La doppia crisi delle celle affollate di Valerio Onida Corriere della Sera, 21 aprile 2020 Il problema sanitario si aggiunge alla carenza di spazio. Ma potrebbe costituire un’occasione. Tra le questioni che la situazione di emergenza sanitaria ha posto e pone nel nostro Paese merita attenzione quella delle carceri, in cui convivevano, al manifestarsi dell’epidemia, più di sessantamila detenuti, dodicimila circa in più rispetto alla capienza regolamentare: e la situazione di pericoloso “affollamento” riguarda anche il numero altrettanto elevato (ancorché insufficiente) degli operatori delle carceri, le cui attività ovviamente non possono essere sospese né trasformate in “lavoro agile” a distanza. All’inizio sono stati disposti controlli sanitari sulle nuove persone che entravano negli istituti, si è sospeso l’accesso alle carceri da parte di volontari esterni, e si sono sospesi i colloqui “a vista” dei detenuti con i loro familiari (quest’ultima, tra le tante “chiusure”, ha una portata particolarmente afflittiva per coloro che, vivendo in carcere, avevano già poche occasioni di incontro con i loro cari). Ma il rischio del dilagare del contagio è aggravato per effetto di un fenomeno preesistente al virus: il sovraffollamento “cronico” delle nostre carceri. Qualche anno fa, a seguito di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che aveva dichiarato come il sovraffollamento avesse dato luogo a un “trattamento inumano o degradante” di molti detenuti, con violazione di loro diritti fondamentali, il nostro legislatore si era mosso, prevedendo fra l’altro sconti di pena tali da favorire l’uscita anticipata di diversi detenuti. Ma in poco tempo, in mancanza di una adeguata politica di depenalizzazioni, e soprattutto di interventi che riducessero il ricorso alle pene detentive e alla loro esecuzione “intramuraria”, la situazione di sovraffollamento si è riprodotta negli stessi termini. Il ricorso alle pene come risposta ai comportamenti antisociali dovrebbe essere solo l’extrema ratio; e soprattutto la pena detentiva dovrebbe essere riservata ai casi più gravi di pericolosità sociale, ampliando invece il ricorso a pene alternative. Inoltre il ricorso a misure alternative extracarcerarie (come l’affidamento ai servizi sociali e la detenzione domiciliare), per l’esecuzione della pena o di una parte di essa, dovrebbe essere reso più ampio. L’emergenza coronavirus ha condotto, per quanto tardivamente, il legislatore ad allargare, con il decreto legge 18 del 17 marzo, la possibilità, per i detenuti che debbano scontare una pena, anche residua, non superiore a 18 mesi, di eseguirla in regime di detenzione domiciliare. Questo istituto era già presente nell’ordinamento, ma, oltre che escluso per certe categorie di condannati, era subordinato nella sua attuazione all’accertamento, da parte del magistrato, che non vi fossero pericoli concreti di fuga o di commissione di nuovi reati, nonché all’esistenza di un domicilio idoneo. Il recente decreto si è limitato ad allargare le condizioni per la concessione, sostituendo le condizioni relative al pericolo di fuga o di nuovi reati con il potere del magistrato di valutare l’esistenza di “gravi motivi ostativi alla concessione della misura”, e imponendo, se la pena da scontare superi i sei mesi, il cosiddetto braccialetto elettronico, che però di fatto non è per lo più disponibile. Resta invece la condizione dell’idoneità del domicilio. Onde la nuova misura finora ha dato insufficienti risultati di deflazione della popolazione carceraria. Permane dunque il rischio di un diffondersi del contagio. Ma soprattutto, anche a prescindere da esso, il sovraffollamento delle carceri non è accettabile in sé, riproducendo di fatto una permanente violazione di diritti umani fondamentali. Anche senza il coronavirus, avremmo dovuto e dovremmo farcene carico: ma l’emergenza sanitaria dovrebbe dare comunque la spinta per adottare in questa direzione provvedimenti decisivi e non provvisori. Occorrerebbe eliminare la condizione, ora impossibile da osservare, del braccialetto elettronico per le pene da scontare superiori a sei mesi, semplificare al massimo la procedura di concessione della detenzione domiciliare, e prevederla anche per pene da scontare superiori ai limiti attualmente stabiliti. Certo, il problema dei detenuti (specie stranieri) privi di un domicilio idoneo è reale. Ma qui emerge un altro problema “cronico” del nostro sistema: la mancanza o l’insufficienza di strumenti che assicurino il diritto elementare di tutti ad avere una casa e i mezzi di sussistenza, per chi esce dal carcere ma anche per le altre persone che si trovino in situazioni simili. Questa dovrebbe essere un’occasione per affrontare finalmente in modo serio il problema del sovraffollamento delle carceri e del ricorso eccessivo alla detenzione carceraria. Qualcuno invoca un provvedimento di amnistia o di indulto, o l’uso massiccio del potere di grazia da parte del Presidente della Repubblica. Ma non è questa la strada giusta: a eventuali “colpi di spugna” si può e si deve guardare semmai nel quadro di riforme sistemiche dell’ordinamento penale. Qui si tratta invece di incidere a fondo sulle modalità di esecuzione delle pene, prevedendo modalità che davvero rispettino l’imperativo costituzionale per cui le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Chissà che la crisi del coronavirus non aiuti a intraprendere, con coraggio e determinazione, questa strada. È strage di legalità, in carcere e fuori di Tullio Padovani Il Riformista, 21 aprile 2020 L’emergenza sanitaria ha suscitato, in chi vive o lavora in carcere o al carcere guarda con un minimo di sensibilità, una serie di preoccupazioni note ai lettori. La risposta della politica e dell’opinione pubblica (che è il nome attribuito spesso a un “senso comune” plasmato da pregiudizi e disinformazione) è apparsa più risentita del solito: più sorda, più ritrosa; ma anche più sprezzante, più livorosa. Quale emergenza? Si è replicato con stizza. I rischi sono inferiori a quelli che corre la gente per bene, si sta andando alla caccia di fi - sime e pretesti per attentare al sacro dogma della “certezza della pena” (da dove mai verrà, questa insensatezza sbandierata con protervia pari all’ignoranza?). Insomma, le parole del rigore cieco e della vendetta ottusa si sono espresse con franca impudenza. Un tempo, per lo meno, si frapponeva lo schermo di un velo di pudicizia superstite, se non di pietà. Come ha potuto una pandemia inasprire a tal punto atteggiamenti che pure, negli ultimi anni, sembravano avere già raggiunto l’approdo a lidi selvaggi? Dalla pandemia - si ripete spesso con stucchevole retorica - usciremo migliori; ma per intanto siamo peggiorati assai, e quanto bruscamente. Una piccola riflessione non pare fuor di luogo. Il carcere non si uniforma affatto (come si racconta mitologicamente) al criterio dell’extrema ratio nel senso che vi si faccia ricorso soltanto in casi estremi, ma a quello dell’estrema marginalità, nel senso che con il carcere si stabilisce e si assicura il peggiore trattamento possibile dei criminali (definiti tali con successo da parte delle istituzioni giudiziarie: tanto per ispirarsi, ribaltandola, a quella specie di logica secondo cui sono gli assolti ad avere successo). Peggiore trattamento possibile nei limiti della legalità, ovviamente, da intendersi, tuttavia, con amplissima relatività rispetto ai singoli ordinamenti, e con la massima elasticità rispetto a ciascuno di essi, dato che il carcere è un universo disciplinare tendenzialmente anomico e strutturalmente refrattario alla legalità. Per questo Mario Pagano, per stabilire il tasso di legalità di un paese sconosciuto, indicava un coefficiente sicuro e preciso: la visita delle carceri locali al lume del diritto. Da noi il tasso è notoriamente depresso, e in realtà capovolto: ne abbiamo ottenuto ampie certificazioni anche in sede internazionale. Più agevole allora sarebbe la misura del tasso di illegalità. Ma perché deve consistere nel peggiore trattamento, se la pena deve in effetti tendere alla rieducazione, come pure stabilisce la nostra Costituzione? La risposta è semplice: il carcere non è fatto per rieducare e non può tendere a tale scopo. Per rispettare l’art. 27 della Cost. dovrebbe essere abolito. Da gran tempo ormai si è compreso che un’istituzione totale (che si occupa cioè di ogni attimo di tempo e di ogni centimetro di spazio di chi vi è rinchiuso) è strutturata in funzione del proprio ordine e della propria sicurezza, calati in un universo non retto da leggi, ma da una disciplina pervasiva e costante. È in questo modo che si materializza la pena, che è necessariamente ed essenzialmente una sofferenza inflitta legalmente dal giudice, ed applicata discrezionalmente (quando non arbitrariamente) dall’amministrazione penitenziaria. Diceva Franz von Liszt, più di cent’anni fa, che il contenuto della pena lo fa solo il carceriere: non il giudice, né la legge. Non è davvero cambiato molto da allora. Una sofferenza, dunque, un patimento, un dolore: il sinonimo più appropriato è a scelta; forse tormento, qualche volta tortura. Se così non fosse, non sarebbe pena. La rieducazione è lo scopo dichiarato, la giustificazione addotta, certo; ma i lavori per realizzarla sono in corso, senza successo, da duecento cinquant’anni circa, e cioè da quando la detenzione ha assunto il dominio pressoché assoluto della penalità. Quanto a conseguirla… si è mai insegnato a camminare legando le gambe fi no a spezzarle? Comunque, sia chiaro: la rieducazione non è vietata; può anche accadere. Ma per eterogenesi dei fi ni. La pena è dunque una sofferenza intenzionalmente inflitta. Ma quanto grande deve essere concretamente, effettivamente? Quanto il dolore, quanto il patimento? Il tempo (due, tre, vent’anni) è solo una misura quantitativa legale; i contenuti effettuali sono ben altra cosa, e si orientano verso due soglie precise. La prima, necessaria a far sì che i reietti liberi, i diseredati, i miseri, gli ultimi insomma, possano, al pensiero dei carcerati (non alla vista: l’istituzione totale è sempre opaca) considerarsi penultimi, lieti della loro condizione e timorosi di perderla. La seconda, sufficiente a rassicurare i benpensanti che l’inferno c’è, che è in terra, e che è popolato dai (con) dannati, sperabilmente da tutti i (con) dannati, che vi pagano il fio delle loro colpe. Arriva il corona virus e provoca disastri sanitari tra gli stati del globo: un’infelicità universale. Ma vale per gli stati quel che si dice delle famiglie: tutte quelle felici si somigliano; quelle infelici lo sono ciascuna a modo suo. Qual è il modo italiano di essere infelici al tempo del coronavirus? Da noi la bestia ha trovato un ambiente congeniale e un clima favorevole. L’ambiente si identifica con l’assetto istituzionale, farraginoso e pedante, ipertrofico e sconnesso. Il titolo V della Costituzione (la cui sciagurata paternità è nota) ha trasformato l’Italia in un condominio rissoso e inconcludente, moltiplicando (ahinoi, anche in materia sanitaria) competenze e decisori: una sagra di conflitti positivi e negativi e una pletora di decisioni contraddittorie. Quanto al clima di cui il virus ha potuto beneficiare, si tratta ovviamente della classe politica (e, più in generale, della classe dirigente): un compendio di figuranti che, per carità di Patria e nel suo complesso, può definirsi improbabile, altamente improbabile (ma purtroppo anche l’altamente improbabile accade). La farsa è nota, e non occorre insistere sulla miriade di aspetti sconcertanti che hanno accompagnato la recita della pièce. Deliberato il 31.01.2020 lo stato di emergenza sanitaria (che l’Italia era “prontissima” ad affrontare, secondo l’incauta e improvvida dichiarazione del Presidente del Consiglio), l’armamentario operativo messo in atto per contrastare l’epidemia si è risolto essenzialmente in restrizioni e limitazioni della libertà personale. Indispensabili? Necessarie? Utili? Sufficienti? Adeguate? Eccessive? Insignificanti? Le opinioni in campo si sprecano e non è certo possibile a chi scrive prender partito in simili diatribe; è possibile solo registrare una confusione babelica di proporzioni inverosimili, sufficiente di per sé a suscitare gravi dubbi sull’affidabilità di reggitori e reggenti, vassalli e valvassori, scienziati e minutanti. A fronte della canea, il punto che balza agli occhi è che queste restrizioni e limitazioni della libertà personale sono state assunte con provvedimenti amministrativi di varia natura; ma comunque amministrativi. Quale la fonte? Impossibile rinvenirla nell’art. 32 Cost. che si occupa dei trattamenti sanitari (non delle misure preventive come l’obbligo di rimanere a casa) postula poi la “disposizione di legge” (che qui manca) e si riferisce a situazioni evidentemente singolari (“Nessuno può essere obbligato…”: il signor nessuno è in concreto una singola persona). Neanche l’art. 16 Cost. serve alla bisogna: le limitazioni imposte alla libertà di circolazione e di soggiorno in determinate parti del territorio nazionale per motivi di sanità devono essere disposte in via generale dalla legge. Nel caso nostro manca la legge, e le limitazioni riguardano sì la generalità dei residenti, ma identificano una sorta di disciplina modulare (nebulosa e incerta) delle entrate e delle uscite dagli arresti domiciliari. Finiscono dunque con lo specializzarsi necessariamente sul singolo, qui, ora, in un determinato caso. E allora entriamo a vele spiegate nell’art. 13 Cost. che considera la libertà personale “inviolabile” ed esige la determinazione legale dei casi e dei modi della sua limitazione, rimettendone poi al giudice il necessario riscontro in sede di applicazione della misura restrittiva. Ovviamente di tutto questo non si rinviene traccia. Del resto, la legge generale sulla protezione civile autorizza sì l’emanazione di provvedimenti amministrativi straordinari, anche in contrasto con le leggi vigenti nel rispetto dei principi dell’ordinamento, ma certo non autorizza la deroga alla Costituzione. Deroga alla Costituzione significa stato di eccezione; e chi ha il potere di dichiararlo e di gestirne il regime è il vero titolare della sovranità. Lo diceva Carl Schmitt, che in materia era versato, e continua a valere anche oggi. Sulla scia del titolare emerso si sono ovviamente accodati i gerenti locali, ristabilendo un po’ degli antichi stati preunitari: conservo un passaporto rilasciato da S. S. Gregorio XVI per il transito dall’Umbria alla Toscana. Chissà che non possa tornare utile. La labilità indefinita del cumulo di ordinanze è ovviamente gestita da agenti cui spetta dar concretezza al vacuo e consistenza al vuoto, con piena e perfetta discrezionalità. Ne discende la trasformazione della libertà personale in un interesse solo vagamente e occasionalmente protetto. Le violazioni, accertate o presunte (le situazioni sono spesso intercambiabili), comportano pesanti sanzioni pecuniarie contro la cui applicazione si potrà certo ricorrere e, alla fi ne, approdare anche al giudice: a spese del malcapitato, naturalmente. Che veda riconosciuto o negato il proprio buon “diritto” (per modo di dire), costui avrà alla fine pagato una tassa per la libertà. Il libraio cui manifestavo stupore, perché la libreria era vuota dopo giorni dalla riapertura, mi ha replicato che i clienti si sentono impauriti: la forza pubblica ha contestato la legittimità all’uscita di casa per acquistare libri; la necessità dell’evasione dovrebbe essere sorretta da acquisti in farmacia o in negozi alimentari; se poi di strada ci fosse anche una libreria. Un colpo di stato sanitario, ho esclamato; e abbiamo riso infelici: c’era ben poco da ridere. In una condizione di tale labilità e di tale confusione, certo e sicuro è solo il degrado estremo della legalità. E se questa è la condizione dei cittadini, che ne sarà dei brandelli di legalità cui è (quando è) appesa la condizione dei carcerati? Si abbasserà, in puntuale aderenza al criterio della estrema marginalità. La condizione carceraria dovrà essere più opaca, più chiusa, più impenetrabile, più arbitraria, più crudele. Una volta liberato dalla sua maschera, il volto demoniaco del potere è quello di Medusa: impietrisce chi lo guarda. E non sarà facile, non sarà semplice, recuperare il terreno così repentinamente perduto. Forse non sarà nemmeno possibile, a causa degli sconvolgimenti che ci accompagneranno nei prossimi anni. Scriveva qualche giorno fa Mattia Feltri che vi fu, tra i nostri padri, chi era disposto a dare la vita per la libertà; noi rischiamo invece di perdere la libertà per salvare, forse, la vita. E questo potrà dire qualcosa di noi. Carcere, virus e povertà. In cella con un euro al giorno di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 aprile 2020 Il Dap raccoglie alimenti per le famiglie alla fame, ma aumentano pure i detenuti indigenti. Firmano l’appello all’amnistia del Partito Radicale 54 personalità di 14 Paesi europei. Che l’emergenza Coronavirus in Italia abbia ridotto alla fame una fetta di popolazione il cui equilibrio economico era già estremamente precario prima della pandemia, è un dato che si fa ogni giorno più evidente ai nostri occhi anche senza il supporto delle statistiche (a Roma, per esempio, le richieste di cibo alla Caritas da parte delle famiglie è più che raddoppiata nell’ultimo mese, e di homeless in strada ce n’è sempre di più). Nascosta alla nostra visuale è invece la povertà di una parte della popolazione detenuta che, non potendo più ricevere sostegno esterno, sia per il blocco delle visite e dei pacchi di famigliari e volontari, sia per l’impoverimento generalizzato, è ridotta allo stremo. “Al 18 aprile erano 299 i detenuti e le detenute di Sollicciano con meno di un euro al giorno disponibile sul conto corrente interno - denuncia la Comunità delle Piagge di Firenze che da 25 anni si occupa della popolazione penitenziaria - cifra irrisoria che li priva della possibilità di provvedere ai loro bisogni fondamentali: vestiario, effetti personali e tutto quanto esula dalla mera sopravvivenza. Una situazione aggravata dalla sospensione, causa Coronavirus, di ogni spazio di scambio, di incontro e di lavoro, dalla chiusura dei colloqui e dall’assenza dei contributi come cibo, vestiti ed effetti personali che normalmente arrivano dalle famiglie o dagli esterni”. La Comunità delle Piagge ha avviato una raccolta fondi, destinando una dotazione iniziale di 3 mila euro. Anche il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha avviato una “colletta” all’interno delle carceri, ma in questo caso per dare una mano a chi, fuori, non ce la fa. Spesso però sono le stesse famiglie dei detenuti, a chiedere una mano. “Nel solo mese di marzo c’è stato un incremento del 30% delle richieste di aiuto relative a generi di prima necessità”, ha spiegato il Dap avviando, per la prima volta su tutto il territorio nazionale, una collaborazione con la Fondazione Banco alimentare Onlus per raccogliere beni alimentari in tutti le carceri. Il Dipartimento ha invitato “ogni istituto a promuovere una colletta alimentare mediante il sistema del sopravvitto, attraverso il quale i detenuti possono destinare volontariamente al Banco alimentare una parte della loro spesa settimanale”. A Milano Bollate sono stati già raccolti 250 chili di alimenti da destinare alle famiglie più indigenti. Viceversa, fuori le mura, le famiglie dei detenuti sono in apprensione per la salute dei loro congiunti. Va detto che finora le misure di prevenzione e di contenimento dell’epidemia, adottate soprattutto dalla magistratura che in questo periodo ha ridotto al minimo il ricorso al carcere, sembrano tenere. Perché su 54.510 detenuti (il dato è di ieri; dall’inizio della pandemia sono state scarcerate 2 mila persone circa) distribuiti in meno di 47 mila posti, i numeri del contagio sono ancora contenuti. Preoccupano soprattutto alcuni focolai, come quello che si è sviluppato nel carcere di Torino, dove della sessantina di malati sono rimasti ora in cella 38 reclusi positivi al tampone, e nell’istituto penitenziario di Verona che attualmente conta 31 pazienti Covid. Ma, come ha avvertito ieri il provveditorato agli istituti di pena di Emilia Romagna e Marche dove sono circa 17 i positivi Covid, “il rischio di diffusione incontrollata del virus rimane altissimo”. Ecco perché all’appello promosso dal Partito Radicale e da Nessuno tocchi Caino per chiedere alle istituzioni europee (Parlamento, Commissione, Consiglio) di promuovere l’amnistia, al fine di fronteggiare la pandemia nelle carceri, hanno risposto già 54 personalità di 14 Paesi europei. Tra loro ci sono anche molti Garanti nazionali dei diritti dei detenuti, quelle figure istituzionali che in Italia sono prese di mira da alcuni sindacati di polizia penitenziari, a senza che nessuno delle altre istituzioni preposte abbia nulla da ridire. L’Unione Camere penali ieri ha chiesto al capo del Dap, Basentini, e al ministro di Giustizia, Bonafede, di prendere le distanze da quelle “gravissime affermazioni”, “contenute nei comunicati stampa di alcune sigle sindacali della Polizia penitenziaria”, relative agli interventi dell’Ufficio del Garante nazionale e del Garante regionale della Campania, “a seguito delle denunciate percosse ai detenuti, che sarebbero avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere”. Carcere, emergenza Covid-19: l’appello di 14 Paesi all’Ue per l’amnistia di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 21 aprile 2020 Sono 54 le personalità di 14 Paesi che chiedono alle istituzioni europee di promuovere l’amnistia per far fronte alla pandemia del Covid 19 nelle carceri. L’appello è rivolto ai Presidenti delle istituzioni europee (Parlamento, Commissione, Consiglio) affinché invitino gli Stati membri a concedere un’ampia ed urgente amnistia alle persone private della libertà personale, a partire dai più vulnerabili come donne incinte, anziani, minori e handicappati per sottrarli al rischio del contagio a cui la promiscuità di questi luoghi li espone. L’appello nasce da una proposta di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale. Prima firmataria è Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Nessuno tocchi Caino, con Rita Bernardini, Presidente, Sergio d’Elia, Segretario, Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale, Irene Testa, tesoriera e Maurizio Bolognetti, membro del Consiglio generale del PR ed in sciopero della fame dal 10 marzo sull’obiettivo di una amnistia per la Repubblica italiana. Con loro dall’Italia hanno firmato l’appello anche eminenti giuristi e parlamentari. Tra gli altri firmatari ci sono i francesi Jean Marie Delarue, ex Garante nazionale dei luoghi di privazione della libertà personale, Vincent Delbos, magistrato, Jean-Paul Costa, ex Presidente della Corte europea per i diritti dell’uomo, Ingrid Betancourt politica e scrittrice, Pascal Lamy, Presidente emerito dell’Istituto Jacques Delors ed ex Commissario europeo, il senatore André Gattolin, insieme allo spagnolo Alvares Gil Robles, primo Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, ai greci Nikolaos Paraskevopoulos, ex Ministro alla Giustizia e Athanassia Anagnostopoulou ex Ministro degli Affari Europei, al Premio Nobel per la Pace dell’Irlanda de Nord Mairead Corrigan Maguire, ai belgi Marc Nève, Presidente del Consiglio centrale di sorveglianza degli istituti penitenziari, Françoise Tulkens, ex vicepresidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e Philippe Mary, professore a l’ULB, esperto di carcere. E poi ancora magistrati, giuristi, politici, esperti e militanti dei diritti umani della Svizzera, della Repubblica Ceca, del Portogallo, del Regno Unito etc. Appello per amnistia immediata - Lettera aperta ai presidenti delle istituzioni europee Signora Presidente della Commissione europea, Signor Presidente del Consiglio europeo, Signor Presidente del Parlamento europeo, La pandemia da Covid-19 colpisce oggi i due terzi del pianeta. L’Europa paga un prezzo spaventoso in termini di vite umane. È ormai comprovato che la sola soluzione per evitare la propagazione locale della malattia risiede nell’evitare il maggior numero di persone, e questo vuol dire proibire i contatti con gli altri. Questo, con i test e ovviamente con le cure, è ciò che preconizza l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma tali misure sono chiaramente senza effetto nei luoghi in cui regna per natura la promiscuità e la miseria. È il caso dei luoghi di privazione della libertà: persone detenute ammucchiate in prigioni indegne, stranieri irregolari internati nell’attesa di un casuale ritorno forzato. Tale è anche il caso dei migranti che scappano da zone di guerra costretti a rifugiarsi in campi che accolgono talvolta decine di migliaia di persone senza che vi siano le misure di protezione elementari. Questa duplice angoscia, che si prova nei confronti delle persone private della libertà così come di chi è loro responsabile, è rilevata e divulgata da numerose organizzazioni regionali e da ONG. I medici, gli avvocati, i magistrati, i cittadini, ovunque in Europa e nel mondo, sono in apprensione per le conseguenze della pandemia, per chi è recluso e per il personale, in una situazione di promiscuità che li sovraespone al virus, e di conseguenza a misure più o meno gravi della malattia, e ciò ancor di più là dove i luoghi sono sovraffollati. Tra le risposte possibili a una tale situazione, in particolare nei luoghi di cattività, la prima urgenza è di decretare, in ragione dell’emergenza sanitaria, un’amnistia immediata, responsabile e solidale, per proteggere, tra quelli che sono privati della libertà i più deboli, in particolare le donne incinte, i più anziani, i bambini, i disabili. Inoltre, di concerto, devono essere messe in atto soluzioni massive di alternative alla privazione della libertà. Alcune di queste soluzioni sono state già adottate in altre parti del mondo. Ne va della nostra umanità. Dalla nostra capacità di mettere in campo oggi soluzioni efficaci rispetto a questa situazione di emergenza sanitaria, dipenderà domani la nostra capacità collettiva di farlo in nome di quella climatica. È per questo che noi Vi invitiamo con celerità a chiedere nel più breve tempo possibile agli Stati membri di adottare, secondo il diritto in vigore, un’ampia amnistia i cui princìpi, definiti congiuntamente nell’Unione Europea, si rifacciano ai nostri valori comuni, e in primo luogo alla Carta dei diritti fondamentali che nel suo primo articolo declama: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e protetta.” Siamo d’esempio! La pandemia, che colpisce violentemente la nostra Europa, chiederà domani all’insieme delle Nazioni di andare in questa stessa direzione. Firmatari Elisabetta Zamparutti (Italia), Tesoriere di Nessuno tocchi Caino ed ex parlamentare, Jean-Marie Delarue (Francia), ex Garante nazionale dei luoghi di privazione della libertà personale (NPM), Vincent Delbos (Francia), magistrato ed ex componente il Meccanismo Nazionale di Prevenzione (MNP), Mairead Corrigan Maguire (UK), Premio Nobel per la Pace 1976, Jean-Paul Costa (Francia), ex Presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Bruno Cotte (Francia), ex presidente di sezione presso il Tribunale Penale Internazionale, Alvares Gil Robles (Spagna), primo Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Pascal Lamy (Francia) Presidente emerito dell’Istituto Jacques Delors ed ex Commissario europeo al commercio internazionale, Nils Muiznieks (Lettonia), ex Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Françoise Tulkens (Belgio), ex vicepresidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Petr Uhl (Repubblica Ceca), firmatario di “Charta 77”, fondatore di VONS, Prix Charlemagne 2008, Nikolaos Paraskevopoulos (Grecia), Prof.Emerito di Diritto Penale, ex Ministro della Giustizia, Vania Costa Ramos (Portogallo), Presidente del Forum Penal - Criminal Lawyers’ Association, Portogallo e Vicepresidente dell’European Criminal Bar Association,), Rita Bernardini (Italia) Presidente Nessuno tocchi Caino, Ingrid Betancourt (Francia), esponente politica, scrittrice, Athanassia Anagnostopoulou (Grecia), deputato, ex Ministro degli Affari Europei e Professore di Storia alla Panteion University, Nick Hardwick (Regno Unito), ispettore capo delle carceri di Sua Maestà e Presidente dell’UK Meccanismo Nazionale di Prevenzione MNP 2010-2016, Sergio d’Elia (Italia) Segretario di Nessuno tocchi Caino, Arta Mandro (Albania), professoressa alla Scuola di magistrati albanese e scrittrice, Jean Pierre Restellini (Svizzera), ex Presidente del Meccanismo Nazionale di Prevenzione MNP, Mireille Delmas-Marty (Francia), professoressa onoraria al Collège de France e membro dell’Accademia di scienze Morali e Politiche, Anna Šabatová (Repubblica Ceca), ex difensore civico ceco, portavoce e firmataria di “Charta 77”, Maurizio Bolognetti (Italia), Consigliere Generale del Partito Radicale, in sciopero della fame per l’amnistia, Carlos Pinto de Abreu (Portogallo), avvocato ed ex Presidente del Comitato per i Diritti Umani dell’Ordine degli Avvocati portoghese, Eftychis Fytrakis (Grecia), dottore in diritto penale, ricercatore presso il Mediatore della Repubblica, ex Segretario Generale della Politica Penale, Giorgio Spangher (Italia) Professore emerito di Diritto Processuale Penale, Università “La Sapienza”, Philippe Mary (Belgio), professore ordinario alla Facoltà di Giurisprudenza e Criminologia della Libera Università di Bruxelles, Sophia Vidali (Grecia), Professore di Criminologia alla Democritus University, membro dello United Nations Subcommittee on Prevention of Torture (SPT), Tullio Padovani (Italia), Professore di diritto penale, Scuola Superiore di Sant’Anna Pisa, Marie Lukasova (Repubblica Ceca), Avvocato, Pau Perez Sales (Spagna), Psichiatra. Consulente tecnico del NPM, Caporedattore del “Torture Journal”, Florence Morlighem (Francia), Parlamentare, Nico Hirsch (Lussemburgo), Ex vicedirettore generale della Polizia del Granducato, Marc Nève (Belgio), Presidente del Consiglio centrale di sorveglianza (degli istituti penitenziari), Irene Testa (Italia), Tesoriere Partito Radicale, Régis Bergonzi (Monaco), Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Monaco, Maria Rita Morganti (San Marino), servizi sociali, Giuseppe Morganti (San Marino), parlamentare, José Igreja Matos (Portogallo), giudice alla Corte d’Appello, Cécile Dangles (Francia), magistrato, presidente dell’Associazione nazionale dei giudici dell’applicazione delle sentenze (ANJAP), Andrea Pugiotto (Italia), Professore di diritto Costituzionale, Università di Ferrara, Hans Wolff (Svizzera), medico, professore di medicina penitenziaria, Don Vicenzo Russo (Italia), Cappellano della prigione di Sollicciano (Firenze), Maurizio Turco (Italia), Segretario Partito Radicale, Ersi Bhozeku (Albania), Professore associato di diritto penale, Università La Sapienza, Germano Marques da Silva (Portogallo), Professore ordinario dell’Università Cattolica Portoghese, Pasquale Bronzo (Italia) Professore associato di Diritto Processuale Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza, La Sapienza, Iphigenie Kamtsidou (Grecia), professoressa di diritto costituzionale, Università Aristotele, membro del Comitato nazionale per i diritti umani, ex presidente del Centro Nazionale della Pubblica Amministrazione, Andrè Gattolin (Francia), Senatore, Sharon Shalev (Regno Unito), Centre for Criminology, Oxford University & Solitary Confinement.org, Roberto Rampi (Italia), Senatore, Giorgos Angelopoulos (Grecia), professore assistente di antropologia sociale Aristotele University, ex segretario generale del Ministero dell’Educazione Nazionale della Grecia; Roberto Giachetti (Italia), deputato, Vincent Asselineau, (Belgio) Presidente dell’Associazione Europea degli avvocati penalisti di Bruxelles, Nikolaos Koulouris (Grecia), assistente professore di criminologia, Università Democrito di Tracia. L’Osservatorio Carcere dell’UCPI e il diritto ad avere notizie camerepenali.it, 21 aprile 2020 Un documento di analisi sullo stato della comunicazione delle notizie dal carcere e sul carcere. L’informazione trasparente è un dovere della pubblica amministrazione, che può trovare eccezioni solo per ragioni di sicurezza nazionale. L’opinione pubblica ha il diritto di conoscere le scelte politiche, siano esse amministrative, economiche, sanitarie, giudiziarie ovvero di qualsiasi genere, che il Parlamento e il Governo adottano o intendano adottare in determinate situazioni. Nel corso della drammatica emergenza sanitaria che stiamo vivendo, siamo inondati da fiumi di notizie e da conferenze stampa della Protezione Civile, che ci aggiornano sul diffondersi del virus e su quanto si sta facendo e si dovrà fare. Sono stati annunciati programmi di cura e prevenzione, ma è rimasta del tutto ignorata l’informazione sugli istituti di pena. Eppure il mondo penitenziario coinvolge un rilevante numero di persone. Basti pensare che in Italia vi sono 200 carceri, con circa 60.000 detenuti. Ciò vuol dire che le notizie su come affrontare l’emergenza riguarda milioni di persone: ristretti, personale, rispettivi familiari; tutto l’indotto che consente all’istituto di funzionare; magistrati, avvocati, amministrativi. Una parte del Paese da sempre ignorata o comunque dimenticata. Nemmeno il virus ha consentito la doverosa presa d’atto che non esiste un altro pianeta, ma è Terra anche quella. L’Unione Camere Penali Italiane, sin dall’inizio dell’emergenza, si è posta il problema di come venisse affrontata la prevenzione negli istituti di pena, nel silenzio pressoché totale degli organi d’informazione e della stessa amministrazione penitenziaria. Dopo inutili sollecitazioni, il 2 aprile scorso, la Giunta unitamente all’Osservatorio Carcere ha posto pubblicamente 10 domande al Presidente del Consiglio, al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, stigmatizzando i numerosi silenzi e le varie reticenze sull’emergenza carcere, indegni di un Paese democratico. La richiesta d’informazioni aveva ad oggetto le misure adottate; il numero di presidi sanitari forniti ai detenuti e al personale; le modalità d’isolamento dei contagiati o presunti tali e di coloro che erano entrati in contatto con essi; il numero dei contagiati tra detenuti e personale; l’effettiva diminuzione del sovraffollamento; il numero di braccialetti elettronici disponibili al fine di consentire l’applicazione dell’art. 123 del Decreto Legge N. 18/2020 emanato dal Governo; le modalità di trasferimento dei detenuti. Veniva altresì evidenziato che il rischio di epidemia nelle carceri riguardava i ristretti, la polizia penitenziaria ed il personale amministrativo e civile, che in esse opera, ma interessava, ovviamente, anche l’intera comunità sociale, per la ovvia, catastrofica ricaduta sulle strutture sanitarie pubbliche di un eventuale contagio di massa. A tali domande non vi è stata risposta alcuna. Dopo alcuni giorni, l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, ha rinnovato la richiesta d’informazioni, inviandola ai Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. Su undici Provveditori, hanno risposto solo in tre: il Provveditore della Campania, del Lazio-Abruzzo-Molise e dell’Emilia Romagna-Marche. Campania Al 6 aprile scorso, erano presenti, tra detenuti e personale in servizio 11.414 persone. Sugli esiti dei tamponi fatti, non abbiamo avuto risposte, perché di competenza dell’autorità sanitaria, che evidentemente non informa il provveditorato. I detenuti presenti erano 6829, a fronte di una capienza regolamentare di 6118. Le stanze d’isolamento sono state istituite nella sezione dedicata ai semiliberi, con camere singole o in comune (con un massimo di due persone, in caso di necessità), bagno a vista e docce riservate. Hanno usufruito degli arresti domiciliari ai sensi del D.L. N. 18/2020, 29 detenuti. Disponibilità di smartphone e tablet per i colloqui con i familiari. Lazio-Abruzzo-Molise Al 9 aprile, i dispositivi di protezione disponibili sono i seguenti: mascherine FFP2/P3 7.135, chirurgiche 59815, a conchiglia 7000; occhiali/visiera facciale 1482; camici/tute monouso 3044; guanti monouso 246205; Kit protezione totale 17. Le mascherine chirurgiche, quota parte, sono state consegnate ai detenuti. Totale dei tamponi eseguiti ai detenuti 155. È presente almeno un reparto per ognuno dei 25 istituti del distretto, destinato ad isolamento sanitario cautelare, anche se stanze multiple per l’occasione sono destinate ad uso singolo. Si tratta di 96 stanze all’ultimo censimento. Un solo detenuto è risultato positivo ed è stato ospedalizzato in discrete condizioni generali. Eseguiti i controlli su tutte le persone con cui è stato in contatto. Sono risultati positivi 5 poliziotti penitenziari, di cui uno attualmente ospedalizzato, uno guarito, due in cura domiciliare, uno asintomatico. Per gli eventuali contagiati stanno per essere messe a disposizione due sezione per semiliberi, una nel Lazio ed una in Abruzzo ed un reparto femminile della casa Circondariale Rebibbia Femminile. Sono stati sottoposti finora al tampone n. 137 poliziotti penitenziari. I condannati che hanno già usufruito della detenzione domiciliare dal 18.3.2020 sono 200. È bene precisare che il dato comprende anche persone che hanno ricevuto una detenzione domiciliare ex L. n. 199/2010. Nessuno ha usufruito di detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico. I detenuti presenti erano 8383, mentre la capienza regolamentare è per 6455 posti. Ci sono 2454 camere a 2 posti e 2431 con più di due posti. I detenuti che effettuano colloquio audiovisivo con i familiari dal 10 marzo u.s. sono 4000 (il dato è arrotondato per difetto). I colloqui sono realizzati con collegamento Skype, Skype for Business, Google, piattaforma Cisco e con gli iPhone alla piattaforma Whatsapp. I colloqui telefonici e collegamenti audio-video con i difensori non sono conteggiati tra quelli autorizzati per i familiari. Emilia Romagna-Marche Per ogni caso di rilevata positività, la competente autorità sanitaria procede alla ricostruzione e valutazione dei contatti stretti, per l’adozione delle conseguenti misure precauzionali, che vengono comunicati alle direzioni degli istituti penitenziari. Per disposizione della Regione, a cui è demandata la competenza “esclusiva”, sia per la sanità in carcere (SSN - Dipartimento di salute pubblica), sia in materia di gestione dell’emergenza Covid-19, non si è inteso predisporre controllo epidemiologico preventivo sui detenuti, questo è stato previsto solo per gli operatori penitenziari in servizio sul territorio. Il Provveditorato ha provveduto a creare delle sezioni cosiddette “Covid” all’interno dei singoli istituti. Al 17 aprile, risultano 17 detenuti positivi gestiti all’interno degli istituti penitenziari. Tra gli operatori risultano 49 casi positivi, più 10 tra il personale sanitario. Sono presenti nel distretto 4057 detenuti, con un tasso di sovraffollamento pari al 129,29%. Al 14 aprile risultano beneficiari di provvedimenti ex art. 123 D.L. N. 18/2020, 47 detenuti, altri 62 hanno ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria. In dotazione smartphone per consentire videochiamate con i familiari e con i difensori. Dalle informazioni ricevute si evince un quadro variegato di provvedimenti e di disponibilità di presidi sanitari, laddove sarebbe necessaria - ci si perdoni il temine ormai abusato - una “cabina di regia” che governi una situazione di una pericolosità tanto elevata, quanto incompresa. A coloro che hanno risposto alle domande va tutta la nostra stima. Sono funzionari che, evidentemente, non ritengono la loro attività “cosa propria”, ma patrimonio da condividere con il Paese, che ha il diritto di essere informato. Dovere d’informazione che altri non avvertono, pur rivestendo il ruolo apicale del governo della Giustizia italiana e, se sono costretti a farlo, preferiscono farlo “in segreto”. Così il Ministro Bonafede, alle autorevoli richieste della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, preoccupata per quanto denunciato in un ricorso avente ad oggetto l’emergenza Covid-19 nelle carceri, ha dovuto rispondere, ma quanto ha affermato è segretato, perché è evidentemente “cosa sua”. Ricordiamo male o il suo partito, pardon “movimento”, predicava totale trasparenza, fino a chiedere la videoconferenza per le consultazioni tra gruppi parlamentari? Il diritto all’informazione resta così negato al Paese, ai diretti interessati, detenuti e familiari, agli Avvocati che continuano una battaglia di civiltà in nome della Costituzione. L’Osservatorio Carcere Solidarietà agli Uffici dei Garanti delle persone detenute o private della libertà personale camerepenali.it, 21 aprile 2020 L’Unione Camere Penali Italiane e il proprio Osservatorio Carcere esprimono preoccupazione per le gravissime affermazioni contro i Garanti dei Detenuti, contenute nei comunicati stampa di alcune sigle sindacali della Polizia Penitenziaria, in cui si giunge addirittura a chiedere l’abolizione di tale figura istituzionale. Oggetto di tale grave iniziativa sindacale sono gli interventi dell’Ufficio del Garante Nazionale e del Garante Regionale della Campania, a seguito delle denunciate percosse ai detenuti, che sarebbero avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il 17 aprile scorso, il Garante Nazionale aveva incontrato il Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, per gli episodi riportati da più fonti relativamente a maltrattamenti che sarebbero stati compiuti nei confronti di persone detenute dopo una manifestazione di protesta e una successiva perquisizione straordinaria. Preso atto dell’impegno dell’Ufficio di Sorveglianza a verificare quanto accaduto e a informare la locale Procura della Repubblica, il Professor Palma ha ritenuto di non depositare un proprio esposto. Su quanto denunciato da detenuti e familiari, anche con pubblicazioni di foto delle lesioni - essendo uno dei presunti malmenati uscito il giorno successivo a quanto sarebbe accaduto - è intervenuto anche il Garante Regionale Samuele Ciambriello, che ha portato a conoscenza del Procuratore della Repubblica le dichiarazioni raccolte. I due interventi - doverosi e di competenza dell’Ufficio - non sono piaciuti ai rappresentanti della Polizia Penitenziaria che sono giunti ad affermare che la richiesta d’indagini sarebbe un “attacco allo Stato” e “un vero e proprio piano, tra l’altro non troppo velato, di destabilizzazione messo in campo contro la polizia penitenziaria”, invocando l’intervento del ministro della Giustizia per rimuovere “ la figura del Garante dei detenuti che nel corso degli anni non hanno garantito ai detenuti una degna esecuzione della pena, ma si muovono solo per la destabilizzazione del sistema”. Evidentemente il “sistema” e lo “Stato” che questi signori vogliono è quello di Polizia, dove le indagini non vengono espletate e dove l’Autorità ha “carta bianca” per sopraffare i deboli. Essi dimenticano, tra l’altro, che i Garanti godono di autonomia e indipendenza anche rispetto agli organi territoriali (Regioni e Comuni) che li hanno nominati e che mai nessuna iniziativa governativa può impedire loro di esercitare quella funzione di garanzia che, giorno dopo giorno, e prima ancora della istituzione della figura nazionale, hanno svolto e svolgono all’interno delle carceri. Sappiamo che quanto espresso nei comunicati di alcune sigle sindacali, non rappresenta affatto l’intera Polizia Penitenziaria, composta da donne e uomini pronti al sacrificio nel rispetto del loro fondamentale e difficile ruolo, ma è importante che il Corpo, la stessa Amministrazione Penitenziaria, nonché il Ministro della Giustizia, prendano le distanze da affermazioni così gravi. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere UCPI Raccolte fondi, mascherine e supporto per i più piccoli: le iniziative in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 21 aprile 2020 Come dire a un bambino che non potrà vedere il padre detenuto per un tempo indefinito? E quali conseguenze potrà avere questa lunga separazione dal genitore in carcere? Da queste domande è partito il progetto “Telefono Giallo” di Bambinisenzasbarre, una delle tante buone pratiche promosse in questi giorni dal mondo del volontariato penitenziario per ridurre il disagio da emergenza Coronavirus. Il servizio è attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18 per ascolto, supporto psicologico e risposte specialistiche a chi si trova ad affrontare questa difficile fase. L’associazione mette a disposizione un team di psicologi esperti “per rispondere a queste e a tante altre domande che possono insorgere a causa dell’emergenza determinata dal Coronavirus che incide sulle relazioni di tutti noi e sui contatti tra le persone care, ancor di più nel complesso ambiente del carcere”. Per questo Bambinisenzasbarre ha potenziato il servizio di supporto telefonico Telefono Giallo per le famiglie di persone detenute e lo ha destinato al particolare target dei bambini figli di genitori detenuti. Da un altro circuito di buone pratiche e solidarietà che unisce le detenute della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia di Roma e l’Associazione Semi di Libertà Onlus arriva l’iniziativa “Tutti uniti”. Duecento mascherine realizzate dalle sarte volontarie del Laboratorio Intreccio di Fevoss Verona Santa Toscana sono state donate alle detenute dell’istituto capitolino. Nove, realizzate in stampe colorate e allegre, sono state destinate ai bambini in carcere con le madri. Per ringraziare del gesto di solidarietà, le detenute hanno organizzato una raccolta fondi esprimendo il desiderio di fare la propria parte attraverso un piccolo contributo economico. Tra i tanti piccoli gesti di grande valore simbolico, colpisce particolarmente quello riferito dalla direttrice della casa circondariale di Perugia: un detenuto che disponeva solo di tre euro sul conto corrente, ne ha donati due per una raccolta fondi da impiegare per i più bisognosi. La somma, mille euro in totale, è stata consegnata ieri al cardinale Bassetti in occasione della visita all’Istituto. Il Presidente della Cei, a sua volta, ha donato al cappellano e alla direttrice un contributo da destinare agli ospiti e al personale penitenziario “quale riconoscimento dell’impegno, dello sforzo e del senso di responsabilità mostrati in questo periodo di sofferenza per tutti”. Covid-19: dalle carceri colletta per il Banco alimentare Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2020 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, informa una nota del Ministero, ha avviato, per la prima volta su tutto il territorio, una collaborazione con la Fondazione Banco Alimentare Onlus allo scopo di attivare una raccolta di generi alimentari che coinvolga tutti gli istituti penitenziari, a seguito dell’emergenza Covid-19 che ha provocato, nel solo mese di marzo, un incremento del 30% delle richieste di aiuto relative a generi di prima necessità. Con una nota indirizzata nei giorni scorsi ai Provveditori regionali e ai Direttori, il Dap ha invitato ogni istituto a promuovere una colletta alimentare mediante il sistema del “sopravvitto”, attraverso il quale i detenuti possono destinare volontariamente al Banco Alimentare una parte della loro spesa settimanale. L’iniziativa è estesa anche al personale penitenziario, che potrà consegnare nei punti di raccolta attivati negli istituti i generi alimentari acquistati per la solidarietà. Venerdì scorso il Banco Alimentare della Lombardia, tramite l’associazione Incontro e Presenza, ha ritirato la colletta alimentare realizzata dai detenuti della Casa di Reclusione di Milano Bollate: quasi 250 chili di “generosità” per i più bisognosi all’esterno. Processo virtuale, perplessità anche tra le correnti dei magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 21 aprile 2020 Da Unicost a “Mi”, distinguo sul “penale a distanza”. La grande tentazione. Se servisse un titolo, forse non potrebbe essercene uno più adatto. Il processo da remoto sarà, fino all’ 11 maggio incluso, una realtà per il settore civile ma anche per il penale, dove il rischio di travolgere le garanzie è ancora più grave. Solo che la presunta velocità, l’assenza di rischi per la salute, l’apparente fluidità di una macchina giudiziaria virtuale concorrono a creare una suggestione. Tanto che in un intervento pubblicato ieri sulla Gazzetta del Mezzogiorno, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha fatto ricorso a un’espressione non casuale: “Processo degradato a videogame”. Una prospettiva contro cui il leader dei penalisti si batte da giorni, convinto dell’abisso in cui precipiterebbero, senza udienze vere, alcuni cardini del giusto processo: a cominciare dal contraddittorio basato su oralità e immediatezza. E visto che l’emergenza sarà la condizione del Paese ancora per parecchi mesi, il conflitto fra tentazione virtuale e rischi reali per le garanzie ha tutta l’aria di dover segnare da qui in avanti il dibattito sulla giustizia. Ma la novità, forse, è che si intravedono diverse perplessità all’interno della stessa magistratura. Vale a dire della componente che, nella giurisdizione, si è mostrata finora più aperta a un uso dell’udienza telematica anche dopo l’emergenza. Lo ha fatto con prudenza, come avvenuto con il segretario di Area Eugenio Albamonte, intervenuto proprio sul Dubbio, e con Magistratura democratica, che fa parte sempre di Area ma che ha diffuso un proprio autonomo documento in cui ha segnalato i possibili squilibri di un eventuale abuso della tecnologia, a cominciare dalla condizione delle persone chiamate a discutere in un’udienza da remoto delle misure cautelari ordinate nei loro confronti. Non c’è insomma una cieca fiducia nelle sorti progressive del processo telematico. Lo confermano le valutazioni raccolte ancora ieri dall’agenzia Adn- kronos, che ha ascoltato diversi vertici dell’associazionismo giudiziario. Il segretario nazionale dell’Anm Giuliano Caputo, della centrista Unicost, sostiene che è sì possibile una “riflessione” a partire dal “potenziamento degli strumenti tecnici” e da una “verifica del modo in cui si svolgono alcune attività” a distanza. Però ricorda anche che nel penale “non si potrà mai pensare di fare tutto da remoto”. A riconoscere la difficile compatibilità fra call conference e diritto di difesa è anche il presidente della sezione Anm di Napoli Marcello Amura: a suo giudizio il ricorso al virtuale sarebbe una “rivoluzione copernicana”, ma prima di lasciarsene sedurre si devono tenere presenti le “prerogative dell’avvocatura” che “spesso mal si conciliano con l’approccio digitale”. Secondo il vertice dell’Associazione magistrati partenopea, è difficile immaginare “un’arringa compiuta attraverso il canale telematico”, magari nei “processi in Corte d’assise, in cui c’è una giuria popolare. Gli ostacoli”, riconosce, “sono decisamente più complessi rispetto al civile”. Non è finita. Perché a esprimersi in chiave quanto meno dubitativa su una svolta tecnologica è anche la sola corrente delle toghe che oggi non fa parte della giunta nazionale dell’Anm, Magistratura indipendente: i collegamenti in videoconferenza sono “una risorsa preziosa che consente agli uffici giudiziari di andare avanti nell’emergenza”, secondo Paola D’Ovidio, segretaria del gruppo moderato. Eppure anche a suo giudizio le modalità da remoto sono assai più adattabili al civile che al penale, “dove lo strumento telematico può mortificare troppo l’oralità del processo”. Anche se, è lo spiraglio lasciato dischiuso, potrebbe essere opportuno conservarle “per certi tipi di udienze”. Sempre a “Mi” è vicina la presidente della sezione Anm di Palermo Giovanna Nozzetti, secondo la quale “non possiamo pensare in futuro a un processo che si celebra sempre dietro uno schermo. Certo”, aggiunge, “bisogna vedere quanto durerà ancora il lockdown per il coronavirus, ma mi chiedo per quanto tempo l’Italia possa sostenere una sospensione totale dell’attività giurisdizionale. In un sistema come il nostro, non è accettabile”. È chiaro che non si può parlare di pressing dei magistrati per un convinto e totale ricorso alle call conference. Certo però è che finora le stesse modalità seguite nella fase 1 dell’emergenza hanno costretto il garante della privacy Antonello Soro a lamentare la mancanza di coinvolgimento della sua authority. E se tengono mobilitata l’Ucpi, spingono anche parlamentari come l’azzurro Enrico Costa a parlare di “magistrati che tifano per il “processo dal divano”. Non sarà così. Ma è pur vero che la tentazione di una giustizia semplificata dalla tecnologia non può essere sottovalutata. E che governo, magistrati e avvocati hanno la responsabilità di tenerla lontana. La carica della corrente di Davigo: il processo senz’aula diventi la norma di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 21 aprile 2020 Con il pretesto vagamente ricattatorio della pandemia, il ministro di Giustizia inventa il processo da remoto. La smaterializzazione dell’aula. L’avvocato chiuso in un quadratino del computer, annullato nella sua fisicità. Non c’è una sola persona in buona fede che non comprenda come la parte “fi sica” del processo penale, cioè quella che si svolge nell’aula, non sia surrogabile, se non devastandone letteralmente il senso e la funzione. Se dovessimo spiegare in estrema sintesi in cosa consista esattamente l’esercizio del diritto di difesa in un processo penale, non avremmo dubbi nel dire: il controllo fisico, percettivo, emotivo della formazione della prova, della attenzione del Giudice, della reazione delle altre parti nell’aula. Ed infatti, la corrente davighiana chiede subito a gran voce che questa insperata eccezione diventi regola. È giusto, loro hanno questa idea del processo: la Giustizia e la Verità rappresentata dall’Accusa, la difesa come un intralcio. Ero Presidente della Camera Penale di Roma, nel 2008-2009, quando ottenemmo che la capitale fosse scelta come sede pilota per la informatizzazione del processo penale. I ministri Alfano e Brunetta vennero nell’aula Occorsio in pompa magna ad annunciarlo. Il gruppo di lavoro tra governo, magistrati e avvocati si riunì per un anno, sfornando idee e proposte sistematicamente abortite. Il nostro sogno di un accesso da remoto agli uffici per il deposito di atti e la consultazione dei fascicoli si infranse contro le resistenze della Procura e dei sindacati del reparto Giustizia. Troppi i rischi di accesso a dati riservati e sensibili, a giudizio della Procura; troppo complessa ed impegnativa la prospettiva di formazione del personale di cancelleria, per i sindacati. La nostra ambizione di trasportare anche nel penale il modello del processo civile telematico (scambio di atti da remoto, inoltro indirizzato automaticamente nel fascicolo di pertinenza) dovette arrendersi. Ora d’improvviso, con il pretesto vagamente ricattatorio della pandemia, mentre ancora si continua a non consentire agli avvocati il deposito anche solo di una istanza a mezzo pec, il ministro di Giustizia (more solito, come per la prescrizione) con un emendamento proditorio del Governo, addirittura in sede di conversione di un decreto legge, inventa il processo da remoto. E subito, arriva il plauso incondizionato della magistratura associata. Non lo scambio di atti, non l’accesso ai fascicoli o alle cancellerie, secondo il nostro sogno abortito dodici anni fa: ma, come se fosse la cosa più ovvia e scontata del mondo, l’udienza da remoto. La smaterializzazione dell’aula. L’avvocato chiuso in un quadratino del computer, silenziato dal gestore dell’invito sulla piattaforma, annullato nella sua fisicità. Perfino la camera di consiglio da remoto vogliono fare ora, come se niente fosse. Svanita, dal giorno alla notte, ogni remora sulla accessibilità a dati sensibili e perfino normativamente segreti. Non c’è una sola persona in buona fede che non comprenda come la parte “fisica” del processo penale, cioè quella che si svolge nell’aula, non sia surrogabile con una celebrazione da remoto se non devastandone letteralmente il senso e la funzione. Perché allora non per telefono, o messaggiando domande e risposte su WhatsApp, pur sempre in nome dell’emergenza? Se dovessimo spiegare in estrema sintesi in cosa consista esattamente l’esercizio del diritto di difesa in un processo penale, non avremmo dubbi nel dire: il controllo fisico, percettivo, emotivo della formazione della prova, della attenzione del Giudice, della reazione delle altre parti nell’aula; la “comunicazione non verbale” con il teste, con il Giudice, con il nostro stesso assistito, fatta di sguardi, di tesaurizzazione di una incertezza, di un silenzio imprevisto, di un cambio del tono della voce. Percezione che alimenta le intuizioni, le scelte, le accelerazioni o le rinunzie del percorso difensivo. Solo una ignoranza profonda e desolante del fenomeno, o altrimenti una idea burocratica, normalizzatrice e dunque autoritaria del processo può concepire e difendere una simile, rozza assurdità. Ed infatti, la corrente davighiana chiede subito a gran voce che questa insperata eccezione diventi regola. È giusto, loro hanno questa idea del processo: la Giustizia e la Verità rappresentata dall’Accusa, la difesa come un intralcio che ha troppe armi nella faretra, troppe chance di intralciare il percorso luminoso della Giustizia. Un quadratino sul computer è il posto giusto. Salvo qualche virtuosa eccezione, altre correnti si accodano purtroppo, solo con minore imprudenza politica. Ovviamente, tutto ciò esige che vengano silenziate le ragionevoli e facilmente praticabili proposte di noi penalisti, formalmente avanzate al Ministro e ad Anm, per riprendere da subito le celebrazioni dei processi in sicurezza. Perché, ferme restando tutte le considerazioni sopra accennate, noi troviamo inconcepibile questa pretesa arrogante di tutela privilegiata che viene oggi dalla giurisdizione. Perché mai la “fase due”, cioè la ripresa del percorso verso una normalità possibile, dovrebbe valere per aziende, uffici pubblici, negozi, perfino turismo, e non per le aule giudiziarie? E quanto tempo ancora deve continuare questo paralizzante “smart working” del personale di cancelleria, che da casa, come sanno anche i muri, non può accedere né ai dati né alla pec dell’ufficio? Torniamo a lavorare, con mascherine guanti ed amuchina, con le distanze d’obbligo, con la gradualità indispensabile, ma torniamo a lavorare, senza invocazioni di privilegi inconcepibili e ciniche scommesse ideologiche sulla morte del giusto processo. *Presidente Unione Camere Penali Italiane “L’udienza fisica è la norma ma il processo da remoto è un’occasione per il futuro” di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 aprile 2020 Intervista ad Alfredo Bazoli, deputato del Partito Democratico. La app Immuni, per tracciare i cittadini nella fase due, ha sollevato la questione ormai consueta quando si tratta di strumenti multimediali: quanta parte della nostra privacy andrà sacrificata. “La app sarà un tassello importante nella lotta contro il virus, ma la norma che la disciplina va approvata in Parlamento. Solo così si può prevenire qualsiasi rischio di violazione dei diritti dei cittadini”. A chiarirlo è Alfredo Bazoli, deputato del Partito Democratico e membro della commissione Giustizia. Settore, questo, che affronta un problema analogo nel fissare le regole per le udienze da remoto. La app sarà la nuova frontiera dell’invasività dello Stato? No, la app sarà un tassello importantissimo per la lotta contro il virus, un’esperienza già testata in altri paesi in cui il tracciamento chiaro dei contagiati ha permesso di controllare l’esplosione dell’epidemia. Non nascondiamo però la preoccupazione che abbiamo sempre manifestato: uno strumento di questo tipo deve essere normato in modo chiaro, per evitare qualsiasi rischio di utilizzo indebito dei dati di tracciamento delle persone o che questi dati finiscano nelle mani di soggetti terzi. Per questo, abbiamo ribadito in tutte le sedi che lo strumento per disciplinare il tutto non può essere un atto amministrativo. Serve un passaggio parlamentare, in modo da poter scrivere una norma adeguata, che ripari i cittadini da ogni rischio. Su questo c’è comunanza di vedute con gli alleati? Io credo che anche i nostri alleati siano d’accordo, su questo tema la sensibilità di tutti è forte e dunque credo che ci sia sostanziale condivisione di vedute. Non ho registrato grandi differenze di approccio al tema, ma anzi la condivisione sull’utilità dello strumento a fronte di una regolamentazione precisa che tuteli la privacy delle persone. Si è addirittura parlato di un braccialetto elettronico per gli anziani. Si arriverà a questo anche? La trovo una ipotesi del tutto irragionevole e poco ragionata. Sono molto dubbioso rispetto al fatto che ci sia la necessità di adottare misure di limitazione del movimento per gli anziani. Capisco che loro siano più a rischio di contagio, ma non credo affatto che si possa limitare in questo modo la libertà di movimento delle persone. Certo, l’obiettivo è garantire a tutti le condizioni di massima sicurezza, ma una tale limitazione della libertà personale non è giustificata. Fronti diversi, stesso problema: la privacy è una delle questioni aperte anche per i processi da remoto… La premessa è che siamo ancora in fase di sperimentazione del sistema. La norma prevede che il Ministero della Giustizia debba autorizzare le piattaforme informatiche su cui si svolgono le udienze, dunque immagino che in queste misure di autorizzazione ci sia anche la verifica puntale della sicurezza dei sistemi informatici. Ad oggi, non mi pare ci siano stati episodi di violazione della privacy o della sicurezza delle udienze. Detto questo, ritengo che questo periodo possa essere utile per sperimentare nuove modalità di esercizio della giurisdizione. È immaginabile che qualcosa, del processo da remoto, rimanga anche ad emergenza rientrata? A emergenza finita si tornerà per larga parte all’udienza fisica, con le parti e il giudice presenti personalmente in aula. Fermo restato questo, io credo che questa esperienza possa essere utile perché in futuro si facciano alcune scelte che rendano possibile anche l’udienza da remoto. Obiettivamente, per alcune attività processuali sarebbe possibile sostituire la presenza fisica con quella virtuale, con il consenso delle parti. In questo modo si otterrebbe un vantaggio di tempi, costi e organizzazione, ma sempre nel rispetto delle regole. in cui si potrebbe anche col consenso delle parti sostituire la presenza fisica con quella virtuale con vantaggio di tempi, costi e organizzazione. Tutto nel rispetto di regole che garantiscano la sicurezza delle udienze. Una parte dell’avvocatura, soprattutto sul fronte penale, ha mostrato molte perplessità sullo strumento dell’udienza da remoto... Io credo che avvocatura debba aprirsi alla sperimentazione di questi strumenti, che non potranno mai sostituire del tutto la presenza fisica in udienza ma possono essere di ausilio per snellire, ridurre costi e agevolare il sistema giustizia nel suo complesso. Certamente va distinto tra civile e penale: esistono attività processuali insostituibili con procedimenti da remoto, come l’escussione dei testimoni o dei periti, in cui è necessaria la presenza fisica per sviluppare utilmente il contraddittorio. A questo proposito, anche l’attuale normativa solleva qualche perplessità. Alle attività di indagine preliminare... Ho qualche dubbio sul fatto che sia possibile svolgere utilmente da remoto l’assunzione di sommarie informazioni, per esempio. Questo oggi è possibile solo con una motivazione specifica e quindi solo nel caso in cui il pm ritenga che lo svolgimento fisico di tale attività possa causare il rischio di contagio, ma comunque è previsto che si possa fare. In ogni caso, per ora si procede in questo modo? Fino al 30 giugno si procederà così, anche perché solo così si permette alla giustizia di funzionare. In futuro, però, ribadisco la necessità di un’apertura da parte di tutti, immaginando questi mesi come un’occasione per sperimentare nuove modalità di funzionamento della giurisdizione, fermo restando che molte attività non sono oggettivamente gestibili da remoto. Troppe attività processuali via web sono dannose per il diritto costituzionale di Simona Viola* huffingtonpost.it, 21 aprile 2020 La legge di conversione al decreto Cura Italia, in discussione alla Camera dei Deputati dopo esser stata approvata prima di Pasqua dal Senato con voto di fiducia posto dal governo, contiene una modifica strutturale del processo penale che desta serie perplessità: sino al 30 giugno 2020, infatti, le udienze potranno essere celebrate via web da remoto, e non in un’aula di giustizia. Le uniche attività che non potranno essere svolte da remoto saranno quelle riguardanti l’ascolto dei testimoni diversi dalla polizia giudiziaria: potranno essere invece interrogati via web anche i periti e consulenti tecnici, nonché gli imputati che vogliano rendere l’esame. Sono dunque numerose, e importanti, le ipotesi previste di formazione telematica della prova orale. L’imputato non carcerato dovrà connettersi all’aula “virtuale” dalla stessa postazione del suo difensore, che ne dovrà accertare l’identità, garantendo l’idoneo collegamento: se l’imputato è arrestato, o detenuto, potrà collegarsi, con il difensore, dal luogo di custodia. Non è tutto: alla stessa maniera potranno compiersi anche gli atti di indagine che richiedono la partecipazione dell’indagato e del difensore, come gli interrogatori investigativi, gli accertamenti tecnici irripetibili e gli incidenti probatori: i soggetti implicati dovranno recarsi presso una stazione di polizia giudiziaria per il compimento dell’atto, ove verranno identificati e messi in collegamento con il giudice o il pubblico ministero. Alcune note ulteriori. La legge di conversione non individua, e neanche regola, le modalità con cui verranno attivati i collegamenti da remoto necessari per il funzionamento concreto del “processo penale telematico”, che vengono delegati a un emanando provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il difensore e l’imputato potranno opporsi solo sino all’11 maggio al “processo penale telematico”, sempre che non si versi in uno dei seguenti casi: - i) procedimenti di convalida dell’arresto o del fermo; ii) procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadono i termini di durata massima della custodia cautelare, ai sensi dell’articolo 304 c.p.p.; - iii) procedimenti in cui sono applicate misure di sicurezza detentive o è pendente richiesta di misura di sicurezza detentiva. Dal 12 maggio, la decisione in ordine alla celebrazione del processo penale da remoto è rimessa solo alla discrezionalità del giudice, o pubblico ministero, che procede: o almeno questo è ciò che si intende dalla lettura di un tortuoso dettato normativo. Si tratta di una forma di dematerializzazione del processo penale e delle indagini preliminari che contrasta con i principi costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo e che, a ben vedere, neppure tutela adeguatamente il diritto alla salute dell’imputato/indagato e del suo difensore. Partiamo dal dibattimento: il contradditorio e la formazione dialettica della prova - che sono i cardini del giusto processo codificato dall’articolo 111 della Costituzione e dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - trovano estrinsecazione essenziale nell’esame incrociato dei testimoni (c.d. “cross-examination”). In questo contesto, non dobbiamo dimenticare che rientrano nella categoria dei testimoni anche gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che hanno svolto le indagini. La formazione orale della prova riguarda anche la perizia e la consulenza tecnica: il contrasto delle tesi tecniche, o scientifiche, altrui passa necessariamente attraverso un incontro-scontro serrato fatto di domande, anche suggestive, volte a minare l’affidabilità e la preparazione del teste esperto. Dematerializzando la prova tecnica si rischia di trasformarla in un convegno, dove tempi e spazi del controesame sono seriamente ridimensionati. Il processo penale è il frutto di esperienza del passato e la cross-examination è l’istituto processuale riconosciuto dalla Costituzione con l’unico mezzo in grado di connotare la legittimità del processo. Per non svuotare di significato questo prezioso strumento processuale, non bisogna perciò privarlo delle sue fondamenta: l’aula di un palazzo di giustizia e la vicinanza “fisica” delle parti, che sono le condizioni in cui i ritmi serrati, gli sguardi, le incertezze, le emozioni dei protagonisti, acquisiscono la dimensione che è loro propria, ovvero di mezzi attraverso i quali il giudice può formare il proprio convincimento in ordine alla responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. Tutto ciò non si può fare, via web, o comunque avrà una forma, e anche una valenza, molto diverse dall’originale: basta pensare al diverso valore persuasivo di un documento esibito in contestazione al testimone, nel corso di un serrato controesame, piuttosto che a un documento proiettato via web sullo schermo di un computer, mentre tutte le parti processuali sono distanti tra loro, e magari anche in difficoltà a gestire lo strumento telematico, la cui gestione, tranne che per i casi di detenuti, è interamente scaricata sul difensore: sia in termini di costi, che di responsabilità. Non è questo il processo penale, e non si capisce a chi serva celebrare questo simulacro. Forse alle statistiche, ma di certo non ai diritti degli accusati e anche delle persone offese. Al centro del processo, nella nostra Costituzione, c’è il diritto di difesa, e non dobbiamo mai dimenticarlo: se si vuole effettivamente salvaguardarlo, non si può prescindere dall’importanza essenziale, e inderogabile, della formazione orale e dialettica della prova in un’aula vera di giustizia, e non virtuale. Lo stesso discorso vale anche per le indagini preliminari: l’incidente probatorio, o l’accertamento tecnico irripetibile, sono parentesi del dibattimento, dunque valgono le stesse considerazioni in relazione all’importanza fondamentale della cross-examination. Per quanto concerne l’interrogatorio dell’indagato di fronte al pubblico ministero o al giudice, soprattutto quando ha natura istruttoria, solo chi non lo vive quotidianamente può pensare che farlo da remoto sia la stessa cosa che di persona. Per garantire il diritto di difesa, l’interrogatorio ha necessità di pause, sguardi, intese che solo la vicinanza fisica di tutte le parti processuali può salvaguardare. Non è una questione di forma, ma di sostanza, sulla quale è plasmato il giusto processo che sta alla base del funzionamento della giurisdizione. Oltretutto, questo straordinario stravolgimento delle regole del processo penale non può essere giustificato in nome dell’emergenza sanitaria, perché non tutela, in realtà, il diritto alla salute dell’imputato e del difensore: basta pensare che essi devono comunque collegarsi dalla stessa postazione, stando vicini per molte ore di udienza. È forse questo il modo di garantire il rispetto della distanza di sicurezza? A ciò si aggiunga la necessità di ottenere ausilio, per gli aspetti telematici, da parte di uno o più collaboratori, soprattutto quando l’onere del collegamento è interamente scaricato sul difensore. Dunque, ecco il panorama del processo virtuale; tre o quattro persone che, in uno studio professionale, armeggiano vicino a un monitor, distraendosi dall’udienza e aumentando il rischio di contagio. In pendenza dell’emergenza - anche alla luce della sospensione dei termini di custodia cautelare e della prescrizione del reato (oggi, peraltro, la maggior parte dei reati più gravi sono di fatto imprescrittibili) - sarebbe stato auspicabile svolgere solo quelle attività che non comportano l’ascolto di testimoni, e in cui la dialettica delle parti sia già ridotta in base alle norme vigenti. Udienze dedicate ai patteggiamenti, opposizioni alle richieste di archiviazione, giudizi camerali - in alcuni casi anche di impugnazione - in cui le parti possono riportarsi agli scritti difensivi. I processi in cui la formazione della prova orale non è rinviabile, oppure in cui la limitazione della libertà personale è soggetta alla convalida entro pochi giorni, avrebbero potuto comunque celebrarsi in aula, anche considerando che non sembrano essere il numero più significativo della realtà quotidiana delle aule di giustizia. Si sarebbe potuto, per questo numero ristretto di procedimenti, individuare aule più spaziose, fornendo guanti e mascherine a tutti e scaglionando per orari la citazione dei testimoni. La previsione di un così ampio numero di attività processuali che si possono compiere da remoto - in definitiva - è una forzatura del processo penale che non serve al buon funzionamento della giurisdizione e creerà molti danni, a fronte di ben pochi benefici, ai diritti costituzionali di tutti noi. *Presidente di Italiastatodidiritto Violenza domestica. Il contagio che non cala di Shendi Veli Il Manifesto, 21 aprile 2020 La rete Dire diffonde i dati rilevati su 80 centri anti-violenza dal 2 marzo al 5 aprile. 2.867 le richieste di aiuto. Oltre il 70% in più della media. Ma i fondi promessi dal governo ancora non arrivano sui territori. Nei primi giorni del lockdown, quando le porte delle nostre case si sono chiuse per decreto governativo, i telefoni dei centri antiviolenza sono piombati in un silenzio innaturale. Eppure era difficile credere che la violenza domestica, fenomeno di proporzioni allarmanti in Italia, fosse improvvisamente sparita. L’ipotesi, straziante, era che il lockdown avesse chiuso oltre che le porte, anche la bocca alle donne che convivono con un partner violento. Con il passare dei giorni però la questione è emersa in superficie. Secondo le rilevazioni fatte nel periodo che va dal 2 marzo al 5 aprile, in 80 centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale, il numero di richieste di aiuto è in realtà aumentato, se paragonato ai dati disponibili per lo stesso arco di tempo nel 2018. Infatti, come informa l’analisi diffusa della rete Dire, 2867 donne si sono rivolte ai numeri di supporto telefonico, con un incremento del 74,5% rispetto alla media. La preoccupazione però rimane, perché il dato fortemente in calo è quello dei casi nuovi, cioè delle donne che entrano in contattato con i servizi di sostegno per la prima volta, che sono solo il 28% del totale, mentre normalmente costituiscono i due terzi dei casi trattati. “Le prime due settimane c’è stato un calo drastico delle segnalazioni. Le informazioni erano poco chiare e in molte hanno pensato che i centri avessero cessato le attività. Poi abbiamo fatto una campagna nazionale, richiamando l’attenzione dei media su questo tema, e dicendo che #noicisiamo e i telefoni hanno ricominciato a squillare” spiega Mariangela Zanni del Centro Progetti Donna di Padova. Un’analisi a campione, fatta sui dati di 4 centri dell’Emilia Romagna (Lugo, Ferrara, Modena, Reggio Emilia) evidenzia un aumento percentuale delle richieste di ospitalità e specialmente le richieste di ospitalità avanzate in una situazione di emergenza. Il 24 marzo Elena Bonetti, delle Pari Opportunità, in accordo con Lamorgese, ministra dell’Interno, ha inviato una circolare alle prefetture con l’indicazione di individuare strutture, come ad esempio quelle alberghiere al momento in disuso, da mettere a disposizione per accogliere donne in situazioni di pericolo. “Qui sul territorio del Veneto, non è stato avviato nessun dialogo in questo senso” racconta ancora Zanni. “Stiamo gestendo le situazioni di emergenza affittando delle case vacanza oppure, qui a Padova, pagando la stanza in un albergo sociale. Tutti i costi ricadono sui centri. Alcune donne non avendo residenza perché costrette a cambiare comune o perché arrivate in Italia da poco non hanno nemmeno accesso alle misure di sostegno economico varate dal governo”. La pressione economica sui centri contro la violenza è molto alta in queste settimane. Nonostante i 30 milioni di fondi ordinari sbloccati con un decreto del ministero il 2 aprile, e i 3 milioni aggiuntivi stanziati con il Cura Italia, ai territori non è arrivato ancora nulla, e la continuità dei servizi è garantita soprattutto grazie alle donazioni. “Facendo un calcolo sui dati del 2018, emerge che lo stato mette a disposizione circa 0,76 euro al giorno per ogni donna che si trova in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nel 2019 i fondi sono aumentati ma viviamo in balia dei costanti ritardi dei pagamenti” conclude Mariangela Zanni. “Alcune procure, come quella di Trento, hanno dato l’indicazione di utilizzare le ordinanze di allontanamento dall’abitazione dei partner violenti, misure che esistevano già, ma che venivano poco usate” spiega Elena Biaggioni, avvocata penalista della rete Dire. “Bisogna stare attenti però a non incentrare la comunicazione solo sui casi di violenza grave fisica. Molte donne vengono maltrattate, controllate, e insultate, prima di essere in pericolo di vita. Per questo l’attività dei centri, come punti di ascolto, è fondamentale”. Banca dati del Dna, il nullaosta del pm ha carattere formale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2020 Non compromette l’indagine l’assenza del nullaosta del Pm alla trasmissione dei profili biologici alla banca dati del Dna. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 11622 della Seconda sezione penale. Per la Corte, infatti, non è in discussione, sul punto, una violazione del diritto di difesa e quindi neppure la nullità dell’elemento di prova così acquisito. Respinto quindi il ricorso presentato dalla difesa di un imputato per rapina contro la custodia cautelare. Ad avere condotto in carcere l’uomo c’era in realtà stata una pluralità di elementi. Innanzitutto i risultati dell’indagine genetica condotta sul Dna rinvenuto sul materiale sequestrato dopo la rapina e, in particolare, sui cappellini utilizzati dagli autori del reato, trovati all’interno di un’auto rubata e utilizzata per il delitto; il riscontro positivo del confronto tra la fisionomia fisica dell’imputato e le immagini tratte dal sistema di videosorveglianza che avevano ritratto gli autori della rapina; l’esistenza di stabili e documentati rapporti tra l’imputato e un reo confesso del reato. La difesa aveva sostenuto, quanto al primo aspetto, che il pubblico ministero non aveva provveduto al rilascio del nullaosta per lo svolgimento dell’accertamento tecnico non ripetibile e relativo al prelievo di saliva dell’indagato e al successivo inserimento nella banca dati nazionale del dna. Una mancanza che, a giudizio della difesa, dovrebbe essere sanzionata con l’inutilizzabilità dei risultati dell’accertamento. Tuttavia la Cassazione non è stata di questo avviso e innanzitutto mette in evidenza come a essere infondato è il richiamo alla categoria dell’inutilizzabilità. Infatti, ci sono precedenti in questo senso della stessa Cassazione, la mancata osservanza delle formalità prescritte dalla legge per la legittima acquisizione della prova nel processo, non è di per sé sufficiente a renderla inutilizzabile. Questo in generale; in particolare poi, nel caso in esame, la previsione del nullaosta del pm riguarda le modalità di trasmissione dei profili tipizzati da reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali alla banca dati del Dna per la raccolta e i confronti. “Si tratta dunque - osserva la sentenza - di un adempimento meramente formale che attiene alla trasmissione di un risultato che risulta legittimamente acquisito al procedimento penale e la cui utilizzazione ai fini della comparazione con le risultanze della banca dati è avvenuta nel rispetto delle formalità prescritte dalla relativa normativa”. No all’inutilizzabilità quindi. Ma no anche alla nullità, perché questa non è espressamente prevista e non si può arrivare a questa conclusione attraverso interpretazione. Tanto più che neppure la difesa ha contestato la validità degli accertamenti effettuati, malgrado l’assenza del nullaosta da parte del pubblico ministero. La fattura a committente diverso è soggettivamente inesistente di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2020 La fattura che riporta un committente differente da chi ha ricevuto la prestazione deve ritenersi soggettivamente inesistente. Se poi nel documento sono descritte attività diverse da quelle svolte, può configurarsi anche un’operazione oggettivamente inesistente. Questa la rigorosa interpretazione fornita dalla Cassazione con la sentenza 10916/2020. Pronuncia interessante perché affronta una casistica poco esaminata dalla giurisprudenza. Di norma, le contestazioni di fatturazioni soggettivamente inesistenti riguardano casi in cui l’emittente indicato in fattura non corrisponda con colui che ha realmente svolto la prestazione o la cessione. Nella specie, invece, la divergenza concerne il cessionario/committente. In sintesi, il rappresentante legale di una società era condannato in concorso con altri per dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture. Secondo l’accusa, aveva indicato nelle dichiarazioni di alcune società del gruppo fatture relative a prestazioni effettuate su immobili di proprietà privata (del presidente del cda) e non sugli immobili delle società di capitali, come invece risultava dai documenti fiscali, evadendo così imposte sui redditi e Iva. Le prestazioni erano state pagate dalle singole società. I giudici di merito ritenevano sussistente sia la fatturazione soggettivamente inesistente, in quanto le società destinatarie delle fatture erano differenti da coloro cui erano state rese le prestazioni, sia oggettivamente in quanto nei documenti erano indicati immobili differenti da quelli oggetto degli interventi edilizi. Con il ricorso per Cassazione le difese censuravano la sentenza di appello sotto vari profili: non poteva configurarsi alcuna fittizietà né oggettiva, né soggettiva. Sotto il profilo oggettivo le fatture erano regolari, l’emissione alle società del gruppo era corretta in quanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi erano state effettive e per importi corrispondenti ai pagamenti realmente eseguiti. Sotto il profilo soggettivo, secondo la difesa, i fornitori coinvolti erano effettivi e non soggetti fittiziamente interposti. Inoltre, l’Iva era stata sempre regolarmente versata, senza alcun danno per l’erario. Occorre ricordare che in base all’articolo 1, lettera a), del Dlgs 74/2000 costituiscono fatture per operazioni inesistenti: 1) quelle emesse a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte; 2) indicano corrispettivi o imposte superiori a quella reale, 3) riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Secondo la Cassazione, che ha rigettato il ricorso, le fatture soggettivamente inesistenti si caratterizzano per la divergenza tra la rappresentazione documentale e la realtà attinente a uno dei soggetti che intervengono nell’operazione. Nella specie, poiché il destinatario effettivo della prestazione (proprietari privati degli immobili) era differente da coloro per cui erano state emesse le fatture (società di capitali) non vi era dubbio sulla fittizietà soggettiva del documento. Peraltro, secondo l’accusa, i documenti erano anche in parte oggettivamente inesistenti, in quanto le prestazioni risultavano eseguite non sui beni immobili indicati nei documenti ma su cespiti di proprietà privata. In ordine all’Iva detratta dalle società, i giudici ricordano il consolidato orientamento di legittimità in base al quale l’imposta non è detraibile ove la fattura rechi nominativi di soggetti differenti da quelli reali. Per le imposte sui redditi la sentenza evidenzia alcune pronunce favorevoli all’indeducibilità del costo in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, in ogni caso non prende posizioni in quanto nella specie, a parte la verifica sull’inerenza, si era in presenza anche di documenti oggettivamente fittizi. Bancarotta fraudolenta: no alla condanna dell’”uomo di paglia” senza prova del dolo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 20 aprile 2020 n. 12455. Il giudice non può condannare il prestanome, amministratore di diritto della società, in presenza del ruolo preponderante svolto dall’amministratore di fatto della fallita, senza provare il dolo che caratterizza il reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 12455 accoglie, sul punto, il ricorso “dell’uomo di paglia” contro la condanna che era scattata malgrado l’assenza di prove relative all’elemento psicologico del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta delle scritture contabili. Una fattispecie per la quale è richiesto il dolo specifico, di recare pregiudizio ai creditori. Il reato in questione, ricorda la Suprema corte, è infatti autonomo e alternativo, rispetto alla fraudolenta tenuta delle scritture, ipotesi per la quale è richiesto invece il dolo generico e si presuppone un accertamento condotto sui libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli organi fallimentari. I giudici di legittimità accolgono dunque il ricorso e annullano, per quanto riguarda la specifica doglianza, con rinvio alla Corte d’Appello. La Corte territoriale aveva, infatti, sbagliato a valorizzare solo il ruolo da prestanome, censurando l’imputato per non aver impedito le condotte dell’amministratore di fatto, vero gestore della società fallita. Circostanza che, aveva evidenziato la difesa poteva in caso integrare il solo profilo della colpa. Umbria. Porzi (Pd): “Misure straordinarie per i penitenziari umbri” umbriadomani.it, 21 aprile 2020 “Facciamo nostro l’invito del Papa di prestare attenzione nei confronti dei detenuti, anche in Umbria, in questo periodo di crisi socio sanitaria”. È quanto dichiara Donatella Porzi, consigliere regionale del Pd, che chiede: “misure straordinarie e scrupolose per detenuti, polizia penitenziaria e operatori”. “Il settore delle carceri umbre - spiega Porzi - non è stato toccato da agitazioni e rivolte, e neanche da situazioni di contagi a differenza di quanto accaduto in altre regioni. Segno dell’ottimo riscontro dato dall’opera fatta dei quattro penitenziari umbri da parte della dirigenza e del personale, in cui una chiara informazione ha stimolato il senso di responsabilità dei detenuti e la condivisione con il personale. Anche in relazione al monitoraggio effettuato, sui 1451 ospiti, i tamponi effettuati sui soggetti di mobilità sono stati 175 (12,06 per cento) e solo 1 è risultato positivo. Per il personale, su 1009 sono stati effettuati 925 tamponi e solo un soggetto è risultato positivo. Quindi su 2.450 soggetti, 1100 tamponi e due positivi. Numeri importanti, sui quali occorre però avviare una fase di consolidamento”. “Serve potenziare il comitato di crisi - prosegue Porzi - per sovrintendere e garantire il settore penitenziario. È necessario continuare e accelerare la fase di tamponatura a tutti i detenuti presenti e a tutto il personale, che andrà rafforzato, in quanto le piante organiche nazionali parlano di una sostanziale carenza per l’Umbria. A fianco al tampone, il personale deve essere dotato di dispositivi di protezione individuale e di una adeguata informazione su di essi”. “La fase due - conclude Porzi - si costruisce anche con l’attenzione a questo campo. Una democrazia e una civiltà adeguata alle sfide del futuro non può prescindere dai valori costituzionali di una pena e di un sistema penitenziario che tenda alla rieducazione del condannato”. Milano. A Opera 50 detenuti in regime di 41bis battono le inferriate per il colloquio via Skype diario1984.it, 21 aprile 2020 Nella Casa di Reclusione di Opera da alcune settimane è in corso di svolgimento la rumorosa protesta di cinquanta detenuti sottoposti al regime del 41bis inscenata per il rifiuto della Direzione di accordare loro l’autorizzazione a effettuare un colloquio con la videochiamata attraverso Skype della durata di un’ora con i propri congiunti. La richiesta dei detenuti è stata avanzata a seguito della decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di non consentire i colloqui visivi tra i detenuti e familiari al fine di scongiurare il pericolo che dall’esterno potessero portare il coronavirus e contagiare i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. La decisione di evitare i colloqui tra detenuti e familiari ha provocato delle violente proteste in molti istituti di pena della penisola e in alcuni anche delle vere e proprie rivolte sfociate con gravi danneggiamenti alle celle di alcune sezioni e di alcune strutture come le mense. I detenuti partecipanti alle rivolte sono stati poi trasferiti in altri istituti di pena e la situazione è ritornata ad un’apparente normalità anche per la concessione fatta ai reclusi comuni di poter sostituire i colloqui visivi con quelli delle videochiamate via Skype. Ai detenuti sottoposti al regime del 41bis questa misura alternativa dei colloqui con i congiunti è stata, però, negata nonostante fosse prevista dal Dpcm dell’8 marzo. Nella Casa di Reclusione di Opera, prima che scoppiasse l’epidemia del Covid-19, i detenuti sottoposti al regime del 41bis avevano a disposizione due modalità di colloquio con i congiunti: o quella visiva con l’ingresso in carcere della moglie o della madre o del familiare autorizzato a fare il colloquio oppure di effettuare una telefonata della durata di dieci minuti con la famiglia. Sia i colloqui che le telefonate erano consentiti una volta al mese. Poi, dopo le rivolte, per i detenuti comuni i colloqui visivi sono stati sostituiti con le videochiamate attraverso Skype, mentre per i detenuti del 41bis è rimasta in vigore soltanto la telefonata di dieci minuti al mese. Per questa disparità di trattamento, i 50 detenuti del carcere di Opera dall’inizio del mese di aprile, ad un’ora del mattino, cominciano a battere contro le inferriate delle celle e delle finestre per “persuadere” il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di consentire anche a loro la possibilità di intrattenere i colloqui con i propri cari con la videochiamata mediante il sistema Skype. Quella dei detenuti della Casa di Reclusione di Opera, ove è ristretto anche il siracusano Giuseppe Guarino, è una richiesta legittima dal momento che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri non fa alcuna differenza tra detenuti comuni e detenuti sottoposti al regime del 41bis. Il difensore di Giuseppe Guarino, avvocato Eugenio Rogliani, da quando è iniziata la chiassosa protesta dei 50 detenuti sottoposti al 41bis, ha presentato delle istanze al Magistrato di Sorveglianza e ha scritto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per far sì che venga accolta la richiesta della videochiamata e permettere in tal modo ai detenuti sottoposti al regime del carcere duro di poter parlare per un’ora al mese con i propri cari. Napoli. La reclusione e l’insostenibile “doppia diagnosi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2020 Detenuto imbottito di psicofarmaci non mangia da 20 giorni. Il suo difensore, Carolina Schettino spiega: “È il solito “scaricabarile” tra il Sert e il Dipartimento di salute mentale quando siamo in presenza di questo tipo ammalati” Che il carcere sia ridotto a discarica umana dove rinchiudere persone che la società non riesce a prendere in carico, questo è un dato di fatto. Ancora più grave quando le persone recluse, con complicate problematiche fisiche e psichiche, si riducono a larve umane a causa degli psicofarmaci che alleviano apparentemente il dolore causato dalle patologie fisiche, tanto da apparire secondo le relazioni sanitarie “in discrete condizioni di salute”. C’è un caso, emblematico, che reclama giustizia e dove è difficile capire quale sia il senso della pena carceraria. Ma non solo. A causa di un rimpallo di responsabilità tra Sert e centro di salute mentale, il detenuto che ha tutto il diritto di chiedere i domiciliari per motivi umanitari, rischia di vedersi rigettata l’istanza di scarcerazione per l’ennesima volta. Parliamo di Antonio Bevilacqua, classe 1976, recluso attualmente nel carcere di Poggioreale. Deve scontare una pena di ben 12 anni di carcere. Questa lunga pena, di primo impatto, farebbe pensare che abbia commesso un gravissimo reato. In realtà la pena è dovuta da un cumulo di piccoli reati (furti, truffa, violazione codice della strada) dovuti dal suo stato di tossicodipendenza e relativi disturbi psichiatrici. Ultimamente il suo difensore, l’avvocata Carolina Schettino del foro di Avellino, l’ha sentito telefonicamente e appariva sedato di psicotici in maniera devastante. Appariva come un automa, voce impastata, depressa. Viene nuovamente da chiedersi in che cosa consista il senso della pena carceraria per un uomo in queste condizioni. Risulta essere affetto sin dall’infanzia da gravissimi disturbi psichiatrici causati da fattori genetici (figlio di genitore schizofrenico e fratello di detenuto morto suicida a Poggioreale), sociali (ha sempre vissuto in un tessuto sociale e familiare disastrato) e tossicomani, dedito alla droga sin dall’età di 13 anni, nonché da disturbi borderline di personalità. Il carcere non ha nient’altro che aggravato la sua patologia portandolo a numerosi gesti di autolesionismo e tentativi di impiccagione. La sua condizione psichiatrica risulta ulteriormente compromessa da una quasi totale limitazione della deambulazione dovuta da una frattura della quarta vertebra lombare che lo costringe alla sedia a rotelle e al piantone, nonché da una frattura del polso, oltre che da pregresse patologie al fegato ed epatiche. Un cocktail esplosivo che lo rende, di fatto, incompatibile con l’ambiente carcerario. A tutto ciò si aggiunge che durante questi tre anni di detenzione ha intrapreso più volte lo sciopero della fame. Tuttora non mangia da più di 20 giorni. Ad accertarlo è Pietro Ioia, il garante dei detenuti del comune di Napoli. Qualche giorno fa è andato al carcere di Poggioreale e ha approfittato per avere informazioni direttamente dal direttore. Bevilacqua da 20 giorni ha iniziato lo sciopero della fame e a causa dei suoi problemi psichiatrici è sorvegliato a vista onde evitare che si impicchi. Tutte patologie che però, grazie alla continua sedazione, appaiono “discrete”. Gli psicofarmaci, di fatto, camuffano la sofferenza. “Bevilacqua è una delle tante vittime dell’assoluta inefficienza dell’apparato giustizia, con la sua lentezza processuale, della dirigenza sanitaria delle carceri campane, prive di ogni protocollo terapeutico per malati psichiatrici, infine, delle insidie burocratiche per la presa in carico da parte delle Asl dei pazienti cosiddetti a “doppia diagnosi”, spiega l’avvocata Schettino a Il Dubbio. “Da un anno e mezzo - sottolinea l’avvocata - chiediamo che il detenuto venga trasferito in un centro specializzato per fronteggiare le sue gravissime condizioni di salute e che possa somministrargli un programma terapeutico e riabilitativo adeguato”. Ma ad oggi viene lasciato vegetare in carcere nonostante non sia accusato di alcun reato ostativo o di forte impatto sociale. Il motivo? “Non vi è il nulla osta da parte del dipartimento di salute mentale alla presa in carico del paziente - spiega l’avvocata Schettino - poiché a “doppia diagnosi”, sebbene, sulla scorta della consulenza psichiatrica di parte, presenti una netta prevalenza della patologia psichiatrica”. Un problema burocratico e di rimpallo di responsabilità che, di fatto, crea una situazione di limbo. “Di fronte a un paziente che presenta sia una diagnosi psichiatrica, sia una diagnosi di dipendenza da sostanze stupefacenti - sottolinea l’avvocata - sarebbe di fondamentale importanza la reciproca comunicazione tra i servizi ambulatoriali Serd e Uoms e la loro collaborazione nella gestione del caso. Tuttavia nella stragrande maggioranza dei casi questo confronto non avviene, anzi si verifica uno “scaricabarile” del paziente da un servizio all’altro, così da lasciare il detenuto ed i familiari completamente disorientati all’interno di un limbo da cui sembrerebbe impossibile venir fuori”. Grazie alla sentenza della Corte costituzionale, le patologie psichiche e quelle fisiche sono equiparate. Teoricamente Bevilacqua ha tutte le carte in regola per usufruire dell’ex art. 47 ter comma 1 ter dell’ordinamento penitenziario. Anche alla luce del Covid 19, l’avvocata Schettino ha fatto ulteriore istanza. Ma tutto rischia di vanificarsi a causa dello scaricabile tra il Sert e Salute Mentale. Livorno. “Mio figlio come Cucchi: morto in carcere per un pestaggio, voglio giustizia” di Angela Marino fanpage.it, 21 aprile 2020 “Altro che infarto, mio figlio è stato pestato a morte: è ora che qualcuno lo riconosca”. Maria Ciuffi, addetta alle pulizie di Pisa, chiede con forza la riapertura del caso di Marcello Lonzi, morto a 29 anni nel carcere di Livorno in un lago di sangue, ufficialmente per arresto cardiaco. Marcello sarebbe uscito dopo 5 mesi, era in cella per tentato furto. “Me lo hanno ucciso”. Sono le parole di Maria Ciuffi, mamma coraggio che da diciassettenne anni si batte perché venga celebrato un processo ai presunti responsabili della morte di suo figlio Marcello Lonzi, deceduto l’11 luglio 2003, nel carcere Le Sughere di Livorno, ufficialmente per arresto cardiaco, all’età di 29 anni. “Per me è stato omicidio, Marcellino è stato pestato” dice Maria. Marcello, come spiega a Fanpage.it, si trovava in carcere per una condanna a nove mesi, di cui quattro già scontati, per tentato furto. “Mio figlio viveva un periodo difficile con il lavoro - spiega - spesso lo aiutavo con la spesa perché potesse provvedere a sé e a Barbara, la compagna. Era un ragazzo tranquillo e presto sarebbe uscito per andare in comunità”. L’11 luglio 2003, però, a soli 29 anni e godendo di una perfetta salute, Marcello Lonzi muore nella cella 21, in un lago di sangue, fuoriuscito, secondo l’inchiesta ufficiale, per una presunta caduta in cui avrebbe sbattuto contro i mobili della cella. Suo padre e sua madre ne vengono informati solo l’indomani e non hanno neanche il tempo di nominare un medico che partecipi all’autopsia che intanto si sta svolgendo al cimitero dei Lupi, per mano del dottor Alessandro Bassi Luciani. Sarà proprio quello l’esame che farà archiviare il caso per morte naturale, identificando le lesioni in traumi da caduta. Alla madre non resta molto altro da fare che richiedere un esame medico legale di parte basato sulle cruente foto della scena dell’evento, tutto ciò che resta di quel tragico venerdì. Ne viene fuori una controperizia che pone seri e circostanziati dubbi su quelle ferite. Intanto il sangue. Perché sul pavimento sono presenti delle strisciature simili a quelle prodotte trascinando il cadavere? Il corpo è stato spostato prima dell’arrivo dei paramedici? E quelle lesioni al volto e al corpo che per forma e profondità sono incompatibili con l’urto sui mobili della cella? Tanto basta perché nell’estate del 2006, tre anni dopo i fatti, il caso venga riaperto e finalmente il Gip autorizzi la riesumazione per una seconda autopsia. Stavolta l’esito è diverso: il medico legale riscontra la rottura delle costole, un trauma che potrebbe, tra l’altro, essere la conseguenza di una manovra rianimatoria. Le ferite sulle volte e sul corpo, ancora una volta, appaiono incompatibili con la caduta accidentale così come descritta dai testimoni, tra cui il compagno di cella di Marcello, che disse di averlo visto bocconi sul pavimento. “Ho parlato con un ex detenuto presente all’epoca dei fatti - racconta Maria Ciuffi - mi ha riferito che quella mattina Marcello ‘si era preso’ (aveva litigato) con un agente penitenziario e che nel pomeriggio alcune persone erano andate a prendere Marcello in cella, dopodiché in sezione ci sarebbe stato un viavai e di persone e voci sconosciute e poi la notizia della morte di Marcello. Lo stesso detenuto, però, in sede di verbale ha dato una versione diversa da ciò che ha raccontato a me”. Incongruenze dunque, ma anche silenzi e reticenze in un caso che sembra meritare ulteriori approfondimenti investigativi. Dopo numerose richieste di archiviazione, oggi, il caso è passato nelle mani dell’avvocato Serena Gasperini, legale di parte civile, che ha richiesto al Gip, Antonio Del Forno un esame che potrebbe rivelarsi decisivo: la Bpa (Bloodstain pattern analysis), l’esame della traiettoria delle tracce di sangue. Pur avendo il Pm nulla opposto alle richieste della difesa della persona offesa in merito alla prosecuzione delle indagini, il gip ha rilevato un passaggio procedurale mancante che, laddove le indagini fossero svolte, non ne permetterebbe l’utilizzazione. Pertanto, non appena riapriranno i tribunali dopo lo stop per l’emergenza sanitaria verrà presentata una nuova istanza. Un passo solo formale. “Basta guardare le foto del mio Marcellino - conclude mamma Maria - vi sembra veramente infarto?” Parma. Uniti per caso… semiliberi per decreto. La storia di tre detenuti di Raffaele Crispo parmadaily.it, 21 aprile 2020 Una delle misure previste dal Decreto “Cura Italia” emanato dal Consiglio dei Ministri, a seguito delle rivolte scoppiate all’interno di numerose carceri, prevede la continuazione della detenzione presso la propria abitazione se la pena da scontare è inferiore ai 18 mesi. Tale decreto del 17 marzo scorso, voluto in gran fretta dal governo a seguito dell’emergenza corona virus, interesserà circa 4.000 detenuti che potranno ottenere grazie a una procedura semplificata la detenzione domiciliare per il periodo che resta alla fine della pena. Così anche a Parma diversi detenuti hanno iniziato a godere di tale beneficio o misura e per alcuni si sono aperte le porte del carcere. Non tutti, però, dopo tanti anni di detenzione hanno ancora una famiglia e degli affetti presso i quali trovare ospitalità e conforto. Molti, a causa di vicende personali o perché originari di posti lontani o di Paesi esteri non hanno più i contatti con le proprie famiglie e pertanto sono “liberi” ma senza un tetto. Nella nostra città opera da oltre 25 anni l’associazione “Per Ricominciare” che mette a disposizione dei detenuti in semilibertà, ed in particolar modo dei loro familiari, due modeste ma dignitosissime abitazioni situate l’una in centro e l’altra nella prima nella prima periferia. In questa occasione la presidente Emilia Agostini Zacomer e tutti i soci hanno messo a disposizione dei magistrati di sorveglianza uno degli appartamenti che da alcune settimane è diventato la nuova “casa-prigione” per tre detenuti che pur avendo origini e trascorsi diversi hanno costituito una nuova famiglia. Il primo è di origini partenopee, da tempo lavora nei servizi di raccolta dei rifiuti e si serve dell’abitazione come punto di appoggio e per rispettare l’obbligo di reclusione nelle ore notturne; un altro, catanese sessantacinquenne, ha una storia ancora più singolare perché dopo 26 anni di detenzione proprio il 17 aprile ha chiuso i conti con la giustizia, ma non avendo più contatti con la famiglia di origine, rimarrà libero in questo domicilio coatto ancora per alcune settimane. Il terzo, più giovane, proviene dal nord dell’Albania e siccome è un fervido credente trascorre gran parte del tempo per pregare e fare letture religiose. Tra di loro si è instaurato subito un clima di “complicità” dando vita ad una nuova famiglia di fatto variegata e ricca di esperienze difficili e diverse. Ognuno in casa dà il proprio contributo e si presta nello svolgere le faccende in base alle proprie attitudini, inclinazioni e capacità. C’è chi provvede alla pulizia della casa, chi alla piccola e necessaria manutenzione e chi alla preparazione dei pasti cercando di dare il meglio di sé per vivere serenamente questo scorcio di pena che rimane. Molte delle ore le trascorrono per raccontarsi i loro “curricula”, le gioventù difficili, gli errori commessi e le difficoltà attraversate. Ciò che più crea empatia tra di loro sono i sogni e i progetti che hanno e che sperano di realizzare non appena saranno “uomini liberi”. C’è chi desidera ritornare al più presto in Albania per sposare una brava ragazza del posto, c’è chi si augura di ritrovare i figli che da tanti anni vivono in Francia e c’è chi spera di tornare a gustare le bellezze e i sapori dell’amata Napoli. Nei giorni scorsi le ragazze che prestano servizio di volontariato sociale si sono recate presso l’appartamento non tanto per verificare le condizioni e la tenuta dello stesso ma, soprattutto, per dare istruzioni di economia domestica e per far sentire ai nuovi ospiti tutto l’affetto e il calore dell’associazione “Per Ricominciare”. C’è anche chi fa di più come “mamma Mauretta” che ogni domenica prepara prelibatezze emiliane per un menu completo dal primo al dolce e per far assaporare agli sfortunati ospiti della casa del Samaritano il meglio della tradizione parmigiana. Grazie a tale provvedimento ministeriale anche altri detenuti potranno fare istanza per ottenere i domiciliari e e per poter godere di tale misura e reinserirsi gradualmente nella società. Verona. Scarcerato perché positivo, lo trovano in stazione tra la gente di Andrea Priante Corriere del Veneto, 21 aprile 2020 Il direttore del carcere aveva scritto ai giudici: “Deve uscire perché qui è impossibile fermare il virus”. Allarme delle guardie: “Già 20 di noi sono contagiate”. Allo stato attuale è “impossibile rispettare, nel contesto del circuito penitenziario, misure di profilassi idonee a scongiurare pericolo di contagio per i detenuti e per le persone che in carcere vi lavorano”. A scriverlo, in una nota fatta recapitare il 9 aprile alla Corte d’appello di Venezia, è la direttrice della casa circondariale di Verona, Maria Grazia Bregoli. Ed è in queste righe riportate dai giudici in un dispositivo - e che sembrano suonare quasi come una resa delle istituzioni di fronte alla forza del coronavirus - che si posa la decisione di scarcerare un indiano al quale, in seguito al tampone, era stata “accertata la sua positività al Covid-19”. Lo straniero, 40 anni, è quindi tornato libero venerdì scorso proprio perché, pur risultando asintomatico, risultava aver contratto il virus e la direzione del carcere ammetteva candidamente che l’unico modo per evitare che potesse contagiare altre persone era sbatterlo fuori. Peccato che l’ormai ex detenuto non avesse una casa in cui tornare e così, fino al giorno successivo, ha vagato tranquillamente per le strade di Verona, incontrando connazionali (e perfino il suo avvocato), fino a quando i carabinieri l’hanno trovato in stazione. “Ho il coronavirus”, ha subito spiegato ai militari, che a quale punto l’hanno trasferito in una struttura protetta. Ma ora resta da capire come sia possibile che, mentre tutti sono ancora bloccati in casa, si possa decidere di scarcerare un contagiato senza neppure accertarsi del fatto che abbia un luogo in cui auto-isolarsi. Le mascherine - Il sindaco di Verona, Federico Sboarina, nei giorni scorsi ha consegnato agli agenti della polizia penitenziaria mascherine e altri dispositivi di protezione il detenuto non si poteva trasferire in ospedale perché “non è necessario il ricovero trattandosi di paziente asintomatico”. Dall’altro, in prigione proprio non ci doveva stare, per l’impossibilità di adottare adeguate misure anti- contagio. A complicare tutto, il fatto che l’indiano stava scontando una pena a quattro anni di reclusione per maltrattamenti in famiglia e quindi non era possibile rimandarlo nel paesino della Bassa in cui risiedeva prima dell’arresto, per il rischio che aggredisse nuovamente la moglie. Così, i magistrati veneziani l’hanno scarcerato ma con l’obbligo di rimanere a Verona. Hanno poi comunicato la decisione anche a carabinieri, sindaco del capoluogo e Usl che avrebbero dovuto in tutta fretta organizzarsi per “adottare i provvedimenti di competenza - scrive la Corte - per la gestione della quarantena dell’interessato”. Com’è andata a finire, lo dimostra il fatto che sia stato rintracciato solo il giorno successivo in stazione. L’avvocato dell’uomo, che nel frattempo l’aveva incontrato senza sapere che risultasse positivo al Covid-19 - è stato subito posto in isolamento fiduciario, che per fortuna si è esaurito nell’arco del fine settimana, visto che - stando ai nuovi test - l’indiano ora risulta negativizzato. Ma il rischio corso (dal legale e da tutti coloro che sono entrati in contatto con l’ex detenuto) è evidente. Non è la prima volta che un malato di Covid-19 viene scarcerato per non compromettere la sicurezza della prigione scaligera. Il 7 aprile il giudice di sorveglianza di Verona ha “disposto l’immediata liberazione” di un uomo accusato di violenza sessuale proprio perché risultato positivo al tampone. “Per ottenere un controllo della malattia virale - scrive il magistrato - appare di fondamentale importanza un costante monitoraggio del paziente, che non sembra possibile effettuare in ambito penitenziario”. Al contrario di quanto accaduto con l’indiano, però, in questo caso l’uomo ha lasciato la sua cella in totale sicurezza. “In ambulanza è stato trasferito a casa dei genitori, dove prosegue l’isolamento”, spiega il suo avvocato, Cristiano Pippa. “Da tempo chiedevo che potesse lasciare il penitenziario per scongiurare il rischio che venisse contagiato - prosegue il legale - ma non ho mai ottenuto risposta. Ha potuto lasciare la prigione solo ora che è troppo tardi perché, purtroppo, ha già contratto il virus. Serve un cambio di rotta: il diritto alla salute deve valere per tutti, compresi i detenuti”. Che la gestione del contagio nel carcere di Verona stia diventando sempre più complessa, lo sostiene anche il segretario regionale del Uil-Pa, Nicolino Butano: “La situazione è grave: sono già una ventina gli agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid, oltre a circa trenta detenuti. Le responsabilità sono evidenti. Basti pensare che all’inizio di tutto, dalla Direzione arrivò al personale l’invito a non utilizzare le mascherine perché potevano generare inutili allarmismi”. Napoli. Coronavirus, “finti reclusi e detenuti dimenticati” di Luigi Labruna La Repubblica, 21 aprile 2020 A Napoli, in tutto il Paese e in buona parte del mondo ci si sente tutti carcerati. Non solo le persone dinamiche, abituate a fare 10 chilometri al giorno di corsa per stare in forma, i professionisti o i manager avvezzi a far colazione a Napoli, trattare affari a Milano nel pomeriggio e tornare a casa la sera. I pendolari e le casalinghe. Ma pure i vecchi, di norma impigriti sulle poltrone. I professori che niente schioda dallo scrittoio. Persino gli allettati. E non solo i rinchiusi nei bassi dei Quartieri. Anche chi ha una casa di sei vani, tre bagni, una terrazza da cui gode il panorama del golfo. Tutti hanno voglia di uscire. Incontrare amici. Fidanzate. Amanti. Pure conoscenti antipatici. Andare a lavorare o a scuola. Taluni cadono in depressione. Litigano. Picchiano il coniuge. Uno si è fatto multare in strada dichiarando “preferisco il virus a mia moglie”. Una donna si è gettata dalla finestra. E sono solo meno di due mesi che stiamo “carcerati in casa”. Tutti, tranne la spudorata senatrice che da Roma è andata al mare ad Anzio “per esercitare il suo mandato”. Pensate a quei poveri cristi che stanno nelle carceri vere. Molte fatiscenti. Vergognosamente sovraffollate (a Poggioreale il 40% più del lecito). In alcune è arrivato il virus. Secondo le Corti, in Italia i reclusi vivono in condizioni contrarie ai diritti dell’uomo. I colloqui sono sospesi. E, badate, di loro parecchi sono colpevoli e scontano pene definitive (che dovrebbero “rieducarli”!) ma non pochi sono in attesa di giudizio: innocenti, o presunti “non colpevoli”. Ad una recente sommossa nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere sarebbe seguito - denunzia il garante Ciambriello - un pestaggio brutale da parte di agenti incappucciati. Magistrati non certo “eversori”, come Salvi, Melillo, Bruti Liberati suggeriscono vari rimedi per impedire che le carceri scoppino: ampliamento delle misure alternative, depenalizzazioni reati non gravi, riduzione pene per buona condotta, differimento di talune esecuzioni eccetera. Nessuno se ne dà per inteso. Per timore di Salvini, Buonafede e i 5 Stelle non vogliono far niente. Così il Pd. Né (ragionevoli) indulti né altro. Irresponsabili. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Interrogazione sul carcere della senatrice Paola Nugnes di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2020 Il caso dei presunti pestaggi avvenuti al carcere di Santa Maria Capua Vetere arriva in Parlamento. E lo fa Rifondazione Comunista tramite la senatrice Paola Nugnes - che da alcuni mesi ha deciso di rappresentarlo in Senato - depositando un’interrogazione a risposta orale con carattere di urgenza sulla situazione del carcere sammaritano, che sarebbe stato oggetto di un’operazione repressiva indegna a seguito della protesta per la propagazione del virus letale del Covid-19. “Noi stiamo dalla parte dei detenuti e dei lavoratori penitenziari che rischiano infezioni in particolare in regioni - come Campania, Lombardia e Lazio - dove le strutture sono pesantemente sovraffollate”, dicono il segretario nazionale Maurizio Acerbo, il responsabile democrazia/ diritti Giovanni Russo Spena e il responsabile giustizia Gianluca Schiavon. “Ministro, lo diciamo con minor garbo istituzionale - tuonano i responsabili di Rifondazione - se non sa risolvere i problemi di persone ristrette se ne vada! È questione di rispetto non solo del diritto umano a una pena giusta e rieducativa, è questione di un diritto umano fondamentale, quello alla vita in presenza di una pandemia”. Nell’interrogazione a firma delle senatrice Nugnes, viene chiesto se il ministro in indirizzo sia a conoscenza dei presunti pestaggi e come intenda intervenire perché si faccia chiarezza su quanto realmente accaduto nelle 24 ore tra domenica 5 e lunedì 6 aprile; se il ministro in indirizzo intenda intervenire, nei limiti delle sue competenze, affinché venga garantita la salute e la sicurezza nelle carceri italiane, giacché gli articoli 123 e 124 del “Cura Italia” non hanno modificano granché le normative esistenti e nella pratica anche quando viene concessa la detenzione domiciliare si richiede come vincolo la sorveglianza con braccialetti elettronici, la cui disponibilità in questo momento è limitata e, con ogni probabilità, insufficiente per ridurre il sovraffollamento; se il ministro voglia intervenire per indirizzare l’azione di questo governo al fine di limitare il sovraffollamento e il conseguente pericolo dei contagi nelle carceri italiane per tutelare i detenuti e, naturalmente, anche il personale che lavora nelle carceri, poliziotti e civili, attraverso la predisposizione obbligatoria di dei dispositivi di protezione individuali quali mascherine e igienizzanti, la sanificazione dei locali, dei luoghi comuni, uffici, celle, mense e l’acquisto di braccialetti elettronici al fine di far scontare la pensa residua, a chi e ha diritto, presso la propria abitazione. Bergamo. Tra i detenuti rabbia, paura, solitudine: difficile l’equilibrio in cella di Francesca Lai bergamonews.it, 21 aprile 2020 “Il dentro chiama il fuori, gli affetti, le istituzioni, la gente, il riscatto e il perdono”: Marco Pesenti e Daniele Drago, psicologi della Uoc Psicologia del Papa Giovanni XXIII, di servizio alla Casa Circondariale di Bergamo. “Il carcere vive una quotidianità complessa che con l’emergenza Covid-19 si è ulteriormente appesantita per la sospensione di tutte le attività volte a sostenere gli aspetti di progettualità su cui si ancorano prevalentemente le vite dei ristretti”. È un equilibrio difficile da preservare quello raccontato da Marco Pesenti e Daniele Drago, psicologi della Uoc Psicologia del Papa Giovanni XXIII, di servizio alla Casa Circondariale di Bergamo. Se l’8 marzo ha significato per tutti l’interruzione della normale esistenza, per i detenuti ha comportato ulteriori restrizioni, la fine dei colloqui con i propri famigliari e la sospensione di ogni attività di recupero dentro e fuori il carcere. In questa bolla senza ancora data di fine il ruolo di psicologi e operatori della casa circondariale è quanto mai fondamentale: la distinzione tra dentro e fuori ora non esiste, per nessuno. C’è solo un enorme dentro che ci riguarda tutti, fatto di muri e di paure che cerca incessantemente il fuori e la speranza. Come state vivendo questo momento voi operatori? Siamo esseri umani e, come tutti, specie all’inizio, siamo stati preoccupati del possibile contagio e di essere vettori per i nostri cari. Oggi il costante utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e all’attenzione alle indicazioni che tutti siamo ormai abituati a rispettare ci aiutano ad essere più sereni rispetto a questo. L’attenzione alla cura di sé, il confronto, lo scambio tra operatori ci aiuta. La solidarietà tra colleghi e tra curanti e pazienti in questo momento è più che mai il cibo per stare in piedi, mitigare l’angoscia, sollecitare la speranza. Come è cambiato il vostro lavoro in queste settimane? Come noto, sono diminuiti gli arresti, per cui meno visite di nuovi giunti, che ci permettono di rispondere più celermente alle numerose richieste di sostegno psicologico. Che clima si respira in carcere? In carcere si fanno sempre i conti con la rabbia e con la paura. In queste settimane, dopo le prime fasi, si respira un clima di attesa. Ovviamente tutti auspichiamo che sia un’attesa di cui si cominci ad intravvedere la fine perché non è facile per nessuno restare sospesi. Crediamo sia molto importante che si parli anche della condizione delle persone detenute e dei loro vissuti soprattutto in questa fase. Questa vicenda riguarda la società intera e quello che credo abbiamo capito tutti è che per vincere questa battaglia bisogna essere uniti. Come stanno i detenuti? Dopo un primo momento di agitazione a causa delle proteste per alcune restrizioni - come la sospensione delle visite delle famiglie - tutte le persone detenute hanno dimostrato di aver compreso la situazione e il comportamento è stato diffusamente attento alle regole e responsabile. Questo però non ha impedito il radicarsi in molti del senso di angoscia, come è accaduto fuori, ma in una condizione di reclusione molto più radicale e passiva di quella che stiamo sperimentando tutti. L’angoscia segue in modo naturale la privazione della libertà, ma in questo momento di blocco nazionale, la preoccupazione per i propri familiari, i lutti, il vedersi spostare le udienze in tribunale a data da destinarsi e la percezione che anche gli operatori possano essere più distanti, fa dell’angoscia una nota di fondo, un acufene che rischia di non far più sentire altri suoni. I progetti, ad esempio, sul proprio futuro, l’incontro con i familiari, che potrebbe non esserci più, il senso delle attività svolte in carcere. Per questa ragione si fa ancora più importante il senso del supporto umano, da parte della Direzione, della Polizia Penitenziaria e degli operatori sanitari: medici, infermieri, e soprattutto psicologi, in contrasto alla frustrazione e alla ricerca di un senso del tempo. Quanti di loro hanno dovuto interrompere le attività di riabilitazione dentro e fuori dal carcere? Sono ferme quasi tutte le attività, è fatta salva l’ora d’aria. È chiusa la scuola, il teatro, i progetti di lavoro esterno, i volontari non possono accedere all’istituto. Di questi ultimi, in particolare, è da sottolineare l’importantissimo apporto nel tenere i contatti con la famiglia, nel risolvere piccoli e grandi problemi burocratici, nel tenere i contatti con gli avvocati. Quali sono le cose di cui avete maggiormente bisogno? Noi come operatori abbiamo bisogno di sentirci squadra e su questo lavoriamo da tanto e su più livelli. Abbiamo bisogno di sentire che non siamo a un confine lontano e inaccessibile, che la Asst continui a farci sentire pensati e vissuti come parte di un sistema più ampio che dedica le sue energie al tema della salute. Quando si vive, si lavora in ambienti “ai margini”, densi di sofferenza, quando si vive la quotidianità di “istituzioni totali”, sentire che c’è un legame con una struttura al di fuori, a cui afferire per uno scambio, un confronto, diventa necessario. Abbiamo bisogno, dentro il carcere, di sentire che si è colleghi, tra sanitari e operatori penitenziari, che si lavora insieme per la cura e per la sicurezza di tutti, dentro e fuori e che si è parte della stessa comunità. I detenuti, in questo momento più di altri, hanno bisogno di sentirsi parte di una comunità, ma soprattutto hanno bisogno di sentire che i loro diritti sono riconosciuti e che sono pensati anche loro come occasione di ripartenza. E non sentirsi un “dentro” lasciato alla deriva dal “fuori”. Fuori la pandemia, dentro la preoccupazione. Quale è ora il rapporto tra dentro e fuori? Rimane un rapporto sbilanciato. Il dentro chiama il fuori, gli affetti, le istituzioni, la gente, il riscatto e il perdono. Il dentro è la spacconeria che fa da antidepressivo, è la nostalgia da nascondere sotto le coperte, la ricerca di vivere autenticamente, di essere riconosciuti per quel che si è nel profondo di sé stessi. Il fuori non chiama il dentro se non ne è coinvolto direttamente, lo espelle, lo accantona. In questo momento il dentro ha paura quanto il fuori, ma paradossalmente se ne sente in qualche modo protetto. Il dentro ha voglia di uscire solo per rincasare, perché mancano, sempre e oggi di più, i legami affettivi da abitare. Voi operatori vi sentite al sicuro? Noi lavoriamo in un contesto che ha come obiettivo la cura, e la cura reciproca ci permette di avere energia da investire costantemente e di continuare a progettare anche in questa fase. Che ci si possa solidalmente sentire tutti soggetti, persone. Anche così teniamo sotto controllo il virus così come i vissuti disturbanti la fatica. Allora ci si può sentire al sicuro. Roma. “Così si vive in carcere nei giorni della paura” di Stefano Liburdi Il Tempo, 21 aprile 2020 Il racconto choc di un ex detenuto: “Distanziamento sociale impossibile con 4 in una cella di 20 mq scarsi. Bagno e cucina nello stesso stanzino. E una mascherina mai cambiata”. In quattro in una cella di 20mq scarsi, con i letti saldati a terra distanti tra loro appena 50 cm. Uno stanzino che è bagno e cucina insieme e uno spazio largo 20 metri e lungo 15 dove passeggiano anche più di 120 persone nello stesso momento. A raccontare a Il Tempo la condizione in cui vivono i reclusi è Pasquale De Masi tornato in libertà il 4 aprile scorso dopo otto anni di detenzione, gli ultimi dei quali scontati a Rebibbia. “Oggi più che mai i detenuti patiscono la sofferenza e l’irrequietezza della solitudine. È un’umanità stanca quella delle galere. Ed io, appena rimesso in libertà, non posso dimenticarmi di loro, degli uomini ombra”. Da fine febbraio i cronici problemi che da sempre tormentano i penitenziari italiani, primo fra tutti il sovraffollamento, sono diventati ancora più minacciosi con l’arrivo del Covid-19 che ha varcato il cancello metallico delle prigioni. Numerosi i contagi già avvenuti tra chi vive dentro quelle mura o lì presta servizio, come gli agenti di Polizia penitenziaria e gli operatori sanitari. La situazione rischia però di degenerare in un luogo dove si convive ventiquattro ore al giorno a stretto contatto con i compagni di cella. Le misure adottate dal governo non hanno risolto il problema: dei braccialetti elettronici promessi, che avrebbero consentito un alleggerimento della popolazione carceraria, ne sono arrivati solo una piccolissima parte e a troppi pochi detenuti è stata concessa una misura alternativa della pena. Il carcere resta così una bomba che può esplodere da un momento all’altro. Pasquale, a Rebibbia quando avete cominciato a capire quello che stava avvenendo fuori? “All’inizio non riuscivamo bene a comprendere ciò che stava succedendo, poi quando i morti sono diventati 7/800 al giorno, ci siamo guardati negli occhi cercando risposte che non potevamo darci”. E chi aveva contatti con l’esterno, come ha reagito alla situazione? “Dallo sguardo di agenti e personale si percepiva la preoccupazione, anche se tutti, compresa l’amministrazione, cercavano di minimizzare per non far salire la tensione”. Poi sono stati sospesi i colloqui, interrotte le attività e le tensioni sono salite fino alla rivolta di alcuni detenuti. “L’amministrazione è stata abbastanza permissiva, concedendo più telefonate e videochiamate. Le proteste però non sono scoppiate per la mancanza di colloqui, come è stato scritto. È stata la paura a provocarla. Non ho condiviso questa rivolta a cui non ho preso parte, ma non mi stupisco che si possa avere una tale reazione, quando sembra di andare incontro a morte certa. Tra i reclusi c’è gente fiaccata dalla detenzione, ci sono anche tanti anziani e malati”. Tornata la calma è cambiato qualcosa? “La rivolta è rientrata grazie alla polizia penitenziaria che è riuscita a gestire la situazione con il dialogo. I responsabili sono stati trasferiti in altri penitenziari senza essere sottoposti al tampone. A noi è stato concesso di rimanere qualche ora in più nel corridoio”. Che misure sono state adottate per combattere il pericolo dei contagi? “Ci è stata consegnata una mascherina, una, di tipo chirurgico, senza mai cambiarla. Il Lysoform con cui disinfettavamo le superfici è sparito, forse perché non si trovava più nei negozi. Gli agenti avevano mascherine e guanti ma, ci hanno confidato, comprati a loro spese. Intanto sono cominciate ad arrivare le notizie di casi positivi fra detenuti e personale”. Praticavate il “distanziamento sociale”? “Impossibile. Nelle nostre celle, nel reparto di Alta Sicurezza, eravamo in 4 in meno di venti metri quadri. I letti, saldati a terra a distanza di solo mezzo metro l’uno dall’altro. In regime di carcerazione ordinaria, nelle celle ci sono anche sei persone. Poi c’è uno spazio strettissimo di 5 metri con la tazza e a 50 centimetri di distanza un lavandino 30 cm x 20 tipo “caravan” con il quale provvediamo all’igiene personale e al lavaggio degli alimenti e delle stoviglie. A poca distanza sono posizionati un tavolo e un fornello tipo campeggio. L’area passeggio si fa in un cortiletto dove a volte eravamo in 122. Lo stesso nel campo sportivo e negli spazi adibiti a palestra dove in 35 metri quadrati ci allenavamo in 40”. La giornata tipo come è scandita? “Sveglia alle 7,30 con la conta. Un’ora dopo c’è l’apertura delle celle e chi vuole va a passeggiare, a fare la doccia o in palestra o chi come me, che mi sto laureando in giurisprudenza, nelle aule a studiare. Questo fino alle 10, poi si ritorna dentro si mangia. Alle 13 si riscende fino alle 14.30. La cena è alle 17.30 e si può fare la cosiddetta “ora di socialità” fino alle 19, ossia puoi andare a cenare in un’altra cella della sezione. Poi si rientra. Insomma, fuori da quel buco, si resta quattro ore scarse”. A inizio aprile è finalmente terminata la tua pena. “Sono uscito da Rebibbia senza essere sottoposto a tampone, ma mi è stata fornita una mascherina di carta”. Quando è scoppiata l’emergenza sanitaria, a te mancavano poche settimane da scontare, perché non ti è stato concesso di concludere la detenzione ai domiciliati? “Avevo presentato un’istanza per la concessione di una misura alternativa, visto che ero prossimo alla scarcerazione. Il 14 aprile (quando Pasquale era un uomo libero già da dieci gironi ndr) hanno chiamato mia sorella per chiederle se fosse disposta ad accogliermi”. Reggio Calabria. Libertà d’informazione per i detenuti. Accolta la richiesta del Garante ilreggino.it, 21 aprile 2020 Continuano i colloqui in carcere di Paolo Praticò Garante Metropolitano dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. L’ufficio del Garante Metropolitano dei diritti delle persone private della libertà personale, prosegue l’attività di “vigilanza” sul rispetto dei diritti delle persone detenute. “Siamo stati nel carcere di San Pietro come in quello di Arghillà dove ci rechiamo per colloqui ogni quindici giorni, mentre negli istituti della Provincia, andiamo se richiesti”. A raccontare la situazione è Paolo Praticò Garante Metropolitano dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. “Abbiamo verificato, con soddisfazione, come la nostra richiesta al direttore dott. Calogero Tessitore, di garantire la libertà d’informazione ai detenuti, sia stata accolta, liberalizzando l’acquisto di giornali e riviste nel rispetto dell’art. 18 OP. inoltre, abbiamo intervistato la dott.ssa Elisa Messineo psichiatra, il direttore sanitario dott. Rodà e il comandante della polizia penitenziaria dott. Stefano Lacava, circa il tentativo di suicidio di un detenuto, per fortuna sventato dal tempestivo intervento di una guardia. Infatti, il detenuto in questione era sottoposto ad alta sorveglianza e a colloqui psicologici e terapia psichiatrica costante, il dott. Rodà aveva relazionato l’incompatibilità del suddetto detenuto con il regime carcerario e il magistrato ne ha disposto la scarcerazione”. Taranto. Le mogli dei detenuti: “Sia permesso loro di espiare la pena residua a casa” Gazzetta del Mezzogiorno, 21 aprile 2020 Appello rivolto alla direttrice dell’istituto penitenziario per sollecitare magistrati del Tribunale di sorveglianza. “Chiediamo, in sostanza, di poter permettere ai nostri cari di espiare la pena residua nella propria abitazione, circondati dall’affetto dei propri cari, per far sì che uniti alle famiglie, questo periodo di quarantena possa essere più accettabile e dignitoso”. È l’appello rivolto da un gruppo di mogli di detenuti del carcere di Taranto, che chiedono alla direttrice Stefania Baldassari, al personale di polizia penitenziaria e ai sindacati di “sollecitare i magistrati del tribunale di sorveglianza di Taranto ad essere un po’ più clementi, più malleabili a concedere più misure alternative”. Le firmatarie della lettera fanno notare che a Taranto l’epidemia da Coronavirus si unisce al problema del sovraffollamento della struttura penitenziaria. “Queste due combinazioni - aggiungono - formano una catastrofe”. Sono state assunte, rilevano, “le forme più ristrette quali la mancanza di contatti esterni, la sospensione dei colloqui con le famiglie. Ed è anche giusto per tutelare i nostri mariti o figli detenuti”. Ma per il gruppo di donne “questo non è sufficiente” perché il virus può entrare ugualmente all’interno del carcere “e può colpire i nostri cari, gli agenti di polizia, il personale sanitario. Pienamente d’accordo, chi ha sbagliato - osservano - deve pagare, ma noi chiediamo soltanto più misure alternative”. Novara. I sindacati: “Subito tamponi agli agenti e ai detenuti, qui ci sono 400 persone” di Roberto Lodigiani La Stampa, 21 aprile 2020 Le otto sigle sindacali rappresentate all’interno della Casa circondariale di Novara fanno fronte comune nel contrasto alla pandemia del coronavirus. I delegati del Sappe Giuseppe Raso, Osapp Marco Caponi, Uil Pp Erberto Cappiello, Sinappe Bernardo Torromeo, FnsCisl Daniele Squillace, Uspp Massimo Greco, Cnpp Sandro Astorino, FpCgil Nicola Iannello hanno trasmesso una richiesta per sottoporre al tampone o al test sierologico tutti coloro che gravitano attorno al carcere di via Sforzesca. L’appello riguarda anche le forniture di dispositivi di protezione individuale e gel igienizzanti. L’invito a intervenire con celerità è stato rivolto al presidente della Regione Alberto Cirio, all’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi, all’Asl di Novara, al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Pierpaolo D’Andria e pure al sindaco di Novara Alessandro Canelli. “La diffusione del contagio - sottolineano i dirigenti sindacali - in una comunità chiusa come è la casa circondariale di Novara, in cui tra personale dipendente e popolazione detenuta sono presenti 400 persone, può essere evitata solo avviando il prima possibile e a tappeto, lo screening per Covid-19 con tampone o test sierologici. L’attività lavorativa in ambito penitenziario non si è mai interrotta e l’unica ricompensa che richiediamo per i lavoratori che mai come oggi hanno continuato a prestare servizio nonostante le scarsissime protezioni e l’altissimo rischio di contagio, è quella di preservarne la salute”. La direttrice del carcere Rosalia Marino interrotto i colloqui dei familiari dei detenuti proprio per ridurre la possibilità di contagio, incrementando il numero di telefonate dirette ai congiunti all’esterno del perimetro carcerario: “Le decisioni sui tamponi - spiega Rosalia Marino - sono di competenza della Regione e dell’Asl. Per quanto riguarda la dotazione dei dispositivi di protezione individuale, direi che siamo a posto”. Padova. La speranza dal Due Palazzi, carcere illuminato dal tricolore Il Mattino di Padova, 21 aprile 2020 Iniziativa della Polizia penitenziaria. Il messaggio per ringraziare medici, infermieri e chi è in prima linea per combattere il coronavirus confidando che tutto passi al più presto. La speranza che tutto passi arriva anche da un luogo che ospita le persone recluse. Dal 10 aprile, su iniziativa del personale di polizia penitenziaria, la caserma della casa di reclusione di Padova si è vestita dei colori della bandiera italiana. È un omaggio ed un messaggio di speranza e solidarietà, che il reparto di Polizia penitenziaria ha voluto rendere alla cittadinanza e a tutti gli eroi protagonisti di questi tremendi tempi di emergenza. Il tricolore illumina il cielo della reclusione per ricordare il lavoro prezioso di tutti quelli che, con contributi differenti ma uguali per importanza, consentono al nostro Paese di andare avanti e ai suoi cittadini di tenere duro perché alla fine “andrà tutto bene”. L’iniziativa è stata molto apprezzata sia all’interno che all’esterno del carcere di Padova. I detenuti vedono le luci della bandiera italiana dall’interno delle loro celle e il bianco, il rosso e il verde si notano da lontano, da dove lo sguardo arriva a cogliere il palazzo di 10 piani della struttura penitenziaria di via Due Palazzi. Dal carcere un chiaro messaggio di gratitudine a medici e infermieri che da settimane sono in trincea per soccorrere le persone che contraggono il virus, molto spesso infettandosi a loro volta. La situazione è conosciuta anche dai detenuti che si aggiornano quotidianamente con giornali e programmi televisivi. All’imbrunire il bianco, rosso e verde illuminano il palazzo fino all’alba. Un messaggio di speranza perché tutto possa tornare alla normalità nel più breve tempo possibile. Roma. Il regalo del manager inglese ex detenuto: “Duemila mascherine per Regina Coeli” di Michela Allegri Il Messaggero, 21 aprile 2020 Era passato da una vita extra-lusso, fatta di cene nei ristoranti stellati e vacanze trascorse nelle suite degli alberghi più famosi del mondo, alle celle condivise di Regina Coeli. Quando aveva saputo di dovere trascorrere alcune notti dietro le sbarre pensava che sarebbe impazzito. Invece, un ricco imprenditore inglese, che due anni fa era stato fermato all’aeroporto di Fiumicino in esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso dal Regno Unito, in prigione aveva trovato appoggio e comprensione. Per questo motivo, a distanza di tempo, ha deciso di sdebitarsi. Quando ha saputo della difficile situazione italiana, con il Paese travolto dall’emergenza Coronavirus, ha scoperto che nelle carceri i detenuti erano in protesta per la scarsità di dispositivi di protezione individuali e per il rischio contagio a causa degli spazi ristretti. Quindi, assistito dall’avvocato Flavio Cioccarelli, che lo aveva seguito anche nelle udienze di estradizione dall’Italia, ha deciso di fare la sua parte: ha raccolto mascherine chirurgiche e gel disinfettanti e li ha spediti all’istituto penitenziario. Duemila dispositivi e circa quattrocento flaconi da mettere a disposizione dei detenuti e delle guardie carcerarie: il massimo che è riuscito a reperire in poco tempo e in un momento di emergenza. Era l’aprile del 2018 quando S.A., 48 anni, ricco imprenditore inglese di origine iraniana, era stato ammanettato all’aeroporto di Fiumicino. Roma era solo una breve tappa del suo viaggio: era diretto negli Stati Uniti per un incontro d’affari. Non sapeva di avere le spalle appesantite da un mandato d’arresto europeo con contestazioni pesantissime: corruzione internazionale legata all’aggiudicazione di appalti milionari. Il quarantottenne, businessman proveniente da una famiglia facoltosa, che gestisce anche due importanti fondazioni benefiche, era così finito in carcere. Spaventato e sconvolto, era stato portato a Regina Coeli. Per due giorni, aveva diviso la cella con altri detenuti. Ed era rimasto colpito dall’umanità e dal sostegno ricevuto all’interno del carcere. “Si ricorda ancora della solidarietà dimostrata nei suoi confronti sia dagli altri detenuti che dagli agenti penitenziari - ha raccontato l’avvocato Cioccarelli - quindi oggi ha deciso di aiutarli a sua volta”. S.A. non era rimasto a lungo in prigione, ma quei pochi giorni gli avevano cambiato la vita. A 48 ore di distanza dall’ingresso nell’istituto penitenziario gli erano stati concessi i domiciliari a Roma. Poi, la richiesta di estradizione partita dall’Inghilterra era stata rigettata dai giudici e lui era tornato in libertà. Si è trasferito a Monaco, mentre il processo a suo carico si è spostato negli Stati Uniti, dove ha patteggiato. Ferrara. In carcere si fanno “esercizi di libertà” con le lettere del Teatro Nucleo estense.com, 21 aprile 2020 Horacio Czertok e Marco Luciano continuano a portare avanti riflessioni e condivisioni con i detenuti-attori in forma di corrispondenza. “Esercizi di libertà” è la forma che il laboratorio di teatro-carcere condotto da Teatro Nucleo all’interno della Casa Circondariale G. Satta di Ferrara ha preso durante l’emergenza Covid-19. A seguito dell’impossibilità di accedere alla struttura detentiva, Horacio Czertok e Marco Luciano continuano a portare avanti riflessioni e condivisioni con i detenuti-attori in forma di corrispondenza, con uno scambio di lettere affidate alle educatrici e agli educatori, proseguendo così la pratica del teatro che è attiva nel carcere di Ferrara dal 2005 e che dal 2018 si sviluppa attorno alla produzione dello spettacolo Album di Famiglia. Nella Casa Circondariale di Ferrara un gruppo di detenuti, che si modifica con il trascorrere del tempo, ha infatti inserito il teatro come parte della propria vita attraverso un percorso laboratoriale condotto da Teatro Nucleo. Nel laboratorio ogni incontro è un’esperienza in sé, che si inizia e si conclude ma, quando dall’accumulo di questa esperienza matura l’esigenza di uno spettacolo, gli incontri laboratoriali si trasformano in prove. È proprio attraverso gli spettacoli che la società può incontrare i detenuti aprendo un dialogo che va oltre la pena, lo stigma e i pregiudizi. Il gruppo di lavoro oggi attivo, composto da 26 detenuti-attori tra i 21 e i 67 anni, si è formato in due anni di lavoro intenso e determinato intorno allo spettacolo Album di Famiglia: attraverso la figura di Amleto nelle varie riscritture del 900, da Heiner Muller a Laforgue, i detenuti hanno rielaborato le loro biografie con uno studio quasi antropologico sulla colpa, il lutto, l’eredità e il conflitto generazionale intorno al tema “padri e figli”, comune a tutte le Compagnie che fanno parte del Coordinamento Regionale Teatro-Carcere della Regione Emilia Romagna, di cui Teatro Nucleo è fondatore. Album di Famiglia, presentato in forma di studio all’interno del festival di Internazionale a Ferrara e in diverse occasioni di incontro con gli studenti delle scuole superiori e dell’Università, sarebbe dovuto essere presentato nel mese di aprile al Teatro Comunale di Ferrara, dove già Teatro Nucleo ha messo in scena con la Compagnia di detenuti-attori Ascesa e caduta degli UBU (2018), Me che libero nacqui al carcer danno (2016), Cantiere Woyzeck (2012) - insignito anche della Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Schegge-da Totò a Beckett (2006). L’emergenza Covid-19 ha invece fermato completamente le attività e qualunque ingresso esterno nelle carceri di tutta Italia, compresa la Casa Circondariale della città estense. A questo, Teatro Nucleo ha risposto ricercando e mettendo in campo una modalità alternativa per portare avanti il laboratorio, le relazioni, le riflessioni e l’ha individuata, in accordo con la Direzione della Casa Circondariale, nella forma della corrispondenza epistolare. Attraverso lettere, Horacio Czertok e Marco Luciano propongono “esercizi di libertà” al gruppo di lavoro, costituitosi nel tempo tramite il passaparola tra i detenuti, che si sono fatti personalmente garanti della serietà e dell’impegno delle persone a cui proponevano di entrare a far parte del laboratorio di teatro in carcere. “I livelli di alfabetizzazione sono molto diversificati - racconta Marco Luciano - e soprattutto gli ultimi arrivati hanno difficoltà a leggere i testi, ma la solidarietà dei compagni supera questi limiti. Per questo nelle lettere affrontiamo temi complessi con una scrittura articolata - dalla pandemia alla libertà, dalla paura all’intelligenza collettiva - certi del sostegno interno al gruppo”. Input a cui i detenuti-attori possono rispondere in forme diverse, con poesie, racconti, disegni, canzoni, che continueranno ad alimentare lo sviluppo dello spettacolo Album di Famiglia. Nessuno si salva da solo: così riscopriamo la comunità di Lea Melandri Il Riformista, 21 aprile 2020 L’Io calpestato e la lotta alle diseguaglianze strutturali. Da sponde opposte - l’India di Modi, l’America di Trump - Arundhati Roy e Naomi Klein, hanno visto nella pandemia da Covid-19 una “battuta d’arresto del capitalismo”, una sorta di catalizzatore capace di evidenziarne le “vergogne nascoste”, dalle disuguaglianze strutturali, sociali ed economiche all’indifferenza di fronte agli orrori che produce. La lunga marcia di milioni di poveri, cacciati dalle città dell’India dai datori di lavoro e diretti a piedi verso i loro villaggi, parla della stessa divisione di classe di cui sono testimoni gli afroamericani e i latini, lasciati fuori dagli ospedali negli Stati Uniti. Importante, per entrambe, è riconoscere che la pandemia ha segnato una rottura e che non si può pensare di “ricostruire il futuro sul passato”. Nella felice immagine di Arundhati Roy il coronavirus potrebbe rappresentare “una porta, un gate-away, tra un mondo e il prossimo. Dipende da noi scegliere se attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse dei nostri pregiudizi e dell’odio, della nostra avarizia, delle nostre banche dati, dei nostri fi umi morti e cieli affumicati. Oppure, possiamo camminare con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo. E pronti a lottare per questo. Ma come definire il “noi” da cui ci si aspetta un cambiamento così radicale? In un articolo uscito giorni fa su Il Riformista, Alberto Abruzzese giustamente rilevava come il “noi” sia diventato sempre di più l’assoggettamento dei singoli a una volontà superiore, e che solo dalla “persona”, tornata ad essere oggi carne viva - forma individuale di essere a rischio minuto per minuto, ammalarsi, soffrire o vedere vedersi morire in solitudine - ci si può aspettare una ribellione, un segnale di discontinuità rispetto a valori e ruoli sociali imposti. Dalla catastrofe virale, che ha devastato ogni genere di socialità ordinaria, si salverebbe solo una individualità restituita al suo sentire immediato, alla sua “voce interiore”, al suo desiderio di sopravvivenza, e capace perciò di attivare la propria vita “lanciandola finalmente al di sopra della sovrana violenza del “noi”. Ma, paradossalmente, è proprio da una singolarità incorporata, resa oggi più consapevole della sua fragilità e dei suoi limiti dalla minaccia invisibile di un virus letale, che si comincia a far strada una verità mai del tutto riconosciuta: “nessuno si salva da solo”. Indimenticabile ed emblematica è stata, sotto questo aspetto, la comparsa di Papa Francesco il 27 marzo su Piazza San Pietro incredibilmente vuota, fi gura solitaria ma sorretta dalla forza di chi sa di incarnare la comunità intera di un mondo in sofferenza. In occasione della Pasqua, così come in un precedente incontro con i movimenti sociali, nessuna delle vittime  delle politiche finanziarie e dell’ingiustizia strutturale dell’economia mondiale - per usare le parole di Bergoglio - è stata dimenticata: dai carcerati ai profughi, ai senza tetto, ai lavoratori precari, alle donne. Se il cristianesimo è stata una rivoluzione per il mondo classico, nelle parole di un Papa dotato di una straordinaria lungimiranza politica torna ad esserlo per una civiltà che ha fatto del denaro il suo dio, dell’egoismo la sua legge. All’Europa degli “interessi particolari” Bergoglio chiede “soluzioni innovative”, come il condono del debito che grava sul bilancio degli Stati più poveri; quanto “all’esercito invisibile” che si muove nelle periferie spinto da ideali solidaristici e senso di comunità, così come a chi lavora senza diritti e garanzia di sopravvivenza, ritiene sia giunto il momento pensare “una forma di retribuzione universale di base”. Sulla separazione tra privato e pubblico, individuo e società, biologia e storia, inconscio e coscienza, molto hanno detto i movimenti non autoritari e il femminismo negli anni Settanta, ma le consapevolezze nuove riguardo ai “nessi” che ci sono sempre stati tra aspetti inscindibili dell’umano, sembrano essersi rapidamente di nuovo affossate, così come l’interrogativo che Elvio Fachinelli si era già posto nel suo saggio su Freud del 1967: “Come si passa da questo individuo alla generalità degli individui?”. Si può dire che solo di fronte a un evento come la pandemia che minaccia oggi allo stesso modo la sicurezza del mondo e la vita di chi lo abita, la domanda del rapporto tra la singolarità di ogni essere e la comunità dei suoi simili è diventata ineludibile. Una catastrofe che pesa su tutti e su ciascuno, sia pure con modalità e ricadute materiali e psicologiche diverse, costringe, come scrive Miguel Benasyag nel suo libro “Contro il niente. Abc dell’impegno” (Feltrinelli 2005), a “imparare uno strano radicalismo (…) agire diversamente in estrema singolarità per disegnare una nuova base comune”. Cercare il senso della collettività, lasciarsi attraversare da elementi di una molteplicità a cui si appartiene - come sottolinea lo stesso Bensayag - vuol dire dubitare dei “grandi discorsi del tutto avulsi dalla quotidianità, di consapevolezze che non cambiano il nostro modo di vivere”. La via già indicata dal femminismo e che Bensayag riconosce e riprende nel suo tentativo di ridefinire l’agire politico, è quella che riesce a spingersi fin dentro le acque insondate della persona (Rossana Rossanda), che trova negli strati più profondi di noi stessi la generalità della condizione umana. “L’azione ristretta”, il “partire da sé”, è quella che ci permette di trovare, insieme a una base comune, una inedita potenzialità collettiva. “Nel profondo della mia singolarità trovo una espressione uguale (…) posso avvicinarmi all’altro, non per stringere una alleanza superficiale, ma scoprendo ciò che nella sua singolarità esprime la stessa cosa che nella mia (…) Mettere in gioco il nostro corpo, ecco l’etica dell’impegno. Il mondo invaso oggi dalla pandemia sconta non solo la cancellazione dei corpi e la presunzione secolare di potersi sbarazzare dei limiti propri del vivente, ma anche la violenza con cui ha fatto delle storie personali il residuo insignificante della grande Storia. Se abbiamo potuto finora permettere che i corpi dei migranti annegati in mare, dei morti sul lavoro, dei femminicidi, diventassero semplici numeri, complice la distanza che ci ha reso spettatori, oggi che le vittime del coronavirus vengono conteggiate nelle conferenze stampa del governo, come dati statistici, è impossibile volgere lo sguardo altrove, non dare volti, nomi, età, condizione sociale a chi soffre negli ospedali, nelle case, o a chi ha perso la vita in solitudine, senza funerali e compianto pubblico. Ad accomunare, al di là di confini, culture, storiche inimicizie, egoismi nazionalistici, è la compassione, il “patire insieme”, “una prossimità all’altro, alla sua ferita”. Un sentimento raro perché  rara - scrive Antonio Prete - è l’esperienza in cui il dolore dell’altro diventa davvero il proprio dolore. Una democratica cultura dell’ordine, solo antidoto alla pandemia del diritto di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 21 aprile 2020 Nell’emergenza trionfa il vizio italico della deroga, alibi di un potere senza limiti. ma se la fase 2 restituisse dignità all’idea dell’ordine, forse si onorerebbe anche il sacrificio di tante vittime. Dal punto di vista giuridico ogni emergenza ha il suo virus: il caos. È il caos che corrode la certezza del diritto, sovverte le gerarchie dei valori, minaccia la tranquillità della nostra libertà e ci toglie la prevedibilità delle regole. Il caos ha un solo vaccino: l’ordine. L’emergenza finisce nel momento in cui la certezza, le gerarchie, la tranquillità e le regole vengono ripristinate. Nel momento in cui l’ordinamento giuridico torna a essere ciò che la radice della parola invoca: un sistema di ordine. L’ordine è l’orizzonte cui il diritto tende, la sua ragion d’essere, ciò che rende tollerabile il sacrificio di doverlo osservare. Solo nell’ordine può esistere la libertà, perché la libertà ha bisogno della certezza del suo perimetro e dei suoi bastioni, la tranquillità del suo godimento, la prevedibilità della sua durata e delle regole che la riguardano. Altrimenti la vita di ciascuno diviene un incubo di istanti che si susseguono kafkianamente nella totale precarietà. Ma noi italiani abbiamo un problema con l’ordine. Un problema che viene da lontano; abbiamo la fobia dell’ordine. Abbiamo costruito retoriche tonitruanti contro la minaccia della pretesa d’ordine. Del concetto di ordine abbiamo interiorizzato solo le potenziali minacce, i potenziali rischi. Per noi ordine evoca l’uomo d’ordine, l’ordine pubblico evoca la repressione, le regole evocano il formalismo. Non siamo mai riusciti a costruire una dottrina liberal- democratica dell’ordine. Col paradosso che viviamo da mesi sotto ordini e ordinanze di necessità, in una terribile nostalgia di normalità, dimenticando che non c’è normalità senza ordine. È questa relazione immatura con il diritto a contrapporre ordine e libertà. È il cascame di culture che invocavano il diritto come sovrastruttura e come mezzo semplicemente strumentale ad altri fini. Ma è anche la cultura marcita del diritto come affare di azzeccagarbugli, come cumulo di gride, più compatibili (perché destinate esponenzialmente ad aumentare) con il periodo della “peste” che con quello della normalità. Per questo da sempre l’emergenza ci piace. È triste dirlo in questi giorni. Ma è tragicamente vero. L’emergenza è ciò che da sempre offre l’alibi per eludere la responsabilità civile della normalità. L’emergenza giustifica deroghe, decisioni del caso per caso, “doppi binari”, sanatorie e condoni come unica risposta al caos generato. E fa fiorire carriere. L’invocazione dell’emergenza, molto prima e molto più ingiustificatamente di adesso, anzi spesso del tutto ingiustificatamente, è stato il lasciapassare per l’autoassoluzione di tutte le classi dirigenti. L’emergenza offre sempre un’altra chance di salvezza e dissolve la responsabilità del proprio operato. Complice la sistematica propalazione del terrore per l’ordine - il quale non consente autoassoluzioni, ma semmai certezza - la nostra cultura giuridica si è specializzata nell’apologia dell’eccezione, della deroga, del cavillo. Lo sanno persino i bambini che, da che mondo è mondo, nell’eccezione, nella deroga e nel cavillo si annida l’abuso e il compiacimento del potere di chi può agire indisturbato nell’arbitrio. L’ideal-tipo di don Rodrigo è una tentazione strisciante e costante. E in Italia, per molti, troppi, l’unico modo di cui liberarsene è stato cedervi (O. Wilde). Autoassolvendosi in diretta. Perfino la giustizia, calata nel caos, diviene ingiustizia, perché finisce per colpire a casaccio. Questo sguazzare nell’emergenza da sempre, è stato tristemente tollerabile sino ad oggi perché a farne le spese sono state, di volta in volta, minoranze o individui diversi, senza che potesse mai svilupparsi una coscienza collettiva dei suoi costi sociali. Il divide et impera: l’eccezione che divide e l’arbitrio che impera. Del resto lo diceva già Costantino Mortati in Assemblea costituente: “Di tutti i decreti- legge che la storia parlamentare ricorda, solo una percentuale minima è giustificata dall’urgenza; in tutti gli altri casi questo è un pretesto che il Governo, e per esso la burocrazia, usa per decretare a sua volontà”. Ed ecco che la pandemia ha portato tutti i nodi al pettine. L’emergenza non è più il divertente gioco retorico del governare. È una tragica e collettiva esperienza destinata a produrre caos in modo esponenziale. Sulla fertile base della nostra assuefazione centenaria al disordine. Adesso il disordine ci ha portato il conto. Ed è un conto salato. E allora, anche in vista della fase 2 e ciò che ne seguirà, forse è venuto il momento di dire basta. Basta alla cultura da azzeccagarbugli, dei mezzucci e dei pretesti per aggirare, derogare, confondere. È venuto il momento di costruire una cultura dell’ordine e delle sue virtù civili. Se questa nuova consapevolezza si facesse strada, se essa fosse anche l’unico lascito di questa immane tragedia, forse, e dico rispettosamente forse, tante migliaia di italiani non sarebbero morti del tutto invano. Distanziamento sociale dalla democrazia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 21 aprile 2020 “Il distanziamento sociale è qui per rimanere molto più di qualche settimana. Stravolgerà il nostro modo di vivere, in un certo senso per sempre”: lo hanno annunciato i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, una delle più prestigiose università statunitensi (Mit Technology Review, Wère not going back to normal, 17 marzo 2020). Essi citano il rapporto presentato dai ricercatori dell’Imperial College London, secondo cui il distanziamento sociale dovrebbe divenire una norma costante ed essere allentato o intensificato a seconda del numero di ricoverati per il virus nei reparti di terapia intensiva. Come bene hanno spiegato i due speciali de il manifesto (“Data Virus” e “Post Virus”), il modello elaborato da questi e altri ricercatori non riguarda solo le misure da prendere contro il coronavirus. Esso diviene un vero e proprio modello sociale, di cui già si preparano le procedure e gli strumenti che i governi dovrebbero imporre per legge. I due giganti statunitensi dell’informatica Apple e Google, finora rivali, si sono associati per inserire nei sistemi operativi di miliardi di cellulari iPhone e Android, in tutto il mondo, un programma di “tracciamento dei contatti” che avverte gli utenti se qualche infettato dal virus si sta avvicinando a loro. Le due società garantiscono che il programma “rispetterà la trasparenza e la privacy degli utenti”. Un sistema di tracciamento ancora più efficace è quello dei “certificati digitali”, a cui stanno lavorando due università statunitensi, la Rice University e il MIT, sostenute dalla Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione statunitense creata da Bill Gates, fondatore della Microsoft, la seconda persona più ricca del mondo nella classifica della rivista Forbes. Lo ha annunciato lui stesso pubblicamente, rispondendo a un imprenditore che gli chiedeva come poter riprendere le attività produttive mantenendo il distanziamento sociale: “Alla fine avremo dei certificati digitali per mostrare chi è guarito o è stato testato di recente, o quando avremo un vaccino chi lo ha ricevuto” (The Blog of Bill Gates, 31 questions and answers about Covid-19, 19 marzo 2020). Il certificato digitale di cui parla Gates non è l’attuale tessera sanitaria elettronica. La Rice University ha annunciato nel dicembre 2019 l’invenzione di punti quantici a base di rame che, iniettati nel corpo insieme al vaccino, “divengono qualcosa come un tatuaggio con codice a barre, che può essere letto con uno smartphome personalizzato” (Rice University, Quantum-dot tattoos hold vaccination record, 18 dicembre 2019). La stessa tecnologia è stata sviluppata dal Massachusetts Institute of Technology (Scientific American, Invisible Ink Could Reveal whether Kids Have Been Vaccinated, 19 dicembre 2019). L’invenzione di questa tecnologia è stata commissionata e finanziata dalla Fondazione Gates, che dichiara di volerla usare nelle vaccinazioni dei bambini principalmente nei paesi in via di sviluppo. Essa potrebbe essere usata anche in una vaccinazione su scala globale contro il coronavirus. Questo è il futuro “modo di vivere” che ci viene preannunciato: il distanziamento sociale ad assetto variabile sempre in vigore, la costante paura di essere avvicinati da un infettato dal virus segnalato da uno squillo del nostro cellulare, il controllo permanente attraverso il “codice a barre” impiantato nel nostro corpo. Senza sottovalutare la pericolosità del coronavirus, qualunque sia la sua origine, e la necessità di misure per impedirne la diffusione, non possiamo lasciare in mano agli scienziati del MIT e alla Fondazione Gates la decisione di quale deve essere il nostro modo di vivere. Né possiamo smettere di pensare, ponendo delle domande. Ad esempio: è molto grave che le morti da coronavirus in Europa siano attualmente quasi 97.000, ma quali misure si dovrebbero in proporzione prendere contro le polveri sottili, le Pm2,5, che - dai dati ufficiali della European Environment Agency (Air quality in Europe, 2019 report) - ogni anno provocano in Europa la morte prematura di oltre 400.000 persone? Cannabis, Radicali: #IoColtivo, chiediamo legalizzazione coltivazione per uso personale Il Riformista, 21 aprile 2020 Al via in occasione della giornata mondiale della cannabis #Iocoltivo, l’iniziativa di disobbedienza civile per chiedere al Parlamento di seguire le indicazioni della più alta Corte di giustizia in materia penale e per decriminalizzare finalmente la coltivazione di uso personale di cannabis. “Tutte insieme, centinaia di persone, metteranno un seme, cominciando a coltivare piante di cannabis in moltissime case in tutta Italia. #IoColtivo è un’iniziativa a cui partecipano Dolcevita, Associazione Luca Coscioni, Radicali italiani Meglio Legale, e ancora: BeLeaf, A Raccolta, Soft secrets molte altre associazioni e singoli cittadini che credono la legge italiana vada cambiata. Anche qualche parlamentare ha annunciato il suo sostegno, e il deputato Riccardo Magi (+Europa-Radicali) avvierà la sua coltivazione a casa insieme ai primi attivisti” - spiegano Antonella Soldo e Barbara Bonvicini portavoci di Meglio Legale. Tutti i partecipanti saranno invitati a pubblicare ogni settimana la foto dei propri germogli e delle proprie piante sui social con l’hastag #IoColtivo. Inoltre, grazie a un team di avvocati che ha messo a disposizione la propria professionalità, è prevista l’assistenza legale per chi partecipa alla disobbedienza. Uniche regole: essere maggiorenni, coltivare una sola pianta ed essere favorevoli a rendere pubblico l’eventuale svolgimento dell’iter giudiziario. “In questo momento di crisi, con le mafie pronte ad approfittare della fragilità economica del nostro Paese, forse è il caso di cominciare anche a considerare i provvedimenti che chiudano i rubinetti della liquidità alle mafie: quei rubinetti si chiamano narcotraffico. E un piccolo passo verso la legalizzazione può cominciare a stringerli” - rimarcano Soldo e Bonvicini. Alcuni giorni fa sono state depositate le motivazioni di una sentenza del 19 dicembre scorso delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che stabiliva come “non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate all’uso personale”. La coltivazione per uso personale. spiega a Suprema Corte, non è più punibile penalmente, ma è da considerarsi - al pari della detenzione per uso personale - un illecito amministrativo. Si tratta di una sentenza storica che dimostra, ancora una volta, come nel nostro paese la magistratura debba porre rimedio alla mancanza di assunzione di responsabilità del nostro Parlamento. “Questa sentenza dice chiaramente che la legge va cambiata, che va cambiato l’articolo 73 del Testo unico sulle droghe anche per liberare risorse, forze dell’ordine e tribunali dal contrasto di un fenomeno ampiamente diffuso” - concludono Soldo e Bonvicini. Lo scorso anno sono state sequestrate 532.176 piante: quasi il doppio dell’anno prima (+94%). E si stima siano almeno 100mila le persone che già oggi coltivano cannabis per uso personale: si tratta di consumatori quotidiani che lo fanno per il proprio uso personale o che al massimo vendono o regalano l’eccedenza ad amici e conoscenti. I motivi che spingono le persone a coltivare da sé cannabis in casa sono sicuramente di natura economica - perché costa meno - ma riguardano anche la qualità e il legalitarismo. Per quanto possa apparire curioso, le persone che autoproducono cannabis lo fanno anche per evitare di avere contatti con gli spacciatori e per evitare di finanziare economicamente le mafie. Anche oltreoceano il governatore di New York Andrew Cuomo in una recente dichiarazione ha rimarcato la necessità di legalizzare la cannabis per affrontare la crisi economica. Amnesty: “Esecuzioni al minimo da dieci anni” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 21 aprile 2020 Secondo il rapporto globale dell’organizzazione, i casi nel 2019 sono scesi a 657 e sono diminuiti i Paesi che applicano la pena di morte. Cinque gli Stati in controtendenza: Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq ed Egitto. Nel marzo del 2017, Tashpolat Tiyip fu arrestato poco prima di imbarcarsi su un volo per Hannover, in Germania, dove avrebbe dovuto chiudere un accordo di ricerca con l’Università Leibniz della città tedesca. Da allora non si hanno sue notizie, non si sa dove sia detenuto e Amnesty International teme che possa essere giustiziato nel giro di qualche giorno. Tiyip è un geografo di etnia uigura, la minoranza musulmana che vive in Cina, molto noto nella comunità scientifica internazionale, ex rettore dell’università dello Xinjiang, e una delle centinaia di persone che ogni anno nel Paese spariscono, vengono condannate a morte e giustiziate. La Cina è il principale esecutore mondiale di pena capitale e, anche se i numeri ufficiali non vengono resi noti perché coperti dal segreto di Stato, Amnesty stima che le esecuzioni siano migliaia ogni anno. Non è solo Pechino a nascondere le cifre: anche in Bielorussia, in Vietnam, in Corea del Nord i dati sull’uso della pena di morte sono classificati come segreto di stato. Le esecuzioni nel mondo diminuiscono - Ma oltre il buco nero cinese, nel mondo le cose migliorano. Nel 2019, dice il nuovo rapporto dell’organizzazione umanitaria sulla pena di morte, ci sono state meno esecuzioni che nel 2018 - almeno 657 contro le 690 del 2018 - una riduzione del 5% e il dato più basso degli ultimi 10 anni. Anche le condanne sono diminuite - 2.307 nel 2019, erano state 2.531 l’anno precedente. “Ci sono state riduzioni significative nel totale delle esecuzioni in Paesi come Egitto, Giappone e Singapore, il cui sostegno alla pena capitale è ancora forte”, scrivono i ricercatori di Amnesty. Per la prima volta dal 2011, sono diminuiti i Paesi in Asia e nel Pacifico in cui è stata applicata la pena di morte: “Giappone e Singapore hanno drasticamente ridotto il numero di persone messe a morte, da 15 a 3 e da 13 a 4”, e molti altri Stati hanno introdotto moratorie o sospensioni della pena. La campagna di morte saudita e il caso iracheno - La regione del Medio Oriente e Nord Africa è, dopo la Cina, quella con il più alto numero di esecuzioni: più 16% nel 2019 rispetto al 2018. I Paesi con i dati più alti sono l’Iran (almeno 251), l’Arabia Saudita (184), l’Iraq (almeno 100) e l’Egitto (almeno 32). Ma se in Iran le persone giustiziate sono state meno che nel 2018, in Arabia Saudita sono state 184, il numero più alto mai registrato, conseguenza anche del fatto che la pena di morte è stata usata dal regime come “arma politica contro i dissidenti della minoranza sciita”, denuncia Amnesty. Il 23 aprile scorso 37 uomini sono stati giustiziati, 32 erano sciiti: la gran parte era stata accusata di spionaggio per conto dell’Iran e condannata dopo un processo che tutti gli osservatori internazionali hanno definito sommario e ingiusto. Quattordici dei condannati avevano partecipato a proteste contro il governo e tra loro c’era anche Abdulkareem al Hawaj, sciita anche lui, che aveva solo 16 anni quando è stato arrestato. In Iraq, la sconfitta territoriale dello Stato Islamico con la caduta dell’ultima roccaforte di Baghouz, ha portato a un aumento esponenziale delle esecuzioni: da 50 a più di 100, più 92%, perché molte persone accusate di far parte, o di essere affiliate, all’Isis sono state giustiziate, e in diversi casi con processi non equi, come hanno denunciato anche le Nazioni Unite. Negli Stati Uniti il numero più basso in dieci anni - Negli Stati Uniti la campagna contro la pena di morte ha prodotto effetti importanti. Nel 2019 ci sono state 22 esecuzioni (25 nel 2018), ma quello che colpisce sono i dati sulle condanne a morte: 35. Il che significa una riduzione del 22% rispetto al 2018 (45) e del 68% rispetto al 2010. In dieci anni il valore più basso. Alla fine dell’anno scorso, 21 Stati americani avevano abolito la pena di morte, ultimo il New Hampshire, e altri hanno deciso di introdurre una moratoria. Un passaggio importante è stata la decisone presa del governatore della California, Gavin Newsom, nello Stato che ha una delle percentuali più alte di persone condannate a morte, 737 in attesa di esecuzione. “Il nostro sistema capitale si è rivelato un fallimento”, disse Newsom il 13 marzo scorso annunciando che non avrebbe supervisionato nessuna esecuzione. “È stato discriminatorio nei confronti di imputati mentalmente infermi, afroamericani o scuri di carnagione o che non possono permettersi una rappresentanza legale. Non ha portato vantaggi alla pubblica sicurezza e non ha nessuna utilità come deterrente”. Più di tutto: “la pena di morte è assoluta e, nel caso di un errore umano, è irreversibile e del tutto insanabile”. Stati Uniti. Il virus si fa largo nelle prigioni internazionale.it, 21 aprile 2020 Migliaia i detenuti contagiati in due strutture penitenziarie nello stato dell’Ohio. Il nuovo coronavirus si sta facendo largo anche nelle strutture penitenziarie americane. In particolare in due prigioni dell’Ohio, dove i detenuti sono stati testati a tappeto: oltre 3.200 sono risultati positivi al Covid-10. Tra questi si contano anche malati asintomatici. Si parla innanzitutto della struttura detentiva di Marion, dove l’infezione è confermata per 1.950 dei 2.500 prigionieri. E sinora è stato registrato un decesso. In un altro carcere, situato a sud-ovest di Columbus, i contagi sono 1.200 su 2.100 detenuti. In questo caso le morti sono sette, di cui sei sarebbero legate al nuovo coronavirus. Decine di contagiati nelle carceri minorili - Il Richmond Times-Dispatch scrive che almeno 25 detenuti sono risultati positivi al covid-19 nel carcere minorile di Bon Air, in Virginia. Come le prigioni per adulti, anche quelle per minori fanno fatica a tenere sotto controllo il virus, perché le strutture generalmente sono sovraffollate - quindi è difficile applicare il distanziamento - e con condizioni igieniche precarie. Altri casi sono stati registrati in Maryland, Texas, Louisiana, Delaware, Minnesota, New York, Texas e Connecticut. Per questo motivo nelle ultime settimane molti avvocati hanno chiesto alle autorità di rilasciare i detenuti minorenni che hanno problemi di salute o che non rappresentano un pericolo per la società. Richieste simili sono state presentate in Texas, in Maryland e in Pennsylvania. Le corti supreme di Maryland e Pennsylvania hanno già respinto le richieste. Negli Stati Uniti ci sono circa 43mila minorenni in carcere. Subito dopo l’inizio dell’emergenza si è capito che le prigioni possono essere tra i principali luoghi di diffusione del virus. In alcuni stati le autorità hanno deciso di scarcerare una parte dei detenuti per ridurre il sovraffollamento e limitare i rischi di contagio. Questo approccio non è stato preso in considerazione, per via del fatto che il virus sembra colpire i giovani molto meno degli adulti e degli anziani. Finora in tutti gli Stati Uniti i minorenni che hanno contratto il virus sono circa novemila. Di questi il 20 per cento è morto di covid-19. Costa D’Avorio. Giornata nazionale dei detenuti: appello per umanizzazione delle carceri fides.org, 21 aprile 2020 La Chiesa cattolica in Costa d’Avorio, attraverso la Commissione Episcopale per la pastorale sociale, celebra ogni anno dal 2007 nella festa della Divina Misericordia, la giornata nazionale dei detenuti. Un’iniziativa della Chiesa per essere più vicini ai prigionieri e mostrare loro la misericordia di Dio. Ma anche per evidenziare le realtà esistenziali delle carceri ivoriane. In occasione della quattordicesima edizione della Giornata nazionale dei detenuti, che quest’anno dovrebbe svolgersi nell’arcidiocesi di Gagnoa e che, per motivi legati alla Covid-19, non ha potuto avere luogo, p. Charles Olidjo Siwa, segretario esecutivo nazionale della sottocommissione nazionale per la cura pastorale delle carceri, chiede il rispetto della dignità umana e la cura dell’igiene nelle carceri ivoriane. “Diciamo che ci sono situazioni nelle nostre carceri che minano la dignità della persona umana, ad esempio la sovrappopolazione, inoltre alcune case di correzione in Costa d’Avorio sono prive di latrine. Certamente i governi fanno sforzi che accogliamo con favore, ma a questo livello pensiamo che non si sia fatto abbastanza. I detenuti devono essere davvero trovarsi in un luogo di correzione” auspica p. Siwa. Infatti il tema scelto per l’anno pastorale 2019-2020 della Giornata nazionale dei prigionieri è: “Per il rispetto della dignità della persona umana, cerchiamo di impegnarci nell’igiene in carcere”. Durante la celebrazione della giornata nazionale dei carcerati si visitano i detenuti in una delle case correzionali del Paese, cui si donano viveri e pasti. Un’azione che non è stato possibile effettuare a causa della pandemia di Coronavirus. P. Siwa lancia comunque un appello alla solidarietà, invitando cristiani e persone di buona volontà a sostenere i prigionieri, dando al contempo alle carceri un volto più umano. Il Presidente della Repubblica, Alassane Ouattara nell’ambito alla lotta contro il coronavirus ha graziato lo scorso 8 aprile 1.000 prigionieri e ha ridotto la pena ad altri 1.004. La Costa d’Avorio ha 34 carceri e strutture correttive con una popolazione carceraria di 16.800 detenuti. La prigione più grande e famosa del paese, il Centro di correzione e detenzione di Abidjan, progettato per ospitare 1.500 detenuti, oggi ha una popolazione carceraria di 7.400 prigionieri. Un terzo dei carcerati del Maca sono in detenzione preventiva. Colombia, ucciso un altro leader sociale di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 aprile 2020 Un altro leader sociale colombiano è stato assassinato domenica all’alba in una zona rurale del municipio di Buenos Aires, nel dipartimento del Cauca. Mario Chilhueso Cruz era presidente dell’Associazione dei lavoratori e dei piccoli produttori agricoli (Astcap). A dare la notizia è stata l’emittente WRadio. L’omicidio è avvenuto mentre il leader campesino stava lasciando la sua abitazione. In meno di tre giorni sono stati assassinati tre leader sociali nel Cauca. La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno denunciato una “epidemia di violenza” in Colombia, nonostante le misure di quarantena adottate per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus. “Proprio come gli attori colombiani si stanno unendo per affrontare la pandemia, è imperativo per tutti gli attori porre fine all’epidemia di violenza contro leader sociali, difensori dei diritti umani ed ex combattenti”, ha affermato Carlos Ruiz Massieu, capo della missione Onu nel paese, durante una riunione in videoconferenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo quanto denunciato dall’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace colombiano (Indepaz) almeno 71 leader sociali e difensori dei diritti umani e 20 ex combattenti delle Farc sono stati assassinati nel 2020 in Colombia. Secondo l’istituto, che ha pubblicato una lista dei nomi delle vittime, la maggior parte degli omicidi è avvenuta nel mese di gennaio. Sette sono stati registrati dopo il 24 marzo, ovvero durante il periodo di quarantena imposto dal presidente Ivan Duque per tenera di contenere la diffusione del nuovo coronavirus nel paese. La firma degli accordi di pace tra governo e Farc nel 2016 ha provocato un’ondata di violenza dovuta in particolare agli scontri tra gruppi armati rivali per il controllo del territorio. Secondo stime di Indepaz dalla firma dell’accordo di pace al 28 febbraio 2020 sono stati assassinati in Colombia 817 leader sociali e difensori dei diritti umani. Le Nazioni Unite - Lo scorso 15 gennaio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso la sua “seria preoccupazione” per i ripetuti omicidi in Colombia di leader sociali ed ex combattenti delle Farc e ha chiesto “azioni effettive” per migliorare la sicurezza. Occorre, si legge nella dichiarazione, “che i responsabili siano assicurati alla giustizia e che vengano prese misure efficaci per migliorare la sicurezza, anche estendendo la presenza integrata dello stato e della sicurezza alle aree colpite dal conflitto”. Il Consiglio Onu ha inoltre sottolineato la necessità di implementare tutti gli aspetti dell’accordo di pace tra governo e Farc e rafforzare la protezione degli ex guerriglieri. I membri del Consiglio di sicurezza “sottolineano l’importanza di attuare tutti gli aspetti dell’accordo, comprese le riforme rurali, la partecipazione politica, la lotta contro le droghe illecite, compresi i programmi di sostituzione delle colture e la giustizia di transizione, e incoraggiano il pieno utilizzo dei meccanismi istituiti a tal fine, anche attraverso un dialogo continuo tra le parti”. I dati - Secondo dati diffusi dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani nel 2019 sono stati uccisi 107 attivisti per i diritti umani in Colombia. La grande maggioranza dei casi ha avuto luogo nelle aree rurali, quasi tutti (98 per cento) in comuni con economie illecite, dove operano gruppi criminali o armati, e l’86 per cento del totale ha avuto luogo in villaggi con un tasso di poverta’ superiore alla media nazionale. La metà degli omicidi è avvenuta in soli quattro dipartimenti: Antioquia, Arauca, Cauca e Caquetà. Le stime della Defensoria del popolo colombiana parlano invece di 118 leader sociali uccisi nel 2019 e di un totale di almeno 555 casi tra il 1 gennaio 2016 e il 31 ottobre 2019. I combattenti delle Farc - Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme anche sugli omicidi degli ex combattenti delle Farc che hanno aderito all’accordo di pace. Secondo quanto denuncia il partito Farc, nato dalle ceneri dell’omonima guerriglia, ad oggi sono almeno 191 gli ex combattenti uccisi dalla firma dell’accordo di pace. Secondo stime Onu nel 2019 sono stati assassinati 77 ex combattenti delle Farc; un dato che fa del 2019 l’anno più violento per gli ex guerriglieri dalla firma dell’accordo di pace con il governo, nel novembre 2016. Il governo colombiano, per parte sua, ha riconosciuto l’escalation di violenza in alcune aree del paese, in particolare contro i leader sociali attivi sul territorio. “In alcune aree del paese si assiste a una escalation di violenza per il controllo territoriale da parte di organizzazioni illecite”, ha detto il ministro dell’Interno, Nancy Patricia Gutierrez, parlando durante un evento nel dipartimento di Chocò. Il ministro ha spiegato che, sulla base di dati aggiornati al 31 dicembre, il numero delle persone sotto protezione è salito a 8.189, di cui 4.890 leader sociali.