Emergenza carceri. Perché la riforma nel penale non è più rinviabile di Paolo Carbone* Il Mattino, 24 aprile 2020 Tra le criticità del sistema Italia, che la coscienza dei più cerca di rimuovere come un mantra fastidioso, c’è il carcere, un pianeta sconosciuto che, quando non è scuola di delinquenza, è emarginazione, sofferenza, negazione di ogni principio di civiltà e di dignità. Le analisi degli addetti ai lavori nei verbosi convegni si esauriscono con la descrizione impressionistica delle celle affollate e maleodoranti, con la attuale sospensione dei colloqui “a vista” dei detenuti con i familiari e i difensori, con la riduzione del tempo di fruizione della televisione e con l’esaltazione della cosiddetta Riforma Penitenziaria e di recenti timide concessioni legislative, come gli arresti domiciliari con “braccialetto” per pene fino a diciotto mesi o come la declaratoria di illegittimità della retroattività della Legge Spazza-corrotti nei reati contro la Pubblica Amministrazione. Questi interventi sporadici e disarticolati vanno nella direzione opposta rispetto all’auspicato assetto organico coeso e completo del sistema carcerario ispirato ai principi dell’Ordinamento generale delle leggi, assertore della inviolabilità dei diritti della persona di cui il detenuto deve poter serbare la titolarità e l’esercizio. Non è più rinviabile - specie dopo le rivolte nelle Case circondariali di Napoli, Salerno, Campobasso, Lodi, Brescia e Santa Maria Capua Vetere e dopo che l’Antimafia ha indicato nella Camorra la regia tutt’altro che occulta di tali disordini - una riforma sistemica dell’ordinamento penale. I settori di intervento sono molteplici. Il primo riguarda la durata dei processi. Gli oltre cinque milioni di pendenze annuali rappresentano spesso una negazione di giustizia. La conclusione, dopo anni, è nel quaranta per cento la prescrizione. I danni, anche sul piano economico, sono immaginabili, specie quando ad essi si aggiunge la beffa di parti civili non risarcite. Piuttosto che accedere a rimedi peggiori del male come l’amnistia e l’indulto, bisogna depenalizzare la miriade di condotte di minore impatto sociale. Il panpenalismo del legislatore costringe gli operatori a districarsi in una selva di reati: oltre settecento quelli del codice penale, cui vanno aggiunti centinaia di fattispecie criminose disseminate nella legislazione cosiddetta speciale. Prima di sbandierare riforme impossibili, bisogna ricondurre nell’alveo costituzionale il concetto di pena, come sanzione certa, espiabile, ma giusta. Accusavamo il Codice Rocco di essere improntato ad una cultura inquisitoria e giustizialista. Ma siamo stati capaci di stravolgere anche il processo cosiddetto accusatorio, teoricamente garantista, con leggi e leggine di severità draconiana, ora per contrastare il terrorismo, ora la mafia, ora la corruzione. Il risultato? Si va in galera prima della sentenza. In barba alla Costituzione, che individua nella privazione della libertà la extrema ratio, la carcerazione preventiva è una vera anticipazione di pena. Il quaranta per cento degli oltre settantamila detenuti è in attesa di giudizio. Il Governo attuale non si è sottratto ad uno sport ormai ricorrente: porre mano alla riforma del processo penale per “superare le antiche vischiosità del rito e assicurare l’accorciamento dei tempi dei giudizi”. Un proposito lodevole, soprattutto se esteso-come è stato promesso- al “sistema sanzionatorio”. Che sia un segno di ravvedimento del legislatore? *Professore di Sistemi giuridici all’Università “Federico II” di Napoli “Domiciliari negati in piena epidemia, dal governo replica elusiva alla Cedu” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2020 La Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo non darà indicazioni allo Stato italiano di adottare, per ora, una misura domiciliare provvisoria nei confronti del detenuto B.M.. Dopo un botta e risposta, rettifiche e controrepliche, il braccio di ferro tra gli avvocati e il governo si è concluso: la Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo non darà indicazioni allo Stato italiano di adottare, per ora, una misura domiciliare provvisoria nei confronti del detenuto B.M.. Ma, nel contempo, ha comunque richiesto alla difesa di depositare il ricorso entro il 2 giugno prossimo. Parliamo del ricorso alla Cedu presentato dagli avvocati Roberto Ghini del Foro di Modena e Pina Di Credico, referente osservatorio Europa della Camera penale di Reggio Emilia. Entrambi difensori di B. M., recluso presso la casa circondariale di Vicenza, per il quale è stata rigettata l’istanza di detenzione domiciliare da parte del magistrato di sorveglianza di Verona. Un rigetto che non ha preso in considerazione l’emergenza coronavirus, nonostante l’istanza sia stata fatta a seguito dell’introduzione dell’istituto della detenzione domiciliare di “emergenza” del “Cura Italia”. Motivo per il quale gli avvocati Ghini e Di Credico, lunedì 13 aprile, hanno presentato una richiesta urgente alla Cedu. La Corte Europea, ricordiamo, aveva posto dei quesiti importanti allo Stato Italiano, come appunto in che maniera stanno gestendo l’emergenza Covid 19 nelle carceri e quali misure hanno intrapreso per decongestionare la popolazione detenuta. Gli avvocati Ghini e Di Credico spiegano a Il Dubbio che il governo ha risposto in 4 diversi momenti, affermando talvolta circostanze che ha poi dovuto correggere o modificare nelle comunicazioni successive. Salta subito nell’occhio che il governo ha testualmente riferito alla Corte di avere acquistato il giorno 15 aprile ben 6.600 braccialetti elettronici e che tali strumenti erano già nella sua piena disponibilità. Ovviamente ciò non è affatto vero. “È stato agevole replicare - raccontato gli avvocati Di Credico e Ghini - come tale circostanza fosse “non veritiera” e come, piuttosto, la notizia riferita riguardasse un impegno “futuro”. Infatti il governo ha dovuto riconoscere come il termine utilizzato (“ora disponibili”) fosse da interpretare in maniera non letterale. “Ha probabilmente avuto peso - nella decisione della Cedu - la circostanza che proprio durante questa procedura urgente (e probabilmente grazie all’immediato intervento della Cedu stessa), con tempistiche alle quali raramente si è abituati, il Tribunale di Sorveglianza competente ha immediatamente fissato udienza nell’interesse del nostro assistito”, sottolineano gli avvocati. Infatti, curiosamente, appena la Cedu ha accolto il ricorso degli avvocati, in tempi record il Tribunale di sorveglianza ha fissato l’udienza per il ricorso all’istanza rigettata. “Il governo ha così potuto dire alla Cedu - evidenziano i due difensori che la magistratura interessata avrebbe assicurato che la vicenda del ricorrente sarebbe stata valutata con la “massima priorità”. Resta il fatto che secondo gli avvocati il governo ha illustrato le proprie motivazioni in maniera caotica e, spesso, non convincente. Non solo sui braccialetti. “Nelle prime osservazioni - denunciano i due legali - il governo ha addirittura sostenuto che la difesa del ricorrente non aveva presentato l’istanza al magistrato di sorveglianza di Verona con cui veniva richiesta la detenzione domiciliare a fronte dell’emergenza Covid- 19”. Anche questo non era vero e, dinanzi alla pronta risposta della difesa che ha immediatamente dato prova del deposito, il governo ha riconosciuto il proprio errore, imputandolo a un malfunzionamento dell’indirizzo mail. Gli avvocati spiegano anche che la Corte aveva chiesto al governo Italiano informazioni in merito alle misure preventive specifiche adottate per proteggere “il richiedente e gli altri detenuti” dal pericolo di contagio. “Il governo sul punto si è limitato a ricordare le circolari del Dap e gli ulteriori provvedimenti adottati dall’amministrazione penitenziaria senza mai tentare di spiegare come sia possibile che, nonostante tali misure adottate in ogni carcere, siano numerosi i focolai in altri istituti di pena (Torino, Verona, Tolmezzo, Bologna eccetera)”, replicano gli avvocati Ghini e De Credico. “La tematica merita, anche per la Corte, un celere e più approfondito vaglio e infatti i tempi richiesti alla difesa per inoltrare il ricorso appaiono sostanzialmente immediati. E, nonostante la sospensione delle attività della Corte (già prevista fino alla metà del mese di giugno), alla difesa è stato indicato quale termine ultimo quello del 2 giugno” concludono gli avvocati Ghini e De Credico. Emergenza Covid in carcere, per ora la Cedu grazia l’Italia di Angela Stella Il Riformista, 24 aprile 2020 La Corte non interviene sulla vicenda di un detenuto di Vicenza, il cui caso però passa al tribunale di Sorveglianza. Abbiamo chiesto a Bonafede di commentare, ma al momento nessuna risposta. Qualche giorno fa vi avevamo parlato del trentenne modenese recluso nel carcere di Vicenza a cui, pur dovendo scontare una pena residua sotto i 18 mesi, era stata negata dal magistrato di sorveglianza di Verona la detenzione domiciliare con o senza braccialetto. Gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico avevano presentato ricorso al Riesame di Venezia e si erano rivolti con una istanza urgente alla Cedu. Due giorni fa la Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo ha comunicato che non darà indicazioni al Governo italiano di adottare, allo stato, una misura provvisoria. Dunque il detenuto resta in carcere. Sconosciute le motivazioni. Come ci spiegano gli avvocati “ha probabilmente avuto peso nella decisione la circostanza che proprio durante questa procedura urgente, e probabilmente grazie all’immediato intervento della Cedu stessa, con tempistiche alle quali raramente si è abituati, il Tribunale di Sorveglianza competente ha immediatamente fissato udienza nell’interesse del nostro assistito il prossimo 28 aprile. La Cedu sembra voler dire “risolvete la questione a casa vostra” altrimenti - ha scritto ai legali - avete tempo fino al 2 giugno per presentare un nuovo ricorso. Però, ci tengono a sottolineare gli avvocati, “il Governo ha spiegato le proprie difese in maniera caotica e, spesso, non convincente, soprattutto sulla questione dei braccialetti elettronici: “Ha testualmente riferito alla Corte di avere acquistato il giorno 15 aprile n. 6.600 braccialetti elettronici e che tali strumenti erano già nella sua piena disponibilità. È stato agevole replicare come tale circostanza fosse “non veritiera” e come, piuttosto, la notizia riferita riguardasse un impegno “futuro”. Nel successivo intervento il Governo ha dovuto riconoscere come il termine utilizzato - “ora disponibili” - fosse da interpretare in maniera non letterale. Abbiamo chiesto un commento al Ministero della Giustizia sulla decisione della Cedu ma nel momento in cui chiudiamo questo articolo non è giunta alcuna risposta. Intanto il numero delle persone presenti in carcere è sceso a 54.323, come ha reso noto il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: “Si tratta di un calo sensibile che tuttavia va messo in relazione con l’effettiva capienza degli Istituti penitenziari che è attestata a 46.875 posti: tale relazione impone l’ulteriore sforzo finalizzato a non superare la totalità della disponibilità di posti per assicurare la tutela della salute e della qualità di vita delle persone detenute. Sul fronte contagi da Covid-19 dobbiamo registrare che se il Piemonte è la terza regione più colpita in Italia, detiene purtroppo il primato per il numero di contagi in carcere come ci racconta il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano: “Facendo riferimento ai dati resi noti sabato dal sottosegretario Giorgis, posso dire che su 140 detenuti affetti da Covid-19 in Italia, circa 50 sono in Piemonte, tra Torino, Saluzzo ed Alessandria. Nel carcere di Saluzzo comunque al momento è in corso una campagna di tamponi a tutta la popolazione detenuta e agli agenti penitenziari”. Gli chiediamo un commento sulle dichiarazioni di Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp per cui tra i detenuti sarebbe in uso scambiarsi effusioni in maniera più che palese, con l’evidente scopo di contrarre una positività che faciliterebbe l’uscita all’esterno. “È chiaramente una boutade - ci dice Mellano - i reclusi non sono mica così scriteriati. Il problema vero è che oltre il contagio da virus c’è quello da panico. Bisogna evitare l’angoscia nelle famiglie. Come è una illusione tenere il virus fuori dal carcere così è una illusione tenere fuori le informazioni”. Omissioni e menzogne, il governo viene sbugiardato davanti alla Cedu di Maurizio Tortorella La Verità, 24 aprile 2020 Per ora non esce dal carcere di Vicenza il detenuto che, temendo il contagio di Covid-19, ha presentato un ricorso pilota alla Corte europea dei diritti dell’uomo per scontare ai domiciliari i 16 mesi che gli restano di una condanna per reati di droga. B.M. (sono queste le iniziali del detenuto vicentino di cui abbiamo raccontato la storia su La Verità dell’11 aprile) lamenta di essere stato escluso illegittimamente dai benefici del decreto Cura Italia, che tra le misure per contrastare il contagio ha concesso di lasciare la prigione e passare agli arresti domiciliari ai condannati non pericolosi, e con pene residue sotto i 18 mesi. Mentre in Italia da ieri furoreggia la polemica sulla scarcerazione del boss mafioso Francesco Bonura, che il Tribunale di Milano ha liberato ritenendolo a rischio contagio per i suoi 78 anni, sul caso di B.M. (che di anni ne ha 32) la Cedu ha sospeso il giudizio perché il Tribunale di Venezia ha anticipato al 28 aprile l’udienza per valutare il suo appello. Nel caso in cui la scarcerazione fosse ancora negata, i giudici di Strasburgo hanno invitato gli avvocati di B.M., Roberto Ghini e Pina Di Credico, a presentare loro un nuovo ricorso, che sarà valutato d’urgenza. Nelle carceri italiane la paura del contagio è forte, e l’hanno mostrato le rivolte ai primi di marzo. Al 6 d’aprile i reclusi erano 57.137, diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare, e tra loro il Covid-19 ha fatto due vittime, a Bologna e a Voghera, e si teme che i contagiati siano moltissimi: non si sa quanti siano nel carcere di Vicenza, ma ne risultano 42 (su 470 detenuti) in quello della vicina Verona. Del resto, anche tra gli agenti di custodia ci sono due morti, e per Donato Capece, il leader del loro sindacato autonomo, i contagiati sono almeno 260. Ora B.M. aspetta il 28 aprile. I suoi legali si dicono certi che l’accelerazione dell’udienza a Venezia sia un risultato del ricorso alla Cedu, e sono fiduciosi che, qualsiasi cosa accadrà, “l’attenzione della Corte di Strasburgo resterà alto”. Nel frattempo, però, Ghini e Di Credico criticano le risposte ricevute dal governo di Giuseppe Conte e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che nelle carte inviate a Strasburgo si sarebbero difesi “in maniera caotica e spesso non convincente”. I due legali rivelano che nelle risposte alla Cedu, 40 pagine, il governo ha scritto che la difesa di B.M. non avesse presentato alcuna istanza al Tribunale di sorveglianza. L’avvocato Di Credico attacca: “Quando abbiamo depositato alla Cedu le email che certificavano il contrario, il governo ha dovuto scusarsi dell’errore parlando di un “disguido tecnico”, accampando un improbabile “mancato funzionamento dell’indirizzo email”. Alla Corte, che al governo italiano ha chiesto come stia tutelando i detenuti dal contagio, l’avvocato Di Credico aggiunge che Conte e Bonafede hanno “testualmente ed entusiasticamente riferito di avere acquistato il 15 aprile 6.600 braccialetti elettronici, e che questi erano già nella piena disponibilità”. Ma gli avvocati di B.M. hanno smentito anche questo, visto che proprio a metà aprile era uscita la notizia che Bonafede aveva chiesto al commissario straordinario Domenico Arcuri di trovare urgentemente i dispositivi mancanti per il controllo a distanza dei detenuti, per poterli trasferire dalla cella agli arresti domiciliari. Le cronache riportavano che Arcuri era riuscito a sbloccare la situazione, acquistando 4.700 braccialetti, ma per la fornitura sarebbe servito un mese. “E infatti”, conclude l’avvocato, “il governo ha poi dovuto riconoscere che il termine utilizzato, cioè “ora disponibili”, fosse da interpretare in maniera... non letterale”. Insomma, una vera figuraccia. “Ora servitevi più spesso delle misure alternative per scongiurare contagi” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 24 aprile 2020 Dal Consiglio d’Europa raccomandazioni ai ministri. Il documento rivolto agli esecutivi di tutti i Paesi del continente sottolinea l’utilità di “best practice” che possano ridurre il sovraffollamento e le conseguenti occasioni di infezione nei penitenziari. Per contrastare efficacemente la diffusione del Covid-19 nelle carceri, il Gruppo di lavoro del Consiglio di cooperazione penologica (PC- PT WG) del Consiglio d’Europa - fra i suoi nove componenti, il giudice italiano Anna Ferrari - ha inviato ieri una propria raccomandazione ai ministri della Giustizia dei 47 Stati membri. Il documento, non vincolante trattandosi di “soft low”, contiene una serie di consigli pratici che, a seconda delle legislazioni e delle prassi nazionali, potrebbero essere adattati alla situazione dei diversi Paesi nel pieno rispetto dei principi e degli standard internazionali in materia. Fra i punti principali, quello di “fare un uso più efficace e frequente” della detenzione domiciliare. Un intervento che può essere agevolato grazie alle “nuove tecnologie di sorveglianza”, come il braccialetto elettronico “nel pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Da Strasburgo sottolineano, in questo periodo di pande- mia, l’importanza di andare oltre la detenzione in carcere, puntando su “programmi di liberazione anticipata dei detenuti” che possono ridurre efficacemente il sovraffollamento, e le conseguenti occasioni di contagio per la difficoltà di mantenere il distanziamento sociale, negli istituti di pena. “Best practice” che in Italia erano state proposte qualche settimana fa, fra le polemiche, dai togati di Area al Consiglio superiore della magistratura e dai magistrati di sorveglianza. Oltre a dettagliate indicazioni di profilassi igienico sanitarie, il PC- PT WG evidenzia la necessità di “fornire oralmente e, se possibile, anche per iscritto a tutti i detenuti” ogni informazione necessaria a questo proposito “al fine di evitare tensioni e garantire la comprensione e la cooperazione di tutte le parti”. Non solo: sarebbe auspicabile “la pubblicazione delle domande più frequenti sui siti web dei servizi penitenziari e/o l’istituzione di una linea di assistenza per rispondere alle domande delle famiglie dei detenuti”. Un ulteriore supporto in questi difficile periodo potrebbe venire, sia per i detenuti che per il personale di polizia, da “psicologi interni”. Se le visite dei familiari dei detenuti vengono annullate a causa della pandemia, “i servizi penitenziari devono fornire gratuitamente telefono, video o altri mezzi di contatto e corrispondenza aggiuntivi”. In alcuni Paesi (non è il caso dell’Italia) in cui i laboratori sono chiusi e dove i detenuti non possono più lavorare e guadagnare, è stato previsto un indennizzo per la perdita di reddito. Boss liberi grazie al virus, è polemica. Bonafede: non è colpa nostra di Alessia Candito repubblica.it, 24 aprile 2020 Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso i domiciliari a Platì a Domenico Perre, 64 anni, 22 passati in cella, con problemi cardiaci. Dopo le polemiche sui detenuti usciti di cella, il ministro Bonafede ha annunciato controlli. Con l’epidemia di Covid19 in corso, anche uno dei sequestratori di Alessandra Sgarella, l’imprenditrice rapita a Milano nel 1997 e liberata a Locri undici mesi dopo, strappa i domiciliari. Così ha deciso il Tribunale di sorveglianza di Milano, che su istanza dell’avvocato Maurizio Punturieri ha concesso a Domenico Perre, 64 anni di cui 22 passati in carcere, di tornare nella sua Platì. Motivo? Le sue precarie condizioni di salute, che lo rendono soggetto a rischio in caso di contagio da Covid19, rendendo la permanenza in cella - sostengono i suoi legali - “in forte contrasto con il senso di umanità che pervade la norma in materia di esecuzione pena detentiva”. Per Perre contrarre il Covid19 è un rischio, non un pericolo concreto. Eppure è bastato a far considerare sotto altra le luce lo stato di salute del sessantaquattrenne, su cui dal 2015, per anni i suoi legali hanno fatto inutilmente leva per tentare di strappare i domiciliari. Vittima di un infarto nel 2013 e da allora sottoposto a terapia per una serie di episodi ischemici, Perre a detta dei suoi difensori da tempo avrebbe dovuto essere assistito a casa. Istanze regolarmente respinte al mittente dai giudici, per i quali il carcere di Opera, dove è stato trasferito dopo i primi anni di detenzione a San Gimigliano, è sempre stato in grado di offrirgli assistenza sanitaria efficace in caso di bisogno. Con l’epidemia però tutto è cambiato. E nella giornata di ieri Perre ha chiamato l’avvocato Punturieri per annunciargli l’avvenuta scarcerazione, così come i suoi familiari, che hanno attraversato l’Italia per riportarlo a casa, dove è tornato a quanto pare libero e senza scorta. “Ma in questo momento - fa sapere il suo legale - si trova già in quarantena a Platì”, paese considerato roccaforte di alcuni fra i clan più feroci della Calabria, attualmente amministrato da un commissario prefettizio dopo il quarto scioglimento per mafia. È lì, proprio a casa di Perre, che gli investigatori sono riusciti a piazzare la microspia che ha consentito di individuare alcuni degli autori del sequestro -uno degli ultimi della stagione dei rapimenti, per lungo tempo accompagnato dal mistero sul pagamento del riscatto - dell’imprenditrice milanese. L’ultimo, Francesco Perre, è stato arrestato nell’agosto 2011, dopo quasi dodici anni di latitanza. Nelle stesse ore, Alessandra Sgarella si spegneva all’ospedale di Rozzano. Adesso uno dei suoi sequestratori guadagna la libertà. Ma non si tratta del primo detenuto per reati gravi, incluse accuse di mafia, che passa dal carcere ai domiciliari. Per tutti o quasi, a pesare sono le condizioni di salute o l’età avanzata, compatibili con il carcere in tempi normali ma divenute un problema in tempi di pandemia. È successo, fra i tanti, a Vincenzino Iannazzo, boss di Lamezia Terme condannato come tale in appello a 14 anni e mezzo di reclusione e spedito a casa dalla Corte d’appello di Catanzaro per rischio statistico di contrarre il Covid19. Stessa decisione è stata presa dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria, ha accordato i domiciliari all’ultrasettantenne Rocco Santo Filippone, imputato come mandante degli omicidi dei carabinieri Fava e Garofalo con cui i clan calabresi hanno firmato la propria partecipazione alla strategia stragista degli anni della Trattativa Stato-Mafia. A sollecitare la scarcerazione erano stati i legali, gli stessi che una settimana dopo in udienza hanno lamentato l’impossibilità di fornire a Filippone assistenza adeguata fra le quattro pareti di casa. Esempi di una lunga serie di boss, generali, colonnelli e affiliati dei clan che potrebbero guadagnare la libertà in tempi di Covid 19. Un elenco - ha rivelato l’Espresso - in cui potrebbero finire anche una serie di pezzi da novanta dei clan detenuti al 41bis, inclusi quelli condannati per le stragi. Nonostante il regime detentivo da “quarantena naturale” per le stringenti condizioni di isolamento, anche loro sono finiti fra “i soggetti a rischio” per età o patologie che il Dap con propria circolare ha ordinato agli istituti di pena di censire, per poi trasmettere la comunicazione all’autorità giudiziaria “per le valutazioni di competenza”. Per i vertici dell’amministrazione penitenziaria si trattava “solo un monitoraggio”, tuttavia pochi giorni dopo il boss siciliano Francesco Bonura è uscito di cella. Solo per motivi sanitari, afferma il Tribunale di sorveglianza di Milano, con l’Anm schierata a propria difesa. Ma Bonura non è l’unico. E il caso è diventato politico, con Lega e Fratelli d’Italia che accusano il governo di aver dato il via libera alla scarcerazione dei boss mafiosi e i ministri Alfonso Bonafede (Giustizia) e Luciana Lamorgese (Interno) che negano su tutta la linea. In effetti, i benefici per i detenuti con meno di 18 mesi da scontare, approvati con il Cura Italia a una settimana dalle rivolte nelle carceri per affrontare il problema del sovraffollamento negli istituti di pena, escludono i condannati per mafia e gravi reati. In più, si prevede che le decisioni sul singolo caso siano sempre affidate ai magistrati dei tribunali di sorveglianza, ma le scarcerazioni ci sono state e la circolare dai vertici del Dap è stata diramata e trasmessa ai tribunali. Per ordine di chi e con che proposito, non è dato sapere. Magari lo accerteranno i controlli annunciati dal ministro Bonafede o la commissione parlamentare antimafia, che Pd e M5s hanno sollecitato ad occuparsi del caso. Mentre da più parti nel mondo delle toghe si chiede al governo di affidare la delicata decisione sulle sorti dei detenuti condannati per mafia - e soprattutto quelli al 41bis - a un pool di magistrati, in diretto contatto con la Dna e con le procure che hanno svolto le indagini e non quelle competenti per territorio. Proposte al momento inascoltate. Al pari delle richieste di individuazione di eventuali centri Covid 19 nelle strutture sanitarie penitenziarie, di un programma di screening e profilassi, di dotazioni di dpi per detenuti e personale. Istanze che per adesso rimangono lettera morta. “Sul carcere, noi magistrati seguiamo la Costituzione: altri spesso lo dimenticano” di Errico Novi Il Dubbio, 24 aprile 2020 Intervista al presidente dell’Anm. Luca Poniz presiede l’Anm. È una figura poco incline all’esposizione mediatica. Eppure nel comunicato con cui mercoledì sera l’Associazione da lui guidata ha respinto gli attacchi al giudice di sorveglianza milanese che ha differito la pena del detenuto Franco Bonura, si avverte un’indignazione che non ammette repliche. Avete ricordato che la decisione su Bonura è regolata da una norma ispirata a propria volta ai principi costituzionali: trova desolante dover rammentare che in Italia esiste il principio di umanità della pena? Nel comunicato di due giorni fa abbiamo sentito l’urgenza di ricordare principi di fondamento costituzionale non di rado ignorati nel dibattito pubblico. Nessuna parte dell’ordinamento penale e penitenziario è zona franca rispetto ad essi; naturalmente ogni singola decisione deve valutare gli elementi propri della vicenda, e decidere, in concreto, sulla base di un difficile bilanciamento dei valori in gioco. Il Giudice del caso lo ha fatto, il provvedimento è motivato e sarà oggetto di ulteriore rivalutazione da parte del Tribunale di sorveglianza: questa è l’essenza della giurisdizione, il compito difficilissimo dei giudici, che si vorrebbe sottratto alle contrapposizioni non di rado sorrette da pura logica politica. Il Pg di Cassazione Salvi ha osservato come le norme precedenti all’emergenza consentano al giudice di sorveglianza di valutare le istanze dei detenuti tenuto conto del drammatico quadro sanitario: la decisione di Milano può essere inserita in tale cornice? Il documento del Procuratore Generale Salvi traccia una serie di indicazioni di notevole importanza, sul tema del rapporto tra emergenza “coronavirus” e stato detentivo; il provvedimento dell’ufficio di sorveglianza di Milano - adottato ai sensi dell’art. 147 c. p. muove dalle condizioni di salute del detenuto, dalle sue pregresse patologie (dal Giudice valutate come “importanti”) in relazione alle quali la motivazione indica “anche” una possibile rilevanza del rischio di contagio: nessun automatismo, nessuna stretta correlazione con la situazione pandemica. Anche in relazione a tale pretesa parte del provvedimento - evidentemente non ben letto - le polemiche appaiono strumentali. Voi dite che gli attacchi non condizionano le decisioni dei magistrati: ma davvero non ci sono rischi che le polemiche seguite alla scarcerazione di Bonura influiscano su futuri provvedimenti? Il ruolo del Giudice è difficile perché sempre le sue decisioni scontentano almeno una parte: diciamo che ognuno di noi è pronto, e dunque culturalmente e professionalmente attrezzato, a vedere le proprie decisioni discusse, non condivise, criticate, anche aspramente. Ma ogni Giudice sa anche bene che in nessun modo il consenso sociale o politico è condizione dell’esercizio della giurisdizione, ed al consenso - così come al dissenso - non può che essere indifferente. Naturalmente attacchi, quando non violente delegittimazioni (alle quali siamo ormai abituati, ma mai indifferenti) possono rendere più difficile il nostro compito, ed è con quella finalità che secondo noi essi vengono portati: ma l’Amm sa bene quale è il livello di indipendenza e di autonomia dei Magistrati italiani, e non perdiamo l’occasione di ricordarlo, non certo a noi stessi. Magistrati e avvocati sono spesso accomunati proprio dagli attacchi per la loro attività, soprattutto quando ispirata alla tutela delle garanzie: una loro “alleanza culturale” può favorire anche un diverso orientamento nell’opinione pubblica? La giurisdizione è una funzione essenziale della Repubblica, concepita per la tutela dei diritti e delle libertà; la funzione della difesa, anch’essa costituzionalmente protetta, è elemento essenziale perché la giurisdizione abbia una piena connotazione democratica. Nella fisiologica diversità dei ruoli, esiste un irrinunciabile terreno comune, che è la difesa dei princìpi costituzionali, che dovrebbe prescindere sempre dal gradimento, oppure no, delle decisioni. La comune difesa delle regole e dei princìpi fondamentali dell’ordinamento potrebbe giovare certamente alla crescita di una cultura garantista, che non siano i vuoti richiami ad essa che in modo pericolosamente oscillante si fanno in occasione di questa o quella delle tante vicende politico- giudiziarie. Qualora la fine del lockdown favorisse un aumento dei contagi anche nelle carceri, crede che il sistema penitenziario sarebbe in grado di fronteggiare l’emergenza? Difficile rispondere a questa domanda senza avere l’aggiornamento attuale della situazione, che muove però da un pregresso sovraffollamento, più volte ricordato. I documenti della magistratura di sorveglianza e molte richieste provenute da loro anche in occasione di tavoli tecnici auspicano una riduzione della popolazione carceraria e indicano una serie di possibili misure che non muovono da una generica “indulgenza”, ma da una seria analisi della situazione e delle possibili evoluzioni. È una materia complessa, che dovrebbe essere sottratta alla strumentale lettura politica, e tenere conto di plurime sollecitazioni anche di fonte europea. Diciamo che ad emergenza finita, una delle priorità è affrontare la questione del carcere, e sottrarre la verifica delle condizioni complessive in cui versano i detenuti alla contingenza di questa emergenza, o di altre future, nelle quali è naturalmente più difficile compiere scelte meditate e profonde. Non scarcereremo i mafiosi, ma il sovraffollamento delle carceri è un tema che va affrontato di Pina Picierno* fanpage.it, 24 aprile 2020 No, non scarcereremo i boss a causa del Covid, si tratta di una fake news. Manca però una discussione razionale sul sovraffollamento delle nostre carceri. Un problema che esiste da molto prima del Covid e che la politica non ha affrontato schiacciata dal “punitivismo”. “L’allarme Coronavirus rischia di portare ai domiciliari non solo detenuti comuni ma anche boss di rango” questa mi pare la sintesi del dibattito di queste ore. Per avvalorare la tesi si utilizza come “prova” la scarcerazione di Francesco Bonura, imprenditore mafioso palermitano, condannato a 18 anni e 8 mesi e in carcere dal 2006. “Lo Stato sembra essersi piegato alle logiche di ricatto delle rivolte” commenta Nino Di Matteo. Ma è davvero così? Me lo sono chiesta con grande preoccupazione. Il Tribunale di sorveglianza di Milano chiarisce che “la concessione del differimento pena nella forma della detenzione domiciliari secondo la normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti, anche condannati per reati gravissimi, a tutela dei diritti costituzionali alla salute e all’umanità della pena”. In sostanza si motiva la scarcerazione con la normativa ordinaria che è applicabile a tutti i detenuti, sempre. E con gli stessi criteri - e non certamente per “suggerimento” di una circolare ministeriale di monitoraggio indirizzata ai direttori delle carceri - saranno ancora i giudici a valutare le istanze eventualmente presentate dei diversi capimafia “storici” dei quali pure alcuni articolisti paventano, irresponsabilmente, la sicura e imminente scarcerazione. Era così prima ed è così con il Covid19, con buona pace dei nostri Robespierre da tastiera. Cosa c’entra, allora, il cedimento dello Stato ai rivoltosi? E cosa c’entra la scarcerazione per motivi di salute, motivata da un giudice di sorveglianza, con la discussione, delicatissima, sull’emergenza sanitaria in corso e sulle misure necessarie a tutelare a vita dei detenuti? Mi sorge il dubbio che c’entri, ma che abbia a che fare con il tentativo di inquinare una discussione già complicata, agitando lo spauracchio dei mafiosi che rischiano di essere scarcerati, grazie al Coronavirus. E allora occorre fare chiarezza, iniziando proprio da qui. Nessuno ha mai ipotizzato che misure “clemenziali” di sfollamento debbano coinvolgere quei detenuti, che, peraltro, sono già sottoposti ad un regime di isolamento che rende improbabile la necessità di un ulteriore “distanziamento”. Sminato il campo dagli allarmi infondati e assodato che nessun mafioso può essere scarcerato “approfittando” dell’emergenza Covid, restano alcune domande a cui dare risposta. È giusto che le misure di contenimento sanitario riguardino tutti i cittadini del nostro Paese, tutti, tranne i circa sessantamila uomini e donne che compongono la popolazione carceraria? È accettabile la mancanza di una discussione razionale, considerato il drammatico e noto sovraffollamento, che in molti istituti arriva a punte del 90% di eccedenza della propria capacità di accoglienza e il fatto che una parte consistente della popolazione carceraria è costituita da individui vulnerabili dal punto di vista delle condizioni di salute: tossicodipendenti, immunodepressi, malati cronici e anziani? La mia risposta è no. Ed è un no deciso, fermo, netto. Se la politica e le istituzioni non hanno la capacità di intervenire, smarriscono la loro funzione costitutiva. La verità è che le attuali strutture, a popolazione carceraria invariata, non consentono di adottare alcuna, seppur minima, misura di contenimento di quella che, come ha ricordato anche il Santo Padre, potrebbe diventare una calamità grave, con grave rischio anche per la polizia penitenziaria, che già solitamente svolge la propria funzione in condizioni difficili. L’invito ad adottare misure urgenti è stato pronunciato anche dalle Nazioni Unite con dettagliate linee guida che prevedono esplicitamente la riduzione della popolazione carceraria, implementando tutti i possibili strumenti di rilascio anticipato, provvisorio o temporaneo di autori di reato a basso rischio. Le soluzioni esistono, quello che manca è la volontà della politica che si dimostra ancora una volta debole e soccombente rispetto ad un’informazione dominata da ottuso “punitivismo”. Anche quando il semplice buon senso e l’eccezionalità del presente, prima ancora di una sana cultura giuridica, dovrebbero suggerire rimedi ragionevoli, come già accaduto in diversi Paesi. Ma alla ragionevolezza, troppo spesso, si antepone il tifo. Purtroppo. *Europarlamentare Partito Democratico Lasciate che quel vecchio malato torni a casa di Tiziana Maiolo Il Riformista, 24 aprile 2020 Lettera ai parenti di vittime di mafia. Nessuno vi chiede di perdonare, sarebbe una sciocchezza. Ma solo di dar valore alla vita e alla salute come diritti e come bisogni primari. Si crede che il carcere sia solo privazione delle libertà, ma non è così. Care mogli e genitori e figli e sorelle e fratelli di chi non c’è più, e non c’è più perché qualcun altro gli ha tolto la vita. Qualcuno di cui voi volete sia punito perché vi ha dato un dolore che vi ha straziato e poi una rabbia orgogliosa che è come un grumo che vi riempie la gola e non sempre viene fuori. Ma che quando esce, non chiede solo giustizia. Magari neanche vendetta. Ma piuttosto cancellazione. Come succede, come sta capitando in questi giorni, se una persona che si è macchiata di gravi reati stia per lasciare il carcere, perché ha terminato di scontare la pena, magari dopo trent’anni, e anche perché è gravemente malata. Una persona che voi forse non conoscete, né che mai avreste voluto conoscere, e con ragione. Una persona che non è l’assassino di chi voi amavate e non avete potuto più amare perché uno come quello lì che sta per uscire ve l’ha tolto. Ma è “uno di loro”, un mafioso, un uomo della camorra o della ‘ndrangheta. Uno che comunque ha sparato e ucciso. O mandato altri a uccidere. Uno che ha violato la terra in cui voi vivete, uno che l’ha sporcata e ora sta tornando, e voi non lo volete vicino. Lo volete cancellare. Uno che per voi non è neanche persona, non solo perché lo disprezzate, ma perché non potete dargli corporeità, non potete concedergli sentimenti, non potete mettere insieme la sua mano che spara con l’altra parte del suo corpo, quella che soffre la malattia, forse la fine della vita. Voi non volete la pena di morte, ne sono certa, né vorreste mai fare a nessuno quel male che è stato fatto a voi. Semplicemente vorreste che quell’assassino che ha dato la morte a colui che amavate, e tutti quelli come lui, sprofondassero in un buco nero fino a non esistere più. Voi vorreste che il carcere fosse un luogo oscuro capace di inghiottire e cancellare. Gettare le chiavi, è un’espressione che sulla bocca dei politici fa schifo. Nella vostra mente è un tentativo di estraniazione, di metter al riparo in un’altra parte della mente il vostro dolore, uccidendo il fantasma di chi ha sparato. Non pensate al fatto che anche la pena è qualcosa di indelebile, che quando un uomo ha perso la libertà, l’ha persa per sempre. Non immaginate che il fatto di “render male per male” sia già in sé un’ingiustizia né che, se il delitto in sé è fatto irrazionale e tremendo o di razionalità deviata, la riposta non può esser viziata dalla stessa deviazione. Neanche nel nome di astratti criteri di giustizia sociale. Si crede che la pena del carcere sia solo privazione di libertà. Non è così. Il carcere è prima di tutto mortificazione del corpo, è privazione di ossigeno, è perdita di coscienza del tempo e anche dello spazio. Per questo sarebbe importante, mentre siamo tutti aggrediti da un virus sconosciuto, poter ridare ossigeno e spazio alle persone rinchiuse. Ma prima occorre la fatica di saperle ricomporre come persone. Vedere un vecchio come un vecchio, un malato come un malato. Lasciar per strada le simbologie e anche il sangue. Nessuno vi chiede di perdonare, sarebbe una sciocchezza. Ma solo di dar valore alla vita e alla salute come diritti, e anche come bisogni, primari. Di tutti. Lasciate che un vecchio mafioso malato che ha già scontato la sua pena torni nella sua casa. La sua presenza fisica, e non più simbolica, non può sporcare la vostra terra, non più. È un vecchio al termine della sua vita. Non vi si chiede di chiudergli gli occhi, ma di lasciare che lo facciano i suoi cari, che vedono di lui un corpo malato, non un simbolo. Dicono che sia troppo liberal la norma del Codice Rocco... di Piero Sansonetti Il Riformista, 24 aprile 2020 Offensiva giustizialista dopo la scarcerazione del detenuto malato al 41bis. La guidano il solito Travaglio, il solito Caselli, il solito Di Matteo. Insultano i colleghi. Si oppongono alla Costituzione. E i partiti gli vanno appresso. Giancarlo Caselli, ex Procuratore di Palermo e Torino, chiede che il 41bis - cioè il carcere duro - diventi una misura più rigorosa, afflittiva. Caselli se la prende con la Corte Europea e con la Corte Costituzionale. Non manda giù l’idea che la Costituzione valga pure per i mafiosi. Considera questo principio un cavillo, una falla per la Giustizia. Nino Di Matteo, membro del Csm, punta di lancia del movimento giustizialista, pedina di primo piano nella strategia Cinque stelle, si scaglia contro i giudici di Milano che hanno deciso la scarcerazione (con otto mesi di anticipo) di Francesco Bonura, detenuto che stava finendo di scontare una pena a 18 anni per reati di mafia. Di Matteo accusa i suoi colleghi giudici di avere ceduto al ricatto mafioso (testuale). In pratica li indica per l’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che gli è caro. E chiede al governo di intervenire. I partiti di maggioranza e di opposizione gridano allo scandalo, naturalmente ce l’hanno con i giudici che hanno scarcerato: chiedono contromisure, convocano l’antimafia, pretendono controlli sulla salute di Bonura. Diciamo che sono fuori dei gangheri perché è stata applicata la legge. Il ministro Bonafede manda gli ispettori. Marco Travaglio scatena il suo giornale. E lancia l’allarme degli allarmi: dopo Bonura vogliono scarcerare anche Raffaele Cutolo, il camorrista, quello della canzone di De André, che è in prigione dal 1963. Sì, sì, nessun refuso: l’hanno messo in gattabuia 57 anni fa, quando era un ragazzetto, un guappo di 22 anni. Ora ne ha quasi 80. da allora è stato fuori solo un po’ meno di due anni, alla fine dei 70, perché era evaso. Questo è il quadro. Anno 2020. circa 230 anni dopo la rivoluzione francese, più di 250 anni dopo il libro di Beccaria, 396 anni dopo la nascita di Voltaire. Secoli e decenni passati inutilmente: non c’è quasi nessuna differenza tra il giustizialismo di oggi e quello del ‘700. Cosa è successo per scatenare questo putiferio? Che il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto l’istanza di arresti domiciliari per ragioni di salute di un detenuto quasi ottantenne, molto malato, e che ha già scontato 17 anni di carcere su 18 di condanna e gli mancano otto mesi alla scarcerazione definitiva. Tutto qui. Però si è scoperto che il detenuto, Francesco Bonura, è stato condannato per reati di mafia. E voi sapete che un reato di mafia non è un reato, è la malvagità delle malvagità. Se stermini la famiglia, per esempio, non vai al 41bis. Se incassi il pizzo per un boss, ci vai. Bonura era al 41bis: al carcere duro, quasi ottantenne, malato, operato, con un cancro, a rischio di vita. Nessuno si scandalizza perché stavano torturando un vecchio? No: nessuno si scandalizza. L’articolo di Giancarlo Caselli è un autentico capolavoro. Perché è il vero e proprio manifesto del giustizialismo. Si fonda su principi solidi, molto lontani dalla Costituzione repubblicana, anzi alternativi, ma solidi. Giancarlo Caselli tra l’altro (a differenza degli altri suoi colleghi capifi la del giustizialismo e del travaglismo) è uno che ha studiato parecchio, che sa. Lui è convinto che una società che funzioni è una società che punisce. Quando smette di punire, una società diventa fangosa. Bisogna impedire che l’Italia diventi fangosa. Caselli non ha mai guardato in faccia nessuno: mafiosi, brigatisti, no-tav, tangentari. Tutti insieme. al carcere duro. Una sola condizione: che ci sia un sospetto. Le prove poi magari verranno, ma non sono l’aspetto decisivo della giustizia. La giustizia, per Caselli, si fonda su due pilastri: sospetto e punizione inflessibile. E condanna morale. La forza etica del suo manifesto è lì: condanna morale. Noi buoni, loro malvagi. In mezzo la famosa zona grigia. Di Matteo è diverso. È un po’ un caso limite. Si è sempre battuto per l’indipendenza della magistratura, perché, forse, gli hanno detto che è essenziale per la causa del giustizialismo. Poi si distrae e attacca l’indipendenza del giudice, addirittura sembra invocare l’intervento del governo. C’è da chiedersi cosa farà il Csm di fronte al caso Di Matteo. L’altro giorno il Csm è saltato su come una furia perché un suo membro, laico, ha messo in discussione il lavoro di qualche magistrato milanese. E ora che farà con il suo membro togato, con Di Matteo che addirittura accosta la fi gura dei magistrati milanesi a quella dei mafiosi? Prenderà provvedimenti? Censurerà? Si indignerà? Forse farà proprio come lo Stato di cui parlava De Andrè nella sua canzone su Cutolo: “si costerna, s’indigna s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…”. C’è poco da scherzare. L’attacco al diritto da parte del fronte giustizialista è sempre più spavaldo e arrogante. Si fa beffe della Costituzione, del diritto internazionale, dell’Europa. Persino dell’ordinamento penale. Sapete di quando è la norma che è stata utilizzata per scarcerare Bonura? Del 1930. Codice Rocco. Il premier era Mussolini. Qui, altro che fascismo! Siamo oltre, oltre, oltre. Quelli che non mollano: il “Teatro in carcere” lavora aspettando la ripresa di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 aprile 2020 Una pausa obbligata ma operativa quella delle compagnie di Teatro-carcere che non rinunciano ai tanti progetti interrotti dall’emergenza Coronavirus e, soprattutto, intendono difendere un patrimonio di idee, iniziative e opportunità. D’altra parte la pratica del teatro richiede e stimola la creatività, risorsa utile anche per affrontare situazioni critiche. È il caso di Armando Punzo che continua a lavorare al prossimo spettacolo della sua “Compagnia della Fortezza” di Volterra interagendo in videochiamata e tramite mail con i detenuti attori. Regista e interpreti propongono, scrivono o rivedono i testi di Natura, lo spettacolo che andrà in scena in autunno, grazie alla possibilità di utilizzare telefoni cellulari concessa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a seguito della sospensione dei colloqui. “Essendo abituati a lavorare in condizioni difficili - ha dichiarato Armando Punzo in un’intervista a Il Tirreno - ci siamo detti che non avremmo dovuto interrompere il lavoro. Così la scelta è caduta, fatalmente, sulle tecnologie. Grazie alla disponibilità della direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo stiamo portando avanti il lavoro”. Esercizi di libertà è invece il nome del laboratorio per corrispondenza creato da Horacio Czertok e Marco Luciano del Teatro Nucleo nella casa circondariale G. Satta di Ferrara per consentire ai detenuti di esprimere emozioni anche legate al presente. Poesie, racconti, disegni, canzoni e altre idee saranno utilizzate nel prossimo spettacolo Album di famiglia. La corrispondenza tra i registi e i 26 detenuti che hanno aderito al laboratorio è affidata agli educatori. “Nelle lettere - racconta Marco Luciano - affrontiamo temi complessi con una scrittura articolata, dalla pandemia alla libertà, dalla paura all’intelligenza collettiva perché anche dall’interno del gruppo teatrale può arrivare sostegno ai compagni”. Lo scambio epistolare è anche lo strumento scelto da Michalis Traitsis, regista di Balamòs Teatro, per continuare i lavori dello spettacolo Voci e suoni da un’avventura leggendaria. Gli studenti della scuola media Tasso di Ferrara e le detenute con le quali avrebbero dovuto recitare si scambiano riflessioni sul teatro, idee e spunti nel corso di una fitta corrispondenza mediata dal regista. “Il teatro è tra quelle attività che più subiscono la critica situazione che stiamo vivendo - spiegano da Balamòs - con l’emergenza sanitaria. Essere sospesi ma presenti, conservare una tessitura di relazioni costruite in questi mesi di lavoro, aiuta ad affrontare in modo creativo la solitudine, le incertezze, lo spaesamento che questa nuova realtà ha impresso a ciascuno di noi”. Un autentico esempio di resilienza arriva dal Teatro Necessario della casa circondariale di Genova Marassi che ha trasformato il limite del momento nell’opportunità di divulgare l’esperienza teatrale all’esterno del carcere offrendo nel contempo anche ai detenuti attori di rivedersi in tv. La rete PrimocanaleTV ha infatti inserito nel suo palinsesto registrazioni di spettacoli realizzati dai detenuti in carcere. Il 18 e 19 aprile è andato in onda L’isola dei sogni, nei prossimi giorni sarà la volta di Padiglione 40 e di Desdemona non deve morire. Da Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, arriva l’invito ai colleghi a pubblicare sui social video, foto, articolo e quant’altro testimoni e racconti le esperienze di laboratorio nelle carceri. In un’intervista al magazine londinese Stage Minoia si dichiara fiducioso sulla ripresa dell’attività teatrale negli istituti penitenziari “in quanto quando si tratta di carceri non ci manca una tradizione culturale su cui attingere che ci consentirà di uscire da questa emergenza educativa con il sostegno alle politiche di socializzazione e di sensibilizzazione attraverso arte e cultura.” Decreto Cura Italia, il processo online divide i magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2020 Md contraria, la corrente di Davigo favorevole anche a renderli strutturali. Sul processo virtuale, quello penale soprattutto, magistratura in ordine sparso. E avvocatura compatta. Con il voto di fiducia alla Camera sul decreto legge Cura Italia le modalità di svolgimento “da remoto” dell’attività giudiziaria fanno un netto salto, visto che alle misure nel settore civile e penale concentrate su rinvii e sospensioni certo, ma in buona parte sulle modalità di svolgimento delle udienze, si aggiungeranno anche le indagini preliminari. E se la fase attuale è condizionata dall’emergenza, già si riflette sull’eredità che questi mesi lasceranno. Tra il “mai più nulla come prima” e il “tutto deve tornare come prima”. E se gli avvocati, Camere penali in testa, già contestano l’allargamento come esempio di una deriva autoritaria del modello processuale, distante dai valori costituzionali, la magistratura si divide. Con Magistratura Democratica ad aprire la discussione sostenendo che nel nostro ordinamento le ipotesi di processo a distanza sono disciplinate come eccezioni”. Di più, la presenza fisica “è garanzia non solo del diritto di difesa, ma anche del risultato epistemolgico dell’acquisizione probatoria”. Forti perplessità anche sulle camere di consiglio delocalizzate “con gravi dubbi su riservatezza, ponderazione e vale delle decisioni assunte in tali modi”. Dove a trasparire è una forte preoccupazione per un giudice dematerializzato, distante dal contatto con le parti del processo e dalla fatica dell’amministrazione della giurisdizione. Posizione lontana da quella di Autonomia e Indipendenza i cui consiglieri (Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe) hanno chiesto al Csm di muoversi per proporre al ministero della Giustizia di rendere stabili alcune delle novità introdotte dal decreto legge. Il riferimento è a quegli “strumenti informatici e telematici finora mai sperimentati in ambito giudiziario”. Si tratta di elementi che, a giudizio di A e I, non devono andare “del tutto perse a conclusione del periodo emergenziale”. Potrebbero infatti servire a rendere più efficiente il servizio giustizia. Da Unicost, che peraltro nel civile propone una proroga dal 30 giugno al 31 luglio della legislazione d’urgenza, una posizione che apre alla tecnologia nel processo come strumento per assicurare anche la ripresa e, nello stesso tempo, la certezza che “la legislazione dell’emergenza non potrà diventare la legislazione dell’ordinario e che il contraddittorio nella formazione della prova non possa fare a meno della compresenza dei soggetti nel processo”. Area, da parte sua, considera “utile nella fase dell’emergenza”, ma suscettibile di “positive applicazioni anche in seguito”, la modalità di svolgimento da remoto delle udienze penali “ordinarie” (quelle dove è previstala presenza di Pm, parti, difensori, agenti di pg e consulenti). E non è affatto detto, puntualizza Area, che queste modalità comprimerebbero il diritto di difesa come nel caso dell’interrogatorio di garanzia per rogatoria o del procedimento nel quale il detenuto fuori circondario intende rendere dichiarazioni. Per i penalisti (in sintonia su questo con il Cnf) non se ne parla proprio. Piuttosto le Camere penali chiedono l’apertura di una Fase 2 anche nell’amministrazione della giustizia, trattando, fra i processi con imputati liberi, tutti quelli che hanno già terminato la istruttoria dibattimentale, tutti i processi con rito abbreviato non condizionato, tutti i patteggiamenti, tutte le udienze preliminari e le prime udienze dibattimentali con non più di due imputati, attraverso meccanismi di semplificazione basati su comunicazioni scritte delle parti al giudice, e allo stesso modo le udienze in Corte di Appello ed in Corte di Cassazione e tutte le udienze in camera di consiglio. Il video è freddo e inadatto al controesame impossibile interloquire, memorie inutili di Ezio Menzione Il Dubbio, 24 aprile 2020 Sentiamo dire spesso, e noi stessi usiamo questa espressione, che il processo è una rappresentazione. Non nel senso che esso abbia già un esito scritto e determinato, ma che esso ha proprie regole interne, sedimentate e, alla fine, sacramentate del codice di procedura penale. Ma, pur sempre, la somiglianza e la consonanza fra il processo e la rappresentazione è forte. La rappresentazione, però, ha anche proprie regole interne, che non debbono confliggere con quelle del processo. Un processo in video non è uguale a un processo in aula, “dal vivo”. Così come lo spettacolo dal vivo è profondamente diverso dalla sua rappresentazione televisiva. Ce lo diceva già qualche decennio fa lo studioso delle comunicazioni Marshall McLuhan che il video, la comunicazione televisiva era un medium “freddo”, contrapposto ad altri mezzi di comunicazione, soprattutto quelli dal viso, che invece sono “caldi”. Cosa intendeva dire? Volendo semplificare molto, che in video ciò che viene detto e rappresentato è come distanziato e perde molta della propria emotività, non consentendo una partecipazione diretta, non consentendo di cogliere elementi (talora magari periferici, ma significativi) e particolari che saprebbero restituire il clima e il momento di ciò che viene rappresentato. Il video, per sua natura, presuppone la distanza fra chi lo agisce e chi lo fruisce e questa distanza allontana i fatti, li forma talora addirittura distorcendoli. È questa una costante del mezzo televisivo. Né si dica che a tutto c’è rimedio, con accortezza e capacità: sempre il solito McLuhan giustamente sostiene che fra il mezzo di comunicazione ed il senso della rappresentazione è il mezzo che prevale: il medium è esso stesso il messaggio. Vale a dire che esso prevale ed impone le sue caratteristiche a chi lo usa. Traduciamo tutto questo discorso in ciò che significa per il processo. Tenendo presente le esperienze già fatte qui da noi e, soprattutto, nei paesi in cui l’esperienza è andata più avanti, in Turchia, per esempio. La prima cosa che ne soffre è il controesame (ma anche l’esame stesso): il controesame richiede chiarezza, duttilità e tempestività. Il video si presta a domande predefinite, ma non alla loro modificabilità che è essenziale. Nel video ciascuno fa la sua parte e ha un momento assegnato: è difficile intervenire durante l’esposizione altrui (per esempio durante l’esame del PM), in esso le parti sono “congelate”: in questo senso si parla di un medium “freddo”. Chiunque, fin da quando comincia a difendere, sa che è fondamentale tenere conto della reazione del giudice alle nostre parole e a quelle delle altre parti (testi compresi, anzi soprattutto dei testi). Il video, con la sua scansione dei ruoli, fa sì che non si riesca a modellare il nostro agire e dire sulla base di una percepita reazione del giudice. Risulta difficile cambiare registro, insistere su alcuni particolari, atteggiarsi differentemente in pochi istanti. Tutto si raggela laddove invece - come succede oggi, in ogni tipo di processo, dinnanzi alle assise o nel processetto per droga - il processo è in larga misura faccenda emotiva, pulsante. Spesso non dico il tenore della decisione, ma l’entità della pena eventualmente irroganda dipendono da dettagli della comunicazione che solo il contatto fra difensore e giudice (o fra imputato e giudice) restituisce. Nel processo in video, ciascuno rimane nella sua “bolla” smaterializzata. Ma il processo, per sua natura, è scontro, magari non a sangue, ma spesso di lacrime. La pluralità delle parti presenti è fondamentale. Ed è importante anche il pubblico. Per il bene e per il male, ma comunque è elemento che “si sente”, che il giudice percepisce (forse oggi meno di un tempo). Tutti sappiamo che nella rappresentazione teatrale il pubblico è parte essenziale, quanto gli attori, della rappresentazione stessa. Il video rinuncia a questo elemento fondamentale. E infatti, da spettatore attivo si fa audience numerica. Qualcuno sostiene che si potrebbe sopperire con lo scritto, con le memorie. A parte che non sempre ciò è possibile in un processo che si dovrebbe modellare sulla oralità. Ma l’esperienza ci dice che la memoria, in penale, serve ad illustrare dati tecnici o tecnico giuridici. Serve per chiarire e qualche volta sottolineare. Ma se durante il processo non siamo in grado di capire e condurre il sentire del giudicante, non c’è memoria che tenga. Penso che dentro al processo da remoto, in ciò che possiamo chiamare e- trial, la funzione del difensore (ma anche quella dei PM, anche se loro non ce l’hanno ancora chiaro) è fortemente compressa e compromessa. Forse è ciò che molti magistrati desiderano ardentemente e da tempo. Non si illudano, però. La via della smaterializzazione del difensore, il difensore ombra nei pixel, porterà ben presto alla superfluità anche dei PM (anche se loro non ce l’hanno ancora chiaro) e, da ultimo, chissà, alla superfluità persino del giudicante. Questo è il medium, bellezza! Il virus non cancelli il contagio mafioso di Vittorio Teresi Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2020 Sul Fatto di mercoledì ho letto due notizie ugualmente allarmanti: la prima riguarda l’ennesimo allarme, lanciato questa volta dalla ministra dell’Interno, prefetto Lamorgese, sul rischio, molto concreto, di infiltrazioni della criminalità di stampo mafioso nella gestione della “fase 2” cioè la fase di progressiva uscita dalla emergenza dettata dalla pandemia Covid 19. Si tratta di una preoccupazione fondata perché effettivamente le mafie, disponendo di ingentissimi capitali liquidi possono agevolmente offrire, a chi ne ha più bisogno, questa immediata liquidità sotto forma di prestito - che naturalmente sarebbe gravato da interessi usurari -e possono altresì offrire alle imprese in difficoltà, anche loro a corto di liquidità, quelle somme di denaro immediatamente disponibili che potrebbero risolvere in pochissimo tempo, e senza alcun lacciuolo di carattere burocratico, i loro problemi contingenti. La contropartita che, verosimilmente, la mafia potrebbe richiedere agli imprenditori che dovessero utilizzare il servizio loro offerto non sarebbe costituito dagli interessi usurari, bensì dalla pretesa di affiancamento nella gestione dell’impresa, che in tal modo si trasformerebbe da semplice attività imprenditoriale pulita, in una impresa mafiosa. In sostanza il denaro liquido della mafia, come è sempre accaduto in passato, rischia di avvelenare l’economia e l’imprenditoria sana del Paese. Il periodo di crisi che stiamo attraversando offre le migliori condizioni affinché le mafie continuino a fungere da agenzie di servizi per tutti coloro che saranno disposti a cercare una scorciatoia economica ai problemi che in questo periodo affliggono il Paese. La seconda notizia riguarda un provvedimento giurisdizionale con il quale un giudice del Tribunale di Sorveglianza di Milano avrebbe disposto la detenzione domiciliare per un boss di prima grandezza di Cosa Nostra. Detta pronuncia si fonderebbe su una circolare del Dap del 21 marzo con la quale l’ufficio del ministero della Giustizia che gestisce la politica penitenziaria del nostro Paese, avrebbe richiesto ai direttori delle carceri di inviare all’autorità giudiziaria i nominativi dei detenuti over 70, affetti da alcune patologie, (all’apparato respiratorio, cardio-circolatorio, diabete e altro), senza distinguere il regime detentivo al quale ciascuno dei detenuti interessati fosse sottoposto, di talché il boss Francesco Bonura, già rappresentante del Mandamento di Uditore di Palermo avrebbe beneficiato del trattamento particolare, passando dal 41bis alla detenzione domiciliare. Mi verrebbe da dire che si tratta di un copione già visto in passato e che si snoda attraverso pochi ma immutabili (ed efficaci) passaggi: lo Stato è afflitto da un’emergenza di straordinaria gravità (oggi quella del coronavirus, ieri - agli inizi degli anni 90 - crisi politica, economica e di tenuta del tessuto democratico), la politica non riesce a fornire risposte unitarie, tempestive, convincenti e rassicuranti come rimedio alla crisi. Le mafie si inseriscono in questa emergenza e fanno sentire tutto il peso del loro potere criminale, inscenano violentissime manifestazioni nelle carceri, cavalcano la suggestione della facilità del contagio al l’interno delle strutture di detenzione e chiedono allo Stato di allentare la morsa del regime carcerario, anche (e forse soprattutto) quello del 41bis. Lo Stato, prostrato o distratto dalla gestione della crisi, non riesce a trovare rimedi efficaci o semplicemente a pensarli e cede alle richieste di alleggerimento, concedendo a boss di prima grandezza la revoca del regime di detenzione speciale, che essi avevano cercato di ottenere per moltissimi anni, anche attraverso il ricatto stragista nel 1992 e del 1993. Quando parliamo del rischio di infiltrazione delle mafie nella politica, nell’economia e nel tessuto imprenditoriale del Paese, utilizziamo termini astratti, generici, impalpabili e quindi diamo la sensazione, a chi legge, che la mafia che si infiltra sia una entità anch’essa astratta, generica, inafferrabile, priva di una concreta identità. La lettura di questi allarmi rischia quindi di essere come un avviso di burrasca lanciato nell’etere, ma privo di dati identificativi efficaci e riconoscibili. Voglio allora ribadire con grande chiarezza che la mafia si identifica con i propri esponenti, che le mafie sono i loro capi, i loro rappresentanti. Che le mafie sono costituite, governate, organizzate e dirette da quelle persone che negli anni son state riconosciute come boss di prima grandezza e condannate a svariati anni di carcere, e spesso a numerosi ergastoli. Quegli stessi boss, sono coloro che danno la linea all’organizzazione e se c’è il rischio di una pericolosa infiltrazione nel tessuto sociale, economico, imprenditoriale del paese, quei boss sono gli ideatori e gli organizzatori di tutte le azioni ritenute utili a perseguire l’obiettivo. Se la mafia si infiltra è perché i suoi capi vogliono che ciò accada e impongono la relativa linea di comportamento. Così come se la mafia ritiene che sia necessario passare ad attività di attacco violento contro esponenti delle Istituzioni è perché quegli stessi capi hanno deciso così e quindi daranno le disposizioni necessarie e trovare l’esplosivo e a eseguire gli attentati. Quei boss che dettano le linee dell’azione delle mafie sono coloro che oggi, in gran parte, per fortuna, si trovano detenuti in regime speciale. Scarcerarli rende concreto quel pericolo di infiltrazione e di contaminazione criminale delle mafie. Con il boss pensante, libero di uscire e di incontrare chiunque, il Paese è molto meno sicuro e gli allarmi inviati anche dalla ministra dell’Interno assumono una sinistra dose di concretezza e di attualità. Allora vorrei essere certo, da cittadino, che il rischio contagio nelle carceri sia reale, concreto, attuale e che a esso non possa essere applicato un rimedio differente da quello della scarcerazione che, francamente, mi sembra una scorciatoia estremamente pericolosa. Vorrei essere sicuro, per esempio, del fatto che presso le carceri destinate al regime di 41bis, non sia possibile rea - lizzare in tempi record (come quelli con cui si sono creati ospedali dedicati al Covid-19 a Milano e a Bergamo con grande clamore mediatico) unità sanitarie capaci di fronteggiare, per un numero di persone assai limitato e già di per sé in regime di isolamento, il rischio contagio. Si potrebbero quindi realizzare unità sanitarie dedicate all’emergenza sanitaria del momento, all’interno di pochi istituti penitenziari e in tal modo il diritto alla salute dei detenuti, sottoposti a qualsivoglia regime detentivo, che continua a rimanere assolutamente primario e meritevole del massimo impegno per il suo effettivo esercizio, non si trasformerebbe in un pretesto per un disimpegno generalizzato. Il rischio di contagio criminale e quello di contagio sanitario devono porsi sullo stesso piano perché entrambi attengono al profilo della sicurezza di tutti i cittadini e lo Stato deve trovare rimedi efficaci per evitarli entrambi. Domani di fronte a una mafia rivitalizzata e potenziata, mediante la liberazione dei suoi più carismatici capi, non basterebbero le cure ordinarie e il contagio si propagherebbe con patologica velocità, la società non potrebbe sottrarsi alla contaminazione mafiosa, ponendo così nel nulla i sacrifici e gli sforzi che in tutti questi anni sono stati compiuti sul fronte del contrasto democratico alle mafie nel nostro paese e con buona pace per tutti coloro che in questa lunghissima e difficile lotta sono stati uccisi dal virus del crimine organizzato. Misure cautelari: modifica da notificare alla vittima solo se c’è rapporto con l’autore del reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 23 aprile 2020 n. 12800. Non può essere negato il permesso al lavoro esterno, perché l’istanza di richiesta del beneficio non è stata comunicata alla parte offesa, se tra questa e l’autore del reato non c’è un legame personale e non c’è rischio di ritorsioni né di reiterazione degli atti di violenza nei suoi confronti. La Cassazione, con la sentenza 12800, fa chiarezza sui diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, alla luce della direttiva 29/2012Ue. Nel caso esaminato l’imputato sottoposto ai domiciliari, dopo una condanna per una tentata rapina nei confronti degli autisti di un Tir, aveva chiesto l’autorizzazione ad uscire per lavorare, negata dal Gip. Per il tribunale, che agiva in sede di appello, il ricorso contro il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari era inammissibile, in assenza della notifica della richiesta di modifica della misura cautelare alle parti lese. Per il tribunale, infatti, la misura era stata applicata in relazione a fatti violenti. La Cassazione accoglie il ricorso attribuendo importanza all’esistenza di una relazione tra autore del reato e vittima, e al rischio di recidiva. Il tribunale ha sbagliato ad estendere in modo generalizzato l’obbligo di notifica a tutti i reati commessi con violenza sulla persona, senza restringere il raggio d’azione della norma solo ai casi in cui, in virtù di pregressi rapporti con la parte lesa, ci sia il rischio di ritorsioni. Emilia-Romagna. Bando da 472mila euro per l’inclusione sociale dei detenuti di Raul Leoni gnewsonline.it, 24 aprile 2020 Scadrà il 4 maggio 2020 il bando emanato dalla regione Emilia-Romagna per reperire alloggi da destinare ai detenuti prossimi al termine della pena da scontare, ma privi di risorse economiche, casa e lavoro. L’iniziativa si inserisce nel progetto nazionale finanziato dalla Cassa delle Ammende per alleggerire il sovraffollamento carcerario e favorire così il contenimento delle situazioni a rischio di contagio da Covid-19. L’accordo per l’avvio della procedura è stato raggiunto nell’incontro, tenuto in videoconferenza il 7 aprile scorso, che ha visto la partecipazione di Elly Schlein, vicepresidente regionale con delega alle disuguaglianze, con i Garanti dei detenuti, regionale e comunali, i Comuni sede di istituti penitenziari, il Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, l’Ufficio Interdistrettuale esecuzione penale esterna e il Centro giustizia minorile. Il bando riguarda 90 detenuti in possesso dei requisiti per accedere alle misure alternative - per un periodo di sei mesi e comunque non oltre i 18 mesi - ed è riservato alle amministrazioni comunali, enti e associazioni con disponibilità di alloggi e strutture idonee. Le risorse sono state stanziate dalla Cassa delle Ammende con un finanziamento di 410mila euro (sul progetto “Territori per il reinserimento - emergenza Covid-19”), cui si aggiungono 62mila euro messi a disposizione dall’Ufficio Interdistrettuale di esecuzione penale esterna per il progetto “Inclusione sociale per le persone in misura alternativa senza fissa dimora in Emilia-Romagna”. “Si tratta di uno sforzo corale quello che vedrà la collaborazione tra Regione, sia per la componente sociale che sanitaria, e tutte le realtà, istituzionali e non, che si occupano di carceri - la vicepresidente regionale Elly Schlein. L’idea di fondo delle misure messe in campo, in attuazione delle indicazioni del decreto Cura Italia, è che sia prioritaria l’esigenza di tutelare la salute pubblica, contrastando la diffusione del contagio nelle carceri sovraffollate, attraverso le diverse opzioni messe a disposizione dalla legislazione per ridurre la popolazione penitenziaria”. Torino. Detenuti e agenti positivi (e senza mascherina), l’allarme degli avvocati di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 24 aprile 2020 Camera Penale e Osservatorio carcere: “Siamo molto preoccupati”. Ma il provveditore di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria non risponde. Detenuti contagiati dal coronavirus che si fanno dieci giorni di carcere in più - pur avendo diritto alla detenzione domiciliare - perché non si trova un alloggio disponibile, un agente di polizia penitenziaria che rientra in servizio dopo la quarantena per poi essere scoperto ancora positivo, altri della penitenziaria che non dispongono di mascherine: è il quadro tracciato da una lettera dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali, e della Camera penale “Vittorio Chiusano”. “Siamo preoccupati, siamo molto preoccupati”, ripetono gli avvocati, e lo fanno notare anche ai provveditori dei penitenziari italiani, ma solo alcuni rispondono. Non quello di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria: “Il silenzio in risposta, a oggi si è fatto assordante”. Anche perché, sottolineano, già all’inizio di aprile, l’Osservatorio carcere - che ha i referenti regionali negli avvocati Antonio Genovese e Davide Mosso - aveva posto dieci domandi sul tema al Governo e al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Niente alloggio per detenzione domiciliare, si fa 10 giorni di carcere in più - “Auspichiamo - scrivono i rappresentanti di Osservatorio carcere e Camera penale - si intervenga nei modi più opportuni per salvaguardare la salute delle persone che si sono ammalate. E per tutelare quelle a cui potrebbe estendersi il contagio. E quindi con il collocamento all’esterno di quanti siano risultati positivi. Perché il carcere non è l’ambiente più salubre già in situazioni ordinarie. E perché il fatto che tra le persone detenute una significativa percentuale presenti patologie non fa che accrescere i rischi nel caso di diffusione del virus. Per tacere della terzomondiale condizione di sovraffollamento”. Ancora ieri - segnalano i legali, tra cui il presidente della “Vittorio Chiusano”, l’avvocato Alberto De Sanctis, e il presidente della Commissione carcere, Mirco Consorte - ci sono agenti di polizia penitenziaria sprovvisti di protezioni nelle sale dei colloqui, aumentando il rischio contagio. Così pure come c’è stato l’episodio di un agente rientrato in servizio dopo la quarantena, per poi essere sottoposto a tampone e risultare ancora positivo. Va da sé, con l’altissimo rischio di aver contagiato colleghi e detenuti. Alcuni dei quali, in mancanza di braccialetti elettronici o sistemazioni per la detenzione domiciliare, devono farsi giorni di prigione in più: l’ultimo caso qualche giorno fa, dove a un uomo è finalmente stata trovata un posto dove stare, in un albergo di Collegno. Dopodiché, sembra che la situazione possa complicarsi anche di più, visto che trovare alloggi e sistemazioni non toccherà più all’unità di crisi - investita del compito dall’emergenza sanitaria - ma all’amministrazione penitenziaria. L’impressione è che potrebbe essere un ulteriore problema. Padova. Tamponi per un’intera ala del carcere Due Palazzi di Andrea Pistore Corriere del Veneto, 24 aprile 2020 Sono arrivate le mascherine Ffp3 per la polizia penitenziaria in servizio a Padova. E tutto un piano della Casa di reclusione è stato sottoposto a tampone. Dopo la scoperta del primo caso di contagiato da Covid-19 all’interno del Due Palazzi, la direzione è corsa ai ripari, ordinando in tempi rapidi il test ai detenuti del primo piano e agli agenti che erano stati a contatto con l’uomo che, martedì sera, ha tentato di togliersi la vita dentro una cella. L’aspirante suicida, una volta portato in ospedale, è risultato affetto dal coronavirus, sia pure da asintomatico. Ieri il personale di scorta e i compagni di braccio sono dunque stati testati, mentre la direzione ha previsto che lunedì, martedì e mercoledì venga sottoposto a screening anche il resto dei baschi blu che operano ogni giorno all’interno del carcere. Dopo gli agenti, dovrà sottoporsi alle analisi anche il personale non dipendente ma che accede con regolarità alla Casa di reclusione. “La priorità è la sicurezza di chi lavora al Due Palazzi: la distanza all’interno degli uffici è fondamentale per evitare focolai”, spiega Leo Angiulli, del sindacato Uspp di Polizia Penitenziaria. Firenze. Detenuti di Sollicciano sottoposti al test Covid quinewsfirenze.it, 24 aprile 2020 La direzione sanitaria del penitenziario ha iniziato lo screening sierologico e disposto le misure di isolamento precauzionale in caso di epidemia. La direzione sanitaria del penitenziario di Sollicciano ha avviato nelle ultime ore uno screening sierologico su operatori e detenuti del sistema carcerario fiorentino che comprende anche le strutture Gozzini e Meucci. Un protocollo siglato con la Regione Toscana, prima in Italia ad attivarlo, prevede esami sierologici ed eventuali tamponi sul personale e sui detenuti a titolo volontario. Abbiamo contattato la responsabile sanitaria, Sandra Rogialli, che ha spiegato di aver superato nella giornata odierna i 600 test effettuati. Rogialli ha spiegato che lo screening sui detenuti “è partito dall’aver rilevato un paziente Covid positivo asintomatico tra gli operatori, questo ci ha portati ad allargare la richiesta ai detenuti, ed in questo siamo partiti assieme agli istituti penitenziari di Lucca e Pisa”. Quale la situazione ad oggi? “Abbiamo effettuato i test sierologici su 120 operatori delle strutture Sollicciano, Gozzini e Meucci e su 287 agenti di polizia penitenziaria di Sollicciano, inoltre su 40 amministrativi di Meucci e Gozzini oltre 8 dipendenti del provveditorato regionale. Tra i detenuti abbiamo superato i 100 test con tre sezioni ed abbiamo riscontrato una elevata adesione”. Come avviene il monitoraggio? “Ogni giorno circa 70 test vengono sottoposti in forma di barretta ai detenuti e poi vanno in laboratorio al San Giovanni di Dio per essere processati. A Torregalli viene fatto un doppio test di tipo qualitativo e quantitativo, se c’è positività si esegue il tampone e ad oggi su 16 test sierologici positivi abbiamo una sola conferma che è quella relativa al primo operatore sanitario già in quarantena e sul quale a suo tempo è stata effettuata l’indagine relativa ai contatti stretti, risultati tutti negativi al tampone”. Quali sono le misure di precauzione adottate in carcere? “Come noto sono stati ridotti i trasferimenti tra penitenziari, ma gli arresti vengono eseguiti quindi i detenuti nuovi arrivati vengono posti in isolamento precauzionale per 14 giorni. Per questo abbiamo allestito 15 posti letto in celle singole. Altre 4 celle sono state invece separate e chiuse per gli eventuali casi positivi e i sospetti positivi”. Bergamo. Il cappellano del carcere: “Sovraffollamento intollerabile” adnkronos.com, 24 aprile 2020 L’invito al ministro Bonafede e ai politici: “fate scelte umanitarie, non mettere in pericolo la vita”. Combattere il sovraffollamento in carcere adottando misure alternative alla detenzione perché lo scopo rieducativo della pena sia reale e non solo uno slogan. Sono le richieste che don Giambattista Mazzucchetti, cappellano del carcere di Bergamo, rivolge al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al mondo della politica perché sappiano ascoltare “non solo le voci dell’opinione pubblica e dei loro elettori ma anche quelle dei detenuti e dei loro familiari”. Una reclusione resa più dura dal coronavirus che ha eliminato ogni contatto tra chi sconta una pena e i propri cari. “Questo silenzio relazionale - racconta il cappellano - ha provocato delle rivolte in alcune carceri. Qui a Bergamo, grazie al provvidenziale intervento della Direzione e di tutto il personale si è garantito ai detenuti la continuità del diritto al colloquio attraverso un aumento del numero delle telefonate settimanali con i familiari e l’uso di Skype”, ma questo non ha tenuto lontane le paure. “La condizione di ristretti aumentano la possibilità di contagio” ma non modificano le speranze. “Le attese sono quelle di sempre: poter uscire e riabbracciare i propri cari, trovare un lavoro che permetta una vita dignitosa e veder crescere i propri figli garantendo loro un futuro migliore”, spiega. Mai come in questi due mesi dietro le sbarre il tempo viene scandito, in una delle città più colpite dal virus, da eventi identici a quelli che si vivono fuori. I detenuti, quando serve, indossando le mascherine solidali - “fornite dalle detenute ai domiciliari di Casa Samaria, dal reparto femminile del carcere, dalla Caritas e grazie all’impegno dei giovani” - e piangono le vittime come don Fausto Resmini, l’altro cappellano del carcere morto a causa del Covid-19”. Con don Resmini ho condiviso questo ministero dal 2012 e l’eredità più bella che raccolgo è che dobbiamo trasmettere speranza a coloro che l’hanno smarrita, far capire che c’è un orizzonte alla fine della pena, per tutti. Anche per chi ha la detenzione a vita: si deve trovare un senso all’esistenza con la spiritualità, gli affetti, lo studio, il lavoro. Lo scopo rieducativo va sempre messo in primo piano non come principio ideale ma come impegno da realizzarsi ogni giorno”, sottolinea don Giambattista. In questo senso, l’articolo 27 della Costituzione “non va semplicemente sventolato come alto principio democratico inalienabile, ma come impegno e sforzo della politica nell’attuarlo: non è più tollerabile il sovraffollamento. Le carceri sovraffollate sono luoghi in cui la pena risulta raddoppiata: al problema del tempo si aggiunge quello dello spazio. Si vive tanto tempo sospeso, in spazi angusti, con questo terribile incubo del Covid-19 che incombe”. Per il cappellano del carcere di Bergamo occorre “agevolare l’applicazione di misure alternative alla reclusione, per i reati che lo permettono e che non minano la sicurezza della nostra società” e per questo invita il ministro Bonafede e i ministri a “un possibile atto di misericordia e di clemenza. Abbiate misericordia, chi sta in carcere oggi rischia la vita. Incoraggio chi ha responsabilità pubbliche a compiere delle scelte umanitarie. Non si può mettere in pericolo la vita delle persone, che è un bene superiore”, conclude don Giambattista. Bollate (Mi). I detenuti raccolgono fondi e generi alimentari per l’emergenza Covid-19 di Flavia Carlorecchio repubblica.it, 24 aprile 2020 I 250 kg di generi alimentari e i 1.405 euro per la Protezione Civile. Il capo dell’area educativa della casa di reclusione a custodia attenuata racconta cosa succede nella comunità. In queste settimane, l’Italia solidale sta facendo sentire le sue numerosissime voci. Questa volta l’iniziativa arriva da una comunità carceraria: 1.200 detenuti di Bollate hanno raccolto 1.405 euro da donare alla Protezione Civile e 250 kg di generi alimentari per il Banco Alimentare della Lombardia, che li ha già ritirati. Sembra sorprendente un gesto di solidarietà da chi è considerato “ultimo” per eccellenza, da chi ha perso il diritto di partecipare alla vita del Paese. Sembra sorprendente, o forse no. Ne parla Roberto Bezzi, capo dell’area educativa del carcere di Bollate dal 2004, che lavora nell’istituto “a vocazione trattamentale”, attivo dal 2000 che ha l’obiettivo di realizzare su “grande scala” un progetto a custodia attenuata per la graduale inclusione sociale dei detenuti. Un modello che si fonda sui principi di responsabilizzazione dei detenuti, su una vigilanza dinamica e integrata tra gli operatori, e una forte integrazione con il territorio. Un’iniziativa spontanea. “L’idea - dice Roberto Bezzi - è partita da un piccolo gruppo di detenuti che è venuto a chiederci il permesso per poter fare la colletta. È partito tutto da loro, questa è la cosa più interessante”. La struttura ospita 1.200 persone, divise in 8 reparti. Per ogni reparto è stato nominato un portavoce che ha girato camera per camera a raccogliere le firme per le donazioni in denaro e i generi alimentari. “L’adesione è stata altissima e spontanea, praticamente immediata. Ognuno ha donato quello che poteva, anche chi possiede poco ha voluto contribuire.” “Al nostro grande Paese”: la lettera dei detenuti. “Siamo i detenuti della casa di reclusione Milano-Bollate e vorremmo raccontare come cerchiamo di dare anche noi un contributo al nostro Paese”. Così si apre la lettera in cui i detenuti raccontano l’iniziativa e le loro intenzioni. Dalla grande preoccupazione per il virus è nata la volontà di dare una mano: “anche noi che facciamo parte dell’ultima classe sociale ci siamo attivati per una raccolta fondi da destinare alla Protezione Civile”. Dopo i ringraziamenti al personale sanitario, alla Protezione Civile e ai volontari, si legge un ringraziamento alla direzione e all’area educativa dell’istituto. “Ma soprattutto ringraziamo a chi ancora crede in noi”. Un gruppo piuttosto ampio si è già proposto di dare il proprio contributo volontario laddove servirà, quando si potrà tornare fuori. “C’è la volontà di lavorare per gli altri, sentirsi parte attiva”, aggiunge Bezzi. Solidarietà verso l’Italia “reclusa”. “Loro che vivono la reclusione capiscono cosa significa vivere con delle limitazioni alla propria libertà. Hanno sentito di essere particolarmente solidali a chi è ‘libero’ perché meno libero ora. Anche se per loro si tratta di un momento ancora più duro”, ha detto ancora il capo dell’area educativa del carcere. Molte attività educative e culturali sono state bloccate, i colloqui sono fermi, volontari e operatori esterni non entrano più. Rimangono, ridotte, le attività lavorative, e si stanno attivando gli esami scolastici via internet. Strategie per sopravvivere insieme: così funziona una comunità. Proprio per queste ulteriori limitazioni, spiega Bezzi, “noi siamo ancora più presenti. Manteniamo un canale di comunicazione diretto con tutti, spiegando cosa succede e cosa stiamo facendo per loro. Ci stiamo vivendo ancora di più come una comunità penitenziaria. Siamo qui tutti insieme e dobbiamo trovare delle strategie per sopravvivere insieme”. Colloqui con i familiari via Skype. Ad esempio, i colloqui con i familiari si svolgono via Skype e sono stati incrementati. “Inoltre, sul fronte esterno abbiamo portato avanti il differimento della pena per tutti coloro che potevano accedervi per termine di legge, come gli ultrasettantenni con patologie. Laddove era possibile far qualcosa ci abbiamo provato, e questo crea un clima positivo. C’è preoccupazione, ma non tensione.” Una struttura modello: libertà è partecipazione. La casa di reclusione di Bollate è considerata un esempio positivo di carcere che mira al reinserimento sociale dei detenuti. In condizioni normali, sono molte le attività lavorative, artigianali, ludiche e culturali svolte all’interno del centro. Sono anche molti i detenuti ammessi al lavoro all’esterno, ai sensi dell’Ordinamento Penitenziario e che, al momento, sono in attesa di ricominciare a percorrere la loro strada. È proprio la forte integrazione con il territorio uno degli elementi indispensabili per il reinserimento. La voglia di aiutare il proprio Paese, la voglia di sentirsi parte attiva e positiva in questo momento difficile la dice lunga sull’efficacia di un approccio simile. “L’idea del “carcere diffuso”, cioè che sia un po’ di tutti e un po’ ovunque, credo che sia l’unico modo di pensare ad un carcere che possa essere efficace”, ribadisce Roberto Bezzi. Coronavirus. “Stress violento da quarantena”: minori vulnerabili, sos dei giudici di Luciano Moia Avvenire, 24 aprile 2020 L’impegno dei tribunali per arginare le conseguenze delle situazioni più difficili. Parlano Ciro Cascone. Maria Francesca Pricoco, Giuseppe Spadaro. I giudici minorili hanno già coniato un neologismo che fotografa bene la situazione vissuta all’interno di tante famiglie in questi mesi di emergenza sanitaria: stress violento da quarantena obbligata. Sono le situazioni ad alto rischio che si determinano quando, in un quadro spesso già compromesso, le persone sono costrette a cambiare le proprie abitudini, a condividere spazi spesso insufficienti, ad accettare dinamiche che anche prima dell’emergenza sanitaria erano sopportate a fatica. Facile intuire che, in questa situazione, violenze, maltrattamenti, episodi di grave intolleranza siano esplosi, anche se è impossibile stilare una statistica. Le due fonti più significative da cui arrivavano queste segnalazioni, la scuola e il servizio sanitari, sono state entrambe spente dal coronavirus, anche se per motivi diversi. Sono rimasti, a regime ridotto e con capacità di intervento variabile da regione a regione, i servizi sociali. Mentre per gli episodi molti gravi, quelli per cui era davvero impossibile non intervenire, sono serviti gli interventi delle forze dell’ordine. Eppure, anche in questa circostanza, i tribunali per i minorenni, bene o male, hanno retto. Anche se carenze strutturali e mancanza di risorse, più volte segnalate anche prima dell’emergenza sanitaria, hanno continuato a pesare in modo evidente su un sistema a cui servono riforme intelligenti per un cambio di rotta destinato a ripristinare quell’alleanza virtuosa tra giustizia, servizi e famiglie in difficoltà incrinata in passato da troppi casi negativi. Lo spiegano tre magistrati impegnati in prima linea per la tutela dei minori: Ciro Cascone, responsabile della procura dei minorenni di Milano, Maria Francesca Pricoco, presidente dell’associazione dei magistrati minorili e responsabile del Tribunale dei minorenni di Catania, e Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna. Quali difficoltà per la giustizia minorile a causa delle limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria? Ciro Cascone: Scontiamo anni di mancati investimenti e tecnologie arretrate, il processo telematico, che già funziona egregiamente nel civile, non è ancora arrivato nella giustizia minorile. Abbiamo sistemi obsoleti. Questo ci lascia impantanati tra i faldoni. E quindi, avendo limitato l’accesso agli uffici, tutto è stato rallentato. Maria Francesca Pricoco: L’emergenza sanitaria ha certamente provocato una rimodulazione della funzione di giustizia minorile. Alcune procedure, per l’urgenza devono però essere trattate (minori per esigenze di protezione allontanati dalla famiglia, minori stranieri soli e quelli tutelati nei procedimenti per abbandono ovvero che si trovino in situazione di grave pregiudizio) nonostante le difficoltà obiettive registrare in alcuni tribunali, come locali inadeguati e la difficoltà di conciliare il divieto di assembramenti per le ragioni di sicurezza sanitaria sia al fine della trattazione delle udienze che per le camere di consiglio causa. Anche i servizi sociali hanno rallentato fortemente e, in alcune situazioni, sono stati costretti a sospendere le attività. Giuseppe Spadaro: Dal mio osservatorio la preoccupazione più grande è rivolta ai minori che vivono, nell’attuale situazione, una condizione di accresciuta vulnerabilità se non di vero e proprio trauma, come quelli in famiglie con genitori violenti o maltrattanti ed esposti al rischio di violenza diretta o assistita, per i quali erano stati aperti procedimenti di sostegno e monitoraggio per evitare, ove possibile, l’affidamento provvisorio ad altra famiglia. Così come per quelli che, invece, vivono attualmente fuori dalla famiglia di origine e sono temporaneamente collocati in comunità o accolti da famiglie affidatarie nell’ambito di provvedimenti civili e, non ultimi, i minori inseriti nel circuito penale che, nella situazione emergenziale, hanno dovuto sospendere percorsi di istruzione e formazione, interrompendo importanti rapporti educativi con il mondo esterno. Si sono verificati casi di maltrattamenti in famiglia o altre situazioni gravi su cui la giustizia non è stata posta nelle condizioni di intervenire? Cascone - Le segnalazioni sono nettamente diminuite. Tante arrivavano dalle scuole, chiuse ormai da quasi due mesi, e dai servizi sanitari, impegnati in gran parte per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Anche da parte dei servizi sociali c’è stata una flessione. Certo, le situazioni pesanti, quelle segnalate dalle forze dell’ordine, emergono comunque. Alcuni interventi in base all’art. 403 siamo stati comunque costretti a farli. Un ragazzo per esempio che ha aggredito in modo molto serio il fratello e il padre perché gli impedivano di uscire per incontrare la fidanzata. Oppure alcuni episodi pesanti di maltrattamento, violenza sulle donne a cui hanno assistito i minori (la cosiddetta violenza assistita), oppure situazioni di grave incuria. Pricoco: Quando i servizi sociali oppure le forze dell’ordine sono riusciti a fare le segnalazioni, i tribunali si sono attivati e hanno avviato e trattato i procedimenti per l’immediata tutela dei minori. Il problema si verifica quando né servizi né forze dell’ordine riescono ad individuare le situazioni di grave pregiudizio. Allora anche per noi è molto difficile attivare tutte le procedure indispensabili per mettere in protezione bambini e ragazzi, assicurando loro tutte le garanzie di protezione, cura e di tipo educativo, che rimane il nostro obiettivo primario. Spadaro: Pensando, in particolare, alle situazioni di urgenza e di grave pregiudizio dove si verificano condizioni di rischio conclamato e, nei casi più gravi, in presenza di circostanze che prefigurano ipotesi di reato quali maltrattamenti familiari, abusi, violenza assistita o gravi trascuratezze che possono comportare la necessità di un allontanamento temporaneo dalla famiglia di origine, mi associo all’allarme lanciato di recente dalla Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, perché anche nel nostro territorio molte comunità educative e terapeutiche hanno difficoltà ad accogliere nuovi ospiti per il rischio di contagio o, in alcuni casi, per problemi sanitari e di sovraccarico lavorativo degli operatori presenti. Nell’ambito dell’applicazione delle indicazioni volte a limitare spostamenti e contatti fra le persone, devo aggiungere che si registrano difficoltà nel caso degli “incontri protetti” o più in generale dei possibili contatti tra i minori già accolti in affidamento familiare o in strutture residenziali e le loro famiglie di origine. Non sfugge la discrezionalità con la quale, pur tenendo conto sempre dei casi concreti, sono valutate le situazioni dove tali contatti sono da ritenere strettamente necessari e indifferibili ovvero, con non poche incertezze, è opportuno posticiparli a data successiva al termine dello stato di emergenza. Tanti genitori si sono lamentati a causa della sospensione degli incontri protetti. Come avete risolto questi problemi? Cascone - Fino al 20 marzo le strutture erano in difficoltà e abbiamo dato suggerimenti per tutelare gli ospiti ed evitare nuovi focolai di infezione. Sono stati limitati gli incontri, ma sono state date indicazioni per agevolare agli incontri virtuali in tutte le modalità. Una scelta che ha determinato un po’ di confusione e qualche protesta. Ma abbiamo fatto la scelta giusta. Cosa sarebbe successo se fosse esploso un focolaio in una comunità di minori? Anche nelle carceri minorili purtroppo hanno reagito male. Ma non c’erano alternative, pur nel massimo rispetto per questi genitori e per la loro sofferenza. Pricoco: i tribunali per i minorenni sono rimasti attivi, pur in mezzo alle difficoltà. È evidente però che servano risorse maggiori e strumenti per interventi di sostegno anche di tipo psicologico e sanitario (ci sono minori che non hanno potuto seguire trattamenti di psicoterapia, per il recupero del linguaggio e di accompagnamento educativo). Ci sono state segnalate difficoltà anche per i minori all’interno delle comunità, oltre a criticità per i minori in collocamento protetto nell’ambito di programmi per il recupero della genitorialità. L’autorizzazione concessa ad alcuni minori per rientrare nelle proprie abitazioni durante il fine settimana, ha determinato preoccupazioni e paure. Si è temuto per il contagio. In alcuni casi si è scelto, in ottemperanza alle normative d’urgenza, di non farli spostare, potenziando le attività educative all’interno delle strutture e le comunità hanno incrementato i contatti con i familiari attraverso i mezzi telemetrici. Tutte nuove difficoltà che i tribunali per i minorenni hanno dovuto gestire. Ma con le risorse e gli organici di sempre e la mancanza di strumenti e di formazione informatica per il personale. Spadaro: Compatibilmente con le difficoltà organizzative preesistenti, anche dai servizi sociali competenti sono stati attivati, in tutti i casi dove ciò sia possibile, forme di contatto regolare telefonico o attraverso altri strumenti telematici, quali ad esempio video chiamate, offrendo la possibilità ai genitori di tenersi in contatto e di ricevere messaggi, con l’obiettivo di non interrompere contatti o relazioni in corso con bambini e famiglie esposte a condizioni di particolare vulnerabilità. Anche i nostri Uffici si sono da subito attrezzati per promuovere ed attivare collegamenti da remoto per lo svolgimento delle principali funzioni giurisdizionali, con particolare attenzione ai casi urgenti. Il nostro sistema della tutela minorile, già attraversato prima dell’emergenza sanitaria da gravi circostanze che ne hanno messo in luce limiti e disfunzioni, a maggior ragione in una fase di inevitabile palingenesi deve affrontare con lucidità e determinazione alcuni nodi strutturali come il rinnovato sostegno alle famiglie per prevenire la necessità di ricorrere agli allontanamenti, a partire dalla riforma delle relative norme esistenti compresa la disciplina dei procedimenti giudiziari in materia di responsabilità genitoriale, assicurando agli uffici giudiziari minorili e ai servizi sociali le risorse necessarie. Oggi la libertà è sempre più come l’aria di Davide Conti Il Manifesto, 24 aprile 2020 Voglia di liberazione. Nella situazione emergenziale che stiamo vivendo tra pilastri della Costituzione sembrano riemergere nella coscienza collettiva. Salute, lavoro e istruzione. Campi di cui il 25 aprile è simbolo. Nel 1948 un decreto del governo De Gasperi vietò l’uso in pubblico di uniformi e fazzoletti partigiani per proibire celebrazioni all’aperto della Liberazione. Luigi Longo, parlando a Milano in occasione del 25 aprile di quell’anno, denunciò “la pretesa che la ricorrenza della Liberazione fosse ricordata in locali chiusi a porte chiuse come si ordina per gli spettacoli immorali”. Nello stesso giorno il corteo partigiano a Milano venne attaccato dalla polizia con un bilancio di un morto e venti feriti. Erano gli anni duri della Guerra Fredda, la Resistenza in Italia era “ospite scomodo” della divisione bipolare e la stessa Costituzione fu definita nel 1950 “una trappola per la libertà del popolo italiano” dal ministro dell’Interno Mario Scelba. Nel 2020 l’anniversario della Liberazione non potrà essere celebrato nelle piazze ma per ben altri motivi e in altro contesto. Il divieto di assembramenti dovuto alla crisi sanitaria impedirà le manifestazioni in tutte le città del Paese e tuttavia l’Anpi ha organizzato mobilitazioni nelle case (con canti partigiani) e nella rete (con interventi e conferenze sulla Resistenza). Al di là delle forme, il rapporto tra la crisi che attraversa la nostra società ed il 75° anniversario della Liberazione evidenzia alcuni nodi centrali che connettono passato e presente in modo stringente. Lo stato d’eccezione in cui viviamo richiama in modo esplicito i fattori fondanti che dalla Resistenza hanno preso corso nella nostra storia. L’attuazione della Costituzione, che dalla lotta di Liberazione trae radice valoriale e legittimità storica, ha immesso nella società del dopoguerra elementi di progresso e giustizia sociale il cui valore, dopo anni di de-costituzionalizzazione della vita pubblica sul piano economico-sociale e politico-culturale, oggi cogliamo nella sua portata generale di fronte ad una crisi nuova e priva di contorni definiti. “La libertà è come l’aria - insegna Piero Calamandrei - ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Così, quasi d’improvviso, tre pilastri del lascito costituente riemergono nella coscienza collettiva in questo nostro nuovo stato di necessità. La salute, che l’articolo 32 indica come diritto fondamentale dell’individuo; il lavoro, la cui centralità garantisce l’intero sistema dei servizi essenziali e che rappresenta il carattere fondante della Repubblica fin dagli articoli 1 e 3; l’istruzione che, aperta a tutti, obbligatoria e gratuita, oggi è stravolta nella sua sostanza dalla disuguaglianza di accesso ai mezzi digitali e dalla frammentazione sociale che la mancata frequentazione delle aule determina per studenti e famiglie. Nel biennio 1968-69 l’istruzione pubblica, l’istituzione della scuola materna e l’accesso libero all’università avviarono il lento processo di applicazione del dettato costituzionale, mentre nel 1970 con lo Statuto dei Lavoratori (seguito al più grande ciclo di lotte operaie della storia repubblicana guidato, tra gli altri, dal partigiano azionista e segretario generale della Fiom, Bruno Trentin) “La Costituzione entrò in fabbrica”; nel 1978 la partigiana Tina Anselmi promosse da ministra del governo di “solidarietà democratica” (sostenuto anche dal Pci) il Servizio Sanitario Nazionale come attuazione della nostra Carta. Da queste eredità sarà necessario ripartire in luogo di stati d’eccezione (che si reggono su una dualità divergente e assestante, in cui decine di milioni di persone sono obbligate a rimanere a casa e altre decine sono obbligate a recarsi a lavoro); di nuove forme di controllo sociale; di torsioni democratiche che hanno già fatto vittime i popoli di Ungheria e Slovenia. Viene spesso evocato il parallelo tra la crisi del Covid-19 e la guerra. Nulla c’entra l’una con l’altra ma si può trarre spunto da tale sproposito per segnalare un elemento fondamentale. La ricostruzione del dopoguerra ebbe costi sociali durissimi per le classi popolari e lavoratrici. L’esito di questa crisi rischia di ripetere quello schema e solo con più Costituzione si potrà uscirne in modo differente. Per questo è importante chiarire che tutto andrà bene solo se andrà bene per tutti. È questo il messaggio che arriva dal 25 aprile 1945. Migranti. Il rischio di una regolarizzazione “usa e getta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2020 La proposta dell’Asgi: un permesso di soggiorno per ricerca occupazione, rinnovabile e convertibile alle condizioni di legge. Nell’attuale emergenza Covid 19 mondiale è impossibile il movimento delle persone, anche per il ritorno nei Paesi di origine per effetto della chiusura dei confini di moltissimi Paesi. Al tempo stesso centinaia di migliaia di persone straniere che vivono in Italia da tempo - per gran parte lavoratrici e lavoratori che occupano settori importanti del mercato del lavoro italiano (assistenza familiare, agricoltura, logistica, ecc.) o richiedenti asilo ai quali è stata negata tutela - sono prive di permesso di soggiorno, a causa della mancata programmazione nell’ultimo decennio di effettivi flussi di ingresso e delle norme del “decreto sicurezza” del 2018. In questo contesto l’associazione Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione) propone al governo di rilasciare un permesso di soggiorno per ricerca occupazione, rinnovabile e convertibile alle condizioni di legge, oppure un permesso di soggiorno per lavoro ai cittadini stranieri che dimostrino la presenza in Italia alla data del 29 febbraio 2020. “Riteniamo necessario - si legge nella premessa della proposta destinata al governo e al Parlamento ed in particolare alla ministra dell’Interno - non limitare la proposta a determinati settori produttivi, che rispondono alla sola esigenza di utilizzo di manodopera ove più forte è lo sfruttamento lavorativo, ma destinare la proposta a tutti/e coloro che vivono in Italia in condizione di irregolarità o di precarietà giuridica e che attraverso il permesso di soggiorno, per lavoro o per attesa occupazione, possono emergere come persone e non solo come manodopera. soggetti di diritti e non solo braccia per il lavoro”. Perché ciò sia possibile, l’Asgi - sostenuta da tante altre associazioni - ha ipotizzato non solo l’emersione dal lavoro irregolare o precario ma anche il rilascio di un permesso di soggiorno per “ricerca occupazione”, che finalmente svincoli la persona straniera da possibili ricatti o dal mercato dei contratti che hanno contraddistinto tutte le pregresse regolarizzazioni. “La proposta che sosteniamo - conclude l’associazione - comprende perciò una duplice possibilità: la richiesta di permesso per ricerca occupazione, di durata annuale e convertibile alla scadenza, oppure la richiesta di emersione dal lavoro irregolare, con sospensione dei procedimenti penali, amministrativi o fiscali in capo al datore di lavoro, fino all’esito del procedimento e loro estinzione in caso di definizione positiva, con rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro di durata annuale e convertibile alle condizioni di legge”. Resta il fatto del rischio che passi la sanatoria solo per sopperire alla contingente richiesta di manodopera prevalentemente agricola: si tratta di un titolo di soggiorno vincolato all’emergenza, di durata semestrale e senza nemmeno possibilità di essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro. È quindi un’ipotesi di regolarizzazione “usa e getta” che riprodurrebbe solamente la condizione dello sfruttamento del lavoro migrante. “Esecuzioni in calo, ma rimangono l’arma contro il dissenso” di Roberto Prinzi Il Manifesto, 24 aprile 2020 Pena capitale. Intervista a Chiara Sangiorgio sul rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo: “Dopo le primavere arabe il suo uso in Medio Oriente è associato alle proteste antigovernative e al nebuloso reato di terrorismo. E spesso gli accusati appartengono alle minoranze”. Martedì Amnesty International ha pubblicato il suo rapporto globale sulla pena capitale. Ne abbiamo discusso con Chiara Sangiorgio, esperta di pena di morte per Amnesty. Per il quarto anno consecutivo Amnesty registra un calo nelle esecuzioni capitali (da 690 a 657). Un segnale incoraggiante... L’analisi che abbiamo svolto ha evidenziato come il trend globale vada verso l’abolizione della pena di morte, confinandola a soli 20 paesi. Di questi, solo 13 hanno compiuto esecuzioni negli ultimi cinque anni. Siamo di fronte al valore più basso registrato in almeno 10 anni. Da un lato abbiamo paesi come Iran, Giappone e Singapore che hanno ridotto il loro numero totale di esecuzioni annuali. Dall’altro, però, registriamo con preoccupazione anche un aumento di persone giustiziate in Iraq e Arabia saudita. Inoltre è allarmante come molte di queste esecuzioni siano state compiute a seguito di processi ingiusti che hanno riguardato persino i minori (è il caso dell’Arabia saudita). Quanto sono attendibili i dati che avete raccolto visto che in molti casi manca trasparenza da parte delle autorità? È un compito difficile provare ad avere un quadro globale accurato. Perciò siamo molto trasparenti e spieghiamo quale sia la nostra metodologia di raccolta dati. Ci sono dei paesi che nascondono i loro dati e li classificano come segreti di stato. Tra questi la Cina che resta la nazione con il più alto numero di esecuzioni annuali. Noi portiamo all’attenzione mondiale le cifre di cui siamo certi e che riusciamo per quanto più possibile a verificare. Tra le note negative c’è il Medio Oriente dove si registra un aumento delle esecuzioni... In Medio Oriente abbiamo avuto un aumento delle esecuzioni del 16%. Arabia saudita e Iraq sono i principali responsabili di questo incremento. Nel primo caso si è raggiunto il numero record di 184 persone giustiziate e si registrano aspetti particolarmente allarmanti perché si continua a fare un uso politico della pena di morte contro la minoranza sciita. Il 23 aprile dell’anno scorso, ad esempio, ci sono state 37 esecuzioni in un solo giorno. Tra i giustiziati 32 erano appartenenti alla comunità sciita. In Iraq, invece, le esecuzioni sono raddoppiate e sono legate al conflitto con l’Isis. Qui abbiamo registrato processi sommari e ingiusti, in molti casi durati pochi minuti o poche ore senza l’avvocato presente e spesso basati su confessioni. A proposito dell’uso politico delle esecuzioni, il vostro rapporto parla di “sviluppo aberrante”. Quanto ricorrere alla pena capitale è un’arma per eliminare il dissenso? Il motivo politico caratterizza l’uso della pena di morte in Medio Oriente da molti anni. Dopo le rivoluzioni delle primavere arabe del 2011, abbiamo osservato come il suo utilizzo sia stato associato alle proteste antigovernative. In alcuni casi gli accusati appartengono a minoranze. Molto spesso la pena di morte è collegata al nebuloso reato di terrorismo o viene inflitta ai “nemici” dello Stato. Quale potrà essere secondo lei l’impatto del Covid-19 sui numeri della pena capitale? È una domanda interessante, ma è un po’ presto per farsi un’opinione definitiva. Stiamo comunque già notando due tendenze diverse: da un lato, è il caso degli Usa, registriamo un rallentamento delle esecuzioni. Dall’altro, osserviamo casi collegati alle proteste nelle prigioni dovute alla paura dei prigionieri di essere contagiati. Il coronavirus può essere quindi sia fonte di opportunità per parlare di abolizione e sospensione delle esecuzioni, ma anche un’arma politica. Quanto è lontana la “vittoria sul boia”? È difficile dire quando, ma siamo certi che la vittoria arriverà: 106 paesi, quindi la maggior parte degli Stati del mondo, hanno rinunciato alla pena di morte nella loro legislazione mentre 142 sono abolizionisti per legge o nella pratica. Anche negli Usa registriamo tendenze molto positive: l’anno scorso il New Hampshire ha abolito la pena di morte. Quest’anno il Colorado. Nel 2019 c’è stata anche la buona notizia della moratoria sulle esecuzioni in California che è lo stato con il braccio della morte più grande degli Stati uniti. La via portoghese di Giovanni Damele* Il Foglio, 24 aprile 2020 Carceri e immigrati. Come una classe politica conscia delle fragilità del paese ha affrontato l’emergenza. Negli ultimi giorni, nella stampa internazionale si parla di un presunto “caso portoghese”: di una gestione sorprendentemente efficace dell’attuale emergenza. Come spesso succede, è bene moderare i toni. Il Portogallo ha probabilmente goduto del confronto con altri paesi dell’Europa meridionale e soprattutto con la vicina Spagna. È stato giustamente sottolineato, tra l’altro su questo giornale da Luciano Capone, come una parte del temporaneo e relativo successo portoghese sia dovuto anzitutto alla consapevolezza delle proprie fragilità, condivisa inizialmente forse più dalla società che dalle istituzioni portoghesi. Non è mancato poi chi abbia visto nell’attuale situazione portoghese, senz’altro meno drammatica di quella spagnola ma di certo non tra le migliori, l’influenza di variabili indipendenti dall’azione governativa: il caso (l’esplosione ritardata della pandemia) o il contesto (la scarsa densità della popolazione, alcuni elementi di scarso sviluppo sociale). La fortuna, però, diceva Machiavelli, governa le nostre azioni per metà o poco più. Il resto, dipende dalla virtù. Forse per questo, due decisioni prese dal Parlamento e dal governo portoghese, che si possono definire virtuose, hanno particolarmente attirato l’attenzione della stampa italiana. Soprattutto perché affrontano due problemi comuni ai due paesi e sui quali anche in questo caso il dibattito italiano, come puntualmente accade, si è avvitato su sé stesso: il sovraffollamento carcerario e la condizione degli immigrati. Il fatto che tanta attenzione sia stata suscitata da due decisioni tutto sommato pragmatiche dice più della situazione italiana che di quella portoghese. Consapevolezza della propria fragilità, si diceva. Cominciamo allora dalle carceri. La situazione portoghese non è migliore di quella italiana. Strutture fatiscenti, sovraffollamento e precarie condizioni igienicosanitarie sono la norma anche negli istituti di pena lusitani. Di fronte a questo stato di cose, il Parlamento portoghese ha approvato a maggioranza, 1’8 aprile scorso, un intervento che si può definire sistemico, perché comprende, a seconda delle situazioni, un indulto parziale, una grazia per i detenuti inclusi nelle categorie più vulnerabili (i detenuti più anziani), un regime semplificato (su decisione amministrativa) di detenzione domiciliare e un regime di libertà condizionale anticipata. Secondo le stime più recenti, queste misure dovrebbero determinare la scarcerazione di circa duemila detenuti su un totale di meno di tredicimila. Si tratta, come si vede, di un provvedimento dai chiari caratteri emergenziali, destinato ad alleviare parzialmente e temporaneamente una situazione potenzialmente esplosiva sul piano della salute pubblica. Sul tema dell’immigrazione, invece, il governo si era già mosso il 27 marzo con un’ordinanza interministeriale, intervenendo sui procedimenti pendenti di rilascio e di rinnovo dei permessi di soggiorno con l’obiettivo, tra l’altro, di garantire il rispetto dei diritti minimi di accesso al servizio sanitario. L’ordinanza riguarda gli stranieri che abbiano presentato regolare richiesta di permesso o di asilo al Servizio degli Stranieri e delle Frontiere (Sef) entro il 18 marzo, data dell’entrata in vigore del primo stato di emergenza. Poiché gli sportelli del Sef sono stati chiusi ai casi non urgenti fino al 30 giugno, a partire dal 1° luglio lo stesso servizio dovrà riprendere le normali pratiche di regolarizzazione, rispettando l’ordine cronologico delle domande. La misura, quindi, in questo caso non è soltanto emergenziale ma anche del tutto transitoria e strettamente dipendente dalla proclamazione dello stato di emergenza. Da un lato, protegge sicuramente gli immigrati in attesa di regolarizzazione e i richiedenti asilo, dall’altro vuole favorire l’emersione di uno strato della popolazione che sarebbe stato condannato, dalla contemporanea chiusura delle frontiere e del Sef, all’invisibilità, sfuggendo a ogni controllo sanitario. Il carattere eccezionale ed emergenziale di entrambi i provvedimenti e la loro natura di misure più di salute pubblica che di politica carceraria o dell’immigrazione hanno fatto sì che ricevessero debole opposizione, quando non generale consenso, suscitando scarso dibattito nell’opinione pubblica. L’opposizione alla legge sulle carceri, proveniente dai partiti di centrodestra, si è per lo più concentrata sulla concessione dell’indulto e, in ogni caso, non è stata sfruttata a fini propagandistici. Sui giornali, sia la legge sia la circolare sono passate più come una semplice notizia che come un tema di dibattito o di polemica. Certo, se ci si concentra più sui commenti dei lettori agli articoli che sugli stessi articoli, il panorama può cambiare sensibilmente. Si tratta però, come è ovvio, di un aspetto che non ha conseguenze di breve termine. Resta un’indubbia situazione di fragilità: le carceri continuano a essere malsane e affollate, gli immigrati e i richiedenti asilo continuano a trovare ospizio in “ostelli” dalle condizioni igieniche più che precarie. Uno di essi, recentemente individuato nel pieno centro di Lisbona come un autentico focolaio di contagio, ha fatto suonare un allarme decisamente tardivo. Di fronte a questo panorama, e con un servizio sanitario nazionale periclitante e sottodimensionato, è giusto riconoscere alla classe politica portoghese un senso di responsabilità che altrove è mancato. Almeno nella gestione immediata dell’emergenza. *Universidade Nova de Lisboa Perù. Coronavirus, approvato decreto per indulto a detenuti vulnerabili agenzianova.com, 24 aprile 2020 Il governo del Perù ha approvato un decreto che concede l’indulto a detenuti in situazione di vulnerabilità in 68 carceri del paese, a causa dell’emergenza sanitaria legata al nuovo coronavirus, Lo ha confermato all’emittente “Rpp” il ministro della Giustizia Fernando Castaneda, secondo cui il decreto verrà pubblicato oggi in gazzetta ufficiale. “Il decreto stabilisce i criteri di selezione o identificazione dei gruppi, tra cui madri che vivono in carcere con bambini di età inferiore a tre anni, donne in gravidanza, adulti di età superiore ai 60 anni che non hanno commesso un reato grave, malati e detenuti che finiscono di scontare la pena nei prossimi sei mesi”, ha detto Castaneda. Secondo il ministro saranno interessati dalla misura circa tremila detenuti. In Perù si registrano ad oggi un totale di 19.250 casi di contagio confermati e 530 morti. Tra i contagiati anche 113 funzionati dell’Istituto nazionale penitenziario e 500 detenuti, di cui 13 hanno perso la vita. Nei giorni scorsi il presidente peruviano Martin Vizcarra ha annunciato un’estensione dello stato di emergenza decretato a causa della pandemia fino al 26 aprile. Nel paese, dove è in vigore la quarantena, le uscite sono limitate per sesso a seconda dei giorni. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì potranno circolare solo gli uomini; il martedì, il giovedì e il sabato le donne, mentre domenica le uscite saranno proibite per tutti. Gli spostamenti sono consentiti solo per l’acquisto di viveri o prodotti farmaceutici. Durante gli spostamenti è obbligatorio l’uso della mascherina. Venerdì 27 marzo il Congresso del Perù ha approvato a maggioranza il testo che assegna pieni poteri all’esecutivo, per un periodo di 45 giorni, nel quadro dell’emergenza causata dalla pandemia del nuovo coronavirus. Il decreto prevede la restrizione dei diritti costituzionali relativi a libertà e sicurezza personali, inviolabilità del domicilio, libertà di riunione e transito nel territorio nazionale. La misura prevede anche la sospensione del trasporto internazionale di passeggeri per via aerea, marittima e terrestre, mentre potranno continuare a transitare le merci. Si dispone inoltre la chiusura dei negozi, ad eccezione di farmacie, banche e attività legate a generi di prima necessità e viene ridotto del 50 per cento il trasporto pubblico. Lo scorso 19 marzo Vizcarra ha anche annunciato il coprifuoco notturno dalle 20 alle 5 del mattino. Parlando in conferenza stampa il capo dello stato ha dichiarato che la misura è stata presa perché c’è una piccola percentuale di persone che non rispetta le restrizioni imposte dallo stato di emergenza, e stanno per questo “giocando con la loro salute e con quella dei peruviani”. “La maggioranza delle persone resta in casa, ma altri no. Le forze armate e la polizia nazionale del Perù saranno incaricate di fare rispettare rigorosamente questa misura, che non sarà valida solo per Lima, ma a livello nazionale”, ha detto Vizcarra. Sul fronte economico il governo ha annunciato che destinerà risorse pari al 12 per cento del suo Pil all’emergenza causata dal nuovo coronavirus. “L’impatto economico di quello che sta succedendo non ha precedenti e il piano economico che dobbiamo applicare deve essere un piano senza precedenti”, ha detto il ministro dell’Economia e delle Finanze, Maria Antonieta Alva, in un’intervista con “Cuarto Poder”. Il governo, ha spiegato, sta pensando allo sviluppo di un piano su due tappe: una di contenimento della crisi e uno di riattivazione dell’economia. Nella prima fase di contenimento “l’esecutivo prevede di spendere 30 miliardi di sol (circa 8 miliardi di euro)”. Nella seconda tappa, annunciata dal presidente della Banca centrale, “si prevede uno schema di garanzia di prestiti alle imprese per altri 30 miliardi di sol”. Altri 8 miliardi di euro verranno messi in campo per la fase di riattivazione. “Abbiamo le risorse fiscali per adottare misure coraggiose ma necessarie”, ha detto Alva. Libano. Il governo rilasci con urgenza altri detenuti per prevenire la diffusione del Covid-19 amnesty.it, 24 aprile 2020 Nell’ambito delle misure di contenimento e prevenzione della diffusione del Covid-19, le autorità libanesi devono dare priorità al rilascio di detenuti che hanno scontato le proprie condanne e accelerare l’esame dei casi di coloro che si trovano in regime di detenzione preventiva. Nonostante il governo abbia adottato una serie di misure, tra le quali alcune scarcerazioni, sono migliaia le persone che restano in carcere in attesa di processo, o, in alcuni casi, anche a pena scontata. Nelle ultime settimane, nel clima di crescente preoccupazione legato alla pandemia, ci sono state rivolte all’interno delle carceri e sono stati organizzati dei sit-in di protesta dei familiari all’esterno degli istituti penitenziari e delle stazioni di polizia per chiedere l’immediato rilascio dei detenuti. “Le carceri libanesi sono piene di persone che semplicemente non dovrebbero trovarsi lì. Tra queste, centinaia restano dentro perché i magistrati non esaminano il caso in tempi ragionevoli, o perché non sono in grado di pagare le ammende o ottenere un’ordinanza di scarcerazione”, ha detto Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. “La risposta delle autorità al Covid-19 rappresenta un’opportunità per affrontare questa ingiustizia e non deve essere più rinviata. Per coloro che restano in detenzione o in carcere, il governo libanese deve fornire uno standard sanitario che soddisfi le esigenze individuali di ciascuna persona e garantisca la massima protezione possibile contro la diffusione del Covid-19”, ha aggiunto Lynn Maalouf. Chiediamo alle autorità libanesi di rilasciare i detenuti che hanno finito di scontare la propria condanna e coloro che stanno scontando una condanna o sono trattenuti per accuse che non costituiscono reati internazionalmente riconosciuti. L’organizzazione chiede altresì alle autorità libanesi di prendere seriamente in considerazione il rilascio o l’adozione di misure non detentive per tutti coloro che sono in carcere in attesa di processo, oltre ai detenuti che sono maggiormente a rischio a causa dell’età o di patologie pregresse, indipendentemente dall’accusa per la quale sono stati arrestati o condannati. Nell’ambito delle misure governative per il contenimento della diffusione del Covid-19, il 6 aprile il ministro dell’Interno ha annunciato il rilascio di oltre 600 persone che si trovavano in regime di detenzione preventiva. Secondo l’organizzazione non governativa Agenda legale, nel 2018 la densità della popolazione carceraria era del 130 per cento, dovuta soprattutto alle prolungate custodie cautelari. La situazione all’interno degli istituti penitenziari resta preoccupante con un costante sovraffollamento e condizioni di vita inadeguate, senza contare le condizioni sanitarie critiche in cui versano centinaia di detenuti. I detenuti sono esposti a maggiori rischi relativi al Covid-19, non potendo far altro che vivere a stretto contatto con gli altri, spesso senza possibilità di accesso ad adeguate misure preventive. Il 17 marzo, il governo ha presentato una proposta di legge al parlamento concepita in linea di principio per dispensare i detenuti che avevano finito di scontare la propria pena dal pagamento delle ammende e per garantire loro il rilascio, lasciando intendere che sarebbero oltre 100 i detenuti in questa situazione. Tuttavia, la proposta di legge non è stata inclusa nell’agenda parlamentare della sessione legislativa, di tre giorni, di questa settimana. L’esistenza di questa proposta di legge indica che ci sono almeno centinaia di detenuti che hanno scontato la propria condanna ma restano ancora in carcere. Doummar El-Mokdad, membro del Comitato delle famiglie dei detenuti del Libano ha dichiarato di essere a conoscenza di persone in custodia cautelare trattenute per periodi di tempo prolungati: “I detenuti restano senza processo. Alcuni si trovano in carcere dagli avvenimenti di Nahr El Bared del 2007 e sono da 13 anni senza processo. Sono ostaggi, non detenuti”. Il 2 aprile, il primo ministro Hassan Diab ha annunciato l’intenzione di scarcerare un numero stimato di 3000 detenuti, circa la metà della popolazione carceraria regolare, e una settimana dopo il ministro dell’Interno Mohammed Fahmi ha confermato la liberazione di 606 persone che si trovavano in detenzione preventiva. Doummar El-Mokdad ha aggiunto: “Per i detenuti e le loro famiglie, il Libano è un vero e proprio inferno. Le nostre carceri non sono fatte per gli esseri umani. Le foto e i video inviati dai detenuti dimostrano che le loro condizioni restano deprecabili”. I familiari intervistati da noi temono per la salute dei detenuti, soprattutto in ragione delle visite che diventano sempre più difficili a causa delle restrizioni imposte per la pandemia. Secondo Omar Nashabe, ex consulente del ministero dell’Interno, l’amministrazione della prigione centrale di Roumieh ha fornito un elenco di 700 detenuti che presentano patologie pregresse, molti dei quali con problemi respiratori e altre malattie che li espongono a rischi maggiori relativi al Covid-19. El-Mokdad ci ha riferito che a Roumieh sono circa 120 le persone detenute che condividono lo stesso bagno e 70 dormono in ogni corridoio. Nella prigione di Zahle, si calcola siano 820 le persone detenute in un edificio dalla capacità di 300. Il marito di Heba Al-Mawla, Ali, finora ha scontato sette anni di una condanna a 13 per vendita di stupefacenti. Heba, che ha due figli, non è riuscita a fargli visita nelle ultime tre settimane perché, a causa dell’interruzione del suo lavoro di tassista, non ha denaro disponibile. Ha raccontato: “Ali mi ha detto che hanno riunito i detenuti e hanno spruzzato su di loro acqua e disinfettante. Questa è una misura valida per proteggerli dal coronavirus? O semplicemente un altro modo per offenderli? Quando condannano qualcuno a trascorrere così tanto tempo in carcere, stanno condannando anche la madre, la moglie e i figli. Il nostro paese è pieno di ingiustizie”. Turchia. L’emergenza Covid alimenta la stretta autoritaria del regime di Barbara Spinelli* Il Dubbio, 24 aprile 2020 Avvocati turchi, digiuno di lotta per i diritti umani. Nonostante gli appelli lanciati dall’avvocatura a livello internazionale, Erdogan ha escluso dalla maxi amnistia tutti i detenuti politici e per reati di opinione, tra cui numerosi avvocati, magistrati e giornalisti. Anzi, l’emergenza Covid-19 ha costituito un’occasione per stringere la maglia della sorveglianza e limitare ulteriormente, se possibile, i diritti dei detenuti politici. L’avvocata turca Ayse Acinikli riporta: “Mancano i dispositivi di protezione sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Dall’inizio della pandemia c’è stata una sola sanificazione delle celle, nonostante i nuovi ingressi di detenuti ed i trasferimenti che continuano anche da carceri dove ci sono stati casi positivi. Non c’è stata pietà neanche per i detenuti politici con gravi problemi di salute”. Molti avvocati detenuti sono in sciopero della fame. Due di loro, dal 5 aprile, giorno nazionale dedicato all’avvocatura, hanno smesso anche di assumere integratori, e si stanno lasciando morire, per protesta contro la lesione dei diritti dei detenuti, chiedendo libertà per gli avvocati perseguitati. La moglie di uno di loro, l’avvocata Didem Baydar Üysal, che ha subito vari mesi di detenzione, racconta: “I nostri colleghi Ebru Timtik e Aytaç Üysal sono in sciopero della fame fino alla morte. Ad oggi Ebru non mangia da 110 giorni e mio marito Aytaç da 79. Ci siamo conosciuti mentre studiavamo nella stessa facoltà, quando ci siamo laureati insieme ai nostri cuori e le nostre mani anche i nostri sogni si sono uniti. Volevamo diventare avvocati dei poveri, degli oppressi e lottare per la giustizia. Negli anni che ci siamo lasciati alle spalle abbiamo lottato sempre per questo comune obiettivo. Nell’ambito dello stesso processo per cui in nostri amici sono in carcere da circa due anni e mezzo anche io sono rimasta in stato d’arresto per un anno. Ci hanno tenuto separati, in due carceri diversi, lontani chilometri. Dopo dieci anni di separazione fisica ci siamo trovati nello stesso carcere. Ci è stato dato il diritto di incontraci per un’ora una volta a settimana. Due mesi dopo quest’incontro al termine di un’udienza durata cinque giorni siamo stati tutti liberati. Ma il potere politico non ha perso tempo e nell’arco di 10 ore è stato emesso un nuovo ordine di arresto per alcuni di noi. Ora ancora otto nostri colleghi sono in stato di detenzione. Mio marito ed Ebru hanno scelto di lottare fino alla morte contro questa ingiustizia. Come il nostro giovanissimo assistito Mustafa Koçak, che sta digiunando fino alla morte per difendere il suo diritto a un giusto processo. È stato torturato brutalmente nell’infermeria del carcere. Con lo stesso scopo anche i membri della band musicale Grup Yorum - cui è stato proibito di cantare - hanno scelto il digiuno fino alla morte. Helin Bölek era una mia assistita. Noi siamo avvocati che vogliono solo fare il loro lavoro, garantire una difesa di fiducia, un giusto processo, senza essere ingiustamente accusati e perseguitati. Provate a immaginarvelo. Lottare in un sistema giudiziario pieno di violazioni delle leggi, dove le vie legali sono chiuse. Siamo avvocati, ma ci hanno reso dei carcerati. Siamo nelle stesse celle dei nostri assistiti. Stiamo cercando una strada per difendere i nostri assistiti e noi stessi davanti a questa ingiustizia. Ebru e Aytaç hanno detto “basta” iniziando lo sciopero della fame fino alla morte. Quando siamo venuti a conoscenza di questa loro scelta, in questa atmosfera di indifferenza e di silenzio, ci si è accapponata la pelle, ci siamo preoccupati. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. È nostra e vostra responsabilità dare voce alle loro richieste ed ottenere che le loro legittime e giuste rivendicazioni - tra altro di così facile applicazione - vengano accolte. Loro dentro e noi fuori dobbiamo continuare a resistere”. Il Consiglio Nazionale Forense proprio ieri ha chiesto al Governo italiano di intervenire per via diplomatica presso il Governo turco affinché gli avvocati detenuti vengano immediatamente liberati. *Commissione di studio sui diritti umani del Foro di Bologna Siria. Al via in Germania il processo per crimini di guerra di Tonia Mastrobuoni repubblica.it, 24 aprile 2020 Per la prima volta accusati dalla giustizia internazionale i torturatori di Assad. Alla prima udienza di un processo unico al mondo, quello per i crimini commessi dal regime siriano di Bashar al-Assad, il procuratore generale Jasper Klinge non ha usato mezzi termini per definire uno dei due aguzzini che la giustizia tedesca è riuscita a trascinare alla sbarra: criminale, sadico, torturatore. E l’elenco delle atrocità elencate davanti agli imputati, due figure di primissimo piano dei servizi segreti siriani, Anwar Raslan ed Eyad al-Gharib, è insopportabile. Dal 2002 la Germania ha cominciato a organizzare processi per crimini contro l’umanità anche quando non avvengono sul territorio internazionale; dall’anno successivo una task force specifica ha indagato sulle lesioni dei diritti umani avvenuti in Congo e durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Tra il 2015 e il 2017 la task force ha raccolto oltre 2.800 denunce di profughi siriani sulle persecuzioni e i crimini commessi dal regime di Assad. Il processo contro i due torturatori avviato oggi andrà avanti fino ad agosto. La procura chiede di condannarli all’ergastolo per omicidio plurimo, violenze e stupri. Ad Anwar Raslan era stato affidato nove anni fa, all’inizio della guerra civile in Siria, la ‘sezione 251’ dei servizi segreti, incaricata di dare la caccia agli oppositori del regime. Il co-imputato Eyad al-Gharib li rastrellava alle manifestazioni e glieli consegnava. Almeno 4000 persone sarebbero passate nelle stanze di Raslan e continuano a soffrire a dieci anni, a detta del procuratore, di enormi traumi. Cinquantotto persone sono morte per le conseguenze delle torture. Raslan non ha detto una parola durante la prima udienza. È stato portato in aula ammanettato, come al-Gharib. E ha ascoltato in silenzio l’elenco insostenibile delle sue atrocità. Stupri, botte con bastoni, tubi di plastica e di gomma. Donne e uomini appesi per ore al soffitto, torturati senza pietà finché non svenivano. A uno di essi, dopo averlo appeso, gli scagnozzi di Raslan avrebbero dato da bere per poi tappargli il pene. Il capo dell’unità segreta dei torturatori di Assad era scappato in Germania e aveva chiesto asilo nel 2014. A Marienfelde, dove viveva in un campo profughi, era stato riconosciuto da ex oppositori di Assad e da avvocati di diritti umani. Raslan non ha mai cambiato nome e non ha mai fatto nulla per nascondere la sua vera identità. Nel 2015 si sarebbe presentato addirittura a una stazione della polizia di Berlino per denunciare presunte spie russe siriane e russe che lo stavano seguendo.