Il Coronavirus dietro le sbarre. Le voci dal carcere di Claudio Paterniti Martello* Il Foglio, 23 aprile 2020 La pena non affligge solo chi sta dentro. Lettere, testimonianze e richieste di aiuto di parenti e detenuti, molti ancora in attesa di giudizio. L’otto marzo 2020 il presidente del Consiglio ha messo fine con un decreto ai colloqui tra detenuti e familiari: troppo alto il rischio di contagi da nuovo Coronavirus. Nelle carceri delle regioni già sofferenti a causa del virus, i colloqui erano stati vietati o fortemente ridotti nelle settimane precedenti. Come anche le attività scolastiche, gli ingressi dei volontari, le attività sportive o la formazione professionale: insomma, tutto quello che a fatica e in parte riempie il grigio quotidiano detentivo. Le malattie infettive sono da sempre un grosso problema, in carcere: affollamento e scarse condizioni igieniche ne fanno un ottimo terreno di coltura per ogni virus. Si capisce dunque che si sia cercato di correre ai ripari. Ma sarebbe stato più previdente informare parallelamente i detenuti di ciò che accadeva fuori e dentro, in maniera capillare e costante; così come aumentare da subito frequenza e durata di telefonate e videochiamate. E concedere la detenzione domiciliare o la liberazione anticipata ai tantissimi a cui restavano - e restano ancora - pochi mesi da scontare, e che sono rimasti in gran parte dietro la porta. Queste misure sono state prese in maniera tardiva. Si aggiunga la mancanza di mascherine e gel disinfettante e l’assenza di controlli sanitari sugli operatori penitenziari e si capirà meglio come si è arrivati alle rivolte dell’otto e nove marzo e quali sentimenti vanno per la maggiore nelle galere e tra i familiari di chi ci sta dentro. Ad Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, nelle ultime settimane, sono arrivate centinaia di segnalazioni: madri, mogli, figlie e compagne di detenuti ci hanno inondato di mail, messaggi su Facebook, lettere e telefonate, chiedendoci informazioni su come tirare fuori i loro detenuti e rendendoci partecipi di paure e angosce. Hanno iniziato a farlo prima delle rivolte. Ancora a inizio marzo ci si preoccupava del tempo lungo a venire senza poter toccare e vedere mariti, figli, compagni e fratelli: “Oggi è il 5 marzo: da due settimane non possiamo vedere i nostri cari e la situazione sembra possa estendersi a tutto il mese di marzo”. Tutto marzo sembrava troppo, all’inizio. “Siamo consapevoli dell’elevatissimo rischio di contagio in carcere; chiediamo però che si possa trovare un modo per permetterci di continuare a coltivare i nostri rapporti con i detenuti”. Chiedevano più telefonate, e che si potesse usare Skype, della cui implementazione l’Amministrazione penitenziaria fa da tempo gran vanto. C’era già allora - come c’è ancora adesso - la paura che i propri detenuti si ammalassero di Covid. Come si fa in effetti a mantenere la distanza in un posto in cui si è stipati come sarde in padella? “Buongiorno, sono la moglie di un detenuto rinchiuso nella casa circondariale di X (i nomi delle persone e dei luoghi sono stati omessi, per garanzia e rispetto alla privacy di chi ha scritto ad Antigone, ndr). Vi chiediamo aiuto, in una cella ne sono 6-7, ognuno di loro soffre di una patologia grave. Se il virus dovesse entrare lì come si risolve?”. Già, come? Problema di difficile risoluzione, in un carcere in cui il tasso di affollamento si aggira attorno al 200 per cento. Lo stesso vale ovviamente per altri istituti, anche se non per tutti: “Mio marito ha problemi di salute, il suo carcere è molto piccolo ed ospita il doppio dei detenuti ke di regola dovrebbero esserci. Ne basterebbe uno per contagiare l’intero carcere”. La pena non affligge solo chi sta in carcere. Mogli, figli e compagne la subiscono senza neanche l’accusa di un reato. Un tribunale italiano, tempo fa, contestò la decisione di un giudice che aveva negato a un detenuto di andare alla prima comunione di suo figlio: si ledeva in quel modo il diritto del minore, che non aveva colpa. Anche oggi l’apprensione dei bambini torna in ballo. “Ho un bimbo di 3 anni che per la sospensione dei colloqui non vede suo padre già da un mese. E chissà ancora x quanto tempo non potrà vederlo. Abbiamo bisogno di aiuto. Nessuno ci ascolta, siamo disperati, preoccupati x i nostri cari. Ogni giorno la situazione peggiora. Nn vi chiediamo molto, vi prego... amnistia indulto sconto di pena qualunque cosa essa sia”. Non chiedeva neanche poco, a un Parlamento che ha bandito quelle parole dal suo vocabolario e che è composto in buona parte da forze politiche che sul “Tutti in galera!” hanno costruito larghe fortune. “Sono una moglie e madre estremamente preoccupata che nessuno ascolta. Mio marito prima di essere un detenuto è padre di 2 figli piccoli, che non vede da oltre un mese e che non vedrà per ancora molto tempo. Sono l’unica sua forza. Fra 6 mesi potrebbe chiedere l’affidamento in prova, non gli manca tantissimo. Non ci sono in previsione misure alternative per quelli come lui?”. Non ce ne sono. Le timide misure che il Parlamento ha adottato per far fronte all’affollamento carcerario si sono limitate a snellire le procedure con cui alcuni detenuti potevano già da prima chiedere di andare a scontare il residuo pena a casa, se basso (fino a 18 mesi). Molti detenuti non possono però neanche chiederlo: quelli anche solo sospettati di aver partecipato alle rivolte, ad esempio, o chi è in carcere per reati gravi, i cosiddetti 4-bis. Anche se prossimi alla scarcerazione - metti fra un mese - devono restare dentro fino alla fine. I parenti ci speravano: “Buongiorno, volevo ringraziarvi e stimarvi per tutto quello che state facendo. Volevo capire se per il mio detenuto c’era qualche speranza di uscire prima, visto che la sua fine pena è tra due mesi esatti! Ha il 4 bis, è a X”. I primi a sperare, a ragione, sono stati quelli soliti uscire dal carcere grazie ai permessi dell’autorità giudiziaria. Nell’attesa che il Parlamento si pronunciasse, si aggrappavano a voci di corridoio che li volevano presto a casa: “ieri mio marito - sta a X - mi diceva che gli hanno detto che stanno pensando di far uscire chi lavora all’esterno. Ma è tutto poco certo, si tratta di voci di corridoio”. Il decreto Cura Italia, attualmente in fase di conversione, ne uscirebbe meglio se si decidesse di mandarli a casa davvero, quelli che il gergo penitenziario chiama permessanti. È andata meglio ai cosiddetti semiliberi, quelli che di giorno lavorano fuori e la sera tornano in carcere. Alcuni tribunali di sorveglianza si sono fatti in quattro perché scontassero la pena a casa almeno fino al 30 giugno. È successo a Milano, dove ci si è messo di mezzo persino un incendio, al settimo piano del Palazzo di Giustizia. Ma non dappertutto: a volte i magistrati hanno preferito seguire l’irresponsabile strada già segnata da governo e Parlamento, negando le licenze. Allora la mezza libertà si è tramutata nuovamente in prigionia completa. Come al marito di una signora che ci ha scritto sconsolata: “Buongiorno, mio marito è detenuto in regime di semilibertà. Sabato 22 febbraio, al rientro serale, gli hanno comunicato che dal giorno dopo non sarebbe più uscito, nemmeno per andare al lavoro”. Tempo dopo il governo si è deciso a mandarli a casa. L’impatto sistemico è però limitato, essendo questi detenuti tutt’al più 800 (ed essendo rimasti peraltro in buona parte carcere, nonostante il decreto). Nell’ultimo mese e mezzo sono uscite circa 4.000 persone: la metà per l’intervento del governo, l’altra metà a legislazione pre-vigente: potevano uscire anche prima, ma c’è voluto il virus perché si attivasse la magistratura. Chi è rimasto dentro (più di 54.000 persone, a fronte di meno di 47.000 posti) cerca mascherine e gel idroalcolico, come chi sta fuori. E pensare che all’inizio dell’epidemia in diversi istituti raccomandavano agli agenti di non indossarle, per non far preoccupare i detenuti: “Nel carcere di mio marito hanno messo il disinfettante nei corridoi, ma le mascherine le hanno vietate”. A vedere il personale troppo imbardato si sarebbero sentiti infetti. I parenti, quando ancora si accettavano pacchi, cercavano comunque di farle entrare: “Nel pacco io una gliel’ho messa, ma gli agenti all’ufficio preposto non erano certi che avrebbe potuto utilizzarla”. Il carcere non ha mai tollerato che da fuori entrassero troppe cose: le mascherine non fanno eccezione. Ad angosciare i parenti non c’è solo il virus. Anche a pensare a una giornata senza scuola, senza colloqui e senza volontari si stringe il cuore: “mio marito è a X. Sono molto preoccupata che il virus si possa diffondere, ma altrettanto preoccupata dell’abbandono e dell’ulteriore isolamento che stanno vivendo i detenuti in questo momento”. Almeno le telefonate potrebbero concederle, lamentavano a inizio marzo: “Io sono consapevole che c’è un’emergenza sanitaria. Però qualche telefonata in più non farebbe che dare tranquillità sia ai nostri cari che a noi famigliari, soli, confusi e frastornati”. Oggi si telefona con una certa frequenza, per fortuna - seppur non dappertutto. In molti istituti si videochiama con gli smartphone. Ogni carcere ne ha un certo numero e a turno i detenuti vi accedono. Speriamo che il Coronavirus ci lasci almeno questo, di positivo: i telefonini in carcere. Assieme alle telefonate arrivano le voci di contagi, continue e spesso false. “Mio marito è in carcere a X. Fino a oggi era tutto sotto controllo, ma ora hanno saputo che due persone sono positive, e i detenuti si sono impauriti. L’unica misura che è stata presa sa qual è? Nessuna. Mio padre soffre per i suoi nipoti, che sanno che il loro nonno sta costruendo una barca...”; “Mi ha chiamato il mio compagno dicendomi che questa mattina hanno messo due persone positive in quarantena. Ma non esce la notizia ufficiale di coronavirus: perché?”. A volte sono vere: come quella arrivata da un carcere campano: “Mio fratello da una settimana si trova in isolamento in infermeria con febbre alta, tosse, dolori e senso di vomito. Da quattro giorni non mangia. Ha appena chiamato al telefono, e piangendo ci ha chiesto di aiutarlo. Da ieri pomeriggio nessuno gli misura la febbre. Stanotte aveva freddo e non venendo nessuno a misurare la febbre si è messa una supposta di Tachipirina”. Qualche giorno dopo sono riusciti a fargli il tampone: positivo, trasferito in ospedale. Le notizie dal carcere sono angoscianti, ma ancora più angosciante è l’assenza di notizie. Molte mogli e sorelle, dopo le rivolte di marzo e i trasferimenti che le hanno seguite, sono rimaste in attesa che il telefono squillasse. Attesa vana, a volte perché nel nuovo carcere non avevano soldi per telefonare. Altre volte per ragioni da accertare. “Mio fratello era detenuto a X. Dopo le proteste, il 9 marzo, l’hanno portato a X. Siamo al 25 marzo e ancora non ho sue notizie”. “Buongiorno, da X siamo ancora in attesa di chiamate. Dall’8 marzo non ho ricevuto nessuna chiamata”. “Hello, my husband was in a Sicilian jail, but now someone told me that Hès in X. I’m in Pakistan and I’m very scared”. Il silenzio è più pesante quando si sa il proprio figlio malato: “Mio figlio ha precedente de malattie pulmonare, i suoi pulmones no resistirano a questo virus. No lo sento dal 8 de marzo. 9 mesi fa ho perso mio figlio più grande. No voglio perdere mi otro figlio. Vi prego, aiuto. Voglio sapere almeno si sta bene”. Capita anche che non chiamino perché hanno paura di uscire dalla cella. Come quel detenuto affetto da una malattia autoimmune che gli impedisce, così ci dicono, di assumere farmaci: “Il ragazzo ormai vive nel terrore di ammalarsi perché sa che non può prendere nessun farmaco. Vive rinchiuso nella sua cella, evita pure di telefonare a casa tutte le volte che vorrebbe perché ha paura pure di prendere il telefono in mano e sta sviluppando attacchi di panico, tanto che è stato visto dallo psicologo. Vi prego, potete fare qualcosa?”. Com’è noto, un terzo delle persone in carcere aspetta che un giudice pronunci parole definitive sulla innocenza o colpevolezza. Nel frattempo, con la Costituzione in mano, invocano la presunzione di innocenza: “Con che coraggio i magistrati ci confinano qui senza avere la minima certezza di colpevolezza? È una vergogna per il nostro sistema legislativo, che a livello mondiale è molto riconosciuto e poi si perde in un bicchiere d’acqua”. Dovrebbero uscirne almeno 7.000, perché capienza e presenza facciano pace. Di più, se si vogliono spazi sufficienti per gestire gli eventuali positivi. Ma le misure di scarcerazione trovano forti opposizioni a livello politico. Si sventola lo spauracchio sempreverde dei criminali all’assalto della società. Alcune lettere mostrano, se ce ne fosse bisogno, la reale caratura criminale della gran parte di chi sta in galera. “Il mio ex marito si trova a X da un anno per cose stupide. Sbagliate, ma stupide, tipo aver piantato due piantine più di 10 anni fa, così, per gioco, a casa, e poi perché aveva messo dei telefoni in vendita che poi non ha inviato, prendendosi la caparra. Sbagliato, ok, ma sta pagando, ha pagato. Assurdo che per una cosa così debba fare ancora altri 30 mesi. Io sono disposta a farlo venire a casa per stare con suo figlio che non vede da un anno, che ha 15 anni e ha problemi (tant’è che ha la 104)”. A volte i Tribunali ci mettono un po’, a chiedere il conto. Ma poi arriva: “Buonasera, sono la figlia di un detenuto napoletano. Mio padre era in affidamento, da 5 anni non commetteva più reati. I reati per cui è stato condannato riguardavano la vendita di cd musicali masterizzati. Da 5 anni lavorava: collaborava con una squadra di calcio dilettantistico, come magazziniere. Io ho sempre avuto un rapporto conflittuale con lui. Studio giurisprudenza e l’ho sempre condannato, anche a casa, per i suoi sbagli. Ormai però aveva cambiato vita. Purtroppo ha avuto una condanna definitiva per una cosa vecchia, dopo una difesa d’ufficio di cui non avevamo conoscenza. È stato portato nella casa circondariale di X dopo ben 7 anni in cui non metteva piede in un carcere. Per tutta la famiglia è stato un trauma”. Certo, non poter mandare neanche un pacco con delle lenzuola, di questi tempi, non è cosa da cristiani: “Dall’ultima telefonata non abbiamo più notizie. Abbiamo appreso delle varie rivolte dai media ma non abbiamo ricevuto nemmeno una telefonata. Siamo piuttosto in ansia, a casa. Lunedì mia madre ha provato a spedire un pacco con lenzuola e biancheria pulita, ma questo pacco sta tornando indietro per causa di forza maggiore. Questo è l’appello di una figlia che non ha notizie del padre da 8 giorni. Io sono d’accordo sul fatto che debba scontare una pena e anche sul fatto che vista questa situazione siano stati sospesi i colloqui, ma siamo davvero in ansia e non sappiamo a chi chiedere informazioni certe su come stia o quando lo faranno chiamare a casa”. Agli appelli delle figlie si aggiungono quelli delle mamme: “Sono C., una mamma come tante che in questo momento ha un figlio in custodia cautelare nel carcere di X, in attesa di un processo che non si sa quando verrà celebrato. X è accusato di un reato patrimoniale (ancora da dimostrare) e non certo di reati violenti o di particolare allarme sociale. Ed è incensurato. Si stanno esponendo i detenuti tutti ad una infezione che può portare anche alla morte. È di dominio pubblico che le nostre carceri siano sovraffollate, che al loro interno non sia possibile tenere le distanze di sicurezza, né ci sono mascherine e guanti per tutti. Soffre da tanti anni di asma e di obesità. Per questa ragione abbiamo chiesto, attraverso i suoi difensori, non già di liberarlo, ma quanto meno di mandarlo a casa agli arresti domiciliari, fino a quando si terrà il processo. Non sto chiedendo di azzerare la sua posizione, non sto chiedendo di non fare un processo. Non sto chiedendo qualcosa di assurdo: sto implorando di non farlo morire in carcere per un contagio che non perdona. Già questa epidemia ci fa vivere sospesi e senza certezze, ma il saperlo lì a rischio ancor maggiore mi fa impazzire, come certamente fa impazzire altre madri come me! Non lo posso vedere, non posso parlargli perché può fare solo una telefonata a settimana di 10 minuti. Alla fine mi chiedo se non sia condannata più io e i miei familiari oltre a lui! Che ironia sarebbe se alla fine risultasse innocente e fosse morto per Coronavirus in carcere! Ci vuole coraggio nei momenti di crisi per prendere le decisioni giuste, forse non accolte dal favore di tutti, ma che seguono valori veri e rimettono al centro l’Uomo. A nome di tante mamme, vi supplico affinché non abbiamo a piangere i nostri figli!”. Dovrebbero uscire, dunque, per scongiurare il rischio che le carceri diventino focolai. Alcune lo sono diventate: come Bologna, dove molti detenuti hanno perso il diritto all’ora d’aria: “Il mio compagno mi scrive: ‘Siamo sempre chiusi in 10 mq in 2 o 3 persone h24. Non ci fanno fare l’ora d’aria...non riesco più a dormire se non per 2 max 3 ore a notte... ho paura per questo virus e non mi sento al sicuro”. Io mi auguro che il mio compagno non si ammali di esaurimento nervoso”. A Bologna, come in tanti altri posti, durante le rivolte sono saliti sui tetti. Alle rivolte hanno fatto seguito i trasferimenti, che hanno trasferito anche il virus. In Friuli, per esempio, a Tolmezzo, dove alla notizia di arrivi da Bologna i detenuti hanno inscenato una protesta: “Salve, sono la figlia di un detenuto che si trova nella casa circondariale di Tolmezzo. Un paio di settimane fa alcuni detenuti sono stati trasferiti dal carcere di Bologna (risultato un focolaio) nel carcere dove si trova mio padre. Le guardie volevano portarli ai piani ma i detenuti non lo hanno permesso, perché volevano essere sicuri che non erano stati contagiati dal Covid 19. Soltanto oggi, a distanza di 15 giorni, viene comunicato ai detenuti che 5 uomini su 7 sono positivi al Covid. Non voglio che si arriva ad uno sciopero perché sappiamo tutti che chi ne paga le conseguenze sono solo i detenuti a colpi di manganello, come è già successo al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Per favore, aiutatemi”. In questi giorni Torino, con i suoi circa 40 positivi, si è trasformato nel più grande focolaio penitenziario. E pensare che molti magistrati hanno negato i domiciliari perché in carcere si sarebbe più protetti dal virus. Argomento dei forcaioli d’ogni risma. Il 20 aprile i detenuti positivi in tutta Italia erano 133, concentrati prevalentemente in 3-4 istituti. Molti, fortunatamente, erano asintomatici. All’inizio erano pochissimi. Poi il contagio ha fatto il suo mestiere. L’unico modo per minimizzare il rischio di creare focolai è ridurre il numero di persone detenute. Dai 61.230 del 29 febbraio si è passati ai 54.323 del 21 aprile: questo calo è dovuto per metà alla diminuzione degli ingressi, che sono di meno perché calano i reati e perché i magistrati fanno delle manette un uso più cauto; e per l’altra metà alle scarcerazioni per fine pena, per i benefici preesistenti e per quelli inseriti di recente. Ma se si vuole gestire in maniera accettabile la situazione bisogna scendere sotto la barra dei 47.000. Altrimenti il rischio è che a farne le spese non siano solo detenuti e poliziotti penitenziari, ma anche quelli di fuori, che di tutto hanno bisogno meno che di focolai che peserebbero sugli ospedali. *Ricercatore dell’associazione Antigone “Boss mafiosi al 41bis scarcerati per rischio Coronavirus”, il Dap smentisce ma è polemica di Lino Morgante Gazzetta del Sud, 23 aprile 2020 Boss mafiosi detenuti che, per la loro età e condizione di salute, sarebbero stati scarcerati in ossequio alle prescrizioni anti coronavirus che indicano di sfoltire le presenze nelle carceri facendo ricorso a pene alternative. E così il boss di cosa nostra Francesco Bonura, di 78 anni, definito da Tommaso Buscetta “un mafioso valoroso”, e Vincenzino Iannazzo, 65 anni, ritenuto esponente della ‘ndrangheta, sono stati posti ai domiciliari per motivi di salute. Ira del leader della Lega, Matteo Salvini: “stanno uscendo pericolosi mafiosi. È una vergogna nazionale”. Ma il Dap smentisce di aver emanato qualsiasi disposizione riguardante i detenuti al 41bis: quello che è stato fatto - afferma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - è “solo un monitoraggio”. Ma il ministero della Giustizia ha comunque avviato “tutte le opportune verifiche e approfondimenti”. I boss al 41bis possono sfruttare l’emergenza coronavirus per tornare liberi: sarebbero 74, in particolare, quelli nelle condizioni di età e di salute di farlo. Il settimanale cita una circolare del 21 marzo scorso con cui il Dap ha invitato tutti i direttori delle carceri a “comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo del detenuto, suggerendo la scarcerazione, se il suo caso rientra fra le nove patologie indicate dai sanitari dell’amministrazione penitenziaria e se si tratta di persone anziane. Matteo Salvini - citando i casi di Bonura e Iannazzo, “ma potrebbe uscire anche Nitto Santapaola”, dice - parla di “vergogna nazionale. Un insulto alle vittime dei caduti della mafia. La pazienza è esaurita. Io non ci sto. Una vergogna che va fermata dentro e fuori il Parlamento”, aggiunge. E poi si appella al Colle: “Ricordo che il Presidente Mattarella l’ha pagata sulla sua pelle la lotta alla mafia. Non è possibile che escano i mafiosi”. In una nota, il Dap precisa di non aver diramato “alcuna disposizione a proposito dei detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza o, addirittura, sottoposti al regime previsto dall’art. 41bis. Quella inviata il 21 marzo scorso agli istituti penitenziari è una richiesta con la quale, vista l’emergenza sanitaria in corso, si invitava a fornire all’autorità giudiziaria i nomi dei detenuti affetti da determinate patologie e con più di 70 anni di età”. Secondo il Dap si tratta di “un semplice monitoraggio, quindi, con informazioni per i magistrati sul numero di detenuti in determinate condizioni di salute e di età, comprensive delle eventuali relazioni inerenti la pericolosità dei soggetti, che non ha, né mai potrebbe avere, alcun automatismo in termini di scarcerazioni. Le valutazioni della magistratura sullo stato di salute di quei detenuti e la loro compatibilità con la detenzione avviene ovviamente in totale autonomia e indipendenza rispetto al lavoro dell’amministrazione penitenziaria”. Il ministero della Giustizia, dal canto suo, ha “attivato gli uffici per fare le tutte le opportune verifiche e approfondimenti”. “I provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute di qualche detenuto per gravissimi reati di mafia, decisi dalla magistratura di sorveglianza, generano giusta preoccupazione e amarezza, soprattutto tra le vittime delle mafie. Per questo occorre fare subito chiarezza”. Così, in una dichiarazione congiunta, il deputato e responsabile Giustizia Pd Walter Verini con il senatore e capogruppo Pd in Commissione Antimafia Franco Mirabelli. “Chiediamo una immediata convocazione della Commissione Antimafia. Chiediamo che siano verificate le ragioni dei provvedimenti, la effettiva incompatibilità delle condizioni di salute con la situazione carceraria, i rischi sanitari per altri detenuti e per la polizia penitenziaria. Occorre rispondere subito a questi interrogativi su questi provvedimenti, che appaiono in contrasto con la sostanza e lo spirito del 41bis. Lo Stato non deve né può arretrare di un centimetro nel contrasto alle mafie. E occorre respingere le sciacallesche speculazioni di esponenti politici come Salvini, che mettono sullo stesso piano i giusti provvedimenti contro il sovraffollamento carcerario (che escludono ovviamente i reati di mafia e i reati di grave allarme sociale) con singole decisioni della magistratura di sorveglianza, estranee ai contenuti dei provvedimenti legati alla drammatica emergenza carceraria”. “Sostenere che alcuni esponenti mafiosi sono stati scarcerati per il decreto legge ‘Cura Italia’ non solo è falso, è pericoloso e irresponsabile. Si tratta infatti di decisioni assunte dai giudici nella loro piena autonomia che in alcun modo possono essere attribuite all’esecutivo”. Lo scrive in un post su Facebook il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che definisce “particolarmente grave” in questo momento “la diffusione di notizie false”. Se poi si parla di una materia così delicata come la lotta alla mafia, si tratta di “inaccettabile sciacallaggio”. “L’unica cosa che può fare il Governo (e che, ovviamente, sta già facendo) è attivare, nel rispetto dell’autonomia della magistratura, tutte le verifiche e gli accertamenti del caso, considerato anche il regime di isolamento previsto dal 41bis”. Il boss scarcerato e il Coronavirus. Tra circo mediatico e smentite di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 23 aprile 2020 Il caso di Francesco Bonura scatena polemica e indignazione. Ma il virus non c’entra. La pietra dello scandalo è la concessione degli arresti domiciliari a Francesco Bonura. L’Espresso ieri sera lancia la notizia, seguito da quasi tutti i media. Bonura, boss palermitano, colonnello di Bernardo Provenzano, condannato con sentenza definitiva a 18 anni e 8 mesi, detenuto al 41bis, lascia il carcere in seguito all’emergenza Coronavirus. Non solo, gli viene dato pure il permesso di uscire di tanto in tanto da casa. Come se non bastasse, sulla base di una circolare del Dap ci sarebbe il rischio scarcerazione di altri pericolosissimi mafiosi. Gente come Nitto Santapaola e Leoluca Bagarella, ergastolani e assassini. Il Fatto quotidiano e alcune agenzie di stampa raccolgono repliche indignate. Tra le prime quella di Antonino Di Matteo, oggi al Csm ed ex pm del processo sulla Trattativa Stato- mafia. Ed è al presunto patto fra boss e istituzioni che il magistrato riporta la memoria. Con il caso Bonura lo Stato si sta piegando di nuovo al ricatto dei boss. È una vergogna. Che scandalo. Ma qual è il caso Bonura? La risposta è nelle motivazioni del tribunale di Sorveglianza di Milano, competente per la posizione del detenuto a Milano Opera. Basta leggerle. Il boss, che ha 78 anni, sta molto male, ha un cancro al colon, nel 2013 è stato operato e sottoposto a un ciclo di chemioterapia. Ha subito anche un intervento per un aneurisma all’aorta. La scarcerazione gli era sempre stata negata, ma ora i marcatori tumorali sono aumentati. Una condizione che secondo il giudice fa “ragionevolmente” escludere che possa fuggire o reiterare il reato. E poi perché Bonura, che mafioso lo è stato davvero, dovrebbe scappare visto che gli mancano da scontare nove mesi di carcere? Il suo fine pena è vicino, ricorda il giudice. È detenuto dal 2006 e, considerando gli sconti di pena che spettano a tutti detenuti per buona condotta, fra meno di un anno sarà libero. Da qui il differimento della pena, tecnicamente si chiama così, che finirà di scontare ai domiciliari. Il Coronavirus e il decreto Cura Italia non c’entrano, tagliano corto gli avvocati Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra - anche se il tribunale di Sorveglianza scrive che va “tenuto conto anche dell’emergenza sanitaria”. La decisione è stata presa in base ad una legge perecedente. Ma ormai la miccia dell’indignazione si è accesa. Matteo Salvini si collega prontamente su Facebook: “Ne stanno combinando di tutti i colori nel nome del virus, ma questa è una vergogna nazionale, Francesco Bonura, capomafia di Palermo, condannato a 23 anni (è la stampa che riporta in maniera errata l’entità della condanna, ndr), uomo di Provenzano al 41bis, è uscito perché rischiava di ammalarsi. Sono incazzato nero”. Bonura non rischia di ammalarsi, è già malato. Ed ancora: “Rischiano di tornare a casa personcine come Nitto Santapaola, Pippo Calò, Leoluca Bagarella”. La narrazione giustizialista ha ormai scritto un’altra verità. Dopo quella falsa della scarcerazione per il Coronavirus di Bonura, fra poco i carnefici saranno liberi. Il circo mediatico si è messo in moto, inarrestabile. Fioccano le dichiarazioni. Claudio Fava, presidente dell’Antimafia siciliana: “Se i Tribunali di sorveglianza ritengono che un capomafia ultrasettantenne abbia patologie non compatibili con la detenzione e non sia più pericoloso, nessuna obiezione alla concessione dei domiciliari. Ma non prendiamo a pretesto il Covid, per favore! Ad epidemia in fase discendente e trovandosi in condizioni di necessario isolamento al 41bis, sarebbe ipocrita giustificare le scarcerazioni con i rischi legati al corona virus. Sarebbe offensivo per le migliaia di anziani morti per le condizioni di promiscuità sociale e sanitaria in cui si sono trovati. Se volete scarcerare Bagarella e Santapaola fatelo (dovrebbe rivolgersi con le sue parole ai Tribunali di sorveglianza, ndr) assumendovi la responsabilità di trovare una valida e legittima giustificazione. Che non può essere, a quattro mesi dall’inizio della pandemia, il rischio del contagio, mentre migliaia di detenuti in attesa di giudizio o con pene lievi restano esposti, loro si, al rischio contagio nelle fatiscenti carceri italiane”. La domanda è sempre la stessa, chi li vuole scarcerare e cosa c’entra il Coronavirus? Si muove anche Leoluca Orlando: “Al di là del comprensibile smarrimento che la notizia ha creato nei familiari delle vittime di mafia, non si può non sottolineare che il trasferimento ai domiciliari per il boss Francesco Bonura e per Giuseppe Sansone appare una palese contraddizione dei motivi stessi per cui sarebbe stato disposto. Nel momento in cui da mesi si sostiene che l’isolamento e la quarantena sono le forme migliori di prevenzione e tutela della salute, credo che proprio il regime di 41bis sia paradossalmente la migliore forma di tutela della salute per i detenuti, per gli operatori carcerari e per i familiari dei detenuti”. Dunque non solo la scarcerazione di Bonura è dovuta al Coronavirus, ma pure quella di Giuseppe Sansone, arrestato nel blitz del 2018 che ha colpito la nuova mafia palermitana. Sansone non è al 41bis e la motivazione della sua scarcerazione, decisa dal tribunale del Riesame, non è ancora nota. Lo precisano i suoi legali, Giovanni Rizzuti e Marco Giunta. “Il signor Sansone si trova in attesa di giudizio e, come tale, risulta assistito dalla presunzione di non colpevolezza e nei suoi confronti non è stata mai anche soltanto ipotizzata una partecipazione al sodalizio mafioso aggravata dal ruolo di capo o promotore. Sansone, quasi settantenne ed affetto da patologie, in assenza, quindi, di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, avrebbe dovuto per legge essere ammesso agli arresti domiciliari, al pari di altri suoi co-indagati in posizioni analoghe”. Nel frattempo il Tribunale di sorveglianza di Milano, su cui sono piovute accuse e volgarità, soprattutto sui social, sente l’esigenza di precisare che i domiciliari a Bonura sono stati concessi con “la normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti, anche condannati per i reati gravissimi, a tutela dei diritti costituzionali alla salute e all’umanità della pena”. Se non è ancora chiaro il Coronavirus non c’entra. Salvini convoca una conferenza stampa: “Ci sono reazioni di migliaia e migliaia di italiani, da nord a sud, per l’uscita anticipata dal carcere di mafiosi condannati, con regime duro del 41bis che, in base a una circolare del ministero della Giustizia, datata 21 marzo ora sono fuori, circolare dove si dice che se di età superiore ai 70 anni e con qualche patologia sono liberi di uscire”, dice il leader della Lega. La circolare esiste davvero, ma non scarcera nessuno. Sono i tribunali che scarcerano, non il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel provvedimento cosiddetto ‘Cura Italia’ si stabiliva che i detenuti condannati per reati di minore gravità, e con meno di 18 mesi da scontare, potevano farlo agli arresti domiciliari per arginare il sovraffollamento delle carceri (ci sono circa 10 mila detenuti in più della capienza massima). Quattro giorni dopo l’approvazione il Dap ha scritto ai penitenziari chiedendo una lista di tutti i detenuti over 70 con patologie per mandarle “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”. Conoscere la popolazione detenuta: è una delle poche cose positive che sono state fatte dal governo negli ultimi tempi, specie nella gestione approssimativa delle rivolte carcerarie. Anche il Dap si vede obbligato a spiegare che la nota serve per organizzare un “semplice monitoraggio con informazioni per i magistrati sul numero di detenuti in determinate condizioni di salute e di età, comprensive delle eventuali relazioni inerenti la pericolosità dei soggetti, che non ha, né mai potrebbe avere, alcun automatismo in termini di scarcerazioni”. Insomma sono i giudici che decidono, non il Dap. La narrazione, c’è da giurarci, proseguirà sul solco tracciato. I comunicati stampa pioveranno sulle redazioni. Sono temi importanti quelli del carcere e della libertà personale. Si possono avere, ed è giusto che sia così, posizioni differenti. Lo dimostra il dibattito sulle morti di Totò Riina e Bernardo Provenzano rimasti detenuti fino all’ultimo respiro. Un dibattito che può essere aspro, ma almeno sarebbe opportuno muovesse dalla lettura dei provvedimenti. Il caso Bonura dimostra che non sempre si parla a ragion veduta. La fiera delle ipocrisie sulla pelle del detenuto Bonura, ai domiciliari a 9 mesi dal fine pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2020 Sulla concessione dei domiciliari a Francesco Bonura c’è chi parla di una resa dello Stato di fronte alla logica mafiosa, chi cavalca l’indignazione popolare e chi invoca l’Antimafia. “Credo ci sia un limite a tutto. Sostenere, infatti, che alcuni esponenti mafiosi sono stati scarcerati per il decreto legge Cura Italia non solo è falso, è pericoloso e irresponsabile”. Replica così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sulle polemiche scoppiate dopo la decisone del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha concesso i domiciliari al quasi 80enne Francesco Bonura, detenuto al 41bis di Opera. I suoi legali spiegano: “Gli restano meno di 9 mesi di carcere da scontare”. C’è chi parla di una resa dello Stato di fronte alla logica mafiosa, chi (come il Pd) evoca una commissione Antimafia per verificare se ci sia stato un contrasto con la norma del 41bis, chi - come Matteo Salvini - cavalca l’indignazione popolare per dire che il decreto “Cura Italia” sta liberando i mafiosi dalle carceri. Nulla di tutto questo. Tutto è partito da una notizia data con enfasi da L’Espresso (e poi in tandem ripresa da Il Fatto Quotidiano) in merito al provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha dato i domiciliari al quasi 80enne Francesco Bonura, detenuto al 41bis di Opera. “Ci sono state affermazioni improprie e strumentali che obliterano il caso concreto”, spiegano i suoi legali, gli avvocati Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra. “A Bonura gli restano meno di 9 mesi di carcere da scontare”, osservano gli avvocati sottolineando che la misura emessa non c’entra nulla con il recente decreto “Cura Italia”. Ed è vero. La misura governativa è rivolta a chi ha una pena residua non superiore di 18 mesi da scontare, ma esclude i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare tra cui il 41bis. L’ordinanza della magistratura, invece, riguarda norme già esistenti e si applicano a discrezione dei giudici. Ma quali patologie ha Bonura, tanto da essergli concessi i domiciliari? Lo si legge direttamente dal provvedimento della magistratura di sorveglianza. “Dalla relazione sanitaria del 7 aprile 2020 - osserva il giudice Gloria Gambitta risulta che il detenuto, di anni 78, riporta in anamnesi ipertensione arteriosa in terapia, ateromatosi carotidea con stenosi della carotide interna sinistra del 40% non emodinamicamente significativa, ipercolestertolemia; nel 2013 sottoposto ad intervento chirurgico per adenocarcinoma stenosante del colon e successiva chemioterapia adiuvante, attualmente in follow-up oncologico a causa di riscontro di aumentati valori dei markers tumorali; pregresso intervento di aneurismectomia aorto bisiliaca; Bpco in ex fumatore; presenza di laparocele addominale”. A tutto ciò, ovviamente, si aggiungono anche i rischi da Covid 19 visto che Bonura ha tutte quelle patologie per le quali il virus potrebbe diventare fatale. Infatti il magistrato ritiene che “in considerazione dell’età avanzata del soggetto e della presenza di importanti problematiche di salute, con particolare riguardo alle patologie di natura oncologica e cardiaca, vi siano nell’attualità i presupposti per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 co 1 n. 2 c. p., anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio - indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere - che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani ed affetti da serie patologie pregresse”. Ovviamente ai domiciliari è sottoposto, come prescritto dal magistrato, a vari obblighi e sarà perennemente vigilato dalle forze dell’ordine. Il Coronavirus è sicuramente un elemento aggiuntivo, ma il differimento pena è per motivi di salute. Il 41bis non prevede, almeno sulla carta, l’accanimento nei confronti di una persona oggettivamente malata. Soprattutto quando, dettaglio non piccolo, gli rimarrebbe comunque poco da scontare. Non parliamo di un ergastolano (anche in quel caso il diritto alla salute dovrebbe prevalere), ma di uno che comunque avrebbe finito presto di scontare il regime duro. Sarebbe comunque ritornato a casa, salvo sé non fosse morto prima come il detenuto Vincenzo Sucato (sempre ostativo) gravemente malato al carcere di Bologna e deceduto quando ha contratto il virus. Per l’associazione del Partito Radicale Nessuno Tocchi Caino si tratta di “decisioni ineccepibili dal punto di vista Costituzionale e normativo. La Costituzione riconosce il diritto alla vita e alla salute come diritti fondamentali, prevalenti su ogni altra considerazione, ragione di sicurezza o di ordine pubblico”. Gli esponenti dell’associazione aggiungono che “nei casi in questione, stiamo parlando di persone gravemente malate, a rischio della propria vita nel perdurare dello stato di detenzione. Inoltre è sbagliato e fuorviante parlare di benefici come di scarcerazione avendo il tribunale di sorveglianza di Milano disposto un differimento pena per motivi di salute”. Prende posizione il sindacato Uil della polizia penitenziaria tramite il rappresentante Gennarino De Fazio: “Non ci scandalizziamo affatto se un magistrato esercitando le sue funzioni decide una qualche forma di scarcerazione per età avanzata e accertate condizioni di salute, fidandoci, appunto, delle valutazioni di quel magistrato che abbia potuto disporre di quante più informazioni possibili”. Secondo Nino Di Matteo, membro togato del Csm, lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. Sì, perché secondo lui le rivolte carcerarie avrebbero avuto una regia mafiosa. Eppure è esattamente il contrario. La cultura mafiosa all’interno delle carceri, da sempre, è quella del mantenimento dell’ordine. Non a caso, tale ordine è stato sconvolto proprio negli anni che cominciarono a entrare in carcere i ragazzi appartenenti alle organizzazioni politiche di estrema sinistra. Il Dubbio, a tal proposito, ha riportato la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci. Alla domanda se è stato costretto a scontrarsi con altri detenuti quando propose di ribellarsi contro il sistema carcerario, lui ha risposto così: “Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili”. Siamo sempre lì. Alle dietrologie che stravolgono la verità oggettiva dei fatti. Punto primo. Nessun decreto governativo ha facilitato la liberazione di chi si è o si sarebbe macchiato di mafia. Punto secondo. Parliamo di provvedimenti a firma di magistrati, indipendenti dal potere politico e soprattutto da quello esecutivo. Sono scelte individuali, si valuta lo stato di salute e tanti altri fattori. L’unico punto di riferimento è il Diritto. I retro-pensieri offuscano la ragione e molto spesso, purtroppo, non si fermano solo in alcuni giornali ma si concretizzano anche in alcune aule di tribunale. L’affondo di Bonafede “Basta sciacallaggio” “Credo ci sia un limite a tutto. Sostenere, infatti, che alcuni esponenti mafiosi sono stati scarcerati per il decreto legge Cura Italia non solo è falso, è pericoloso e irresponsabile. Si tratta infatti di decisioni assunte dai giudici nella loro piena autonomia che in alcun modo possono essere attribuite all’esecutivo”. È furioso il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che sulla scarcerazione dei boss Francesco Bonura e Vincenzino Iannazzo si ritrova vittima dell’ennesima bordata populista. Bordate che vedono in prima fila il leader della Lega, Matteo Salvini, che ha subito cavalcato la vicenda per tentare di colpire il governo, “Lo schifo di boss mafiosi scarcerati e mandati a casa con la scusa del virus, grida vendetta, è una resa dello Stato! Non si possono cancellare così i sacrifici delle donne e degli uomini che hanno combattuto e combattono le mafie. È una vergogna, un insulto, un oltraggio alle vittime e ai loro parenti. Signori del governo - ha sottolineato - la pazienza è finita. Spero intervenga il Colle più alto”. Sulla stessa linea Giorgia Meloni, leader di FdI. “Se il Governo non vuole ascoltare Fratelli d’Italia, allora raccolga l’appello lanciato dal sostituto procuratore della Procura generale di Napoli Catello Maresca: bisogna revocare subito la circolare del Ministero della Giustizia del 21 marzo per impedire che altri boss mafiosi escano dalla galera e tornino a casa. Avevamo avvertito il Governo di questo rischio ma nessuno ha voluto ascoltarci. La scarcerazione di Francesco Bonura è vergognosa e indegna della nostra Nazione ed episodi del genere non possono ripetersi”. Ma anche il Pd ha chiesto chiarimenti al ministro, manifestando “preoccupazione e amarezza” per i provvedimenti presi dalla magistratura di sorveglianza. “Chiediamo che siano verificate le ragioni dei provvedimenti hanno sottolineato, in una dichiarazione congiunta, il deputato e responsabile Giustizia Pd Walter Verini con il senatore e capogruppo Pd in Commissione Antimafia Franco Mirabelli - la effettiva incompatibilità delle condizioni di salute con la situazione carceraria, i rischi sanitari per altri detenuti e per la polizia penitenziaria. Occorre rispondere subito a questi interrogativi su questi provvedimenti, che appaiono in contrasto con la sostanza e lo spirito del 41bis. Lo Stato non deve né può arretrare di un centimetro nel contrasto alle mafie. E occorre respingere le sciacallesche speculazioni di esponenti politici come Salvini, che mettono sullo stesso piano i giusti provvedimenti contro il sovraffollamento carcerario (che escludono ovviamente i reati di mafia e i reati di grave allarme sociale) con singole decisioni della magistratura di sorveglianza, estranee ai contenuti dei provvedimenti legati alla drammatica emergenza carceraria”. Esce il mafioso. Politica, giornali e pm gridano: pena di morte! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 aprile 2020 Francesco Bonura era recluso a Opera in regime di 41bis, ha 78 anni ed è gravemente malato di cancro. Era stato condannato perché mafioso ma ora gli mancavano solo nove mesi da scontare. Crucifige crucifige! Vogliono la pena di morte. E vogliono la croce per chi applica la legge. Lo squadrone dei soldatacci è capitanato dall’Espresso e dal Fatto Quotidiano, seguono compatti magistrati e uomini politici, tutti a pollice verso. È accaduto che un povero vecchio di 78 anni gravemente malato di cancro, già operato d’urgenza e sottoposto a cicli di chemioterapia e con una pesante recidiva in corso, sia stato mandato a scontare gli ultimi nove mesi di pena a casa sua, dopo aver passato metà della sua vita in carcere. Si chiama Francesco Bonura, era recluso a Opera in regime di 41bis. È mafioso? Sì. Era giusto, se aveva commesso gravi reati, processarlo e condannarlo? Sì, anche se sappiamo che la pena è già  sofferenza, flagello e corona di spine, come ha detto di recente il professor Tullio Padovani. Ma si può aggiungere al carcere anche il pericolo di contagio da Covid-19 come pena supplementare? Sarebbe una condanna a morte per una persona che vede già la fi ne vicina. È già capitato in passato al boss Bernardo Provenzano, lasciato in condizione detentiva anche quando era ridotto in stato vegetale. I reprobi da crocifiggere sono i magistrati del tribunale di sorveglianza di Milano. I quali, nel caso del detenuto Francesco Bonura, non hanno neanche applicato la normativa del decreto governativo Cura Italia e neppure la circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) del 21 marzo che invitava le direzioni carcerarie a segnalare i detenuti anziani e con gravi patologie per l’eventuale scarcerazione, visto il pericolo concreto di contagio negli spazi ristretti delle prigioni ancora sovraffollate. Niente di tutto questo, come ricordano gli avvocati difensori del detenuto, Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra, ma la semplice e pura applicazione di una legge esistente, quella che consente il differimento della pena in caso di grave malattia. Il fatto poi che il condannato comunque entro nove mesi avrebbe terminato di scontare la sua pena e sarebbe stato addirittura libero, ha sicuramente influito sulla decisione. Cui si sono accompagnati, negli stessi giorni, altri provvedimenti analoghi assunti da altri tribunali e che riguardavano detenuti calabresi e siciliani. La canea era quindi già pronta, con la schiuma alla bocca, fin da ieri mattina, quando sono apparse le prime notizie. Comodo eh, avere il virus alle calcagna, si dice. Il passaparola non solo mette in guardia da una sorta di “tana liberi tutti”, ma è pronto ad aggredire alla giugulare chiunque si sia permesso di applicare la legge. Il primo a rispondere allo squillo di tromba del Fatto quotidiano non può che essere Nino Di Matteo, che andrebbe denunciato dalla stessa Presidenza del consiglio per la sua dichiarazione. Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. Chi è stato ricattato, dunque, dottor Di Matteo? I magistrati suoi ex colleghi di Milano o il Governo? Naturalmente nessuno gli pone questa domanda, anzi gli si consente anche di farsi un po’ di pubblicità per la sua attività passata di Pm “antimafia” (orribile e sbagliatissimo termine) di Palermo. Aggiunge infatti il neo componente del Csm che lo Stato (quale tra i poteri esattamente?) sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia. Così le tragedie delle stragi sono equiparabili al castello di carta di un processo basato solo su un’ipotesi puramente ideologica? Un paragone che puzza molto di sottovalutazione dei fatti di sangue rispetto alle fantasie complottistiche. Poi si va a ruota libera. Qualcuno ricorda che ci sono nelle carceri al regime di 41bis tutti i capimafia ormai anziani (e si suppone malandati, dopo tanti anni di detenzione), altri li contano, sono 74 e ne fanno i nomi. E si dice che potrebbero approfittare del timore del virus per farsi scarcerare. Il che è molto difficile, visto che anche il decreto del governo lo impedisce per i condannati per gravi reati. Ma lo consente la legge ordinaria, per malati gravi che, se contagiati dal coronavirus, potrebbero morire. Come è capitato a tanti anziani nelle case di riposo. Forse che i detenuti devono morire? Dobbiamo applicare con un’alzata di spalle la pena di morte? Ma la valanga pare irrefrenabile. Antonio Ingroia, che non è più magistrato ma riserva a sé stesso il diritto di parola in quanto ex, parla di  trattamento di favore ai capimafia, Alfonso Sabella teme un “effetto domino. E partiti di centrodestra e di sinistra e Cinque stelle presentano interrogazioni urgenti e la convocazione della commissione antimafia. Per controllare la magistratura, a quanto pare. Diversamente, perché due esponenti del Pd come Walter Verini (responsabile giustizia) e Franco Mirabelli (capogruppo in antimafia) vogliono verificare la “effettiva incompatibilità tra le condizioni di salute dei detenuti e il carcere? Non si fidano dei giudici, evidentemente. Poi c’è chi, ma il fatto non desta stupore, come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, si schiera con Nicola Gratteri nel garantire che, se c’è un posto dove si sta bene e ben isolati dal pericolo del virus, questo è il carcere in regime 41bis, cioè il luogo dei sepolti vivi, dei senza speranza. Dove il distanziamento sociale è garantito non da celle spaziose, ma da una serie di limitazioni soprattutto sulle relazioni affettive. Impossibile trovare qualche voce fuori dal coro, nel mondo politico, se si eccetta una dichiarazione di “Nessuno tocchi Caino”, cui tocca il compito di ricordare i principi costituzionali di diritto alla vita e alla salute come prevalenti su qualunque motivo di sicurezza. Principi, ricordano, sanciti anche da Patti e Convenzioni internazionali, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che indica la gerarchia e l’ordine dei valori umani, mettendo vita e salute in testa alla lista. Se qualcuno ha pensato che tutta questa turbolenza abbia preoccupato il ministro della giustizia, questo qualcuno sarebbe un illuso. Come si è mosso Alfonso Bonafede? Ha scritto su Facebook, minacciando chiunque abbia attribuito al governo e al decreto Cura Italia le scarcerazioni. Per una volta ha ragione a difendere l’autonomia della magistratura, anche se lo fa per scansare il problema dalla propria persona. E non per sostenere decisioni dettate da rigorosa applicazione della legge e senso di umanità. Se ancora si può dire, in questo clima di voglia di forca appesa al ramo più alto. “Magistrati che scarcerano, lasciati soli dal governo” Il Riformista, 23 aprile 2020 Né eroi, né martiri, sono tutori della legge e la applicano. Ma subiscono gravi attacchi. Mentre la pandemia imperversa e diffonde in ciascuno di noi un senso profondo di fragilità e di insicurezza, una informazione deformante esaspera gli animi scossi ed in modo subdolo e strisciante fomenta la paura. Da giorni i Magistrati, lasciati soli da un Governo immobile a custodire la vita delle persone nelle carceri, subiscono gravi attacchi che menomano la loro libertà e indipendenza, che vulnerano la separazione tra poteri dello Stato, che ledono l’essenza stessa della nostra Carta Costituzionale. Non sono eroi né martiri i Giudici che decidono di disporre gli arresti o la detenzione domiciliari per quelle persone ristrette gravemente malate o molto anziane la cui vita sarebbe a rischio in caso di contagio da Covid. Sono tutori della legge, applicano la legge, eseguono il loro sacro mandato costituzionale. Siamo accanto a loro, a chi ha rispetto del proprio compito di garanzia della vita, di qualunque individuo, come valore assoluto cui ogni altro presidio sociale cede il passo, a chi non teme le commissioni di inchiesta scatenate da pulsioni giustizialiste perché sa di avere agito in coscienza nel rigore della sua alta funzione. Sottoscrivono: Stefano Giordano, Avvocato; Maria Brucale, Avvocato; Michele Passione, Avvocato; Maria Luisa Crotti, Avvocato; Daniele Caprara, Avvocato; Andrea Mitresi, Avvocato; Andrea Niccolai, Avvocato; Stefania Amato, Avvocato; Andrea Vigani, Avvocato; Pasquale Bronzo, Università La Sapienza, Roma; Antonella Calcaterra, Avvocato; Michele Sbezzi, Avvocato; Luisa Brucale, Università di Palermo; Lina Caraceni, Università di Macerata; Monica Gambirasio, Avvocato; Monica Murru, Avvocato; Viviana Torreggiani, Avvocato; Annamaria Marin, Avvocato; Fabio Varone, Avvocato; Dario Lunardon, Avvocato; Massimo Brigati, Avvocato; Andrea de Bertolini, Avvocato; Valentina Alberta, Avvocato; Luana Granozio, Avvocato; Attilio Villa, Avvocato ; Andrea Cavaliere, Avvocato; Enrico Pelillo, Avvocato; Ivan Vaccari, Avvocato; Marina Cenciotti, Avvocato; Claudia Prioreschi, Avvocato; Francesca Garzia, Avvocato; Annamaria Alborghetti, Avvocato; Mauro Danielli, Avvocato; Valentina Tuccari, Avvocato; Renata Petrillo, Avvocato; Marco Palmieri, Avvocato; Francesco Tagliaferri, Avvocato; Massimiliano Annetta, Avvocato; Marco Siracusa, Avvocato; Valerio Spigarelli, Avvocato; Maria Mercedes Pisani, Avvocato ; Enrico Faragona, Avvocato; Turi Liotta, Avvocato; Costanza Tancredi, Avvocato; Roberta Boccadamo, Avvocato; Antonello D’Acquisto, Avvocato; Ora accentrare le decisioni sul 41bis di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2020 Dovrebbe essere sempre un collegio e non un singolo giudice a pronunciarsi. Quando la pandemia sarà esaurita, faremo il conteggio finale dei morti. Col tempo tutti i numeri perdono importanza. Rimarranno nel ricordo, invece, i sanitari che hanno sacrificato la vita per curare gli altri e gli anziani che sono morti in solitudine. E poi temo (ma così spero non sia) che nel ricordo possano rimanere anche i mafiosi detenuti al 41bis mandati ai domiciliari. Come Francesco Bonura (boss palermitano già a capo della “famiglia” dell’Uditore) nei cui confronti un giudice di Milano, anticipando per asserite ragioni d’urgenza il Tribunale competente, ha preso una decisione che qui si discute per le possibili ripercussioni. Intendiamoci: l’aggrovigliarsi di questioni tutte complicate rende il problema tremendo. Il mafioso, per giuramento di fedeltà, se non si pente conservalo status di “uomo d’onore” fino alla morte. Gli “irriducibili” non pentiti, perciò assoggettati al 41bis, restano convinti di appartenere a una “razza” speciale, quella appunto degli uomini d’onore (gli altri sono individui da assoggettare). Il 41bis segna la fine di un “mostrum”: criminali sanguinari che stavano in galera come in un grand hotel da dove continuavano a comandare. Per Cosa nostra la sorte dei boss condannati è da sempre una ferita aperta. Pentitismo e 41bis sono da eliminare (Riina si sarebbe “giocato anche i denti”) e la riprova sta nella sentenza di primo grado sulla “trattativa”. In vari modi (alcuni documentati in quanto sventati da Alfonso Sabella quand’era al Dap) si è cercato di estendere ai mafiosi “dissociati”, non collaboranti, i benefici per i terroristi. Il 41bis, dopo una fase iniziale di giusto rigore, è stato poi sensibilmente ridimensionato. Nuove speranze in tal senso hanno suscitato (al di là delle intenzioni) le sentenze sull’ergastolo ostativo della Cedu e della Consulta. Il sovraffollamento che opprime le carceri (senza però investire il 41bis) si è aggravato col Covid 19. Una circolare del Dap del 21 marzo scorso ha chiesto ai direttori delle carceri di indicare all’autorità giudiziaria i detenuti over 70 e quelli con patologie rientranti in un elenco di nove voci, e qualcuno ha pensato di potervi leggere come una sorta di “lista d’attesa” per i domiciliari in emergenza coronavirus (il Dap ha però chiarito che si tratta di un semplice monitoraggio, e del resto il ministro Bonafede aveva già escluso a suo tempo ogni scarcerazione di mafiosi). In sostanza, intorno al pianeta carcere si affollano opposte esigenze: assicurare che la pena sia effettivamente espiata per i delitti più gravi; tutelare la salute di tutti i detenuti (e del personale) anche in situazioni di emergenza pandemica; garantire la sicurezza della collettività pure in caso di scarcerazione di pericolosi detenuti, tenendo presente che il 41bis potrebbe essere la punta di un iceberg comprendente anche il regime di “Alta sicurezza”. Per “governare” la situazione occorre intervenire con urgenza. Ecco alcuni suggerimenti... non richiesti, ma forse utili. Prima di tutto evitare la frammentazione delle decisioni in tema di 41bis: non dovrebbero occuparsene tanti magistrati qui e là dispersi in tutte le sedi giudiziarie; sarebbe bene (come per le “pratiche” penitenziarie dei pentiti) centralizzare la competenza in un unico ufficio, congruamente rinforzato. A decidere dovrebbe sempre essere un collegio di magistrati, mai un singolo giudice. Le funzioni di pm dovrebbero essere affidate ad un pool di magistrati della Procura nazionale antimafia, in stretto collegamento con la procura distrettuale dell’indagine che ha portato alla condanna (non la procura del carcere). Se la Pna esprime parere sfavorevole ai domiciliari, il collegio di sorveglianza dovrà motivare rigorosamente e puntigliosamente la sua decisione contraria. Se le cose sfuggissero di mano, lo Stato... divorzierebbe da sé stesso. Assurdo. Più che mai in tema di mafia. Banco Alimentare. La solidarietà nelle carceri italiane di Massimo Romanò bancoalimentare.it, 23 aprile 2020 La paura, la drammatica sorpresa di trovarsi improvvisamente davanti a qualcosa di inimmaginabile. E poi la voglia di non fermarsi, di guardarsi attorno e capire che dentro questa tragedia può scattare una grande capacità di essere solidali e abbracciare chi ha più bisogno. Tutto questo accade anche nelle carceri del nostro Paese, tra coloro, come scrivono, che fanno parte “dell’ultima classe sociale”. Una lettera scritta a mano dal carcere di Bollate, racconta con semplicità tutto quello che è accaduto. “Il progetto è iniziato-scrivono i detenuti- quando abbiamo realmente realizzato la gravità di questo virus letale e ad essere sinceri, ci siamo molto spaventati, ma allo stesso tempo ci siamo chiesti come poter aiutare. Ci siamo rapidamente attivati per una raccolta fondi da donare alla Protezione Civile, alla quale hanno partecipato la stragrande maggioranza di questo Istituto”. “Subito dopo “ci siamo organizzati per poter effettuare una Colletta Alimentare, per poter far arrivare rapidamente quanto raccolto, nelle case dei più bisognosi”: La solidarietà abita nelle carceri italiane. È storia antica che, in queste settimane di emergenza, si è arricchita di un nuovo capitolo. Anche a Taranto i detenuti si erano mossi chiedendo alla Direttrice la possibilità di poter venire incontro a chi sta pagando il prezzo più alto: migliaia e migliaia di famiglie rimaste senza nulla. Singole iniziative di detenuti sono diventate qualcosa di molto più grande. Grazie anche alla convinzione della Direttrice del carcere di Taranto, la Fondazione Banco Alimentare ha potuto avviare con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per la prima volta su tutto il territorio, una collaborazione allo scopo di attivare una raccolta di generi alimentari che coinvolga tutti gli istituti penitenziari. Ogni istituto è stato invitato a promuovere una colletta alimentare mediante il sistema del “sopravvitto”, grazie al quale i detenuti possono destinare una parte della loro spesa settimanale. Un’iniziativa che è stata estesa anche a tutto il personale penitenziario. Tutto questo è davvero stupefacente soprattutto perché non nasce da strategie studiate a tavolino, ma dalla storia di tante Giornate Nazionali della Colletta Alimentare che il Banco Alimentare organizza ormai da 23 anni. L’educazione a questo gesto ha spinto in modo assolutamente imprevisto e imprevedibile i detenuti di alcune carceri, da Taranto a Milano Bollate, a promuovere spontaneamente collette per sostenere chi, “fuori” si ritrova nel bisogno a causa dell’emergenza sanitaria. “Queste iniziative - commenta Giovanni Bruno presidente della Fondazione Banco Alimentare - ci hanno stupito e riempito di gratitudine e sollecitato a porre alle competenti autorità la domanda di poter in qualche modo favorire e diffondere la possibilità di favorire e diffondere ovunque queste iniziative”. “È per noi un dovere-aggiunge Bruno- diffondere e comunicare a tutti il bene che scorre nelle arterie della nostra società e che ha reso ancora più evidente quanto scrivevamo al termine della Colletta Alimentare: si può vivere un gesto di solidarietà in qualunque condizione ci si trovi, non c’è situazione che possa mortificare il desiderio di bene”. L’immediata risposta delle autorità ha reso ancora più evidente che occorre farci tutti veicolo del bene e del desiderio di bene che comunque alberga nel cuore di ognuno, testimonianza particolarmente preziosa in questi momenti difficili. “A tutti-conclude Bruno- il nostro grazie convinto e avvertiamo forte il richiamo ad una responsabilità resa ancora più necessaria dalle caratteristiche straordinarie dei tempi che stiamo vivendo”. Trecento magistrati al ministro: “Dare inizio al processo da remoto” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 23 aprile 2020 La lettera di giudici e pm contro i rischi della pandemia ed e scontro con gli avvocati. Sono circa trecento le firme di magistrati in calce a un documento che verrà inoltrato al ministro della giustizia. Un testo che punta a ribadire l’importanza di interventi concreti per arginare i rischi da contagio da Covid, proprio alla vigilia della fase due. Centinaia di firme da parte di giudici e magistrati requirenti, per chiedere di rafforzare il processo da remoto: “Dotazione ai magistrati di tutto il settore penale, requirente e giudicante, della possibilità della sottoscrizione digitale di atti giudiziari, già in uso in ambito civile, in alternativa a quella cartacea e a discrezione del magistrato, che riduca le necessità di recarsi fisicamente negli uffici; eliminazione limitatamente al periodo dell’emergenza, della trattazione orale e fisiche di quelle che udienze rispetto a cui la presenza contemporanea delle persone nel medesimo luogo non è necessaria (udienza di ammissione dei mezzi di prova o di precisazione delle conclusioni nel processo civile) con celebrazione mediante trascrizione scritta o mediante uso videoconferenza, a discrezione del magistrato titolare del ruolo”. Vanno in questo senso anche le richieste di scadenzare gli accessi in aula, con un’agenda quotidiana più articolata, rispetto al periodo precedente, ma intervenire anche su quel volume di cause che possono essere rinviate con provvedimenti fuori udienza, senza rendere necessaria la convocazione delle parti. Un documento che sposta l’attenzione sui rischi della smaterializzazione del processo penale, denunciati invece dai penalisti, sia attraverso un flash mob organizzato su iniziativa dell’avvocato Eduardo Cardillo, sia attraverso il manifesto “not in my name” del Carcere possibile (rappresentato da Anna Ziccardi e Elena Cimmino), sia con interventi di autorevoli giuristi legati al settore penale. “Stop alle udienze da remoto. A rischio il giusto processo” di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 23 aprile 2020 Le udienze da remoto non consentono di garantire i principi del giusto processo, del contraddittorio e della “pubblicità” su ciò che accade in aula. Per questo i penalisti baresi dicono stop alla “smaterializzazione” del processo penale, senza usare troppi giri di parole: analizzano le criticità della gestione dell’attività di udienza ai tempi del Covid-19; insistono sul rispetto alle regole da individuare in vista della “fase due” nei Palagiustizia a partire dall’il maggio; formulano proposte per garantire la tutela della salute senza rallentare la macchina Giustizia che di per sé, certo non sfreccia. “La disciplina tratteggiata dalle norme del D.L. 18/2020 in corso di discussione alla Camera, nella parte in cui prevede la smaterializzazione dell’udienza penale, consentendo la partecipazione da remoto sia dei giudici che delle parti processuali, si rivela palesemente incostituzionale”, tuona il presidente della Camera penale di Bari, avvocato Guglielmo Starace. “Il collegamento a distanza - spiega - non consente il divenire di una corretta dialettica”. Della disciplina, non convince neanche il funzionamento della camera di consiglio. “Nessuna garanzia di collegialità è riscontrabile nel fatto che i giudici partecipino ognuno da casa propria - aggiunge Starace - le piattaforme indicate per lo svolgimento dell’udienza da remoto sono fuori da ogni controllo di giurisdizione e non garantiscono la regolarità del trattamento dei dati sensibili”. A nulla rileva la circostanza che le misure riguardano una fase del tutto eccezionale. “Possono essere individuate alcune direttive per alleggerire il carico dell’attività giudiziaria nel tempo della pandemia, ma la straordinarietà della situazione non può giustificare l’oscuramento del rito accusatorio; le soluzioni non debbono implicare la contrazione dei diritti, ma possono innanzitutto riguardare i criteri per l’individuazione dei processi da trattare e le modalità di chiamata dei processi, che dovrà avvenire ad orari rigidi e predefiniti (prioritariamente potrebbero svolgersi i processi per i quali è chiusa l’attività istruttoria)”. E veniamo, alle proposte concrete. Anzitutto, bene la tecnologia, ma che venga impiegata per ridurre la presenza fisica degli avvocati in tribunale. “Una misura fondamentale è l’accesso telematico del difensore agli sportelli di segreteria e alle cancellerie per depositare istanze, liste testi, memorie e impugnazioni e con la possibilità di richiedere anche il ritiro delle copie degli atti processuali”. Del resto, bisogna fare i conti con strutture, come il tribunale di via Dioguardi caratterizzato da spazi angusti dove si rende necessario “imporre ingressi scaglionati e ad orari predefiniti, nonché tabelle di marcia assolutamente rigide” per evitare assembramenti negli spazi comuni durante l’attesa. Quanto alle udienze, secondo i penalisti baresi “si potrebbero trattare, oltre ai processi riguardanti persone detenute i processi riguardanti al massimo quattro imputati con l’istruttoria conclusa, per cui si deve procedere alla discussione e alla decisione; quelli riguardanti al massimo quattro imputati con rito abbreviato (richiesto anche per via telematica), per cui si deve procedere alla discussione e alla decisione; le udienze preliminari per processi riguardanti al massimo quattro imputati”. Un’attività che “dovrebbe ovviamente prevedere il rispetto di tutte le regole prudenziali possibili (obbligo di indossare strumenti di protezione, presenza di liquidi disinfettanti su ogni piano del Palazzo, sanificazione cadenzata degli ambienti) per i previsti cinquanta giorni sino al 30 giugno 2020”. Ciò che non cambia, è lo spirito di collaborazione. “Gli avvocati - conclude Starace - hanno dimostrato la loro piena e leale collaborazione nella gestione dell’emergenza fornendo le mascherine per i colloqui in carcere, partecipando alla creazione del Protocollo per la celebrazione (anche da remoto) delle udienze di convalida dell’arresto, degli interrogatori di garanzia, nonché mettendo a disposizione una linea telefonica per consentire le comunicazioni riservate tra difensore ed assistito detenuto. Vogliamo continuare a farlo, ma senza declinare rispetto ai principi costituzionali del giusto processo”. Guglielmi (Md): “Il processo vero si fa in aula, non da remoto” di Errico Novi Il Dubbio, 23 aprile 2020 Con i progressi telematici che l’emergenza ha favorito è giusto “ampliare la smaterializzazione delle carte, ma va evitata la smaterializzazione delle persone”, avverte la segretaria di Magistratura democratica. Che ricorda: “Il principio di oralità e immediatezza sono il cardine del nostro sistema penale, e non possono essere compromessi dal ricorso alla tecnologia” Non è materia da poco: è il cuore della democrazia. “Perché la giustizia è espressione e luogo di democrazia”. Mariarosaria Guglielmi è pm della Procura di Roma e segretaria di Magistratura democratica, e tiene a ricordare quel valore. Guida una componente storica, progressista, e attenta alla riflessione culturale. Perciò anche sulla giustizia telematica, Md, e Guglielmi, non si fermano ai dettagli tecnici. “Il punto è la linea di confine. Il patrimonio tecnico acquisito, anche a fatica, nei giorni dell’emergenza è prezioso. Ma tutto sta a intendersi sull’uso che se ne potrà fare a emergenza conclusa. Si tratta di comprendere se è pensabile, e non credo che possa mai esserlo, scalfire con la telematica il principio di oralità e immediatezza del contraddittorio alla base della formazione della prova nel nostro sistema penale”. Intanto le udienze da remoto scontano farraginosità. O no? Parlo della Procura e del Tribunale di Roma. Qui è stato compiuto un grande sforzo. Si è garantito lo svolgimento, da remoto, delle udienze di convalida dell’arresto e del fermo. Sono emersi anche alcuni problemi specifici: dalle possibili eccezioni relative a carenza di connessione agli aspetti segnalati dal Garante della privacy. Ma lo sforzo compiuto, qui come altrove, per evitare una sospensione della giurisdizione, è stato avvertito come molto positivo. Al punto da mandare in soffitta il processo svolto in un’aula vera? Aspetti. È chiaro che non avrebbe senso mortificare i risultati ottenuti. Ma certo, è qui che è necessario compiere una riflessione. Su un aspetto in particolare: in che modo le evoluzioni tecnologiche incidono sul nostro paradigma di processo penale. Se abbiamo nuovi strumenti, dobbiamo governarli, non subirli. E in che modo? È necessario investire sul processo penale telematico. In modo da preservare una condizione di reciprocità tra uffici giudiziari e avvocatura. La tecnologia può assicurare efficienza. Ma bisogna chiedersi se si possa oltrepassare quella linea del Piave rappresentata dall’istruttoria dibattimentale, dall’esame e dal controesame. Dobbiamo chiederci se sia possibile un esame a distanza. O se verrebbe così compromesso il principio dell’oralità e immediatezza. Ed è possibile superare quei princìpi? Vorrebbe dire cambiare il modello del nostro processo penale. Governato dall’oralità ma anche da un altro principio non trascurabile: la concentrazione, la contestualità. Le parti del processo devono trovarsi in un determinato luogo nello stesso momento. Non è possibile, ritengo, prescindere da questo. E attenzione: è un’esigenza certamente avvertita dagli avvocati, come è emerso dalle prese di posizione dell’Unione Camere penali. Ma riguarda tutti. Anche noi magistrati. E allora quale può essere l’eredità legittima della giustizia virtuale d’emergenza? Ho accennato alla reciprocità nell’accesso digitale e nella circolazione dei documenti. In una parola, è senz’altro giusto facilitare la smaterializzazione delle carte. Ma va evitata la smaterializzazione delle persone. La magistratura è coesa sul punto? Credo vada evitata la contrapposizione fra chi crede nelle opportunità della tecnologia e chi le rifiuta culturalmente e pregiudizialmente. Il dibattito associativo di questi giorni all’interno della magistratura è stato molto articolato. Mi sembra che ci sia accordo sulla necessità di portare avanti un lavoro per soluzioni e strumenti essenziali in vista di un processo più efficiente, recuperando in particolare il ritardo nella digitalizzazione del settore penale. È importante che prosegua anche con l’avvocatura un confronto sulle soluzioni rispetto alle quali si pone un problema di incidenza sul modello di giurisdizione e di processo, nella consapevolezza che è la tecnica a dover seguire il nostro modello costituzionale e normativo del processo, e non viceversa. Crede che l’intervento del presidente dell’Anm Luca Poniz faccia chiarezza in proposito? Mi pare che il presidente Poniz abbia ribadito, in modo molto chiaro, che fin dall’inizio tutti eravamo ben coscienti di quanto le norme sulle udienze da remoto introdotte nelle scorse settimane fossero di carattere emergenziale e transitorio, legate alla fase drammatica in cui ci troviamo, ma destinate a durare solo finché è necessario per preservare la salute pubblica. L’Ucpi ha assunto una posizione molto dura contro l’uso e l’abuso della giustizia virtuale. Crede che questo possa complicare i rapporti fra magistratura e avvocatura? No. Il confronto fra avvocati e magistrati fa parte della responsabilità connessa al nostro ruolo. Nessuno di noi spinge per un processo più comodo alla propria parte: la dialettica riguarda sempre e comunque i princìpi. Il motivo è semplice: la giustizia non è solo nostra o solo degli avvocati. È della democrazia. Casomai è giusto lavorare in una prospettiva comune, in un tavolo permanente, in vista dell’uscita dalla crisi. E anzi, ricorderei una cosa: se si è arrivati alla faticosa eccezione delle udienze di convalida da remoto è perché magistrati e avvocati si sono seduti insieme attorno a quel tavolo, e hanno messo in pratica quell’impegno comune. “Vedo processi di piazza”: critica inopportuna se la fa un membro del Csm di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 aprile 2020 L’avvocato Lanzi contro i pm che indagano sugli anziani morti nelle Rsa. Un celebre avvocato figlio di pm, stimato docente universitario, legale di imputati come Silvio Berlusconi o David Mills, ben può - se ne sia convinto - dire a La Stampa che “a Milano mi pare si siano già imbastiti processi di piazza” sugli anziani morti nelle Rsa, “attacco strumentale al modello politico di centrodestra della Regione Lombardia, alimentato da un’inchiesta spettacolarizzata” dove “la politica sguazza”. Ma non può dirlo un membro del Consiglio Superiore della Magistratura quale Alessio Lanzi, eletto dal Parlamento su proposta di Forza Italia. Non può per l’ovvia inopportunità che un consigliere Csm intervenga su una indagine in corso. E non può per l’ancor più ovvia ragione che, nell’esercizio delle sue funzioni, in futuro potrebbe dover giudicare (in valutazioni di professionalità o sanzioni disciplinari) proprio quei pm. “Nessun attacco alla magistratura, ma libera manifestazione del pensiero - si difende ora. La critica intervenga solo sul merito dei miei contenuti giuridici: parliamo dell’obbligatorietà dell’azione penale!”. Sì, ma in un plenum Csm sull’ordinamento giudiziario o in un convegno universitario, non nella veste di anticipato “super giudice” dei futuri giudici di quel fascicolo. Proverbiale per signorilità e prudenza, di recente Lanzi diceva di sé a Il Dubbio: “Faccio l’avvocato a Milano da 40 anni e, al di là della dialettica processuale, non sono entrato mai in polemica con alcuno dei magistrati nell’esercizio della professione”. Se la frizione slitta persino a lui, è termometro di quanto alta sia (anche sulla fronte di chi crede di denunciarla in altri) la temperatura emotiva di quella “mediatizzazione che fa perdere di vista il processo vero per concentrarsi su emozioni da dare in pasto all’opinione pubblica”. Il diritto alla salute del detenuto dev’essere garantito in concreto di Fabrizio Ventimiglia* Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2020 La Corte di Cassazione afferma che la valutazione dell’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del recluso va effettuata tenendo conto della concreta adeguatezza delle possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto. Questa, in sintesi, la vicenda processuale. Il Tribunale di Sorveglianza di Napoli rigettava l’istanza formulata dal detenuto finalizzata a ottenere il differimento della pena per motivi di salute in relazione alla frazione detentiva che doveva ancora scontare. In particolare i Giudici ritenevano che le condizioni di salute dell’istante, benché gravi, non risultassero incompatibili con la detenzione in carcere e dunque non potevano venire accolte le richieste del beneficio carcerario, anche con riferimento alla pericolosità sociale del detenuto. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il detenuto per tramite del proprio difensore di fiducia, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla valutazione dei presupposti applicativi del beneficio, non avendo i Giudici di Sorveglianza valutato la gravità delle condizioni di salute dell’istante, condizioni peraltro attestate con precisione dalla consulenza tecnica prodotta dalla difesa. I Giudici della prima Sezione Penale accolgono il ricorso, ribadendo il principio secondo cui il giudizio di compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario deve essere formulato attraverso un bilanciamento delle esigenze terapeutiche con la pericolosità sociale del condannato, giudizio che può essere eseguito solo mediante una verifica in concreto delle condizioni applicative della detenzione. Ebbene, a parere della Suprema Corte, questo principio non è stato rispettato dai Giudici della Sorveglianza, posto che il giudizio di diniego è stato motivato in maniera generica, senza alcun riferimento specifico alle condizioni di salute del ricorrente e alla concomitanza delle infermità che lo affliggevano. I Giudici di legittimità, in riferimento alla gravità delle condizioni di salute che giustifichino la concessione del beneficio del rinvio dell’esecuzione della pena, sottolineano che non è necessario che il detenuto versi in pericolo di vita. Il beneficio in oggetto, infatti, è finalizzato ad assicurare al malato detenuto che le sue condizioni di salute non peggiorino a causa dell’incapacità dell’istituto penitenziario di provvedere adeguatamente alla predisposizione dei percorsi di cura necessari. Ne discende che il Tribunale di Sorveglianza adito deve effettuare una valutazione in concreto dello stato di salute del detenuto e della capacità del singolo carcere di garantire in ogni momento i percorsi terapeutici necessari e, nel caso in cui l’accertamento risultasse negativo, valutare eventualmente il trasferimento del detenuto in altra struttura del circuito penitenziario. La Cassazione, rilevato che nel caso di specie ci si limitava ad affermare l’astratta compatibilità della situazione sanitaria del detenuto con il regime di carcerazione, ha annullato la sentenza del Tribunale di Sorveglianza rinviando per una nuova pronuncia che dovrà essere eseguita nel rispetto del principio secondo cui “La valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del recluso, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione di persona gravemente debilitata e/o ammalata costituisca trattamento inumano o degradante, va effettuata tenendo comparativamente conto delle condizioni complessive di salute e di detenzione, ed implica un giudizio non soltanto di astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici posti a disposizione del detenuto, ma anche di concreta adeguatezza delle possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto”. Il principio secondo cui gli istituti di pena devono garantire il rispetto del diritto alla salute dei detenuti e, più nello specifico, assicurare i presìdi medici e terapeutici per evitare non solo il decesso ma anche e soprattutto un peggioramento delle condizioni di salute a causa della detenzione, è importante che assuma grande rilevanza in questo periodo di emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19. I numeri del sovraffollamento carcerario, nonostante le timide iniziative intraprese dal Ministro della Giustizia e inserite nel decreto c.d. Cura Italia sono allarmanti. In decine di istituti collocati sul territorio nazionale, infatti, il numero di detenuti è così alto da non permettere il distanziamento sociale e le precauzioni igienico- sanitarie imposte a tutti i cittadini non possono che restare lettera morta. Si ritiene quindi necessario, per far fronte alla pandemia in atto, che l’esecuzione delle pene detentive si adegui alle norme italiane ed europee che impongono trattamenti rispettosi della dignità umana e adeguati ad evitare il peggioramento dello stato di salute del recluso. L’orientamento espresso dalla Suprema Corte nella Sentenza in commento, conforme alla giurisprudenza di legittimità più accreditata, risulta in forte distonia con la situazione attuale delle carceri ed in particolare con l’impossibilità per le autorità preposte di evitare una diffusione incontrollata del covid-19 all’interno delle celle. Si dovrebbe pertanto provvedere con urgenza ad un deflusso controllato dei detenuti che debbano scontare pene o residui di pena non superiori a due anni e a una limitazione degli ingressi, in particolare di quelli relativi all’applicazione di misure cautelari, prediligendo la misura degli arresti domiciliari, almeno fino a che l’emergenza “coronavirus” non sarà terminata. *Penalista e Presidente del Centro Studi Borgogna Tra bancarotta e fatturazione per operazioni inesistenti sì alla continuazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2020 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 22 aprile 2020 n. 12632. Sì alla continuazione tra il reato di emissione di fatture inesistenti e quello di bancarotta. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 12632/2020 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato contro la pronuncia della Corte d’appello con la quale era stata esclusa la continuazione sulla base di una serie di elementi. Innanzitutto la differenza strutturale tra le due norme, poi la diversità dei tempi di attuazione delle condotte illecite, infine l’assenza di riscontri sull’ideazione da parte dell’imputato di entrambi i delitti. Per la Cassazione, tuttavia, va ricordato come è lo stesso Codice penale ad ammettere nel perimetro della continuazione anche reati diversi (articolo 81). E poi la sentenza mette in evidenza come, nel caso esaminato, sia l’emissione di fatture per operazioni inesistenti sia la bancarotta riguardano non solo la medesima società, ma anche le stesse operazioni. Il fallimento della società, infatti, era stato provocato, in maniera a suo modo “classica”, proprio dalle operazioni dolose rappresentate dalla combinazione degli acquisti di auto da fornitori intracomunitari a prezzi di mercato in esenzione Iva, dalle successive vendite sottocosto delle stesse auto con emissione di regolari fatture con Iva, detraibile dai cessionari, e dal mancato versamento all’erario dell’Iva stessa. Quanto all’elemento cronologico, la Cassazione ricorda che la bancarotta appare in realtà vicina alla frode carosello architettata. In ogni caso, quando è in discussione la bancarotta, puntualizza ancora la sentenza, per la continuazione occorre valutare la contiguità senza attribuire un rilievo particolare alla pronuncia dichiarativa di fallimento. A dovere invece essere valorizzata è la data di commissione della condotta, non uno dei suoi più significativi esiti. Impossessamento di reperti, no alla particolare tenuità anche se il valore è modesto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2020 Impossessarsi, attraverso scavi clandestini, di reperti archeologici anche se di modesto valore non può mai integrare una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Si tratta infatti di un “vero e proprio saccheggio di un patrimonio della collettività” che dunque va punito ai sensi del Codice dei beni culturali. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 12653 del 22 aprile, respingendo il ricorso di due uomini condannati dalla Corte di appello di Bari per “impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato” (art. 176, co. 1, del Dlgs 42/2004) perché detenevano 5 monete risalenti al II Secolo a.c., oltre ad una serie di oggetti (un orecchino in bronzo, un bracciale, una spilla, un peso da telaio in terracotta ecc.) del IV secolo a.c.. Nella ricorso gli imputati hanno sostenuto di aver ricevuto gli oggetti contestati in eredità. Per la Suprema corte però il giudice di merito ha accertato la presenza di “terriccio” e “incrostazioni” su alcuni di essi, il ché unitamente alla presenza proprio in quella zona - nota per gli insediamenti preromani - di scavi clandestini, ha portato alla logica deduzione dell’impossessamento illecito. Anche considerato che essi non figuravano in alcuna denuncia di successione. Sotto il profilo giuridico, la Terza Sezione penale ricorda poi che esistono due categorie di cose di interesse archeologico che devono essere considerate “beni culturali” il cui impossessamento è sanzionato penalmente: 1) le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, perché, in tal caso, esse appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato, trattandosi, per definizione, di “cose d’interesse storico, archeologico, paleontologico, o artistico”; 2) le cose per le quali, al di fuori del caso che precede (ossia per quelle non ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini e che, quindi, non appartengono allo Stato) sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale. Per cui, conclude la Cassazione, la Corte territoriale ha “correttamente escluso la necessità della dichiarazione di interesse culturale, sostenuta dai ricorrenti, in quanto i beni in questione sono stati rinvenuti nel sottosuolo, e dunque appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato”. Essendo però stati trovati nella disponibilità degli imputati, contro di essi è scatta la sanzione penale. Liguria. Test sierologici a personale penitenziario e detenuti gnewsonline.it, 23 aprile 2020 Saranno avviati entro fine settimana i test sierologici a detenuti e personale penitenziario degli istituti liguri. A comunicarlo l’azienda ligure sanitaria della Regione Liguria Alisa, tramite una nota del commissario straordinario Walter Locatelli in cui si dispone anche una procedura specifica per le carceri. I prelievi di campioni ematici saranno, infatti, a carico degli istituti mentre i laboratori incaricati - gli stessi che già operano nelle strutture residenziali extra ospedaliere - ritireranno le provette e dopo qualche giorno renderanno disponibili gli esiti. La Regione Liguria segue Toscana, Campania, Umbria, Sicilia, Abruzzo ed Emilia-Romagna nella scelta di effettuare test per definire il quadro siero-epidemiologico di chi vive la realtà detentiva, in risposta alla richiesta del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di considerare le carceri ambienti esposti al verificarsi di situazioni critiche. La somministrazione di test sierologici a tappeto consente di valutare l’esposizione al contagio delle comunità più a rischio e di utilizzare al meglio le strategie di contenimento. Si calcola siano oltre duemila le persone, tra operatori penitenziari e detenuti, che saranno sottoposti al test in Liguria. A seconda del risultato, i soggetti interessati potranno essere sottoposti anche a diagnostica molecolare (tampone). Il monitoraggio e i dati statistici verranno assunti tramite una scheda anagrafica dei soggetti sottoposti al test i cui risultati in termini statistici e di monitoraggio saranno di particolare utilità per eventuali scelte di sanità pubblica. Sardegna. “Rsa e carceri presto in totale sicurezza” ansa.it, 23 aprile 2020 “Dopo aver messo in sicurezza le strutture del nord, grazie anche al lavoro fatto dai medici militari, entro la settimana contiamo di completare l’attività di screening in tutte le Rsa del centro e del sud Sardegna”. Lo ha dichiarato oggi in commissione Sanità del Consiglio regionale il commissario straordinario dell’Ats Giorgio Steri. La prossima settimana, ha aggiunto, “crediamo di concludere anche il monitoraggio sulle carceri”. Steri si è detto ottimista sull’andamento dell’epidemia in Sardegna, invitando comunque alla cautela. “Le misure di contenimento hanno consentito di frenare la diffusione della malattia - ha detto - lo confermano i dati sui tamponi effettuati nella prima fase della comparsa del virus e quelli disposti dopo la chiusura delle attività commerciali e di intrattenimento. Nel primo periodo la percentuale dei positivi era del 12% sul numero dei tamponi effettuati, oggi è scesa al 7%”. Dati rassicuranti anche sulla situazione nel nord Sardegna, la zona più colpita dal Covid-19. Sempre durante la seduta della commissione, il commissario dell’Aou di Sassari, Giovanni Soro, ha ricordato che “i risultati delle analisi confermano un trend in calo dei contagiati”. Oggi, ha sottolineato, “siamo in grado di processare circa 600 tamponi al giorno, siamo arrivati a oltre 11mila, 2.800 sul personale ospedaliero: 87 sono risultati positivi ma 60 sono già rientrati al lavoro”. Sulla situazione negli ospedali del Sassarese, “cala il numero dei ricoveri - ha osservato ancora Soro - attualmente abbiamo 33 pazienti nelle strutture Covid: 9 in terapia intensiva, 15 nel reparto di malattie infettive, 9 nell’area ‘grigi’ riservata ai pazienti con tampone negativo ma con sintomi sospetti”. Si registra dunque una minore pressione sugli ospedali. Un aspetto, questo, ha chiarito il commissario, che “ci consente di pensare a una riconversione delle terapie intensive. All’inizio dell’epidemia disponevamo di 68 posti letto, aumentati successivamente a 83. L’andamento dei dati potrebbe farci riaprire in sicurezza le strutture per la cura di altre patologie che necessitano di assistenza”. Torino. L’epidemia dilaga alle Vallette: 68 detenuti infetti, 5 ricoverati di Ottavia Giustetti La Repubblica, 23 aprile 2020 L’allarme dell’associazione Antigone: “A Torino il focolaio penitenziario più grande d’Italia”. Diversi casi denunciati tra il personale, problemi anche nella sezione “alta sicurezza”. Un’emergenza che non ha eguali in nessun altro carcere del Paese. Anche sul contagio nei penitenziari, il Piemonte sembra destinato a guadagnarsi la maglia nera d’Italia con l’emergenza del Lorusso e Cutugno di Torino dove dall’inizio del contagio sono stati accertati già 68 casi di detenuti positivi di cui 5 in ospedale e in condizioni critiche. Numeri importanti sono registrati anche tra il personale in servizio nell’istituto penitenziario e la notizia degli ultimi giorni è che il virus è arrivato anche alla sezione “alta sicurezza” dove si trovano i detenuti per i reati di associazione, e dove il regime di convivenza dovrebbe essere regolato da norme più rigide. “Il carcere delle Vallette di Torino si sta purtroppo trasformando nel più grande focolaio penitenziario Covid in Italia”, l’allarme arriva dall’associazione Antigone che sollecita la messa in campo al più presto di tutte le misure necessarie a bloccare il contagio. “In un carcere sovraffollato è impossibile fermare la diffusione del virus, ecco perché chiediamo che vengano applicate al più presto le misure deflattive previste dal decreto del governo”. Non è il primo appello che l’associazione per la tutela dei diritti dei detenuti rivolge ai responsabili dei penitenziari piemontesi e ai magistrati di sorveglianza. “Purtroppo, finora, i nostri avvertimenti sono stati inascoltati” dice Michele Miravalle di Antigone. Abbiamo assistito nelle settimane passate all’uscita di alcuni detenuti anche molto noti alle cronache come Gabriele Defilippi, il killer di Castellamonte, e di Hamza Belghazi, uno dei giovani accusati di aver provocato i tragici incidenti di piazza San Carlo la notte del 3 giugno 2017. Ma le operazioni di conversione della pena detentiva in domiciliari, in generale, stanno andando a rilento. E per esempio alle Vallette, dove sono state formulate oltre 200 domande, per ora ne sono state esaminate appena una cinquantina. “È fondamentale che la magistratura di sorveglianza piemontese, come è stato fatto in altri tribunali italiani, esplori ogni possibilità per collocare in misura alternativa tutti coloro che possono accedervi, in particolare anziani e persone con patologie pregresse. Il diritto alla salute non può essere subordinato a pretestuose istanze securitarie”. E poiché spesso un ostacolo alla scarcerazione è l’incertezza di un luogo dove scontare i domiciliari si chiede anche che enti pubblici, privati e realtà del terzo settore, segnalino disponibilità di alloggi e soluzioni abitative. Ma come è possibile che la situazione a Torino vada così male? È stato chiesto, lunedì, al direttore del carcere Domenico Minervini in un vertice di emergenza da una task force del ministero, nel quale ha dovuto ammettere che i numeri sono purtroppo in veloce crescita e le sezioni infettate sono sempre di più numerose. Padova. Coronavirus, primo caso di contagio al carcere Due Palazzi di Serena De Salvador Il Gazzettino, 23 aprile 2020 Che il carcere non fosse un sistema impermeabile al Coronavirus lo hanno sostenuto per settimane le sigle sindacali della polizia penitenziaria. A darne la granitica conferma è però oggi il primo detenuto risultato positivo. Una scoperta avvenuta peraltro in condizioni assolutamente drammatiche nella tarda serata di martedì, quando un carcerato della Casa di reclusione del Due Palazzi è stato trasferito d’urgenza al pronto soccorso dell’Azienda ospedaliera dopo aver tentato il suicidio in cella. L’immediato intervento degli agenti in servizio ha permesso di salvargli la vita, ma all’arrivo al policlinico i test obbligatori per accedere alla struttura hanno fatto emergere il preoccupante dato. Il detenuto, un italiano che sta scontando una pena definitiva, è stato sottoposto al tampone naso-faringeo. Una prassi per chiunque si rivolga all’ospedale, nonostante nei giorni precedenti l’uomo non avesse mai mostrato o segnalato alcun sintomo collegabile al virus né avesse accusato malori o problemi di salute. Dopo le cure iniziali e dopo averlo stabilizzato nel reparto di Psichiatria, è giunto il verdetto: positivo al Covid-19 seppur asintomatico. A quel punto il carcerato è stato trasferito nel reparto di Malattie infettive dove si trova tutt’ora ricoverato. Minaccia sanitaria - La notizia ha creato non poco scompiglio all’interno del Due Palazzi dove la pericolosità della minaccia sanitaria era più volte stata segnalata. “Fino a ieri nel penitenziario padovano non si erano registrati casi di contagio tra la popolazione detenuta, ma evidentemente quanto successo dimostra che nessuno e nessun ambiente può essere completamente immune” spiega il segretario regionale del Triveneto del sindacato Uspp, Leonardo Angiulli. Al Due Palazzi nessun detenuto avrebbe mai dato alcun segnale di malattia, mentre qualche settimana fa era emerso il contagio di due agenti della polizia penitenziaria, rimasti a casa in isolamento non appena avuto l’esito dei tamponi. “Non bisogna permettere che accada quanto sta succedendo in altre carceri venete e italiane. A Verona, solo per fare un esempio, i detenuti contagiati sono una trentina a cui si aggiungono circa venti agenti tra cui uno grave aggiunge Angiulli - Il periodo è gravissimo, abbiamo avuto malati tra le fila dei colleghi che ogni giorno lavorano nei penitenziari dove il sovraffollamento è una piaga e dove il contatto tra detenuti e agenti è inevitabile. Ci sono poliziotti malati ma anche alcuni in condizioni gravi e addirittura qualcuno non è riuscito a sopravvivere. Le nostre richieste e la nostra posizione sono chiare: tutti gli agenti e tutti i carcerati vanno sottoposti a tampone. Devono essere fornite mascherine e strumenti di protezione individuale e vanno controllati i trasferimenti tra le carceri. Gli agenti non possono lavorare in condizioni di costante rischio senza tutele e senza i dovuti controlli sanitari, per sé e anche per le loro famiglie”. Rischio concreto - Giusto martedì le maggiori sigle sindacali hanno firmato un documento congiunto con cui richiedono nuovamente un incontro con il ministro della Giustizia dopo aver interrotto le trattative con l’Amministrazione penitenziaria. Anche a Padova la mancanza di mascherine e il sovraffollamento connesso con il regime di detenzione a celle aperte sono più volte stati denunciati. A gran voce erano stati richiesti i tamponi che però ad oggi non risultano essere stati realizzati. Il rischio più concreto è ora quello di una rivolta, come avvenuto poche settimane fa. “La direzione ha già assicurato che da oggi partirà la campagna di controlli a tappeto all’interno del carcere” conclude Uspp. Al via quindi i test sierologici e i tamponi, in attesa di scoprire se e quanto esteso sia il contagio silenzioso strisciato fin dentro le mura di via Due Palazzi. Padova. Detenuto tenta il suicidio e in ospedale si scopre il contagio di Andrea Pistore Corriere del Veneto, 23 aprile 2020 Tenta il suicidio e si scopre che è positivo al coronavirus. Verranno attivati già da questa mattina tutti i protocolli per arginare il rischio di contagi in carcere a Padova dove un detenuto ha contratto, seppur in forma asintomatica, il Covid-19. Martedì sera l’uomo, un italiano che è recluso al circondariale, voleva farla finita: nel tentativo si è leggermente ferito ed è stato immediatamente bloccato e soccorso dagli agenti della Polizia penitenziaria in servizio durante quel turno. L’uomo, una volta ricoverato in Pronto soccorso al Giustinaneo, è stato sottoposto al triage e trasferito nel reparto di psichiatria. Dopo qualche ora è giunto il risultato del tampone. Il detenuto è risultato positivo, pur non avendo mai nei giorni scorsi mostrato segni evidenti di febbre, tosse o problemi al gusto. Si tratta del primo recluso al Due Palazzi contagiato, dove adesso la situazione preoccupa sia gli agenti sia gli altri carcerati. Leo Angiuilli, segretario del Triveneto dell’Uspp, uno dei sindacati dei baschi blu, chiede, anche sulla scorta di quanto sta avvenendo nel carcere di Verona dove i contagiati sono una cinquantina, verifiche a tappeto. “Devono essere immediatamente eseguiti i tamponi o i test sierologici a quelli che hanno avuto un contatto diretto con questo soggetto risultato positivo. Finora le analisi sono state fatte solamente a detenuti che abbiano patologie o a chi proveniva da un altro istituto. Padova deve immediatamente seguire tutti i protocolli sanitari previsti, sia per la tutela degli agenti, sia per quella delle loro famiglie. A noi non risultano agenti contagiati (nelle scorse settimane erano trapelate voci differenti, ndr), quindi questo è il primo caso in tutta la struttura detentiva. tamponi -continua - inizieranno con chi è stato a contatto diretto con l’uomo e poi a pioggia dovranno essere fatti a tutta la popolazione carceraria. Paura di eventuali rivolte? Noi non vogliamo creare allarmismi, stiamo solo chiedendo che venga seguita la procedura in maniera corretta ed efficace. Vorremmo evitare che si verificasse la stessa situazione che è in atto a Verona. Vanno fatti i test in maniera capillare e non a macchia d’olio dato che molti di noi adesso potrebbero portare nella propria abitazione il virus con conseguenze preoccupanti per i nostri familiari”. Il timore è che in via Due Palazzi accada qualcosa di simile a quanto successo a Montorio, dove ci sono 29 detenuti contagiati e una ventina di agenti positivi di cui uno finito in rianimazione dopo una preoccupante crisi respiratoria. Nella città scaligera il focolaio sarebbe scoppiato nella terza sezione, quella dedicata a stupratori, pedofili e condannati da maltrattamenti tanto da essere denominata ormai “Sezione Covid”, mentre non è ancora chiaro in quale braccio fosse l’aspirante suicida a Padova. “È una storia senza fine quella che si sta vivendo attualmente nelle carceri italiane - avevano spiegato solo l’altro ieri tutte le organizzazioni sindacali dei baschi blu - troppi sono stati i silenzi assordanti del dipartimento Amministrazione Penitenziaria nella gestione dell’emergenza epidemiologica che da tempo sta flagellando il panorama nazionale. Gli approvvigionamenti puntuali di dispositivi di protezione e l’attuazione di concreti ed efficienti protocolli sanitari sono di fondamentale importanza per tutelare tutta la collettività penitenziaria”. Verona. Covid-19, sul carcere il prefetto detta la linea Corriere Veneto, 23 aprile 2020 Il prefetto Cafagna sulla scarcerazione di un positivo: “Accelerazione non concordata, non ho dubbi che d’ora in poi ci si atterrà alle indicazioni”. Al secondo esame la stessa persona è poi risultata negativa. Nuovo colpo di scena nella vicenda della scarcerazione di una persona risultata positiva al coronavirus. Ad un secondo esame, infatti, la stessa persona è risultata invece negativa al test di conferma. La vicenda aveva destato clamore perché, scarcerato pur risultando positivo al virus, l’uomo, un indiano residente a Montecchia di Crosara, aveva girato per ore liberamente in città, venendo fermato solo molte ore dopo da una pattuglia dei carabinieri. Al di là della novità emersa solo ieri dal secondo tampone di controllo, l’episodio ha peraltro acceso i riflettori sulla drammatica situazione del carcere di Montorio e sulla procedura da seguire adesso in vicende del genere. La corte d’appello di Venezia, il 10 aprile scorso, aveva ordinato la scarcerazione dell’uomo con due giorni di ritardo sulla data prevista proprio in quanto era risultato positivo al Covid 19. E la corte sottolineava “l’esigenza inderogabile” di gestirne la quarantena, visto che l’uomo era stato condannato per violenze contro la moglie, e non poteva ovviamente essere riportato sotto lo stesso tetto. La direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli, aveva comunicato la situazione a ministero, Comune e Usl il giorno 13 aprile. Il giorno 14, l’assessore comunale Stefano Bertacco aveva fatto sapere di non avere, in quel momento, alcuna struttura disponibile. Venerdì scorso era stato convocato il comitato per la sicurezza, presente anche la procura della Repubblica. Il prefetto Donato Cafagna, che presiedeva quella riunione, spiega che “venne fatto il punto sulla situazione che si era creata, sia dal punto di vista sanitario, visto che la persona da scarcerare era risultata positiva ma asintomatica, e quindi non ricoverabile in ospedale, sia per individuare un domicilio per l’indispensabile quarantena”. Lo stesso prefetto ricorda peraltro che “la sera stessa, dopo la riunione, ci fu una accelerazione imprevista e non concordata, con la decisione della direttrice del carcere di scarcerare subito la persona, prima che venisse trovato un opportuno domicilio”. Ne era nato un allarme, tanto che il giorno dopo, 15 aprile, era stata convocata un’altra riunione del comitato, presenti la direttrice del carcere ed anche l’Usl 9 alla quale, spiega il prefetto, “fu chiesto di chiarire in ogni dettaglio le misure sanitarie da prendere in casi del genere, disposizioni messe per iscritto in un documento inviato a tutte le istituzioni a vario titolo interessate per ribadire le garanzie necessarie per un’uscita dal carcere in sicurezza, comprese le modalità di trasporto delle persone scarcerate verso il proprio domicilio oppure, se come accaduto la settimana scorsa non sia possibile, verso una destinazione diversa ma comunque sicura. Certamente - conclude il prefetto - c’è stata quella…accelerazione non concordata ed imprevista nella serata del 14 aprile: ma non ho dubbio alcuno sul fatto che, d’ora in poi, ci si atterrà scrupolosamente alle indicazioni”. Intanto l’uomo al centro di questa vicenda rimane nella struttura messa a disposizione della Curia. Bologna. Detenuto positivo al Covid-19, rigettati i domiciliari: “Più sicuro in cella” Il Resto del Carlino, 23 aprile 2020 Il gip Alberto Gamberini ha rigettato la richiesta avanzata dall’avvocato Matteo Murgo per l’albanese 39enne, salito alla ribalta delle cronache alcuni giorni fa per aver donato al Sant’Orsola 5mila euro. L’uomo, in carcere per spaccio di droga, il 14 aprile era risultato positivo al Covid-19 e da qui la richiesta della sostituzione della misura detentiva alla Dozza con i domiciliari. Secondo il giudice, infatti, il detenuto sottoposto a isolamento, in carcere “gode di presidi medici che all’interno dell’abitazione non potrebbe beneficiare”. Inoltre la direzione sanitaria “non ha evidenziato la sussistenza di pericoli concreti per la possibile diffusione nella comunità carceraria”, essendo stati “adottati tutti i presidi necessari”. Molto più rischiosa, chiude l’ordinanza, sarebbe “una collocazione agli arresti domiciliari nell’abitazione familiare con la moglie e le due bimbe”, le quali “potrebbero essere pregiudicate dall’esposizione al virus, senza la possibilità di un isolamento totale”. Firenze. Sollicciano: adesione massiccia ai test sierologici sui detenuti di Raul Leoni gnewsonline.it, 23 aprile 2020 Il Tgr della Toscana, con un servizio a firma di Valter Rizzo, ha dato notizia dell’avvio dei test sierologici sugli operatori penitenziari e sui detenuti ristretti nella casa circondariale di Sollicciano. Le procedure erano state definite in un protocollo concluso tra la Regione, le autorità sanitarie locali e l’Amministrazione penitenziaria. Dopo il personale in servizio nel carcere fiorentino, sono stati sottoposti al controllo immunologico anche i detenuti, che hanno aderito in massa: “Su 311 utenti - ha comunicato Sandra Rogialli, del Dipartimento Salute in carcere di Firenze - solo 11 hanno per ora risposto negativamente: tutti gli altri hanno aderito e ora ci aspettiamo che lo facciano anche gi altri”. I prelievi ematici sono stati effettuati sotto il controllo di Mirko Capacci, medico dell’istituto: “I campioni verranno processati nel laboratorio dell’Ospedale San Giovanni di Dio, permettendoci di valutare lo stato immunologico dei detenuti e degli operatori. I risultati? Contiamo di averli in tempi brevi, quelli dello screening probabilmente in giornata. Successivamente, qualora sorgessero dubbi o si riscontrassero casi di positività, procederemo immediatamente a eseguire il tampone”. Oltre alla messa a regime dei test, la direzione del carcere di Firenze ha predisposto un presidio sanitario per i nuovi arrivati, con le modalità precisate da un altro responsabile sanitario dell’istituto, Barbara Rinaldo: “Per tutti i ‘nuovi giunti’ si procederà con un isolamento preventivo di 14 giorni e per gli eventuali positivi o sospetti contagi Covid-19 abbiamo a disposizione quattro celle separate”. Napoli. “Il carcere ha bisogno di luce”, intervista al Garante dei detenuti Pietro Ioia di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 23 aprile 2020 Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è sotto indagine per presunte violenze commesse contro detenuti. Di questo e della situazione del sistema carcerario dell’area napoletana parla Pietro Ioia, Garante del Comune di Napoli. L’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid-19 ha contribuito a mettere in luce le falle del sistema carcerario italiano. In diversi istituti di pena il disagio è cresciuto in questi ultimi mesi, complice la paura del contagio, ed è sfociato in momenti di tensione raccontati da vari organi di stampa. Si inserisce pienamente in questo contesto la vicenda del carcere di Santa Maria Capua Vetere che è al centro di un’indagine giudiziaria su presunte violenze commesse da agenti della polizia penitenziaria ai danni dei detenuti e denunciate dai Garanti per i diritti dei reclusi. Su questo argomento e con l’intento di fare brevemente un punto sulla situazione del sistema carcerario dell’area napoletana, abbiamo sentito Pietro Ioia, Garante del Comune di Napoli. Che interpretazione dai alla vicenda di Santa Maria Capua Vetere? Quando mi sono arrivate le fotografie, gli audio e le segnalazioni di alcuni familiari sono intervenuto contattando subito il collega Samuele Ciambriello (Garante dei detenuti della Campania, N.d.R.). Ci sono state tante polemiche da allora e diverse versioni dell’accaduto. Occorre che la magistratura faccia luce e, se emergeranno reati, punire chi li ha commessi. Su questo hai avuto uno scambio polemico con rappresentanti della polizia penitenziaria… Sono stato attaccato da alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria, come spesso è accaduto, sia prima che dopo la mia nomina a Garante dei diritti dei detenuti. Gli scambi sono giusti, sono quello che cerco, quello che può aiutarci a tutelare i diritti dei reclusi. Gli attacchi no, soprattutto se si tratta di attacchi alla mia persona e non al mio operato. Non sarebbe più costruttivo uno scambio equilibrato sul lavoro che c’è da fare possibilmente insieme? Che ruolo ha oggi a tuo parere la polizia penitenziaria e che ruolo dovrebbe avere? La polizia penitenziaria ha sempre avuto un ruolo di vigilanza e di controllo, questo però non deve sfociare mai in violenza, come purtroppo avviene in alcune occasioni. Ho conosciuto poliziotti penitenziari che mi hanno appoggiato, perché hanno capito il tipo di lavoro e contributo che volevo dare, perché affine al loro; mi sono trovato poi, com’è risaputo, in forte contrasto con altri di loro, anche legalmente, per via del mio passato da attivista e per aver denunciato le violenze subite in carcere. La verità è che in tutti i gruppi ci sono grandi lavoratori e allo stesso tempo persone che invece interpretano male il proprio ruolo. Quanto si sa di quello che succede in carcere? Che ruolo ha la stampa? Si sa pochissimo perché se ne parla davvero poco. E quando se ne parla si dice solo il peggio. Non si parla mai di tutto quello che viene fatto dai detenuti che provano a riparare il danno che hanno compiuto in passato nei confronti della società. Né dei diritti calpestati. Non si parla nemmeno delle famiglie, dei bambini piccoli lontani dal genitore recluso, che vivono anche loro una condanna e che dovrebbero per questo essere aiutati. Ecco, la stampa dovrebbe interessarsi anche di questo, per quanto la cosa sia difficile, bisogna fare luce su ciò che avviene in carcere. Su quale collaborazione puoi contare da Garante? Chi, in particolare, collabora con te? A livello istituzionale sono supportato soprattutto dal Sindaco Luigi De Magistris e dall’Assessore al Welfare Monica Bonanno, con la quale anche in questi giorni sono andato a Poggioreale per la consegna di varie mascherine. In settimana ne arriveranno altre e andrò con il Sindaco a consegnarle. Il mio staff invece è composto da due valide collaboratrici, che condividono le mie stesse idee e lo stesso impegno a tutela dei diritti dei detenuti, le dottoresse Sara Romito e Sarah Meraviglia. Un breve bilancio della tua attività di Garante iniziata lo scorso dicembre... Appena nominato ho collaborato con la Dottoressa Bonanno e con la Direttrice Russo di Secondigliano per attivare il lavoro di pubblica utilità di alcuni detenuti all’esterno del carcere. La mia attività purtroppo poi coincide con questa terribile pandemia. All’inizio dell’anno sono stato ricoverato in ospedale per diverse settimane e poi è arrivato il virus nelle nostre vite. Da allora ho avuto diversi incontri nelle case circondariali di Poggioreale e Secondigliano, sia con i direttori che con delegazioni di detenuti, soprattutto nei giorni delle rivolte, contenutissime forse proprio grazie al nostro intervento congiunto. Anche gli incontri con il provveditorato e con la magistratura di sorveglianza sono stati importantissimi per contenere l’emergenza. Stiamo inoltre consegnando centinaia di mascherine ai detenuti, grazie all’aiuto di diverse associazioni e dei Radicali. Da oggi stiamo progettando un pacco alimentare per i ristretti che non hanno niente, il pacco del detenuto ignoto. Quando finirà questa fase di emergenza ci dovremo occupare dell’emergenza di tutti i giorni, quella del carcere nel suo quotidiano e dei diritti mal tutelati dei detenuti. C’è tantissimo da fare e dovremmo farlo tutti insieme. Il carcere rischia davvero di essere un luogo di violenza più che di recupero? Il carcere è punitivo più che risocializzante. Si dovrebbe dare spazio alle misure alternative, alla giustizia riparativa e di comunità, alla conservazione degli affetti delle persone detenute, alla loro formazione e al lavoro. Com’è vista la situazione Coronavirus in carcere? Dai detenuti è vista com’è, cioè come una situazione drammatica, sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari. Un gruppo di persone recluse a Poggioreale ha donato più di 1.600 euro per l’Ospedale Cotugno di Napoli, per far sentire il loro supporto a medici ed infermieri. Le famiglie sono preoccupatissime, vorrebbero essere certe che i loro cari sono al sicuro dal virus. Ma come può essere possibile se spesso ci sono 12, 14 detenuti in una cella? Ci sarebbe bisogno di misure alternative per chi ha pochi anni da scontare e soprattutto per chi è malato e anziano. Cremona. Tutela detenuti e persone private della libertà, istituito il Garante provinciale cremaonline.it, 23 aprile 2020 “Vigilare affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia”. La Provincia di Cremona, nella seduta del 20 aprile, ha istituito il garante provinciale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Come sottolineato dal promotore dell’iniziativa, Giovanni Gagliardi, “le iniziative già intraprese con la casa circondariale di Cremona e le ottime relazioni tra istituzioni hanno portato alla creazione di progetti formativi, di lavoro ed educativi promossi dalla Provincia, non ultimo il documentario-film Cremona e il suo carcere, con la regia di Alessandro Scillitani, nato da una idea di Giorgio Brugnoli”. Il garante avrà il compito di effettuare “visite periodiche per instaurare colloqui con i detenuti e prendere visione della situazione strutturale e di funzionamento dell’istituto, per rappresentarne all’esterno le esigenze e sostenere iniziative tese al miglioramento delle condizioni di detenzione”. Tutelerà le persone ‘private della libertà personale attraverso l’osservazione, la vigilanza e la segnalazione alle autorità competenti delle eventuali violazioni di diritti, di qualsiasi genere”; chiederà “chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti e le azioni necessarie”. Potrà ricevere dai detenuti o da chiunque altro ne sia a conoscenza segnalazioni “sul mancato rispetto della normativa penitenziaria e/o su presunte violazioni dei diritti dei detenuti”. Avrà la possibilità di “ricevere i parenti delle persone detenute, i conviventi e le persone ammesse alle misure alternative anche sulla base di richieste dagli stessi formulate”. Tra i suoi compiti specifici, la promozione di “una cultura della umanizzazione della pena (anche mediante iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani fondamentali)”. Lavorando “d’intesa con le altre istituzioni pubbliche e del privato sociale” farà in modo che i detenuti possano usufruire di tutti i loro diritti e farà in modo di “facilitare ai soggetti in carcere o limitati nella libertà personale la garanzia di prestazioni inerenti il diritto alla salute, all’affettività, alla libertà religiosa, alla qualità della vita, all’istruzione scolastica, alla formazione professionale e al lavoro, nell’ottica del principio del reinserimento sociale”. Insieme alle amministrazioni pubbliche si farà garante della fornitura di “prestazioni ottimali di servizio nel campo del diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro”. Il garante viene scelto dal presidente della Provincia, “sentito l’Ufficio di Presidenza e previa consultazione con il dirigente dell’Amministrazione penitenziaria locale”. Le candidature vengono accolte attraverso un avviso pubblico. Sono ammessi “i residenti nella provincia di Cremona, con competenza ed esperienza nel campo dei diritti umani, delle tematiche sociali, dell’istruzione, della formazione e del lavoro e con particolare sensibilità per le tematiche relative alle persone temporaneamente private della libertà a seguito di provvedimenti giudiziari”. Il garante opera in veste monocratica e resta in carica tre anni e prosegue l’attività sino all’insediamento del successore. Taranto. Il carcere tra procedure per contrastare il contagio e produzione di mascherine di Francesca Perrone oltreilfatto.it, 23 aprile 2020 La Casa circondariale di Taranto, di concerto con la Asl, non solo ha attivato le procedure necessarie per tutelare i detenuti e gli operatori dal contagio da Covid-19 ma ha anche riconvertito il laboratorio sartoriale per la produzione di mascherine. Già mille donate agli uffici giudiziari e la produzione continua. Ci sono dei luoghi in cui, più di altri, è necessario vigilare affinché venga evitato il contagio da coronavirus perché deputati alla cura di persone in situazione di fragilità, come gli ospedali e le case di cura, oppure perché, per propria natura, non possono permettere alle persone di passare questo periodo di isolamento nella sicurezza della propria casa. È questo il caso delle carceri, che vedono una condivisione forzata di spazi il più delle volte angusti e molto spesso sovraffollati. Per questo, è stato quanto mai importante, anche per la casa circondariale di Taranto, porre in essere tutte le attività e le misure necessarie per tutelare la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari. Nel cortile interno dell’istituto è stata allestita una tenda per il pre-triage: al pari di quelle presenti all’esterno degli ospedali, infatti, è in questo luogo che i medici, opportunamente equipaggiati con i dispositivi di sicurezza quali guanti, mascherine, camici e disinfettante, visitano i nuovi detenuti e effettuano la valutazione del rischio da infezione Covid-19, seguendo le linee guida fornite dalla Asl e dal ministero competente. Una volta superato il primo controllo medico, i nuovi detenuti, per un periodo cautelativo di 14 giorni, vengono assegnati alle cosiddette “aree cuscinetto”, zone dedicate e isolate dove le loro condizioni di salute vengono monitorate dai medici di guardia. Qualora in qualcuno dei nuovi arrivati si evidenzino elementi che possano far sospettare il contagio da coronavirus, viene allertato il dipartimento di prevenzione della Asl che si attiva per l’esecuzione del tampone. In caso di positività, vengono valutate le condizioni cliniche del detenuto per decidere se può rimanere in un’area dedicata e isolata nell’istituto o se è necessario l’eventuale ricovero. Anche i detenuti che devono essere dimessi o trasferiti vengono sottoposti a visita medica per verificare le loro condizioni di salute e, in caso di presenza di una sintomatologia simil-influenzale, il dipartimento di prevenzione valuta se sottoporli a tampone. Per ridurre il più possibile le occasioni di contagio dall’esterno, sono state sospese le visite dei familiari (i colloqui avvengono tramite videochiamate) e le attività medico specialistiche sono ridotte ai soli casi urgenti. Così come accade nelle altre strutture, a tutti coloro che entrano nell’istituto viene misurata la temperatura corporea, mentre per il personale di Polizia Penitenziaria asintomatico che ha avuto contatti con persone contagiate o con casi sospetti vengono predisposte e attivate le procedure sanitarie adatte. Per affrontare l’emergenza, anche il laboratorio sartoriale all’interno dell’istituto si è attivato con l’autoproduzione di mascherine, vista anche la difficoltà di reperire questi dispositivi. I quindici detenuti che operano nel laboratorio realizzano le mascherine che, come previsto dal protocollo firmato con la Asl, vengono inviate al blocco operatorio del SS. Annunziata per la sterilizzazione; sono così pronte per l’utilizzo da parte dei detenuti e del personale interno al carcere. Come riportato in una nota della direttrice Stefania Baldassari, la produzione non è solo per uso interno ma ha anche un intento solidaristico: mille mascherine, infatti, sono state già donate agli uffici giudiziari tarantini e la produzione continua per poter donare questi preziosi dispositivi anche ad altri enti o associazioni che ne faranno richiesta. Roma. Storia dello scrivano di Rebibbia, amico dei naufraghi della terra di Sergio D’Elia* Il Riformista, 23 aprile 2020 Due anni fa la laurea in legge che gli permette di aiutare gli altri detenuti a rivendicare i propri diritti e in questa fase a chiedere la scarcerazione. Lui ha una malattia rara, ma a sé ci penserà solo alla fine, per ultimo. La figura dello “scrivano” è un punto di riferimento essenziale in carcere e può essere l’ultimo salvagente rimasto dopo un naufragio nel mare di privazioni e patimenti forzati dove spesso annegano gli ultimi della terra, i condannati - colpevoli o innocenti che siano, in esecuzione pena per un misfatto ma anche in mancanza di un qualche misfatto - alla galera. Lo “scrivano” può essere l’unica ancora di salvezza per chi non sa né leggere né scrivere, per chi non sa la lingua per parlare, per chi, entrato sano, si è ammalato, per chi fuggito dalla fame e dalla sete continua a patirle, per chi è abbandonato da Dio e dagli uomini, per chi è senza una famiglia dietro le spalle o una difesa davanti a un tribunale. Fabio Falbo fa lo “scrivano” a Rebibbia, nel braccio di alta sicurezza. In base al regolamento, sarebbe l’addetto alle “domandine”, alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli. In realtà fa molto di più: dà senso e corpo a buona parte delle sette opere di misericordia corporale: si premura che nella sua sezione l’affamato abbia da mangiare, che l’assetato abbia da bere, che l’ignudo sia vestito, che l’infermo sia visitato, che il carcerato sia difeso e non solo visitato. La sua opera non si limita al bene materiale, il suo pronto soccorso offre anche il dono di parole - ne ha un canestro pieno e inesauribile da distribuire - di vita, di amore e di speranza. Fabio Falbo è l’avvocato dei carcerati, ma anche un filosofo. Il Laboratorio di pratica filosofica dell’Università di Tor Vergata a cui ha partecipato è stata un’esperienza straordinaria, raccolta poi in un bellissimo libro dal titolo Naufraghi in cerca di una stella, nella quale ha scoperto che la luce da cercare non era in alto nel cielo, ma dentro di sé, ed era quella - ancora più capace a illuminare la via - della coscienza. Fabio Falbo è un garante dei detenuti, ma anche un visionario costruttore di realtà. Il Laboratorio “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino in corso a Rebibbia, di cui è l’animatore più convinto, lo ha aiutato a cambiare sé stesso, il suo modo di pensare, di sentire e di agire e, per ciò, a cambiare il mondo in cui vive, l’ambiente in cui vive, il carcere in cui vive e anche il potere più ottuso e opprimente che domina la vita in galera. Fabio non raccoglie o dispensa solo “domandine”. Forte anche di una laurea in legge conseguita in carcere due anni fa, fa esposti di denuncia per le più gravi violazioni dei diritti umani, scrive istanze di sospensione pena per i più seri motivi di salute, inoltra richieste di detenzione domiciliare o di alternativa alla pena, prepara memorie difensive per quelli in attesa di giudizio, calcola i giusti cumuli di pena e ricalcola quelli sbagliati. Impara, prepara, integra, corregge, sovverte il lavoro di principi del foro e dei più alti magistrati. Da quando la pandemia si è abbattuta come un’ira di Dio sul nostro paese, Fabio si dedica anima e corpo all’opera volta a evitare che la malaugurata evenienza di un contagio possa colpire i carcerati e condannarli a morte, una pena abolita nel diritto, ma praticata di fatto nel per sua natura mortifero sistema penitenziario italiano. Alcuni giorni fa, Fabio ha scritto a me, a Rita Bernardini e a Elisabetta Zamparutti per dirci che era felice di aver fatto scarcerare alcune persone, condannate e in attesa di giudizio - anche per il reato ostativo di associazione mafiosa - e che era in attesa di altre risposte da altre autorità giudiziarie: in caso di rigetto aveva già pronti i ricorsi ai tribunali in cui avrebbe sollevato anche questione di incostituzionalità. “Ormai sono in un campo di guerra giuridica per il diritto assoluto alla salute, da far valere non solo in questo periodo di emergenza sanitaria, ma anche dopo, perché la salute in carcere è uno stato d’emergenza permanente. Quando parla di diritto alla salute, Fabio pensa innanzitutto a quella dei suoi compagni di detenzione, non alla sua, alla malattia rara che si porta dietro dalla nascita. Ci fa sapere che Franco Gambacurta ha un solo rene ed è affetto da molte altre patologie. Ci informa che Giuseppe Gambacorta, ergastolano, ha subito due interventi al cuore, ha le difese immunitarie molto basse e per incognite ragioni è ancora detenuto in alta sicurezza. Ci segnala il caso di Alfredo Barasso che da novembre attende di essere operato ma con l’emergenza sanitaria in corso difficilmente lo sarà, sicché rischia di restare su una sedia a rotelle vita natural durante. Nella stessa sezione, c’è Sergio Gandolfo, con vari problemi del sangue, un’insufficienza renale cronica, l’ipertensione arteriosa nonché il linfoma di Hodgkin. A nessuno ha mai detto che lui invece soffre di una patologia grave e rara, l’angioedema ereditario, che in situazioni di stress può esplodere in gonfi ori della cute, delle mucose e degli organi interni che a volte possono risultare fatali. Da oltre un anno non ha più i farmaci per tenerla un po’ a bada. “La mia fortuna in tale condizione è lo studio che mi rilassa e non fa innalzare l’ansia e lo stress. Per avere il farmaco, che sembra irreperibile in Italia, ha inviato una lettera al ministro della Salute e anche all’Aifa, ma non ha ricevuto risposta. Di questo non vi avevo mai detto niente perché non ho mai voluto accampare alibi per una misura meno afflittiva. Con i suoi modelli di richiesta di scarcerazione, che ha inviato ai detenuti - definitivi e giudicabili, con patologie e senza - in oltre trenta strutture carcerarie, pensa di far uscire ancora un gran numero di persone. “Al momento servo dentro e non fuori. Non voglio abbandonare nessuno in un frangente così delicato. Io sarò l’ultimo a presentare l’istanza del mio differimento pena. Fabio Falbo, quando uscirà, vuole trovare un alloggio a Roma per proseguire gli studi e continuare le sue opere di carità materiale e nutrimento spirituale nei confronti degli affamati, degli assetati, degli ignudi, degli infermi, dei carcerati. “Sono tante le cause da affrontare, la nostra battaglia è volta anche all’abolizione del carcere. Dobbiamo seguire l’esempio Ruth Wilson Gilmore, che in America lotta per questa causa da più di trent’anni. Sia letto questo articolo da chi di potere e di dovere come un “amicus curiae”, una istanza a beneficio della corte, nel caso in cui un domani, una corte, dovrà esaminare anche quella di Fabio Falbo, lo “scrivano” di suppliche per conto terzi, il dottore in legge votato al patrocinio dei dannati della terra, al pronto soccorso dei naufraghi della galera in cerca di una stella. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Bologna. Le “Voci” del Pratello esplora gli abissi del Potere di Massimo Marino Corriere di Bologna, 23 aprile 2020 In un video il percorso dei laboratori affrontato dalla compagnia di Billi Al centro la storia della “Conferenza di Sanremo”, dopo la Grande Guerra. Sono ormai sei anni che il Teatro del Pratello, con varie collaborazioni e con partecipazioni di persone di diverse età, ricorda la Resistenza in modo non celebrativo, affrontando ogni anno un tema di storia contemporanea con uno spettacolo del progetto Voci. Si tratta di documenti diversi che si trasformano in parole, azioni sceniche, immagini ambientate in luoghi carichi di senso e di storia della città. Nel 2014 nel chiostro di San Mattia abbiamo assistito a una rievocazione delle parole dei protagonisti della Resistenza come domanda aperta alla memoria dei più giovani, anche sulla retorica della celebrazione. Poi, riportiamo in ordine sparso, al ricordo dei bombardamenti su Bologna in San Francesco, delle leggi razziali nella zona della Sinagoga, alla caduta del Muro di Berlino l’anno scorso nei cortili di palazzo d’Accursio. Quest’anno si sarebbe raccontata la Conferenza di Sanremo, che nulla ha a che fare con il festival. Si tratta di un momento della storia politica successiva alla Prima guerra mondiale, un convegno tra le potenze vincitrici per il “riordino” del Medio Oriente dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Fu in quella occasione che Francia e Inghilterra, tramite i mandati, affermarono la loro supremazia su quella parte del mondo, tracciando confini con linee dritte, alimentando tutti i futuri disordini, le cui conseguenze sarebbero arrivate fino a noi nella forma di conflitti più o meno perenni, torbidi, stragi, migrazioni. Si trattò, come dice il progetto, di una vera e propria “invenzione del Medio Oriente” come lo abbiamo conosciuto noi. Un impegno robusto, quello della compagnia diretta da Paolo Billi, che si andava realizzando attraverso laboratori con studenti delle superiori, con giovani in carico a comunità di recupero esterne al carcere minorile, con cittadini di diversa età, grazie anche alla collaborazione storica dell’Istituto Parri, a quella artistica dei laboratori di MAMbo, a quella della classe di Musica applicata del maestro Aurelio Zarrelli del conservatorio “Martini”. Lo spettacolo avrebbe dovuto coinvolgere vari spazi di Salaborsa, ma naturalmente non ci sarà, anche se alcuni laboratori, in particolare quello di MAMbo di ricerca e creazione di immagini e quello di scrittura diretto da Viviana Santoro si sono svolti online con nutrita partecipazione. Lo spettacolo è rimandato all’autunno, ma dal 25 al 30 aprile si potrà entrare nel discorso con il video Voci 2020 - Work in progress, visibile sui canali social e sul sito del Teatro del Pratello. Dei pregiudizi che abbiamo nei confronti delle popolazioni mediorientali, del lontano misterioso incontro tra San Francesco e il Sultano, dei patti segreti tra il principe ereditario d’Arabia e il movimento sionista subito prima della Conferenza avrebbe narrato la performance, in vari “tappeti”, scene raccolte, a stretto contatto di voce, come narrate da contastorie in tende nel deserto. Nel video sono rimaste testimonianze del percorso, con notizie storiche fornite da Luca Alessandrini del Parri, con parole del regista Paolo Billi sullo spettacolo, interventi di Ilaria Del Gaudio di MAMbo e di Aurelio Zarrelli sulle musiche. Per informazioni: teatrodelpratello.it; 333.1739550. Migranti. Il decreto che chiude i porti non rispetta le convenzioni internazionali, va abrogato di Gregorio De Falco* Il Manifesto, 23 aprile 2020 Il 7 aprile 2020 è stato firmato un decreto che dichiara non sicuri, “unsafe”, i porti della Repubblica a causa dell’emergenza in atto, per impedire l’approdo in un porto italiano alle navi soccorritrici come l’”Alan Kurdi”. Quel provvedimento, però non risulta pubblicato e dunque non è conoscibile. Preliminarmente: 1) Una nave ha diritto di entrare in un porto se è in grave difficoltà, o se in difficoltà siano le persone a bordo. Forza Maggiore o Stato di Necessità, Convenzione 1923 sul Regime dei Porti Marittimi. 2) Per i possibili richiedenti asilo a bordo di nave in acque interne, lo Stato costiero ha piena giurisdizione e deve verificare il ricorrere dei requisiti. Diversamente si tratta di respingimento illecito. 3) Negare in modo “automatico” il diritto di passaggio è illegittimo, perché incompatibile con le norme internazionali sul diritto di passaggio inoffensivo che può essere sospeso, ma solo in presenza di uno specifico e concreto pregiudizio per lo Stato costiero. 4) L’ingresso nel mare territoriale collegato all’attività di Search and Rescue è, in quanto tale, legittimo (art 98 Unclos) e non può considerarsi attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, se l’obiettivo della nave è semplicemente quello di far sbarcare i naufraghi. Dice il decreto: “I porti italiani non assicurano i requisiti necessari (come) Place of safety in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area Sar italiana”. Quindi abbiano la compiacenza di fare naufragio qui da noi! Il decreto del 7 aprile opera un richiamo erroneo ed una grave torsione logico-giuridica, delle norme delle Convenzioni internazionali Unclos e Sar: si limita l’ingresso di una nave non perché essa rappresenti un pericolo per lo Stato (presupposto previsto dall’art 19 Unclos), ma perché i porti italiani (“unsafe”) sono un pericolo per le navi. Questo decreto è paradossale e non impedisce lecitamente l’ingresso alle navi soccorritrici (Art 98 Unclos), ma può mettere in scacco l’intera portualità, poiché, assumendo che i porti non sono luoghi sicuri in relazione alla pandemia in atto, si afferma logicamente l’esistenza di un pericolo potenziale per i marittimi comunque presenti in porto. In effetti, alcuni giornali spagnoli hanno scritto che “i porti italiani sono chiusi a tutte le navi straniere fino al prossimo 31 luglio”, evidenziando così che la norma può pervenire ad una pericolosa eterogenesi dei fini. Inoltre, trasbordare i naufraghi su un’altra nave non serve a nulla ed è una ipocrisia, poiché essi sono comunque in acque interne, su nave italiana e totalmente soggetti alla giurisdizione nazionale, dunque sono in Italia. Dunque si tratta solo un aggravio per i contribuenti, se si considera anche che non vi è stato sinora alcun caso di positività tra i migranti soccorsi in mare da Ong, mentre ne arrivano dai cosiddetti sbarchi autonomi, quelli sono incontrollabili. Chiedo se al ministro Paola De Micheli consti che la decisione presa abbia come conseguenza logica e giuridica la dichiarazione di “unsafe” tutte le strutture portuali italiane, con le conseguenze esposte in premessa, e se questa sia a volontà sua e dell’intero governo; quale sia il senso del provvedimento del capo del Dipartimento della Protezione civile, richiesto dal ministro, e che prevede l’inutile trasbordo delle persone salvate da una nave all’altra, impedendo la soluzione più logica, quella dello sbarco e dei successivi controlli sanitari legati all’epidemia di Coronavirus. I migranti della Alan Kurdi siano stati assistiti e posti in quarantena su una nave italiana significa che se questa era la soluzione non vi era motivo per emanare quel dannoso decreto. Dannoso politicamente, ipocrita, e soprattutto che ha messo in discussione il concetto di salvaguardia della vita in mare, violando sia la Convenzione Unclos che la Sar. Concludendo, quel decreto è erroneo, torce le norme internazionali e si traduce in ipocrisia, ma è soprattutto la conferma indiretta, ma chiara, che questo governo non ha alcuna intenzione di modificare i Decreti sicurezza secondo i rilievi del presidente della Repubblica, e che sta procedendo nel segno della continuità con i governi precedenti, in dispregio delle dichiarazioni rese, qui in Senato, dal presidente del Consiglio Conte, dichiarazioni con le quali chiese la fiducia e così ottenne la mia e forse quella di alcuni altri colleghi. Per tutto quanto detto quel decreto deve essere abrogato. *Senatore del Gruppo Misto Cile. Situazione esplosiva delle carceri di Salvatore Izzo farodiroma.it, 23 aprile 2020 Impossibile qualunque misura per limitare i contagi da Covid 19. Drammatica situazione in Cile, dove nel carcere di Puente Alto è scoppiata l’emergenza coronavirus. Si registrano 150 casi, almeno secondo le fonti ufficiali del regime di Piñera. Le misure prese per evitare queste situazioni sono state giudicate inidonee dall’Istituto Nazionale dei Diritti Umani in Cile. Fra i contagiati ci sono sia infermieri che il personale di gendarmeria. La situazione nell’istituto penitenziario è talmente critica che i detenuti hanno cominciato a ribellarsi, nonostante le autorità parlino di “casi isolati”. Secondo la gendarmeria, infatti, non si è trattato di un ammutinamento. Tuttavia, il ritardo, con cui vengono applicati gli indulti commutativi da parte del governo, sta creando malcontento e panico fra i detenuti. Si deve sottolineare come Piñera, poche settimane fa, avesse espresso solidarietà e chiesto il rilascio dei genocidi di Pinochet reclusi nell’esclusivo carcere modello di Punta Pueco. “Hanno un carcere speciale e non sono ammassati, possono godere di molte ore d’aria e si servono del migliore ospedale del Cile, che è l’ospedale militare e dei Carabineros”, ha spiegato la Presidentessa dell’associazione Familiari delle vittime politiche, Alicia Lira. Tuttavia, mentre anziani e detenuti di crimini bagatellari non commuovono il presidente, Piñera ha pianto lacrime di tristezza per questi torturatori incalliti. Intanto, a Puente Alto manca tutto; mascherine, tamponi e presidi sanitari essenziali. Inoltre, il numero del personale sanitario è minuscolo rispetto alla popolazione carceraria. Un luogo in cui è impossibile mantenere il distanziamento fisico fra i detenuti, può trasformarsi molto velocemente in una bomba epidemiologica. Le condizioni di reclusione, inoltre, sono spaventose e spesso i prigionieri non rappresentano affatto un pericolo per la comunità. In Cile, dove le disuguaglianze e la miseria sono montanti, il carcere svolge spesso il compito di reprimere il dissenso e di scaricare contraddizioni che dovrebbero essere risolte sul piano politico. Le manifestazioni di piazza e le numerose vittime di questo autunno, avevano costretto il Presidente a indire un referendum costituzionale, per sottoporre a revisione la costituzione eredita dal regime fascista di Pinochet. Tuttavia, il nuovo coronavirus ha rimandato l’appuntamento. Il Presidente, che si era già divertito ad andare nei ristoranti mentre gli studenti venivano massacrati nelle piazze - un osservatorio delle Nazioni Unite e altre associazioni umanitarie avevano denunciato casi di tortura e di persone rimaste cieche a causa dei colpi sparati dai militari - si è fatto fotografare sorridente nella piazza in cui questo autunno iniziarono i tumulti, Le stupide provocazioni e l’emergenza sanitaria possono ancor di più esasperare un paese in cui la voglia di voltare pagina è tantissima. Tuttavia, la pazienza dei cileni sarà ripagata alle urne, quando finalmente si potrà votare. Nigeria. Coronavirus, Buhari invita Corte suprema a disporre rilascio di altri detenuti agenzianova.com, 23 aprile 2020 Il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha chiesto al capo della Corte suprema, Ibrahim Tanko Muhammad, di disporre la liberazione dei detenuti che sono in attesa di processo da almeno sei anni per decongestionare le carceri nel quadro dell’emergenza coronavirus. In una nota pubblicata su Twitter, il capo dello Stato ha sostenuto che il 42 per cento dei 74 mila detenuti nigeriani sono in attesa di processo, esortando Muhammad a prendere disposizioni, “poiché il distanziamento fisico e l’autoisolamento in simili condizioni sono praticamente impossibili”. Per Buhari, è possibile procedere al rilascio dei detenuti contro i quali non siano stati confermati casi penali, dei più anziani e dei malati terminali. La maggior parte di queste carceri ospita attualmente detenuti al di là delle loro capacità e le strutture sovraffollate rappresentano una potente minaccia per la salute dei carcerati e del pubblico in generale”, ha dichiarato Buhari, sostenendo che la “necessità” di attuare “misure urgenti alla luce delle circostanze attuali”, al fine di “portare la situazione sotto controllo”. Lo scorso 9 aprile, Buhari ha graziato 2.600 detenuti per ridurre il sovraffollamento nelle carceri e rallentare la diffusione del coronavirus del paese, precisando che si trattava di detenuti di età pari o superiore a 60 anni, malati e elementi con meno di sei mesi di pena residua da scontare. La Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa con circa 200 milioni di persone, registra attualmente 782 casi di contagio e 25 morti. Israele. Muore in carcere 23enne palestinese, il corpo verrà restituito solo a condanna conclusa Il Manifesto, 23 aprile 2020 È morto nella notte tra martedì e mercoledì nella prigione israeliana di Ketziot il 23enne Nour al-Barghouti, detenuto palestinese. Si è sentito male in male, i compagni di cella non sono riusciti a entrare e hanno chiamato le guardie, arrivate solo mezz’ora dopo. Solleva dubbi la Palestinian Prisoners’ Society (Pps): “Era giovane e in salute”. La Pps ha chiesto l’autopsia e un’inchiesta sui ritardi nei soccorsi. Il corpo non sarà riconsegnato alla famiglia prima di quattro anni quando terminerà la sentenza di otto anni di carcere, pratica israeliana di rilascio del cadavere di un prigioniero solo a condanna conclusa.