Coronavirus. Cosa sta succedendo nelle carceri? Pochi contagi ma misure a rilento di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 22 aprile 2020 Sono 133 i positivi su una popolazione carceraria di 54.426 persone. Ai domiciliari in 2.200. Fermi scuola e laboratori, lontano il ritorno alle visite dei parenti. Il Garante, Palma: “Diminuiscono gli ingressi e aumentano le uscite, ma non basta”. Antigone: “Alcuni istituti ancora in fase zero, in un carcere chiuso aumenta la violenza”. Il clima è di attesa, anche nelle carceri italiane. Si attende di sapere come sarà la fase 2 dell’emergenza coronavirus, se riprenderanno le visite dei parenti, se ripartiranno i laboratori, e se si tornerà alla “normalità” che in alcuni istituti è già da tempo fuori dal normale. I numeri dei contagiati restano sostanzialmente bassi: in tutto 133 persone, e concentrate in quattro istituti, su una popolazione carceraria di 54.426 persone. Sono usciti dal carcere per scontare la pena in detenzione domiciliare circa 2.200 detenuti, i braccialetti applicati sono intorno ai 500. “La fase 2 in carcere registra un certo ritardo, il problema di ridurre i numeri è ancora all’ordine del giorno così come quello di avere spazi dove poter isolare le persone contagiate. Oggi registriamo una diminuzione: nel gennaio di quest’anno la media giornaliera degli ingressi in carcere era 130 e delle uscite era 70. Attualmente la media delle entrate è 55 e quella delle uscite 110. Ma questo non basta”. A sottolinearlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, in un incontro su Facebook con il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella organizzato da Cild (Coalizione italiana delle libertà e dei diritti civili) e moderato da Andrea Oleandri. Le criticità sono ancora tante, come quella di ottenere la scarcerazione delle persone asintomatiche risultate positive al Covid 19. “In una struttura ci sono 30 i positivi, tutti asintomatici. Ma l’orientamento della magistratura è quello di non valutare la positività asintomatica ai sensi dell’articolo 147 del codice civile per la sospensione della pena, le istanze vengono quasi tutte rigettate - spiega Palma. E questo crea un problema per il contenimento dei contagi”. L’altro tema è quello delle madri con i bambini attualmente in carcere: in tutto sono 44 madri con 47 bambini. “La maggior parte sono negli Icam, ne rimangono 18 negli istituti - spiega il Garante - La prima soluzione sono le case famiglia protette, ma i Comuni in questi anni non hanno investito su questo tema. Ora serve responsabilità, è un problema che si può risolvere con facilità”. Più difficile e complicato è il tema della scuola e del lavoro: le attività didattiche e i laboratori sono fermi e difficilmente riprenderanno a breve. “In questo momento si sta sperimentando il non far niente dentro le carceri e vale anche per scuola e università. Sono 926 gli studenti universitari in carcere, in molte situazione si stava sviluppando il ruolo della didattica, ora si è tutto bloccato con un silenzio mostruoso - aggiunge Palme -. Questo vale anche per le attività interne, che non servono solo a far passare il tempo ai detenuti ma sono funzionali alla riappropriazione de tempo futuro per quando si esce. Ho mandato lettere ai ministri Bonafede ed Azzolina per capire cosa si intende fare, perché la scuola a distanza in carcere non esiste. Va invece aperta la discussione su come chiudere l’anno scolastico, capire chi ha gli esami come farà. Insisterò per avere una soluzione non episodica ma una soluzione che copra tutto il territorio nazionale”. Va meglio la sperimentazione a distanza dei colloqui coi parenti in videoconferenza o via skype, una soluzione che ha permesso a molti di raggiungere anche parenti anziani o molto lontani, che normalmente non partecipano alle visite in carcere. E che per questo potrebbe essere mantenuta anche nella fase successiva, contemporaneamente al ripristino alle visite di persona. Ma sono tanti i problemi che esistevano già prima della pandemia e che ora, date le misure straordinarie, risultano ancora più difficili da superare. “Alcune carceri da prima del coronavirus erano già nella fase zero, molto è lasciato nelle mani della cultura o sottocultura dei direttori - sottolinea il presidente di Antigone - Patrizio Gonnella. Bisogna quindi continuare a monitorare la situazione. Le nostre richieste sono tre: la prima è quella di ridurre le presenze, dal 1 marzo ci sono 7000 persone in meno E questo è positivo. Ma dobbiamo puntare ad evitare che ci siano nuovi positivi in carcere e insistere nella direzione della scarcerazione. Chi è a saldo zero per la sicurezza dovrebbe poter uscire, penso alle persone in fine pena e ai più vulnerabili. Per questo ci appelliamo alla magistratura di sorveglianza: abbiamo predisposto anche nostri materiali perché alcuni possano accedere alla detenzione domiciliare più facilmente”. Il secondo elemento di attenzione è quello della prevenzione del contagio: “vorrei che, si agisca con meno arroganza e non si vada dietro ai finti esperti che parlano del carcere come il posto più sicuro al mondo. Abbiamo visto cosa è successo nelle Rsa, se dovesse arrivare anche negli istituti penitenziari la situazione sarebbe drammatica”. Infine anche Antigone si dice preoccupata per la chiusura delle attività interne al carcere: “Non si può legittimare nessun ritorno indietro: bisogna elevare il livello di attenzione. Un carcere chiuso è un carcere più esposto a violazioni e violenze”. In carcere ci sono meno detenuti, ma le condizioni sanitarie restano pessime di Pietro Mecarozzi linkiesta.it, 22 aprile 2020 Pochi contagi ma misure a rilento. Oltre alla mancanza di spazi e alla scarsa strumentazione tecnologica per i colloqui da remoto. Qualcosa è stato fatto, ma la strada è ancora lunga. “Nelle carceri qualcosa è cambiato, ma è ancora troppo poco”. A dirlo sono le associazioni che operano all’interno degli istituti stessi, i sindacati della polizia penitenziaria e i dati ufficiali. A più di un mese di distanza dalle sommosse, sono oltre 6 mila i detenuti in meno negli istituti penitenziari italiani: circa 55 mila presenze a fronte delle 61 mila del 29 febbraio scorso. In termini di contagi, invece, si registrano 105 situazioni di positività tra le persone detenute e 204 contagi tra gli agenti penitenziari. Numeri stabili, anche se difficili da reperire. “La nostra comunicazione con l’interno degli istituti si è complicata non poco” spiega a Linkiesta Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio carceri dell’associazione Antigone. “Oltre ai dati, che ci arrivano con difficoltà e spesso in maniera ufficiosa, uno dei maggiori problemi sono i collegamenti da remoto, in quanto molti istituti non dispongono della strumentazione adeguata al numero di detenuti presenti”. Secondo il report di metà 2019 dell’associazione, infatti, nell’81,3 per cento delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. Un dato che pone di fronte un interrogativo: esiste un piano complessivo per gli istituti penitenziari per superare l’emergenza sanitaria e convivere con i cambiamenti dettati dal virus? La risposta, per il momento, è no. “C’è stato un aumento delle mascherine e il numero dei detenuti in diminuzione, tra quelli usciti e soprattutto quelli non entrati, è certamente un passo in avanti” aggiunge Gennarino De Fazio, segretario nazionale dell’organizzazione sindacale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Quello che manca però è lo spazio per garantire una sicurezza condivisa. Gli agenti mettono a repentaglio la propria incolumità e quella della persona detenuta, in quanto non esiste luogo per poter applicare un isolamento preventivo o per garantire un’assistenza sanitaria immediata”. La capienza regolamentare ufficiale del sistema carcerario italiano è di circa 50 mila posti, quando i detenuti continuano a essere circa 55 mila. In aggiunta, ricorda Scandurra, a quelle aree “in manutenzione, quasi sempre presenti, e a quelle che dopo le rivolte di marzo sono rimaste inagibili”. Quello che di cui necessita il detenuto, però, è anche il contatto con l’esterno. “Bisogna evitare di arrivare al “carcere che prigionizza”. Se abituiamo ancor di più i detenuti a vivere dentro gli istituiti, allontanandoli dalla vita esterna, potrebbe crearsi una situazione drammatica e di conseguenza ingestibile” dice a Linkiesta Emilio Santoro, filosofo del diritto e presidente del comitato scientifico dell’associazione L’altro diritto. Parallelamente a questo, alcuni progetti prevedono un incremento della potenza della banda larga e la fornitura di device in grado di subentrare alla rete tradizionale dei colloqui di persona. E se Antigone ha cominciato a distribuire smartphone alle carceri più affollate, Cisco, multinazionale specializzata nella fornitura di apparati di networking, ha messo a disposizione la piattaforma Cisco Webex - normalmente usata per le videoconferenze e la collaborazione in ambito aziendale - per dare la possibilità ai detenuti di tenere i colloqui in forma virtuale. L’iniziativa è stata avviata a metà marzo nel carcere di Bollate a Milano, per poi essere condivisa e adottata da altri 30 istituti. Grazie alla piattaforma i detenuti hanno a disposizione ogni giorno anche 30/40 colloqui da spartirsi, con la possibilità così di continuare a esercitare il proprio diritto alla relazione con i familiari. Più difficile e complicato è il tema della scuola e del lavoro. Sono 926 gli studenti universitari in carcere, ma ad oggi le attività didattiche e i laboratori sono fermi e difficilmente riprenderanno a breve. Sempre nell’ottica dei diritti da tutelare, prima di tutto, ripetono le associazioni, rimane comunque la salute. Secondo i dati del dossier che il Sindacato polizia penitenziaria ha presentato al ministero della Salute lo scorso febbraio “due detenuti su tre sono malati, tra i 25 mila e i 35 mila sono affetti da Epatite C, in aumento Hiv positivi (6.500) e tubercolosi, almeno un migliaio i detenuti con problemi mentali nelle celle di istituti normali e 1200 in istituti specifici”. “Abbiamo chiesto misure più intense per chi in carcere ha problemi di salute. Ma in molte realtà questo è praticamente impossibile, proprio per lo stato in cui versano gli istituti” continua Scandurra. Un’alternativa a questo potrebbe quindi essere l’applicazione di meno paletti sulla detenzione domiciliare e maggiori misure alternative. Il Garante ha riferito che, rispetto al calo dei detenuti, per 2.078 casi si è trattato di uscita in detenzione domiciliare, di cui 436 con applicazione del braccialetto elettronico e 425 casi di licenze fino al 30 giugno per persone semilibere. “Quello che si chiede, quindi, è un alleggerimento più massiccio delle carceri di altri 8-10 mila detenuti, in modo da evitare che le prigioni diventino dei luoghi ideali per la propagazione del contagio” commenta Scandurra. Quanto ai braccialetti elettronici, ad oggi risultano insufficienti. Quelli disponibili fino al 15 maggio sono 2.600, anche se teoricamente dovrebbero essercene almeno 15 mila, visto che il contratto con Fastweb (la compagnia che ha vinto il bando di gara) prevede la fornitura di 1000-1200 braccialetti mensili per l’intera durata triennale. “Sono anni che parliamo di reinserimento del detenuto, declinato alla sua responsabilizzazione nella società. Controllare con una macchina il detenuto è tutto fuorché responsabilizzante” conclude Santoro. “Non so cosa farà il detenuto una volta lasciato libero con il solo braccialetto. Tant’è vero che prima del Cura Italia questo strumento si era usato pochissimo come misura alternativa. C’è una cultura dietro alla scelta di non mettere il braccialetto elettronico, che in un’ottica di riorganizzazione degli istituti deve essere comunque tenuta di conto”. Bando da 5 milioni per mandare ai domiciliari i detenuti senza casa di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 aprile 2020 Dal ministero della Giustizia fondi a enti locali e associazioni del terzo settore che offrono ospitalità ai carcerati che non hanno fissa dimora: previsti 20 euro al giorno a persona. Il sottosegretario Giorgis: questa misura può diventare strutturale. La concessione degli arresti domiciliari a chi deve scontare pene o residui di pena inferiori a un anno e mezzo, annunciata dal governo per alleggerire il sovraffollamento carcerario in piena emergenza coronavirus, trova spesso un ostacolo nell’assenza del domicilio dove trasferire il detenuto. Si tratta degli “ultimi tra gli ultimi”: stranieri o poveri senza fissa dimora, persone con situazioni familiari o ambientali che non sono in grado di trovare accoglienza, costrette a rimanere dietro le sbarre, a rischio della salute propria e degli altri, anche se avrebbero diritto di uscire. Per fronteggiare questa situazione la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia ha emesso due bandi con lo scopo di finanziare “l’inclusione sociale di persone senza fissa dimora”, con l’obiettivo di tirare fuori dalle celle chi non ha una casa dove scontare gli arresti domiciliari. Sono stati stanziati cinque milioni di euro, destinati ad enti locali e realtà del cosiddetto “terzo settore” disponibili a offrire ospitalità o soluzioni abitative e di accoglimento per i detenuti più disagiati. I soldi del finanziamento statale arriveranno tramite la Cassa delle ammende, alla quale hanno già cominciato a rivolgersi le Regioni interessate, e gli stanziamenti prevedono un contributo di venti euro al giorno per ciascuna persona accolta, “per un periodo di sei mesi e, comunque, non oltre i diciotto mesi”. “Una misura nata per rispondere all’emergenza - sottolinea il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, che ha la delega sull’esecuzione penale esterna e ha curato personalmente la realizzazione di questo progetto - ma che può e deve diventare una risposta strutturale, in modo da rendere realmente la pena un passaggio per il recupero sociale del detenuto”. Le cifre del sovraffollamento dicono che sebbene i reclusi siano scesi, nell’ultimo mese e mezzo di circa seimila unità, c’è ancora una eccedenza tra detenuti e posti agibili nei penitenziari italiani di almeno settemila persone. E la concessione dei domiciliari a chi ne avrebbe diritto secondo le norme già esistenti e il decreto anti-Covid varato a marzo procede a rilento; sia per la difficoltà a reperire i braccialetti elettronici, previsti per chi ha i residui pena più lunghi, sia perché non tutti hanno a disposizione la casa dove andare. L’offerta di contribuiti statali a chi si fa carico di trovare alloggi e sistemazioni idonee per ridurre la popolazione carceraria serve anche, prosegue Giorgis, “a realizzare le condizioni per una più effettiva e diffusa fruibilità delle misure alternative e di percorsi trattamentali capaci di favorire il graduale reinserimento del detenuto nel tessuto sociale, prevenendo i rischi di recidiva e, di conseguenza, rafforzando la sicurezza collettiva”. Il coinvolgimento degli enti locali, delle cooperative e del mondo del volontariato, insomma, potrebbe diventare l’occasione per favorire una “pratica virtuosa” di cui dovrebbero beneficiare tutti: il detenuto, al quale viene garantito in concreto un diritto sancito dalla legge; il sistema carcerario, che ne guadagna in sicurezza e vivibilità; la società esterna, che aumenta la possibilità di vedersi restituire, a pena scontata, persone già reintrodotte nel circuito sociale. Carceri, in arrivo 1.000 operatori socio-sanitari di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 aprile 2020 Bonafede: “C’è massima attenzione”. Sono 1.000 gli operatori socio-sanitari che presteranno la propria attività presso gli istituti penitenziari individuati dal Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità per un periodo consecutivo fino al 31 luglio 2020. Lo dispone l’ordinanza della Protezione Civile di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze che destina altri 500 operatori alle residenze per anziani e disabili. Per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si tratta “del risultato dell’impegno congiunto di Protezione civile, ministero della Giustizia e ministero della Salute e degli Affari regionali”. “Questa è la dimostrazione - ha aggiunto il Guardasigilli - che, ancora una volta, le istituzioni unite possono puntare al raggiungimento di risultati ambiziosi e importanti. La tutela di chi lavora e vive all’interno delle carceri è un fronte a cui tutto il Governo sta prestando massima attenzione”. Anche il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi ha commentato la notizia della pubblicazione del bando. “La salute di chi lavora e vive nelle carceri - ha dichiarato Ferraresi - è in cima alle nostre priorità, questa task force di nuovi operatori darà grande aiuto al personale sanitario e sono certo che gli italiani, anche in questa occasione, saranno capaci di grandi slanci di generosità e partecipazione”. Possono partecipare alla procedura di selezione gli operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale, i dipendenti di strutture sanitarie anche non accreditate e operatori liberi professionisti purché in possesso del titolo di “Operatore Socio Sanitario” ai sensi dell’Accordo tra il Ministro della Sanità, il Ministro della Solidarietà Sociale e le Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano del 22 febbraio 2001. È possibile partecipare alla procedura di selezione compilando questo form: https://osspercovid.protezionecivile.it/index.php?r=survey/index&sid=546625&lang=it-informal sulla pagina della Protezione Civile fino alle ore 20:00 del 22 aprile 2020. Coronavirus, anche grazie ai detenuti i sussidi e i rimborsi per gli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2020 Dai fondi dell’Ente di assistenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Qualche giorno fa c’è stata una buona notizia accolta con favore anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Per il personale penitenziario contagiato dal Covid-19 ci saranno rimborsi e sussidi. È l’ente di assistenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che, al fine di garantire protezione e sostegno economico, ad aver stabilito l’erogazione di forme di sussidio in favore di tutti gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e al personale civile dell’Amministrazione che abbiano contratto il coronavirus, a partire dal primo febbraio 2020. Si è appreso che il capo del Dipartimento, Francesco Basentini, con una nota esplicativa inviata a tutte le sedi dell’Amministrazione e al Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, ha specificato le differenti forme di sussidio previste, che vanno da una diaria da isolamento, pari a 50 euro, per ogni giorno di permanenza presso l’abitazione o altra sede protetta, a un’altra, pari a 150 euro, per ogni giorno di ricovero in istituto di cura, entrambe per un massimo di 14 giorni. È stato previsto anche un indennizzo una tantum di 4mila euro, in caso di ricorso a terapia intensiva o sub- intensiva, e il rimborso, fino ad un massimo di mille euro, in caso di trasporto in autoambulanza per dimissioni dall’istituto di cura. Un fatto doveroso visto che il personale degli istituti penitenziari, così come i detenuti, vivono tuttora in perenne difficoltà, anche per via del difficile reperimento dei dispositivi di protezione individuale. Al momento secondo una stima (non è un dato certo) del sindacato Uil-pa polizia penitenziaria risulterebbero circa 250, gli agenti che sono stati infettati dal Covid-19. Sussidi e rimborsi quindi doverosi. L’ente è stato istituito dall’art. 41 della legge 15.12.1990, n. 395, che gli ha conferito personalità giuridica di diritto pubblico. Si tratta di un ente pubblico autonomo dall’Amministrazione penitenziaria, sottoposto alla vigilanza del ministro della Giustizia, al quale la legge conferisce compiti istituzionali e risorse economiche proprie. L’ente provvede all’assistenza degli orfani del personale dell’Amministrazione penitenziaria; al conferimento dei contributi scolastici, alla concessione di borse di studio ai figli del personale anzidetto; alla concessione di sussidi agli appartenenti al personale dell’Amministrazione penitenziaria, ai loro coniugi superstiti, ai loro orfani ed eccezionalmente ad altri loro parenti superstiti, in caso di malattia, di indigenza o di altro particolare stato di necessità; alla gestione, anche indiretta, di sale convegno, spacci, stabilimenti balneari o montani, centri di riposo sportivi, e ad ogni altra iniziativa intesa a favorire l’elevazione spirituale e culturale, la sanità morale e fisica, nonché, il benessere dei dipendenti e delle loro famiglie e alla concessione di premi al personale che si sia distinto in servizi di eccezionale importanza. Ma quali sono le entrate? Sono diverse, ma leggendo i bilanci c’è una sorpresa. Le maggiori entrate provengono dai soldi dei detenuti. Quindi l’ente di assistenza si mantiene in gran parte grazie ai reclusi. Dunque, in ultima istanza, i sussidi e rimborsi alla polizia penitenziaria li pagano proprio i detenuti. Come? Dagli aggi sulla vendita dei generi di monopolio e di valori bollati, effettuata presso gli istituti penitenziari, attribuiti dall’art. 41 della legge 15 dicembre 1990, n. 395. I detenuti, si sa, sono i maggiori consumatori di tabacco. L’aggio è il profitto lordo ricavato dai generi del monopolio ed è quel profitto che costituisce una delle entrate dell’ente. Basterebbe leggere il bilancio preventivo per l’anno 2020 e la voce dove risulta l’entrata più considerevole (3 milioni e mezzo) è proprio quella relativa ai proventi da riassegnazione di bilancio per gli aggi sui tabacchi. Anche questa, in fondo, è una buona notizia. Forse utile per evitare quell’idea che porta a una suddivisione tra guardie e ladri, quasi come una forma di antagonismo all’interno delle patrie galere. Mentre, nei fatti, si dovrebbe parlare di comunità penitenziaria. Dove detenuti e detenenti potrebbero addirittura essere solidali tra loro. Da Opera a Santa Maria Capua Vetere: nelle carceri, tutta l’inciviltà italiana di Giusy Santella mardeisargassi.it, 22 aprile 2020 Se il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, come ci ricorda Dostoevskij, l’Italia sta sicuramente dimostrando di non essere per nulla civilizzata. Mentre al di fuori degli istituti penitenziari ci si avvia verso la cosiddetta fase 2, sognando una lenta ripartenza del sistema economico e sociale, all’interno delle carceri l’emergenza è ancora in piena diffusione. Il numero dei detenuti si sta lentamente abbassando: al 21 aprile si contano quasi 54526 presenze a fronte delle iniziali 61200, tuttavia si tratta di una diminuzione per nulla sufficiente ad affrontare la crisi poiché ancora lontana dalla capienza regolamentare. Nel 2013, in seguito alla sentenza Torreggiani - caso nel quale il detenuto del carcere di Busto Arsizio aveva sperimentato sulla propria pelle gli effetti di un sovraffollamento del 249% - al fine di evitare la condanna definitiva della Cedu per violazione dei diritti umani, l’Italia raggiunse i 52mila reclusi, un trend che successivamente non ha saputo mantenere. Anche la scorsa settimana, dopo il ricorso presentato da parte di due avvocati il cui assistito è un ospite dell’istituto di Vicenza al quale è stata negata la possibilità degli arresti domiciliari, il Consiglio d’Europa ha chiesto spiegazioni al governo sulle misure che sta adottando per fronteggiare il rischio di trasformare le carceri in veri e propri lazzaretti. Spiegazioni che il Ministro Bonafede ha tenuto a mantenere segrete, come se non si trattasse di responsabilità di cui dar conto all’intera collettività. Ma il calo di presenze di cui parliamo non è dovuto all’applicazione delle irrisorie misure stabilite con il Decreto Cura Italia che probabilmente verranno totalmente confermate senza alcuna modifica in fase di conversione, bensì all’applicazione elastica di norme già presenti nel nostro ordinamento e alla concessione di benefici già applicabili in condizioni di normalità seppur raramente applicati, mettendo in luce la mancanza di volontà politica di porre una fine definitiva al sovraffollamento: le misure adottabili esistono ma si preferisce stipare in carceri disumane chi ha commesso un reato privandolo non solo della libertà, ma anche della sua dignità. Inoltre, la diminuzione dei reclusi è disomogenea sul territorio nazionale e risulta insufficiente soprattutto nelle regioni in cui il contagio registra una più ampia diffusione. Non a caso, nonostante il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte assicuri che per le carceri sono state utilizzate tutte le massime precauzioni per evitare la propagazione del virus, i numeri dei contagi crescono: al 21 aprile si contano 133 positivi tra la popolazione detenuta e più di 200 tra gli operatori, in particolare agenti della penitenziaria e personale medico. Si contano, inoltre, due morti tra i reclusi, uno nel carcere di Bologna e uno in quello di Voghera. A questi si aggiunge la prima vittima da coronavirus della Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) di San Maurizio Canavese, a Torino. Dunque, checché ne dicano il leader della Lega Matteo Salvini e il procuratore Gratteri, il carcere non è un luogo impermeabile e riparato dal contagio. E sembra non essere neppure un luogo riparato dai soprusi e dalle ingiustizie, secondo quanto emerso nelle ultime settimane. Dopo le proteste scoppiate a inizio marzo - durante le quali hanno perso la vita 13 detenuti su cui pochissime parole sono state spese -, in moltissime case circondariali sono state denunciate azioni vessatorie nei confronti di quelli che vengono definiti “i rivoltosi”. Innanzitutto, si sarebbero verificati numerosi trasferimenti a scopo punitivo e senza alcun preavviso alle famiglie. In molti sarebbero anche stati privati dei più elementari diritti: come segnalato all’Associazione Antigone, nel carcere di Opera (Milano) a un numero indefinibile di detenuti sarebbe stata negata la possibilità per oltre venti giorni di fare la spesa poiché, in base a quanto dichiarato dal direttore ad alcuni familiari, i loro conti sarebbero risultati bloccati a titolo di pignoramento per il risarcimento per i danni causati alla struttura durante le rivolte, ex art. 72 D.P.R. 230/00. Provvedimenti arbitrari di cui nessuno era informato. Solo dopo le denunce delle famiglie, i conti sarebbero stati sbloccati ma unicamente per l’acquisto di acqua, caffè e sigarette. Inoltre, ai detenuti sarebbe stata sequestrata la televisione, negando persino l’ora d’aria e il vitto per vari giorni. Ma non è tutto: purtroppo, i fatti più gravi riguardano violenze i cui particolari, fino alla scorsa settimana, non erano ancora emersi. In base a quanto comunicato ad Antigone, all’associazione contro gli abusi in divisa e al Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, il 9 marzo - il giorno della rivolta di Opera - vi sarebbero stati due interventi delle forze dell’ordine, il primo per far rientrare i detenuti in rivolta, il secondo all’interno delle celle. Le testimonianze delle famiglie, coincidenti tra loro, parlano di manganellate in pieno viso, calci e pugni. Una madre racconta di aver parlato attraverso una finestra con il figlio detenuto: “Gli agenti sono entrati in dieci in cella e mi hanno colpito fortissimo in testa e nei testicoli”. Al suo avvocato gli agenti avrebbero risposto che il ragazzo ha avuto qualche ceffone, ma sta bene. I racconti continuano: i reclusi mettono in guardia le proprie mogli e ricordano loro che non si suiciderebbero mai né potrebbero morire per assunzione di stupefacenti o metadone, temono che le violenze e addirittura le morti vengano occultate. Le telefonate rimangono sospese per molti giorni e bruscamente interrotte quando si accenna a quanto avvenuto. Il 21 marzo arriva una nuova testimonianza, un detenuto ha il coraggio di denunciare quanto subito: “Mi sono avvicinato a chiedere dei miei diritti per fare la spesa settimanale, l’agente mi ha risposto in modo provocatorio e dopo un po’ è tornato accompagnato da altri 5 agenti, mi ha preso sotto braccio e mi ha portato in cella, dove mi hanno bloccato e mi hanno colpito con calci e pugni”. Se queste ricostruzioni fossero confermate, l’Associazione Antigone chiederà che tali atti siano qualificati come tortura commessa da pubblici ufficiali ai sensi dell’art. 613 bis del Codice Penale. Purtroppo tale esposto, presentato dall’organizzazione che da anni si occupa dei diritti dei detenuti, non è il solo poiché fatti analoghi sarebbero accaduti a Melfi - dove i reclusi sarebbero stati presi a sprangate - e più di recente a Santa Maria Capua Vetere. Nel carcere campano in provincia di Caserta, in cui si vive una condizione tragica di sovraffollamento e di mancanza di un allaccio alla rete idrica cittadina, si sarebbe verificata una vera e propria rappresaglia ai danni dei detenuti, colpevoli di non voler rientrare nelle proprie celle dopo aver ricevuto la notizia che un ospite della sezione alta sicurezza, in attesa di giudizio, era risultato positivo al coronavirus. In una situazione di panico come quella attuale è molto facile cedere ad atti di insubordinazione, spinti dalla necessità di farsi ascoltare e di veder tutelato il proprio diritto alla salute. Tuttavia, in base alla ricostruzione fatta dalla magistratura di sorveglianza lunedì 6 aprile, il giorno successivo, non si sarebbe trattato di una rivolta, bensì di un’occupazione simbolica della sezione accompagnata da battitura, tra l’altro conclusasi la sera stessa. Ciò nonostante, si sarebbe verificata una vera e propria rappresaglia da parte della polizia penitenziaria dopo la visita dei giudici: quasi 100 poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero riempito le sezioni iniziando i pestaggi nelle camere di pernottamento. E per umiliarli più di quanto quotidianamente la reclusione non faccia, avrebbero condotto i detenuti nei corridoi, obbligandoli a spogliarsi e a tagliarsi barba e capelli, tuttavia senza considerare la possibilità che alcuni di essi sarebbero tornati a casa, agli arresti domiciliari, avendo così la possibilità di mostrare le ferite sul proprio corpo e di farsi portavoce di chi è rimasto in carcere costretto al silenzio. Gli atti di servizio di quel pomeriggio parlano di perquisizione straordinaria, finalizzata alla bonifica in seguito alle proteste: dunque gli agenti avrebbero dovuto perquisire le celle per rinvenire eventuali oggetti “irregolari” in seguito ai disordini delle ore precedenti. Eppure, si sarebbe verificato tutt’altro, mettendo in atto una vera e propria vendetta. Verrebbe da chiedersi per cosa. Probabilmente, uno Stato che ha necessità di reprimere e silenziare qualsiasi opposizione si sente offeso quando persone che per molti non avrebbero neppure diritto di vivere si permettono di alzare il capo e chiedere di essere tutelate, o che venga salvaguardato l’inviolabile diritto alla salute di cui sono portatrici come ogni cittadino. Spesso, di fronte a questo genere di violenze si invoca l’art. 41 dell’ordinamento penitenziario che consente l’uso della forza se indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione e per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti. Tale disposizione, che di per sé crea qualche perplessità poiché suscettibile di rischiose applicazioni estensive, non sarebbe comunque applicabile al caso di specie poiché la protesta si era oramai conclusa da svariate ore. Tuttavia, quelle di Opera e Santa Maria Capua Vetere sono solo due delle innumerevoli e vergognose ripercussioni denunciate: anche nella casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, si segnalano violenze nelle celle di giù, riportando a galla lo spettro della cella zero. E le stesse violenze fisiche e psicologiche sono state accertate nell’istituto di Pavia-Torre del Gallo. Quanto avvenuto nelle ultime settimane è la dimostrazione dello Stato repressivo in cui ci troviamo, lo stesso Stato repressivo che di fronte a manifestazioni pacifiche e con il rispetto delle distanze di sicurezza al di fuori di Rebibbia ha caricato i familiari presenti e ha obbligato otto persone a salire su un solo blindato, trasgredendo proprio a quelle norme sul distanziamento sociale che afferma di difendere. Uno Stato violento, le cui barbarie sono segno di una civiltà al declino che, quindi, non può essere più definita tale Sintomo della disumanità che si annida e striscia negli istituti, lasciando morte e dolore alle proprie spalle. Chiusi, soli, in pochi meni: così signora vive un carcerato di Valerio Spigarelli Il Riformista, 22 aprile 2020 Ora che siamo tutti in quarantena e contiamo i passi e i minuti all’aria aperta, forse si smetterà di fare battute feroci sulle condizioni dei detenuti e si capirà finalmente quanto terribile sia la prigione. In fila al supermercato. Distanziamento sociale rispettato, stiamo in coda nel grande parcheggio, ognuno sta almeno a tre metri dall’altro. Sono i privilegi degli abitanti di Roma nord, dicono. A destra e a sinistra ancora meglio, ho almeno dieci metri dall’una e dall’altra parte, così, letti i giornali, mi metto a fare avanti e indietro, lasciando il carrello in mezzo. Tanto la fila durerà almeno un’ora. Un po’ di moto fa bene e uno ne approfitta. Cammino con passi rapidi, perché dicono che solo così fa bene. Dieci metri a destra del carrello, dieci metri a sinistra. I vicini di fila neppure mi guardano, di questi tempi le stravaganze fanno parte dell’arredo urbano. Alla terza volta che lo faccio esamino i miei gesti. Quei passi svelti che si arrestano ad un certo punto, e tornano su sé stessi, poi si arrestano e tornano ancora, li ho già visti. Li ho visti a Rebibbia, li ho visti all’Ucciardone. In carcere, all’aria, i detenuti camminano così. Da soli, o a gruppi di due o tre. Camminano rapidi verso un muro, poi fanno dietro front e tornano indietro. Camminano svelti verso il limite di un campetto, arrivano alla fine e ripartono. Su e giù, a volte per un’ora. Non sono gesti naturali, lì c’è la necessità di capitalizzare ogni movimento; stare all’aria è un permesso temporaneo in prigione e bisogna sfruttare ogni istante. Spesso la cosa si svolge in piccoli cortili coi muri alti, e diventa ancora più innaturale. A vederli da distante sembrano formiche impazzite, anche in questo modo capisci cos’è la prigione. E io cammino così, da libero, nel parcheggio del supermercato. Quando, finalmente, una signora dietro di me mi chiede “Ne approfitta per fare ginnastica?” vorrei risponderle “No, ora che ci sono le condizioni volevo solo farvi capire come si sta in galera. Volevo solo spiegare, per una volta non con le parole, a voi ben pensanti, così ampiamente rappresentati in politica, a destra e a sinistra, cosa vuol dire anche un solo giorno di galera. Farvi vedere quanto sia innaturale poter uscire solo per poco tempo all’aria aperta. Mostrarvi come ti tocca succhiarla, aria aperta, quando diventa un bene prezioso che si conta a minuti. Come sia umiliante dover ridurre i propri gesti a caricatura di movimenti. Di come sia penoso per un essere un umano avere un confine invalicabile fatto da un muro, da una rete, da una porta chiusa, da un catenaccio, o anche solo immaginario. Ora che anche voi vi lamentate di quanto forte è la costrizione persino a stare a casa forse è il caso di farvelo vedere. Ora che fate battute, in fila al supermercato o al telefono con gli amici. sui “domiciliari” cui siete costretti nei vostri bei salotti spaziosi. I “domiciliari”, sì signora, ha presente quelli che fino a due mesi fa commentava col sorriso sprezzante ogni volta che ne parlavano in televisione? “Ecco, li mandano a casa, vedi tu che punizione!” chiosava; però ora capisce che c’è poco da ridere, che anche stare chiuso in casa è penoso, pesante, umiliante. Oggi che vi scambiate simpatiche battute sui social su quanto sia insopportabile campare gomito a gomito coi vostri mariti, coi vostri figli, ventiquattr’ore al giorno, magari un millesimo di secondo lo dedicherete a pensare che forse le altre battute, molto più feroci, che avete fatto quando avete visto i detenuti sui tetti, erano gaglioffe. Ora che vi lavate le mani tutti giorni mille volte al giorno, anche se non siete neppure usciti di casa, perché avete una gran fifa del Corona, magari capirete la paura dei detenuti che, da animali in gabbia che fanno su e giù nel cortile, oggi si sentono trasformati anche in cavie. Loro, che stanno “dentro” e hanno paura perché le mascherine non le hanno, i disinfettanti neppure, perché campano ammassati uno sull’altro e mangiano quel che cucinano in un cesso. Forse ripenserete a quando vi siete spellati le mani, durante i talk, quando una di quelle iene manettare che invitano ogni giorno in televisione perché la pensano come la maggioranza degli italiani, ha irriso i cuori teneri dicendo che in galera i detenuti stanno al sicuro dal Corona come i liberi, se non di più. E vi farei leggere le ordinanze dei giudici italiani che hanno ripetuto la stessa enormità, in questo mese, rigettando le richieste di chiedeva di andare ai domiciliaci avendo malattie che espongono a maggiori rischi. E parlo dei giudici di merito, quelli che hanno a che fare coi presunti innocenti. Molte ordinanze così: e chissà se tra qualche anno la magistratura italiana ne andrà fiera. Ora che vi fa incazzare sentirvi oggetto del potere illimitato della prima divisa che incontrate per strada, che vi chiede dove andate, e perché lo fate, che vi costringe a tornare sui vostri passi, che vi tratta come bambini, forse potrete capire. Potrete comprendere che le pene detentive, che si fondano sul dominio assoluto dei corpi delle persone, che la prigione, che schiaccia e al tempo stesso infantilizza, sono cose terribili. Sono le cose più dolorose che possono capitare qui da noi. Sono necessarie, perché non abbiamo ancora ideato qualcosa di meno disumano, ma tremende, non c’è da scherzarci, non c’è da sorridere, non c’è da sotterrarle. Soprattutto non c’è da dire che qui da noi “in galera non va nessuno”, perché non è vero, le carceri scoppiano. Se, come ripetete garrirli nei vostri cinguettii o affacciati ai balconi, avete capito oggi quanto è bella la libertà, fermatevi a pensare a quanto sia dolorosa, e afflittiva, la sua mancanza. E lo sa che le dico, signora, se solo servisse a farvi capire questo, se solo aiutasse a farvi comprendere quanto è orribile la detenzione, almeno una cosa buona il Corona l’avrebbe portata. Però ci vorrebbe una riflessione seria, che duri un po’ di più della “sbattuta di mani” che Lei e i suoi cari avete fatto guardando la via crucis di Bergoglio in televisione e ascoltando le voci dolenti del carcere. Quella è una penitenza che è servita solo a voi, a loro no”. Avrei dovuto risponderle così, alla signora, ma non l’ho fatto, ovviamente, perché con questa voglia di galera che c’è in giro magari chiamava la polizia. Chiedere di abolire il carcere è un obbligo di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 aprile 2020 Deve farlo ogni politico contrario a questa brutalità, a costo di giocarsi anche l’ultimo voto. Dire “tanto non si può” significa ritenere la galera un male necessario, come si diceva della schiavitù. Chi ha responsabilità politiche e di governo può decidere che la situazione delle carceri resti com’è. Può spiegare al Paese che è giusto, o almeno non così grave, che il nostro ordinamento sequestri la vita dei detenuti affidandola a un dispositivo di sistematica degradazione. Può spiegare che lo Stato fa bene, o almeno non fa nulla di male, se condanna i carcerati non solo alla privazione della libertà, ma alla disperazione, alla tortura, alla malattia, allo stupro, al suicidio. Perché di questo si tratta: del fatto risaputo e documentato che i detenuti sono sottoposti alla pena di quel regime sopraffattorio e violento. E appunto: si dica che deve essere così, o quanto meno che bisogna accettare che sia così. Ma se chi ha responsabilità politiche e di governo ritiene al contrario che lo Stato non possa continuare nell’esercizio di questa paternità aguzzina, esponendosi cioè alla responsabilità diretta di aver costruito, mantenuto e alimentato un sistema che tormenta in quel modo degli esseri umani, allora deve far qualcosa che finora non è stato fatto. Cosa? Non pur encomiabili convegnucci o articoli come questo: buoni a far sapere che almeno per alcuni i condannati non devono marcire in galera, ma nulla più. Non pur opportuni emendamenti all’ennesimo strumento di ingiustizia: come a ottenere che al condannato sia concessa l’ultima sigaretta. No. A chi ha il potere di fare le leggi competerebbe di impegnare il proprio nome, la propria funzione, la propria carriera nella subordinazione a un dovere ben più implicante, nell’assunzione di un obbligo ben più urgente: il dovere di proporre l’abolizione del carcere, e l’obbligo di farlo per quanto la sua proposta appaia incapace di trovare consenso e piuttosto si condanni alla riprovazione comune. Proporre l’abolizione della pena detentiva, e che la privazione della libertà possa essere disposta solo nei confronti dei soggetti effettivamente e attualmente pericolosi: e non per punirli ma unicamente per impedir loro di nuocere ulteriormente alla vita o all’incolumità degli altri. E dire chiaramente che si è disposti a perdere sino all’ultimo voto se questo deve essere il costo della rinuncia all’inerzia. Perché la vergogna del carcere, l’ignominia della brutalità di Stato, l’inutile violenza della pena sono questioni su cui si misura non si dice l’onore della politica, ma dello stesso vivere civile (l’onore di vivere, avrebbe detto Leonardo Sciascia): e riformare radicalmente il sistema che organizza questo ripugnante apparato di afflizione dovrebbe costituire un intransigibile motivo di impegno per qualsiasi militanza politica appena degna. Si conosce l’obiezione: che abolire il carcere, semplicemente, non si può. Perché anche solo vagheggiare l’ipotesi determinerebbe sdegno nell’opinione pubblica. Perché se pure non ci si curasse di quella reazione, sarebbe vano il tentativo anche solo di far discutere di una simile “follia” nelle sedi del potere politico. E dunque per quanto dispiaccia, per quanto sia bello immaginare soluzioni diverse, per quanto ci si auguri il futuro di una società liberata dalla pena di dover infliggere quella pena, il carcere deve per ora essere considerato una specie di male necessario. Era quel che si diceva della schiavitù. “Covid in carcere, serve una amnistia” Il Dubbio, 22 aprile 2020 Le istituzioni europee invitino gli Stati membri a concedere un’ampia e urgente amnistia ai detenuti, a partire dai più vulnerabili come le donne incinte, gli anziani, i minori e i portatori di handicap, per sottrarli al rischio del contagio da Covid, “i cui princìpi si rifacciano ai nostri valori comuni, e in primo luogo alla Carta dei diritti fondamentali, che difende l’inviolabilità della dignità umana”. L’appello nasce da una proposta di “Nessuno tocchi Caino” e del Partito Radicale. Prima firmataria è Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di “Nessuno tocchi Caino”, con Rita Bernardini, Sergio d’Elia, Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale, Irene Testa, e Maurizio Bolognetti. L’iniziativa è stata appoggiata da 54 firme provenienti da 14 paesi, tra cui giuristi e parlamentari. Tra gli altri, i francesi Jean Marie Delarue, ex Garante nazionale dei luoghi di privazione della libertà personale, Vincent Delbos, magistrato, Jean- Paul Costa, ex Presidente della Corte europea per i diritti dell’uomo, Ingrid Betancourt politica e scrittrice, Pascal Lamy, Presidente emerito dell’Istituto Jacques Delors ed ex Commissario europeo, il senatore André Gattolin, insieme allo spagnolo Alvares Gil Robles, primo Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, ai greci Nikolaos Paraskevopoulos, ex Ministro alla Giustizia e Athanassia Anagnostopoulou ex Ministro degli Affari Europei, al Premio Nobel per la Pace dell’Irlanda de Nord Mairead Corrigan Maguire, ai belgi Marc Nève, Presidente del Consiglio centrale di sorveglianza degli istituti penitenziari, Françoise Tulkens, ex vicepresidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Philippe Mary, professore a l’ULB, esperto di carcere. Accanto ai detenuti in un mondo di reclusi di Davide Dionisi vaticannews.va, 22 aprile 2020 La Pasqua dei cappellani che assistono i carcerati in un periodo particolare della loro esperienza. C’è una figura particolare che entrando in un carcere, incontrando le persone, ascoltando i loro desideri, i loro sogni per il futuro, stabilisce una relazione che, prima di tutto, allontana tanti uomini e tante donne dalla solitudine. Gli dà valore e le accompagna verso il cambiamento e, con pazienza, realizza una vera rieducazione. È il cappellano del carcere, colui che all’interno di un moderno lazzaretto continua a pensare (e a dire) che ogni persona è sacra, e possiede una dignità inviolabile donata da Dio a prescindere dalla condizione sociale in cui ci si trova. Colui che segue, accompagna e consola chi si trova ristretto, a chi pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai. Soprattutto in un periodo inedito come quello che stiamo vivendo. E soprattutto nel tempo liturgico forte dell’anno. Ma che Pasqua è stata quella di quest’anno per i detenuti delle carceri italiane? Per don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, “è stata la Pasqua di sempre, perché anche in questo momento buio di sofferenza e di angoscia per tutta l’umanità, Cristo è risorto e continua a risorgere attraverso le nostre opere e i nostri messaggi che, nonostante le opportune restrizioni, continuiamo ad inviare ai fratelli detenuti”. Don Grimaldi racconta di aver contattato tutti coloro che vivono le tante realtà di detenzione nel nostro paese: dai direttori, agli agenti di polizia penitenziaria, fino ai volontari e naturalmente ai cappellani e agli ospiti degli istituti. “L’ho fatto perché conosco le loro paure e quelle dei familiari. E per questo ho scritto anche a Papa Francesco, ringraziandolo per tutto quello che sta facendo per il nostro mondo”. In un momento in cui tutti hanno avuto enormi difficoltà a entrare, il cappellano è rimasta una delle rare figure a cui è stato consentito l’accesso. “Si comprende quanto sia determinante una presenza simile che, comunque, riesce ad assicurare un minimo di approvvigionamento per i più poveri e un canale di comunicazione con chi non riesce a parlare con i cari. Anche in questa occasione abbiamo scelto la prima linea perché, secondo noi, i carcerati sono gli amici di Gesù e il nostro compito è quello di seminare in questi luoghi di dolore e sofferenza l’annuncio della Speranza”, rileva l’ispettore. Don Umberto Deriu, cappellano della Casa di reclusione di Tempio Pausania, nel descrivere il carcere sardo, parla di “clima disteso”. Sono venuti meno i colloqui in presenza, ma i ragazzi possono contare sulle videochiamate. “Questo è già un grande sollievo perché sono molto legati alle loro famiglie. Ho cercato di spiegargli che di fronte a una situazione inedita e a un nemico invisibile, siamo detenuti anche noi. Riusciamo così a capire cosa vuol dire vivere da ristretti. Certo, ci mancano i momenti di condivisione, la messa, ma loro vivono la fede in modo diverso: pregano e cercano di impegnarsi per migliorare. Così avranno una vita più onesta quando usciranno da qui. Ma gli ripeto sempre che nel loro cuore non deve esserci la paura, ma la speranza”. Per don Luigi Mazzocchio, sacerdote nel carcere di Agrigento, “il coronavirus ha messo in secondo piano tutte quelle che sono le emergenze della vita carceraria. Il timore di essere contagiati serpeggia. Non solo tra gli ospiti, ma anche tra gli agenti”. Cosa chiede il detenuto al cappellano in questo periodo così difficile? “Soprattutto benedizioni” rivela don Deriu. “E poi ricariche telefoniche e contatti con gli avvocati. Soprattutto quelli che hanno situazioni in via di risoluzione premono per uscire. Quindi il cappellano è l’uomo di tutti, la presenza amica che dà conforto”. E la Pasqua a Tempio Pausania? “È evidente che la nostra è stata più una Pasqua da Venerdì Santo che di Resurrezione, una passione che non sappiamo ancora quanto debba durare. Ma il messaggio è tutto fuori dal Sepolcro, lontano dalla tristezza che ci ha segnato a causa della pandemia. Fuori per risorgere come persone nuove, capaci di costruire un mondo diverso”, aggiunge il cappellano e commenta: “Si lamentano dei colloqui, anche se Skype gli consente di sentire e vedere i propri familiari. Ma a loro manca il contatto fisico. Ma cerco di spiegargli che presto riavranno la possibilità di riabbracciarli e di tenere ben presente che il virus più grave non è il covid-19, ma il peccato”. Don Cristian Sciaraffa presta servizio nella casa circondariale di Bellizzi Irpino: “Questo è un tempo che sta mettendo alla prova tutti, in particolare noi che siamo in carcere” chiarisce. “Al Cappellano è richiesta tanta pazienza, soprattutto nell’ascoltare i ragazzi. Ora deve uscire il meglio di loro, non il peggio. La generosità che hanno manifestato, mettendosi a disposizione, è un segnale forte. Pensano ai loro cari, a ciò che potrebbe capitargli e si lamentano della loro assenza. La mia risposta è sempre la stessa: per rafforzare un abbraccio lo devi rimandare. La Pasqua verrà”. Don Sciaraffa ha un metodo tutto suo, ormai collaudato, per un approccio vincente: “Ho una regola, quella delle tre P, piccoli passi possibili. Dobbiamo prepararci a quando usciranno perché una persona che è stata trenta anni in carcere, se va via con lo stesso cuore con cui è entrato, il nostro sforzo è stato vano. Il dramma non è essere carcerato, ma abbandonato”. A Potenza c’è padre Janvier Ague, cappellano della Casa circondariale che segnala: “All’inizio i ragazzi hanno organizzato una manifestazione pacifica e hanno inviato una lettera, peraltro pubblicizzata anche dai media locali, nella quale esprimevano la loro vicinanza alle persone colpite dal Covid-19, così come ai medici, agli infermieri e ai volontari della Protezione civile”. Il ruolo di Padre Ague al tempo del coronavirus è chiaro: “Prima di tutto il Cappellano è la presenza della Chiesa all’interno del carcere, quindi è chiamato ad affiancare e sostenere non solo i detenuti, ma anche le guardie e il personale amministrativo. Non è lì per giudicare, ma è una presenza che deve infondere serenità e tranquillità. In questo periodo particolare deve rappresentare anche il collegamento con l’esterno”. Poi rivela: “Le video chiamate sono state provvidenziali. Ho visto tanti ragazzi commuoversi nel rivedere la propria casa, i familiari che non riescono abitualmente a venire ai colloqui. Ho assistito anche al pianto di uno di loro nel riaccarezzare, seppure virtualmente, il suo cane. Dico sempre ai giovani che possono fare esattamente quello che si sta facendo fuori, rimanendo vicino a chi sta soffrendo e regalando un sorriso al compagno di cella”. Coronavirus, i mafiosi al 41bis lasciano il carcere e tornano a casa di Lirio Abbate L’Espresso, 22 aprile 2020 Il giudice di sorveglianza del tribunale di Milano ha concesso gli arresti domiciliari al capomafia di Palermo Francesco Bonura. Ora attende di uscire “Nitto” Santapaola, condannato definitivamente per diversi omicidi fra cui quello di Giuseppe Fava. Ma la lista è lunga. I capimafia detenuti al 41bis cominciano in questi giorni di emergenza Coronavirus, uno dopo l’altro, a lasciare il carcere. In questo modo insieme al Covid19 inizia a circolare anche per le strade il virus dei mafiosi che non avrebbero dovuto lasciare la cella, per legge. Ed è una doppia pandemia che non possiamo permetterci. Il giudice di sorveglianza del tribunale di Milano ha concesso gli arresti domiciliari al capomafia di Palermo Francesco Bonura, 78 anni, considerato uno dei boss più influenti, condannato definitivamente per associazione mafiosa a 23 anni. Il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta lo definiva un mafioso “valoroso”. È stato uno degli imputati del primo maxi processo a Cosa nostra dove è stato condannato. Successivamente, avvicinatosi a Bernardo Provenzano, per i magistrati ha costituito un punto di riferimento mafioso per il controllo di lavori pubblici e l’imposizione del pizzo nel capoluogo siciliano. Uomo fidato dei boss palermitani, fra cui Nino Rotolo, ha gestito il racket, ed è stato uno dei più facoltosi costruttori della città, i cui beni per diversi milioni di euro sono stati confiscati. Negli anni Ottanta venne processato e assolto per 5 omicidi e una lupara bianca. Secondo l’accusa aveva eliminato i componenti di una banda di rapinatori che agivano senza il consenso di Cosa nostra. Venne fermato col suo guardaspalle e nell’auto venne trovata una pistola calibro 38 subito dopo due degli omicidi per cui venne rinviato a giudizio. Ma l’arma non era quella che aveva sparato e Bonura venne assolto per insufficienza di prove dalle accuse più gravi. Adesso era sottoposto al 41bis, il carcere “impermeabile”. Il giudice di sorveglianza ha concesso gli arresti in casa sostenendo i motivi di salute per Bonura, sottolineando “siffatta situazione facoltizza” il magistrato “a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione pena”. Ed escludendo il pericolo di fuga lo ha inviato a casa a Palermo, dove gli ha prescritto che “non potrà incontrare, senza alcuna ragione, pregiudicati” e inoltre, “lo autorizza” ad uscire da casa, ogni volta che occorrerà “per motivi di salute” anche dei familiari. Il provvedimento fa seguito allo stato di emergenza in cui si trovano i penitenziari. E così per i mafiosi che stanno scontando la condanna, che per legge non possono usufruire di pene alternative, si aprono le porte del carcere. Su questo punto il 21 marzo scorso il Dap (l’amministrazione penitenziaria) ha inviato a tutti i direttori delle carceri una circolare in cui li invita a “comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo del detenuto, suggerendo la scarcerazione, se rientra fra le nove patologie indicate dai sanitari dell’amministrazione penitenziaria, ed inoltre, tutti i detenuti che superano i 70 anni, e con questa caratteristica sono 74 i boss che oggi sono al 41 bis. Fra loro si conta Leoluca Bagarella (che sta spingendo da tempo per avere gli arresti in casa) i Bellocco di Rosarno, Pippo Calò, Benedetto Capizzi, Antonino Cinà, Pasquale Condello, Raffaele Cutolo, Carmine Fasciani, Vincenzo Galatolo, Teresa Gallico, Raffaele Ganci, Tommaso Inzerillo, Salvatore Lo Piccolo, Piddu Madonia, Giuseppe Piromalli, Nino Rotolo, Benedetto Santapaola e Benedetto Spera. Nelle scorse settimane, sempre per l’emergenza Covid19, è stato posto agli arresti domiciliari dai giudici della corte d’assise di Catanzaro, Vincenzino Iannazzo, 65 anni, ritenuto un boss della ‘ndrangheta. Il suo stato di salute è incompatibile e in considerazione dell’attuale emergenza epidemilogica, con il carcere. Iannazzo, detto “il moretto”, è indicato come il capo del clan di Lamezia Terme (a luglio 2018 condannato anche in appello a 14 anni 6 mesi) e adesso torna a casa proprio nel cuore di Lamezia. Sempre con la motivazione dell’incompatibilità carceraria, attende di andare a casa anche il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola, condannato definitivamente per diversi omicidi fra cui quello del giornalista e scrittore Giuseppe Fava, assassinato a Catania il 5 gennaio 1984. Insomma, i mafiosi tornano a casa. L’emergenza Covid, il boss ai domiciliari e la lettura distorta dei partigiani dell’antimafia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 22 aprile 2020 Francesco Bonura, 78 anni, detenuto al 41bis, lascia il carcere perché anziano, malato e con fine pena tra 9 mesi. Ma c’è chi grida allo scandalo ed evoca la Trattativa. Il giudice di Sorveglianza di Milano - era detenuto nel carcere di Opera - ha stabilito che può andare agli arresti domiciliari “anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria (per il Coronavirus) e del correlato rischio di contagio indubbiamente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani ed affetti da serie patologie pregresse”. L’Espresso lancia la notizia, ripresa da quasi tutti i media. Monta lo scandalo. Il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa raccolgono indignate dichiarazioni. Tra i primi a intervenire è Antonino Di Matteo, oggi alla Direzione nazionale antimafia ed ex pubblico ministero del processo palermitano sulla Trattativa stato-mafia. Ed è alla Trattativa che fa subito riferimento: “Una ulteriore grave offesa alla memoria delle vittime e all’impegno quotidiano di tanti umili servitori dello stato. Lo stato sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della Trattativa stato-mafia. Lo stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte”. Eh sì, la scarcerazione di Bonura è la conferma, dicono i partigiani dell’antimafia, i duri e puri, che la concessione dei domiciliari, legata all’emergenza Coronavirus, per rendere meno affollate le carceri altro non è che un indulto mascherato. I detenuti hanno protestato e devastato alcuni istituti penitenziari e lo stato si è calato le braghe. Si manda a casa un mafioso conclamato, detenuto al carcere duro, e fedele alleato di Bernardo Provenzano: che vergogna. Si dimentica, però, che il giudice ha giustificato la misura cautelare meno afflittiva “anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria”. Anche e non solo Coronavirus, dunque, ma si omettono dei tasselli decisivi per dare fiato alla narrazione scandalistica. Primo tassello: Bonura è stato condannato a 18 anni e 18 mesi di carcere, e considerati i giorni di liberazione anticipata che spettano a tutti i detenuti, il suo fine pena è previsto fra 9 mesi. Ha scontato quasi tutta la pena che si è meritato perché era un mafioso vero. Secondo tassello: il giudice “ragionevolmente esclude” il pericolo di fuga e il rischio di reiterazione del reato. Il terzo tassello entra nel cuore della questione e lo mettono a posto gli avvocati di Bonura, Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra: “Abbiamo letto e sentito sulla vicenda affermazioni improprie e strumentali. Nel contesto della lunga carcerazione Bonura ha subito un cancro al colon, è stato operato in urgenza e sottoposto a cicli di chemioterapia; di recente i marker tumorali avevano registrato una allarmante impennata. Se a tutto ciò si aggiunge, come si deve, l’età ed i rischi a cui la popolazione carceraria, vieppiù a Milano, è esposta per il Coronavirus risulta palese la sussistenza di tutti i presupposti per la concessione della detenzione domiciliare in ossequio ai noti principi, di sponda anche comunitaria, sull’umanità che deve sottostare ad ogni trattamento carcerario. Ripetiamo: ogni vicenda va affrontata nel suo particolare altrimenti si rischia di scadere in perniciose e inopportune generalizzazioni che alterano la realtà”. Il futuro del processo nell’abisso virtuale: ora la barbarie ha l’alibi dell’emergenza di Michele Passione* Il Dubbio, 22 aprile 2020 Lo scorso 20 aprile la presidente della Corte costituzionale ha disposto che sino al 30 giugno la partecipazione dei giudici alle camere di consiglio e alle udienze pubbliche potrà avvenire anche da remoto (il luogo di collegamento verrà considerata camera di consiglio o aula di udienza), che le decisioni verranno assunte sulla base degli atti, ferma la possibilità per le parti di chiedere la trattazione, che avverrà sempre in remoto, senza toga. Quanto sopra, per contrastare l’emergenza epidemiologica. La peculiarità del giudizio dinanzi al Giudice delle Leggi e la finalità alla base del decreto non consentono sovrapposizioni tout court rispetto a quanto previsto dal governo, ma l’autorevolezza della decisione (certamente sofferta) impone alcune riflessioni sugli scenari futuri, sui quali già molti commentatori hanno segnalato i vulnera irrimediabili alla sorte del processo penale. Breve. Quasi trent’anni fa Adriano Sofri scriveva un piccolo volume (Come si scrivono le sentenze. Futuro anteriore), nel quale annotava che “il futuro non è mai semplice; il futuro anteriore fu la prima scoperta del vincolo misterioso e attorcigliato che lega ciò che sarà a ciò che è stato”. Preconizzando l’estinzione del futuro anteriore, si sosteneva la perdita de “l’argomento più invincibile e commovente contro l’ergastolo”. Per eterogenesi dei fini, la forma verbale che regala il diritto alla speranza agli ergastolani pare oggi disegnare un orizzonte nefasto. Saremo andati nel burrone. Il futuro anteriore, nel suo uso epistemico, indica infatti una supposizione su un avvenimento, ed è una forma verbale che propone eventi considerati come compiuti, che si trovano nell’ambito dell’avvenire, l’anteriorità di un evento rispetto a un momento del futuro. Così, per il processo in remoto (una farsa, un simulacro, un surrogato di quello “Giusto”, che la Costituzione prevede), questo è ciò che riserva il futuro (non solo, non di certo, solo fino al 30 giugno). Come Odisseo, dovremo farci legare per resistere al canto delle sirene; in tante parti d’Italia si piangono morti, senza poterli neanche accompagnare al momento del loro congedo da noi e dalla vita. In tutta Italia i diritti sono sospesi, e ovunque si avverte l’esigenza di tornare al lavoro. Anche per gli Avvocati è così. L’aver posto la tutela della salute alla base degli strappi alle regole processuali e costituzionali oggi propone il conto di una minestra indigeribile, e svela la reale finalità della decretazione d’urgenza. Così per la sospensione dei termini di custodia cautelare e della prescrizione, laddove, prima del Covid, si era (erroneamente) ritenuto che nei processi con imputati detenuti l’astensione dalle udienze fosse recessiva. Così, addirittura, in tanti hanno oggi sacrificato questi interessi, preferendo rinviare la trattazione dei processi con detenuti. Volendo, si può; un’indecenza. Per intanto, occorre prendere atto che le proposte avanzate dall’Ucpi si infrangono sui frangiflutti dell’inciviltà giuridica, della deliberata volontà di pareggiare i conti con la riforma costituzionale dell’articolo 111, cui dedicò tutta la sua passione e tenacia il compianto Giuseppe Frigo. Come già accaduto nelle puntate precedenti (la riforma penale, i tavoli, la prescrizione, le varie modifiche al codice penale e a quello di rito), la disponibilità del governo all’ascolto in realtà si rivela per quello che è: un’interlocuzione sorda alla ragionevolezza, e condizionata a soddisfare altri desiderata politici. Così, com’era ovvio attendersi, i togati di AeI al Csm hanno già proposto di rendere stabili alcune novità del decreto Cura Italia, per ciò che attiene al remoto. Vellicando gli amici, la risposta è pronta. Al dunque, vi è da chiedersi quali risposte fornire a ciò che è steso sul tavolo del perito settore; l’esame autoptico delle garanzie, o la risposta - unica - che gli Avvocati possono e debbono offrire alla barbarie ipocrita che per renderci immuni ci consegna a un lockdown dei diritti, dietro a uno schermo, ma per sempre dinanzi allo specchio infranto delle garanzie. Non eccezioni o questioni (men che meno di legittimità costituzionali, per le quali occorre trovare un Giudice, per le quali la Corte risponderebbe tra un anno, forse nei termini già indicati dal citato decreto); basterebbe non accendere il pc. Per non farsi trovare senza toga, e magari senza vergogna. *Avvocato Canapa sul balcone, parole nette dalla Cassazione di Riccardo De Vito* Il Manifesto, 22 aprile 2020 La sentenza ha le carte in regola per evitare un rigorismo repressivo che ha ottenuto soltanto di allungare la catena dello spaccio. Ora un altro auspicio: è indispensabile che il legislatore riprenda la parola per disegnare ex novo la disciplina delle droghe leggere. Nel commentare l’informazione provvisoria delle Sezioni Unite della Cassazione sulla coltivazione domestica della cannabis, ci eravamo lasciati con l’augurio di leggere, nella sentenza, un criterio limpido di distinzione tra condotte penalmente rilevanti e condotte non punibili. Il 16 aprile scorso sono state depositate le motivazioni (SS UU 12348/2020) e possiamo dire che quell’auspicio ha trovato una risposta positiva. Un po’ di chiarezza è stata raggiunta ed è ipotizzabile un maggior tasso di prevedibilità delle decisioni giudiziarie in materia. La sentenza tratteggia una vera e propria scala di rilievo penale delle condotte di coltivazione. Al gradino più basso si colloca la coltivazione domestica destinata all’autoconsumo. Si tratta di una condotta - qui sta il passo avanti rispetto alle SS UU Salvia - non penalmente perseguibile per difetto di tipicità. In altri termini, il fatto si sottrae all’intervento repressivo non in quanto inoffensivo, ma perché, a monte, non integrante gli estremi della coltivazione. Più che soffermarsi sui parametri di legge dai quali la Corte desume tale prezioso principio, appare utile allineare i presupposti oggettivi in base ai quali la Cassazione individua con certezza la condotta non punibile: minima dimensione della coltivazione, svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, rudimentalità delle tecniche, scarso numero di piante, mancanza di indici di un inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, oggettiva destinazione del prodotto all’uso personale esclusivo. Si tratta di indici che devono essere compresenti: non basta, chiaramente, la sola intenzione soggettiva di coltivare per uso personale. La soluzione adottata consente di prescindere dal fatto che dalla coltivazione domestica possano derivare sostanze con efficacia drogante. Nel caso ciò accada, per il coltivatore - in quanto detentore per uso personale - si apriranno le porte dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75 TU. Sul gradino successivo dell’ipotetica scala si situano le coltivazioni che, in assenza di uno dei detti indicatori, vanno qualificate come tipiche. Per affermare la loro illiceità penale la Corte chiede una verifica adeguata sulla loro offensività in concreto, che non può essere ritenuta ogni volta che ci si trovi davanti a modalità di coltura inadeguate a produrre sostanza ovvero, a ciclo colturale terminato, a prodotti privi di principio attivo o non conformi al tipo botanico. Salendo ancora nella gradazione della risposta punitiva, troviamo le condotte tipiche e offensive, ma non punibili per particolarità tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e, infine, quelle punibili secondo la gamma sanzionatoria prevista dal legislatore (ivi compresa la fattispecie di lieve entità). Qualche breve conclusione. Va detto che, nel diffondersi sul concetto di offensività, la Corte delinea meglio il bene giuridico oggetto di protezione, individuandolo nel solo diritto alla salute. La discussione, dunque, viene sterilizzata dai riferimenti a concetti come “salvaguardia delle giovani generazioni”, “sicurezza” e “ordine pubblico” che non avevano giovato ad un approccio laico alla tematica del consumo di cannabis. Nel complesso, si può dire che la sentenza ha le carte in regola per evitare un rigorismo repressivo che, sinora, ha ottenuto soltanto il risultato di allungare la catena dello spaccio. C’è da formulare, ora, un altro auspicio. È indispensabile, a distanza di trent’anni dal TU, che il legislatore riprenda la parola per disegnare ex novo la disciplina delle droghe leggere, lasciandosi definitivamente alle spalle il paradigma della pena in favore di un approccio socio-culturale multilivello. Dubito, stavolta, che si tratti di un auspicio che vedremo soddisfatto a breve. *Presidente Magistratura democratica Concordato in appello senza effetto se la richiesta della parte è recepita a metà di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 21 aprile 2020 n. 12613. È illegittimo il provvedimento con il quale il giudice, nell’ambito del cosiddetto concordato in appello, si limita ad applicare la pena nella misura concordata, senza riconoscere la sospensione condizionale alla quale è subordinato l’accordo delle parti. Il recepimento “parziale” di quanto concordato rende prive di effetto le richieste e le rinunce ai motivi espresse dalle parti. Gli atti devono così tornare alla corte d’Appello per un giudizio che rimetta le parti nella condizione precedente la richiesta del concordato. La Corte di cassazione, con la sentenza 12613, accoglie il ricorso contro la decisione di applicare la pena stabilita di intesa ma senza la sospensione condizionale, malgrado anche questa rientrasse nei “patti”. I giudici ricordano che nel concordato in appello, reintrodotto dalla riforma del Codice di rito (legge 103/2017) con l’articolo 602 comma 1 bis, il giudice si trova nella posizione di accogliere integralmente le richieste o di respingerle. Ma non può, come nel caso esaminato, disattenderle a metà. Nello specifico il no alla sospensione condizionale era scattato perché l’imputato aveva già usufruito del beneficio. Ma non basta a giustificare la decisione del giudice in contrasto con il dettato della norma. Induzione indebita per l’agente che chiede soldi per la casa popolare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2020 Corte di cassazione - Sentenza 21 aprile 2020 n. 12612. Tentata induzione indebita a dare o promettere utilità per l’agente di polizia che durante un’operazione di sgombero chieda 500 euro agli occupanti per l’assegnazione dell’alloggio popolare. Lo chiarisce la Cassazione, sentenza n. 12612, in un passaggio della decisione che ha tuttavia dichiarato l’estinzione del reato. Il pubblico ufficiale aveva sollevato diversi motivi di ricorso fra cui la riqualificazione della fattispecie in “corruzione”, facendo leva sulla particolare spregiudicatezza degli occupanti, non nuovi ad ingressi abusivi e dunque capaci di “trattare in posizione di parità” con l’agente. Puntando sul fatto che, in quanto correi, le loro dichiarazioni non sarebbero più state utilizzabili. Per la VI Sezione penale che ha annullato la condanna della Corte di appello di Roma perché il reato si è prescritto nelle more dell’impugnazione, la ricostruzione non convince. Il discrimine tra le due figure, spiega infatti la Corte, “non risiede nella verificazione o meno, in concreto, dell’effetto intimidatorio sul privato interlocutore dell’agente pubblico, ma nell’oggettiva idoneità prevaricatrice e costrittiva della condotta di quest’ultimo”. E la sentenza impugnata ha motivato “in modo adeguato” sul punto, “descrivendo lo squilibrio nei rapporti di forza tra le parti, in ragione degli effetti condizionanti esercitati sull’atteggiamento psicologico delle vittime dal carattere primario del loro interesse coinvolto, qual è quello all’abitazione”. Napoli. Stop agli imputati in aula, così cambia il processo di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 22 aprile 2020 Solo avvocati e magistrati in Tribunale. Trattazione scritta per buona parte dei processi civili, mentre nel penale si riparte con i dibattimenti con detenuti (che potranno intervenire solo in videoconferenza, come per chi è ristretto al carcere duro). Accessi con i termo-scanner, massimo due persone alla volta negli ascensori, autocertificazioni per entrare in Procura, appuntamenti via mail per entrare in cancelleria. Sono le prime mosse in vista della riapertura del Tribunale di Napoli. Undici maggio, la dead line per la fase due, all’insegna di una sorta di processo misto, ibrido: in aula avvocati, giudici e pm; da remoto consulenti e testimoni; in videoconferenza gli imputati; nessuna presenza di pubblico, almeno per la primissima parte della fase due. Covid 2019, la ripartenza. Cambia pelle il processo. Ma proviamo a ragionare per settori, alla luce di quanto il presidente del Tribunale Elisabetta Garzo chiarisce a mo’ di premessa: “Stiamo cercando di dare il massimo impulso possibile all’attività giudiziaria. Siamo pronti a rivedere orari, a fissare udienze pomeridiane per evitare assembramenti, anche se saremo costretti a valutare ogni giorno le indicazioni dell’unità di crisi regionale”. Verrà preferita la trattazione scritta, un sistema rapido per portare a compimento il maggior numero di processi, limitando la presenza in Tribunale. Lì dove è possibile, dunque, le conclusioni delle parti vengono trasmesse in via telematica. Resterà invece necessaria la presenza in Tribunale delle parti per i processi legati alla sezione Lavoro (dove il tentativo di conciliazione è obbligatorio), per le cause matrimoniali (separazioni giudiziali e consensuali), mentre per gli altri settori sarà il giudice a stabilire la possibilità di procedere con la trattazione scritta. Per le nuove iscrizioni al ruolo, la prima udienza dopo il 30 giugno. Dal prossimo 11 maggio saranno celebrati soprattutto (se non esclusivamente) i processi con detenuti, che potranno essere presenti solo in videoconferenza; i detenuti ai domiciliari potranno invece recarsi presso un commissariato dove verrà allestita la postazione per la connessione in aula. Magistrati e avvocati entreranno invece nell’aula di giustizia (mantenendo il distanziamento), mentre per i consulenti e i testi è prevista la connessione da remoto. Nessun accesso ovviamente per parenti e amici di detenuti, come accadeva spesso per i processi di camorra e omicidi. Ma cosa accadrà per i processi che non hanno imputati detenuti? Saranno quasi tutti rinviati, tranne quelli a rischio prescrizione o con la presenza di parti civili. E ancora. Finisce, almeno per i prossimi mesi, l’assembramento dinanzi al giudice di pace civile che, da sessanta udienze al giorno passerà alla trattazione di cinque o sei fascicoli; ma anche per il giudice di pace penale, si prevede una riorganizzazione per evitare lunghe attese dentro o fuori l’aula di giustizia. Un processo ibrido, che attende ora la valutazione degli avvocati. Pochi giorni fa, il Consiglio dell’Ordine di Antonio Tafuri e la Camera penale di Ermanno Carnevale hanno respinto un protocollo del Tribunale di Sorveglianza, per la consultazione dei fascicoli di udienza da remoto, via monitor, tramite la connessione on line. Quanto reggerà questo nuovo modello di processo? In questi giorni, gli avvocati si preparano a partecipare a un flash mob per il prossimo 5 maggio (ore 11, ingresso Tribunale), sull’onda di un’iniziativa voluta dal penalista Edoardo Cardillo: “Il processo penale è ostaggio di una politica troppo vicina ai media, ma troppo lontana dalla realtà”, si legge nel manifesto a mezzo social. E ancora: “No alla smaterializzazione del processo penale, facciamo sì che il processo rimanga nei confini costituzionali: in contraddittorio, in un reale contraddittorio, che solo la presenza fisica può garantire”. In campo anche il Carcere possibile, i cui rappresentanti ricordano che lo smembramento del processo rischia di minare le basi della nostra democrazia. Apertura invece da parte dell’avvocato Fabio Foglia Manzillo: “In alcuni casi ci si può limitare alla trasmissione di un atto scritto: mi riferisco al deposito di una costituzione di parte civile o di una lista testi, all’opposizione a un’archiviazione o ad alcune trattazioni in appello, dove non è necessario recarsi fisicamente in Tribunale. In altri casi però - come interrogatori di testi o consulenti in processi per bancarotta o per omicidio -, non si può perdere neppure una sfumatura, neppure una suggestione, per occorrono strumenti tecnici che devono funzionare alla perfezione, altrimenti il giudice sarà chiamato a sospendere l’udienza”. Roma. Il tribunale ha già previsto il rinvio delle udienze penali al 2021 di Giulia Merlo Il Dubbio, 22 aprile 2020 Le linee guida danno un calendario desolante dei ritardi causati dal covid nella Capitale. Non solo, il fondo per liquidare i patrocini a spese dello Stato è esaurito. Altro che 30 giugno. L’attività giudiziaria ordinaria a Roma riprenderà, negli auspici del presidente del Tribunale più grande d’Europa, a settembre, sempre con un forse tra parentesi. A certificare quelli che realisticamente saranno i tempi sono le linee guida protocollate il 20 aprile, in cui viene scandito il calendario dei giudizi di qui alla fine dell’anno, alla luce delle regole dovute all’emergenza sanitaria. Per quanto riguarda il civile, dal 12 maggio al 30 giugno verranno trattate le cause urgenti indicate dal dl 12/2020, poi le cause pendenti da più tempo, poi quelle relative a diritti fondamentali e infine quelle che in primo grado e in appello non richiedono attività istruttoria o siano già state istruite. Tutte le altre verranno rinviate a data successiva al 30 giugno. Per il settore penale, invece, l’attività è scaglionata in modo ancora più preciso (e dilazionato nel tempo): dal 16 aprile all’11 maggio sono trattati solo i procedimenti previsti in via telematica (udienze di convalida, procedimenti con termini cautelari in scadenza, procedimenti in cui sono applicate misure detentive e quelle di cui il difensore ha fatto espressa richiesta di trattazione in videoconferenza). Dal 12 maggio al 30 giugno, verranno predisposti ruoli di udienza con un numero ridotto di procedimenti, scelti in base al numero delle parti, poi potranno essere trattati quelli con imputati sottoposti a misure cautelari e quelli che prevedono l’esame di periti o consulenti collegati da remoto (ma “solo se le aule saranno attrezzate adeguatamente”). Tutti gli altri procedimenti, cioè la maggior parte, verranno differiti “a partire dalle udienze libere del terzo quadrimestre del 2020”: quindi non prima di settembre. Ancora oltre, invece, si va con la fissazione dei procedimenti di competenza monocratica di prima comparizione a citazione diretta, per i quali “la fissazione è sospesa fino al 31 dicembre 2020, per consentire la trattazione dei procedimenti rinviati”. Per altro, c’è chi considera anche queste stime piuttosto ottimistiche: attualmente, infatti, è complicato stimare quanto arretrato produrrà il processo telematico in termini di udienze non trattate e dunque rinviate. A ciò si aggiunge che il tribunale di Roma, come del resto molti in Italia, si trova in una endemica situazione di sotto-organico, sia per quanto riguarda i magistrati che il personale amministrativi (la scopertura è del 32%). Proprio questi ultimi, inoltre, che avrebbero il delicato compito di formare i fascicoli in via telematica, accettare le notifiche e gli atti depositati via pec, sono di fatto impossibilitati allo smatworking, perché non abilitati a collegarsi alla Rete Unica della Giustizia (il sistema informatico del ministero che raccoglie tutti i registri). Se il futuro dei processi è fosco, altrettanto cupi sono i presagi per gli avvocati che già hanno prestato la loro attività col patrocinio a spese dello stato o come difensori d’ufficio. Come denunciato dall’Unione degli Ordini forensi del Lazio, infatti, il Presidente della Corte d’Appello di Roma ha confermato che a metà aprile il fondo per liquidare i patrocini a spese dello Stato e le difese d’ufficio si è esaurito, dunque sarà impossibile liquidare i compensi agli avvocati. Una tegola pesante sulla testa della categoria, nonostante la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura, proprio inconsiderazione della crisi sanitaria, ha chiesto espressamente al Ministero della Giustizia di attivarsi per liquidare questo tipo di onorari il prima possibile. “L’istanza non riguarda un sostegno economico straordinario, bensì la legittima richiesta di pagamenti per attività professionali svolte spesso da diversi anni”, ha scritto il coordinatore Luca Conti in una dura nota inviata a via Arenula. Che, per ora, tace. Verona. Contagiati poliziotti e detenuti, “congelato” il carcere di Andrea Priante Corriere Veneto, 22 aprile 2020 Il Dap vieta nuovi ingressi. I sindacati: “Fatti troppi errori”. Il garante: “No, tutto bene” È scontro sul caso del paziente scarcerato. Ventinove detenuti positivi al coronavirus, una ventina di guardie contagiate, un agente finito in rianimazione per crisi respiratoria. E tra i malati, perfino i due medici e l’infermiere dell’istituto. La situazione nel carcere di Montorio sta in questi numeri che probabilmente ne fanno la prigione italiana più esposta al Covid 19. “La situazione è sfuggita di mano”, taglia corto Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp). Nei giorni scorsi ha presentato un esposto in procura a Verona dove snocciola un lungo elenco di presunti errori che sarebbero stati commessi dalla direzione della Casa circondariale in queste settimane di emergenza. “E visto che va sempre peggio, sto preparando anche una seconda denuncia” anticipa. Dal fronte opposto, la direttrice Maria Grazia Bregoli è convinta di aver fatto di tutto per contenere la diffusione del virus. Su un’unica cosa, però, tutte le parti sono concordi: il rischio di contagio all’interno del carcere di Verona è ormai ingestibile. Al punto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del Triveneto ha inviato una circolare ai magistrati. “C’è scritto che nessun nuovo detenuto può essere assegnato alla casa circondariale di Montorio” spiega il procuratore Angela Barbaglio, che infatti ha dovuto scrivere agli altri istituti veneti chiedendo la disponibilità ad accogliere le persone che, eventualmente, verranno arrestate a Verona da qui in avanti. In pratica, l’intera prigione è stata “congelata” a causa del contagio. Lo dimostra la storia raccontata ieri dal Corriere del Veneto: un detenuto indiano è stato scarcerato perché positivo al Covid 19, e per 24 ore ha tranquillamente vagato per il capoluogo fino a essere fermato dai carabinieri mentre si trovava in stazione. A rimetterlo in libertà, venerdì scorso, era stata la Corte d’appello di Venezia basandosi su una nota nella quale la stessa direttrice ammetteva la necessità di allontanarlo al più presto dal carcere visto che è “impossibile rispettare, nel contesto del circuito penitenziario, misure di profilassi idonee a scongiurare il pericolo di contagio per i detenuti e per le persone che vi lavorano”. Per il sindacato “si è trattato di un episodio gravissimo, che ha messo in pericolo i cittadini”. Ma è solo la punta dell’iceberg. Il focolaio sarebbe esploso nella terza sezione, dove sono reclusi stupratori, pedofili e uomini condannati per maltrattamenti. “Ora è stata soprannominata “la sezione Covid” ma in seguito altri malati sono comparsi anche nella seconda sezione, dove dormono persone in semilibertà”, confida una guardia al Corriere del Veneto. “All’inizio dell’emergenza, la direzione ha spiegato di non gradire che indossassimo le mascherine perché questo poteva generare preoccupazione tra i detenuti”, aggiunge. E anche adesso, i rischi non mancano: “Ogni giorno i detenuti giocano a calcio e vanno in palestra. Non c’è alcuna distanza tra loro e i contagi sono destinati ad aumentare”. Vale anche per gli agenti di polizia penitenziaria, ovviamente, che in alcune situazioni non possono evitare il contatto con i carcerati. “Ora che finalmente siamo liberi di indossarle, non ci sono mascherine per tutti: io me le sono dovute comprare”. Dal suo isolamento domiciliare, una guardia positiva al Covid 19 racconta: “Mi sono contagiato lì dentro, e dopo giorni con la febbre alta per fortuna ora sto meglio. Con il mio avvocato sto valutando l’opportunità di chiedere i danni”. Margherita Forestan è la Garante per i detenuti di Verona, e la mette in questi termini: “L’episodio dell’indiano scarcerato è molto grave, ma la direttrice per giorni aveva scritto a sindaco, prefettura e Usl senza ricevere risposta”. Più in generale, sulla gestione dell’emergenza, Forestan non ha dubbi: “Si è fatto il possibile, ma non dimentichiamo che il carcere è un mondo a parte: si convive in celle di 12 metri quadrati, dove è impossibile imporre l’isolamento e la distanza sociale. Le partitelle a calcio? Non credo aumentino i rischi di contagio, visto che comunque i detenuti trascorrono anche il resto della giornata in stretto contatto tra loro”. Molto diversa la posizione del sindaco di Verona, Federico Sboarina: “Sulla questione del detenuto indiano positivo al Covid 19 erano state fatte due riunioni del Comitato per l’ordine pubblico e sono intercorse svariate lettere fra le istituzioni coinvolte. Ma alla fine, sapete cos’è accaduto? Che la direttrice ha fatto quello che ha voluto. Nessun cittadino se è contagiato può circolare. Questo detenuto, invece, è stato messo in strada senza preoccuparsi della necessità di predisporre il suo isolamento sanitario. Visto che non avevamo spazi a disposizione, mi ero mosso con la Curia per trovargli una sistemazione ma, senza aspettare che l’impegno di tutti arrivasse a buon fine, la direttrice ha provveduto da sola e senza avvertire nessuno”. Verona. Il sindaco: la direttrice del carcere ha agito da sola di Andrea Priante e Lillo Aldegheri Corriere Veneto, 22 aprile 2020 La Garante dei detenuti: fatto grave, ma erano stati mandati solleciti. Sboarina: due riunioni sul caso, non si è coordinata con le istituzioni. “La direttrice del carcere ha fatto quello che ha voluto, e quell’ex detenuto è stato messo in strada senza preoccuparsi del suo isolamento sanitario, nonostante le precise disposizioni del Prefetto”. È la reazione del sindaco Sboarina, a quanto è avvenuto nei giorni scorsi, quando un detenuto positivo è stato scarcerato. “La direttrice del carcere ha fatto quello che ha voluto, e quell’ex detenuto è stato messo in strada senza preoccuparsi del suo isolamento sanitario, nonostante le precise disposizioni del Prefetto”. È molto dura la reazione del sindaco, Federico Sboarina, a quanto è avvenuto nei giorni scorsi, quando un detenuto indiano positivo al Covid 19 è stato scarcerato e per 24 ore ha tranquillamente vagato per il capoluogo, fino a essere fermato dai carabinieri mentre si trovava nella stazione di Porta Nuova. “Sulla questione spiega Sboarina - sono state fatte due riunioni del Comitato per l’ordine pubblico e sono girate svariate lettere fra le istituzioni coinvolte”. Il sindaco fa una cronistoria di quanto è successo. “L’ordinanza della Corte di Appello di Venezia che ha disposto il 14 aprile la scarcerazione - racconta il sindaco - era stata comunicata Comune, Prefetto e Aulss. Lo stesso giorno abbiamo risposto che non avevamo disponibilità di nessun posto nelle strutture di accoglienza, pur impegnandoci a reperire una sistemazione. Ulteriori verifiche - prosegue Sboarina - hanno confermato che i nostri posti erano tutti già occupati e quindi mi sono mosso con la Curia per trovare una sistemazione nella quale adesso, effettivamente, questa persona è alloggiata, con il Comune che fornisce i pasti e l’Aulss la vigilanza sanitaria”. Perché allora quella persona girava per la città? Sboarina spiega che “senza aspettare che l’impegno di tutti arrivasse a buon fine, come è accaduto, la direttrice del carcere ha provveduto da sola e senza avvertire nessuno della sua decisione. senza contare che avrebbe dovuto occuparsi anche del trasferimento al nuovo domicilio. Eppure - aggiunge il sindaco - nessun cittadino, nemmeno il più specchiato, se è positivo al virus può liberamente circolare, ma deve invece restare chiuso in quarantena”. Ed il sindaco conclude: “Il momento è complicato per tutti, ma finora abbiamo fatto fronte ad ogni singola emergenza con il coordinamento e la collaborazione fra istituzioni: se invece qualcuno non si coordina, succedono episodi come questo”. Sulla stessa vicenda, peraltro, Margherita Forestan, Garante per i detenuti di Verona, sostiene che “l’episodio dell’indiano scarcerato è molto grave, ma la direttrice per giorni ha scritto a sindaco, prefettura e Usl, facendo presente la necessità di trovare un domicilio a quell’uomo. Non ha ricevuto alcuna risposta”. Versione smentita però dalla ricostruzione del sindaco. La direttrice Maria Grazia Bregoli è convinta di aver fatto di tutto per contenere la diffusione del virus. Ma per il sindacato “si è trattato di un episodio gravissimo, che ha messo in pericolo i cittadini”. Quel che è certo, è che la situazione, a Montorio, è terribile. Ventinove detenuti positivi al coronavirus, una ventina di guardie contagiate, un agente finito in rianimazione per crisi respiratoria. E tra i malati, perfino i due medici e l’infermiere dell’istituto. “La situazione è sfuggita di mano”, taglia corto Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp). Nei giorni scorsi ha presentato un esposto in procura a Verona dove snocciola un lungo elenco di presunti errori che sarebbero stati commessi dalla direzione della Casa circondariale in queste settimane di emergenza. “E visto che va sempre peggio, sto preparando anche una seconda denuncia” anticipa. Tutte le parti sono concordi su di un giudizio: il rischio di contagio all’interno del carcere di Verona è ormai ingestibile. Al punto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del Triveneto ha inviato una circolare ai magistrati. “C’è scritto che nessun nuovo detenuto può essere assegnato alla casa circondariale di Montorio” spiega il procuratore Angela Barbaglio, che infatti ha dovuto scrivere agli altri istituti veneti chiedendo la disponibilità ad accogliere chi venisse arrestato a Verona da qui in avanti. In pratica, l’intera prigione è stata “congelata” a causa del contagio. Il focolaio sarebbe esploso nella terza sezione, dove sono reclusi stupratori, pedofili e uomini condannati per maltrattamenti. “Ora è stata soprannominata “la sezione Covid” ma in seguito altri malati sono comparsi anche nella seconda sezione, dove dormono persone in semilibertà”, confida una guardia al Corriere del Veneto. “All’inizio dell’emergenza, la direzione ha spiegato di non gradire che indossassimo le mascherine perché questo poteva generare preoccupazione tra i detenuti”, aggiunge. E anche adesso, i rischi non mancano: “Ogni giorno i detenuti giocano a calcio e vanno in palestra. Non c’è alcuna distanza tra loro e i contagi sono destinati ad aumentare”. Vale anche per gli agenti di polizia penitenziaria, ovviamente. E dal suo isolamento domiciliare, una guardia positiva al Covid 19 racconta: “Mi sono contagiato lì dentro, e dopo giorni con la febbre alta per fortuna ora sto meglio. Con il mio avvocato sto valutando l’opportunità di chiedere i danni”. Torino. Allarme dell’Osapp: “Almeno 60 positivi nel carcere” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 22 aprile 2020 “Una decina sono usciti ma 47 ancora detenuti. Servono tamponi a tappeto”. “Nel carcere di Torino su 1.250 detenuti almeno 60 sarebbero risultati positivi al coronavirus. Di questi - aggiunge - una decina sarebbero già usciti, mentre 47 sarebbero ancora allocati all’interno, distribuiti su tre reparti”.si sta verificando una “situazione estremamente grave e preoccupante”. Parole del segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci. Secondo l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria la situazione nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno è “estremamente grave”, ma rischierebbe addirittura di diventare esplosiva senza un immediato intervento di Regione e istituzioni. Oltre a una sessantina di detenuti positivi al Covid-19 ci sarebbero almeno 9 contagi anche tra il personale in servizio delle Vallette e quello del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Nei giorni scorsi l’Osapp ha scritto al presidente regionale Aberto Cirio per chiedere che tutti gli agenti impiegati nelle strutture carcerarie piemontesi siano sottoposti “con urgenza” ai tamponi. “Quello che si sta verificando nel carcere di Torino è preoccupante - conferma il segretario generale Leo Beneduci - Su 1250 detenuti quasi 60 sarebbero risultati positivi al coronavirus. Di questi una decina sarebbero già usciti, mentre 47 sono ancora all’interno”. Originariamente i casi di positività erano distribuiti su tre reparti, ma nelle scorse ore è stato deciso di accorpare tutti i contagiati nella palazzina Arcobaleno, in precedenza occupata da detenuti con problemi di tossicodipendenza. Un trasferimento contestato da una parte della popolazione carceraria, che chiede maggiori contatti con le famiglie, anche con videochiamate. Soprattutto dopo che si è diffusa la notizia, che al momento non trova conferme, di un altro caso di positività sia stato da poco riscontrato anche in un’altra sezione del carcere. A fronte di questo scenario, secondo quanto riferisce il sindacato, gli operatori di polizia penitenziaria continuerebbero a lavorare con “dispositivi di protezione individuali insufficienti e mascherine chirurgiche che vengano utilizzate per più giorni di seguito”. A questo proposito Beneduci aggiunge: “Il personale teme per la sua sicurezza e chiede alle autorità di effettuare tamponi in maniera massiccia. Anche perché tra i detenuti sarebbe in uso l’abitudine di scambiarsi effusioni in maniera più che palese con l’evidente scopo di contrarre una positività che faciliterebbe l’uscita all’esterno. Bisogna intervenire subito”. Tolmezzo (Ud). Detenuto infetto, il legale ricorre chiedendo di nuovo i domiciliari Il Gazzettino, 22 aprile 2020 L’inerzia decisoria dei giudici potrebbe mettere a rischio la salute di un detenuto. Questo il senso dell’esposto promosso alla Corte di Appello di Catanzaro ed anche al procuratore generale presso la Corte di Cassazione ed al Csm, da parte dell’avvocato di un 62enne crotonese recluso nel carcere di Tolmezzo, dove sono stati riscontrati nelle scorse settimane 5 casi di positività al covid-19. L’avvocato Luca Cianferoni, legale dell’uomo condannato in primo grado nei processi Jonny e Kiterion, ha spiegato che già il 10 marzo, quando il suo assistito non era ancora stato contagiato dal virus, aveva chiesto alla Corte catanzarese di modificare la detenzione in carcere con gli arresti domiciliari proprio per le condizioni di salute del detenuto incompatibili con il regime carcerario. A quell’istanza, però, non c’era stata risposta. Il 23 marzo l’avvocato era tornato a sollecitare la decisione alla Corte di Appello anche perché, nel frattempo, il detenuto - trasferito dal carcere di Bologna a quello di Tolmezzo - aveva contratto il coronavirus. Anche stavolta nessuna risposta. L’11 aprile è stata presentata una nuova istanza nella quale il difensore ribadisce le condizioni di positività al virus del 62enne e spiega che il trasferimento dall’Emilia Romagna al Friuli era stato svolto senza tenere conto delle misure di sicurezza previste per limitare la diffusione dei contagi. Sul penitenziario di massima sicurezza del capoluogo carnico chiedono rassicurazioni anche i parlamentari di Sinistra Italiana attraverso un’interrogazione al Ministro della Giustizia depositata dalla senatrice Loredana De Petris. Accanto a ciò la collega Serena Pellegrino, propone una soluzione alla situazione di forte disagio che si sta verificando a Tolmezzo: “Il tribunale - dove sono stati utilizzati 10 milioni di euro - non è stato aperto nemmeno per un giorno. E se quell’edificio venisse utilizzato per la riabilitazione dei detenuti? Progettiamo e cantierizziamo degli edifici per mettere in atto la nostra Costituzione e le emergenze non saranno più pericolose”. Saluzzo (Cn). Coronavirus, tre detenuti positivi, hanno sintomi lievi di Barbara Morra La Stampa, 22 aprile 2020 Ma per ora solo un terzo di detenuti, agenti e personale amministrativo è stato sottoposto a tampone. Sono iniziati domenica i test su eventuali positività al Covid-19 nel carcere di Saluzzo. La verifica è stata chiesta con urgenza dall’Amministrazione penitenziaria dopo che, alla fine della scorsa settimana, due detenuti sono risultati affetti dal virus. “Al momento sono stati eseguiti duecento tamponi, un terzo delle persone presenti nella struttura, calcolando detenuti, agenti di polizia penitenziaria e personale amministrativo - conferma Paolo Allemano, garante del carcere, medico ed ex sindaco di Saluzz-. Entro la metà di questa settimana saranno completati e occorrerà attendere gli esiti. Quanto tempo ci vorrà? Difficile dirlo dal momento che l’ufficio d’igiene provinciale dà la precedenza ai casi ospedalieri”. Le persone che hanno contratto il virus nella casa di reclusione fino a venerdì erano due. “I casi sono saliti a tre - dichiara la direttrice Giuseppina Piscioneri. Stiamo seguendo tutti i protocolli e da tempo tutti all’interno della struttura utilizzano i dispositivi di protezione individuale. Ora attendiamo gli esiti dei tamponi”. Piscioneri conferma che le persone affette da Covid-19 all’interno della Casa di reclusione manifestano sintomi lievi “tanto che - aggiunge - ci siamo stupiti che risultassero positivi”. “Sono isolati dagli altri nel reparto infermeria - conferma Allemano - ci auguriamo che i test diano un basso numero di contagi in modo da poterli gestire all’interno di questi spazi altrimenti si dovranno prendere in considerazione trasferimenti”. Su quest’ultima possibilità la direttrice dice: “Sarà difficile perché questo è un carcere di massima sicurezza”. Uno degli ammalati è tra i detenuti trasferiti dal carcere di Bologna una ventina di giorni fa, un altro è un interno già recluso da tempo nella casa circondariale. Non si hanno notizie sul terzo ma anche per lui è confermata la sintomatologia lieve. “Il detenuto che è arrivato dall’Emilia era stato messo come gli altri in quarantena - aveva osservato Alemanno - ma i sintomi e la presenza del virus si sono manifestati comunque”. All’arrivo dei detenuti da Bologna c’erano state proteste: era stata vista come una contraddizione, a fronte del blocco dei colloqui con i parenti. La Fp- Cgil ha inviato un comunicato sollecitando l’amministrazione penitenziaria a effettuare “con urgenza esami e test clinici su tutti i presenti nella struttura”. Piacenza. “Subito esami e protocolli sanitari per chi lavora in carcere” ilpiacenza.it, 22 aprile 2020 Sette sindacati della polizia penitenziaria: “Pronti a scendere in piazza. Silenzio assordante dell’amministrazione. Siamo amareggiati, vogliamo sicurezza per noi e le nostre famiglie”. “Subito i protocolli sanitari all’interno delle carceri italiane per combattere l’epidemia di coronavirus. Lo chiedono sette sigle sindacali che rappresentano il personale di polizia penitenziaria e che si dicono pronte a “scendere in piazza”. Le sette sigle (Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp, Cgil, Cisl e Uil funzione pubblica) criticano anche “i silenzi assordanti del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) nella gestione emergenza epidemiologica”. Mancano le protezioni e l’attuazione di protocolli sanitari per garantire la salute di chi lavora in carcere. Sarebbe necessario sottoporre tutto il personale a test sierologici o tamponi, per individuare anche gli asintomatici, predisporre corsi di formazione, incrementare la sanificazione degli ambienti di lavoro, seguir ei protocolli delle Asl, per tutelare i lavoratori e le loro famiglie. “Siamo esausti e amareggiati - sostengono a gran voce i sindacalisti - di restare spettatori di una consolidata inerzia e del tracotante oscurantismo istituzionale nei confronti di uomini e donne in divisa che, quotidianamente, espletano la loro attività lavorativa, con spirito solerte e impavido”. Pronti a protestare in piazza, i sindacati sottolineano di essere “responsabilmente consapevoli degli imperativi normativi attuati in questo triste momento, ma non escludiamo gli eventuali interessamenti dei nostri uffici legali”. La Spezia. Test sierologici per detenuti e personale penitenziario cittadellaspezia.com, 22 aprile 2020 Partiranno entro fine settimana i test sierologici a tappeto per definire il quadro sieroepidemiologico della popolazione carceraria e degli agenti di polizia penitenziaria: si tratta di un test di laboratorio, effettuato su campione ematico, per la rilevazione di anticorpi di classe IgM e IgG anti - Sars-Cov2. La definizione del quadro sieroepidemiologico rappresenta un approccio consolidato per la valutazione della circolazione e dell’esposizione di una popolazione a un microrganismo che consente di ottimizzare le strategie di prevenzione disponibili. “Abbiamo voluto estendere l’indagine sierologica a tappeto alla popolazione delle carceri e agli agenti di polizia penitenziaria per dare un efficace contributo al contenimento del contagio in un ambiente sensibile, dove potrebbero verificarsi situazioni critiche - sottolinea Sonia Viale, vicepresidente e assessore alla Sanità di Regione Liguria. Si tratta di un’azione di prevenzione per definire il quadro sieroepidemiologico, favorire tutte le azioni di prevenzione necessarie e rispondere alla richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari di tutelare anche questa categoria di popolazione e tutto il personale coinvolto”. A seconda del risultato del test sierologico, i soggetti interessati potranno essere sottoposti anche a diagnostica molecolare (tampone). Taranto. Carcere ecco le misure anti-covid corriereditaranto.it, 22 aprile 2020 Nuovi detenuti sottoposti a triage e isolamento precauzionale di 14 giorni. La Direzione della Casa Circondariale di Taranto, di concerto con la ASL, tramite il Distretto Unico, e la Dirigenza della Unità Operativa per la Sanità Penitenziaria, ha disposto e adottato misure e attività volte a prevenire, contrastare e contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19, per tutelare la salute della popolazione detenuta e degli operatori penitenziari. Fuori dalle sezioni detentive, nel cortile interno dell’Istituto Penitenziario, è stata montata e allestita una tensostruttura all’interno della quale i medici di guardia effettuano il pre-triage, per la valutazione del rischio da infezione da Covid-19, nei confronti dei nuovi detenuti giunti. Ai medici presenti nella Casa Circondariale, la ASL Taranto ha fornito le linee guida da seguire per l’accesso in carcere e lo svolgimento dell’attività sanitaria nei confronti dei nuovi giunti, secondo le disposizioni del Governo, del Ministero di Grazia e Giustizia e della Regione Puglia. Settimanalmente la ASL rifornisce gli operatori sanitari di Dispositivi di Protezione Individuale da indossare per tutta la durata delle procedure di pre-triage, in particolare mascherine chirurgiche, FFP2 e FFP3, guanti e camici monouso, termo-scanner e disinfettate per le mani, nonché mascherine FFP2 per il personale di Polizia Penitenziaria preposto. Sono stati, inoltre, forniti kit completi di DPI per la tutela del personale adibito al trasferimento dei detenuti. La Direzione della Casa Circondariale ha individuato delle “aree cuscinetto” dedicate e isolate, ove allocare i detenuti giunti, per un periodo precauzionale di 14 giorni, durante il quale avviene un costante monitoraggio delle condizioni di salute da parte dei medici di guardia. In presenza di elementi che rendano necessaria l’esecuzione di un tampone, il Dipartimento di Prevenzione della ASL Taranto viene allertato per predisporre l’espletazione di tale procedura. Qualora si riscontrino casi di positività, il Dirigente Sanitario dell’Istituto Penitenziario e il medico competente del Dipartimento di Prevenzione, valutate le condizioni cliniche del detenuto, dispongono l’eventuale ricovero in isolamento sanitario. In caso di dimissioni o trasferimenti, i reclusi vengono sottoposti a visita medica e, in presenza di sintomatologia simil-influenzale o stato febbrile, ad eventuale tampone da parte del Dipartimento di Prevenzione. Il personale sanitario infermieristico esegue la rilevazione della temperatura corporea a coloro che entrano nell’Istituto Penitenziario tre volte al giorno (ore 8.00, 14.00, 24.00). Durante il periodo emergenziale è prevista la limitazione dell’attività medico-specialistica ai soli casi urgenti. Per quanto riguarda il personale di Polizia Penitenziaria asintomatico che ha avuto contatti con persone contagiate o con casi sospetti, vengono predisposte e attivate le procedure sanitarie indicate dalla Regione Puglia. Le attività adottate e realizzate per contenere e contrastare l’emergenza in corso, dimostrano ancora una volta il rapporto di piena collaborazione tra la ASL Taranto e la Direzione della Casa Circondariale, nella persona della dott.ssa Stefania Baldassarri, la cui disponibilità al confronto con l’Azienda ha sempre prodotto risultati costruttivi ed efficaci. Bari. Le detenute scrivono a Bonafede “Tante in pochi metri. Impossibile tenersi a distanza” di Gianluca Lomuto ilquotidianoitaliano.com, 22 aprile 2020 Mentre la maggior parte degli italiani freme in attesa che sia decretata la fine del lockdown, che guarda spasmodicamente alla riapertura delle attività economiche e soprattutto alla fine della restrizione domiciliare fra le comodità delle mura domestiche, c’è chi, invece non vede semplicemente l’ora di poter tornare a rivedere i propri cari sotto lo sguardo vigile di una guardia, di poter tornare a parlare col proprio legale, di poter tornare a sperare in un permesso premio. Sono i detenuti, ristretti all’interno delle carceri che scoppiano. Il coronavirus ha esasperato una condizione già di per sé difficile, per cui l’Italia è anche stata più volte bacchettata dalle istituzioni europee. Tutti ricordano la rivolta scoppiata all’inizio dell’emergenza sanitaria globale, ma se molti credevano che dopo allora le cose fossero migliorate, evidentemente non è così. All’Avvocato Leopoldo Di Nanna, vicepresidente dell’Associazione #RecidivaZero da sempre impegnato nella tutela dei diritti costituzionalmente garantiti ai detenuti, è arrivata una lunga lettera scritta dalle detenute di un carcere del meridione. Lungi dall’autoassolversi, chiedono un provvedimento per evitare che il coronavirus si trasformi per loro una pena capitale. Siamo una rappresentanza delle detenute, sezione Comuni, di una Casa circondariale del sud Italia, il termine “detenuta” si addice appieno al contesto storico sociale che l’Italia sta attraversando per l’allarme pandemia del covid-19. Dal latino trattenere, allontanare, è questo il significato del verbo detenere ed è ciò che si è applicato ad litteram con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 18, cosi detto Cura Italia a tutta la popolazione detenuta. Con la sospensione delle attività rieducative e con il blocco dei colloqui visivi, non più una parola di conforto di un familiare, non più una rassicurazione del difensore di fiducia, nessuna udienza che desti speranza, perché è da essa che un detenuto trova gli stimoli per andare avanti nel percorso riabilitativo rappresentato dalla finalità rieducativa della pena. Con questa missiva non vogliamo esimerci dalle nostre responsabilità, in quanto siamo consapevoli dei reati ascrittici e delle sanzioni inflitteci dalla Giustizia italiana. Il nostro pensiero, condiviso dalla gran parte della popolazione detenuta, è avvalorato e sostenuto da chi come noi ha contezza di quanto accade nella società. C’è tutto un mondo sottostante alla situazione carceraria di cui ben pochi sono a conoscenza, una realtà che deve essere palesata per sensibilizzare l’opinione pubblica e la coscienza dello Stato. Il carcere è lo Stato, ed è ovvio che rispecchi in toto le carenze del nostro Paese. Si cade in una contraddizione di fatto nel sostenere che, per evitare la contrazione del virus covid-19, bisogna mantenere una distanza di sicurezza e poi, in concreto, pernottiamo, mangiamo, viviamo e sogniamo in pochi metri. Non è fattibile un discorso di profilassi in un ambiente così ristretto e angusto. Lo Stato deve comprendere che quanto è in atto non ha a che vedere con la privazione della libertà personale, ma la contrazione del coronavirus può essere commisurata a una condanna capitale. A parere nostro, non si ha bisogno di manifestazioni plateali per supportare i nostri principi, ciò che chiediamo è una giusta intesa tra il Carcere e lo Stato. Né colpevolisti, né garantisti, bensì interventisti. Occorre un provvedimento equo e proporzionato per l’emergenza sovraffollamento. È opinione comune che tale provvedimento è da individuarsi nella concessione di un indulto. È lapalissiano credere che tutti possano varcare le soglie di questi cancelli, ma in tal modo verrebbe rideterminato il numero della popolazione carceraria. Si tenga anche conto della mole di lavoro di cui verrà investita l’Autorità Giudiziaria successivamente alla sospensione dei termini di Legge. Le così dette Patrie Galere, e nell’attributo “patrie” ribadiamo il nostro senso civico e l’orgoglio patriottico, pullulano di un’umanità palpabile, e i meccanismi intrapsichici che si sviluppano in merito al dramma psicosociale sono inevitabili conseguenze generate dal sentimento di paura di ognuna di noi. I dati enunciati nel discorso del Garante dei detenuti proprio in questi giorni, 20 detenuti e 200 operatori affetti da coronavirus, sono chiarificatori dell’immane proporzione del dramma e del disagio sociale. L’Italia è per antonomasia la culla della fondatrice del diritto romano a cui molte nazioni si sono ispirate. A prescindere dai retaggi storici e dalle rimembranze poetiche, l’intransigenza di cui lo Stato fa bandiera, non deve essere uno scudo per proteggersi dalle proprie responsabilità, né un’arma per ferire una moltitudine di individui già ampiamente segnata dalle vicissitudini della vita. Siamo stati lasciati soli, relegati ai margini di una società per la quale noi siamo dei reietti, ma c’è un cuore, un’anima, un vissuto dietro quei titoli in esecuzione, oltre il Casellario Giudiziale, c’è una casa, intesa come la domus romana, il focolare domestico. Senza nulla togliere alla certezza della pena, senza discernere “a quo”, trascendendo dalla meritocrazia e dal “fine pena”, l’indulto consentirebbe di vivere dignitosamente il regime carcerario. La “libertas” del Governo sta nell’emanare l’indulto al di là delle logiche partitiche e della propaganda elettorale. Uno dei principi del Vangelo recita: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Allora, a voi l’ardua sentenza. Bergamo. Con le video-lezioni non si ferma la scuola nel carcere di Ivano Zappa* gnewsonline.it, 22 aprile 2020 In un momento di grande emergenza, siamo coinvolti tutti, nessuno escluso, “dentro e fuori” dalla cinta muraria, senza esclusioni, differenza di etnia, di religione e ceti sociali. Del termine spazio Wikipedia dice testualmente: “Un vuoto che esiste tra corpi celesti, ma in realtà non è completamente vuoto, al suo interno contiene una densità di particelle”. Voglio pensare a queste particelle come a tutti coloro che sono ristretti negli istituti di pena ed in particolar modo in questo di Bergamo, che oggi ancor di più vivono una situazione disagiata e di difficile gestione da parte dell’istituzione carcere. L’emergenza Covid-19 ha portato a provvedimenti restrittivi che hanno visto la sospensione temporanea dei colloqui visivi con i propri familiari, la sospensione all’ingresso di tutte le forme di volontariato, fonte di massimo aiuto per coloro che si trovano ristretti negli istituti. Non certamente ultima per importanza la scuola, i corsi di formazione professionale e gli incontri formativi. I detenuti che nel corso dell’anno hanno costantemente seguito con interesse le lezioni si sono ritrovati improvvisamente nell’impossibilità di terminare un loro percorso didattico, che con l’aiuto della scuola avrebbe contribuito al proprio accrescimento culturale e quindi al reinserimento. La Direttrice e il Comandante hanno subito appoggiato le direttive impartite dal Ministero dell’Istruzione, agevolando con non poche difficoltà la ripresa dell’attività scolastica mediante l’utilizzo della didattica a distanza. Dando così modo ai docenti del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Bergamo e dell’Istituto Alberghiero Sonzogni di Nembro (oltre agli incontri per la rivista Spazio) di proseguire il percorso scolastico interrotto dal virus. I detenuti hanno positivamente accolto tale iniziativa alla ripresa scolastica e agli incontri formativi. Anche il personale di Polizia Penitenziaria ha contribuito alla riuscita di questo nuovo progetto: una scuola in videoconferenza con tutti i docenti delle scuole, utilizzando sistemi informatici che oggi aiutano ad accorciare le distanze. Lo spazio, allora, forse non è così lontano: a volte basta guardare con occhi diversi per non sentirsi abbandonati o… persi nello spazio. *Assistente Capo Coordinatore della Casa Circondariale di Bergamo Pena di morte, le esecuzioni continuano a diminuire ma l’Arabia Saudita fa il record di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 aprile 2020 Il rapporto sulla pena di morte nel mondo diffuso oggi da Amnesty International conferma che il numero delle esecuzioni note continua a diminuire: erano state 690 nel 2018, sono state 654 lo scorso anno. Esecuzioni note, sottolinea l’organizzazione impegnata da decenni nella campagna per abolire la pena capitale, poiché come sempre mancano i numeri della Cina, che Pechino si ostina a non rendere noti. Si stima che le persone messe a morte siano migliaia ogni anno. Il Medio Oriente, regione in cui c’è un deficit complessivo di tutela dei diritti umani, continua a essere l’area più resistente alla tendenza abolizionista. Nel 2019 le esecuzioni sono rimaste stabilmente alte in Iran (251) e addirittura raddoppiate in Iraq (da 52 a 100), ma è l’Arabia Saudita ad aver raggiunto un triste record con 184 esecuzioni, mai così tante da quando, nel 2000, Amnesty International ha iniziato a contarle. Complessivamente, diminuiscono le esecuzioni nel continente asiatico e nell’Africa subsahariana, dove alcuni governi si sono impegnati in direzione dell’abolizione della pena di morte. Stati Uniti (22 esecuzioni) e Bielorussia (tre) restano le eccezioni in due continenti, le Americhe e l’Europa, che sarebbero altrimenti liberi dalla pena capitale. Ma proprio dagli Usa arrivano dall’anno scorso due buone notizie: il governatore della California ha disposto una moratoria sulla pena di morte (è lo stato col più popolato braccio della morte) e quello del New Hampshire l’ha abolita, seguito quest’anno dal Colorado. In totale, sono 20 i paesi che hanno fatto ricorso alla pena di morte nel 2019. Un’esigua minoranza a fronte dei 142 che l’hanno abolita, 106 dei quali per tutti i reati. Africa Subsahariana. Rilasciare i prigionieri di coscienza e proteggere i detenuti dal Covid-19 amnesty.it, 22 aprile 2020 Le autorità dell’Africa Subsahariana devono agire immediatamente per proteggere i detenuti dal Covid-19 con misure che comprendano anche il rilascio dei prigionieri di coscienza, la revisione dei casi di detenzione preventiva e la garanzia dell’accesso all’assistenza e ai prodotti disinfettanti in tutte le strutture. “Con il diffondersi del Covid-19 nell’Africa Subsahariana il grave sovraffollamento in molte carceri e istituti penitenziari rischia di trasformarsi in una catastrofe sanitaria pubblica, soprattutto a causa della mancanza generale di assistenza sanitaria e delle carenze igieniche”, ha dichiarato in una nota ufficiale Samira Daoud, direttrice di Amnesty International per l’Africa centrale e occidentale. Chiediamo altresì alle autorità di prendere in considerazione un rilascio anticipato, provvisorio o una liberazione condizionale dei detenuti anziani e di coloro che presentano patologie pregresse, unitamente a donne e ragazze che si trovano in regime di detenzione con figli minori o che sono incinte. “In molti paesi in tutta la regione, sono numerosi coloro che si trovano in carcere solo per aver esercitato i propri diritti umani in maniera pacifica. Oltre ad essere la cosa giusta da fare, il rilascio immediato e incondizionato dei prigionieri di coscienza libererebbe spazio in quelle strutture e aiuterebbe a proteggere detenuti e personale dal virus”, ha proseguito Samira Daoud. In tutta la regione dell’Africa Subsahariana, la detenzione preventiva resta uno strumento punitivo ampiamente diffuso ed eccessivamente utilizzato. Al mese di giugno 2019 le persone detenute negli istituti penitenziari in Madagascar, paese con una capacità totale nazionale di 10.360 detenuti, erano 28.045. Oltre il 75 per cento dei 977 ragazzi detenuti si trova in custodia cautelare. Minori e adulti accusati di reati minori sono costretti in penitenziari sporchi e sovraffollati più a lungo di quanto previsto per legge per la detenzione preventiva. In Senegal, prima della liberazione dei detenuti annunciata nel marzo 2020, il paese contava 11.547 persone in 37 carceri con una capacità totale di 4224 carcerati. Situazione simile in Burundi i cui istituti penitenziari, con una capacità di 4194 persone, ospitavano prima del dicembre 2019 11.464 detenuti, il 45,5 per cento dei quali in detenzione preventiva. Secondo gli ultimi dati disponibili sulla prigione centrale di Makala, nella Repubblica Democratica del Congo, nel 2016 vi erano 8000 detenuti, più di cinque volte la capacità ufficiale di 1500. Nel paese nel corso del 2019 sono stati rilasciati circa 700 detenuti ma almeno 120 prigionieri sono morti per fame, mancanza di accesso ad acqua potabile e assistenza sanitaria adeguata. “Anche prima della pandemia da Covid-19, gli istituti penitenziari nella Repubblica Democratica del Congo erano luoghi di morte. Oltre a mettere in luce la spaventosa realtà che si trovano ad affrontare persone private della propria libertà, il virus aumenta i rischi a cui i detenuti sono esposti quotidianamente”, ha commentato Deprose Muchena, direttore di Amnesty International per l’Africa meridionale e orientale. Prigionieri di coscienza: giornalisti, difensori dei diritti umani, studenti - Molti paesi della regione hanno una lunga tradizione di detenzioni arbitrarie per coloro che hanno esercitato o difeso i diritti alla libertà di espressione, assemblea pacifica o associazione, il che contribuisce al sovraffollamento. Abbiamo sottolineato l’emergenza di molti prigionieri di coscienza che adesso si trovano ad affrontare la concreta minaccia del Covid-19 in prigione. Il giornalista Ignace Sossou in Benin è stato condannato il 24 dicembre 2019 a 18 mesi di reclusione per “molestie attraverso mezzi di comunicazione elettronici” per alcuni tweet con dichiarazioni attribuite al procuratore intervenuto durante una conferenza organizzata dall’Agenzia francese per lo sviluppo dei media. In Burundi, il difensore dei diritti umani Germain Rukuki è stato arrestato per la sua attività e sta scontando una pena detentiva di 32 anni mentre quattro giornalisti collaboratori di uno dei pochi media indipendenti del paese, Iwacu, sono stati condannati il 30 gennaio 2020 a due anni e mezzo di reclusione per aver cercato di svolgere delle indagini sugli scontri violenti avvenuti nel paese. In Camerun tre studenti, Fomusoh Ivo Feh, Afuh Nivelle Nfor e Azah Levis Gob, sono stati condannati a 10 anni di reclusione “per non aver riportato informazioni in materia di terrorismo” dopo aver scritto un messaggio con una barzelletta su Boko Haram. Tra le persone ancora detenute per aver protestato in maniera pacifica contro presunte irregolarità durante le elezioni presidenziali del 2018 o in favore dei diritti economici e sociali nelle regioni anglofone, spicca il caso di Mancho Bibixy Tse, arrestato il 9 gennaio 2017 e condannato il 25 maggio 2018 da un tribunale militare a 15 anni di reclusione con l’accusa di “terrorismo”, semplicemente per aver protestato in maniera pacifica contro dei camerunensi della comunità di lingua inglese. In Ciad Martin Inoua, direttore del giornale Salam Info, nel settembre 2019 è stato condannato a tre anni di reclusione per diffamazione, calunnie e associazione a delinquere dopo aver pubblicato un articolo su una presunta aggressione sessuale da parte di un ex ministro. “Amnesty International considera tutte queste persone prigionieri di coscienza, imprigionati solo per aver esercitato i propri diritti; devono essere rilasciati immediatamente e senza condizioni”, ha concluso Deprose Muchena. In Guinea, attivisti del Fronte nazionale per la difesa della costituzione sono arbitrariamente imprigionati per aver manifestato in maniera pacifica contro un progetto di riforma costituzionale che prevede per il presidente Alpha Condé la possibilità di candidarsi per un terzo mandato e lo svolgimento di un referendum costituzionale il 22 marzo 2020. Ibrahimo Abu Mbaruco, giornalista in Mozambico, è stato vittima di una sparizione forzata il 7 aprile 2020. Aveva inviato un messaggio a un collega in cui diceva di essere stato minacciato da alcuni soldati vicino casa sua a Palma, nella provincia settentrionale di Cabo Delgado. Le autorità mozambicane sono note per gli arresti arbitrari, le torture e altri maltrattamenti nei confronti dei giornalisti. “È spaventoso che un numero così alto di persone che esercita in maniera pacifica i propri diritti umani adesso si trovi esposta al rischio di contrarre il Covid-19 nelle carceri africane. Devono essere tutte rilasciate senza ulteriori indugi”, ha aggiunto Deprose Muchena. In Somaliland il presidente Muse Bihi Abdi ha graziato 574 detenuti il 1 aprile per migliorare il problema del sovraffollamento ma nell’elenco non è incluso il giornalista freelance Abdimalik Muse Oldon, arrestato arbitrariamente un anno fa per aver criticato il presidente su Facebook. Avversari politici e critiche al governo In Congo, quattro sostenitori del movimento di opposizione Incarner L’Espoir, Parfait Mabiala, Franck Donald Saboukoulou Loubaki, Guil Miangué Ossebi e Meldry Rolf Dissavoulou, sono stati accusati di aver messo in pericolo la sicurezza del paese e sono stati reclusi arbitrariamente per molti mesi. Gli avversari e i candidati politici delle elezioni presidenziali del 2016, Jean-Marie Michel Mokoko e André Okombi Salissa, sono stati condannati per aver messo in pericolo la sicurezza interna dello stato nel 2018 e da allora si trovano in regime di detenzione arbitraria. In Eritrea, chiunque esprima un’opinione politica diversa da quella del governo è a rischio di arresto; migliaia di politici, giornalisti, difensori dei diritti umani e persino familiari vengono imprigionati per anni, praticamente senza prospettive di rilascio. In Etiopia il governo ha liberato oltre 10.000 detenuti giunti quasi alla fine della pena o che erano stati condannati a un massimo di tre anni di reclusione ma per avversari politici e giornalisti continuano le detenzioni inique per motivi di opinione o per aver svolto il proprio lavoro. In Madagascar Arphine Helisoa, direttrice editoriale del giornale Ny Valosoa, si trova in detenzione preventiva nella prigione della capitale Antanimora il 4 aprile con l’accusa di aver diffuso “fake news” e di “incitamento all’odio nei confronti del presidente Andry Rajoelina”, per aver criticato la gestione del presidente nella risposta nazionale al Covid-19. In Sud Sudan, dall’inizio del conflitto, nel 2013, il Sevizio di sicurezza nazionale ha arbitrariamente arrestato senza capi d’accusa centinaia, forse migliaia, di presunti oppositori del governo, giornalisti e membri della società civile. I detenuti fanno affidamento sulle proprie famiglie per il cibo ma molti adesso non possono più farlo a causa delle restrizioni per il Covid-19. In Tanzania, l’avvocato per i diritti umani Tito Magoti e Theodory Giyani, accusato con lui, sono in regime di detenzione presso la polizia dal 20 dicembre 2019, con il tribunale che ha rinviato il processo per la nona volta il 15 aprile 2020. In Uganda, la polizia militare ha arrestato lo scrittore e studente di giurisprudenza Kakwenza Rukira il 13 aprile 2020 per il suo libro Avidi barbari, che critica la famiglia alla guida del paese. Non sono ancora state formalizzate le accuse a suo carico. “La diffusione del Covid-19 rappresenta una preoccupazione per la salute pubblica anche nelle carceri e nelle altre strutture penitenziarie. È necessario che la riduzione del numero di persone detenute sia parte integrante della risposta degli stati al Covid-19, che deve avere inizio in primo luogo con il rilascio immediato e incondizionato di tutti coloro che non dovrebbero essere detenuti”, ha concluso Samira Daoud. Stati Uniti. Duemila positivi, una prigione dell’Ohio è uno dei più grandi focolai del mondo di Ida Artiaco fanpage.it, 22 aprile 2020 Il Marion Correctional Institution, carcere dell’Ohio, rischia di trasformarsi in uno dei più grandi focolai di Coronavirus degli Stati Uniti dopo che 109 dipendenti e 1828 detenuti, il 73 per cento del totale, sono stati trovati positivi al Covid-19. Il primo caso era stato registrato il 29 marzo e nel giro di 15 giorni il contagio si è allargato a dismisura. Centonove dipendenti e quasi duemila detenuti risultati positivi al Covid-19. Il Marion Correctional Institution, carcere che si trova in Ohio, Stati Uniti, potrebbe diventare uno dei più grandi focolai a livello nazionale della pandemia di Coronavirus. Il numero dei contagi all’interno della struttura ha infatti superato domenica scorsa quello di una industria di lavorazioni delle carni in South Dakota e della portaerei Roosevelt a Guam. Il Dipartimento di riabilitazione e correzione dello Stato (Odrc), che gestisce il sistema carcerario, ha rivelato che l’intero istituto detentivo è attualmente in quarantena. 1.828 detenuti affetti dall’infezione, cioè il 78 per cento del totale, sono stati isolati e separati da altri 667 che invece sono risultati negativi ai test. Lo scorso 8 aprile l’agente John Dawson, che lavorava nella prigione dal 1996, è morto a causa della malattia causata dal nuovo virus. Il primo caso di un membro dello staff era stato denunciato lo scorso 29 marzo. Nel giro di 15 giorni il contagio ha raggiunto più di 1800 detenuti. Complessivamente nei penitenziari dell’Ohio ci sono 2400 casi tra i reclusi e 244 tra lo staff, ossia il 20% del totale, che è di 11.602 casi. Intanto, crescono le preoccupazioni da parte delle autorità riguardo soprattutto alla possibilità di garantire distanziamento sociale all’interno delle prigioni. Al momento, si sta procedendo con tamponi di massa a tutti i soggetti che si trovano dietro le sbarre, non solo al Marion Correctional Institution. A Pickaway, 1614 detenuti sono in quarantena dopo che 384 sono risultati positivi. Sessantaquattro membri del personale sono risultati positivi e due sono guariti. Ci sono stati anche cinque decessi confermati e uno è ancora in fase di verifica. A Franklin, 102 detenuti sono isolati dopo che 103 sono stati trovati positivi ed uno è morto. Anche quarantasei membri dello staff risultano infetti. Per ridurre il rischio di contagio i pasti all’interno delle strutture sono stati ridotti da tre a due ogni giorno, è stato bloccato l’ingresso ai visitatori e sono state rese gratuite telefonate e videochiamate per avere contatti con l’estero. Inoltre ai detenuti è permesso indossare maschere di stoffa. Il personale e i fornitori devono sottoporsi a controlli di temperatura prima di entrare. Marocco. Un’intera prigione diventa un hotspot per il coronavirus di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 22 aprile 2020 Almeno 68 persone, per lo più membri del personale, sono state colpite dal coronavirus in una prigione della città marocchina meridionale di Ouarzazate, secondo quanto riferito dalle autorità carcerarie, che hanno omesso il numero dei decessi. Nella struttura di Ouarzazate, almeno 6 detenuti avevano contratto il virus, a inizio mese, ma nessuna particolare misura precauzionale era stata adottata. In base a quanto stabilito da una dichiarazione della Delegazione Generale per l’amministrazione e la riabilitazione delle prigioni, rilasciata lunedì 20 aprile, tutta la popolazione carceraria verrà sottoposta al test data l’incontrollata esplosione di casi. Lo staff e i prigionieri infetti dovranno seguire tutti i trattamenti e le accortezze suggerite dalle autorità sanitarie. Coloro che invece risulteranno negativi saranno messi in quarantena e dovranno adeguarsi alle dovute misure di prevenzione. A livello generale, il governo di Rabat aveva disposto, il 6 aprile, la scarcerazione di circa 5.645 prigionieri, molti dei quali versavano in cattive condizioni di salute. La mossa sarebbe servita a ridurre il rischio di contagio nelle prigioni, dove il distanziamento sociale è impossibile da rispettare e le condizioni igieniche sono piuttosto precarie. Ad oggi, il Marocco ha confermato circa 3.186 casi di coronavirus, inclusi 144 decessi. Ha imposto un blocco nazionale fino al 20 maggio e ha reso obbligatorio l’uso delle mascherinefuori casa. Il primo ministro, Saâdeddine El Othmani, ha dichiarato, martedì 21 aprile, che l’aumento dei contagi, nonostante settimane di restrizioni e blocchi, è dovuto alla trasmissione all’interno delle famiglie, delle fabbriche e dei centri commerciali, dove rimangono aperti i supermercati. Le misure di blocco impongono ai cittadini di uscire solo per attività essenziali. Scuole, moschee, negozi e tutti i luoghi di intrattenimento sono stati chiusi. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha affermato il mese scorso che tutti i Paesi dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di rilasciare i detenuti anziani e i criminali a basso rischio. Alcuni Stati, tra cui Iran, Afghanistan, Indonesia, Canada e Germania hanno già liberato migliaia di prigionieri per ridurre il rischio di un grave focolaio nelle carceri. Misure simili sono state prese in Gran Bretagna, Polonia e Italia, con le autorità incaricate che monitorano da vicino quelli che vengono rilasciati per assicurarsi che non aumentino le attività criminali o i disordini sociali in un momento di disagio nazionale. Ma mentre tali misure sono possibili nei Paesi più sviluppati, la sfida diventa più seria in altre parti del mondo. In Iran, dove circa 190.000 persone sono incarcerate, il governo ha annunciato che rilascerà temporaneamente 85.000 prigionieri, mentre a 10.000 di loro è stata concessa la grazia. “Il covid-19 ha iniziato a colpire le carceri, le prigioni e i centri di detenzione per gli immigrati, nonché case di cura e ospedali psichiatrici, e rischia di scatenarsi tra le popolazioni più vulnerabili”, ha affermato Bachelet. “Le autorità dovrebbero esaminare i modi per liberare coloro che sono particolarmente vulnerabili al virus, tra cui i detenuti più anziani e quelli che sono malati, nonché i trasgressori di basso profilo”, ha aggiunto la commissaria, sottolineando che le strutture di detenzione di molti Paesi sono gravemente sovraffollate, il che rende i prigionieri e il personale delle carceri particolarmente vulnerabili all’infezione. “Le persone sono spesso trattenute in condizioni estremamente antigieniche e i servizi sanitari sono inadeguati o addirittura inesistenti. Il distanziamento fisico e l’autoisolamento in tali condizioni sono praticamente impossibili”, ha osservato. Siria. In Germania al via il processo sulle torture nelle carceri di Assad di Alessandra Fabbretti dire.it, 22 aprile 2020 I giudici tedeschi hanno accolto le accuse di “torture e crimini contro l’umanità” presentate dalla procura. Giovedì a Coblenza, in Germania, si apre un processo inedito: sul banco degli imputati il governo siriano, e in particolare due responsabili dei servizi di intelligence, accusati di torture su 4.000 persone avvenute all’interno di Al-Khatib, il carcere di Damasco. A darne notizia, The Syria Campaign (Stc), associazione composta dalle famiglie delle vittime di torture, uccisioni e sparizioni forzate nel corso della guerra in Siria. Stando a quanto riporta Stc, e che trova conferma anche in una nota pubblicata sul sito web del Tribunale regionale superiore di Coblenza, i giudici hanno accolto le accuse di “torture e crimini contro l’umanità” presentate dalla procura. Gli imputati, Anwar Raslan e Eyad Al-Gharib, sono stati arrestati dalle autorità tedesche a febbraio, in quanto entrati nel Paese tra il 2014 e il 2018. Il 57enne Raslan è sospettato di aver torturato 4.000 detenuti tra il 29 aprile 2011 e il 7 settembre 2012. “Per tutto il periodo della detenzione - si legge sul sito del tribunale - i prigionieri hanno subito brutali violenze tra cui percosse, calci e scosse elettriche”. Raslan è inoltre accusato di aver permesso “58 omicidi” nonché “stupri e gravi violenze sessuali” a danno dei detenuti. Tali reati si sarebbero svolti “nell’ambito di un vasto e sistematico attacco alla popolazione civile”. Quanto ad Al-Gharib, avrebbe a sua volta commesso crimini contro l’umanità tra “l’1 settembre e il 31 ottobre del 2011” e sarebbe responsabile delle torture e delle violenze sessuali subite da almeno 30 persone, arrestate “in seguito a una manifestazione”. Stando all’accusa “il brutale abuso fisico e psicologico è servito a ottenere con la forza confessioni e informazioni da parte del movimento di opposizione” in Siria, sviluppatosi dopo le proteste iniziate nel marzo di quello stesso anno, e da cui avrà origine la guerra civile. “Almeno 58 persone sono morte a causa dei maltrattamenti subiti in quel periodo” denuncia la procura tedesca, riferendo ancora: “Oltre agli abusi citati nelle prigioni si viveva anche condizioni disumane e degradanti. Ad esempio, ai detenuti venivano negate le cure mediche e l’igiene personale, non c’era abbastanza da mangiare, il cibo era spesso immangiabile e le celle cosi’ sovraffollate che sedersi o sdraiarsi spesso non era possibile. I prigionieri sarebbero stati costretti a dormire in piedi”. Al processo di giovedì testimonieranno siriani residenti in Germania, sopravvissuti alle torture, che hanno sporto querela. Per le famiglie di The Syria Campaign rappresenterà “un momento fondamentale per la giustizia”. Alcuni dei querelanti saranno assistiti da Anwar Al-Bunni, avvocato e difensore dei diritti umani, direttore del Centro studi siriano per gli affari legali (Syrian Center for Legal Studies), con sede a Barlino. Lui stesso è stato detenuto ad Al-Kathib dal 2006 al 2011. Giunto a Berlino, ha iniziato a prendere contatti con gli attivisti siriani e cosi’ ha scoperto che la polizia tedesca indagava su Raslan dal 2016. Col tempo, come ha raccontato alla stampa internazionale, Al-Bunni è riuscito a convincere alcune vittime delle carceri a denunciare gli abusi subiti. “Questo processo - ha detto l’avvocato - manda un messaggio molto importante al regime di Assad: che non avrà mai l’impunità, quindi di pensare bene a quello che fa”. Il governo del presidente Bashar Al-Assad, le forze di sicurezza e i servizi di intelligence sono accusati da diverse associazioni siriane e internazionali di aver commesso arresti arbitrari, torture, uccisioni e sparizioni forzate su migliaia di civili a partire dalla rivoluzione del 2011. Siria. Human Rights Watch: essenziale unità di ricerca detenuti e scomparsi sotto Is agenzianova.com, 22 aprile 2020 Un’unità di lavoro per ricostruire la sorte delle migliaia di persone arrestate o scomparse nel nordest della Siria durante il controllo dello Stato islamico (Is) è fondamentale per identificare i responsabili. Lo afferma l’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw) sul proprio sito. Hrw ha espresso apprezzamento per l’istituzione, il 5 aprile scorso, di un gruppo di lavoro formato da avvocati, attivisti e parenti di scomparsi da parte dell’amministrazione autonoma curda nella Siria nord-orientale. Le autorità curde e la coalizione militare a guida statunitense sono chiamate a fornire tutte le informazioni necessarie per comprendere che fine abbiano fatto le migliaia di persone catturate dall’Is di cui non si sa più nulla. Coronavirus, Cnf: “Governo intervenga su Turchia per liberare avvocati detenuti” consiglionazionaleforense.it, 22 aprile 2020 “Il governo italiano intervenga, per via diplomatica presso il governo di Ankara, affinché gli avvocati e i prigionieri politici turchi, attualmente ancora ingiustamente detenuti, vengano immediatamente liberati”. È la richiesta che il Consiglio nazionale forense indirizza al premier Giuseppe Conte e al ministro degli Esteri Luigi Di Maio per un intervento dell’Italia a favore della scarcerazione degli avvocati turchi, ingiustamente reclusi poiché accusati o condannati a causa del libero esercizio della professione, ed esclusi dal provvedimento di amnistia recentemente promosso in Turchia per ridurre il sovraffollamento carcerario e l’ulteriore propagarsi del virus Covid 19. Secondo l’ultimo rapporto, curato dal Consiglio nazionale forense con l’associazione Arrested Lawyers che si occupa della persecuzione di massa degli avvocati in Turchia, a febbraio 2020 risultano 605 arresti e 345 condanne arbitrarie per un totale di 2145 anni di prigione comminati agli avvocati turchi. La delibera, approvata dal plenum del Cnf che a gennaio scorso aveva già proclamato il 2020 come l’”Anno dell’avvocato in pericolo nel mondo”, esprime la preoccupazione dell’avvocatura italiana per lo stato di salute dei detenuti turchi che, da settimane, sono in sciopero della fame e rifiutano di assumere gli integratori necessari al mantenimento delle funzioni vitali fino a quando le autorità turche non libereranno tutti gli avvocati reclusi. Egitto. Patrick Zaky, l’udienza rinviata per la sesta volta La Repubblica, 22 aprile 2020 Lo studente egiziano dell’Università di Bologna è in stato di detenzione dall’inizio di febbraio. È stata rinviata per la sesta volta, “come al solito di una settimana”, l’udienza in cui deve essere deciso se prolungare di altri 15 giorni la custodia cautelare di Patrick George Zaky, lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere al Cairo con l’accusa di propaganda sovversiva. Lo ha riferito all’Ansa una sua legale, Hoda Nasrallah. Come i precedenti, anche questo rinvio è dovuto al coronavirus, ha detto un altro suo avvocato, Walid Hassan. Zaky, iscritto al master internazionale in Studi di genere presso l’Alma Mater studiorum di Bologna, è detenuto in Egitto dal 7 febbraio, quando fece ritorno in patria per salutare la famiglia. Fra le accuse a suo carico, basate su un account Facebook che la difesa considera gestito da altri, vi sono “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. La famiglia, preoccupata per la sorte del giovane che soffre di asma, ha potuto vederlo nel carcere cairota di Tora l’ultima volta quaranta giorni fa, il 9 marzo. Nei giorni scorsi il rettore dell’ateneo di Bologna, Francesco Ubertini, auspicando un esito diverso rispetto a quello odierno, ha detto: “Resta ferma la nostra richiesta: chiediamo per Patrick, membro della nostra comunità, il rispetto dei diritti fondamentali, dei diritti politici, la tutela della libertà d’espressione e soprattutto il diritto alla libertà individuale”, mentre Amnesty Italia, che ha da subito acceso un faro sulla vicenda di Zaky, aveva chiesto “alle autorità italiane di trovare un quarto d’ora di attenzione, pur nella situazione difficilissima in cui è il nostro Paese, per chiedere alle autorità egiziane di rilasciare al più presto Patrick”. Oggi però Amnesty, spiega il portavoce Riccardo Noury, “è convinta più che mai che occorra cambiare strategia. Nelle prossime ore contatteremo tutti i partner coinvolti nella campagna per rilasciare Zaky, in particolare quelli istituzionali, per avviare azioni comuni che abbiano un obiettivo diverso: rilasciare immediatamente Patrick per motivi di salute”. “Dopo l’ennesimo rinvio, vediamo continuare a oltranza una detenzione che dovrebbe essere preventiva. Ricordo che siamo ancora in attesa di un’udienza che dovrebbe dirci se e per cosa Zaky merita un processo. Settantacinque giorni sono un tempo abnorme per una carcerazione preventiva e la pandemia non può giustificare la sospensione dei diritti umani” dichiara la senatrice bolognese Michela Montevecchi, vicepresidente della commissione Cultura e membro della commissione Diritti umani.