Detenuti sessantenni in detenzione domiciliare di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 aprile 2020 E fuori dal carcere fino a due anni di pena. Emergenza Coronavirus: questa la ricetta del Centro studi Borgogna. Scarcerazione immediata fino ai due anni di pena, sessantenni e pazienti cronici non pericolosi sempre in detenzione domiciliare e sospensione di qui al rientro dell’emergenza sanitaria dell’esecuzione delle pene fino a 4 anni. Sono i punti chiave del piano di svuotamento controllato delle celle e contenimento dei nuovi ingressi in carcere previsto dal Centro Studi Borgogna. Il laboratorio giuridico interdisciplinare con sede a Milano ha elaborato delle proposte per risolvere l’endemico sovraffollamento delle nostre carceri, ora con un problema in più, quello della salute pubblica scatenata dalla pandemia in corso. Gli istituti di pena hanno 47 mila posti disponibili ma i detenuti presenti, secondo gli ultimi dati del ministero della giustizia sono 57.137. Oltre 10 mila in più, per il Centro una soglia critica da abbassare nella lotta all’epidemia e all’inadeguatezza della nostra edilizia giudiziaria perché i 37 detenuti attualmente positivi al virus non diventino molti di più. Ma come? Se il Cura Italia prevede all’articolo 123, fi no al 30 giugno la misura della detenzione domiciliare su istanza del detenuto per pene detentive non superiori ai 18 mesi anche se residue di maggior pena, la proposta è di alzare l’asticella. Così, a prescindere dall’utilizzo dei braccialetti elettronici, l’idea del Centro è quella di scarcerare immediatamente i detenuti con pene o residui di pene non superiori ai due anni e non condannati per i reati esclusi dal beneficio del decreto. E per il controllo tramite utilizzo dei braccialetti elettronici che il decreto prevede per pene superiori ai 6 mesi, il laboratorio milanese osserva che dai mille attualmente utilizzabili oggi all’adeguamento tecnologico dei 5 mila messi a disposizione dal ministero passeranno almeno tre mesi. Un tempo troppo lungo rispetto alla velocità di diffusione del virus. Va poi ripensato il concetto di custodia cautelare in carcere da comminarsi solo in casi estremi e, da sostituirsi con gli arresti domiciliari per sessantenni o persone con patologie croniche pregresse, eccezion fatta per la comprovata pericolosità sociale. Tra le proposte, anche la sospensione di qui al termine dell’emergenza sanitaria in corso, dell’esecuzione di pene definitive fino a 4 anni. Gestione del Covid-19 nelle carceri: pubblicate le linee-guida dell’OMS di Giuseppe Romeo infermieristicamente.it, 20 aprile 2020 L’Ufficio dell’OMS per l’Europa ha pubblicato una interim guidance focalizzata sulla tutela della salute delle persone in carcere o in altri posti di detenzione quali strutture di detenzione per minori e centri per il rimpatrio dei migranti. L’OMS evidenzia che il rispetto per i diritti umani deve costituire il principio guida nel determinare la risposta all’epidemia da Covid-19. Il documento “Preparedness, prevention and control of Covid-19 in prisons and other places of detention” è indirizzato alle autorità carcerarie, di sanità pubblica e politiche, ai direttori e dirigenti delle carceri o degli altri centri di detenzione, al personale sanitario e di custodia che vi lavora. Ha l’obiettivo di coordinare le azioni di sanità pubblica, come aiutare a prevenire la diffusione del virus o a capire come gestire la presenza di un caso sospetto o confermato di Covid-19 tra una delle persone che vive in restrizione o tra il personale. Inoltre, fornisce alcuni consigli alle persone che si trovano in ambienti restrittivi, ai loro familiari e ai membri del personale se sono stati nelle aree colpite dal virus negli ultimi 14 giorni. Le persone private della libertà sono probabilmente più vulnerabili al Covid-19 rispetto alla popolazione generale a causa delle condizioni di ristrettezza in cui vivono. Inoltre, possono andare incontro a un peggior stato di salute perché più esposte a fattori di rischio come fumo, uso di droghe, scarsa igiene, stress psico-fisico, cattiva alimentazione, o pregresse patologie infettive e croniche. Nei luoghi chiusi il virus può essere introdotto e circolare tramite il personale lavorativo, i nuovi ingressi o i famigliari in visita. L’interim guidance propone tre obiettivi principali: indirizzare la progettazione e l’implementazione di piani di preparazione adeguati per carceri e altre strutture di detenzione, per far fronte all’attuale pandemia da Covid-19; fornire meccanismi efficaci di prevenzione; delineare un approccio appropriato per avvicinare i sistemi di pianificazione sanitaria e di emergenza nazionale/locale alle realtà di detenzione. Nel documento viene dato ampio risalto alla pianificazione congiunta e alla collaborazione tra il personale sanitario e di custodia, le organizzazioni di sanità pubblica locali e nazionali e i ministeri coinvolti attraverso protocolli e disposizioni nazionali. L’interim guidance dà inoltre indicazioni sulla valutazione e gestione del rischio (screening in ingresso per detenuti, visitatori e lavoratori, insieme a un’anamnesi sanitaria e degli spostamenti e un’eventuale quarantena) e un sistema di riferimento e gestione clinica dei casi sospetti e conclamati di Covid-19. La pandemia che penetra in cella di Dale Zaccaria comune-info.net, 20 aprile 2020 Il contagio del virus nelle carceri italiane continua a diffondersi, ma solo quando le Asl decidono di effettuare i tamponi, i casi emergono. Fino ad ora si è a conoscenza di circa 300 persone risultate positive, secondo quanto riportato da Il Riformista, ma il promesso screening di massa non è mai stato fatto e i dati sono sempre scarsi e affluiscono molto lentamente. Il diritto alla salute, fino a prova contraria, va garantito anche ai detenuti e il sistema attuale certo non lo consente. Intanto, anche la Corte europea di Strasburgo ha espresso preoccupazione per come si sta gestendo nelle carceri italiane la situazione determinata dal virus. L’epidemia Covid 19 non si placa, ha contagiato il mondo intero lasciando morte sul campo persone anziane e giovani, medici e assistenti sanitari. Tra coloro che pagano il prezzo più alto c’è naturalmente anche tutto il mondo degli invisibili, dei senza tetto, degli ultimi, delle fasce più povere della popolazione e poi loro, i reclusi, quelli rimasti senza un’ora di libertà. Secondo l’Associazione Antigone, per ridurre i rischi di contagio dovrebbero uscire altri 8-10 mila reclusi. Oltre ?6 mila i detenuti in meno negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’emergenza sanitaria: gli ultimi numeri aggiornati, forniti dal Garante nazionale dei detenuti il 17 aprile, parlano di ?54.998 presenze nei penitenziari, ?a fronte delle 61.230 del 29 febbraio. Dopo la morte di un 58 enne nel carcere di Voghera e i casi positivi nelle varie carceri del paese, Antigone ha lanciato, all’inizio di aprile, un appello “anche alla magistratura ordinaria, affinché si possano rivedere i provvedimenti di custodia cautelare in carcere attualmente eseguiti. Nel nostro paese, il tasso di custodia cautelare supera il 30%, anche solo riportarlo alla media europea del 21% significherebbe far uscire migliaia di persone che potrebbero attendere l’eventuale condanna in detenzione domiciliare. È importante che gli organi giudiziari, in questo momento, facciano ciò che non hanno saputo fare quelli esecutivi e legislativi”. Anche il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura e il Commissario per i diritti umani del consiglio d’Europa “hanno aggiunto la propria voce al coro, invitando i governi ad adottare al più presto tutte le misure possibili di prevenzione, compresa la riduzione del numero dei detenuti. Il rischio è che le carceri diventino focolai di diffusione del virus, con conseguenze drammatiche per chi in carcere vive e lavora, ma anche per le comunità di cui il carcere è parte”. L’Italia è il paese con il tasso più alto di sovraffollamento penitenziario. Lo rilevava il Rapporto di metà anno di Antigone, reso pubblico nel luglio 2019. Mediamente, si attestava al 119%, anche se le carceri delle regioni più colpite dal coronavirus hanno un tasso che supera il 130%. Sono a rischio, in questi mesi, i carcerati, gli operatori penitenziari, ma non solo; sempre l’Associazione Antigone, in un comunicato dell’8 aprile scorso spiegava: “Qualora sia vero che non ci saranno modifiche rilevanti agli articoli 123 e 124 del decreto Cura Italia, per quanto riguarda le carceri, si commette un errore gravissimo, sulla pelle di operatori penitenziari, poliziotti, detenuti. In questa fase grave per il paese ci si affida giustamente in tutti gli ambiti ad esperti italiani ed internazionali per affrontare l’emergenza. Questo per ora non sta avvenendo per le carceri, dove al ministero della Giustizia non ci si affida alle indicazioni provenienti da Onu, Consiglio d’Europa, Garante nazionale delle persone private della libertà e garanti territoriali, professori di diritto e procedura penale, alti magistrati a partire dal Procuratore generale presso la corte di Cassazione, avvocati, magistrati di sorveglianza, funzionari penitenziari, ma anche autorità morali come papa Francesco. Tutti chiedono misure urgenti e straordinarie per ridurre drasticamente il sovraffollamento. Misure che creino spazio fisico, misure utili ad assicurare il distanziamento sociale. In carcere abbiamo bisogno di liberare 10 mila persone almeno mandandole ai domiciliari o in misure alternative, anche perché sempre più sono gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c’è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi. Evitiamo che le carceri diventino le nuove Rsa”. Antigone si rivolge dunque a chiunque abbia a cuore la salute delle persone e la solidarietà “affinché non si dia ascolto a chi dice - sono pochi ma influenti, pare - che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, al pari di tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia. Si liberino tutti coloro che sono a fine pena, a prescindere dalla disponibilità dei braccialetti elettronici. Si liberino tutti gli anziani e i malati oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici prima che contraggano dentro il virus che potrebbe essere letale. Si dia ascolto a chi le prigioni le conosce bene e non a persone che non hanno mai vissuto l’esperienza carceraria e non sanno cosa significhi respirare l’ansia e la tensione in quel contesto”. Il ministro Boccia: reclutare 1.500 operatori socio-sanitari volontari per Rsa e carceri rainews.it, 20 aprile 2020 Il responsabile degli Affari regionali: “Nelle prossime ore ufficializzeremo i dettagli del bando e i termini di partecipazione. Siamo sicuri che anche questa volta saremo sostenuti dalla generosità e dalla disponibilità degli italiani”. Il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, rivolge un appello ai volontari per reclutare 1.500 operatori socio sanitari da inserire anche nelle Rsa. “L’unità socio sanitaria voluta dal governo sarà di supporto alle strutture sanitarie regionali e sarà impiegata in Rsa per anziani e disabili e in tutti gli istituti penitenziari nei quali il Dap riterrà necessario inviare unità di supporto”, spiega Boccia. “Dopo la straordinaria risposta di medici e infermieri per gli ospedali, attraverso la Protezione civile abbiamo deciso di far partire un bando per reclutare una nuova task force di 1.500 operatori socio sanitari”, scrive il ministro Boccia. “Con i ministri Speranza e Bonafede abbiamo concordato di far partire immediatamente questa nuova unità di supporto ai territori in condizioni critiche a causa del Covid-19”, sottolinea Boccia al termine dell’incontro operativo e organizzativo tenuto nella sede della Protezione Civile con Angelo Borrelli e i tecnici del Dipartimento. “Nelle prossime ore ufficializzeremo i dettagli del bando e i termini di partecipazione. Siamo sicuri che anche questa volta saremo sostenuti dalla generosità e dalla disponibilità degli italiani”. “Al momento, grazie agli 800 volontari selezionati tra medici (300) e infermieri (500) il Governo - evidenzia ancora Boccia - ha garantito il sostegno a tutti gli ospedali in condizioni critiche. Questa task force continuerà ad operare sino al termine dell’emergenza - precisa - e su richiesta delle singole Regioni e delle amministrazioni di competenza”. La telematica sblocca la giustizia ma ci sono timori su privacy e garanzie di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2020 L’emergenza coronavirus sta cambiando la giustizia, che diventa sempre più telematica. E se nel rito civile e in quello amministrativo il percorso verso la digitalizzazione è iniziato da tempo e la possibilità di trattazione scritta riduce (ma non elimina) le difficoltà, nel processo penale dove vige il principio dell’oralità del dibattimento, l’impatto è più forte e sta suscitando accese polemiche. I timori riguardano soprattutto la riservatezza dei dati e la tutela delle garanzie della difesa. Il disegno di legge di conversione del decreto Cura Italia (18/2020) che dovrebbe essere approvato questa settimana estende infatti la possibilità di svolgere in videoconferenza e con collegamenti da remoto indagini preliminari, udienze penali e camere di consiglio. L’allargamento scatterà dal 12 maggio, alla fine del periodo di sospensione delle udienze e dei termini, e durerà fino al 30 giugno. Dal 1° luglio l’attività giudiziaria dovrebbe tornare alla normalità ma gli operatori temono il caos: sia per l’accumulo di ritardi e per l’ingorgo di fascicoli, sia per la necessità di distanziamento e tutela sanitaria determinati dal perdurare del rischio contagio. Eppure, l’esperienza che la giustizia farà nelle prossime settimane potrebbe lasciare qualcosa in dote e far scoprire che alcuni “momenti” del processo, oggi affidati all’oralità e alla presenza fisica, possono essere svolti in modo più rapido e altrettanto efficace online o per iscritto. Ad esempio, con il collegamento da remoto, il giudice può interrogare direttamente l’imputato detenuto in un’altra città senza delegare un collega sul posto che non conosce il processo. Processo penale “digitale” - Intanto, fino al 30 giugno, si potranno svolgere da remoto le indagini preliminari e le udienze, con l’eccezione di quelle in cui devono essere sentiti testimoni o persone offese non costituite parti civili. Certo, le udienze penali via computer non sono una novità assoluta; prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria, però, sono state utilizzate solo in situazioni particolari, previste dall’articolo 146-bis del Codice di procedura penale: partecipano a distanza al dibattimento i detenuti in carcere per reati di criminalità organizzata e terrorismo e le persone ammesse a programmi o misure di protezione. Ora, invece, si apre la possibilità di processare da remoto anche gli imputati liberi o sottoposti a misure cautelari diverse dalla detenzione, che dovranno collegarsi dalla stessa postazione del difensore. Il funzionamento pratico dei collegamenti deve essere regolato da un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia. Finora sono stati utilizzati Skype for business e Teams di Microsoft. L’applicazione - I nodi da sciogliere sono diversi e investono sia questioni di principio normativo-costituzionali sia di carattere organizzativo (come difficoltà di collegamento e supporti tecnici) che relative alla sicurezza e alla segretezza dei dati. La posizione più dura contro la smaterializzazione del processo è quella dell’Unione camere penali che teme che le nuove misure possano essere confermate anche dopo la fine dell’emergenza. Per i penalisti il collegamento da remoto riduce le garanzie per l’imputato poiché impedisce un reale contraddittorio e mette in pericolo il principio dell’oralità e dell’immediatezza del processo penale. Ma gli avvocati sottolineano anche i rischi per la riservatezza e la segretezza dei dati, visto che la partecipazione a distanza avviene su programmi commerciali. Tanto che hanno scritto al Garante privacy che, a sua volta, ha chiesto informazioni al ministero della Giustizia. “Abbiamo proposto modifiche - dice il presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza - che consentano la trattazione in sicurezza dei processi. Possiamo fare in modo che si vada in aula il meno possibile e che il numero dei partecipanti sia il più basso possibile. Ma non si può smaterializzare l’aula”. Più positivi i magistrati, per cui comunque le deroghe “digitali” non possono diventare la norma: “L’emergenza sanitaria - osserva il presidente dell’Anm, Luca Poniz - sta paralizzando il Paese e la giustizia. Per ripartire l’attività di udienza non può che avvenire con modalità da remoto. Siamo anche favorevoli a un’applicazione diversa delle norme da sede a sede, in base alla gravità del contagio. Sono comunque disposizioni dettate per l’emergenza, che finiranno con essa”. Una posizione condivisa da Magistratura democratica che in una nota ha sottolineato che una volta superata la fase critica occorre ripristinare le norme che garantiscono “al massimo grado i diritti e le libertà delle persone”. Il processo civile - Meno rivoluzionarie, ma comunque significative, sono le mutazioni che sta vivendo in questo periodo di emergenza il processo civile. In base al testo già in vigore del decreto legge cura Italia, i giudici stanno “sostituendo” dove possibile le udienze con il deposito di note scritte, sfruttando il canale del processo civile telematico. E la telematica si prepara a debuttare (sempre solo fino al 30 giugno) anche in Cassazione, finora rimasta esclusa dal Pct. Udienze da remoto. Una vera rivoluzione per i procedimenti penali di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2020 Fino al prossimo 30 giugno le attività giudiziarie penali si potranno svolgere davanti al computer. È una rivoluzione per il nostro processo, fondato sulla dialettica orale. Vediamo cosa cambierà in ogni fase processuale. Indagini preliminari - Non ci sono limiti agli atti del giudice e del pubblico ministero effettuabili da remoto: udienze di convalida del fermo o dell’arresto, incidenti probatori, interrogatori di indagati, testimoni, consulenti e periti. Nello stesso modo si potranno svolgere le indagini della difesa: le norme non lo esplicitano ma è necessario per evitare disparità di trattamento. Non si chiarisce se sarà possibile opporsi al compimento telematico dell’atto di indagine ma si prevede che si proceda via web solo se la presenza fisica “non può essere assicurata senza mettere a rischio le esigenze di contenimento della diffusione del virus”. Sembra, quindi, che quando sia possibile rispettare la distanza di sicurezza, i partecipanti siano sani e abbiano guanti e mascherine, l’atto dovrà essere celebrato nella forma tradizionale. I detenuti utilizzeranno i sistemi di videoconferenza già esistenti per la partecipazione a distanza nei processi per criminalità organizzata. Tutti gli altri soggetti - tra cui gli imputati liberi- si dovranno recare nel più vicino ufficio di polizia giudiziaria, dove saranno identificati e messi in contatto con il magistrato. Il difensore potrà partecipare anche dal suo studio: in ogni caso, dovrà essere garantito il diritto dell’indagato di consultarsi riservatamente con l’avvocato. Il verbale delle operazioni sarà redatto dalla polizia giudiziaria. Processi - Le udienze si potranno celebrare via web, se lo svolgimento a porte chiuse non basterà a contenere i rischi. Si dovranno ascoltare in aula solo i testimoni e la persona offesa non costituita parte civile, mentre si potranno interrogare da remoto i funzionari di polizia giudiziaria, gli imputati, la parte civile, i consulenti e i periti. Anche i riti alternativi e le impugnazioni si potranno svolgere a distanza. Le udienze camerali in Cassazione si celebreranno con la presenza del difensore - anche da remoto - solo se lo avrà chiesto via PEC almeno 25 giorni prima. Altrimenti si procederà solo sugli scritti delle parti. La norma non prevede che l’imputato possa opporsi alla scelta del giudice di celebrare l’udienza telematica, ma stabilisce che lo svolgimento dovrà avvenire “con modalità idonee a salvaguardare il contradditorio e l’effettiva partecipazione delle parti”. L’imputato libero si collegherà dalla stessa postazione del suo difensore, che dovrà attestarne l’identità; il detenuto si connetterà dal carcere, dove sarà presente anche il difensore; quello ai domiciliari dalla stazione di polizia giudiziaria più vicina con impianto di videoconferenza. Il cancelliere parteciperà dall’ufficio giudiziario, verbalizzando le operazioni svolte. Camere dì consiglio - Le sentenze e le ordinanze collegiali potranno essere decise da giudici connessi da remoto in una camera di consiglio “virtuale”: dopo la deliberazione, il presidente del collegio, o un altro componente delegato, dovrà sottoscrivere il dispositivo, che verrà depositato il prima possibile, e non oltre la fine dell’emergenza sanitaria. Bonafede vuole fare i processi smart, ma i tribunali fanno ancora le fotocopie di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 20 aprile 2020 Il ministro della Giustizia vorrebbe spostare i dipartimenti su Teams di Microsoft, ma la realtà è diversa: è come passare dall’aratro al motore a scoppio. Per dire, gli impiegati della corte di Roma non lavorano perché non possono collegarsi al sistema da casa. Mentre perquisizioni e sequestri nelle case di riposo di Lombardia e di mezza Italia annunciano la nuova collezione giudiziaria autunno/inverno 2020, quasi nessuno, stranamente, sembra chiedersi se esisterà ancora una giustizia, intesa soprattutto come attività, in grado di funzionare dopo il coronavirus. Qualche giorno fa, per la mia pagina Lab-Politica del diritto ho moderato un dibattito tra tre magistrati presidenti di uffici di primo, secondo grado e Cassazione. Ho chiesto loro di raccontare la gravità dell’impatto, le sue conseguenze e le prospettive dell’attività giudiziaria che dirigono. Un pubblico di stupiti addetti ai lavori ha appreso che gli impiegati del Tribunale di Roma, in teoria a casa a lavorare in modalità smart o “agile”, sono in realtà disoccupati perché non è loro possibile collegarsi con la Rug, minaccioso acronimo per una orwelliana Rete Unica della Giustizia che raccoglie i registri di tutti gli uffici giudiziari italiani. Oppure nelle cancellerie della Suprema Corte di Cassazione, il tempio della interpretazione del diritto, gli impiegati fotocopiano migliaia di pagine dei processi e dei ricorsi da distribuire ai vari giudici perché non esiste un sistema di digitalizzazione degli atti. Soltanto nella Corte di Appello di uno dei distretti giudiziari più grandi d’Europa, nella prima sezione, come riferisce il presidente Picazio, sono saltati nel periodo da marzo a maggio ben 837 processi di cui 155 con detenuti. Moltiplicati per analoghe quantità nelle altre tre sezioni, andranno ad aggiungersi al già mostruoso arretrato che oggi schiaccia la Corte di Appello del Lazio che divide un poco invidiabile primato con Venezia e Napoli. In Cassazione dove si era riusciti in alcune sezioni a ridurre l’attesa della trattazione a una media di quattro mesi, già oggi si riempiono le udienze al 2021. In questo clima non è un interrogativo ozioso quello di chiedersi non solo quando mai verrà fatta luce per gli indagati e per le vittime del Coronavirus, ma se sarà possibile garantire uno standard minimo di giustizia a tutti A questo cataclisma il governo ha dato un’imprevedibile e fantasiosa risposta che al pari di altre ideazioni nel settore della prevenzione sanitaria ne illustrano le velleità e i vistosi limiti: nel settore giudiziario, la risposta si chiama processo “da remoto” come “modello preferenziale” da introdurre nelle aule italiane, un po’ come quei giocatori d’azzardo con le tasche svuotate che giocano al rilancio grosso nell’illusione di imbroccare il colpo fortunato. In sostanza, non essendo possibile riempire le aule della solita folla di avvocati, magistrati, imputati e testi, le si smaterializza applicando alla procedura la tecnica dello smart working: tutti collegati da ogni dove mediante un’app. In questo caso il programma scelto in via esclusiva è Teams di Microsoft scelto dal ministero secondo imperscrutabili criteri. Invece di rinforzare il personale amministrativo e magari reclutare con un serio programma nuovi magistrati, accorciando i tempi di attesa dei vari concorsi, il ministro Alfonso Bonafede ha preferito implementare la fornitura di schermi televisivi per regalare una botta di futuro dimenticandosi di avvisare sul punto un interlocutore obbligato che se ne è risentito parecchio bocciandogli il giocattolo: il Garante per la protezione dei dati personali. La cosa ha un suo rilievo perché, come sappiamo, a giorni sarà disponibile un’altra favolosa applicazione, “Immuni”, l’ultima trovata del commissario Domenico Arcuri, a corto di mascherine ma non della stessa euforica voglia di modernità, che dovrebbe tracciare ogni singolo passo della nostra giornata alla caccia dei famigerati “asintomatici”, gli untori di oggi. E i problemi con il Garante saranno gli stessi. Poche cose raccontano l’inadeguatezza e la velleitaria improvvisazione di questo governo, di questo ministro e dei suoi consiglieri quanto la faciloneria con cui da un giorno all’altro si è dato vita al progetto di “remotizzare” la giustizia italiana con l’entusiastica collaborazione di una parte della magistratura. Il risultato, come vedremo, è la concreta, pericolosa possibilità di buttare al vento anche una delle non poche necessarie riforme per modernizzare i tribunali italiani. Una premessa: l’esplosione della pandemia ha innescato all’inizio un clima di rivolte e terrore nei tribunali italiani dove i magistrati avevano preso a celebrare le udienze sbarrando le porte al pubblico, ai testimoni e agli avvocati in attesa delle cause successive, creando così in diverse occasioni pericolosi assembramenti nei corridoi e poi una serie di proteste che dai fori locali si sono trasferite a tutto il paese con un’astensione indetta dagli Ordini in alcuni casi rifiutata e contestata dai magistrati come illegittima. Provvidenzialmente è arrivato il lockdown che dal 9 marzo ha chiuso la società italiana e anche i tribunali. Il governo ha quindi stabilito nella prima versione del Cura Italia la sospensione dei processi civili e penali con qualche eccezione per casi urgenti e processi con detenuti per cui il ministro Bonafede ha disposto l’uso della modalità “da remoto”. Con una novità però non da poco. L’imposizione dell’applicazione da utilizzare in via esclusiva: Teams di Microsoft, l’erede del “vecchio” Skype, all’uopo innestata su un canale “riservato” al ministero di Giustizia. E infatti la procedura prevede che disposte orari e modalità del collegamento dai funzionari della Direzione dei Sistemi Informativi del ministero (Dgsia), il Giudice che funge da host della seduta invita al collegamento le parti (pm e difensori) in veste di client. Teams ha qualche pregio come per esempio la possibilità di consentire il dialogo vocale e trasmissione in diretta di allegati, utilizzando una funzione di messaggistica incorporata. Ma il suo uso è macchinoso rispetto ad applicazioni più agili utilizzate da scuole, università e professionisti per la comunicazione, poiché consentono la contemporanea visione di centinaia di persone. Cosa che Teams non consente arrivando ad ospitare sullo schermo al massimo quattro interlocutori. La novità è stata accolta con un qualche mugugno dagli avvocati penalisti da tempo convinti che sia in atto una strisciante voglia di cambiare le regole processuali dematerializzando le aule sulla rete, una cosa rifiutata come una congrega di luddisti rifiuterebbe un’invenzione demoniaca che levasse loro il lavoro, ma viste le circostanze emergenziali hanno accettato e firmato una serie di protocolli da foro a foro per cercare di disciplinare una procedura che presentava una carenza da poco: non ha un regolamento o una normativa che la disciplini alla stregua dei passaggi dei processi ordinari. Dopodiché come sta avvenendo per le regioni del Nord e ad altre categorie produttive, i penalisti hanno cominciato a spingere per il riavvio dell’attività ordinaria, sia pure con le dovute precauzioni (fasce orarie, mascherine, accessi limitati alle aule). La situazione è precipitata in sede di conversione del decreto, quando qualcuno ha suggerito al ministro di inserire un paio di commi esplosivi. Col primo (12bis) si prevede la totale “dematerializzazione” del processo in cui non solo gli imputati detenuti ma anche i difensori, pm e parti civili si disperdono “remotamente”. E non solo, la medesima sorte è prevista per alcune categorie di testi, agenti di polizia giudiziaria, periti e consulenti, mentre un ordinario cittadino, magari per ripetere un innocuo verbale di furto deve rischiare la salute (lasciamo perdere i risvolti costituzionali). Col secondo comma, denominato 12 ter, il ministro remotizza pure i collegi giudicanti e le giurie popolari nei processi d’Assise. Ora immaginate il passaggio repentino dall’aratro al motore a scoppio ed avrete ancora un’idea approssimativa di cosa è il mutamento partorito da Alfonso Bonafede negli uffici giudiziari dove gli avvocati non riescono ad ottenere on line una sentenza o un fascicolo se non in pochi casi e sempre beninteso dopo aver fatto la fila per pagare i diritti. Per il 27 aprile, il Tribunale di Roma ha deciso di avviare la storica svolta di celebrare un processo di 60 imputati, buona parte detenuti, totalmente da remoto. In aula siederà il Tribunale ma non gli avvocati, i testi, il Pubblico ministero. Per ognuno di loro il Tribunale ha disposto una collocazione precisa e obbligatoria, presumibilmente secondo le indicazioni operative del gestore del servizio telematico, che non è un magistrato. Gli avvocati obbligatoriamente in studio, accorpati in modo che ciascuna difesa parli da un solo schermo. Dunque per i difensori non opererà l’obbligo di “distanza sociale” invocato dai magistrati per dematerializzare un processo. Ed altro si potrebbe dire. Ma prima ancora di arrivare all’inevitabile scontro con i legali è il Garante dei dati personali, attivato con una specifica segnalazione dall’Unione Camere Penali a intervenire e con modi formalmente garbati ma duri nella sostanza. Antonello Soro ha lamentato di non essere stato consultato in una questione di sua pertinenza per le gravi implicazioni derivanti dal decreto legislativo 51 del 2018 che impone “la piena applicabilità della disciplina di protezione dati, anche ai trattamenti di dati svolti nell’esercizio della funzione giurisdizionale”. Tra le righe il Garante non ha mancato di ricordare che le leggi americane concedono alla autorità federali l’indiscriminato accesso a tutti i tipi di dati custoditi presso i server delle compagnie americane, Microsoft compresa. Ecco: immaginate una camera di consiglio sulla trattativa Stato Mafia, o le intercettazioni di un presidente della Repubblica gelosamente custodite da uno Stato straniero. Un intervento che presumibilmente verrà replicato anche per la nuova applicazione di contact tracing varata dal governo. È possibile che l’intemerata del garante ponga anticipata e ingloriosa fine alla goffa rivoluzione digitale del governo Conte, ma sarebbe sciocco limitarsi a prendere atto e magari tirare un sospiro di sollievo: la giustizia italiana (come la sanità e la pubblica amministrazione) ha bisogno di una rivoluzione digitale, dell’informatizzazione dei suoi uffici e anche di procedure alternative a quelle orali che prevedano in determinati casi di semplice definizione l’uso della tecnologia da remoto. Ma la scelta non può essere imposta dall’alto, essa, come ad esempio per scelte come il patteggiamento, spetta al difensore che da solo può valutare un’eventuale rinuncia ad un diritto come il contraddittorio orale. Occorrerebbe un grande patto, un new deal (modello accordo Lama-Agnelli sulla contingenza nel 1977) che coinvolgesse le componenti della giustizia, secondo un canone di reciproca fiducia con cui stabilire poche linee guida per la modernizzazione della giustizia, anche i soldi del Mes sarebbero benvenuti. Non può essere questo il governo e questo il ministro con cui farlo, ma va fatto perché il crollo definitivo dell’apparato giudiziario può mettere a rischio il Paese non meno di una crisi economica. Ne riparleremo presto. Il processo penale degradato a videogame di Gian Domenico Caiazza* Gazzetta del Mezzogiorno, 20 aprile 2020 La realtà come sempre, si incarica di illustrare meglio di ogni parola le ragioni e i torti. Volete avere una idea precisa di quale assurdità sia un processo penale celebrato su una piattaforma commerciale nata per organizzare conversazioni da remoto? Bene, eccovi un esempio, quello di un processo che si intenderebbe celebrare, stando al decreto notificato alle parti, nei giorni 27, 28 e 30 aprile prossimi davanti al Tribunale di Roma. Oddio, “davanti” è una parola grossa, visto che - secondo quanto disposto nell’articolato avviso di udienza notificato alle parti - nell’aula di piazzale Clodio siederanno solo i tre giudici del Collegio ed il cancelliere per la verbalizzazione. Che è già qualcosa, per noi avvocati ostinati ed antidiluviani fanatici del processo penale in carne ed ossa, visto che, alla luce del decreto legge in via di conversione in questi giorni, ben avrebbero potuto quei tre giudici ed il loro cancelliere rimanersene perfino a casa loro in ciabatte, chi nel salotto chi in cucina, e da lì dirigere la prevista conversazione telematica a più voci (nessuno usi, vi supplichiamo, la parola “dibattimento”). Ora, il processo è a carico di 69 imputati con almeno altrettanti difensori, più sette parti civili e relativi difensori. Ma siccome, ai sensi e per gli effetti di questo e di quello, e considerata la emergenza epidemica, “spetta al giudice ogni valutazione in ordine alle modalità di svolgimento delle udienze”, ecco qui che il Collegio dà categoriche disposizioni a tutte le parti processuali, collocandole ora qui ora là, purché non in Aula. Innanzitutto, si indica la piattaforma, cioè Teams di Microsoft, secondo le indicazioni ministeriali. Ci rassicura, il Giudice, che il programma “è nella disponibilità di tutti”, una affermazione che diventerà, potete scommetterci, il prossimo jingle pubblicitario della Microsoft. Non solo: le parti vengono anche tranquillizzate perché “la piattaforma Teams non richiede da parte dei soggetti invitati ad accedervi dal giudice che tiene l’udienza nessuna particolare conoscenza o abilità aggiuntiva”. Insomma, se non sei capace di collegarti sei un perfetto idiota, dunque peggio per te. Ma la parte più stupefacente di questo incredibile atto processuale è il gioco della assegnazione dei posti. Premesso che gli imputati detenuti si collegheranno dal carcere (non in videoconferenza, ma su Teams), “il Pubblico Ministero si collegherà dal proprio ufficio; gli imputati liberi e quelli agli arresti domiciliari si collegheranno dallo studio dei loro difensori; i difensori dai loro rispettivi studi professionali” ma, attenzione, “un solo collegamento per ciascun imputato”, quindi se i difensori sono due, si arrangino entrambi presso uno dei due studi, non importa se uno è di Roma e l’altro è di Milano Quanto ai testi che appartengono alla Polizia Giudiziaria, “dagli uffici di un servizio territoriale della propria Arma di appartenenza”. Quindi, il Tribunale dispone non solo che le parti debbano avere Teams su un proprio computer, e che debbano saperlo usare; ma dispone anche dei diritti proprietari degli avvocati rispetto ai propri studi, dove d’imperio non solo essi dovranno stare, ma dovranno altresì ricevere i propri assistiti e l’eventuale co-difensore (che dunque avrà invece l’obbligo di trasferta). Potremmo già fermarci qui, e davvero non sappiamo se ridere o piangere, pensando a quel paio di centinaia di questioni ed eccezioni che, già solo per questo, gli almeno settanta avvocati solleveranno dai loro quadratini, in un impazzimento di linee che vanno e vengono, immagini frizzate, “avvocato non la sento”, “Presidente non la vedo” o, per citare Verdone, “c’ho solo due tacche”. Perché è pura fantascienza immaginare che questa grottesca mostruosità che dovrebbe chiamarsi “processo” possa fare un solo millimetro oltre la costituzione delle parti. Ma la verità è che noi difensori ci sentiamo sopraffatti da un sentimento che è al tempo stesso di indignazione e di mortificazione, per il solo fatto che un simile scempio possa essere stato anche solo concepito. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Il processo a distanza è un pericoloso precedente, minato diritto alla difesa di Valerio Spigarelli Il Riformista, 20 aprile 2020 Apocalittici e integrati, diceva Eco, a proposito della cultura di massa, contrapponendo quelli che avevano una visione aristocratica ma retrò della questione a quelli che ne avevano una popolare ma a volte semplificata. Lui si ritagliò una posizione diversa, in qualche modo mediana, anche se, poi, riconobbe che in qualità di strumenti della cultura pop “i social hanno dato voce a legioni di imbecilli”. Affermazione particolarmente vera di questi tempi, in tutti i campi. La cosa m’è tornata in mente a proposito del dibattito/non dibattito sui rischi che l’attuale situazione sta determinando rispetto alle libertà ed ai diritti civili, in tempo di Coronavirus. Di fronte alle poche voci che ammoniscono a verificare l’impatto di alcune decisioni sulla tenuta democratica complessiva, schiere di fiduciosi nelle magnifiche e progressive sorti del controllo tecnologico dei cittadini, o semplicemente della tecnologia, invocano ad ogni piè sospinto lo stato di necessità sanitaria. Tutti uniti dietro allo slogan “intercettateci, seguitici, controllateci tutti ed informatizzate pure i confessionali” così sconfiggiamo il Corona (o le mafie, o la corruzione ma questo è un altro discorso…). Per ragioni, diciamo così, di competenza, io guardo la cosa soprattutto rispetto alle sorti del Giusto Processo. Anche nel mondo giudiziario, infatti, si registra la stessa dicotomia, e per una volta questa non combacia, perlomeno non del tutto, con le distinzioni di categoria. Soprattutto tra i secondi, infatti, non è raro trovare, oltre che la quasi totalità dei magistrati, anche numerosi avvocati, soprattutto tra quelli più colpiti, per ragioni personali o geografiche, dall’epidemia. Qui la parola d’ordine è: “finché il rischio non sarà azzerato in aula non ci si torna”. L’esigenza di tutela della vita umana - dicono - prevale già sulla libertà di circolazione, sulla libertà di riunione, sulla privacy, perché non sul processo? Pertanto, senza trincerarci dietro a steccati ideologici, si conceda alla macchina della giustizia di riprendere facendo da remoto - in maniera smart, sostengono con deliziosa anglofonia - tutto quel che si può fare: convalide degli arresti, udienze, persino le camere di consiglio e i processi in Corte di Assise. Se la medicina è amara sul versante dei principi, è anche l’unica che permette a quelli che non hanno lo stipendio, cioè proprio gli avvocati, di avere una qualche prospettiva, altrimenti, concludono beffardi, “mangiatevi i principi e morite di fame”. Argomento un po’ rude ma dotato di una sua forza persuasiva, va riconosciuto. La categoria, è praticamente egemone tra i magistrati e, soprattutto, tra i capi degli uffici giudiziari, i quali, visto che il dicastero non brilla, né per lo spirito né per il gusto, per dirla con Faber, molte di queste cose se le sono già decise da soli, e senza neppure una legge a disciplinarle. Poi, come succede da decenni, hanno spedito il compitino alla Politica e quella l’ha copiato. Ora, che rispondono gli avversari - categoria alla quale appartengo - che sono molti di meno persino tra gli avvocati? Beh, intanto, mettono sul piatto una figura retorica che rischia avere la stessa fortuna della casalinga di Voghera di Arbasiniana memoria: la cassiera di supermarket. Se a costei chiediamo di essere sufficientemente coraggiosa da incontrare, a meno di un metro, qualche centinaio di persone al giorno, perché lo stesso coraggio non lo pretendiamo dal mitico operatore di giustizia? Orribile neologismo che comprende avvocati e magistrati. Domanda a cui non è possibile rispondere “perché mangiare è necessario” giacché questo argomento, cioè che è necessaria anche la Giustizia, sta alla base anche della posizione avversa. Se la Giustizia è necessaria, tanto da essere disposti a farla camminare coi cannocchiali telematici, lo è come gli altri rami necessari, come la produzione di certi beni, come gli apparati di sicurezza. Ma perché la Giustizia, dopo essersi fermata, ragionevolmente, allo scoppio dell’epidemia, una volta rimessa in moto dovrebbe camminare in maniera sghemba? Ascoltare un agente di pg in tv si potrà anche fare, tanto che già si fa ordinariamente, con i pentiti, ma non è la stessa cosa che farlo dal vivo, come non è la stessa cosa fare un esame ad un perito dal vivo o per via elettronica, né un’arringa. Anche qui è facile ribattere dicendo che anche le filiere industriali modificheranno le linee produttive; è vero, ma non in maniera tale da alterare il prodotto: sarebbe inutile perché non lo venderebbero. Viceversa la modifica di alcuni tratti strutturali del processo, si pensi solo alla possibilità di alterazione del meccanismo decisionale nella ipotesi di giudici che stanno a qualche centinaio di chilometri di distanza l’uno dall’altro, mette a rischio la qualità del prodotto/sentenza. Con le camere di consiglio telematiche cosa garantirà la segretezza, per non parlare della collegialità vera? Cosa garantirà l’assenza di meccanismi che possano influire sulla libera determinazione del singolo giudice? Non è necessario arrivare al paradosso del giudice che decide con il parente dell’imputato - o il collega del poliziotto che ha fatto le indagini - in salotto, basta immaginare che la detenzione della documentazione processuale resterà saldamente nelle mani di uno dei giudici, non potendo ipotizzarsi il contrario, per verificare come quel meccanismo porti diritto ad una asimmetria che la tecnologia non potrà mai eliminare. Perché, poi, la medicina più somministrata è quella di estromettere gli avvocati ampliando a dismisura le camere di consiglio non partecipate? Perché, soprattutto, si inserisce una norma, che non esito a definire ricattatoria, per la quale se un avvocato, rischiando prima di tutto la sua di pelle, ritiene necessario presentarsi a fare una discussione, magari in Cassazione, quando è in ballo la custodia cautelare, si prevede che l’eventuale slittamento del processo che l’apparato non riesce a celebrare lo pagherà l’imputato in termini di prolungamento dei termini di custodia cautelare? Qui la risposta è facile: perché è un deterrente rispetto a richieste simili. Il fatto è che, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, molte di queste soluzioni erano invocate anche prima del Corona, che dunque è diventato non solo il cavallo di Troia per farle passare, ma anche una anticipazione sperimentale di una, orribile, giustizia futura. Il che è dimostrato dal fatto che tutti si concentrano sulle udienze, che ben gestite sarebbero i momenti meno pericolosi attraverso fasce orarie, limitazioni temporanee alla partecipazione del pubblico - già previste ordinariamente per motivi di sanità - e distanziamento. In realtà, come per le altre amministrazioni i problemi riguardano la frequentazione degli uffici e delle cancellerie, quella sì, al là del Corona, da semplificare in maniera smart, ma guarda caso ancora non hanno previsto il deposito di atti di impugnazione via pec. Viceversa ci sarebbero altre soluzioni e anche altri settori, prima di tutto il carcere, su cui quali esercitare le virtù degli amanti della sanità giudiziaria. Elenchiamole, non necessariamente in ordine di praticabilità politica, chiarendo che qui nessuno vuole fare il Rodomonte sulla pelle degli altri: i processi vanno fatti in sicurezza e lo Stato deve garantirne le condizioni, come in fabbrica, come negli uffici e nei campi, né di più né di meno. In primo luogo ci vuole un’amnistia, strumento eccezionale che si adotta di fronte a situazioni eccezionali, che libera poco le carceri ma molto i tribunali. Ciò darebbe la possibilità di fare quel che rimane con le forme di ieri e gli accorgimenti di domani per rendere difficile la trasmissione del contagio. Quindi una norma semplice, che renda realmente eccezionale la custodia cautelare in carcere in tempi come questi, impedendo che venga applicata nei casi in cui è escluso l’arresto obbligatorio in flagranza e comunque quando non sussistono esigenze di eccezionale rilevanza. Ancora, abrogazione delle norme che hanno disincentivato il giudizio abbreviato, strumento più gestibile rispetto al dibattimento che alleggerirebbe le Corti di Assise. Inoltre, possibilità di rendere eventuale, e a richiesta, ma senza prezzi da pagare, tutte le udienze partecipate, in camera di consiglio e non, in Cassazione, con dichiarazione da effettuare al momento del deposito del ricorso. Poi un indulto, che porta alla liberazione di spazi in carcere. Senza dimenticare la riesumazione dagli armadi della riforma dell’ordinamento penitenziario elaborata dalla Commissione Giostra, assieme alla possibilità di scontare le pene brevi ai domiciliari, ma non con la presa in giro dei braccialetti elettronici, e ad una liberazione anticipata rafforzata sul modello sperimentato anni fa dopo la sentenza Torreggiani della Cedu. Infine, eliminazione per quest’anno del periodo di sospensione feriale continuando l’attività giudiziaria in agosto, cosa banalissima che nessuno vuole per motivi assai poco nobili, diciamocelo. Non è un libro dei sogni, sono cose che si possono fare e sono meno complicate di quelle in discussione che saranno approvate la prossima settimana, che liquideranno Oralità & Immediatezza, cioè parenti poveri del processo accusatorio italiano. Certamente non è un programma da Bonafede, che è il ventriloquo delle peggiori idee che circolano sulla giustizia in magistratura, ma il PD perché non prende in considerazione questi temi su cui potrebbe portare anche i garantisti non pelosi dell’opposizione? Forse perché si basano su di un ingrediente, il coraggio, quello politico e quello tout court, che non si trasmette via internet. Nulla può ridurre il processo a una call-conference dissestata di Eriberto Rosso* Il Dubbio, 20 aprile 2020 Il segretario dell’Unione Camere penali replica all’intervista di Albamonte a Repubblica: la decisione di un giudice penale, che sia indipendente e terzo, richiede la fisicità di un luogo, il contraddittorio contraddistinto da oralità e immediatezza, la segretezza del confronto della camera di consiglio. Non può maturare in una videoconferenza. È certamente legittimo - anche se per noi incomprensibile - che si possa condividere la idea del processo penale da remoto, evidentemente facendo prevalere, nel bilanciamento dei diritti in gioco, l’efficientismo di risultato sull’effettività delle garanzie e sull’incidenza dell’errore giudiziario. L’avere proposto la smaterializzazione dell’udienza penale, con giudici e parti ridotti a icone in collegamenti che utilizzerebbero piattaforme di società private, è questione che porta in sé il segno dei tempi, nei quali la pandemia rischia alla fine di consegnarci una società semplificata, con inquietanti modificazioni dei centri di potere e della qualità dei provvedimenti destinati a incidere sulla vita e sulla libertà delle persone. Francamente non credevamo di dover prendere atto che la sensibilità per i diritti non sia (più?) patrimonio comune di tutta la comunità dei giuristi e che in particolare le nostre preoccupazioni non siano condivise - sia pure con tante diverse sfaccettature - dal sindacato dei magistrati. Per la monolitica difesa del processo da remoto è sceso in campo - con un’intervista a un noto quotidiano - il segretario di AreaDG, con una tesi a dir poco stupefacente. Anche la magistratura si è posta “il problema della sicurezza dei dati ricorrendo ad un processo via computer. Ne abbiamo parlato con i colleghi di via Arenula e abbiamo avuto ampie rassicurazioni sulla tutela della privacy”. Secondo il Segretario di AreaDG, anche gli avvocati avrebbero dovuto eventualmente chiedere chiarimenti al ministero della Giustizia, poiché il Garante, interpellato, “a sua volta dovrà chiedere informazioni al Ministero”; come a dire, se i colleghi rassicurano… va bene così, e il ruolo dell’Autorità indipendente eletta dal Parlamento non sarebbe quello di valutare, ma di chiedere informazioni. E ancora: denunzia il dottor Albamonte l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali che, visto “che alcuni soggetti politici hanno sùbito ripreso l’argomento”, avrà “l’effetto finale […] di ritardare ulteriormente quel minimo riavvio della giustizia penale che sarebbe oggi possibile”. Come a dire che se i colleghi del Ministero hanno detto che va bene, la politica ne prenda atto e non perda tempo con le sollecitazioni delle autorità di garanzia. Dunque, se una associazione dei magistrati ha un dubbio ne parla con i colleghi del Ministero. Immaginiamo che il riferimento sia al Capo della Direzione sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia, magistrato coadiuvato da altri magistrati. Se i colleghi hanno ritenuto di provvedere a disegnare la disciplina del processo da remoto senza informarne ad esempio l’Autorità garante per la protezione dei dati personali o sottoporre a valutazione la scelta delle piattaforme informatiche, ciò dovrebbe tranquillizzare tutti e non invece far sorgere quelle domande che noi abbiamo proposto proprio all’Autorità indipendente. Il Ministro della Giustizia non ha nulla da dire sul modo autarchico di procedere della propria struttura ministeriale? È questo il rapporto con il Parlamento e con le autorità indipendenti da questo istituite? Forse domani verrà chiamata a risolvere il problema una task force di esperti. Un mondo sottosopra: la pandemia diventa l’occasione per liquidare il sistema accusatorio e le regole del gusto processo. Chi ci ha accusati di rincorrere fantasmi, essendo evidente che il conculcamento dei diritti sarebbe invocato per la sola breve fase dell’emergenza, si legga le dichiarazioni e le richieste del dottor Davigo e dei componenti della sua corrente in seno al Csm e gli auspici del segretario di AreaDG. Tra le righe di quella istruttiva intervista, il dottor Albamonte richiama un’astensione - indetta dall’Organismo congressuale forense - come espressione della indisponibilità della categoria “perché proprio gli avvocati erano preoccupati di venire nei tribunali”. Quella paventata protesta era reazione ad un momento di impazzimento nella gestione della macchina giudiziaria che, a causa di iniziative a macchia di leopardo nelle diverse sedi, aveva visto chiusa l’attività nelle zone rosse e, nelle altre città, il distanziamento nelle aule di udienza a porte chiuse tra le poche persone ammesse, mentre fuori, pigiati nei corridoi, avvocati, imputati, testimoni, pubblico, tutti rigorosamente senza mascherine. Ricorderà il dottor Albamonte che in realtà quell’astensione non vi fu, perché i provvedimenti locali furono subito superati dal blocco dell’attività giudiziaria previsto per legge, relativamente alla fase 1 dell’emergenza. Ci saremmo aspettati, francamente, da AreaDG - come è accaduto con l’Accademia e con altre associazioni di magistrati - un giudizio sulle nostre tante proposte per la progressiva ripresa da subito dell’attività giudiziaria: torniamo in aula con le necessarie protezioni, chiamiamo le cause a orari scaglionati, iniziamo dalle attività che prevedono la presenza di un numero limitato di soggetti, utilizziamo la tecnologia per depositare istanze, memorie, liste testi e impugnazioni e per acquisire le copie degli atti, evitando così gli accessi non necessari ai palazzi di giustizia, ma non segniamo l’inizio della morte del processo accusatorio e l’inizio della vita della giustizia predittiva. Se i rappresentanti di AreaDG sono disponibili, potremo discuterne insieme in videoconferenza. Quello che non capiremo per la probabile scarsa connessione lo potremo scrivere nella chat; se la linea cadrà, noi ci collegheremo di nuovo; se non sentiremo, ci potremo allora scrivere delle belle lettere di approfondimento. Sarebbe il primo passo, possibile con questa modalità perché non destinata alla decisione di un giudice indipendente e terzo che richiede invece la fisicità di un luogo, il contraddittorio contraddistinto da oralità e immediatezza, la segretezza del confronto della camera di consiglio. E se poi ci ascolteranno (gli americani)… pazienza. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Dopo l’11 maggio si torni nelle aule a celebrare i processi camerepenali.it, 20 aprile 2020 Dopo l’11 maggio si torni nelle aule a celebrare i processi garantendo il diritto alla salute, ma senza inammissibili privilegi per magistrati ed avvocati. Nessuno pensi di poter usare la paura ed il bisogno di lavorare per distruggere il giusto processo ed il diritto di difesa. Il documento della Giunta Ucpi. I due documenti licenziati ieri da due importanti correnti della Magistratura italiana, con i quali si chiede ufficialmente che la smaterializzazione del processo penale, ancora nemmeno approvata “in via eccezionale” fino al 30 giugno 2020, diventi per quanto più possibile modello normativo per il futuro, servono meglio di ogni nostra parola a confermare la vergognosa partita che, con il pretesto della pandemia, si sta giocando sulle sorti del processo penale, e dunque sui diritti e sulle libertà di tutti noi. Occorre reagire senza esitazioni a questa micidiale accelerazione del disegno autoritario del processo penale da anni agognato da diffusi settori della Magistratura italiana, e dalla Politica che ad essa fedelmente si ispira, che vuole relegare presenza, forza e ruolo del difensore -cioè del diritto di difesa dell’imputato- ad una funzione burocratica, la meno fastidiosa ed invasiva possibile, infine riconducibile ad una mansueta partecipazione da remoto, un quadratino tra i tanti sullo schermo di un computer. Occorre soprattutto denunciare senza riserve questa odiosa pretesa che si va costruendo intorno alla emergenza sanitaria, e cioè che si possa e si debba riaprire, gradualmente e con prudenza, la vita del Paese nelle aziende, negli uffici pubblici, nei negozi, magari nel turismo in tempo per le nostre agognate vacanze, ma non l’attività processuale nelle aule giudiziarie. In nome di quale argomento seriamente spendibile, che non sia una percezione privilegiata della funzione giudiziaria? Per quale ragione mascherine, guanti, disinfettanti, distanziamento e gradualità della ripresa dovrebbero funzionare ovunque, ma non nelle aule di giustizia? I penalisti italiani, dopo avere con senso di responsabilità sottoscritto protocolli emergenziali nella fase uno della pandemia, hanno ora articolato una proposta, corredata anche delle minime coperture normative necessarie, che consentirebbe con certezza, e senza rischi diversi di quelli cui va incontro qualunque ripresa di attività post epidemica, la ripartenza graduale ma da subito rilevante dei processi penali nell’unico luogo ove sia possibile celebrarli senza umiliarne ruolo e funzione sociale: nelle aule di giustizia. L’abbiamo consegnata al Ministro Bonafede ed alla Associazione Nazionale Magistrati, senza ancora un cenno di risposta. Chiediamo che vengano trattati - oltre i processi con detenuti mediante un generalizzato uso del già previsto sistema di videoconferenza - fra i processi con imputati liberi, tutti quelli che abbiano già terminato l’istruttoria dibattimentale, tutti i processi con rito abbreviato non condizionato, tutti i patteggiamenti, tutte le udienze preliminari e le prime udienze dibattimentali con non più di due imputati -mediante meccanismi di semplificazione basata su comunicazioni scritte delle parti al giudice- ed allo stesso modo le udienze in Corte di Appello ed in Corte di Cassazione e tutte le udienze in camera di consiglio. Attendiamo risposte e se del caso critiche convincenti e plausibili, non cinici calcoli ideologici alimentati da paure irrazionali o peggio da ingiustificabili pretese di tutela privilegiata di fronte a questa autentica sciagura nazionale. I penalisti italiani respingono con forza e con sdegno il ricatto della paura sanitaria ed economica, usato come grimaldello per portare questo nemmeno più mascherato assalto finale alle fondamenta costituzionali e convenzionali del processo penale, al diritto di difesa dei cittadini, al ruolo sociale ed alla stessa dignità della funzione difensiva. Padre impossibilitato a muoversi, sì al permesso per il figlio detenuto responsabilecivile.it, 20 aprile 2020 Il Tribunale di sorveglianza aveva negato il permesso sulla base della considerazione che l’anziano padre impossibilitato a muoversi non era in pericolo di vita. Con la sentenza n. 12343/2020 la Suprema Corte si è pronunciata sul ricorso presentato da un detenuto contro l’ordinanza di rigetto, da parte del Tribunale di sorveglianza, del reclamo proposto avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza che gli aveva negato il permesso di poter rendere visita all’anziano padre impossibilitato a muoversi. L’istruttoria compita dal giudice di prime cure aveva consentito, infatti, di accertare che il genitore non versava in imminente pericolo di vita; inoltre, l’uomo aveva già fruito, in precedenza, di analogo beneficio, sicché non poteva ritenersi sussistente alcuna situazione eccezionale o irripetibile che legittimasse una nuova concessione del permesso. Nell’impugnare il provvedimento davanti alla Suprema Corte, il ricorrente sottolineava di non aver già fruito di un analogo permesso, atteso che il beneficio, concessogli con decreto del Magistrato di sorveglianza, non aveva mai avuto esecuzione in quanto, contestualmente, egli era stato sottoposto a un provvedimento cautelare, relativamente al quale l’Autorità giudiziaria competente non aveva autorizzato la fruizione del permesso. Inoltre, il condannato deduceva che l’esigenza di visitare l’anziano padre impossibilitato a muoversi in quanto ultraottuagenario, malato e invalido, come da documentazione clinica allegata all’istanza, era idonea a integrare i presupposti per la concessione del permesso di necessità ai sensi del comma 2 dell’art. 30 dell’Ordinamento penitenziario, beneficio da concedere in presenza di situazioni particolarmente gravi attinenti alla sfera, personale e familiare, del detenuto. La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato rinviando il caso al Tribunale di sorveglianza per un nuovo esame. I Giudici Ermellini hanno evidenziato che l’art. 30 Ord. pen. dispone, al comma 1, che nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, il magistrato di sorveglianza possa concedere, ai condannati e agli internati, il permesso di recarsi a visitare l’infermo; e, al comma 2, che analoghi permessi possano essere concessi “eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”. Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della concessione del permesso di necessità previsto dal secondo comma, devono sussistere i tre requisiti del carattere eccezionale della concessione, della particolare gravità dell’evento giustificativo e della correlazione di tale evento con la vita familiare. Il relativo accertamento, inoltre, deve essere compiuto tenendo conto dell’idoneità del fatto a incidere significativamente sulla vicenda umana del detenuto. In tale ambito, la giurisprudenza cassazionista solitamente ricomprende accadimenti che riguardano la nascita e la morte di soggetti che intrattengano relazioni qualificate con il detenuto, riconducibili alla nozione di “prossimi congiunti”. Eventi che possono riguardare, ad esempio: la nascita di un figlio, costituente episodio eccezionale e insostituibile nell’esperienza di vita dell’interessato; la morte di un nipote, ex fratre, del detenuto o di un fratello; la severa patologia della moglie, affetta da grave forma tumorale con metastasi, tale da rendere gli spostamenti pericolosi per la salute. È inoltre sussumibile nella nozione di “evento di particolare gravità” anche la strutturazione progressiva di una condizione di impossibilità di movimento che, all’esito di un periodo sensibilmente lungo, si faccia apprezzare in termini di particolare gravità per la vita familiare del detenuto. Nel caso in esame, il detenuto aveva dedotto una situazione chiaramente riconducibile, nella prospettazione contenuta nell’istanza e nel relativo reclamo, al comma 2 dell’art. 30 Ord. pen., ovvero alla presenza di “un evento familiare di eccezionale gravità” costituito dalla situazione di estrema difficolta, per il genitore, ottantenne e affetto da patologie ad andamento cronico, di recarsi in carcere per effettuare i periodici colloqui con il figlio. Il Tribunale di sorveglianza, pur dando atto di tale circostanza, si era invece, pronunciato con riferimento all’eventuale applicabilità del comma 1, optando per la soluzione negativa sul presupposto che il padre del recluso non versasse in una situazione di pericolo di vita; aspetto, questo, che in realtà non era mai stato dedotto dall’interessato. Non appariva dirimente neppure la circostanza che il detenuto avesse già fruito di un analogo permesso, sicché non sarebbe stata ravvisabile l’irripetibilità della situazione posta a fondamento della richiesta. Infatti, anche a prescindere dalla deduzione difensiva in ordine alla mancata esecuzione del permesso all’epoca concesso, il Tribunale di sorveglianza non aveva comunque specificato quando tale esecuzione fosse avvenuta e, in particolare, se essa si collocasse in epoca significativamente remota, si da giustificare, in ipotesi, una nuova fruizione del beneficio a distanza di un congruo pericolo di tempo, conformemente alla funzione di umanizzazione della pena che il beneficio in questione assume. Epidemia, non è sempre reato. Le condotte omissive riducono le ipotesi delittuose di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti Italia Oggi, 20 aprile 2020 La giurisprudenza delimita la rilevanza penale. Prova del nesso causale quasi diabolica. Nessuna condanna per epidemia colposa a titolo di omissione, ovvero per non aver contenuto il contagio: sulla scorta dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità sull’applicabilità di questo grave reato, l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva. Il non essersi attivati tempestivamente e adeguatamente potrebbe al più rilevare per altri reati, quali lesioni e omicidio colposo, ma ecco che si pone un problema, ulteriore, di accertamento del nesso causale, onere probatorio “quasi diabolico”: come fare, in molti casi, a dimostrare quando il soggetto ha contratto il virus e da chi? Rilievi che rendono arduo il lavoro delle procure che stanno indagando per il reato di epidemia colposa, con particolare riferimento alla gestione dell’emergenza in ospedali e case di riposo, nonché alla mancata adozione dei presidi e delle misure necessarie per impedire la diffusione del contagio. Le indagini avviate. Secondo le notizie delle ultime settimane, più procure hanno avviato inchieste sui poli ospedalieri, con particolare riferimento alla gestione dei malati risultati positivi al coronavirus, nonché aperto fascicoli sui decessi registratisi in case di riposo, poiché la media decisamente alta rispetto al normale trend di morti potrebbe far propendere per uno stretto legame con il contagio da Covid-19. La contestazione è quella di cui all’art. 452 c.p., che sotto la rubrica “Delitti colposi contro la salute pubblica” punisce chiunque commette per colpa il reato di cui all’art. 438 c.p., ossia il reato di epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. La pena è della reclusione da uno a cinque anni, ma se dal fatto deriva la morte di più persone, il carcere sale da un minimo di tre fino a un massimo di dodici anni. Tuttavia, l’applicabilità della norma ai casi concreti non pare così pacifica. L’epidemia penalmente rilevante. La nozione di epidemia codicisticamente rilevante è infatti più ristretta della qualificazione accolta in ambito sanitario, così che la possibilità di raggruppare plurimi casi di infezione collegati tra loro in una determinata area geografica e in un certo periodo, pur essendo descrittiva sul piano della scienza medica del fenomeno del contagio, non equivale al concetto di epidemia così come inteso dalla giurisprudenza di legittimità. È stata la Suprema corte riunita nel suo massimo consesso a chiarire che esso si connota per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido e autonomo sviluppo entro un numero indeterminato di persone, per una durata cronologicamente limitata. (Cass. Sez. Un., Sent. n. 576 dell’11 gennaio 2008). Quindi, laddove il fenomeno sia quantitativamente circoscritto, non si avrebbe epidemia nel senso a essa attribuito dalla legge, così come, se non si può escludere automaticamente che la nozione di diffusione possa includere il contatto fisico tra agente e vittima, secondo la sopraccitata interpretazione, determinante è l’intervallo temporale entro cui si verifica il contagio, e la facile trasmissibilità della malattia a una cerchia di persone ancora più ampia. L’irrilevanza delle condotte omissive. La situazione sinora descritta attiene peraltro al caso della propagazione colpevole da parte di soggetto che, portatore di un virus potenzialmente trasmissibile, intrattenga rapporti con altre persone; ben diversa rispetto a quella, di tipo omissivo, che si potrebbe contestare per esempio a un sanitario, o all’operatore di una casa di riposo o riabilitativa, o ancora ai vertici delle strutture ospedaliere e assistenziali per le determinazioni assunte, laddove non abbiano adottato la dovuta diligenza, prudenza o perizia. Gli interpreti hanno nel tempo tentato di rendere la norma compatibile con la previsione di cui all’art. 40 comma 2 c.p., ovvero con il disposto per cui, testualmente, impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Tuttavia, la giurisprudenza si è espressa negativamente circa la percorribilità di questo indirizzo ermeneutico: la Cassazione ha infatti precisato che la responsabilità per il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di omissione, in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera. (Cassazione penale, sez. IV, 12/12/2018, n. 9133). Altre ipotesi di reato. Alla luce di tali considerazioni, la responsabilità penale del medico o del professionista che, chiamato a gestire l’emergenza, aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento-contagio e non si è immediatamente attivato in tal senso (e dunque sia rimproverabile per colpa o imperizia) potrebbero al più rilevare in relazione ad altre ipotesi delittuose, quali quelle contro la vita o l’incolumità individuale. Si pensi al reato di lesioni colpose gravi o gravissime (art. 590 c.p.) o addirittura alla contestazione di omicidio colposo nel caso in cui dal contagio derivi la morte dell’individuo (art. 589 c.p.). Il nesso causale. Tuttavia, ancora, non va trascurata l’ulteriore difficoltà di accertamento del nesso di causalità tra la condotta contestata e i singoli episodi di contaminazione cui conseguono danni alla salute, lesioni e/o morte, che imporrà una pronuncia di proscioglimento ogniqualvolta, ipotesi non remota, rimanga incerta la ricostruzione del quadro probatorio relativo al collegamento tra la condotta di chi era chiamato a impedire il contagio e l’evento avverso di cui è rimasto vittima il paziente. Come fare ad affermare con sicurezza che le persone contagiate fossero sane prima del momento “incriminato” o non abbiano contratto la patologia successivamente e in diverse circostanze fattuali? Considerato che secondo la giurisprudenza il nesso causale può essere ravvisato solo quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, l’accertamento eziologico appare oggettivamente “diabolico”. Questo non esclude che in futuro la magistratura, attraverso un’interpretazione estensiva del concetto di “diffusione”, provi a sostenere la configurabilità del reato di epidemia anche laddove le condotte siano di tipo omissivo; tuttavia, sul piano del nesso causale, appare comunque che, almeno fino a quando l’avanzamento tecnologico e le risorse sanitarie non consentiranno di monitorare giorno per giorno lo stato di salute dei cittadini, il raggiungimento di tale prova in sede processuale si potrebbe tradurre nell’impossibilità di superare, all’esito della verifica controfattuale, l’oltre ogni ragionevole dubbio. Non è reato la coltivazione domestica della marijuana, si applicano sanzioni amministrative di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2020 Corte di Cassazione - S.U. - Sentenza 12348 del 16 aprile 2020. Non è reato la coltivazione domestica della marijuana purché a uso strettamente personale del solo coltivatore, resta dunque escluso ogni utilizzo destinato al mercato degli stupefacenti. Lo scrivono le Sezioni Unite penali, sentenza n. 12348 del 16 aprile 2020. Resta invece possibile l’applicazione delle sanzioni amministrative - ritiro della patente, sospensione porto d’armi, passaporto e permesso di soggiorno - previste per la “detenzione” della sostanza a uso personale. È stato dunque accolto, con rinvio, il ricorso di un trentenne campano condannato a un anno di reclusione e tremila euro di multa perché in casa aveva due piantine e una riserva di circa 11 grammi di cannabis. Ora la Corte di Appello di Napoli dovrà riesaminare il caso seguendo i principi di diritto indicati dalla Suprema corte. Per le Sezioni Unite infatti manca la tipicità penale della condotta di coltivazione domestica destinata all’autoconsumo. Qualora, però, prosegue la Corte, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, “le sanzioni amministrative dell’art. 75, Dpr 309/90 potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale”. In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione, secondo le indicazioni già fornite in tal senso da Corte Cost. n. 109 de 2016, “per cui la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta pene mente rilevante”. Vi è, dunque, ricapitola la Cassazione, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanze stupefacente, per mancanza di offensività in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata a consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell’art. 75 del Dpr 309 del 1990; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l’art. 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990 qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto”. Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Concorso formale tra il reato di violenza privata e altre fattispecie delittuose Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2020 Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Rapporto con il reato di lesioni personali - Concorso formale - Sussistenza - Ragioni - Fattispecie. Tra il reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen., e quello di lesioni personali volontarie, di cui all’art. 582 cod. pen., è configurabile il concorso formale, in ragione della diversità dei beni giuridici tutelati: la libertà morale nel primo reato, e l’integrità fisica nel secondo. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 3 aprile 2020 n. 11298. Reati contro la persona - Sequestro di persona - Concorso con il delitto di violenza privata - Principio di specialità - Operatività - Condizioni. Il delitto di violenza privata, preordinato a reprimere fatti di coercizione non espressamente contemplati da specifiche disposizioni di legge, ha in comune con il delitto di sequestro di persona l’elemento materiale della costrizione, ma se ne differenzia perché in esso viene lesa la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo, mentre nel sequestro di persona viene lesa la libertà di movimento; ne consegue che, per il principio di specialità di cui all’articolo 15 del Cp, non è configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza, fisica o morale, sia stata usata direttamente ed esclusivamente per privare la persona offesa della libertà di movimento (fattispecie in cui il sequestro di persona è stato ravvisato nella condotta di un operatore di una struttura che aveva chiuso a chiave nella stanza, apponendo davanti alla porta anche un materassino, alcuni pazienti psichiatrici, cui, quindi, aveva limitato la libertà di movimento). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 22 luglio 2019 n. 32803. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Atti persecutori - Rapporto con il reato di violenza privata - Specialità unilaterale - Esclusione - Concorso di reati - Configurabilità - Ragioni. È configurabile il concorso tra il delitto di violenza privata e quello di atti persecutori, non sussistendo tra di essi un rapporto strutturale di specialità unilaterale ai sensi dell’art. 15 cod. pen., dal momento che il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen., diversamente dal primo, non richiede necessariamente l’esercizio della violenza e contempla un evento - l’alterazione delle abitudini di vita della vittima - di ampiezza molto maggiore rispetto alla costrizione della vittima a uno specifico comportamento, che basta a integrare il delitto previsto dall’art. 610 cod. pen. (In motivazione, la Corte ha precisato che neppure impiegando il criterio della “specialità reciproca per specificazione” potrebbe pervenirsi all’assorbimento del delitto di violenza privata in quello di atti persecutori, sussistendo al più tra le due fattispecie astratte, in ragione di quanto detto, un rapporto di “specialità reciproca per aggiunta”). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 22 maggio 2019 n. 22475. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Rapporto con il reato di lesioni personali - Concorso formale - Sussistenza - Ragioni - Fattispecie. Tra il reato di violenza privata e quello di lesioni personali volontarie è configurabile il concorso formale, essendo diversi i beni giuridici tutelati: la libertà morale nel primo reato, e l’integrità fisica nel secondo. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso l’assorbimento del reato di violenza privata in quello di lesioni, precisando che le lesioni - una testata in faccia a un cronista al fine di farlo allontanare dal luogo in cui si trovava il ricorrente - erano state inflitte per realizzare la violenza privata). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 maggio 2018 n. 21530. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Tutela arbitraria delle proprie ragioni - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ragion fattasi) - Con violenza alle persone - Violenza privata - Concorso - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie. Il reato di violenza privata concorre con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ogniqualvolta manchi una connessione diretta tra la violenza o minaccia e l’esercizio delle proprie ragioni, o quando l’agente ponga in essere distinte condotte minacciose volte a finalità diverse. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto il reato di violenza privata assorbito in quello di “ragion fattasi”, in quanto la condotta dell’agente, consistita nel trattenere le chiavi della vettura della persona offesa per impedirgli di allontanarsi, era direttamente ed esclusivamente finalizzata a ottenere il pagamento di una somma di denaro dovutagli). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 ottobre 2017 n. 49025. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Atti persecutori - Concorso con il reato di violenza privata - Ammissibilità - Ragioni. È configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l’art. 610 cod. pen. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l’art. 612-bis cod. pen. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - e in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà. (In motivazione, la S.C. ha precisato che l’“alterazione delle abitudini di vita” non può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata, avendo la prima una ampiezza di molto maggiore rispetto al fare, omettere o tollerare qualcosa per effetto della coartazione esercitata sulla volontà della vittima). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 gennaio 2016 n. 4011. Roma. A Civitavecchia un carcere per i detenuti malati di Covid del Lazio: coro di no di Pierluigi Cascianelli Il Messaggero, 20 aprile 2020 Il carcere di Civitavecchia messo a disposizione per i Covid-19 di tutta la regione? L’ipotesi è sul campo ma le prescrizioni della Asl Roma4 bloccano il tutto, almeno per il momento. La proposta è del Provveditorato delle carceri, che sta cercando delle strutture idonee per destinare diversi contagiati del territorio laziale. Fra le location prese in considerazione c’è anche e soprattutto quella del cosiddetto bagno penale, la struttura carceraria di via Tarquinia. Una soluzione che sarebbe al vaglio degli organi preposti ma che sta trovando parecchia resistenza, in primis da parte dell’azienda sanitaria che ha imposto molte disposizioni stringenti per un eventuale ok al trasferimento. E poi della politica, che non vede di buon occhio un’iniziativa di questo tipo, considerando lo status in cui versa Civitavecchia in chiave emergenza da coronavirus, con due cluster in altrettante Rsa. Senza dimenticare le criticità che ha vissuto lospedale San Paolo. “Ho sentito che circola questa ipotesi, con tutto il da fare di questi giorni non me ne sono potuto interessare molto premette il sindaco Ernesto Tedesco ma credo che la nostra città non sia eventualmente idonea ad accogliere una proposta di questo tipo”. Gli fa eco il consigliere regionale della Lista Zingaretti, Gino De Paolis: “La questione si muove su due binari. Da un lato non si possono abbandonare i detenuti al loro destino. Dall’altro però ritengo che Civitavecchia abbia già le sue gatte da pelare. Per questo credo sia necessario guardare verso altri lidi, magari meno in sofferenza”. I prossimi giorni saranno determinanti per sciogliere le riserve. “In quella struttura ci sono i cosiddetti detenuti semi liberi, che ora sono a casa proprio a causa della quarantena. Così si è liberato dello spazio. La proposta è arrivata alla Regione che però non ha ancora dato alcuna riposta conferma il consigliere regionale di Italia Viva, Marietta Tidei. Penso che si debba decisamente guardare in altre direzioni per trovare una soluzione”. Tolmezzo (Ud). Tutti negativi gli ultimi 84 tamponi sul personale del carcere friulioggi.it, 20 aprile 2020 I tamponi sul personale hanno dato esito negativo. Sospiro di sollievo per chi lavora all’interno del carcere di Tolmezzo. Dopo le preoccupazioni per il caso dei cinque detenuti positivi nel penitenziario, gli ultimi tamponi svolti all’interno della struttura sul personale si sono rivelati negativi. Lo ha comunicato il vicepresidente con delega a Salute e Protezione Civile della Regione, Riccardo Riccardi. “Nessun caso positivo al coronavirus - ha detto - è emerso da questo ultimo rilevamento effettuato ieri tra il personale del Carcere di massima sicurezza di Tolmezzo”. Come ha spiegato lo stesso Riccardi, sono stati 84 i tamponi processati ieri tra i dipendenti della casa circondariale di Tolmezzo che hanno dato esito negativo. A questi si sommano i circa settanta tamponi effettuati lunedì 13 aprile su circa 70 addetti, di cui uno (un agente di polizia penitenziaria) trovato positivo. Continua dunque l’attività preventiva del Sistema sanitario regionale sulle carceri, che ha visto mercoledì e giovedì scorsi l’esecuzione di 240 tamponi (tutti con esito negativo) tra i detenuti e il personale della struttura penitenziaria di Udine, dopo che a seguito di una prima serie di esami erano stati rilevati due casi positivi. Agrigento. Covid-19, la paura corre nei reparti. Intervista al cappellano del carcere di Marilisa Della Monica lamicodelpopolo.it, 20 aprile 2020 Questi giorni il rischio contagio da Covid-19 ci sta portando a vivere una sorta di “cattività” in casa nostra trasformando il mondo delle relazioni interpersonali ma anche acuendo la solitudine di alcune categorie di soggetti. Gli anziani che adesso non hanno più la possibilità di scambiare qualche parola con la vicina di casa o i bambini costretti a riscoprire il mondo casalingo e a trasformarne gli spazi in luoghi di svago. Ma, tra i soggetti maggiormente emarginati e dimenticati, vi sono i carcerati. Persone che vivono la restrizione della libertà per avere commesso azioni delittuose che, in questi giorni, vedono totalmente annullati i momenti di socialità soprattutto i colloqui con i parenti. Accanto a loro gli appartenenti al corpo della Polizia Penitenziaria che si trovano a dover fronteggiare le difficoltà che emergono in un ambiente, quello carcerario, deficitario anche in tempi normali. Abbiamo incontrato don Luigi Mazzocchio, cappellano del carcere di Agrigento per farci raccontare quello che accade dentro le mura del De Lorenzo. Come stanno vivendo questi giorni di emergenza Covid-19 i detenuti del carcere di Agrigento? Per grazia di Dio non abbiamo avuto contagi tra i detenuti e questo è una cosa importante. L’emergenza coronavirus ha messo in secondo piano tutte le altre emergenze della vita carceraria. Si avverte una certa tensione sia nei detenuti che negli agenti. La paura corre nei reparti soprattutto per il pensiero delle famiglie che stanno fuori. Avendo però la possibilità di chiamare a casa ogni giorno, il clima si mantiene piuttosto sereno. E questo grazie allo sforzo della polizia penitenziaria che sta sostenendo il carico maggiore di questa situazione. Come è cambiata la vita al De Lorenzo? L’isolamento è rimasto lo stesso ma acuito dalla mancanza dei colloqui con i familiari e dalla cessazione di ogni attività trattamentale. Chiuse le scuole e i laboratori, chiusi gli accessi ai volontari e agli avvocati, aperto lo smart working per gli educatori e parte del personale amministrativo, gli unici che si muovono all’interno dei reparti, eccettuata la polizia penitenziaria, sono il Cappellano e gli psicologi. Quali le criticità emerse o acuitesi in questi giorni? La cosa che appare più evidente e critica è che si è acuito lo stacco tra gli educatori e i detenuti. In una situazione in cui i tribunali e gli avvocati hanno ridotto il loro lavoro e la legge consente ad alcuni detenuti di poter beneficiare della detenzione domiciliare, gli stessi sono sempre in attesa di un colloquio con gli educatori che possa chiarire la loro posizione giuridica. Ma al di là delle pratiche giuridiche che possono essere anche svolte dietro ad un computer, credo che in questo momento l’attività trattamentale dovrebbe essere potenziata con quel “faccia a faccia” che solo fa sentire il detenuto una persona e non un numero e dia un senso alla funzione rieducatrice della pena. Cosa possiamo fare noi dall’esterno per i detenuti? Pregare innanzitutto. Pregare perché la detenzione possa convertirsi in un processo virtuoso che predisponga i soggetti a cercare un modo nuovo di proporsi al mondo che li aspetta. Pregare per tutti gli operatori perché si sentano educatori e non semplici impiegati. Poi contribuire attraverso la Caritas con contributi di solidarietà che possano provvedere ai bisogni dei detenuti indigenti, quali vestiario, prodotti per l’igiene, aiuti economici per poter telefonare alle famiglie. Infine sentirsi non lontani dal carcere perché quello vero lo si porta dentro. Milano. Mascherine prodotte a San Vittore e Opera, il successo del “pool” di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 20 aprile 2020 Il fornitore da cui è stata acquistata serve di solito i maggiori gruppi della moda italiana. Ma stavolta, questa partita di tessuto non tessuto, aveva come destinazione piazza Filangieri 2: il carcere di San Vittore. I suoi detenuti e quelli di Opera, lo utilizzeranno per confezionare circa 365 mila mascherine, che serviranno a proteggere la loro salute e quella del personale di vigilanza, ma non solo. Le eccedenze, saranno donate all’esterno a chi è più fragile. La donazione del tessuto non tessuto è stata promossa da un comitato di politici e attivisti di FI, guidato dalla deputata Cristina Rossello. Un mese fa, durante una riunione del direttivo milanese, Fabrizio D’Angelo, ispettore della penitenziaria e consigliere al Municipio 5 ha spiegato l’emergenza contagi nelle carceri (a San Vittore ci sono 11 detenuti e 18 agenti positivi al Covid-19), dicendo anche che i detenuti avrebbero potuto produrre le mascherine, ma il tessuto era introvabile. L’appello non è rimasto inascoltato. Rossello ha coinvolto il collega Matteo Perego, parlamentare di FI ed ex manager di un grande gruppo della moda, per trovare i fornitori. E poi la deputata ha guidato la raccolta fondi, contribuendo con gli emolumenti da parlamentare. “La situazione nelle carceri è molto delicata, occorreva un gesto concreto per questa comunità sconosciuta alla città, ma che vive momenti di disperazione”, dice Rossello. “Sulle mascherine tutti dobbiamo darci da fare, perché il lavoro delle istituzioni non è sufficiente. Lasciamo da parte le polemiche” aggiunge il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino Fabrizio de Pasquale. Volterra (Pi). Smart working in carcere anche per i detenuti attori di Andreas Quirici Il Tirreno, 20 aprile 2020 La Compagnia della Fortezza lavora al nuovo spettacolo con mail e videochiamate Il regista Punzo: “Ci scambiamo testi e idee sperando di andare presto in scena”. Fare teatro ai tempi del coronavirus. Per di più con attori che non sono semplici attori, ma detenuti attori. È l’apparente “mission impossible” di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza che, con l’emergenza sanitaria e l’isolamento forzato in atto, sta portando avanti la preparazione del tradizionale spettacolo estivo con una sorta di smart working tra i tanti collaboratori e gli attori che interagiscono col regista dall’interno del carcere di Volterra, grazie a videochiamate e mail. Il tutto in attesa che, nell’area del campino da calcio della casa circondariale venga montata una postazione Internet con un grande schermo in modo che, a gruppi, i carcerati possano seguire le direttive di Punzo e avere un dialogo più completo. Ovviamente, sperando che tutto possa tornare alla normalità in un tempo ragionevolmente veloce dopo che, comunque, lo spettacolo della Compagnia è stato rimandato almeno a settembre-ottobre. “Essendo abituati a lavorare in condizioni difficili - racconta Armando Punzo - ci siamo detti che non avremmo dovuto interrompere il lavoro. Così la scelta è caduta, fatalmente, sulle tecnologie. Grazie alla disponibilità della direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo stiamo portando avanti il lavoro”. I detenuti sono dotati di telefono cellulare, dopo l’apertura alle comunicazioni coi familiari decisa dal ministero. In questa maniera regista e attori sono in grado di scambiarsi pareri, tramite le videochiamate, sui tantissimi testi di Naturae, lo spettacolo in preparazione che è, di fatto, il proseguimento di quello fatto l’anno scorso. In più ci sono le email che rappresentano un altro strumento molto utile per interagire tra chi è dentro e chi è fuori dal carcere. “I ragazzi in carcere - dice ancora Armando Punzo - hanno il compito di lavorare. E lo stanno facendo, perché tra noi è uno scambio continuo di proposte di testi da inserire nello spettacolo e da confronti serrati su come portare avanti la creazione dello spettacolo. Si stanno impegnando molto e questo è un incoraggiamento per tutti”. Senza contare i collegamenti con almeno quaranta in contemporanea dei sessanta collaboratori della Compagnia e di Carte Blanche, l’associazione guidata da Cinzia De Felice che sta dietro al progetto di Punzo, per portare avanti gli aspetti scenografici, musicali e dei costumi legati allo spettacolo. “La cosa che mi piace di più - sottolinea il regista - è la voglia di non mollare da parte di tutte le persone coinvolte. Siamo in un periodo di emergenza e lavorare in questa maniera non è per niente facile per nessuno. Però stiamo andando avanti con i nostri progetti. Almeno dal punto di vista concettuale. È logico che questi nostri sforzi dovranno trovare risposte nella realtà dei fatti. Realizzare lo spettacolo non dipende solo da noi, ma dalla situazione generale legata al coronavirus in Italia. Ci piacerebbe davvero riuscire a metterlo in scena. Significherebbe che il quadro complessivo dell’emergenza sanitaria è notevolmente migliorato”. Migranti. La grande sfida della regolarizzazione. “Necessaria per ripartire” di Paolo Lambruschi Avvenire, 20 aprile 2020 Badanti, colf e braccianti possono essere una risorsa in più: l’ipotesi di un utilizzo del decreto flussi. La proposta è stata lanciata nei giorni scorsi dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. “In Italia ci sono 600mila immigrati irregolari che vivono ai margini e possono alimentare focolai di infezione. Occorre regolarizzarli prevedendo permessi di soggiorno temporanei: dobbiamo farlo per garantire la salute di tutti e la tenuta sociale del Paese”. Ma a che punto è il dibattito a livello parlamentare? Le reazioni non sono mancate. “Dobbiamo combattere lo sfruttamento di chi è costretto a lavorare per paghe da fame e vive in condizioni precarissime - ha sottolineato ieri la ministra per le Politiche agricole, Teresa Bellanova. Quando parlo di regolarizzare queste persone, parlo di combattere il lavoro nero, di tutelare tutte quelle imprese che scelgono, e sono la maggior parte, la legalità, di garantire concorrenza leale, di assicurare diritti e dignità. È una sfida di civiltà, giustizia sociale, buona economia che ci interroga tutti. Io non mi tiro indietro” ha detto. Una regolarizzazione, secondo la senatrice Laura Garavini, vicepresidente vicaria del gruppo Italia Viva-Psi, “non sarebbe solo un atto etico, ma una vera e propria esigenza del nostro tessuto produttivo. Finché non metteremo queste persone nella condizione di legalità, le mafie avranno sempre un margine di azione”. Favorevole a una uscita dal sommerso di migliaia di persone è anche il mondo del sindacato. “Continuiamo a sostenere quanto proposto già l’anno scorso: una regolarizzazione che contribuisca a far emergere il lavoro nero, a riconoscere diritti e doveri ai tanti immigrati lasciati ai margini della società, specialmente dopo i decreti sicurezza” ha spiegato il segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota. In campo anche le associazioni. In una nota diffusa nei giorni scorsi, la segreteria nazionale delle Acli Colf, Giamaica Puntillo, ha chiesto che “il governo intervenga nei confronti dei lavoratori irregolari, per lo più stranieri, del settore domestico. Serve un’apposita sanatoria che permetta a tutti gli irregolari di poter accedere ai servizi sanitari, soprattutto in questa fase delicata dovuta all’effetto Covid-19”. Così in una nota In gioco c’è il ruolo di persone considerate fondamentali per il settore agricolo e per i servizi alla persona. Non si tratta tanto di una “sanatoria” ma di “regolarizzazione necessaria perché il lavoro è una questione decisiva per l’uscita del Paese dalla crisi - ha ricordato Riccardi. La metà di queste 600 mila persone sono donne provenienti dall’Est Europa o dal Sudamerica che lavorano come colf, badanti e babysitter. L’altra metà sono uomini africani, indiani o del Bangladesh: una buona parte di essi presta servizio nelle campagne. Vivono in abitazioni precarie o in grandi concentrazioni, non hanno diritti e fanno la fame” Per ripartire senza ingiustizie non chiamiamola sanatoria, ma regolarizzazione. In queste settimane di pandemia, associazioni ed enti cattolici - con la presa di posizione di Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio - e laici sono tornati a chiedere una regolarizzazione dei migranti senza permesso non solo per motivi umanitari, ma anche per ragioni di sanità pubblica. Le stesse che porteranno il Cnel, il Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro, a discutere ed eventualmente a proporre al governo il prossimo 22 aprile la regolarizzazione in questo frangente straordinario. Una disponibilità era stata dichiarata dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, il 15 gennaio scorso in risposta a un’interrogazione del deputato Riccardo Magi di +Europa. Lamorgese aveva affermato che l’esecutivo intendeva “valutare un provvedimento straordinario di regolarizzazione degli irregolari già presenti in Italia a fronte dell’immediata disponibilità di un contratto di lavoro”. In gioco c’è anche la possibilità di valorizzare uno strumento come il decreto flussi da tempo ridimensionato. La settimana scorsa la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha lanciato un appello per regolarizzare i braccianti per fronteggiare il deficit di manodopera agricola e scongiurare la crisi del settore. “Il vero problema - nota don Gianni De Robertis, direttore della Fondazione Migrantes - è non lasciare nessuno indietro. Anche a seguito dei decreti sicurezza abbiamo circa 600mila cittadini stranieri non regolarmente soggiornanti destinati allo sfruttamento, al lavoro nero e alla precarietà. Regolarizzare significa fare giustizia anche verso le aziende oneste che soffrono la concorrenza iniqua di chi impiega il lavoro nero. Si tratta di un provvedimento urgente e utile per tutti, tranne che per le mafie sfruttatrici”. Se per i lavoratori dei campi si sono mosse organizzazioni di categoria come Coldiretti, per la quale senza gli stagionali dai Paesi comunitari impossibilitati a venire in Italia a causa del coronavirus, si rischia nelle prossime settimane di mettere a rischio il 25% dei raccolti, il responsabile dell’organismo della Cei ricorda le care givers nelle case degli italiani. “Penso al lavoro domestico, nel quale si stima ci siano circa 200mila non comunitari senza permesso colf, badanti e baby sitter. Molte di loro non stanno lavorando, non hanno soldi per l’affitto e rischiano di finire per strada. Non possiamo mantenere esseri umani nell’invisibilità, come dice il Papa siamo tutti sulla stessa barca”. Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas italiana, ritiene urgente la regolarizzazione. “Perché in questa situazione di pandemia è impossibile espellere gli irregolari, perché non saprebbero dove andare e mancano i mezzi di trasporto verso i Paesi di origine. L’irregolarità in questa situazione è un’ulteriore causa di insicurezza perché un irregolare non può rivolgersi al medico”. Anche Forti partirebbe dall’agricoltura. “I braccianti non comunitari sono necessari per far partire la filiera agroalimentare. I nostri referenti diocesani dei Progetti Presidio ci dicono che nelle campagne anche la manodopera presente non può lavorare perché mancano le condizioni di sicurezza e perché mancano ad esempio i dispositivi di protezione”. Cosa serve? “Una cabina di regia che affronti la questione in maniera urgente. Più i giorni passano più la situazione si aggrava, l’agricoltura non può attendere i tempi della politica. La regolarizzazione è la strada più semplice per chi sta lavorando in nero sul territorio. Garantiamo condizioni di lavoro e un salario decenti”. Come agire in tempi brevi? “Si può utilizzare il decreto flussi per la conversione dei permessi di soggiorno che non riguardi persone che vengono dall’estero, ma gli irregolari in Italia. Quella del Covid-19 potrebbe essere l’occasione per restituire dignità all’agricoltura”. Alla fine di novembre Asgi, l’associazione dei giuristi che si occupano di migrazioni, ha proposto al governo di introdurre un meccanismo di regolarizzare ordinaria esteso anche a chi cerca lavoro. “Un meccanismo del genere - afferma il presidente Lorenzo Trucco - c’è in Francia. E con una regolarizzazione da Covid-19, il Portogallo ha dato un esempio in Europa. Credo che l’Italia dovrebbe imitarli”. Può essere l’occasione anche per rivedere alcune lacune nell’applicazione della legge sul caporalato. “Sì, spesso a fronte di disastri, si prende la spinta per arrivare a passi positivi. E bisogna fare un passo in avanti sul dramma dell’agroalimentare. La norma sul caporalato è buona, ma la parte applicativa è lacunosa soprattutto da parte delle imprese. Sopravviviamo in questo momento perché alcune persone stanno lavorando in condizioni terrificanti. L’emergenza ha reso più evidenti queste grandi disuguaglianze, la regolarizzazione può sanarle almeno in parte”. Migranti. Saggio regolarizzare chi vive e lavora qui di Marco Tarquinio Avvenire, 20 aprile 2020 Ci siamo ripetuti sino alla nausea che “tutto cambierà” a causa della pandemia. E che la sfida, d’ora in poi, è quella di cambiare le cose in meglio: più salute, più giustizia, più rispetto. Sì, più rispetto: per tutti e tra tutti i popoli, tra di noi e nel nostro rapporto con la natura che ci ha drammaticamente ricordato di essere, alla fine e per principio, più forte di qualunque tecnologia, umana e disumana. Non tutto è fermo, ma basta dare una rapida occhiata allo stato delle nazioni e del mondo per capire che purtroppo non ci stiamo muovendo nella giusta direzione. C’è ancora modo e tempo (non molto, però) per correggerci. E c’è qualcosa, qui in Italia, che si può mettere in cantiere subito e non richiede investimenti miliardari, ma solo onesta volontà di sgombrare un bel po’ di ombre dalla vita e dalle attività del Paese. Si tratta di riconoscere che persone e lavoratori di origine straniera ora, appunto, ridotti legalmente a ombre hanno invece volto e corpo, chiari diritti e chiari doveri. Si tratta, insomma, di dare regole e status, controlli e garanzie a chi vive e lavora nell’irregolarità. Parliamo di circa 600mila donne e uomini (metto le donne per prime non solo e non tanto per cortesia, ma perché sono la maggioranza delle persone di cui stiamo parlando). Qualcuno già parla di “sanatoria”, magari storcendo naso e bocca come se si stesse confezionando un regalo per personaggi che non lo meritano. E c’è chi si è premurato di far partire il solito ritornello contro il “clandestino” che ruberebbe il lavoro agli italiani e va sbattuto fuori dal Bel Paese. Ma vale la pena di ragionare appena un po’ e di aprire gli occhi sulla realtà italiana degli “irregolari” di origine straniera, esercizio virtuoso e soprattutto utile, al quale più d’uno - con particolare efficacia Andrea Riccardi - ha invitato nella settimana che ci sta alle spalle. Se a ragionare si prova per davvero, se si mettono da parte slogan e invettive d’occasione, si arriva presto alla conclusione che siamo davanti a un passaggio necessario. Stiamo parlando, infatti, di braccianti agricoli necessari ai nostri campi, di autotrasportatori che portano le mostre merci, di muratori e manovali impegnati nei nostri cantieri. Stiamo parlando di un vero esercito di badanti e collaboratrici familiari, donne che abitano e servono l’intimità delle nostre famiglie. Sul serio qualcuno pensa che per ripartire col piede giusto dopo il blocco da coronavirus si possano lasciare tutte queste persone e la loro opera nel “nero”, ai margini e fuori dalle regole e dalle tutele - anche sanitarie, ovvio - poste a generale presidio? Per davvero qualcuno ritiene che di loro si possa fare a meno? C’è solo da riconoscere una realtà. C’è da curare una ferita aperta. E, sì, c’è da far più sano il domani di tutti. Covid-19, amnistie di massa ma i prigionieri di coscienza rimangono in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 aprile 2020 Il 17 aprile il governo di Myanmar ha decretato la più ampia amnistia di massa dell’ultimo decennio: ne hanno beneficiato esattamente 24.896 prigionieri. Alle prese col sovraffollamento (l’immagine è tratta da questo post) e con situazioni igienico-sanitarie deplorevoli, condizioni che aprono un’autostrada alla diffusione della pandemia da Covid-19 nelle carceri, molti governi si sono convinti a decongestionare i centri di detenzione. In Indonesia sono stati rilasciati 30.000 detenuti; in Iran 85.000; in Turchia sono previsti, scaglionati nel tempo, 90.000 rilasci. In Etiopia 5600, in Kenya 5000, in Nigeria 2600, in Marocco 5654, in Tunisia 1420 e in Libia 1347. A prima vista, anche se l’elenco da controllare è lunghissimo, tra gli amnistiati di Myanmar non figurano prigionieri di coscienza. In Bahrein rimangono in carcere Abdulhadi al-Khawaja e Nabil Rajab, in Marocco gli attivisti del movimento Hirak e-Rif, in Nicaragua i 70 prigionieri politici arrestati dall’aprile 2018. Per non parlare dell’Egitto, le cui carceri sono stracolme di attivisti per i diritti umani - tra cui Patrick Zaki - avvocati e giornalisti. In Iran, dove pure sono è stato concesso un permesso temporaneo (che si spera permanente) a diversi prigionieri di coscienza con pena non superiore ai cinque anni, restano in carcere tra gli altri l’avvocata Nasrin Sotoudeh e l’esperto in medicina dei disastri Ahmadreza Djajali. Com’è che molti governi preferiscono rilasciare ladri, corrotti e persino stupratori e assassini invece di rimettere in libertà chi in carcere non avrebbe mai dovuto mettere piede? La risposta la lasciamo a chi leggerà questo post, anche se pare intuitiva. Iran pronta a liberare altri detenuti, istituite 500 commissioni speciali per esaminare i casi ansa.it, 20 aprile 2020 “La magistratura iraniana ha istituito 500 commissioni speciali in tutto il Paese per studiare i casi dei detenuti, sia quelli in libertà vigilata sia quelli in carcere, e liberarne un numero maggiore nel mezzo della pandemia di coronavirus”: lo ha detto ieri sera il portavoce della magistratura Gholamhossein Esmaili. La notizia segue l’invito di venerdì scorso delle Nazioni Unite all’Iran a rilasciare temporaneamente anche gli obiettori di coscienza ed i cittadini stranieri o con doppia cittadinanza insieme a migliaia di detenuti già liberati a causa del coronavirus. La magistratura del Paese ha già prolungato dal tre al 19 aprile il rilascio temporaneo di circa 100.000 detenuti per frenare la diffusione del virus. Camerun. Il Presidente Biya ordina la liberazione di migliaia di detenuti voanews.com, 20 aprile 2020 Il presidente del Camerun Paul Biya ha annunciato misure che porteranno alla liberazione di migliaia di detenuti a causa delle preoccupazioni sulla diffusione del coronavirus in strutture sovraffollate, ha riportato Voa News il 16 aprile 2020. Secondo le stime, potrebbero essere rilasciati almeno 10.000 prigionieri, un terzo cioè di quelli detenuti nelle strutture correttive costruite per soli 9.000 detenuti. Tuttavia, i separatisti in lotta per uno stato indipendente di lingua inglese e i funzionari incarcerati per corruzione sono esclusi dal provvedimento. I gruppi per i diritti rilevano inoltre che gli oppositori politici e i giornalisti critici nei confronti del governo del presidente Biya rimarranno dietro le sbarre. Dal 15 aprile la radio di stato del Camerun ha diffuso l’ordine firmato dal presidente Biya per ridurre l’affollamento nelle 78 prigioni dello stato dell’Africa centrale. Le persone le cui sentenze sono diventate definitive alla data della firma del presente decreto beneficiano delle remissioni come segue. Commutazione della condanna a morte in ergastolo a favore delle persone inizialmente condannate a morte. In base alla decisione presidenziale, gli ergastoli sono ridotti a 25 anni di detenzione, i detenuti per i quali gli ergastoli erano già stati ridotti a 25 anni avranno una riduzione ulteriore di cinque anni. Le condanne a dieci anni saranno ridotte di tre anni, le condanne a cinque anni saranno ridotte di due anni e le condanne a tre anni saranno ridotte di un anno. L’avvocato Luc Kisob, che rappresenta il governo in casi di corruzione e terrorismo, ha affermato che non tutti trarranno beneficio dalla misura, sebbene Biya abbia il potere costituzionale di liberare chi vuole. “La Costituzione autorizza il capo dello Stato a commutare o annullare condanne di detenuti. Spetta quindi al capo di Stato scegliere chi perdonare e chi non perdonare, e in questo caso alcuni tipi di reati sono stati esclusi dalla misura, come reati di terrorismo, appropriazione indebita di proprietà pubblica, frode fiscale, frode doganale, reati sessuali o reati che riguardano la sicurezza dello Stato”, ha detto l’avvocato. Altri esclusi dall’ordine sono prigionieri politici come Mamadou Mota, vice presidente del partito di opposizione Camerun Renaissance Movement, che è stato arrestato mentre protestava contro i risultati delle elezioni presidenziali dell’ottobre 2018 e i separatisti che lottano per l’indipendenza della minoranza di lingua inglese in un paese per la maggior parte di lingua francese. L’attivista per i diritti umani Njugoy Ardo del “Camerun Center for Democracy and Governance” ha dichiarato con un messaggio che l’86enne Biya ha perso un’occasione per fare pace con il suo popolo. Ha detto che Biya, non graziando prigionieri politici e leader separatisti che si rendono conto che il coronavirus dovrebbe unire le persone contro il nemico comune, ha perso un’occasione per riconciliarsi con le persone che ha governato col pugno di ferro per quasi 40 anni. Ha aggiunto che Biya può ancora fare la storia ordinando il rilascio delle persone che ha dichiarato suoi nemici solo perché non sono d’accordo con la sua permanenza al potere. Altri che non trarranno beneficio dall’ordine sono l’ex primo ministro di Biya, Ephraim Inoni, l’ex ministro delle finanze Abah Abah Polycarp, e Jean Mariie Atangana Mebara, ex ministro dell’istruzione superiore. Alcuni sono in carcere da più di un decennio. Biya ha ordinato il loro arresto dicendo che hanno saccheggiato le risorse statali, ma i loro avvocati affermano che sono stati puniti perché hanno consigliato a Biya di dimettersi da presidente. Il decreto presidenziale non precisa quante persone trarranno beneficio dall’ordine. Il ministero della Giustizia sta ora esaminando i file dei prigionieri. Ardo e Kisob hanno valutato che almeno 10.000 prigionieri potrebbero essere liberati. Il Camerun ha attualmente 30.000 prigionieri in strutture di detenzione costruite per appena 9.000 detenuti. Ciad. Morti in carcere 44 presunti membri di Boko Haram di Camilla Canestri sicurezzainternazionale.luiss.it, 20 aprile 2020 Il procuratore capo del Ciad, Youssouf Tom, ha annunciato la morte di 44 presunti membri del gruppo jihadista Boko Haram, in un carcere della capitale N’Djamena. I decessi sarebbero avvenuti a causa di un avvelenamento. I fatti si sono verificati lo scorso 16 aprile quando le guardie carcerarie hanno scoperto i corpi senza vita. Le autorità hanno eseguito un’autopsia su 4 cadaveri e hanno riscontrato la presenza di una sostanza letale che avrebbe causato in alcuni una morte per arresto cardiaco e in altri per asfissia. Le restanti 40 salme sono state, invece, seppellite. Nell’annuncio del 19 aprile, Youssouf Tom ha dichiarato che sono tutt’ora in corso delle verifiche per decretare i motivi dei decessi. Gli uomini facevano parte di un gruppo di 58 persone arrestate a seguito di un’operazione condotta dal 30 marzo all’8 aprile contro Boko Haram nei pressi del lago Ciad, su ordine del presidente del Paese, Idriss Deby. Durante tale operazione sono stati uccisi 1.000 militanti e 52 soldati dell’esercito del Ciad. Il 14 aprile, i 58 prigionieri erano stati trasferiti in una struttura penitenziaria della capitale per essere sottoposti ad un processo giudiziario. Stando a quanto riferito da una fonte anonima ad Agence France-Presse (Afp), i 58 detenuti sarebbero stati richiusi tutti in un’unica cella e sarebbero stati lasciati senza cibo e acqua per due giorni, perché ritenuti membri del gruppo jihadista. Tale accusa è stata poi ribadita dal segretario generale della Chadian Convention for the Protection of Human Rights (Ctddh), Mahamat Nour Ahmed Ibedou, in una dichiarazione rilasciata ad Afp. Tuttavia, il governo di N’Djamena, tramite le parole del ministro della Giustizia, Djimet Arabi, ha respinto tali accuse, assicurando che non si è verificato alcun caso di maltrattamento dei prigionieri e accennando alla possibilità che si sia trattato di un suicidio di massa. Il ministro ha poi aggiunto che, nella giornata del 16 aprile, uno dei prigionieri è stato portato in ospedale, per poi essere dimesso, in quanto le sue condizioni erano molto migliorate. Al momento i restanti 13 detenuti godono di buona salute. L’operazione che ha portato all’arresto dei 58 uomini è avvenuta in risposta ad un attacco perpetrato da Boko Haram ai danni di una base militare dell’isola Bohoma, nella zona del Lago Ciad, durante il quale hanno perso le vita 92 soldati ciadiani, lo scorso 24 marzo. Si è trattato dell’attacco più letale subito dall’esercito del Paese dall’inizio della lotta al gruppo jihadista. A seguito di tale episodio, il 12 aprile, il presidente Idriss aveva annunciato che il proprio esercito non avrebbe più partecipato ad operazioni fuori dai confini nazionali. Il Ciad, insieme a Nigeria, Cameroon e Niger fa parte della Task Force multinazionale congiunta (Mnjtf), istituita nel 2012 e che sta combattendo Boko Haram nella zona del bacino d’acqua che tocca i quattro Paesi. Nonostante ciò, il 17 aprile scorso, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, ha affermato che il Ciad fa ancora parte del gruppo di lotta ai jihadisti G5 per il Sahel, che combatte i gruppi armati di estremisti nella regione. Boko Haram è un gruppo fondamentalista nigeriano che ha avviato le proprie offensive nel 2009, uccidendo oltre 35.000 persone e costringendone circa 2,6 milioni ad abbandonare le proprie case. Durante i loro assalti, i militanti dell’organizzazione rapiscono spesso donne e bambini per arruolarli e costringerli a compiere attentati suicidi. La rivolta del gruppo è iniziata nel Nord-Est della Nigeria e si è propagata in Camerun, Niger e Ciad, causando una grave crisi umanitaria in tutta la regione. Boko Haram è particolarmente attivo nella zona del Lago Ciad, dove i militanti continuano a uccidere civili e a distruggere le abitazioni locali. Arabia Saudita. L’appello dal carcere della principessa saudita ribelle: “Sto male, liberatemi” di Marta Serafini Corriere della Sera, 20 aprile 2020 Basmah bint Saud scomparsa un anno fa ha pubblicato su Twitter una serie di messaggi dalla prigione: non ho fatto nulla di male. “Sono reclusa in maniera arbitraria nella prigione di Al-Ha’ir, senza che sia stata formulata un’accusa. Non ho fatto nulla di male”. Ricompare - almeno in rete - la principessa ribelle saudita Basmah bint Saud. Sparita nel marzo 2019, la donna ha pubblicato su Twitter un appello dopo aver, invano, scritto più volte a corte. E rivolgendosi allo zio, il re Salman e al principe ereditario, suo cugino, il potente Mohammed Bin Salman, chiede di essere liberata dalla prigione di massima sicurezza in cui è detenuta. A spingerla è la paura di morire: “non sono stata curata e la mia salute si sta deteriorando a un punto critico, che potrebbe portarmi alla morte”. Misteri. Perché Mbs odia così tanto Basmah bint Saud da rinchiuderla nello stesso carcere di jihadisti e oppositori politici? E perché non le riserva il solito trattamento riservato ai parenti “scomodi”, ossia prigionie in hotel o appartamenti di lusso? La tragedia di Basmah bint Saud inizia nella sua casa di Jeddah sulla costa del Mar Rosso in Arabia Saudita il 1° marzo 2019, quando - come ricostruito dalla Deutsche Welle - viene prelevata dagli uomini della sicurezza dei Saud con sua figlia, Suhoud, 27 anni. Prima di allora la principessa era molto attiva sui social su cui vantava migliaia di fan. Da febbraio 2019 poi però - a parte un paio di messaggi religiosi - sul suo account Twitter non era comparso più nulla. All’epoca - secondo Deutsche Welle - “le comunicazioni della principessa sono sorvegliate”. Inoltre poche settimane prima l’edizione araba della rivista Harper’s Bazar aveva annunciato la sua presenza al festival letterario sponsorizzato da Emirates Airlines per presentare il suo libro The Fourth Way Law. Ma a quel Festival Basmah bint Saud non arriverà mai. Il rapimento scatta poche ore prima della sua partenza per la Svizzera, dove avrebbe dovuto ricevere cure mediche, soffrendo di osteoporosi e problemi cardiaci. E per un anno la principessa sparisce dai radar. Fino a quattro giorni fa quando i suoi tweet hanno fatto il giro del mondo. Basmah bint Saud, 56 anni, è nota come voce fuori dal coro all’interno della potente famiglia dei Saud. Ultima dei 115 figli messi al mondo con varie mogli dall’ex sovrano Abdalá bin Abdulaziz, nasce poco dopo il colpo di Stato che costringe il padre ad abdicare in favore del fratello Salman. Vede e il genitore solo un paio di volte prima che muoia nel 1969. Poi lei e sua madre, Jamila Merhi, partono per Beirut, la città più cosmopolita del Medio Oriente. Allo scoppio della guerra civile in Libano, passano nel Regno Unito. Basmah torna in Arabia Saudita nel 1988, dove sposa Shuja Bin Nami Bin Shahin. Dopo il divorzio, nel 2007, si costruisce una carriera da giornalista e imprenditrice (aprendo, fra l’altro, una catena di ristoranti). Quindi torna a Londra e da lì - attraverso i suoi scritti e alcune interviste - inizia a criticare il Paese d’origine, denunciando la corruzione e le ingiustizie economiche e invocando l’uguaglianza di uomini e donne. Sta ben attenta a non scagliarsi direttamente contro la famiglia reale di cui si sentiva parte. Ma attacca la fitta rete di governatori, amministratori e plutocrati che gestiscono il paese. Infine dal 2016, torna a vivere in Arabia Saudita e durante un’intervista alla Bbc, commentando il piano di riforme del cugino Mbs Vision 2030 dichiara “Ha una visione, Vision 2030, la cui direzione è chiara: l’isolamento di tutti coloro che non sono d’accordo con quella visione”. Ed è da allora che le cose si sono messe davvero male per la principessa Basmah. Le autorità saudite non hanno rivelato i motivi dell’arresto, né lo faranno. E se non è chiaro come la principessa abbia potuto scrivere da un carcere, situato alle porte di Riad, e considerato la peggior prigione di tutto il regno e se i tweet con il testo dell’appello sono scomparsi dal web, come fa notare anche il New York Times che si è lungamente occupato della vicenda, tuttavia è abbastanza plausibile che i messaggi siano autentici, tanto più se si considera che lo scorso mese sono stati arrestati il principe Ahmed bin Abdulaziz al Saud, fratello di re Salman, e suo nipote, il principe Mohamed bin Nayef, accusati di aver tentato un colpo di stato. Una retata e una mossa chiaramente volta a bloccare la dissidenza interna alla famiglia reale per mantenere lo status quo. Ma anche l’ultimo di una lunga serie di soprusi, se si considera che dal 2017 il principe ereditario Mbs è l’artefice di una ferrea repressione ai danni di numerose attiviste per i diritti di donne, blogger, giornalisti (uno su tutti Jamal Khashoggi, trucidato dentro il consolato di Istanbul) ed influenti esponenti religiosi. E che non risparmia nemmeno i parenti.