di cui necessita il detenuto non possano essere effettuate in Sardegna, ma si scrive anche che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) non abbia risposto ai magistrati né fornito indicazioni per un eventuale trasferimento in una sede dove fosse possibile, in regime di 41bis, somministrare le cure necessarie (per esempio a Milano o a Parma). A quel punto i magistrati hanno optato per la detenzione domiciliare, nonostante il termine della pena fosse previsto per il 2025. In aggiunta ci sono state più di cento scarcerazioni di AS3 (detenuti in Alta Sicurezza per affiliazione alla mafia o per traffico di stupefacenti). Cosa sta succedendo? Succede che con un’improvvida Circolare del Dap si sia, di fatto, scaricata la responsabilità di affrontare la crisi Covid sui soli magistrati di sorveglianza. Invece, la stessa circolare avrebbe dovuto prevedere due fondamentali azioni, fatte salve le competenze della magistratura: per prima cosa dire che il dipartimento avrebbe provveduto in ogni modo a realizzare le condizioni per la tutela sanitaria dei detenuti e di chi lavora negli istituti; in secondo luogo avrebbe dovuto distinguere tra detenuti in alta sicurezza e comuni (molti dei quali non dovrebbero neppure essere in carcere, ma ai domiciliari o in comunità di recupero per tossicodipendenti). E invece questa distinzione tra detenuti non si è fatta e sono arrivate le scarcerazioni “eccellenti”. Ma stiamo scherzando? Un ministero che non distingue, perché è questa la mancanza più grave in quella circolare del Dap, non fa un buon servizio. Si continua a parlare di braccialetti elettronici, che non sono certo la soluzione al problema del sovraffollamento, e poi si trascura questa enorme questione di sicurezza? Per la cronaca, hanno fatto istanza per ottenere i domiciliari boss del calibro di Santapaola e Cutolo! Sarebbe il caso di smetterla con la retorica del “tutto sotto controllo” e dare più ascolto a chi vive tutti i giorni le criticità del carcere: dai direttori alla polizia penitenziaria. E sì, perché i sindacati della Polpen quotidianamente denunciano le gravi carenze dell’amministrazione penitenziaria e del suo vertice. È assurdo che di fronte a questa situazione si preferisca gridare al complotto o dire che si tratti di fake news. Purtroppo la verità è sotto gli occhi di tutti: basta aprirli anche a via Arenula. *Deputato di Italia Viva, ex sottosegretario alla Giustizia Il boss Bonura è fuori dal carcere per motivi di salute di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2020 Il coronavirus non c’entra e dubitarne scredita la magistratura. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano si è trovato ieri a dover spiegare - verrebbe da dire a dover giustificare - il proprio operato attraverso un comunicato stampa. I fatti si riferiscono alla concessione della detenzione domiciliare a Francesco Bonura, detenuto per reati di mafia. Con la scusa del coronavirus, è stato infatti detto, si fanno uscire i boss mafiosi. Il comunicato spiega che il provvedimento è stato adottato “secondo la normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti, anche condannati per reati gravissimi, a tutela dei diritti costituzionali alla salute”. Bonura ha 78 anni e ha serie patologie oncologiche e cardiorespiratorie. La normativa ordinaria, quella che applichiamo in Italia da decenni e decenni, permette a chi si trova in queste condizioni di uscire dal carcere per andare a chiudersi in un luogo le cure possano essere più accessibili. Nulla c’entra il coronavirus con questa norma. I giudici di Milano spiegano che Bonura sarebbe comunque uscito per fine pena tra meno di undici mesi. Se si tratta di un pericoloso capomafia che tornerà ad agire sul territorio pur nelle sue condizioni di salute, tra meno di undici mesi potrà farlo indisturbato. Sarà quella l’ora di preoccuparci, dunque. Adesso, infatti, il provvedimento del Tribunale si limita a chiuderlo dentro casa, con serrati controlli (“sono state preventivamente acquisite informazioni di Polizia che garantiscono l’idoneità del domicilio, sottoposto ad assiduo controllo delle Forze di Polizia nel rispetto delle stringenti prescrizioni che impediscono qualsiasi uscita non autorizzata”). Le affermazioni di chi ha paventato rischi gravi per la lotta alla mafia non credo facciano bene alla verità. Penso ad esempio a quelle rilasciate a questo giornale dal magistrato consigliere del Csm Nino Di Matteo, il quale non accenna al fatto che Bonura tra pochi mesi sarà comunque libero, che avrà finito di scontare la sua pena, né accenna alle sue gravi condizioni di salute che sicuramente lo rendono meno capace di agire. Dice invece che la sua scarcerazione è un “segnale tremendo” e che non vorrebbe che “questo Paese stesse dimenticando definitivamente la lunga stagione della trattativa Stato-mafia che corse parallelamente” alle stragi mafiose. Afferma anche che tale segnale “rischia di apparire come un cedimento dello Stato di fronte al ricatto delle organizzazioni criminali che si è concretizzato con le violenze, le proteste delle settimane scorse nelle carceri di tutta Italia”. Ma queste affermazioni mi paiono sganciate dai dati di fatto e dalla verità della situazione discussa. Innanzitutto si parla delle rivolte carcerarie di marzo come se fosse pacifico che siano state messe in atto dalle organizzazioni criminali, circostanza non ancora dimostrata e da molti esperti contestata (almeno nella forma di immaginare che la criminalità organizzata abbia avuto un ruolo nel dare il via ai disordini e non solamente nel cavalcarli una volta iniziati). In secondo luogo si dice che il provvedimento di detenzione domiciliare di Bonura sarebbe un indice di dimenticanza delle stragi mafiose da parte dei magistrati di sorveglianza milanesi. Ma la lotta alla mafia è una cosa così importante e qualificante per un Paese come l’Italia che non può essere messa in discussione dal fatto che un detenuto sconterà chiuso in casa sotto controllo di polizia piuttosto che in carcere gli ultimi undici mesi di pena per motivi di salute, in totale aderenza alla normativa in vigore. In argomenti così sensibili per l’opinione pubblica, è importante mantenere sobrietà e aderenza ai fatti. Dovrebbero farlo tutti. Certi giornalisti, che ci trasmettono le informazioni e gestiscono un enorme potere. E ancora di più chi rappresenta la magistratura e la governa. Screditarla facendo passare chi applica le norme per uno smemorato sulle stragi mafiose è molto pericoloso. *Coordinatrice associazione Antigone Coronavirus, tutti indignati per i mafiosi ai domiciliari. E il sovraffollamento delle carceri? di Fabio Anselmo* Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2020 Coronavirus, tutti indignati per i mafiosi ai domiciliari. E il sovraffollamento delle carceri? La condizione di sovraffollamento delle carceri italiane costituisce oramai un elemento strutturale e tranquillamente accettato dalla cultura politica del nostro Paese radicatasi e radicalizzatasi negli ultimi decenni. A nulla sono valse le notissime sentenze di condanna pronunciate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. La sentenza Torreggiani per tutte. Al 1990 risale l’ultima amnistia, al 2006 l’ultimo indulto. In tale contesto la politica italiana ha inseguito costantemente il consenso popolare giornaliero, stimolato da campagne mediatiche efficacissime nell’inoculare un senso diffuso e assolutamente sovrastimato di insicurezza rigorosamente circoscritto alla criminalità comune, unitamente alla narrazione sistematica di una vera e propria falsa emergenza, ad esso strettamente connessa. Ecco quindi, di fronte ad ogni fatto di cronaca, il ripetersi dell’oramai famoso e largamente condiviso motto “In galera e buttiamo via le chiavi”. Con buona pace della dimenticata funzione rieducativa della pena, il carcere è oramai concepito unicamente come luogo di punizione pura e semplice. Dimentichiamoci di voi che (vi) entrate. Il carcere come discarica di “rifiuti umani” senza diritti e dignità da riconoscere, ancor di meno da garantire. Oggi vi sono stipati oltre 55mila detenuti a fronte di 47mila posti effettivi. Un posto effettivo sarebbe calcolato in 3 metri quadrati. Il busillis che i massimi sistemi giurisdizionali (Cassazione a Sezioni Unite) dovranno risolvere è se vanno calcolati con o senza mobilia. Lo scrive il prof. Andrea Pugiotto su Diritto Virale del Dipartimento di Giurisprudenza di Ferrara. Del degrado della funzione istituzionale del nostro sistema carcerario rimangono vittime non solo i detenuti ma anche gli stessi agenti di polizia penitenziaria, che sono costretti ad operare in contesti difficilissimi e frustranti. Certo, non mancano le eccezioni, ma purtroppo esse rimangono tali. Il malessere è profondo. Le condizioni di vita all’interno di numerosi istituti sono, per reclusi e agenti, difficilmente sopportabili. Non mancano gli episodi di violenza. Tra detenuti, di detenuti nei confronti degli agenti, di agenti nei confronti dei detenuti. Questi ultimi rarissimamente vengono perseguiti, quasi fosse una forma risarcitoria a favore dei primi per le difficilissime e spesso inumane condizioni di lavoro. Rachid Assarag è un detenuto la cui storia può riassumere bene la situazione: vittima di pestaggi sistematici, è stato sballottato in una quindicina di istituti su tutto il territorio nazionale. Durante la sua detenzione è riuscito a registrare le voci di coloro che lo hanno pestato, di medici, infermieri, psicologi, che, per quieto vivere, si sono voltati dall’altra parte. A Firenze, a Prato e a Piacenza sono partiti i processi che lo vedono testimone principale. Ma lui non c’è. Nel frattempo è stato espulso e riaccompagnato nel suo paese d’origine nonostante sia legalmente sposato con una cittadina italiana. Le Questure non concedono il permesso di rientrare in Italia per testimoniare richiesto dai Pm. “È pericoloso”. Già. In tutto questo ora abbiamo finalmente una emergenza vera e terrificante. La pandemia mondiale. Le carceri sono diventate un problema anche per coloro che ‘stanno fuori’. La situazione è ancor di più esplosiva. Scoppiano violentissime le rivolte. Ma soprattutto, per il cosiddetto comune sentire, possono diventare pericolosissimi focolai di infezione anche fuori dalle loro mura. Si ammalano detenuti e agenti, di nuovo accomunati dalla loro difficile condizione di vita. Talvolta gli uni contro gli altri, ma sempre nelle stesse comuni condizioni di rischio. Gli appelli sempre più pressanti, quello del Papa su tutti, sembrano finalmente poter trovare ascolto. Il 21 marzo scorso il Dap invia una nota a tutti gli istituti penitenziari con la quale chiede loro, “per combattere il contagio” di “segnalare detenuti over 70 con malattie”. Lo scopo è quello di consentirne la detenzione domiciliare sottraendoli all’elevato rischio di gravi e infauste complicanze. Quelle tristemente note derivanti dall’infezione del Coronavirus. Tra di loro vi sono anche famosi boss di mafia al 41bis. Insorgono quindi anche magistrati di chiara fama, indignati. Nessuno si indigna sul perché le carceri siano in queste condizioni. La famosissima riforma Orlando sulla Giustizia qualcosa di veramente buono lo aveva: la riforma dell’ordinamento Penitenziario. È stata letteralmente pattumata (perdonatemi il termine poco tecnico) dalla politica. Si è preferito concentrare ogni energia per partorire le nuove discipline in tema di prescrizione e intercettazioni telefoniche. Dagli stimabilissimi magistrati che occupano in questi giorni i palinsesti di numerosi talk show parlando di politica mi aspetterei qualche parola in più in materia di rispetto dei diritti umani e sulle condizioni delle nostre carceri. Sembra quasi che queste problematiche li trovino disinteressati. Freddi. Ho detto tutto. *Avvocato Penalista “Deve fare la chemio”. Ai domiciliari il fratello del boss Zagaria di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 aprile 2020 Il Guardasigilli attiva gli ispettori. Nel 1997 Domenico Perre fu tra i rapitori dell’imprenditrice Alessandra Sgarella tra Milano e la Calabria, gli mancano da espiare 2 anni sui 28 di condanna per sequestro di persona, e a tutt’oggi “non ha effettuato alcuna revisione critica” della propria malavita, salvo quel “comportamento carcerario corretto” che gli ha detratto 5 anni di “liberazione anticipata” (45 giorni di pena ogni sei mesi espiati). Ma ora l’equipe sanitaria e la direzione del carcere di Opera evidenziano che il 64enne, “affetto da cardiopatia ischemica e sotto attenzione clinica dal 2013, è a rischio di complicanze” con “specifico riguardo al correlato rischio contagio per Covid-19”, rispetto al quale Opera fa presente “l’impossibilità di garantire l’isolamento in camera singola”: per questa “situazione sanitaria eccezionale”, e visto l’”ormai non lontano fine pena” a maggio 2022, la giudice di sorveglianza milanese Rosanna Calzolari ne ha disposto il differimento della pena ai domiciliari a casa della moglie a Platì (Reggio Calabria). È una decisione analoga a quella che - tra le polemiche di Giorgia Meloni (FdI) e dei parlamentari della Lega, e gli ispettori attivati dal ministro Bonafede - il Tribunale di Sorveglianza di Sassari adotta su Pasquale Zagaria, 60enne fratello del camorrista capoclan dei “Casalesi” Michele Zagaria, detenuto al 41bis a Nuoro con condanna a 20 anni, in cura per un tumore. Quando il reparto dell’ospedale di Sassari dove faceva la chemio è stato chiuso e riconvertito in area Covid, il Tribunale ha chiesto al ministeriale Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di trasferirlo in altro istituto che gli assicurasse le terapie necessarie: ma dal Dap “non è giunta alcuna risposta”, e i giudici ne hanno allora disposto 5 mesi di detenzione domiciliare a Brescia. “Tutti i passaggi che si stavano compiendo - ribatte il Dap - sono stati oggetto di comunicazione al Tribunale con almeno tre mail, ultima il 23 aprile”. A situazione diversa, diversa decisione a Milano sull’81enne boss catanese Nitto Santapaola, detenuto come Perre a Opera: qui la giudice Paola Caffarena nega la detenzione domiciliare perché “è ristretto in regime di 41bis, quindi in celle singole e con limitazioni che lo proteggono dal contagio”. In tutte queste polemiche - come giorni fa nel differimento pena di Francesco Bonura, con il consigliere Csm Nino Di Matteo entrato a gamba tesa sulla giurisdizione tacciando i giudici di “dare l’impressione di piegarsi alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte nelle carceri” in marzo - non si tratta di benefici penitenziari. E nemmeno c’entra il decreto legge Bonafede che (in prevenzione anti-virus) apre alla detenzione domiciliare negli ultimi 18 mesi di pena ma esclude mafia (quindi i 41bis) e una serie di reati ostativi tra cui il sequestro di persona. È invece l’applicazione o meno di una norma che esiste dal 1975 (e prima dal 1930) per i casi di “grave patologia”, senza preclusioni sui reati. Circolare Dap. Boss scarcerati, istanze andranno a procure antimafia ansa.it, 25 aprile 2020 In arrivo una Circolare per i direttori delle carceri. Le istanze alla magistratura di sorveglianza dei detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza o sottoposti al 41bis dovranno essere trasmesse alla Procura Nazionale Antimafia e a quella Distrettuale. È quanto potrebbe prevedere una Circolare, secondo quanto si apprende da fonti di Via Arenula, a cui sta lavorando il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, destinata ai direttori delle carceri. Processo da remoto, il dietrofront del governo: “Pronti a modificarlo” di Simona Musco Il Dubbio, 25 aprile 2020 La maggioranza M5S-Pd dice sì agli ordini del giorno che depotenziano la nuova norma. Ma l’Ucpi proclama lo stato d’agitazione. Il processo da remoto è legge, ma solo per finta. Dopo aver fatto cadere tutti gli emendamenti con la fiducia al “Cura Italia”, il governo ha infatti accolto l’ordine del giorno presentato da Forza Italia - modificato così come proposto dal Pd - che rimanda al prossimo decreto una riformulazione della norma sulla smaterializzazione del processo, riducendola, di fatto, a pochi casi. Un vero e proprio dietrofront, ancora più significativo alla luce delle modalità con le quali il processo da remoto è stato introdotto: un emendamento d’urgenza, sconfessato, poi, dagli ordini del giorno non solo dell’opposizione, ma anche di Pd e Italia Viva. L’impegno del governo è di modificare la norma prevedendo che siano esclusi dalla modalità virtuale le udienze di discussione e quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, salvo diverso accordo tra le parti. Insomma, per le udienze istruttori, requisitorie e arringhe toccherà essere in aula. Un impegno apprezzato dall’Unione delle Camere penali, che però non si fida, dichiarando lo stato d’agitazione. Ad esultare è soprattutto il forzista Enrico Costa, che aveva anche chiesto un impegno del governo a non prorogare oltre il 30 giugno la validità della norma e l’esclusione, dalla modalità “da casa”, della produzione documentale. “È un processo da remoto che, nei fatti, non c’è più - commenta al Dubbio. Rimangono davvero poche cose, come l’udienza filtro e l’udienza di rinvio”. La norma, al momento, è inefficace, data la sospensione delle udienze - escluse quelle urgenti - fino all’11 maggio, giorno in cui la modalità virtuale sarebbe diventata effettiva. Il che garantisce un tempo sufficiente per approvare le modifiche, “probabilmente insieme al rinvio, al primo settembre, dell’entrata in vigore della norma sulle intercettazioni, per la quale c’era già un nostro emendamento al quale era stato dato parere favorevole in Commissione”, aggiunge Costa. Il dietrofront, per l’ex ministro, ha un significato ben preciso: “superficialità. È facile scrivere un emendamento dicendo che si fa il processo da remoto, ma realizzarlo è una cosa diversa”. L’attacco è al M5s, di cui il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è espressione, da sempre orientato ad un’idea davighiana del processo. E non è un caso, per Costa, che proprio Piercamillo Davigo abbia chiesto al Csm di ragionare su una “sistematizzazione” della modalità da remoto. I grillini, aggiunge il deputato forzista, “non hanno mai avuto particolare attenzione ai principi del dibattimento e del processo accusatorio. Per loro è un orpello, mentre sono importanti le indagini preliminari, il titolo del giornale. L’accusa, per loro, è sentenza, le tesi sono quelle del pm, della polizia giudiziaria, della conferenza stampa iniziale. Il resto è tutto un fastidio - aggiunge -, lo abbiamo visto con la prescrizione: per loro il processo può durare in eterno. Ma qui non si tratta di pagare una multa, c’è in gioco la libertà personale”. Ma le modifiche lasciano soddisfatta anche parte di quella maggioranza di cui Bonafede fa parte. E così, per i deputati dem Alfredo Bazoli, Walter Verini e Franco Vazio la promessa smussatura della norma “consente di rimuovere le preoccupazioni che da parti significative di avvocatura e magistratura erano pervenute”, circa i rischi di compromissione “dei diritti di difesa e un adeguato contraddittorio”, in attesa, finita l’emergenza di “di affrontare, al riparo da urgenze, il tema del processo telematico”, con una discussione “che tenga conto di tutti i delicati interessi e aspetti che coinvolge”. Soddisfatta anche la capogruppo di Italia Viva Lucia Annibali, che aveva chiesto la stessa modifica con un ordine del giorno firmato da tutti i capigruppo di maggioranza in Commissione giustizia. “Un primo passo avanti - sottolinea - ma ci aspettiamo di poter discutere e approfondire in Parlamento innovazioni così profonde del processo penale su cui resta ferma la contrarietà di Italia Viva”. Sulla modalità da remoto anche il Garante della Privacy, Antonello Soro, aveva sollevato obiezioni, relative alla sicurezza delle piattaforme utilizzate per le udienze e la conservazione dei dati. Osservazioni contenute in una lettera - nella quale veniva contestata anche la mancata consultazione del garante, prevista per legge - alla quale Bonafede ha risposto nei giorni scorsi, ma i cui contenuti non sono ancora noti - tanto da far infuriare Costa, che ne ha chiesto contezza -, in attesa di una risposta da parte di Soro. Il garante aveva accolto, nella sua missiva, tutte le perplessità sollevate dall’Unione Camere penali, in prima linea, assieme al Consiglio nazionale forense, contro la compressione dei diritti del giusto processo, messi in discussione dalla sua smaterializzazione. E mentre si attende la “Fase 2” del processo da remoto, sindacati e ministero hanno siglato una bozza d’accordo per la graduale ripresa dell’attività degli uffici dell’amministrazione giudiziaria non limitata più ai soli casi indifferibili e urgenti, orari sfalsati per i dipendenti con la settimana lavorativa che passerebbe da 5 a 6 giorni e consolidamento della via digitale con le video-conferenze. Udienze on line: un golpe. Al potere forze eversive di Vincenzo Maiello Il Riformista, 25 aprile 2020 Il processo web cancella la Carta e spazza via il concetto arendtiano di verità come presidio contro i tiranni. Ora verità e fatti saranno decisi da loro: i boia populisti del diritto. La definitiva approvazione della disciplina che - sia pure col paradossale alibi della limitata vigenza - tiene a battesimo il dispositivo del processo penale telematico, meglio del processo che dematerializza l’aula di udienza e affida al circuito dei cristalli liquidi la partecipazione dei suoi protagonisti, permette di definire in tutta la sua sconcertante carica eversiva una decisione politica che reca i tratti della ribellione ai vincoli delle prescrizioni costituzionali e dei fatti - perciò, della verità. E si sa che quando ciò accade, quando, cioè, un potere agisce nel disprezzo delle regole e dei principi costituzionali e dei fatti, assume connotazioni che lo proiettano nello spirito delle culture totalitarie. Dietro questa inusitata fuga in avanti, non sta solo l’archiviazione della tradizione e dell’ontologia del processo - e, dunque, il congedo dalla loro traduzione normativa nelle Carte costituzionali e nel diritto europeo dei diritti umani - bensì qualcosa di assai più grave e preoccupante per la tenuta di una democrazia fondata sui diritti, vale a dire la rottura del rapporto tra potere e verità. Si tratta di un punto a mio avviso cruciale per comprendere la gravità di quanto accaduto. Il nesso tra esercizio politico della normatività e verità resta quello scolpito con straordinaria lucidità da Hannah Arendt, che nella verità individuò un elemento di durezza odiato dai tiranni i quali vi intravedono “la concorrenza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare”. Nella ricostruzione arendtiana la verità coincide con “i fatti” e col rispettivo carattere di “esasperante ostinatezza”, la cui non modificabilità li rende limite invalicabile di ogni potere. Allorché quest’ultimo aggira i fatti o promuova una loro conoscenza menzognera, oppure deliberi “contro i fatti”, acquisisce il volto del totalitarismo. A fianco ai “fatti” di Hannah Arendt - o, se si vuole, dentro ad essi - l’epistemologia dei moderni Stati costituzionali di diritto annovera i diritti fondamentali, vale a dire le situazioni di valore individuale che concorrono a definire le basi di legittimazione del potere. Questa digressione permette di svelare l’inquietante connotazione del monstrum del giudizio penale smaterializzato, vuoi perché clamorosamente distante dal paradigma costituzionale di giusto processo, vuoi in quanto si assume a fondamento della sua giustificazione asserti non veritieri poiché contrari a “fatti”. Della violazione delle norme costituzionali si è abbondantemente disquisito in questi giorni: in evidenza è venuta, in buona sostanza, l’ampia e diversificata gamma di diritti e facoltà processuali che fanno capo alla presenza fisica innanzi al giudice e ai testimoni dell’imputato e del suo difensore, ma anche - e in maniera niente affatto marginale - l’esigenza del giudice di disporre del contatto diretto con le fonti di prova al fine di arricchire il patrimonio della conoscenza funzionale ad una pronuncia che salvaguardi l’in dubio pro reo. Sul punto, è appena il caso di osservare come una responsabile opera di sensibilizzazione pubblica ai valori costituzionali non dovrebbe mancare di sottolineare che nel processo penale il conflitto tra esigenze repressive (motivate storicamente anche da bisogni di punizione solo simbolici, come dimostra l’esperienza del capro espiatorio) e protezione della libertà dell’accusato non va risolto - assecondando il crucifige populista - in favore delle prime, ma nella direzione opposta (ricordando che per assolvere è sufficiente un dubbio ragionevole e che per condannare occorre la certezza della responsabilità). Ma è soprattutto sul terreno dei fatti e della contrarietà ad essi che la decisione legislativa sul processo penale dematerializzato (e, perciò, devitalizzato) sembra accampare una giustificazione che le conferisce una epistemologia dispotica. Invero, deve con risolutezza affermarsi come sia contrario ai fatti - quindi falso nei presupposti - l’assunto secondo cui dopo l’11 maggio, quando sarà cessata la paralisi normativa dell’attività giudiziaria, non sarebbe possibile celebrare i processi negli spazi fisici delle aule di udienza. La natura arbitraria della tesi non è stata dimostrata solo dall’articolata proposta dell’avvocatura penale che ha convincentemente argomentato come possano trovare adeguato contemperamento la sicurezza delle parti e dei giudici e l’esigenza di trattazione dei processi, ma si ricava dalle molte altre attività il cui svolgimento è consentito ed in pratica avviene (basti pensare al lavoro nelle sedi parlamentari, ma anche all’esperienza dei tribunali tedeschi che continuano ad operare nelle aule con forme di opportuno distanziamento). Parimenti contraria ai fatti è la decisione di prevedere che il giudice - che voglia ricorrere alla modalità di trattazione telematica - si assicuri che venga rispettato il contraddittorio, dal momento che ciò non è possibile stante l’irriducibilità del contraddittorio nella formazione della prova - fosse anche limitato all’esame del consulente, del perito o dell’ufficiale di p.g. - a forme di interazione diversa da quella fisica contestuale che si instaura tra l’interrogante e la fonte di prova escussa. Siamo, dunque, in presenza di una normativa ipotecata da una concezione potestativa del potere, insofferente ai vincoli del diritto ed alle pretese di una ragione che trae fondamento e conformazione dai fatti. Una normativa affetta, perciò, da un deficit di cultura democratico/parlamentare, plasticamente testimoniata dalle modalità ancora una volta scelte per l’introduzione di un congegno tanto dirompente e traumatico per l’equilibrio del sistema, quanto fortemente polemogeno. Anziché seguire la via maestra del decreto- legge (o del d.d.l.), la maggioranza politica ha optato - come era già accaduto in occasione della riforma della prescrizione - per il ricorso all’emendamento successivamente blindato col voto di fiducia. È avvenuto, così, che il commiato da un archetipo di giustizia penale pensato e strutturato per servire la causa delle ragioni dell’uomo (l’accusato, ma anche il giudice investito della più audace delle prerogative che la comunità politica si attribuisce), faccia il suo ingresso di sbieco nell’ordinamento dello Stato costituzionale di diritto, con modalità legittime ma oblique sul piano della responsabilità politico/istituzionale, che calpestano le prerogative di ampiezza e centralità del confronto parlamentare, mortificandone le potenzialità dialettiche e riducendo la democrazia rappresentativa a penosa parodia. Certo, l’esautoramento del Parlamento non è vicenda dell’oggi. Dell’oggi è, invece, la sfrontata pervasività della pratica di strumentalizzare il fenomeno per varare riforme eversive della Costituzione e, perciò, deficitarie di ragioni spendibili nel circuito del confronto intersoggettivo delle idee. Del resto, di ciò sembrava si fosse resa conto la maggioranza della Commissione giustizia quando, qualche giorno fa, in un risveglio di coscienza critica e di orgogliosa resipiscenza identitaria votò la proposta di condizionare l’approvazione del Cura Italia allo stralcio della disciplina sul processo telematico. Purtroppo, sembra che le logiche di bassa Realpolitik abbiano miseramente prevalso e, con esse, le nubi dell’oscurantismo hanno spento barlumi di civiltà. Il diritto d’asilo vale anche per i detenuti di Paola Colasanto lincontro.news, 25 aprile 2020 La presentazione della domanda di asilo non è soggetta ad alcun vincolo di forma né esige la presenza fisica del richiedente presso la Questura. La Pubblica Amministrazione ha il dovere di garantire l’effettivo esercizio del diritto di asilo ai richiedenti detenuti presso gli istituti di pena, quale che sia la forma con cui hanno chiesto protezione. È dovere della Questura garantire l’esercizio del diritto alla protezione internazionale per i cittadini stranieri che ne facciano richiesta, anche quando si trovino ristretti presso gli istituti di pena, indipendentemente dalla forma con la quale abbiano manifestato tale volontà. Con l’ordinanza del 4 aprile scorso emessa dal Tribunale di Torino, R.G. 5262/2020, è stato mosso un altro passo avanti nell’affermazione del diritto d’asilo, baluardo del rispetto della dignità umana. Il giudice torinese chiarisce, infatti, che la presentazione della domanda di asilo non è soggetta ad alcun vincolo di forma né esige la presenza fisica del richiedente presso la Questura. Tale richiesta potrà quindi essere validamente trasmessa a mezzo di posta ordinaria o posta certificata. Lo stato di detenzione, infatti, non può rappresentare un impedimento alla presentazione della richiesta di protezione ed al corretto svolgimento del procedimento amministrativo che ne segue. Eppure, nella prassi nazionale si assiste ad un arbitrario esercizio del potere da parte della Pubblica Amministrazione: in alcuni casi sono gli istituti penitenziari a rifiutare la trasmissione della richiesta di asilo del detenuto alla Questura competente ed in altri casi è proprio quest’ultima, che, ricevuta la domanda, ne omette la registrazione o ne ritarda ingiustificatamente il compimento. La discrezionalità adottata dalla Pubblica Amministrazione nella gestione dell’accesso alla protezione internazionale è oramai tristemente nota e non soltanto quando riguarda le persone ristrette presso gli istituti di pena. Basti pensare alle lunghe code innanzi agli Uffici delle Questure da parte dei richiedenti, i quali sovente attendono mesi per potervi fare ingresso. Ciò ha degli effetti estremamente dannosi se si considera anzitutto che la presentazione della richiesta determina la regolarizzazione del richiedente sul territorio, che seppur condizionata al giudizio della Commissione territoriale, attribuisce al cittadino straniero i diritti e i doveri connessi a tale status per tutto il tempo necessario alla conclusione del procedimento (tra cui: accesso all’accoglienza, al SSN). Cosa ancor più importante, lo mette al riparo da eventuali provvedimenti di allontanamento dal territorio che potrebbero costringerlo al rientro forzato nel paese di origine o di provenienza, ove la sua integrità psicofisica o la sua stessa vita sarebbero poste a rischio. Pertanto, è evidente che la violazione delle regole e delle procedure da parte della Pubblica Amministrazione ha delle profonde ricadute su diritti fondamentali, che in alcun caso possono essere sacrificati per l’inerzia delle istituzioni deputate a garantire l’esercizio del diritto di asilo. Tutto ciò lede non soltanto la dignità delle persone che invocano protezione ma erode i principi supremi del nostro stesso Ordinamento tra cui eguaglianza, solidarietà, rispetto dei diritti umani, sulla base dei quali “ostentiamo” ogni giorno le nostre preziose libertà, conquistate con il sangue ed il sudore di qualcun altro. Passato remoto di Michele Passione Il Riformista, 25 aprile 2020 Nei giorni scorsi un Magistrato di Sorveglianza milanese è stato scompostamente attaccato, inverando la realtà, per aver concesso la detenzione domiciliare ad un detenuto gravemente malato cui mancavano pochi mesi al fine pena. Ovviamente, pur essendo stato applicato l’art. 47 ter, comma 1 ter o.p., e sebbene sussistessero tutti i requisiti di legge (e di umanità), si è sostenuto che la decisione è un favore alla Mafia, una cessione dello Stato, il frutto dei provvedimenti governativi, e altre amenità del genere. Invece, qualche giorno dopo, ecco che arrivano due provvedimenti di segno opposto, sui quali nessuno fa sentire la sua voce. Lo facciamo qui. Col primo, il Magistrato di Sorveglianza di Verona ha respinto analoga richiesta (anni tre di reclusione), malgrado la dichiarazione di incompatibilità al regime detentivo del condannato, trasmessa dal Direttore della Casa Circondariale, attesa l’allegazione sanitaria dalla quale risulta che il condannato è risultato positivo alla Sars - CoV2. Nell’occorso, si segnalava l’asintomaticità dell’interessato, il pericolo di insorgenza repentina di insufficienza respiratoria anche grave che non è certamente gestibile in carcere, l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale, dal che consegue una seria minaccia per la salute degli altri detenuti, della polizia penitenziaria e degli altri operatori in genere. Testuale. A tali considerazioni il Magistrato ha opposto come non sia scontato che la grave infermità sopraggiunga, a causa dell’asintomaticità, e che comunque una eventuale crisi respiratoria risulta meglio fronteggiabile in carcere che non al domicilio, laddove un soggetto abitasse da solo e non fosse perciò in grado di chiamare l’ambulanza. La normativa evocata, ancora, sarebbe posta a tutela della salute del condannato, e non della salute di altri. Una strana concezione della salute come bene pubblico, nel dispregio assoluto sul punto dei dicta convenzionali, che impongono l’apprestarsi di tutele in via preventiva a salvaguardia della salute. L’art.3 della C.edu è diritto inderogabile, uno dei quattro core rights cui non è consentito mai fare eccezione, neanche in tempo di guerra. Ancora. Il Magistrato di Sorveglianza di Bari ha dichiarato inammissibile l’istanza di detenzione domiciliare proposta negli stessi termini, con specifico riferimento all’esigenza di contenere i rischi connessi alla diffusione del Covid - 19, nella quale erano diffusamente segnalate le comorbilità del detenuto, i precedenti giurisprudenziali ammissivi di analoghe richieste, le indicazioni dell’OMS, la corretta lettura del bene della salute, presidiato dalla Carta costituzionale e da quella di Nizza. Motivo: l’assenza di firma digitale da parte del difensore. Inutile segnalare che neanche il protocollo del Primo Presidente della Suprema Corte per l’invio degli atti prevede ciò, e così anche il decreto della Presidente della Corte Costituzionale. Un’istanza trasmessa via pec, firmata dal difensore, allegata in pdf, con procura speciale del detenuto. E vogliono il processo in remoto. Di remoto c’è un retrogusto di vuoto; di umanità, di empatia, di lungimiranza. Mi manca l’incontro e la mano da stringere di Michele Passione societadellaragione.it, 25 aprile 2020 La Società della Ragione, ci chiamiamo; e allora uno si aspetta che prevalga il pensiero, la riflessione meditata. Del resto, dall’inizio del lockdown ci dicono che questa forzosa distanza dagli altri dovrebbe favorire una presa di contatto con noi stessi. “Scrivi di noi”, dice Sam a Charlie in Noi siamo infinito. Così, provo a farlo, facendo parlare il cuore, ché la ragione è annichilita dall’irragionevole profluvio di voci urlanti e provvedimenti extra ordinem. Ma scrivo di me, perché non ho la presunzione di credere che il mio pensiero sia quello di tutti, e mi guardo bene dall’auguramelo. Mi piace il meticciato. E tuttavia, poiché non sono una persona speciale, credo che per chi fa questo mestiere, ed ha qualche dimestichezza con la galera, queste poche righe che seguono contengano tracce di storie comuni. Non l’avrei mai pensato, e mi fa impressione pensarlo, e scriverlo, ma il carcere mi manca. Quello dopo Cristo, come lo chiamava Sandro Margara (e mi manca anche Lui, tanto); quello che da quasi trent’anni frequento. Mi manca andare nel posto dove trovo il senso profondo della mia professione, della mia vecchia toga. Mi manca l’incontro e lo sguardo, la mano che si stringe; il tempo perso nell’attesa che la porta si apra, il clangore quotidiano. Queste cose qui, che sono l’immagine repellente di una Umanità nascosta, cui cerchiamo di dare voce, ciascuno a suo modo. Solo che, proprio in questo momento, la luce si è spenta, e donne e uomini (e bambini) dentro le mura sono ancora più soli; neanche il virus maledetto fa chinare lo sguardo su quei volti segnati, nell’auspicata empatia che merita un fratello che inciampa. Entriamo sempre meno nelle prigioni; prima ci provano la febbre, per far finta di essere sani. Facciamo processi in remoto, senza vedere e sentire davvero il corpo e la voce di chi è in carcere. Oppure facciamo prima, li rinviamo proprio, naturalmente sospendendo i termini di custodia cautelare dei presunti innocenti. C’è chi ha pensato che la costrizione forzata alla distanza dall’altro avrebbe favorito un riavvicinamento al senso della libertà, anelito incomprimibile e costituzionalmente tutelato, consentaneo alla natura dell’essere umano, ma per molti benpensanti funziona ancor meglio il capro espiatorio, l’altro da sé. A me invece tornano in mente le parole meravigliose di Jesmyn Ward, nel suo “Salvare le ossa”, in cui l’arrivo dell’uragano Katrina sconvolge una realtà di miseria, rafforzando ancor di più i legami tra le persone. Mentre i ricchi bianchi si mettono in salvo, sbarrando assi alle finestre per combattere acqua e vento, c’è chi si stringe l’un l’altro ai fianchi per non annegare. Viene in mentre Vittorio Arrigoni, che invitava a restare umani durante le giornate terribili del Piombo Fuso. Vengono in mente le due meravigliose figure de “Le nostre anime di notte”, di Kent Haruf, dove sfidando il pregiudizio due pezzi (due pazzi?) di vita alla fine, ma non certo finita, si prendono per mano, ascoltando il loro cuore. “Il cuore; fai parlare quello”, mi han detto. “Non so se ci riesco”, ho risposto. Non so se c’entra con la galera, ma quel muscolo non smette mai di pompare, fuori e dentro le mura. Milano. In pericolo di vita, ma niente domiciliari in base alla “pericolosità” di 40 anni fa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2020 Giovanni Agresta, all’ergastolo dal 1983, per un ictus rischia la funzionalità degli arti. Mentre non si placano le polemiche, montate ad arte, per la concessione dei doverosi domiciliari per alcuni detenuti a l 41bis con gravi patologie fisiche, c’è un ergastolano che ha varcato le soglie del carcere nel lontano 1983 quando era poco più che maggiorenne. Un’intera esistenza nel carcere. Talmente lunga che nel frattempo il suo clan mafioso di appartenenza è stato decapitato, tanto da aver ottenuto qualche anno fa la collaborazione impossibile. Ciò significa che non è più ostativo, quindi teoricamente avrebbe la possibilità di usufruire dei benefici della pena. Parliamo di Giovanni Agresta, detenuto fin dal 1983 e tratto in arresto nell’ambito dell’operazione “Isola Felice” che ha portato, di fatto, a sgominare il clan Zagari. Nel corso degli anni ha manifestato varie patologie, tra le quali in particolare ipertensione e diabete mellito non compensato che l’hanno portato a godere dal 2008 al 2010 di un biennio di sospensione pena. Successivamente il Tribunale di sorveglianza di Milano ha disposto il rientro in carcere considerando l’Agresta compatibile con la detenzione presso istituto dotato di centro clinico. È in concreto pericolo per la sua salute, ha subito recentemente un ictus ischemico e rischia di avere una perdita irreversibile della funzionalità degli arti, bocca e faringe. Ha tante di quelle patologie che, se non curato adeguatamente fuori dal carcere milanese di Opera, dove è attualmente recluso, rischia di essere perduto per sempre. Ma il magistrato di sorveglianza ha rigettato le istanze per ottenere i domiciliari per gravi motivi di salute, ritenendolo ancora socialmente pericoloso. In base a che cosa? Alle motivazioni della condanna di quasi 40 anni fa. Non importa che abbia trascorso una intera esistenza dove inevitabilmente ha subito un cambiamento, una sua personale revisione critica del passato. Non importane nemmeno considerare il fatto che quando commise i delitti, in ambito mafioso, lui era uno di quei numerosi giovanissimi cresciuti all’ombra dei clan e dei cattivi maestri, pronti a morire o uccidere. Giovani che lo Stato ha il dovere di fermare, ma anche di recuperare. Il suo avvocato difensore Filippo Biolo del foro di Vicenza, tra l’altro classe 1983 (anno in cui Agresta ha varcato le soglie del carcere) spiega a Il Dubbio che nel corso del tempo le condizioni cliniche sono andate via via peggiorando “anche in ragione dell’assoluta noncuranza con il quale lo stesso è stato seguito nell’ambito dei vari istituti”. Nel corso del 2019 l’ergastolano Agresta ha ottenuto la” collaborazione impossibile”, nella quale si dà atto che il clan in cui era affiliato è stato smantellato definitivamente. Diverse sono le istanze per chiedere i domiciliari per almeno poterlo curare, ma puntualmente vengono rigettate. Il 30 gennaio Agresta rimane colpito da ictus ischemico: l’avvocato Biolo ha depositato una nuova istanza provvisoria al magistrato di sorveglianza allegando la cartella clinica e facendo presente come i timori rappresentati nella prima istanza si fossero, di fatto, concretizzati in tutta la loro drammaticità. Il 13 marzo scorso il rigetto: il magistrato in due righe liquida la questione sottolineando che: “In ragione della pericolosità del reo non si ravvisano elementi tali da giustificare un differimento della pena neppure nelle forme della detenzione domiciliare”. Una pericolosità desunta dalla condanna di esecuzione di pena inflitta quasi 40 anni fa. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha in seguito confermato il rigetto dopo una udienza che - secondo quanto riferito dall’avvocato - è durata pochissimi minuti. L’avvocato ha potuto parlare per tre minuti e l’ergastolano Agresta circa 30 secondi in videoconferenza. Il 31 marzo l’avvocato ha ripresentato una nuova istanza soffermandosi esclusivamente sulla pericolosità del reo e, soprattutto, sul mancato svolgimento delle terapie. Ad oggi ancora nessuna risposta, nonostante si è aggiunta l’emergenza Covid-19. Virus fatale per lui a causa delle patologie pregresse. “Ritengo inaccettabile in uno Stato di diritto che si fregia, come il nostro, della sua cultura giuridica millenaria, l’atteggiamento di certa (ma, sottolineo, certa) magistratura di Sorveglianza È inutile, infatti, nascondere una realtà che tutti i colleghi penalisti vivono quotidianamente sulla loro pelle: troppo spesso nelle aule di giustizia si assiste allo spettacolo di giudici che, lungi dall’essere terzi ed imparziali, sono mossi da pulsioni giustizialiste loro proprie o diventano “braccio armato” di quelle dettate dall’opinione pubblica”, commenta così l’avvocato Biolo. Noi aggiungiamo che quei pochi magistrati di sorveglianza che svolgono con scrupolosità il loro lavoro, vengono colpiti da taluni giornali e subiscono forti pressioni dall’opinione pubblica fuorviata dalla cattiva informazione. Ma nonostante tutto, rimangono indipendenti. Ci si augura che lo siano anche nei confronti dell’ergastolano Agresta. Napoli. Il Garante dei detenuti di Napoli scrive a Bonafede: “Pianificare una fase 2 per le carceri” Il Riformista, 25 aprile 2020 Il Garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia ha scritto una lettera aperta al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Riportiamo di seguito il testo integrale. Gentile Ministro Bonafede, ho pensato di scriverle una lettera aperta per condividere con Lei alcune osservazioni e per farle un invito. Le scrivo con l’immediatezza che tanto mi caratterizza, quella che spesso viene letta come irruenza, che in realtà è la passione che metto nelle cose. Soprattutto quando si parla di persone ristrette. E quando si parla del mio operato, del lavoro che quotidianamente mi impegna da vent’anni. Sono un ex detenuto. Sono garante dei diritti delle persone detenute. La prima affermazione è un’etichetta che continuo a sentire sulla mia pelle, la seconda è una realtà che ho conquistato con dignità, sacrificio e tanto lavoro, su me stesso e sugli altri. L’etichetta che ti lascia il carcere dovrebbe piano piano essere cancellata dalla pelle dei detenuti. Con la dignità, il sacrificio e il tanto lavoro, appunto. E con la fine della pena la persona che esce da un penitenziario dovrebbe avere la possibilità di raggiungere obiettivi diversi, dovrebbe poter conquistare la propria libertà con il lavoro, inserendosi in un circolo positivo che aiuta se stessi e la società tutta. Quando sono stato nominato garante sembrava che l’etichetta fosse del tutto e finalmente svanita. L’obiettivo tanto cercato era stato raggiunto: sulla mia pelle l’etichetta scompariva e inoltre potevo aiutare altre persone detenute ad ottenere lo stesso. Gli attacchi che ho subito e che continuo a subire sono in contraddizione con le mie conquiste. Le mie conquiste, i risultati che io ho raggiunto, prima di essere mie, sono le conquiste e i risultati di una società giusta e democratica. Sono una Sua conquista, il Suo obiettivo raggiunto, gentile Ministro. La Costituzione e i forti valori in essa contenuti sono miei e suoi, sono miei e della Polizia Penitenziaria. Sono miei e sono dei Garanti, degli educatori e delle persone che amministrano le carceri. Sono una conquista e un risultato del nostro popolo. Il mio obiettivo raggiunto, quello di aiutare altri ad uscire con dignità e con prospettive diverse da quelle legate alla criminalità, è una conquista per tutti. I 1.600 € donati ad aprile dai detenuti di Poggioreale all’Ospedale Cotugno di Napoli sono una conquista, perché sono il risultato di una politica penitenziaria efficace. Così come lo sono le mascherine prodotte dai detenuti di Secondigliano e di altri Istituti Penitenziari italiani, destinate a chi vive e lavora dentro e fuori dal carcere. Potrei parlarle ancora a lungo dei paradossi e delle critiche, e farle tanti altri esempi di una realtà penitenziaria positiva, ma quello che mi più mi preme è andare oltre, pensare all’immediato futuro. In questi giorni sentiamo parlare ed attendiamo in Italia una fase 2 che ci permetterà di uscire dall’emergenza che stiamo vivendo, leggo continuamente (e giustamente) di come mettere in sicurezza i nostri ospedali, di come riaprire le aziende e le scuole, per consentire a noi persone libere di recuperare una qualche forma di normalità. Ma purtroppo difficilmente ho sentito parlare di una fase 2 per le carceri. Sono indelebili nei nostri cuori le terribili immagini delle rivolte penitenziarie di marzo, che hanno fatto temere il rischio di una escalation, scongiurata solo grazie al lavoro di tutti quelli che si occupano delle carceri. Rivolte nate dalla paura di ciò che stava accadendo, dall’amplificazione di ogni notizia che viene da fuori - che, mi creda, rimbomba all’interno di quattro mura - dal non aver saputo comunicare in modo adeguato alla popolazione carceraria il perché della sospensione dei colloqui con i familiari. Gentile Ministro mi creda se le dico che, per chi vive la restrizione della propria libertà, il colloquio con l’esterno è una vera e propria ragione per andare avanti. Per questo Le chiedo di pianificare una fase 2 per le carceri fin da adesso, che potrebbe coinvolgere i detenuti e i professionisti che operano in ambito penitenziario ed extra penitenziario, per una progettazione partecipata, che venga dal basso, che sappia trovare soluzioni per una transizione serena dall’emergenza. Si potrebbe lavorare insieme per dare spazio alle misure alternative, alla giustizia riparativa e di comunità, puntare concretamente sulla rieducazione dei detenuti attraverso la formazione, il lavoro e il mantenimento dei legami familiari. Rischiamo, altrimenti, fin da subito, che la paura e il vuoto vissuti dai detenuti e dai loro familiari possano dirigerci in senso opposto, suscitando nuove tensioni. La invito, dunque, a venire a Napoli quando inizierà la fase 2 del nostro Paese, per entrare insieme nei reparti delle case circondariali di Poggioreale e di Secondigliano, nel carcere minorile di Nisida e in quello femminile di Pozzuoli. Lavoriamo insieme, affinché questa emergenza possa essere un’occasione di cambiamento, in direzione di quel circolo positivo di cui parlavamo. La lascio infine con un augurio e con una promessa. Auguro a lei e a tutti noi di superare questo momento difficile e di saper ripartire con orgoglio e a testa alta, potendo dire a noi stessi che abbiamo fatto di tutto per uscirne insieme. Io, nel mio piccolo, Le prometto che continuerò a lavorare duramente affinché i detenuti che incontrerò sulla mia strada possano realmente inserirsi in un circolo virtuoso, lontano dal crimine. Insieme, semplicemente, sarebbe più facile. Torino. L’Osapp denuncia: “Non esisterà mai una Fase 2 nelle carceri” torinoggi.it, 25 aprile 2020 Il segretario della Polizia penitenziaria Leo Beneduci: “Necessario che si facciano i tamponi a tutti”. Molti agenti raccontano di lavorare con la paura addosso. “Ogni giorno vengo a lavorare con la paura, abbiamo contatti detenuti anche con detenuti positivi”. A parlare è un agente di polizia penitenziaria del carcere delle Vallette, che lavora nel reparto dei detenuti in stato di semilibertà. “Su dieci colleghi, due sono risultati positivi. Uno è a casa che sta male, in attesa di tampone, insieme alla famiglia, un altro è stato in ospedale con una polmonite, ma non è chiaro se si tratti di Covid-19”, racconta ancora l’agente. “Lavoriamo con l’agitazione. Non riusciamo a capire perché non facciano i tamponi a tutti”. Secondo l’Osapp, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, nel carcere di Torino i detenuti positivi sono stati 60, una trentina dei quali ancora dietro le sbarre. Tra gli agenti, invece, i positivi sono 14, tra Vallette e provveditorato generale. “Non esisterà mai una Fase 2 nelle carceri italiane, se non verrà fatta chiarezza sugli errori commessi - spiega il segretario Leo Beneduci - è necessario che si facciano i tamponi a tutti”. Saluzzo (Cn). 8 positivi nel carcere. Il Garante Allemano: “Ora situazione sotto controllo” di Michela Aimar ideawebtv.it, 25 aprile 2020 Tra i contagiati, 4 fanno parte del personale e altri 4 sono detenuti. Il Garante spiega che dopo un periodo non facile ora l’emergenza è controllata. Dopo le Rsa, ora l’attenzione rimane piuttosto alta anche nelle carceri, dove si presenta una situazione piuttosto similare. Questo è il problema riscontrato per l’appunto all’interno della Casa di reclusione “Rodolfo Morandi di Saluzzo, dove alcuni detenuti ed alcuni membri del personale sono risultati positivi al test del Coronavirus. Nelle scorse settimane, in seguito alle rivolte avvenute all’interno dei luoghi di detenzione, è stato effettuato un trasferimento, precisamente da Bologna, verso il carcere Morandi di Saluzzo, ed il detenuto in questione, regolarmente messo in isolamento, ha comunque presentato i sintomi del Covid-19. Questo episodio ha però scatenato le proteste dei detenuti, che visti negati gli incontri con i famigliari, ha trovato ingiusto questo trasferimento esterno, stesso pensiero condiviso anche da Paolo Allemano, garante dei diritti delle persone private e della libertà personale dei detenuti, il quale ci delinea in maniera chiara ed aggiornata, la situazione ad oggi, giovedì 23 aprile: “Al momento è in corso uno screening con tampone di tutta la popolazione del carcere, detenuti e personale. La campagna, iniziata il 19 aprile, dovrebbe concludersi il 24. I positivi sono al momento 8, 4 tra i detenuti e 4 tra il personale. Sono in isolamento in struttura, nessuno ha sintomi rilevanti. Nell’insieme la situazione appare sotto controllo, dopo un periodo non facile causato dai trasferimenti legati alla rivolta. Una strategia che come garanti abbiamo contestato e che ha dato adito a proteste legittime da parte dei detenuti cui sono stati negati i colloqui “de visu” ma che si sono visti costretti alla coabitazione con estranei”. Taranto. Dai detenuti, la spesa per chi “sta fuori” di Maria Acqua Simi it.clonline.org, 25 aprile 2020 Un’iniziativa nata a Taranto, dietro le sbarre, di fronte alle nuove povertà portate dal Coronavirus. E che ora si è allargata a tutte le carceri italiane. Il presidente del Banco Alimentare racconta una Colletta straordinaria. Delle carceri si parla poco, e generalmente male. Le rivolte del mese scorso, quando la notizia dell’epidemia si era fatta largo anche tra le sbarre, hanno contribuito a dare un’immagine poco edificante delle prigioni italiane. Eppure, là dentro, c’è molto di più. Da anni raccontiamo le storie di detenuti che in tanti istituti si coinvolgono nella Colletta Alimentare. Una generosità che non si è fermata nonostante questi tempi eccezionali e di emergenza e che, anzi, in qualche modo è cresciuta. Lo racconta Giovanni Bruno, presidente del Banco Alimentare: “Nei giorni scorsi alcuni carcerati di Taranto hanno voluto donare un po’ dei loro acquisti alimentari in favore del Banco, vista l’emergenza Coronavirus. Lo hanno fatto per aiutare chi “sta fuori”, soprattutto le famiglie più bisognose che si sono trovate improvvisamente in difficoltà. È stato un gesto enorme, commovente”. Ma la cosa ancora più straordinaria, spiega, è che l’intero sistema burocratico e amministrativo che ruota intorno al mondo delle carceri si è mosso in tempi rapidissimi - cosa non usuale - per dare la possibilità di diffondere questa raccolta in tutti gli istituti penitenziari italiani. E questo senza che nessuno lo avesse chiesto, senza strategie studiate a tavolino, senza campagne mediatiche: “Grazie all’interessamento della Direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassari, da cui è partito tutto, abbiamo potuto avviare con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziari una collaborazione per attivare la raccolta, per la prima volta, in tutte le carceri italiane”, racconta Bruno: “In meno di tre giorni dalla Direzione generale è arrivata una circolare che non solo autorizza l’iniziativa, ma che la promuove su tutto il territorio nazionale”. Nel testo della Direzione si legge che, considerata l’emergenza Covid-19, si ritiene auspicabile realizzare- in collaborazione con le sedi territoriali del Banco Alimentare - una Colletta Alimentare tramite la quale i detenuti possano donare parte della loro spesa settimanale. Un’iniziativa, conclude la nota, che è possibile estendere a tutto il personale dei penitenziari. “Per noi è un attestato di stima e di fiducia, un riconoscimento del lavoro e del valore sociale, culturale ed educativo di quello che facciamo, commenta il Presidente. Nel giro di pochi giorni, dopo Taranto, anche i detenuti degli istituti di Opera, Bollate, Voghera, Spoleto, per dirne alcuni, si sono messi in moto spontaneamente. Perché il bene chiama il bene. Ma cosa significa per un detenuto, nel concreto, fare la Colletta Alimentare? “In carcere esiste una cosa chiamata “sopravvitto”, ovvero, la possibilità di acquistare generi di conforto extra rispetto all’ordinario. Accade così che una persona compri, magari, cinque scatolette di tonno e decida di donarne due al Banco Alimentare. Certo, parliamo di persone che hanno disponibilità limitate, ma in questo piccolo gesto si giocano tutta la loro libertà. E forse per questo ha ancora più valore”. È un altro esempio, questo, lontano dai tam tam mediatici, che racconta della solidarietà e della generosità che continuano a scorrere nelle arterie della società italiana: “E ci teniamo a raccontarlo, perché quanto accaduto ha reso ancora più evidente quanto scrivevamo al termine della Colletta Alimentare: si può vivere un gesto di solidarietà in qualunque condizione ci si trovi, non c’è situazione che possa mortificare il desiderio di bene”. Custodire la libertà, sognare un mondo diverso: il 25 aprile è un monito al Paese in crisi di Andrea Donegà Il Riformista, 25 aprile 2020 Disse Alcide Cervi: “Dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male”. Un impegno che va rinnovato ogni giorno, a maggior ragione oggi nel mezzo di una pandemia che sta mettendo in crisi la nostra quotidianità e sta portando via tantissimi eroi e testimoni di quel 25 aprile di 75 anni fa. In un Paese che ha poca memoria, abbiamo il dovere di custodire la nostra storia con cura crescente considerato che si avvicina il giorno in cui saremo orfani dei protagonisti di allora. Il Sindacato e il lavoro hanno guidato le svolte decisive del nostro Paese. Risuonano ancora le frequenze di Radio Milano Libera che, il 25 aprile del 1945, portarono nelle fabbriche lo sciopero generale lanciato da Sandro Pertini contro la guerra fascista. Durante la Resistenza il lavoro ha espresso tutta la propria carica di emancipazione e libertà. Gli operai riorganizzarono il Sindacato democratico nelle fabbriche, ostacolarono con scioperi e sabotaggi la strategia di guerra e contribuirono a riannodare la cultura tra le persone. Il prezzo fu alto: molti furono uccisi, tanti finirono nei campi di concentramento come gli undici delegati sindacali della Franco Tosi di Legnano deportati a Mauthausen che ogni anno il Sindacato ricorda e ringrazia. Attorno a chi imbracciò le armi e scelse la via dei monti c’era un contorno di eroismo civile che garantiva la tenuta dei ribelli e aiutava ad allargare il fronte, anche dal punto di vista culturale e sociale. Le donne, instancabili staffette partigiane, si caricarono sulle spalle il mantenimento della famiglia mentre i mariti si muovevano tra gli aghi di pino. Insomma, la Resistenza fu un atto eroico e coraggioso, patrimonio collettivo da difendere da revisionisti straccioni e da sottrarre a contese per accaparrarsene proprietà e primogenitura che finiscono solo per smontarne la portata storica. I partigiani realizzarono una grande riconversione industriale: da fabbriche belliche e distruttive a sartorie civiche capaci di cucire speranza e coesione sociale unendo in un larghissimo fronte comune socialisti, comunisti, democristiani, azionisti, monarchici, liberali, repubblicani, anarchici e perfino il Fronte dell’Uomo Qualunque. Tutti capaci di alzare lo sguardo unendosi su valori e obbiettivi comuni e nobili, sacrificando interessi di parte. Oggi, con una politica concentrata a indicare nemici e problemi, incurante di costruire alleanze e soluzioni, dobbiamo riscoprire quella capacità di sintesi alta, fatta di progettualità collettiva e bene comune. Solo quando si saprà trovare un ideale più alto, attorno al quale unire e aggregare le energie migliori, questo Paese avrà la forza di risollevarsi. Uno scatto necessario in questa emergenza che ci impone di immaginare orizzonti nuovi verso cui traghettare il paese impegnandoci ognuno per la propria responsabilità, proprio come fecero i partigiani che in piena guerra sognavano i primi 12 articoli della nostra Costituzione che contengono quel modello di società che seppero inseguire. La Resistenza fu quindi un periodo di studio che testimonia quanto la cultura sia la pietra su cui costruire tutte le riscosse popolari, proprio come fecero i fratelli Cervi realizzando una biblioteca clandestina per iniziare a preparare il terreno per la ricostruzione del Paese. Conoscenza del passato, cura del presente e anticipazione del futuro sono i fari che guidano i nostri passi verso la costruzione di una società migliore e più giusta che faccia del lavoro il filo conduttore che abbraccia le persone in un progetto collettivo, elemento fondante dell’identità e della realizzazione di ognuno. È una delle eredità di Primo Levi che in “La chiave a stella”, suo inno al lavoro, ci ricorda che: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono”. Il mondo diverso sognato da Germano Nicolini, partigiano centenario, non esiste ancora. La fase storica è complicata, ma è il momento giusto per chi ha l’ambizione di contribuire a spingere il Paese sulla via giusta organizzando, ogni giorno, la speranza. È il nostro modo di raccogliere il pesante testimone di chi si è battuto per la nostra libertà, in un’infinita staffetta fatta di idealità e forte senso etico. La pandemia riguarda tutti, anche i più deboli: per ricostruire mettiamo da parte l’egoismo di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 25 aprile 2020 La pandemia ci ha ricordato che come individui siamo fragili, e vulnerabili sono la società, le strutture e le sovrastrutture che abbiamo costruito per difendere la nostra vita e i nostri privilegi. Se la pandemia riguarda tutti, allora la risposta migliore è concertata e globale. È questo il cuore pulsante dell’e-book che monsignor Vincenzo Paglia ha dedicato all’emergenza virus, “Pandemia e Fraternità. La forza dei legami umani riapre il futuro” (Edizioni Piemme). Ma nella riflessione del presidente della Pontificia Accademia per la Vita, fraternità e solidarietà non sono solo valori cristiani: sono le fondamenta sulle quali poggia la sopravvivenza dell’umanità. Nella prima parte l’Autore si concentra sui temi del “noi” e del “prenderci cura” gli uni degli altri. E introduce, sulla scia di papa Francesco, qualche commento su alcuni salmi che ci aiutano ad andare verso quell’Oltre, che per noi credenti si chiama Dio e per chi non crede Mistero, che accoglie e supera l’abisso nel quale oggi tutti siamo caduti. Se la “pandemia” riguarda tutti; se la risposta migliore è concertata e globale, se la solidarietà nei comportamenti ci rende responsabili gli uni degli altri, abbiamo un’occasione per delineare già da ora alcune linee portanti del futuro che vogliamo costruire. Non è vero, infatti, che tutto tornerà come prima, dopo questa parentesi da incubo. E il domani sarà migliore? Non è scontato. In chiusura, a sintetizzare il percorso compiuto nell’e-book, viene riportato il documento “Pandemia e fraternità universale”, presentato a Papa Francesco il 30 marzo 2020, che la Pontificia Accademia per la Vita ha elaborato per contribuire alla riflessione condotta nel mondo della ricerca scientifica e umanistica. A partire da temi e spunti contenuti nel volume in uscita, ecco alcune considerazioni che il monsignore ha voluto affidare alle nostre pagine. Non è il Coronavirus lo “spettro” che si agita per il mondo. Ne abbiamo conosciuto gli aspetti inquietanti e di “superficie”: capacità di contagio, aggressività virale. Ne abbiamo assaggiato la tremenda forza nel condizionare la vita delle nostre società, imponendoci ritmi ed abitudini impensabili fino a due mesi fa. Sessanta giorni hanno cambiato il ritmo del nostro mondo, l’aspetto delle città e la qualità delle relazioni interpersonali. Il Coronavirus ci ha fatto scoprire che siamo tutti sulla stessa “barca”, come ha detto Papa Francesco, e che è necessario che tutti remiamo dalla stessa parte. Ma per far questo siamo obbligati a riflettere su “quale” società vogliamo costruire. E, il remare assieme nella stessa direzione, è già l’inizio della società di domani. Ma è quel che sta accadendo? Il domani o inizia oggi o neppure verrà. Se non riusciamo già da ora a superare le innumerevoli spinte divisive tra “noi” sarà difficile intravedere il futuro. In questi sessanta giorni il nostro futuro è già iniziato. Ora abbiamo bisogno di visioni lunghe, non di sguardi corti. Se ci rifugiamo nella “lettera” delle normative non riusciremo a far entrare davvero quel futuro che comunque sia è già cominciato. In una sua poesia, Karol Wojtyla scriveva: “l’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione”. Aveva ragione. Direi che la stessa pandemia è una delle conseguenze amare dell’assenza di una visione. Ci siamo fermati al presente degli interessi individuali o comunque particolari pensando che fosse l’oggi da sfruttare in vista del proprio benessere. Ma l’esclusivo interesse individuale - è bene ormai riconoscerlo apertamente - ci è sfuggito di mano. Nato come sacrosanta affermazione del valore inviolabile della persona e dell’integrità dei suoi diritti, l’individualismo ha finito per erodere quei solidali rapporti umani che rendono buona la vita della società. arricchendo l’umanità dei singoli e scongiurando l’abbandono dei più deboli. È chiaro ormai che la somma degli interessi individuali non solo non produce una società più solidale, ma non porta neppure, alla fine, vantaggio alla stessa vita individuale. In realtà l’erosione dei rapporti - Bauman ci aveva avvertiti dei pericoli di una “società liquida” - ha finito per rendere liquidi ed evanescenti anche i doveri corrispondenti alla responsabilità delle relazioni che edificano la comunità. Ma la qualità della convivenza è un bene indivisibile: per essere goduto da tutti deve essere responsabilmente condiviso. In questi ultimi tempi sia in Italia che in Europa e in Occidente, siamo stati incalzati dal tema politico della necessità di “immunizzare” il nostro benessere: non solo da ogni minaccia e aggressione, come è giusto, ma anche da ogni possibile forma di solidarietà e di condivisione. L’ossessione immunitaria assume connotati quasi deliranti, giustamente stigmatizzati come derive anti-umanistiche di una civiltà che arriva a ripudiare i fondamenti stessi della sua cultura civile. La diffusione del virus è una grande lezione: l’umanità si “difende” aprendosi alla vulnerabilità dell’altro. Tutti noi ci “difendiamo” proteggendo l’altro in pericolo di vita. Purtroppo stiamo rischiando di mettere ai margini della società le persone più deboli, gli anziani, i bambini, i poveri. Insomma, l’individualismo ha eroso man mano il rapporto tra le generazioni, dividendole le une dalle altre. E ovviamente le più deboli sono state penalizzate: anziani, bambini e poveri compresi gli stranieri. Volatilizzando ogni dimensione solidale nel tessuto della società. Quel che è accaduto nelle Rsa è un grido che sale al cielo. Ma non è avvenuto per caso. È stata l’esplosione di una contraddizione già presente. Analogo il discorso sui bambini e i minori. Abbiamo costruito un mondo che per loro è molto problematico. In Italia i giovani guardano il loro futuro con grande preoccupazione. E se il discorso si allarga al pianeta è evidente l’irresponsabilità degli adulti per la devastazione dell’ambiente. Ci sono poi gli scartati di sempre, i poveri e gli “stranieri”, gli “immigrati”. È opportuno, anzi doverosa la regolarizzazione dei lavoratori e lavoratrici per rendere più coeso il tessuto della società. L’ultima indagine Swg di queste ore per il Cnel rileva che la maggioranza degli intervistati vede con favore la regolarizzazione dei lavoratori stagionali non italiani in agricoltura e di colf e badanti nel settore domestico. A quanto pare l’Italia è più avanti delle polemiche politiche. “L’uomo della strada” vede e comprende aspetti di assoluto buon senso. Che però ci danno una marcia in più di umanità. Lo “spettro” del Coronavirus si batte sul terreno medico; i suoi effetti sociali si sconfiggono con un disegno di società per il domani. È un messaggio profondamente diverso rispetto a una visione “economica” della vita e delle relazioni. La visione economica privilegia la “cultura dello scarto”: qualcosa non serve, allora si butta. Vale per gli oggetti e viene applicata alle persone deboli e sole: anziani, malati, carcerati, immigrati; non ci servono, dunque si possono “eliminare” non curandoli, lasciandoli da parte, nei loro “ghetti” per evitare di vederli. Dunque il grande tema di oggi è la società che vogliamo costruire, nella quale entri una economia attenta allo sviluppo dell’uomo, così come una salute che sia a misura di tutti. Siamo chiamati a ripensare il modello di sviluppo con l’intento di non escludere nessuno. E per questo debbono ripartire senza dimenticare i poveri, senza essere segnate da una dimensione solidaristica radicale. A mio avviso è un tema particolarmente urgente da mettere sul tavolo del futuro. Ne è della “salute” della stessa democrazia. Le tentazioni sovraniste, le esperienze autoritarie, sono un campanello di allarme per la salute del corpo e degli animi. Insomma, dobbiamo riaprire la frontiera della solidarietà - o della fraternità - per farla diventare uno stile di civiltà sin da ora. È nella forza dei legami umani che si riapre oggi il futuro. Per noi deve essere un punto d’onore. Turchia. Dieci mesi a digiuno, Mustafa se ne va 20 giorni dopo Helin di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 aprile 2020 In sciopero della fame da 297 giorni, condannato all’ergastolo aggravato senza prove, un altro membro della band marxista Grup Yorum è morto di protesta. “Il mio nome è Mustafa Kocak, ho 28 anni. Ho vissuto con la mia famiglia a Istanbul fino all’arresto. Come uno dei quattro figli di una famiglia povera, ho passato la mia infanzia e la mia giovinezza lavorando qua e là. La mia vita è cambiata quando sono stato arrestato, il 23 settembre 2017”. Inizia così la lettera che Mustafa ha lasciato ai suoi avvocati e pubblicata dall’agenzia Bianet. Mustafa è morto 20 giorni dopo Helin Bolek, era ridotto a pesare 29 chili. I due membri del gruppo marxista turco Grup Yorum, in sciopero della fame da mesi contro la durissima repressione scagliata contro il loro progetto artistico e politico dal governo, se ne sono andati uno dopo l’altra, ridotti pelle e ossa da una protesta estrema. Mustafa Kocak si è spento ieri dopo 297 giorni di cibo rifiutato: chiedeva un processo equo, denunciava le torture subite. “Tutto quello che chiedeva era un processo giusto, non gliene hanno dato la possibilità - ha commentato Omer Faruk Gergerlioglu, parlamentare del partito di sinistra pro-curdo Hdp - È diventato l’ultima vittima di un sistema ingiusto”. Nata nel 1985, con all’attivo 23 album, la band è da anni sottoposta al divieto di esibirsi in pubblico, mentre il loro centro culturale a Istanbul è stato perquisito e chiuso dieci volte negli ultimi due anni. Sei dei suoi membri sono tuttora in prigione. Per l’accusa di aver passato armi a un’organizzazione terroristica (il marxista Dhkp-C) in violazione della costituzione, Mustafa è stato condannato all’ergastolo aggravato sulla base delle testimonianze di persone soggette a tortura, senza ulteriori prove, video, foto, impronte digitali. “Il risultato di un processo pieno di illegalità, ha trasformato il suo resistente sciopero della fame in un digiuno fino alla morte - ha detto ieri uno dei suoi legali, Aysul Catagay - Lo hanno guardato morire giorno dopo giorno. Abbiamo perso Mustafa ma i digiuni fino alla morte continuano: gli avvocati Abru Timtik e Aytac Unsal non mangiano da 113 e 82 giorni, un altro membro del Grup Yorum, Ibrahim Gokcek, da 312”. È l’ultima ed estrema forma di protesta scelta da alcuni prigionieri politici nelle carceri turche, inascoltati da procure e tribunali prima, dalle autorità carcerarie poi. Chiedono processi giusti, un’utopia nella Turchia del presidente Erdogan, soprattutto dopo il tentato golpe del 2016 che ha avviato una stagione di epurazioni, repressione e battaglia al dissenso che si è tradotta in un numero spropositato di detenzioni. Trentamila stimati su 300mila detenuti totali. Arabia Saudita. Abdullah al Hamid “morto in carcere per mancanza di cure” di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 aprile 2020 La protesta dei centri per i diritti umani per la morte in carcere dell’accademico e attivista. Era stato condannato a 11 anni per aver “rotto il patto di fedeltà al sovrano”. È spirato nell’infermeria del carcere Abdullah al Hamid, accademico, scrittore e attivista saudita per i diritti umani. “Morto per negligenza medica e per mancanza di cure adeguate alla gravità delle sue condizioni”, denunciano Prisoners of Conscience e Alqst, un gruppo saudita per i diritti umani che opera al di fuori del Regno. Condannato a 11 anni di carcere per le sue attività a sostegno dei diritti umani in Arabia saudita, al Hamid aveva avuto un ictus il 9 aprile ed era in coma da 15 giorni. Il 17 aprile Amnesty ne aveva chiesto la scarcerazione per le sue condizioni di salute, giudicate molto gravi. Invece le autorità saudite lo hanno trasferito dall’ospedale nel carcere di al Shumaisi a Riyadh dove il suo cuore ha cessato di battere nella notte tra giovedì e venerdì. Tre mesi fa i medici avevano invano richiesto che l’attivista, che soffriva di ipertensione, si sottoponesse subito a un intervento cardiaco. Al Hamid, 69 anni, era stato tra i fondatori della Saudi Civil and Political Rights Association (Acpra). Aveva scritto sui diritti dell’uomo e sull’indipendenza della magistratura. Nel marzo del 2012 era stato arrestato con Mohammad al-Qahtani, co-fondatore di Acpra, e condannato l’anno successivo con l’accusa di aver “rotto il patto di fedeltà al sovrano”, “cercato di mettere a rischio la sicurezza del paese incitando al disordine” e di aver collaborato con “organizzazioni internazionali contro il Regno dell’Arabia saudita”. Repressione contagiosa: arresti e censura in Algeria di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 25 aprile 2020 Gli oppositori politici esclusi dall’amnistia. Il 17 marzo scorso le autorità algerine hanno emesso un ordine di divieto per tutte le manifestazioni pubbliche. Il provvedimento è stato emesso per contrastare, come in altri paesi, la possibilità di contagio da coronavirus che nel paese ha raggiunto i 2910 casi con 402 morti. Ma il blocco sta legittimando la proibizione di ogni espressione di dissenso nei confronti del governo nato, dopo lunga gestazione, dopo la fine del trentennale potere di Bouteflika nell’aprile del 2019. Da allora i movimenti che avevano provocato la caduta dell’anziano autocrate non hanno mai smesso di reclamare diritti e la condanna di molti di coloro che, a suo tempo collusi con il vecchio regime, ancora siedono nei posti chiave della leadership politica algerina. Il lockdown si è quindi tramutato in una clava per zittire gli oppositori. Come nel caso del giornalista Khaled Drareni arrestato dalla polizia a fine marzo. Drareni, corrispondente per Reporter senza frontiere (Rsf), è stato testimone e narratore del movimento anti Bouteflika. “In un momento in cui la pandemia di Covid-19 evidenzia l’importanza di un accurato resoconto-recita un comunicato del Comitato di protezione dei giornalisti, le autorità hanno optato per reprimere il libero flusso di informazioni”. Per il National Committee for the Liberation of Detainees (Cnld), il caso di Drareni è solo uno degli episodi di una serie di episodi verificatisi nelle ultime settimane. Dozzine di persone, tra cui attivisti e studenti, sono state convocate dalla polizia da quando è scoppiata la pandemia. Solo due giorni fa, il parlamento ha approvato un progetto di legge che criminalizza “notizie false” ritenute dannose per l’ordine pubblico e la sicurezza dello stato. Vengono anche segnalati abusi giudiziari come nel caso di Karim Tabbou, ex parlamentare e attivista nel movimento antigovernativo. Si trovava in carcere e a due giorni dalla liberazione è stato istituito un processo a sorpresa senza che i suoi legali ne sapessero nulla e condannato a 6 mesi per “offesa all’unità nazionale e al morale dell’esercito”. Tutto ciò mentre i tribunali sono chiusi per la pandemia. Ad essere colpiti dunque sembrano essere solo gli oppositori: il 1 aprile è stata annunciata un’amnistia per 5mila detenuti per il pericolo di contagio nelle carceri, ma dal provvedimento sono esclusi tutti i prigionieri politici nonostante le proteste di avvocati, famiglie e attivisti.