La bomba carceraria e i suoi artificieri di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 1 aprile 2020 Il Covid-19 è entrato nelle carceri (15 i casi accertati) e tarda un vaccino che tolga al virus la sua corona. Dunque, gli istituti di pena sono una bomba epidemiologica. Difficile disinnescarla: igiene personale, distanziamento, sanificazione, isolamento, sono chimere nella “promiscuità coatta di celle sature di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori” (Manconi). Eppure si deve. E se non vi basta l’obbligo costituzionale di garantire, anche a Caino, il diritto alla salute (e alla vita), siate mossi almeno da un altruismo interessato. Perché il problema riguarda detenuti e detenenti (58.592 i primi, 45.000 i secondi), con relative famiglie. Perché i tanti reclusi con patologie pregresse saranno vettori del contagio e graveranno, piantonati fino al decesso, su ospedali collassati. Perché - lo si è visto - le carceri sono “luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia autodistruttrice” (Palma). Dagli istituti di pena il virus può evadere, invadendoci. Che fare? Servono misure anche inedite, in grado di contenere i flussi in entrata e di agevolare una controllata decarcerizzazione. Non sono sufficienti quelle del decreto legge “Cura Italia”: stimati in 3.000 i detenuti in uscita, finora il Guardasigilli ne ha contati 200 (in media 1 per ognuno dei 189 istituti penitenziari). Né basteranno i 1.600 telefonini acquisiti, le 200.000 mascherine distribuite, i 770.000 guanti monouso forniti, i dichiarati 2.600 braccialetti elettronici disponibili, le 145 tende pre-triage all’ingresso dei penitenziari. Serve ben altro, e ciascuno deve fare la propria parte: in Costituzione si chiama leale cooperazione istituzionale. Lavarsene le mani, da gesto di quotidiana profilassi, tornerebbe ad essere il segno di una scelta pilatesca. I giudici privilegino interpretazioni dall’efficace portata deflattiva. Tradotto, significa ridurre la custodia cautelare ad extrema ratio, superare le (spesso eccessive) cautele nella concessione delle misure alternative, ricorrere ai domiciliari anche in carenza di braccialetti elettronici (come insegnano le sezioni unite di Cassazione), sperimentare nuove interpretazioni dei casi di differimento della detenzione. Le Camere, nel convertire il decreto legge n. 18 del 2020, introducano misure deflattive automatiche e tempestive a favore di detenuti che abbiano già dato prova di “accertata e consolidata meritevolezza” (Giostra): ne fa un’utile silloge il recente documento dell’Associazione dei docenti italiani di diritto penale. Vano è invocare una legge di amnistia e indulto. La maggioranza dolomitica necessaria, voto per voto, è pari ai due terzi dei parlamentari: una quota preclusa da ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, per un Parlamento che rinuncia a deliberare in remoto. Sarebbe però utile il deposito di una proposta di revisione dell’art. 79 della Carta: la si presenti oggi, affinché domani “la razionalità si prenda la rivincita sulla demagogia” (Pepino). Se è lecito dire, anche Corte costituzionale e Quirinale possono molto. La Consulta assicuri corsie preferenziali a decisioni in tema di esecuzione penale. Su tutte, il differimento della pena per sovraffollamento, la cui assenza nel codice penale è certamente incostituzionale (come riconobbe la sent. n. 279/2013). Un giudice riproponga la quaestio, e la Corte potrà fare la sua parte. Il Capo dello Stato (come suggerito da Corleone) eserciti il suo potere di grazia, anche parziale e condizionata, in chiave umanitaria a correttivo di una pena che minaccia diritti indisponibili. Come in passato, la conceda cumulativamente, compensando l’impossibile clemenza collettiva. È una sua prerogativa che il Guardasigilli non può ostacolare. Signor Presidente, saggiamente, la usi: se non ora, quando? Trasparenza e misure sanitarie urgenti: le priorità per combattere il Covid 19 nelle carceri di Gabrio Forti* e Francesco Centonze* La Stampa, 1 aprile 2020 Gli istituti italiani sono del tutto impreparati a fronteggiare l’emergenza coronavirus. “In Italia il pubblico non sa abbastanza […] cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati per rendersene conto”. Sono le parole di esordio di un toccante intervento di Piero Calamandrei alla Camera dei Deputati: era il 27 ottobre del 1948. La data dice tutto. E oggi, dopo più di sessant’anni e la testimonianza di grandi uomini? Sovraffollamento (20% rispetto alla capienza generale, ma con strutture nelle quali si supera il 200%), vetustà degli edifici, difficoltà di garantire una adeguata igiene personale, ridotta possibilità di svolgere attività fisica, sospensione degli affetti e della sessualità. Come si legge nel più recente report di Antigone, “tutti gli aspetti della quotidianità detentiva impattano sulla salute e sul benessere/malessere personale”. Ma attenzione, c’è un problema radicale e assoluto rispetto all’integrità individuale: sono gli effetti dello stesso regime detentivo sui corpi incarcerati. Vi è una copiosa mole di studi su patologie riconducibili alla reclusione o che nel regime detentivo diventano drammaticamente pervasive e tra queste, ovviamente, le malattie infettive, il problema più rilevante accanto ai disturbi psichici e a quelli gastroenterologici. Non c’è bisogno della scienza per comprendere che in carcere vi è la compresenza di tutte le condizioni che facilitano la diffusione delle infezioni e abbassano le difese immunitarie rendendo più vulnerabili i reclusi. Mentre è un dato, anche questo indiscutibile, che la diagnosi e il trattamento delle malattie in carcere seguono percorsi lenti e farraginosi. La vulnerabilità è una patologia strutturale del detenuto. In questo contesto è arrivato il coronavirus anche nei penitenziari italiani. Lo sappiamo attraverso il resoconto di sparuti interventi giornalistici, mentre purtroppo - ed è motivo di particolare preoccupazione - non vengono resi noti i dati reali sulla diffusione quotidiana del contagio nelle carceri. È certo però che gli istituti sono del tutto impreparati a fronteggiare l’emergenza. Pensiamo alle raccomandazioni più diffuse che abbiamo ormai imparato a memoria: evitare contatti personali, lavare spesso le mani, disinfettare le superfici, usare una mascherina. Siamo “bombardati” da indicazioni da parte delle autorità e dei media sull’igiene personale e sulla necessità di mantenere le distanze di sicurezza. Il lockdown è finalizzato proprio a questo, nella consapevolezza della straordinaria pervasività del virus. Le Camere hanno diradato le sedute, le fabbriche chiudono. Anche la corsa nel parco è diventata oggetto di divieto presidiato da sanzioni penali per i rischi che comporterebbe rispetto alla salute collettiva. Le persone nelle carceri, scrive in un prezioso documento del 15 marzo il WHO Regional Office for Europe, “devono godere degli stessi standard di assistenza sanitaria disponibili nella comunità esterna, senza discriminazioni in base al loro status giuridico”. Perché allora far correre un gravissimo rischio a migliaia di persone recluse, perché accettare che possano morire a causa del contagio, reso altamente probabile dall’impossibilità di seguire quelle prescrizioni la cui inosservanza nel mondo libero è persino sanzionata? Perché trascurare che così si espone a un medesimo pericolo l’intera comunità di persone che ogni giorno prestano il loro servizio, con impegno e professionalità, nei penitenziari? Ancora, tutti viviamo in questo drammatico periodo un’angoscia diffusa e pervasiva: chiediamoci allora cosa possono determinare, anche clinicamente, queste tensioni in persone che, da un lato, non possono fisicamente operare il distanziamento praticato dagli uomini liberi e, dall’altro, non hanno la libertà della connessione via web, lo strumento che consente il contatto con gli affetti e dona conforto e rassicurazione. È chiaro che tutto ciò si risolve in trattamenti contrari al senso di umanità, antitetici rispetto gli obiettivi della risocializzazione e in palese violazione dei diritti fondamentali dell’individuo. Bisogna subito, senza perdere un giorno, ricorrere a misure urgenti e incisive prima che le carceri diventino focolai del virus con conseguenze drammatiche sulle persone e sulla stessa tenuta dell’organizzazione: pensiamo a cosa accadrebbe se il virus si diffondesse anche tra il personale che con grande fatica e umanità gestisce le strutture e garantisce la sicurezza. Ecco allora le fondamentali direttrici di intervento. Innanzitutto, la trasparenza nei confronti dell’intera comunità penitenziaria: si devono conoscere quotidianamente anche i dati specifici del contagio di detenuti e personale penitenziario per adottare in modo tempestivo i più opportuni rimedi. In secondo luogo, un provvedimento di consistente deflazione della popolazione detenuta che elimini drasticamente il sovraffollamento. In questo senso, tra gli altri, l’Associazione dei professori di diritto penale e l’Unione delle Camere penali hanno pubblicato proposte condivisibili e immediatamente traducibile in norme per tamponare la situazione in atto attraverso una riduzione del numero dei detenuti. È un primo passo indifferibile perché solo la drastica riduzione del numero dei detenuti può consentire la creazione di spazi dove praticare il distanziamento personale e la quarantena per i soggetti contagiati. Indispensabile poi la collocazione di chi esce dal carcere, in assenza di idonea sistemazione domiciliare, presso strutture nelle quali praticare l’isolamento: case vacanze e hotel potrebbero oggi essere utilizzati per la quarantena delle persone a rischio. In terzo luogo, devono essere adottate urgenti misure organizzative e sanitarie interne, tra le quali, la capillare distribuzione di disinfettanti e guanti, l’obbligo delle mascherine quando non è possibile praticare le distanze di sicurezza, forme di isolamento e monitoraggio dei soggetti positivi. È infine fondamentale una chiara previsione normativa che limiti al massimo i nuovi ingressi sospendendo gli ordini di esecuzione per ampie categorie di reati. In attesa, la magistratura di sorveglianza, su sollecitazione di avvocati sempre impegnati anche in momento drammatico in molte zone del Paese, provvede con il massimo impegno a consentire la fuoriuscita dal circuito detentivo dei soggetti fragili, affetti da patologie più a rischio in caso di contagio, nonché di coloro che hanno già ottenuto benefici e una valutazione positiva dell’équipe di osservazione e trattamento. Non voltiamo allora la testa dall’altra parte. Potente è arrivato, dopo l’Angelus di domenica, il monito del Pontefice: le carceri sovraffollate “potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. Questi giorni, nei quali abbiamo tutti rafforzato il sentimento di essere parte della stessa umanità, rappresentano allora un’occasione forse unica per superare quella che lo stesso Papa Francesco definisce la “cultura dello scarto” e per vincere tutte le più profonde resistenze verso una piena inclusione dei detenuti nella nostra comunità. Come ha detto in una recente intervista a Die Welt il filosofo Byung-Chul Han, la società mostra in questo periodo “i suoi tratti disumani”: l’altro è principalmente un potenziale portatore di virus, da cui occorre stare distanti, perché minaccia la nostra sopravvivenza. Ma, come osserva il filosofo, se non vogliamo che dopo l’epidemia la nostra vita si trasformi in pura sopravvivenza e noi stessi in una sorta di virus che si moltiplichi e minacci gli altri, dobbiamo saper far prevalere, anche adesso, perfino adesso, la cura della vita buona rispetto alla pura e selvaggia lotta per la sopravvivenza. E la vita buona, la decenza di una società e la sua coscienza, hanno sempre trovato nelle condizioni del carcere il proprio nudo specchio rivelatore. Anche noi, come i parlamentari cui Calamandrei rivolgeva il suo appello, sulla soglia delle prigioni siamo destinati a ritrovare l’ombra del nostro stesso dolore e la “guida scaltrita” della nostra consapevolezza. *Ordinario di Diritto penale e Criminologia, Direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia penale (Asgp) - Università Cattolica **Ordinario di Diritto penale - Università Cattolica Carcere, c’è un altro virus: quello dell’inerzia del governo di Salvatore Scuto Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Il coronavirus aggrava la situazione già complicata degli istituti di pena del nostro Paese. È davvero preoccupante l’inerzia del Governo e del Parlamento di fronte a quanto sta accadendo negli istituti penitenziari del Paese. Una situazione drammatica dal punto di vista umanitario e pericolosissima se si pensa all’effetto deflagratore del contagio che l’assenza di condizioni igieniche e l’impossibilità di rispettare tutte le regole imposte e raccomandate hanno già innestato. Il virus è un drammatico scanner che, avendo fermato all’improvviso le nostre vite, ha messo facilmente in chiaro tutti i nostri limiti strutturali e morali, sociali ed economici. Lo ha fatto anche con la piaga pluridecennale del sovraffollamento che affligge gli istituti penitenziari e che ha determinato nel 2013 la condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 3 della Cedu ovvero per avere il nostro Stato inflitto alle persone recluse nelle sue carceri un trattamento inumano e degradante. Ma più che le parole servono i numeri. Questi i dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 29 febbraio 2020: 61.230 sono le persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 e di una capienza effettiva stimata in poco più di 47.000. Sul fronte del contagio il ministro Bonafede, il 25 marzo, ha dichiarato che in tutto il Paese i contagiati tra la popolazione carceraria sono 15. A quanto risulta da fonti giornalistiche molto attendibili si contano però due morti (un agente e un medico penitenziari) e nella sola Lombardia (dati che si riferiscono al 24 marzo forniti dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della regione) si contano 12 nuovi contagi e 4 ricoverati mentre tra gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori i contagiati sono 24, 61 sono a casa perché hanno sintomi clinici tipici del contagio, 64 perché hanno avuto contatti con persone sicuramente contagiate. Tali dati vanno riportati al fatto che in Lombardia su una popolazione carceraria, al 29 febbraio, pari a 8.720 persone sono stati effettuati solo 147 tamponi. Evidente l’ostinazione cognitiva del ministro. In una simile situazione, in ossequio al disegno costituzionale della pena, l’obiettivo prioritario e urgente è quello di sfoltire significativamente il numero della popolazione detenuta in modo da consentire il rispetto delle più basilari regole igienico-sanitarie volte a contenere la diffusione del contagio. Non è un caso, e sarebbe utile una riflessione del nostro Governo anche su questo aspetto, che due Stati così diversi tra di loro come la Francia e l’Iran si siano trovati simultaneamente a convergere sul perseguimento dello stesso obiettivo riducendo significativamente (in Francia quasi di 6.000 detenuti) la popolazione carceraria. In Italia, con uno spesso velo di ipocrisia, il Governo ha ritenuto di dovere affrontare questa emergenza con le misure previste dal Dl 18/2020 (artt. 123 e 124). Misure assolutamente inadeguate ancora una volta frutto della demagogica propensione ad inseguire il facile consenso popolare anziché affrontare i problemi con l’obiettivo di risolverli. In particolare è stato previsto un ampliamento temporaneo (fino al 30 giugno 2020) dell’istituto della detenzione domiciliare già previsto dalla legge n.199/2010 introducendo alcune deroghe alle condizioni ostative per la concessione della misura ed un procedimento di applicazione più snello sia nell’iter istruttorio che nella decisione del magistrato di sorveglianza. Si richiede che la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche nel caso essa costituisca parte residua di una pena maggiore, e che il condannato abbia la disponibilità di un domicilio effettivo e per ubicazione idoneo a soddisfare le esigenze di protezione dal reato. Nelle modalità esecutive della misura è previsto, nei casi in cui la pena sia superiore a sei mesi, che quella del controllo sia effettuata mediante l’uso di mezzi elettronici, i cosiddetti braccialetti. Ebbene, basta solo questa previsione, che stride tra l’altro con la previsione della clausola di invarianza finanziaria dell’ultimo comma dell’art. 123, per rendersi conto di come inadeguata sia tale misura rispetto allo scopo che si prefigge: è noto da anni, e in modo molto controverso circa le ragioni, che tali dispositivi non sono stati disponibili nei numeri necessari neanche in tempi normali. A ciò si unisce la difficoltà per quella platea di detenuti cui si rivolge il provvedimento di avere un domicilio idoneo: da qui gli appelli e le iniziative della magistratura di sorveglianza, come quello della presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, agli enti locali ed allo stesso Dap al fine di individuare strutture adeguate in cui poter far scontare il periodo di detenzione domiciliare. Così il paradosso è compiuto: chi ha un domicilio non ha il braccialetto oppure chi, per remota ipotesi, abbia a disposizione l’apparato elettronico di sorveglianza non ha il domicilio. Risultato: lo stallo delle azioni necessarie per affrontare l’emergenza mentre il Covid-19 corre veloce all’interno delle mura carcerarie. Queste misure, a cui si aggiungono quelle previste dall’art. 124 circa l’estensione del periodo di licenza concessa al detenuto semilibero oltre il limite previsto dall’art. 52 O.P., non si applicano ai soggetti condannati per uno dei delitti ostativi previsti dall’art. 4 bis O.P., ovvero i delitti più gravi, al delinquete abituale o per tendenza, al detenuto sottoposto al regime di sorveglianza particolare, ai condannati per maltrattamenti in famiglia e stalking, ai detenuti infine che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per alcune delle infrazioni disciplinari previste dall’art. 77 comma 1 del Dpr 230/2000 ed ai detenuti coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo. Nulla di più lontano, quindi, dalla temuta e demonizzata amnistia. Insomma, il sonno di quel piccolo esercito, bene armato ed in servizio effettivo permanente, al quale dobbiamo il nostrano populismo penale, potrebbe continuare indisturbato. Ma così non è. Nel corso del Plenum straordinario del Csm, tenutosi il 26 marzo, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita (l’uno consigliere indipendente il secondo della corrente di Davigo) non hanno esitato a ritenere il provvedimento del Governo come un indulto mascherato ed il primo si è spinto a dire, non in modo originale per la verità, che dietro le sanguinose rivolte dei giorni di marzo ci sarebbe un’unica regia criminale. Ciò per contrastare il parere del Csm, poi approvato a maggioranza con i voti contrari dei due consiglieri ricordati e dei menri laici del Movimento 5S e della Lega, che esprime un giudizio negativo sull’adeguatezza delle misure. Un documento ritenuto però timido dalla componente Area, che si è astenuta, e che con il consigliere Cascini proponeva misure più opportune ed adeguate come l’applicazione della detenzione domiciliare senza alcun vincolo a tutti i detenuti per reati non gravi con un residuo pena non superiore ai diciotto mesi e la sospensione dell’esecuzione degli ordini di carcerazione per pene inferiori ai quattro anni. Del resto possibili ed auspicate misure idonee ad affrontare questa straordinaria emergenza sono state avanzate dall’Unione Camere Penali, dall’Associazione tra gli studiosi del diritto penale da ultimo anche dall’Ordine degli avvocati di Milano insieme alla Camera penale meneghina. Ma sino ad oggi il decisore politico, Governo e Parlamento, tace nascondendosi dietro numeri a dir poco irrealistici. Forse il ministro dorme sonni tranquilli sulle note dell’adagio composto da un quotidiano, la cui etichetta evoca un fatto banalmente quotidiano (il che di questi tempi non può che essere un auspicio), secondo cui “Meglio dentro”. Sì, proprio così “Meglio dentro” perché secondo il direttore di quella testata si sta più sicuri in tempi di Covid-19 dentro le carceri con buona pace dei garantisti alle vongole, degli avvocati penalisti organizzati e dei radicali liberi. Non ha citato il Pontefice che per evitare che il dramma delle carceri si trasformi in tragedia si è rivolto alle autorità chiedendo loro di “essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. Nessuno ha risposto. Coronavirus. Dap: nelle carceri positivi 19 detenuti e 116 agenti penitenziari Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Sono 19 i detenuti positivi al Covid-19 su una popolazione, ad oggi, di 58.035 unità. Fra il personale di Polizia Penitenziaria invece sono 116, su quasi 38mila unità, i positivi al tampone. Lo comunica il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ricordando che le prime direttive in materia sono state emanate lo scorso 22 febbraio. Dei detenuti, prosegue la nota, due sono ricoverati in strutture ospedaliere, gli altri si trovano in isolamento sanitario in camere singole dotate di bagno autonomo all’interno di apposite sezioni detentive, dove vengono effettuati i controlli disposti dalle autorità sanitarie. Per quanto riguarda gli agenti: 17 sono ricoverati in ospedale, mentre la maggior parte si trova in isolamento fiduciario domiciliare o nel proprio alloggio in caserma. Proprio per prevenire al massimo la possibilità di contagi dall’esterno, conclude il comunicato, sono state predisposte 145 tensostrutture davanti agli ingressi degli istituti penitenziari per il triage. Urge decongestionare gli istituti, ma tanti invocano nuovi reati di Michele Passione Il Dubbio, 1 aprile 2020 Quella sete di punizione che resiste pure al virus. Un’idea, un concetto, un’idea Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Per capirsi, nell’ordine. Il 15 marzo le Presidenti del Tribunale di Sorveglianza di Milano e di Brescia (due donne con le idee chiare, che nascono dall’esperienza materiale delle cose) scrivono al ministro (viene anche indicata l’ora, le 15,30, perché non resti un non detto), denunciando ciò che si sa (in carcere il virus entra, è già entrato, entrerà sempre di più; il carcere è poroso, non si possono ergere altri muri) e quel che si può fare. Tra le tante, “una detenzione domiciliare speciale per coloro che hanno pena residua inferiore ai 4 anni”. Nessuna risposta. Seguono indicazioni dell’Ucpi, che da giorni meritoriamente “interroga” il nostro, invano, offrendosi per scrittura di testi utili e chiari, e così l’Associazione italiana dei Professori di diritto penale. Intanto, la rassegna quotidiana di Ristretti orizzonti ci consegna giorno per giorno il bollettino sanitario. Nel frattempo, al contrario c’è chi ha idee luminose; si va dall’estensione del regime differenziato, proposta da alcune sigle sindacali dopo le rivolte di inizio marzo, a quella di introdurre “specifici delitti di danneggiamento e sommossa, con previsione di aggravanti speciali per i reati (resistenza, lesioni, etc.) se commessi ai danni della Polizia penitenziaria e all’interno di Istituti di detenzione e pena”, al fine di “riportare la disciplina nelle carceri”, anche individuando “specifici protocolli di sicurezza distinti per tipologia di detenuti”. Dal doppio binario al trattamento à la carte. Il proponente delle magnifiche sorti e progressive indica ancora una strada; siccome “non esiste ancora un piano strategico sulla questione carceraria a distanza di due mesi dalla dichiarazione dell’emergenza sanitaria”, occorre verificare “la possibilità di riutilizzare Istituti dismessi come Pianosa o l’Asinara”. E ancora (da un inquirente a un altro): il Dl 18/2020 è un indulto mascherato, una resa dello Stato, ma c’è chi ha un’idea ancor più originale. Siccome tout se tient, a chi viola le limitazioni agli spostamenti stabilite dal governo occorre rispondere con l’arresto in flagranza e l’introduzione di una nuova fattispecie penale, poiché “la magistratura e la società tutta devono prendere spunto da questa grave vicenda emergenziale per affrontare un nodo irrisolto dalla odierna vita politico-sociale: il sistema giustizia è in grado di affrontare gravi problemi di sicurezza nazionale? Ieri l’altro il terrorismo e la mafia, e ancora ieri la corruzione e oggi il contenimento dell’epidemia”. Lo Stato di eccezione. Da Cosa nostra alle mazzette, e poi al pipistrello. Geniale, come abbiamo fatto a non pensarci prima? Non basta; per far finta di essere sani occorre leggere anche che il carcere è “ambiente difficilmente permeabile dall’esterno rispetto a quello, sicuramente più rischioso del domicilio ove risiedono soggetti non ristretti e, quindi, liberi di avere contatti, sia pure limitati, con contesti potenzialmente infetti”, e dunque (con parere “assolutamente contrario” del pm) “si rigetta l’invocata sostituzione della misura in atto”. Così un giudice per le indagini preliminari. Del resto, il legislatore di urgenza non chiama in causa chi dispone della libertà dei presunti innocenti. Del resto, per loro si prevede la sospensione dei termini di fase di custodia cautelare. C’è il virus (il vairus, come dice quello), dovevi pensarci prima! Siamo un Paese così, dove nelle sale di attesa si legge che “è severamente vietato fumare”; occorre un avverbio per far comprendere il divieto. Lo chiamano “distanziamento sociale”; così si legge nella claudicante grammatica normativa di questi tempi, così nella vulgata claustrofobica di questa primavera impazzita. Un ossimoro. Lontano dagli occhi, lontano da cuore. Ma la verità è un’altra: mentre noi ce ne stiamo nelle nostre case (per chi la casa ce l’ha), trasformiamo i nostri lavori (per chi un lavoro ce l’ha, o ce l’ha ancora) in moderne postazioni smart, mentre facciamo ginnastica o yoga sui tappetini in terrazza, ché nei giardini è vietato, mentre lentamente ci assuefacciamo alla distanza, sorvolati dai droni, c’è chi pensa si possa regolare i conti tra buoni e cattivi. Una logica del gregge intramoenia, e poco importa se questo è inumano, pericoloso, criminogeno, folle. Torneremo a votare (in remoto?), e bisogna tenere la linea. Qualche chilo in più, che la cattività non paga, ma la faccia feroce resta quella. Speriamo che anche lo specchio di lorsignori non menta, e restituisca il ghigno pavido, la banalità del male, l’intollerabile presenza di sé. Recuperare i condannati, un’idea fuori moda di Vincenzo Comi* e Antonio Mazzone** Il Dubbio, 1 aprile 2020 Tramontate le ideologie più attente ai bisogni dei cittadini in difficoltà, si è smesso anche di discutere sul rapporto fra esecuzione della pena e reinserimento nel mercato del lavoro. E invece proprio una dialettica stabile fra sistema penale e mondo produttivo sarebbe decisiva per ristabilire la coesione sociale. La situazione nelle carceri, riguardante decine di migliaia di operatori penitenziari e di detenuti, a causa dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, impone soluzioni immediate ma è anche l’occasione di riaprire, seriamente e consapevolmente, il dibattito, politico-ideologico e giuridico, quasi interrotto dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso a causa del declino delle ideologie più sensibili ai bisogni e al rispetto della persona umana, sul rapporto tra modalità di esecuzione della pena, effetti di prevenzione generale e speciale e attività sociali di controllo, da una parte, e forme di risocializzazione in relazione a condotte devianti, dall’altra. In altre parole, è di fatto passato di moda il nodo del rapporto tra modalità di esecuzione della pena e struttura sociale. Si tratta dunque di riprendere un dibattito che non sia meramente teorico e fine a se stesso, ma che sia finalizzato a progettare modelli di prevenzione sociale e di esecuzione pena più efficaci sotto i profili del riassorbimento di condotte devianti, della risocializzazione dei soggetti a rischio e del reinserimento sociale dei detenuti/condannati. L’obiettivo deve per forza consistere nell’individuare modelli che comportino, sul piano personale, sociale ed economico, “costi” minori, e che producano effetti migliori. I risultati ottenuti in alcuni istituti penitenziari, caratterizzati da modalità di esecuzione della pena particolarmente attente ai profili di reinserimento sociale dei detenuti, in termini di percentuali significativamente più basse di recidiva, dimostrano che il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena non costituisce una mera utopia e consente, invece, una sua precisa attuazione. Ricominciamo a chiederci, in uno Stato democratico, di diritto e sociale, e in una società a capitalismo limitato e controllato, come possa relazionarsi la funzione sociale della pena con la struttura della società, e come possa pianificarsi un circuito ottimale tra le modalità di esecuzione della pena e il mercato del lavoro (leggi, inserimento nello stesso del detenuto). Si tratta di riprendere a occuparsi delle cause, individuali e sociali, del reato, e di modulare al risultato di tale ricerca la risposta più efficace, che non deve esaurirsi soltanto in quella penale (osiamo dire, non deve essere necessariamente penale), ma che può essere individuata sul piano sociale, psicologico, culturale ed economico. Per fare un esempio: l’aumento o la diminuzione dei reati contro il patrimonio dipendono dalle condizioni economiche di una società (condizioni economiche migliori comportano una diminuzione di tali reati), e non dalla capacità di repressione da parte dello Stato: è evidente che, in uno Stato che voglia raggiungere risultati ottimali in relazione alla prevenzione di tali reati, l’intervento di “ricomposizione sociale” non dovrebbe avvenire mediante l’irrogazione e l’esecuzione di una pena, ma mediante la rimozione della situazione individuale di disagio economico. Non è certamente nuova la domanda se vi siano (e quali siano) strumenti più adeguati (sul piano della capacità rieducativa dell’intervento statuale e, di conseguenza, sul piano della prevenzione generale e speciale), rispetto al carcere, al sistema di valori espresso dalla civiltà occidentale. La risposta a una tale domanda richiede accurate valutazioni sul piano ideologico, sociologico, psicologico ed economico. Ma è certo che la risposta a tale domanda non può che essere positiva, anche in un contesto sociale come quello italiano caratterizzato da condotte devianti fortemente disomogenee rispetto a modelli comportamentali socialmente legittimi e coerenti con l’evoluzione della civiltà occidentale (si pensi ai valori insanabilmente conflittuali con quelli fondanti della nostra società espressi dalle organizzazioni criminali: ma anche in tal caso la prospettiva delle modalità di esecuzione pena deve essere quella della rieducazione/risocializzazione). Non è difficile contemperare le esigenze di difesa sociale con quelle di rispetto della persona umana: anzi, la migliore difesa sociale si attua mediante la rieducazione e il reinserimento sociale del condannato. Prospettiva, questa, che richiede, innanzitutto, un’istituzionalizzazione del rapporto tra gli organi preposti a gestire le modalità di esecuzione della pena e le organizzazioni rappresentative della produzione e del lavoro. E richiede, poi, un coordinamento tra la fase dell’intervento (magari da parte di nuclei specializzati composti da operatori sociali, collegati anche alle organizzazioni rappresentative dei settori produttivi, e da forze dell’ordine) “prima” della commissione di un reato, in presenza di situazioni di disagio personale e ambientale incentivanti condotte devianti, per prevenirne gli sviluppi, mediante la rimozione delle cause (con adeguati e ben delineati poteri di incidenza non penale), e quella dell’intervento “dopo” la commissione di un reato, per favorire, sempre attraverso il collegamento col mondo della produzione e del lavoro, il reinserimento sociale del condannato. *Avvocato, vicepresidente della Camera penale di Roma **Avvocato L’Onu chiede di tutelare i detenuti. E anche l’Italia deve fare la sua parte di Roberto Giovene di Girasole* Il Dubbio, 1 aprile 2020 L’intervento dell’Alto Commissario per i diritti dell’uomo Michelle Bachelet che invita gli stati ad applicare le misure alternative alla reclusione. L’Alto commissario Onu per i diritti dell’uomo Michelle Bachelet ha chiesto agli stati di adottare misure urgenti per tutelare la salute e la sicurezza dei detenuti nel quadro delle misure necessarie per contenere il diffondersi della pandemia da coronavirus (Covid- 19). Il commissario Onu fa riferimento alla circostanza che molte carceri, così come centri per rimpatrio dei migranti e hotspot, registrano casi di positività al coronavirus e che, in molti stati, le strutture penitenziarie sono sovraffollate, tanto da non rendere possibile il rispetto della distanza minima tra le persone, prescritta dalle autorità sanitarie. Tutto ciò, unitamente alla carenza di servizi igienici, aumenta i rischi per i detenuti e gli operatori penitenziari. Da qui l’appello ai Governi ed alle Autorità competenti a porre in essere tutte le azioni necessarie per decongestionare le carceri ed a prendere tutte le misure necessarie nel rispetto dei diritti dell’Uomo. Il documento dell’Onu riguarda tutti quei Paesi che, come l’Italia, ha un irrisolto, grave problema di surplus della popolazione carceraria rispetto alla capienza regolamentare. Non sono bastate due condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 2009 e, poi, nel 2013 per porre rimedio seriamente al problema. La situazione è ben nota, basti pensare che, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020 la presenza dei detenuti negli istituti penitenziari italiani aveva raggiunto la soglia di 61.230 a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931. Pure il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti ha adottato una “Dichiarazione di principi” richiamando l’attenzione sulla particolare e drammatica situazione nelle carceri, esortando gli Stati membri a compiere tutti gli sforzi per “ricorrere ad alternative alla privazione della libertà... in particolare in situazioni di sovraffollamento”. Inoltre ha sancito che “le autorità dovrebbero fare maggior ricorso a misure meno afflittive della custodia cautelare, alla commutazione della pena, al rilascio anticipato” con particolare riferimento ai luoghi dove a causa del sovraffollamento e del superamento della capacità massima non sia possibile rispettare il distanziamento sociale prescritto, in generale, per tutta la popolazione. Si moltiplicano le prese di posizione e gli appelli: dopo quelli dell’Avvocatura e di settori della Magistratura associata, hanno sottolineato la necessità di adottare ulteriori misure per limitare i contagi il Consiglio Superiore della Magistratura, il mondo accademico, il Presidente della Repubblica, ed il Papa. Le misure adottate dal nostro governo in tema di sovraffollamento, tra le quali, principalmente, la concessione degli arresti domiciliari, da valutare caso per caso dal Magistrato di Sorveglianza, di coloro che debbono scontare fino a 18 mesi, anche se residuo di maggior pena, subordinata ad una serie di condizioni, tra le quali, per coloro che devono scontare più di 6 mesi, la disponibilità dei braccialetti elettronici, appaiono del tutto insufficienti. I braccialetti elettronici disponibili sono pochi e non sembra che la situazione possa mutare nell’immediato. Urgono, pertanto, soluzioni più incidenti, come richiesto a gran voce dall’Avvocatura, al fine di tutelare la salute non solo dei detenuti ma anche di tutti gli operatori penitenziari, tra le quali, come sottolineato dall’Unione Camere penali italiane, la detenzione domiciliare, indipendentemente dalla disponibilità del braccialetto elettronico, per residui di pena inferiori a 2 anni e la sospensione, fino al 30 giugno, della emissione degli ordini di carcerazione di pene fino a 4 anni divenute definitive. In altri Paesi, alcuni dei quali violano i diritti umani, sono stati preannunciati provvedimenti di amnistia, come ad esempio in Turchia. Numerose associazioni hanno lanciato un appello affinché, contrariamente a quanto previsto, il provvedimento si applichi anche ai numerosi avvocati (oltre 600 attualmente), giornalisti, magistrati, professori universitari, arbitrariamente arrestati o condannati a pesanti pene detentive. In tal senso anche l’Osservatorio Internazionale degli Avvocati in pericolo (Oiad) ha richiesto la scarcerazione degli avvocati detenuti, sottolineando come occorra impedire la propagazione del virus nelle 375 carceri turche all’interno delle quali sono recluse circa 280 mila persone. L’Oiad sottolinea in particolare la presenza all’interno delle prigioni turche di donne incinte, e di ben 743 bambini (dei quali 534 da 0-3 anni e 200 da 4-6 anni). Inoltre la perdurante presenza in una unica camerata di 20- 30 persone. L’emergenza ha attraversato anche l’Atlantico e si apprende che anche negli USA è stato sospeso il diritto di visita ai detenuti per 30 giorni. *Componente commissione rapporti internazionali e Paesi del Mediterraneo del C.N.F. Braccialetti elettronici, vent’anni di scandali di Maurizio Tortorella L’Espresso, 1 aprile 2020 La prima gara risale al 2001 e da allora sono stati spesi oltre 200 milioni di euro. E adesso che i dispositivi dovrebbero essere utilizzati per decongestionare le carceri sono sempre introvabili. C’è voluto il coronavirus, perché il governo se ne accorgesse. Soltanto oggi il ministero dell’Interno scopre che c’è qualche problema con i braccialetti elettronici per il controllo a distanza dei detenuti. Anche il ministero della Giustizia si rende conto che non bastano, ma solo quando la paura del contagio rischia di scatenare rivolte carcerarie come quella di due settimane fa, che ha lasciato 14 morti tra i detenuti, 50 feriti tra gli agenti della Polizia penitenziaria, e almeno 35 milioni di danni. Per tamponare l’emergenza Covid-19 nelle prigioni italiane, dove oltre 61 mila detenuti travolgono una “capienza regolamentare” che ne prevede 50 mila (ma i posti veri sono 47 mila, e molti sono inagibili per le rivolte), e dove il contagio lambisce agenti, operatori e medici, il decreto Cura Italia del 18 marzo ordina di fare uscire oltre 6 mila condannati, i meno pericolosi tra quanti devono scontare residui di pena tra sei e 18 mesi di reclusione. Dovrebbero trascorrerli agli arresti domiciliari, quindi per monitorarli servirebbero migliaia di poliziotti, oppure i braccialetti elettronici. Li chiamano così, in realtà sono cavigliere: 50 grammi di plastica anallergica, più una batteria e un chip. Collegate a una centrale operativa, rilevano in tempo reale dove sia la persona che le indossa. C’è un problema, però. Perché è vero che l’Italia ha cominciato ad acquistare i dispositivi nel 2001, quando il ministro dell’Interno Enzo Bianco ne avviò la sperimentazione. Ma 19 anni dopo sono pochini, i braccialetti. L’ammette lo stesso governo, nero su bianco, nella Relazione tecnica allegata al decreto Cura Italia: “Al momento” vi si legge “e fino al 15 maggio, risultano disponibili 2.600 dispositivi”. Il punto è che in gran parte dovrebbero essere usati per gli indagati in custodia cautelare, non per i condannati. Quindi non basteranno nemmeno per iniziare a decongestionare le carceri. Da 19 anni l’Italia sopporta l’indecorosa storia dei braccialetti fantasma: una sceneggiata che fin qui è costata 200 milioni di euro tra convenzioni e appalti. Con quella cifra, più di dieci milioni l’anno, oggi i congegni dovrebbero essere decine di migliaia, tutti attivi. C’è solo da sperare che il numero indicato oggi dal governo - 2.600 - sia reale. Ma è legittimo dubitarne perché ancora lo scorso 8 marzo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, non aveva la più pallida idea di quanti fossero i braccialetti: “Non è un dato in mio possesso” rispondeva in un’intervista a Radio radicale. E aggiungeva: “Non è un dato fruibile”, cioè disponibile. Ma se non è disponibile per lui... Più che una storia, quello dei braccialetti è uno scandalo a puntate, denunciato più volte anche da Panorama. È una storia che comunque comincia male fin dall’inizio, visto che il primo detenuto “sperimentale”, un peruviano condannato per traffico di droga, si dà alla macchia due soli mesi dopo che lo strumento di controllo gli viene stretto alla caviglia. È una storia di convenzioni “segretate” dai ministri dell’Interno che si succedono, e per due volte affidate senza gara alla Telecom. Nel dicembre 2011 l’appalto viene confermato fino al 31 dicembre 2018 da Annamaria Cancellieri, che è al Viminale con Mario Monti. Il prezzo è 9 milioni l’anno, altri 63 in totale. La scelta provoca polemicucce nel 2012, quando in Parlamento l’estrema sinistra accusa la Cancellieri di conflitto d’interessi: pochi mesi prima il figlio del ministro è stato assunto da Telecom a capo del settore amministrazione, finanza e controllo. Poi, come spesso accade in Italia, tutto scompare, evapora, s’inabissa. Resta lettera morta anche una dura censura della Corte dei conti, nel settembre 2012. Sui braccialetti, la Corte accusa il governo non solo per la mancata gara, ma anche per lo spreco di denaro pubblico: “La spesa” scrive “è stata elevatissima a fronte dei veramente pochi dispositivi utilizzati”. A quella data, dalle casse dello Stato sono usciti 106 milioni di euro, e in base agli accordi i braccialetti attivi dovrebbero essere circa 2.400. Se fosse così, la spesa media per dispositivo sarebbe a dir poco siderale: 44 mila euro. Ma non è così. È molto peggio. I giudici contabili scrivono che “i dispositivi utilizzati sono veramente pochi: solo 14, parrebbe”. Passano altri anni. I governi insistono a versare milioni, ma i braccialetti non aumentano. Si deve aspettare l’estate del 2016 perché venga indetta una gara europea. La vince Fastweb, nel 2017, per altri 23 milioni. In cambio garantisce una fornitura di 1.000-1.200 dispositivi al mese fino al dicembre 2021. L’aggiudicazione definitiva è dell’agosto 2018, e la fornitura potrebbe partire dall’ottobre successivo. Tutto risolto, allora? Macché, si perdono ancora il 2018 e il 2019 perché la commissione di collaudo del sistema viene nominata con ritardo. Ancora il 28 novembre 2019 l’Ucpi, l’Unione degli avvocati penalisti, protesta: “Nonostante mille rassicurazioni, la commissione non è stata ancora nominata”. E siamo all’oggi. Il governo, letteralmente, dà i numeri. Nella Relazione tecnica, allegata al decreto Cura Italia, da una parte scrive che “risultano disponibili 2.600 dispositivi fino al 15 maggio”, ma poche righe prima si legge che grazie alla convenzione con Fastweb “fino all’8 marzo ne sono stati attivati circa 5.200” in 15 mesi. È scettica Rita Bernardini, l’ex parlamentare radicale che è presidente di Nessuno tocchi Caino, l’associazione a difesa dei detenuti: “Com’è possibile” si domanda “se il collaudo non è ancora stato completato?”. Il mistero dei braccialetti, insomma, continua. Come non bastasse, la Relazione al decreto accenna ad altre spese, in apparenza diverse dai 7,7 milioni annui della convenzione con Fastweb. Per sostenere oneri relativi a “noleggio, installazione, gestione e manutenzione di strumenti tecnici di controllo delle persone sottoposte all’arresto o alla detenzione domiciliari”, si legge che il Viminale stanzia 11,2 milioni per il 2020, 21,2 per il 2021, e 21,2 per il 2022. Forse servono per le stazioni di polizia cui sono collegati i braccialetti. Ma allora lo Stato paga due volte per i dispositivi che non usa? I braccialetti non possono essere la soluzione per le carceri di Andrea Oleandri* antigone.it, 1 aprile 2020 “Abbiamo appreso, dal decreto attuativo del “Cura-Italia”, che i braccialetti elettronici messi a disposizione per il controllo delle persone detenute che potrebbero accedere agli arresti domiciliari sono 5.000, di cui 920 già disponibili. Il Provvedimento prevede l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana. Numeri ampiamente insufficienti per affrontare l’emergenza coronavirus e le ricadute drammatiche che potrebbe avere sul sistema penitenziario. Con il numero di installazioni attualmente previste, gli ultimi detenuti usciranno dal carcere infatti tra oltre tre mesi, quando ci auguriamo la fase acuta legata al diffondersi del Covid-19 sarà già ampiamente alle spalle”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Il Parlamento e il Governo insieme - prosegue Gonnella - devono disinnescare i rischi della bomba sanitaria in carcere, ponendo le condizioni affinché in carceri si assicuri distanziamento sociale a garanzia di detenuti e poliziotti. I detenuti con meno di due anni di pena sono circa 15 mila. Se due terzi di loro oggi uscissero le condizioni sarebbero nettamente migliorate. Si tratta di persone che vanno mandate agli arresti domiciliari entro un paio di settimane e non nell’arco di mesi, con forme di controllo diverse dal braccialetto, altrimenti dal punto di vista sanitario la misura non avrebbe senso. Noi - dice ancora Patrizio Gonnella - abbiamo presentato diversi emendamenti per arrivare all’obiettivo di ridurre in fretta i numeri, e qualsiasi intervento che vada in questa direzione è benvenuto”. “Un altro aspetto che va affrontato con urgenza è quello dei trasferimenti dei detenuti - sottolinea ancora il presidente di Antigone. Mentre nel mondo libero stiamo impedendo alle persone di spostarsi dal proprio comune, in quello penitenziario continuano i trasferimenti da un carcere ad un altro, con tutti i rischi che questo comporta e con un importante aggravio del lavoro condotto dal personale medico che presta servizio negli istituti di pena. Bisogna essere consapevoli - dice ancora Patrizio Gonnella - che l’unico modo per affrontare l’impatto che questa crisi potrebbe avere nel sistema penitenziario è garantire le stesse politiche che si stanno applicando per le persone libere. Ora che si intravede la luce fuori evitiamo che si entri nel tunnel carcerario”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Quei 55 bambini con meno di 3 anni dietro le sbarre con le mamme detenute La Repubblica, 1 aprile 2020 I rischi di contagio paventati dal sindacato di Polizia Penitenziaria. Le proposte dell’Associazione “A Roma Insieme-Leda Colombini”. “Sono risultati positivi al Coronavirus due medici e due infermieri che prestavano servizio nel complesso femminile del carcere di Rebibbia”. Lo ha detto all’agenzia Dire il segretario generale del sindacato generale del sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. “Questa segreteria generale - ha scritto Di Giacomo in una lettera inviata al capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, al Provveditore di Lazio-Abruzzo-Molise e al direttore del carcere Rebibbia Femminile - è venuta a conoscenza che un medico che prestava il proprio servizio all’interno dell’istituto è risultato affetto da Covid-19. Risulterebbe altresì che sono stati effettuati 7 tamponi alle detenute venute in contatto con il medico. Lamentele a riguardo giungono da parte degli operatori di Polizia Penitenziaria, ai quali risulterebbe non effettuato il tampone e nessuna precauzione per il possibile contagio è stata messa in atto”. In carcere 9 bambini con le mamme: “Fateli uscire”. “Nella sezione femminile di Rebibbia ci sono nove bambini che vivono con le mamme detenute. Dopo il caso accertato di medico positivo al Coronavirus si facciano uscire i bambini dal carcere affidandoli a familiari o ai servizi sociali o alle stesse madri agli arresti domiciliari”. È l’appello, come si legge in una nota, che il segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Lo stesso Di Giacomo ha rivolto al presidente della Repubblica Mattarella e ai ministri della Salute, Speranza, e Giustizia, Bonafede. “Una situazione di grande inciviltà che si aggiunge - ha affermato il sindacalista - all’autorevole e recente denuncia del presidente Mattarella sulla mancanza di dignità in carcere”. Dietro le sbarre 55 bambini con meno di 3 anni. Vivono in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 italiane. Per Di Giacomo: “non possono essere i bambini a pagare la sempre più grave disattenzione dell’Amministrazione penitenziaria che si manifesta in relazione alla crescente diffusione del contagio Covid-19 in tutte le carceri italiane. Questi bambini devono uscire subito”. Difendere salute e dignità. A l’appello del sindacato della Polizia Penitenziaria, si associa l’Associazione “A Roma Insieme - Leda Colombini”, che ha richiamato tutti i soggetti, a vario titolo responsabili, sulla necessità di prestare la massima attenzione alla realtà carceraria, in particolare su quella di Rebibbia femminile e della Sezione Nido, dove sono detenute 10 madri con i loro 10 bambini. “A ragione di ciò - si legge in una nota diffusa dall’Associazione - è oggi ancora più stringente la difesa e la tutela prioritaria dei diritti alla salute e alla dignità di queste persone, del personale penitenziario, delle operatrici ed operatori impegnati”. Si ribadisce così l’urgenza di assicurare tutte le misure che impediscano o riducano al minimo le possibilità di contagio; 1) - rendere utilizzabili tutti i mezzi di comunicazione telematica a detenute e detenuti, in attesa che i colloqui e le visite siano al più presto ripristinati; 2) - siano accelerate le procedure, già previste, per assicurare lo sfollamento delle celle; 3) - l’accesso al diritto all’effettività. Il virus è in carcere: “Bonafede, torni a bordo!” di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 aprile 2020 Il virus è in carcere. Finalmente il Dap ha fornito i dati ufficiali. 116 agenti contagiati e 19 detenuti. Tra i detenuti il numero è ancora basso, tra gli agenti è altissimo. Gli agenti sono circa 38mila in tutto. Se si fa la proporzione, e la si confronta con i contagiati in tutt’Italia, si vede che tra gli agenti di custodia il contagio è due volte superiore alla media nazionale. Naturalmente questo dato è tragico e fa capire che se non si provvede subito il carcere può diventare un inferno. Del resto, lo dicono da tempo i sindacati, gli avvocati, i giuristi, gli esperti, i magistrati: tutti. Però il ministro sta lì, imbambolato, non parla, non fa nulla, è solo terrorizzato dall’idea di dover cedere a provvedimenti di clemenza, che lui, in quanto grillino, ritiene il male dei mali e l’orrore morale. Si è mosso anche il Papa per chiedere un provvedimento. Non volete l’indulto, per ragioni di ideologia? Va bene, ci sono altre soluzioni. Quella per esempio indicata dalle Camere penali e dal Riformista: scarcerare subito tutti quelli che hanno meno di due anni da scontare. Più di ventimila persone. Si può fare per decreto, senza perdere tempo. È chiaro a chiunque che le carceri, con questo grado di affollamento, oltre a essere una bomba sanitaria e sociale, sono del tutto illegali. Cosa ci sta a fare il ministro della Giustizia sulla poltrona da ministro della Giustizia? Ci sono stati già 13 morti nelle carceri italiane, durante una piccola rivolta. Potremmo gridare come gridò il comandante De Falco nelle ore della tragedia della Costa Concordia: “Comandante Schettino, torni subito a bordo!”. Torni a bordo, Bonafede. Ma forse è molto meglio chiedere che il ministro lasci il campo. È evidente a tutti che non è il suo mestiere. Troppo rischioso tenerlo ancora lì. Ci vuole un ministro vero, almeno un po’ capace. Possibile che il Pd, Italia Viva, la sinistra di Speranza, non capiscano questa verità elementare? Il coronavirus infetta le carceri. A più di un mese dalle prime direttive emanate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, lo scorso 22 febbraio, sono 19 i detenuti positivi su una popolazione, ad oggi, di 58.035 unità. Di questi, due sono ricoverati in strutture ospedaliere, gli altri si trovano in isolamento sanitario, a sentire una nota del Ministero della Giustizia “in camere singole dotate di bagno autonomo all’interno di apposite sezioni detentive”, dove vengono effettuati tutti i controlli disposti dalle autorità sanitarie. Fra il personale di Polizia Penitenziaria sono 116, su quasi 38mila unità, i positivi al tampone: 17 sono ricoverati in ospedale, mentre la maggior parte si trova in isolamento fiduciario domiciliare o nel proprio alloggio in caserma. Proprio per prevenire al massimo la possibilità di contagi dall’esterno, sono state predisposte 145 tensostrutture davanti agli ingressi degli istituti penitenziari per il triage. Negli istituti dove non è presente la tensostruttura - ancora stando alle fonti di via Arenula - sono stati individuati appositi locali isolati. Per la comunità carceraria questi numeri sono inquietanti, e la risposta non si fa attendere: una “battitura” dai balconi di tutta Italia avrà luogo oggi alle 18 per far sentire fuori la voce dei carcerati e chiedere al governo di intervenire con provvedimenti più incisivi per evitare - come ha detto il Papa all’Angelus di domenica - che il coronavirus nelle carceri sovraffollate si trasformi in una tragedia. È il flash mob lanciato dalle famiglie dei detenuti e da numerose reti sociali “per far sentire alle persone detenute che non sono sole”. Niente canzoni dunque ma solo pentole, padelle, posate picchiate l’una contro l’altra e contro le ringhiere dei balconi. “I detenuti gridano tutti salvi, tutti a casa! Amnistia, indulto - si legge nel volantino del flash mob - facciamo una battitura dai nostri balconi, come loro fanno contro quelle maledette sbarre, appendiamo striscioni per amplificare le loro grida”, è l’invito. “Il numero di persone detenute attualmente risultate positive a seguito dei test estremamente contenuto”, ha commentato il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, aggiungendo che però il problema è potenzialmente molto pericoloso, in grado di esplodere, soprattutto perché se non si realizza la possibilità di allentamento del numero delle persone detenute all’interno degli spazi esistenti, non ci potranno essere situazioni di effettiva separazione”. E a chiedere “misure molto più incisive e di pressoché automatica applicazione, in grado di portare nel giro di pochi giorni la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare effettivamente disponibile”, sono tutti i garanti territoriali dei detenuti: espressione di enti con maggioranze politiche diverse che hanno rivolto un appello unanime al presidente della Repubblica, alle camere, ai sindaci e ai presidenti di Regione perché si faccia di più contro il sovraffollamento. “I provvedimenti legislativi presi dal Governo sono largamente al di sotto delle necessità”, denunciano. Anche i medici penitenziari lanciano l’allarme per la “assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus”: nelle carceri “potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”, avverte il presidente della Simspe, Luciano Lucania. Il grido di don Grimaldi: “rischiano di morire, subito un atto di clemenza” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 1 aprile 2020 Coordinatore di tutti i cappellani delle carceri, ha ispirato il messaggio di papa Francesco di domenica. “Il sovraffollamento raddoppia la pena. Chi ha sbagliato deve potersi rialzare”. Don Raffaele Grimaldi, 62 anni, per 23 anni è stato cappellano a Secondigliano, Napoli. Alle realtà di frontiera ha fatto il callo, tanto da essere stato individuato da tre anni come coordinatore di tutti i cappellani carcerari. Ispettore Generale delle carceri: un ruolo di regia che interagisce con i 250 cappellani che operano in Italia. Da quando lunedì scorso, all’Angelus, papa Francesco ha dedicato una supplica a braccio in favore dei detenuti, si è sparsa la voce che sia stata una sua informativa a muovere le parole del Pontefice. Lui si schernisce. “Il Santo Padre ha sempre in grande considerazione i detenuti, e di informative ne riceve diverse. Incluse le lettere stesse di tanti di loro, che gli scrivono. E le lettere dei famigliari, o dei miei colleghi cappellani”. Ma anche le sue informative, gli chiediamo. “Anche le mie informative, certo. I dati e le notizie che raccolgo girando l’Italia trovano sempre nella Santa Sede un interlocutore attento”. Il lavoro del cappellano dei cappellani, e del confessore dei confessori, non è facile, soprattutto se il terreno su cui ci si muove è quello sdrucciolevole della giustizia italiana. “Prima giravo l’Italia per incontrare e conoscere di persona, adesso sono confinato anche io. Allora mi attacco al telefono e cerco di chiamare un po’ tutti, a partire dalle case circondariali più importanti”. Con una missione ben precisa: “Dobbiamo trasmettere speranza a coloro che l’hanno smarrita, far capire che c’è un orizzonte alla fine della pena, per tutti. Anche per chi ha la detenzione a vita: si deve trovare un senso all’esistenza con la spiritualità, gli affetti, lo studio, il lavoro”. Alla rieducazione in carcere tiene particolarmente. “Lo scopo rieducativo della pena va messo in primo piano. Sa che con i direttori delle carceri ci troviamo spesso in sintonia, su questi aspetti? Sono sempre più sensibili alla possibilità di trovare delle attività socialmente utili per la popolazione detenuta”. Forse più loro che la politica, le istituzioni. “La politica è fatta dalle persone, noi parliamo al cuore degli uomini e non ai partiti”. Quando dice noi, Don Raffaele parla di “tutte le diocesi di Italia, perché sotto la diocesi di ogni Vescovo vengono raccolgono le grida di dolore che si levano dalle carceri. La Chiesa italiana è in ascolto di chi soffre, e raramente si soffre tanto come in stato di detenzione”. Torniamo alla politica, che è fatta di uomini, e si spera di uomini in ascolto. Perché c’è un appello che Don Raffaele indirizza al decisore pubblico. “Le carceri sovraffollate sono luoghi in cui la pena risulta raddoppiata: al problema del tempo si aggiunge quello dello spazio. Tanto tempo sospeso, in spazi angusti, con questo terribile incubo del Covid-19 che incombe”. E dunque? “Auspico un atto di misericordia e di clemenza. Abbiate misericordia, chi sta in carcere oggi rischia la vita. Incoraggio chi ha responsabilità pubbliche a compiere delle scelte umanitarie. Non si può mettere in pericolo la vita delle persone, che è un bene superiore”. Un atto di clemenza e di misericordia, come quello esortato quindici anni fa dalle parole di San Giovanni Paolo II. Don Raffaele ne ha parlato anche alla comunità carceraria tramite una lettera aperta: “Ho scritto un appello alla responsabilità di tutti, chiedendo anche ai detenuti di astenersi dai comportamenti violenti. Un dialogo aperto tra le parti, ecco la missione più profonda della Chiesa nei luoghi dove c’è sofferenza”. Con il Ministro Bonafede si sono incontrati già due volte. “È venuto anche lui a trovarmi nel mio ufficio”, racconta. Poi però di iniziative concrete non se ne sono viste. Umanamente comprendo le difficoltà che un ministro, come quello della giustizia, si trova oggi ad affrontare. I problemi sono oggettivi. Fanno bene le associazioni di volontariato che stimolano il governo a fare di più”. Fa però suo il grido di allarme di Papa Francesco. “Noi tutti ci uniamo alla preghiera del Santo Padre. La giustizia è tale se conosce la clemenza. Si torni a dare attenzione alla persona: chi ha sbagliato deve essere messo in condizione di rialzarsi”. Scuole in carcere, si faccia di più per la didattica a distanza: alcune richieste di Lara La Gatta tecnicadellascuola.it, 1 aprile 2020 Ci siamo già occupati delle scuole in carcere e delle problematiche relative alla possibilità di continuare la didattica anche per i cosiddetti studenti “ristretti”. Dopo le lettere, i comunicati e i monitoraggi per comprendere come e se si stava intervenendo nei percorsi di istruzione nelle carceri, i docenti della rete delle scuole ristrette scendono nuovamente in campo per chiedere con forza di intervenire in modo deciso per ripristinare anche nelle istituzioni penitenziarie, così come sta avvenendo in tutte le scuole “normali”, il contatto, seppur virtuale, tra docenti e studenti “ristretti”, perché la scuola in carcere esiste ed è operativa. Si tratta, come avevamo già avuto modo di rilevare, di una platea ampia: nel 2018 si sono iscritti ai corsi scolastici 20.357 persone detenute, oltre 2.000 in più rispetto all’anno precedente. Gli iscritti risultano essere il 34,64% dei presenti in carcere, due punti percentuali in più rispetto allo stesso calcolo effettuato l’anno precedente. In pratica, un terzo della popolazione detenuta è iscritta a corsi scolastici. Tuttavia, come è stato rilevato tramite il monitoraggio condotto dalla rete delle scuole ristrette, la scuola carceraria risulta essere totalmente esclusa da qualunque tipo di rapporto con i propri docenti, con i quali gli studenti detenuti trascorrono per nove mesi l’anno ogni giorno almeno quattro ore. Le ripercussioni della mancanza di relazione tra docente e studente si stanno già facendo sentire, con il rischio di azzerare i progressi compiuti dagli studenti detenuti che hanno iniziato con profitto e interesse il proprio percorso scolastico. Scrivono i docenti della rete delle scuole ristrette: “Lungi da noi l’idea, in un momento così difficile per la Storia della nostra Repubblica, di polemizzare sterilmente, ma poiché a scuola, almeno per la didattica ordinaria, non si tornerà, per i nostri studenti “ristretti” l’anno scolastico è destinato a fallire miseramente, per non parlare degli Esami di maturità, che gli alunni in carcere, totalmente allo sbando per aver ricevuto al massimo qualche fotocopia, non saranno in grado di sostenere neppure con i docenti interni. A meno che non si stia intendendo tacitamente che bisogna promuovere tutti e con gli stessi voti, perché tanto lo studio in carcere vale meno di niente”. Queste dunque le richieste rivolte ai Ministri dell’Istruzione e della Giustizia, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Garante Nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, alla rete dei Garanti regionali e cittadini: farsi parte attiva per realizzare (e si può) percorsi di teledidattica in carcere (visto il fallimento di utilizzare Skype in carcere a fini didattici) e riservare agli studenti “ristretti” spazi nei quali possano stare coloro che hanno scelto di frequentare un percorso di studio, per avere a disposizione, almeno in quegli spazi, biblioteche che siano degne di questo nome, fornite anche di testi scolastici disponibili sempre per tutti, con computer dove consultare pacchetti formativi utilizzabili per ogni necessità, dall’alfabetizzazione allo studio universitario. E concludono con un appello alle case editrici: donare agli istituti penitenziari - in base al numero degli iscritti ai corsi - i testi che le scuole di riferimento esterne al carcere adottano. Dal carcere la solidarietà che non ti aspetti di Davide Dionisi vaticannews.va, 1 aprile 2020 Detenuti impegnati nella raccolta fondi, nella donazione di sangue e nella realizzazione di mascherine. Di fronte ad emergenze come questa, ogni persona ha il preciso dovere di aiutare chi si sforza di alleviare i bisogni del prossimo. Avranno pensato questo i tanti detenuti che, all’indomani della diffusione del coronavirus, hanno dato il via ad una gara di solidarietà che ogni giorno si arricchisce di nuove iniziative e progetti in aiuto alla comunità che fuori è alle prese con un nemico invisibile. Una gara per confermare che non è tutto negativo quello che c’è nel carcere e dimostrare che i percorsi di ravvedimento sono più evidenti quando gli eventi esterni sono tanto straordinari, quanto nefasti. La buona notizia è che da nord a sud dell’Italia la gente si sta rimboccando le maniche per aiutare, anche a distanza, gli ospedali, le famiglie che hanno perso i cari e persino le persone bisognose di aiuti che, in tempi ordinari, troverebbero ovunque ma che, oggi, non vengono ascoltate. Si va dalla raccolta fondi, alla donazione del sangue, dalla realizzazione di striscioni colorati con messaggi di incoraggiamento, fino alla trasformazione dei laboratori sartoriali in piccole fabbriche di mascherine e dispositivi di protezione individuale. Domenico Schiattone del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania spiega che: “Se si parla di carcere, si dicono sempre cose negative. In questa fase, ma anche in tanti altri periodi dell’anno, c’è un’attenzione particolare di detenute e detenuti responsabili che, dissociandosi apertamente dalle forme di protesta registrate in alcuni istituti di pena, hanno deciso di promuovere una serie di iniziative virtuose. A Pozzuoli, per esempio, sono stati raccolti fondi da destinare all’Ospedale Cotugno che, come sappiamo, è in prima linea nella cura dei malati”. Sempre a Pozzuoli, continua Schiattone, “una detenuta è stata assegnata ad una Onlus che si occupa di Africa e coronavirus. Altre hanno deciso di manifestare la loro vicinanza alla comunità locale esponendo un maxi striscione con lo slogan “Andrà tutto bene”. Iniziative frutto di una particolare attenzione da parte delle singole direzioni o maggiore sensibilità causata dal timore per il futuro? “È un po’ quello che sta accadendo anche nel mondo cosiddetto libero” risponde il dirigente del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania: “Questo ci dimostra che i detenuti non sono diversi da noi. Sono persone che hanno sbagliato ma mantengono la loro umanità. Bisogna altrettanto dire che le amministrazioni stanno facendo la loro parte da Salerno a Santa Maria Capua Vetere, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento fino a Secondigliano. C’è una vera e propria gara a far sentire la propria vicinanza”. Dalla Campania al Veneto, la solidarietà non conosce sosta. Qui le 71 donne del carcere femminile della Giudecca sono riuscite a mettere insieme 110 euro e le hanno donate al reparto di terapia intensiva dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, un altro presidio di trincea. “Non è una grande cifra, ma è un gesto altamente simbolico” osserva Liri Longo, che presiede la cooperativa Rio Terà dei Pensieri, realtà storica degli istituti veneziani. “Le ospiti della Giudecca hanno voluto così dire che, pur nella difficoltà che stiamo vivendo, non è necessario ricorrere alla forza e alla violenza. Il loro messaggio è più o meno il seguente: siamo spaventate per quello che sta succedendo, ma vogliamo aiutare, per quanto e come possiamo, la sanità pubblica” prosegue Liri Longo, specificando però che: “Ciò si verifica quando la gestione degli istituti avviene dentro le regole. Ovvero all’interno delle norme di capienza, nel rispetto degli standard di sicurezza sia da una parte che dall’altra. Il che fa sentire le persone recluse non in pericolo. C’è da dire che qui non esistono problemi di sovraffollamento, perché la struttura è piccola e di conseguenza è più facile la gestione. In un contesto così non ci si sente abbandonati e quindi si può dare maggiore spazio alla creatività e alla proposta costruttiva”. Iniziative di solidarietà anche ad Avellino, dove il direttore della Casa circondariale Bellizzi, Paolo Pastena, è molto vicino agli ospiti della sua struttura e ha consentito fin da subito il proseguimento dei contatti con i familiari attraverso le videochiamate. “Il legame con i cari è fondamentale - chiarisce. La loro preoccupazione è tanta, ma finora hanno mostrato un alto senso di responsabilità, rispettando le distanze di sicurezza e le norme che tutti noi abbiamo imparato a rispettare per non infettarci”. Ma “la vera sorpresa è stata - aggiunge - quando hanno chiesto di donare il sangue, dopo aver appreso della carenza soprattutto in questo periodo. Una settantina di ospiti hanno aderito e, devo dire, che assistere ad uno slancio di generosità come questo, soprattutto ora, è un fatto eccezionale. Il carcere, per come lo intendo io, deve cercare di tirar fuori tutte le qualità positive delle persone ristrette. Episodi come questi dimostrano che ci si può riuscire e, aggiungo, che dentro esistono tanti elementi di umanità che fuori troppo spesso sfuggono. Noi vogliamo valorizzarli nella maniera migliore possibile. Donando il sangue i detenuti si sentiranno protagonisti, nella tutela della salute pubblica, al fianco di medici ed infermieri che stanno rischiando la vita ogni giorno”. E nella categoria degli eroi che ogni giorno rischiano la vita per assistere i malati, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, inserisce a pieno titolo i cappellani: “Oggi sono l’avanguardia della Chiesa”, sottolinea e chiarisce: “Sono gli angeli della prima frontiera, al pari del personale sanitario impegnato in questa sfida epocale. Hanno una analoga responsabilità e svolgono una straordinaria opera di misericordia. Dobbiamo sostenerli costantemente con la nostra preghiera”. Colpo alla giustizia penale, si apre il dibattito sull’amnistia di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 1 aprile 2020 Amnistia o la giustizia penale collasserà senza rimedio: con un post su Facebook il giudice Tullio Morello ufficializza la sua opinione e dà il via al dibattito (non senza polemiche). “La paralisi dei processi penali ordinari determinata dall’emergenza Covid19 che si prospetta abbastanza lunga - scrive il magistrato - assesterà il ko definitivo a un sistema in grande affanno da tantissimi anni. Impossibile prevedere un minimo di risultati per la giustizia penale nei prossimi anni, anche inferiori a quelli insoddisfacenti di ora, senza interventi importanti. L’unico possibile rimedio, atteso dall’introduzione del nuovo codice, oramai urgente e improcrastinabile per mille motivi anche di emergenza sanitaria, sarebbe quello di una sostanziosa amnistia. Sarà impossibile non disporla da qui a qualche tempo e allora meglio adottarla il prima possibile”. Molti addetti ai lavori si dicono d’accordo con lui; gli avvocati penalisti innanzitutto, tra cui Alberto Varano: “L’ultima risale al nuovo codice, con l’aggravante che fecero uscire prima solo l’amnistia ricordandosi poi dell’indulto a dicembre 1990 creando ovviamente un casino immane sotto Natale. Amnistia e indulto vanno insieme, come salsiccia e friarielli”. Ma anche svariati colleghi di Morello la pensano come lui, per esempio il giudice Umberto Lucarelli: “Hai scritto una cosa che penso anch’io. Un Paese in cui la giustizia penale è bloccata è al di fuori dello stato di diritto e rinvii a breve nella competenza monocratica sono impossibili”. Sulla stessa lunghezza d’onda la collega Luisa Toscano: “Sono d’accordo. Penso che nel “dopoguerra” è l’unica soluzione possibile”. Sul fronte opposto è attestato l’avvocato Gaetano Balice, che è anche componente della Camera penale: “Non sono d’accordo. Prima di pensare a amnistia e indulto occorre che il servizio giustizia cambi e si renda efficiente. Diversamente, in poco tempo, torneremo punto a capo. Come è sempre successo. Anche l’Agenzia delle Entrate accumulerà un grande ritardo, saresti d’accordo per un condono fiscale tombale?”. Scettico il commento di risposta di Morello: “Efficiente con i numeri di ora è impossibile, inutile girarci attorno”. Su un punto, in ogni caso, sono tutti d’accordo: l’emergenza per il Coronavirus ha assestato il colpo finale agli uffici giudiziari. Riforma intercettazioni poco incisiva sulla privacy di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Rischia di essere scarsamente incisiva sul fronte della tutela della privacy e comunque con non banali problemi di prima applicazione la riforma delle intercettazioni in vigore tra un mese. Lo sottolinea la Corte di cassazione in una densa relazione dell’Ufficio del massimario. Se la riforma, sin dalla prima versione, quella del 2017 firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, puntava a rafforzare la tutela della riservatezza a fronte delle indubbie necessità investigative, l’obiettivo non pare raggiunto. La Cassazione, infatti, sottolinea come la norma che impone al Pm un dovere di vigilanza sull’inserimento nei brogliacci di espressioni lesive della reputazione altrui potrebbe rivelarsi inefficace nella realtà. E questo per una serie di fattori. Innanzitutto per l’assenza di un espresso divieto, poi per la mancanza di una sanzione processuale e per l’ampiezza del criterio selettivo. Il tutto potrebbe rendere impossibile evitare l’ingresso nei brogliacci di ascolto di comunicazioni che, in seguito, si possono rivelare di nessuna utilità probatoria ma che, nello stesso tempo, possono determinare una rilevante lesione alla riservatezza delle persone coinvolte. Problematica poi la previsione dell’applicazione ai procedimenti iscritti dopo il 30 aprile perché potrebbe far nascere questioni di diritto transitorio, per esempio, nel caso in cui all’iscrizione di un reato, avvenuta prima del 30 aprile, ne seguano altre in epoca successiva aventi ad oggetto nuovi titoli di reato. In questa ipotesi, puntualizza la Cassazione, l’eventuale applicazione del principio dell’autonomia di ogni iscrizione, che è stato elaborato ai fini del computo del termine di durata delle indagini preliminari, determinerebbe l’applicazione delle nuove norme per le indagini relative alle successive iscrizioni. Con l’effetto paradossale di un doppio regime nella medesima inchiesta. Questioni di diritto intertemporale potrebbero porsi anche qualora 2 o più procedimenti, con una diversa data di iscrizione, per alcuni antecedente e per altri successiva al 30 aprile, siano stati riuniti oppure quando da un procedimento iscritto prima del 30 aprile ne scaturisca, per separazione, un altro iscritto dopo tale data. Della riforma fa parte anche una nuova disciplina dell’utilizzo dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, diversi da quelli per i quali sono state autorizzate. A patto che siano “rilevanti” e “indispensabili”. “Questa locuzione - osserva il Massimario -, che aggiunge al carattere di indispensabilità, anche quello di rilevanza, pare presupporre, ancor più di prima, una valutazione del “peso” del mezzo di prova, rimessa al giudicante e di difficile circoscrivibilità”. Facebook, legittima la chiusura di pagine che incitano all’odio di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Tribunale di Roma - Ordinanza 24 febbraio 2020 n. 64894. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero politico incontra il limite del rispetto degli altrui diritti fondamentali, primo tra tutti il rispetto della dignità umana ed il divieto di tutte le discriminazioni, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona umana. In altre parole la libertà di manifestazione del pensiero non include discorsi ostili e discriminatori che invece sono vietati a vari livelli dall’ordinamento interno e sovranazionale. Chiarisce il Tribunale di Roma nell’ordinanza RG 64894/19 pubblicata il 24 febbraio 2020, che un ruolo di controllo fondamentale su tali “messaggi” spetta ai social media network come Facebook, con riferimento al rischio della diffusione in forma “virale” di incitamenti all’odio e alla discriminazione, e con il significativo impatto sui diritti umani che una simile massiva diffusione sul web può avere sulla società. La vicenda - Facebook rimuoveva i profili degli amministratori di alcune pagine riconducibili alle diverse articolazioni territoriali di una organizzazione ritenuta gruppo che effettuava propaganda razzista, xenofoba, antisemita e neofascista. Il motivo comunicato agli iscritti riguardava contenuti contrari agli standard della comunità del social network. Dal che gli interessati lamentavano al Giudice l’illiceità della condotta del social network nei loro confronti in quanto, a loro dire, lesiva del diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero. Gli interessati inoltre asserivano di non aver veicolato contenuti d’odio e chiedevano il ripristino dei loro account con tutte le collegate pagine amministrate. La decisione - Allegando una corposa mole di materiale esemplificativo, il Tribunale di Roma ha giudicato che i contenuti, che inizialmente erano stati rimossi e poi a fronte della reiterata violazione avevano comportato la disattivazione degli account, sono illeciti da numerosi punti di vista. Dal che Facebook non solo poteva risolvere il contratto grazie alle clausole contrattuali accettate al momento della sua conclusione, ma, una volta venutone a conoscenza, aveva anche il preciso dovere “legale” di rimuovere i contenuti, rischiando altrimenti di incorrere in pertinenti responsabilità. Un dovere imposto anche dal codice di condotta sottoscritto con la Commissione Europea. Va evidenziato che nel nostro sistema ordinamentale nessuna forza politica, pena la sua immediata chiusura e responsabilità legale, può esplicitamente rifarsi all’ideologia fascista o nazista, al razzismo, alla xenofobia o, in generale, proclamare idee apertamente discriminatorie. Nel caso di specie non si tratta di una generalizzata compressione per via giudiziaria della libertà di espressione di singoli individui o di un gruppo, ma della possibilità di accedere ad uno specifico social network/social media, strumento attraverso il quale i produttori di contenuti sono in grado di raggiungere moltissime persone. In altre parole la compressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero è giustificata dal fatto che la tolleranza e il rispetto della dignità di tutti gli esseri umani costituiscono il fondamento di una società democratica e pluralista. Ne consegue che, in via di principio, si può considerare necessario, nelle società democratiche, sanzionare e cercare di prevenire tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio basato sull’intolleranza e le discriminazioni. A ben vedere un’espressione discriminatoria o di odio, lasciata virale e non controllata, può creare un clima e un ambiente che inquina il dibattito pubblico e può persino nuocere coloro che non sono utenti della piattaforma web. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero è sacrosanto ma può incorrere in limitazioni proprio in materia di incitamento all’odio. I discorsi d’odio in grado di negare il valore stesso della persona umana non rientrano nell’ambito di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, la quale non può spingersi sino a negare i principi fondamentali e inviolabili del nostro ordinamento costituzionale. E nel caso di specie per certo rileva inoltre: l’effetto moltiplicatore di internet e del social network; la velocità istantanea di diffusione dei messaggi postati; la possibilità di raggiungere immediatamente milioni di destinatari; la capacità del contenuto offensivo di sopravvivere per un lungo arco di tempo oltre la sua immissione, ed anche in parti del web diverse da quelle della sede in cui era stato originariamente inserito. Ma non solo. Sotto altra ottica evidenzia il Tribunale di Roma che, in assenza di evidenti differenze contenutistiche tra l’online e l’offline hate speech, dissomiglianze sono individuabili in alcune componenti strutturali della rete, che possono fungere da fattori agevolatori dei messaggi discriminatori, aumentandone di conseguenza le potenzialità lesive nel mondo virtuale, ma anche in quello “reale”. Per il riconoscimento della continuazione si può portare la sentenza pubblicata sulla rivista giuridica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 31 marzo 2020 n. 10904. Per ottenere il riconoscimento della continuazione con fatti già giudicati, la difesa può produrre una copia della sentenza anche se presa da una rivista giuridica, e dunque senza il nome delle parti e priva di data. La Corte di cassazione, con la sentenza 10904, accoglie sul punto il ricorso di uno stalker, rigettandolo nel resto, al quale era stata negata la continuazione ai fini del riconoscimento di un unico disegno criminoso, in virtù di una precedente condanna per condotte persecutorie nei confronti della ex moglie. I giudici di merito avevano negato che per dimostrare il “pregresso” fosse sufficiente portare la copia del verdetto della Suprema corte, pubblicato su una rivista giuridica con i dati oscurati. Per la Suprema corte invece si può, anche volendo aderire alla giurisprudenza più restrittiva. I giudici ricordano, infatti, il principio secondo il quale l’imputato che intende richiedere, nel giudizio di cognizione, “il riconoscimento della continuazione in riferimento a reati già giudicati non può limitarsi a indicare gli estremi delle sentenze rilevanti a tal fine, ma ha l’onere di produrne la copia”. Per la giurisprudenza più “severa” non si può, infatti, estendere alla fase di cognizione ciò che è concesso in fase esecutiva. Una maglia più stretta giustificata dall’esigenza di impedire richieste dilatorie e garantire la celerità del rito. Nel caso esaminato però, precisano i giudici di legittimità l’imputato non si era limitato a fornire gli estremi della decisione della Suprema corte. Partendo dalla sentenza pubblicata dalla stampa specializzata, prodotta in Corte d’Appello insieme al casellario giudiziario, sarebbe stato agevole verificare che l’imputato era stato giudicato con sentenza irrevocabile per gli stessi fatti. Nessuna sanzione penale per l’ingiuria in video chat di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2020 Corte di cassazione - Sentenza 31 marzo 2020 n. 10905. Non incorre nel rischio di una sanzione penale chi insulta l’interlocutore in una video chat, anche se alla presenza di più persone. Non scatta infatti il reato di diffamazione, dal momento che la persona offesa è presente, ma si rientra nella fattispecie dell’ingiuria che però è stata depenalizzata dalla legge n. 7 del 2016. La Corte di cassazione, sentenza n. 10905 di ieri, ha così accolto il ricorso di un uomo che era stato condannato al pagamento di 600 euro di multa. Secondo la Corte di appello di Milano, che a sua volta aveva confermato la condanna del Tribunale di Monza, invece, l’imputato era colpevole di diffamazione per aver offeso la vittima tramite una video chat accessibile “ad un numero indeterminato di persone”. Contro questa decisione il ricorrente ha dedotto violazione di legge “per aver ritenuto sussistente il reato di diffamazione, anziché la fattispecie di ingiuria”. Gli insulti infatti erano stati rivolti attraverso la piattaforma “Google Hangouts, diversa dalle altre piattaforme chat digitali che sono ‘leggibili’ anche da più persone”. Inoltre il destinatario dei messaggi “era solo la persona offesa e la video chat aveva carattere temporaneo”, ne rilevava in alcun modo che all’ascolto vi fossero anche altri utenti. Per la Cassazione il ricorso è fondato. Secondo la Quinta sezione penale infatti è incontroverso che le espressioni offensive sona state pronunciate dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza di altre persone invitate nella chat vocale; tuttavia, “l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione - rammenta la Corte - è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore”. Ne consegue che il fatto deve essere qualificato come ingiuria “aggravata dalla presenza di più persone” (ai sensi dell’articolo 594, c.p.), reato che, però, come detto, è stato depenalizzato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), della legge 15 gennaio 2016 n. 7. La sentenza impugnata è stata quindi annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Udine. Ventiduenne muore in carcere, aperta un’indagine di Anna Dazzan udinetoday.it, 1 aprile 2020 Si chiamava Ziad Dzhihad Krizh, aveva 22 anni, ed è morto lo scorso 15 marzo nel carcere di Udine di via Spalato, per cause ancora da chiarire. Di certo si sa che la sua morte nulla ha a che fare con il Coronavirus, visto che è stato effettuato un tampone che ha dato esito negativo. Un’indagine è stata aperta dalla Procura della Repubblica di Udine, ma a occuparsi della vicenda c’è anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, con cui anche l’attivista sui diritti dei detenuti del Partito Radicale Monica Bizaj ha parlato immediatamente dopo aver saputo della morte di Krizh. L’attivista - “Ziad era in carcere da alcuni mesi per possesso e spaccio di stupefacenti - dichiara Bizaj - e una volta saputo della sua morte ci siamo attivati per capire cosa sia successo, visto che sapevamo che era un consumatore di droghe leggere, ma non pensavamo fosse in pericolo di vita per questo”. Il ragazzo - Krizh, di origine bulgara, viveva in Italia da quando era bambino, con la mamma e un fratello più piccolo. Negli ultimi anni si era trasferiti in Francia e proprio lì, da quanto appreso, il giovane era stato raggiunto da un mandato di arresto europeo lo scorso agosto. Già nel febbraio del 2016 il ragazzo era stato arrestato una prima volta qui a Udine, con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio: addosso, l’allora neo maggiorenne, aveva 16 grammi di cocaina divisi in diverse dosi pronte per lo spaccio, oltre ad alcuni involucri contenenti marijuana. Secondo quanto riferito dalla madre, residente da anni a Campoformido insieme al figlio minore, il giovane è stato assolto per questo caso. I dubbi - Ma sebbene le sue abitudini fossero note anche agli amici friulani, sono proprio loro a sollevare dubbi e perplessità rispetto alle circostanze della morte dopo aver letto una lettera diffusa dall’Assemblea permanente contro il carcere e la repressione. Un’amica di Udine è in costante contatto con la mamma del giovane, in attesa di parlare con il pubblico ministero. A quanto pare negli ultimi periodi il 22enne - secondo il racconto dell’amica - accusava dolori alla schiena, per cui si sarebbe resa necessaria l’assunzione di famaci. Tutte le ipotesi relative al suo stato di salute troveranno conferma o smentita soltanto con i risultati completi dell’esame autoptico. La madre, comunque ci riferisce che aveva parlato con lui il giorno prima del decesso, sabato 14 marzo “e stava bene, con febbre da 2 giorni e aveva detto che lo stavano curando con paracetamolo”. Il Garante - “Quello che sappiamo è che Krizh è stato trovato la mattina presto di domenica 15 marzo nel suo letto ed è stata subito predisposta l’autopsia, trattandosi di morte naturale. Si trattava di un giovane in appello, con una condanna che lo avrebbe tenuto in carcere fino al 2028”. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ha subito preso in carico la situazione. “Krizh, che non aveva ancora compiuto 23 anni, era un giovane noto al Sert ed era seguito farmacologicamente. Quello che noi abbiamo fatto è stato richiedere anche la scheda di reato, ma si tratta per certo di una situazione giudiziaria non lieve. Inoltre sono stati chiesti dati sulle condizioni di salute con cui il ragazzo è entrato alla casa circondariale: sono da capire non solo le sue condizioni all’inizio della detenzione, ma anche il percorso farmacologico che ha avuto, visto che è certo ci sia stato un aumento di terapia negli ultimi periodi”. Collaborare - Palma conferma la collaborazione con la Procura della Repubblica. “Noi approfondiamo sempre questi casi, ma affidandoci totalmente all’indagine della Procura, con cui abbiamo un buon dialogo. Nei casi cui non c’è chiarezza ci costituiamo anche persona offesa per poter avere accesso agli atti, ma in questo caso il dubbio è più che altro sul “caso umano” rispetto alla vita di Krizh”. In altre parole, il Garante dichiara che in questo caso “il percorso, da quello che emerge dalle carte, è abbastanza lineare ed è classificato come decesso per cause naturali. Sicuramente si tratterà di capire meglio - continua Palma - e la questione la seguiamo per comprendere se vengono fatti tutti i dovuti approfondimenti. Sappiamo che in passato c’erano stati dei problemi di autolesionismo e quello che è certo è che non abbandoniamo il caso”. “Morire a 22 anni in carcere a Udine. Ora c’è il nome”, di Franco Corleone (L’Espresso) Finalmente si conosce il nome del giovane morto nel carcere di Via Spalato a Udine grazie a Udinetoday. Si chiamava Ziad Dzhihad Krizh ed era di origine bulgara, ma viveva in Italia da quando era bambino. Pare che si fosse trasferito in Francia e che sia stato estradato in Italia sulla base di un mandato di arresto europeo nell’agosto scorso. Non si sa se il processo si sia svolto dopo il rientro in Italia o avesse una condanna precedente, che comunque in primo grado fu determinata in otto anni di carcere per spaccio di sostanze stupefacenti. Era in attesa del processo di appello. Sono alla ricerca dell’avvocato per avere maggiori elementi. Mauro Palma, il garante nazionale delle persone provate della libertà personale sta seguendo la vicenda con la Procura della repubblica e con l’Amministrazione penitenziaria e ha dichiarato che il giovane era seguito dal Sert. La morte è stata dichiarata legata a un fatto naturale, ma una morte improvvisa in una persona così giovane, suscita dubbi che devono essere fugati sulle cause. Quali farmaci sono stati somministrati e soprattutto in che quantità? L’autopsia è stata effettuata per una verifica dei segni esteriori, mentre per l’esame completo i periti hanno a disposizione 60 giorni per il deposito dei risultati. Quel che è certo che Krizh è morto e non certo dopo una cena con ostriche, caviale e champagne. Il silenzio sulla tragedia è comunque allarmante. Altro che carcere trasparente; l’omertà è davvero il tratto distintivo di questo disgraziato Paese. Roma. “Giustizia, si riparte a maggio”, il piano del presidente del tribunale di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 1 aprile 2020 Immagina tre step per riaccendere i motori della giustizia nella Capitale, il presidente del tribunale di Roma, Francesco Monastero. Perché ad oggi l’attività è paralizzata. Il coronavirus, ovviamente, ha bloccato il lavoro dei giudici, degli avvocati, dei cancellieri e delle forze dell’ordine. L’eccezione riguarda solo processi indifferibili. Al penale, ad esempio, si fanno solo le direttissime dove vengono giudicate le persone arrestate in flagranza. E al civile si tiene udienza per i ricorsi dei richiedenti asilo. ll presidente della camera penale di Roma, Cesare Placanica, ha posto il problema. “Quando ripartirà la macchina?”. Una situazione chiara a Monastero che sta studiando un piano per riavviare tutto. Il presidente del tribunale lo comunicherà la settimana prossima. Un progetto, tuttavia, che è suscettibile di modifiche in relazione alle variabili collegate all’emergenza Covid-19. Prima di tutto occorrerà un rodaggio. Quindici giorni di tempo in cui i tribunali aumenteranno lievemente il personale amministrativo, cancellieri e segretarie. Il primo step riguarda il periodo che va dal 16 aprile al 30 aprile. In queste due settimane l’attività non cambierà di molto rispetto alla condizione attuale. Ad oggi, degli 800 dipendenti amministrativi, in sede ne lavorano 250. L’obiettivo è iniziare ad accrescere questa presenza. Sarà il secondo step a dare un primo cambio di marcia: dai primi di maggio si inizierà a calendarizzare delle udienze. Un iniziale leggero carico di lavoro. Cercando di far confluire meno persone possibili nei palazzi di giustizia. Si andrà avanti con questo schema fino ai primi di giugno. Infine il terzo step prevede la ripresa delle attività dei tribunali vicina al 50%. In pratica un massimo di 3-4 udienze per sezione, di solito sono 10 con picchi anche di 20. In modo tale da non intasare le aule, come accade di solito quando ci sono troppe persone che le gremiscono tra legali, imputati e personale amministrativo. A settembre si spera che i tribunali potranno ritornare a regime. Un piano che lo stesso Monastero condividerà con l’autorità sanitaria regionale, il presidente dell’Ordine degli avvocati e della Corte d’Appello. Ma oltre all’attività dei tribunali esiste anche un altro grande problema collegato alla giustizia: “Con l’emergenza dovuta al coronavirus la situazione in carcere diventerà esplosiva”. Ha pochi dubbi, a riguardo, Cesare Placanica. “Le tensioni sono alte, e se ne sono accorti sia il Capo dello Stato che il Papa”. I numeri nella Capitale danno ragione al presidente della camera penale di Roma. Nei due penitenziari romani la condizione è delicata. Regina Coeli ospita 1000 detenuti, ma la sua capienza dovrebbe essere al massimo di 600 unità. Condizione perfino peggiore per Rebibbia nuovo complesso, qui non si dovrebbero superare le 1000 unità, oggi sono stipate 1600 persone. Ai tempi del Covid-19 il sovraffollamento diventa, perciò, un problema ulteriore. Non si tratta più solo di scontare una pena in modo giusto, adesso anche una questione sanitaria. In pratica, se dovesse diffondersi il coronavirus nei penitenziari della Capitale, bisognerebbe mettere un detenuto per cella per poter fare la quarantena. “Dati i numeri né a Regina Coeli né a Rebibbia questo sarebbe possibile”, denuncia il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. E allora uno dei modi per ridurre la pressione sarebbe quello di spedire ai domiciliari tutti i detenuti che sono a fine pena. Ma l’intero meccanismo sembra essere inceppato, attacca Placanica: “Se proponi una riforma secondo la quale sotto una certa pena il detenuto va ai domiciliari col braccialetto elettronico, e tutti sanno che non c’è disponibilità di braccialetti elettronici, allora già sai che è una riforma irrealizzabile e che si tratta di una proposta ipocrita”. Milano. I detenuti vogliono uscire: un tribunale da campo per rispondere alle istanze di Monica Serra La Stampa, 1 aprile 2020 Mentre nelle carceri i detenuti sono spaventati dai contagi, il Tribunale di Sorveglianza di Milano devastato dall’incendio di sabato notte si è attrezzato con un “tribunale da campo”. Sulla tavola nera e ovale sono state ricavate cinque postazioni computer con qualche stampante e uno scanner, in un’aula al primo piano del Palazzo di Giustizia, destinata ai praticanti della Corte d’Appello. Un’emergenza nell’emergenza coronavirus, se si pensa che “nelle ultime due settimane sono state giustamente presentate centinaia di istanze di misure alternative o di scarcerazione al giorno”, dice la presidente, Giovanna Di Rosa. In tempi normali, per portare avanti il lavoro sono impiegate una cinquantina di persone, tra magistrati e personale amministrativo. Ma l’attività per gestire le sole urgenze, da121 febbraio a oggi, si è moltiplicata. “Le carceri sono sovraffollate. Tanti detenuti con patologie o ultrasessantenni, magari vicini alla fine della pena, in questo momento hanno diritto a uscire”, spiega la presidente. “Noi in queste condizioni proviamo a fare il possibile. Ma la gestione dell’emergenza sanitaria, in istituti che esplodono e dove è impossibile realizzare adeguate aree di isolamento, non si può demandare a una magistratura che, tra l’altro, ha a disposizione solo gli strumenti classici per agire”. Per questo, prosegue la presidente Di Rosa “è necessario un provvedimento automatico per i detenuti che lo meriterebbero. Il virus corre, non aspetta i tempi della burocrazia giudiziaria”. Dello stesso avviso sono gli avvocati della Camera Penale, che chiedono che “il Governo o il Parlamento valutino il problema tenendo conto dell’emergenza coronavirus e di quella milanese, in cui i giudici non sono più nelle condizioni di lavorare”, dice il presidente Andrea Soliani. E il Garante dei detenuti, Franco Maisto, che denuncia “l’assenza di un numero adeguato di dispositivi di protezione, la mancanza di spazi, le preoccupazioni dei reclusi che non possono vedere i familiari. Per non parlare del fatto che, in tempi normali, la patologia di un detenuto lo rende incompatibile con le carceri che non gli offrono un servizio medico adeguato. Ora lo rende incompatibile con l’intero sistema”. Gli ultimi dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria parlano di soli 19 reclusi positivi (su una popolazione di 58. 035) e di 116 agenti della Penitenziaria, in tutta Italia. Numeri inverosimili per molti, se si pensa che nella sola Lombardia, lunedì è stato denunciato che, in 24 ore, 16 i detenuti e 24 agenti erano risultati positivi al tampone. Napoli. I detenuti di Secondigliano: “Celle sovraffollate, il virus può fare una strage” metropolisweb.it, 1 aprile 2020 Une lettera di due pagine inviata al Papa e ai vertici del Governo. Due pagine scritte da un gruppo di detenuti del Reparto S4 del carcere di Secondigliano per chiedere attenzione, quella che stanno rivendicando dall’inizio dell’emergenza Covid-19. “Siamo stati tranquilli - scrivono - nel momento in cui ci sono stati sospesi i colloqui, non perché non eravamo sconvolti, anzi, ma perché abbiamo compreso subito l’alto rischio di contagio a cui saremmo andati incontro, se avessimo avuto contatti con i nostri familiari. Però man mano abbiamo metabolizzato questa crisi epidemiologica, adesso iniziamo ad avere le nostre paure e i nostri dubbi. Partiamo dal presupposto che le pene vanno pagate con la privazione della libertà, non con la privazione della dignità e della vita stessa”. Sottolineano la paura che il virus possa superare anche le barriere del carcere e diventare così “una bomba pronta”. “Come facciamo noi a rispettare questa benedetta distanza - scrivono ancora - vi chiediamo un intervento concreto e tempestivo perché nella realtà in cui viviamo sarebbe una vera e propria pandemia, anche perché qui entrano ed escono agenti penitenziari, medici, operatori che potrebbero essere portatori del virus. Il sovraffollamento persisterà ancora e la nostra paura è che anche il tempo a nostra disposizione sta diminuendo, prima che il Covid-19 dilaghi tra noi e porti una strage indescrivibile e impensabile”. I detenuti hanno paura e per questo provano a smuovere i vertici governativi e religiosi: “Vogliamo - aggiungono -che venga rispettato il nostro diritto alla vita, c’è bisogno di ridurre il numero dei detenuti nei nostri penitenziari, che supera di gran lunga la reale capienza, anche perché c’è anche un elevato numero di detenuti in attesa di essere giudicati. Magari, dopo anni, considerata la lentezza processuale italiana dovuta alla considerevole mole di lavoro, vi sarà per questi ultimi una sentenza di assoluzione, e intanto oggi rischiano addirittura la morte. Abbiate il coraggio di una decisione che sia seria e radicale, anteponendo il nostro diritto alla vita a qualsivoglia pregiudizio o inutili lotte tra partiti. Siamo alla vigilia di un’esplosione gravissima del contagio e ci chiediamo noi che fine faremo. Vi prego, non vi dimenticate di noi”. Napoli. “2.000 mascherine per Poggioreale”: l’iniziativa dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2020 I Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno ideato una campagna denominata “2000 mascherine per Poggioreale” con l’obiettivo di fornire questo bene divenuto ormai indispensabile, alla luce dell’emergenza Coronavirus, a detenuti ed agenti della Polizia Penitenziaria nel carcere napoletano. Ideatore della proposta, sul punto di fornire già le prime mascherine nei prossimi giorni ai detenuti di Poggioreale, è l’avvocato Raffaele Minieri. È possibile contribuire con donazioni all’acquisto delle mascherine. Per avere le informazioni sul come donare e le coordinate del caso è sufficiente contattare con un messaggio i Radicali per il Mezzogiorno Europeo tramite la loro pagina su Facebook. L’Avvocato Raffaele Minieri, membro della Direzione Nazionale di Radicali Italiani e segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, insieme alla tesoriera Sarah Meraviglia e al presidente dell’associazione Fabrizio Ferrante, hanno deciso di lanciare la campagna “2000 mascherine per Poggioreale”, finalizzata a garantire a detenuti e agenti della penitenziaria una mascherina. Così l’avvocato Minieri ha spiegato l’iniziativa intrapresa: “Da avvocato ritengo che il diritto alla salute dei detenuti sia inviolabile e vada tutelato senza condizioni. Per questa ragione nei giorni scorsi mi sono attivato per chiedere a vari soggetti istituzionali, di informarci in ordine all’eventuale presenza di contagi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ricevendo gentile risposta dall’Asl di Caserta, la quale ha assicurato che non ci sono stati contatti tra il personale sanitario contagiato e i detenuti. Tuttavia da militante radicale, ma prima di tutto da cittadino, credo che sia necessario provare a dare un contributo concreto ai detenuti e all’amministrazione penitenziaria. Per questa ragione ringrazio tutti i compagni dell’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo, sperando che già in settimana forniremo le prime mascherine ai detenuti di Poggioreale, anche grazie alla disponibilità del Direttore dell’istituto e all’interessamento del Garante cittadino dei detenuti, Pietro Ioia. Sono convinto che nei prossimi giorni aderiranno alla nostra iniziativa molti altri soggetti e potremo fornire anche del gel disinfettante”. Alle dichiarazioni dell’avvocato Raffaele Minieri, segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, si aggiungono quelle della tesoriera, nonché collaboratrice del Garante Pietro Ioia, Sarah Meraviglia: “Dal confronto avuto con i detenuti di Poggioreale emerge una fortissima preoccupazione in ordine all’eventualità di futuri contagi interni alla struttura. Ad oggi le mascherine e i guanti a disposizione della Polizia penitenziaria scarseggiano mentre i detenuti ne sono in gran parte sprovvisti. Quegli stessi detenuti che, consapevoli della gravità dell’emergenza che stiamo vivendo, chiedono a gran voce di donare sangue e somme di denaro a favore delle zone più colpite. Come Radicali abbiamo deciso di avviare questa iniziativa per manifestare vicinanza ai reclusi e per ricordare alla società civile e alle istituzioni la drammaticità della situazione che vivono attualmente le carceri italiane. Secondo Fabrizio Ferrante, presidente dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo: “È importante fare tutto il possibile affinché le carceri non si trasformino in pericolosi focolai con inevitabili ripercussioni sul sistema sanitario regionale. A Poggioreale vi sono padiglioni come il Milano e il Livorno con enormi problemi strutturali e di sovraffollamento, inoltre bisogna stare attenti al padiglione Firenze, quello dei nuovi arrivi e dunque porta di ingresso potenziale per il virus nella struttura. L’ideale sarebbe dotare tutto il carcere di mascherine e protezioni varie ma speriamo con questa iniziativa di fare la nostra parte nel tentativo di rendere il più sicuro possibile Poggioreale, che resta pur sempre un luogo dello Stato”. Alba (Cn). Colletta dei detenuti a favore dell’ospedale cittadino di Cristina Borgogno La Stampa, 1 aprile 2020 “A voi operatori ospedalieri, in questo periodo reso ancora più difficile e intenso a causa del coronavirus, vorremmo mostrare la nostra solidarietà di detenuti nei confronti di persone eccellenti quali siete che, prodigandovi per altri, al costo della vostra vita, accudite chi, bisognoso, implora aiuto”. In un momento in cui non si contano quasi più i gesti di solidarietà, a tendere la mano sono anche persone che si trovano in una non facile situazione. In un isolamento ben diverso da quello richiesto dai protocolli sanitari per contenere l’epidemia. Succede ad Alba, nella casa di reclusione “Giuseppe Montalto” tristemente nota alla cronaca per le vicissitudini che hanno attraversato le sue mura negli ultimi quattro anni (un’epidemia di legionella, la chiusura dell’istituto per due anni e poi il ripristino di una piccola parte di struttura che accoglie, allo stretto, una cinquantina di ospiti). Qui sono i detenuti ad aver raccolto una piccola somma di denaro da devolvere all’ospedale San Lazzaro della città, trasformato di questi tempi, come tanti ospedali di provincia, per accogliere i malati covid19. Una donazione accompagnata da una lettera scritta di proprio pugno dagli ospiti in cui saltano all’occhio l’impegno e la sensibilità di persone che, consapevoli della propria condizione, vogliono contribuire alla causa. Sentirsi parte di una comunità. Precisando nella missiva che si tratta di una generosità modesta, fatta con le risorse di cui hanno disponibilità in questo difficile momento. Ma fatta anche “con il cuore. Sì da detenuto, ma non diverso da quello di altre persone solo perché trovandosi al di là di alte mura”. Un gesto che sarebbe magari, per vari motivi, passato inosservato. Ma che il garante comunale dei diritti dei detenuti, Alessandro Prandi, ha voluto condividere sui social. “Pur nell’estrema difficoltà e le incertezze del momento - dice Prandi -, questo è un gesto di grande solidarietà e vicinanza verso il resto della comunità nonostante l’opinione pubblica, anche locale, appaia distante e disinteressata rispetto alla questione penitenziaria”. “La grave emergenza che stiamo vivendo - spiega il garante, che giovedì sarà al Montalto per visitare i detenuti albesi - sta mettendo a nudo, se ce ne fosse bisogno, le criticità del nostro sistema penitenziario. Chiediamo che si attivino tutte le misure necessarie per tutelare la salute sia delle persone recluse che degli operatori e degli agenti della polizia penitenziaria. La sospensione di tutte le attività educative, delle visite dei famigliari (sostituite con i colloqui in videoconferenza) e delle attività di lavoro all’esterno degli istituti, benché comprensibili vista la situazione, pone i detenuti in una situazione di ancora maggiore isolamento e di straniamento difficilmente tollerabile per lungo tempo. A questo si aggiunga che nelle carceri piemontesi sono stati trasferiti decine di persone provenienti dagli istituti teatro delle rivolte della scorsa settimana, aumentando il numero dei reclusi in un contesto già degradato”. Pordenone. Colletta tra i detenuti del Castello per la sanità pubblica Il Gazzettino, 1 aprile 2020 Il Covid 19 non ha forzato le mura del carcere. Nessun caso sospetto, almeno a livello ufficiale, dentro il Castello. Così il sistema generale di organizzazione sanitaria va avanti con il ritmo e le caratteristiche consuete. Il ricorso all’ospedale si effettua come accadeva prima, ossia in tutte le situazioni di necessità, compresi gli episodi legati all’autolesionismo, informa don Piergiorgio Rigolo (in foto), il cappellano dei reclusi. È uno dei cosiddetti Preti di frontiera, quelli che prima di ogni Natale pubblicano la lettera aperta indirizzata alla comunità del Friuli Venezia Giulia, parlando di solidarietà, impegno sociale, pacifismo, ruolo femminile, dignità, ultimi e fragilità. Dopo l’emergenza prodotta dal Coronavirus, comunque, più di qualcosa è cambiato anche nell’istituto di pena. Alcuni dei suoi ospiti, per esempio, hanno aderito alla campagna promossa dai reclusi del Nordest, con la raccolta di fondi per sostenere una sanità pubblica messa a dura prova dall’ondata incessante dei ricoveri. Un impegno lodato dal presidente Mattarella. Poi gli ultrasettantenni possono usufruire della detenzione domiciliare con minori vincoli. Purtroppo segnala don Rigolo -, nel frattempo le comunicazioni con familiari e parenti si sono ridotte a una telefonata quotidiana di 10 minuti. Sono però possibili i video-colloqui via skype. I semiliberi, ossia coloro che escono di giorno per lavorare (dove è ancora possibile farlo, ndr) e rientrano in carcere alla sera, hanno l’opportunità di godere della licenza familiare. Restano sospesi tutti gli incontri con i volontari e i Tessitori di giustizia nel cambiamento. Il sacerdote, nel frattempo, è diventato un prezioso trait d’union tra la direzione, gli educatori e gli agenti di Polizia penitenziaria in servizio al Castello. Per quanto riguarda i più indigenti tra i ristretti va avanti il cappellano mi faccio fornire una sorta di lista della spesa. Parliamo di cose minimali, naturalmente: l’obiettivo è quello di assicurare loro la possibilità di telefonare, di acquistare i francobolli per le lettere e il necessario ai fini dell’igiene personale. C’è poi chi ha trovato in questo periodo tribolato uno spiraglio di libertà: la Casa d’accoglienza Oasi 2 sta ospitando sette detenuti in regime di detenzione domiciliare. Gli agenti della penitenziaria hanno il carico maggiore dei problemi conclude don Rigolo -. Forti di calma e grande umanità cercano di mantenere un buon livello di convivenza interno, rispondendo con la pazienza, il dialogo e la comprensione alla disperazione di chi hanno di fronte, che spesso non conosce neppure la nostra lingua. Campi rom, l’altra bomba igienico-sanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2020 Sei giorni fa la prima vittima: 33 anni, era in una casa popolare ma andava spesso dai suoi. È complicata la quarantena nelle baraccopoli, spesso senza acqua. Famiglie e anziani dai prossimi giorni potrebbero trovarsi senza beni di prima necessità. Sei giorni fa è morto il primo rom per Coronavirus allo Spallanzani di Roma. Si chiamava Stanije Jovanovic e aveva 33 anni. Viveva in una casa popolare con la moglie e quattro figli, inoltre aveva una famiglia numerosa nel campo di via Salviati e ogni giorno andava a trovarli. Eppure, dopo la sua morte - come ha denunciato l’associazione “Cittadinanza e minoranze” - non ci sono stati tamponi per loro o nel campo, ma solo l’obbligo di quarantena. Ma si sa, nei campi rom, alla quarantena, ci sono già abituati. Sorge infatti il problema dei campi dove le condizioni sanitarie sono da tempo sottovalutate. Ma c’è anche il problema della loro sopravvivenza. Come sottolinea sempre l’associazione “Cittadinanza e minoranze” (se si va sul suo sito c’è una raccolta donazioni), i rom vivono di piccoli commerci, della raccolta di materiali, di elemosina: ora, ovviamente, con le restrizioni non lo possono più fare. In quasi tutti gli insediamenti sono stati segnalati casi di fami. L’associazione romana “21 luglio” denuncia l’altro grande problema dei campi rom ai tempi del coronavirus. In nessuna baraccopoli è stata segnalata la presenza di operatori sanitari disponibili a distribuire dispositivi di prevenzione o ad illustrare le misure atte a prevenire il contagio. Restano quindi le azioni raccomandate attraverso la tv e che sono praticabili, però, laddove le condizioni igieniche lo permettono o dove almeno c’è disponibilità di acqua corrente (scarseggia nel campo rom di via di Salone e utilizzata solo con autobotte a Castel Romano). Nelle interviste fatte dall’associazione “21 luglio” emerge scarsa consapevolezza da parte degli abitanti delle baraccopoli dell’impatto che le misure attualmente imposte dal decreto potrebbero avere sull’infanzia. La sospensione dell’attività scolastica e l’impossibilità di utilizzare strumenti tecnologici indispensabili a seguire un’eventuale didattica a distanza pone i minori in età scolare in uno stato di grave isolamento in rapporto ai coetanei e agli insegnanti. Senza dimenticare il discorso della promiscuità nella baraccopoli, con un evidente sovraffollamento interno ed esterno alle abitazioni: se venisse riscontrata una positività, le baraccopoli sono tali da poter isolare solo il paziente e la sua famiglia? L’associazione “21 luglio” ha lanciato l’allarme e ci si augura che venga raccolto il prima possibile. Bisogna, prima di tutto, predisporre per tempo, in caso di riscontro di una o più positività al Covid- 19 all’interno degli insediamenti formali, un adeguato e tempestivo piano di intervento sanitario, al fine di evitare che la capitale arrivi impreparata a tale evento. I dimenticati di Rosarno tra paura e non lavoro di Valerio Nicolosi Il Manifesto, 1 aprile 2020 Viaggio nelle tendopoli della Piana di Gioia Tauro dove le condizioni igieniche e sanitarie sono allucinanti. I migranti vivono nella morsa dell’occupazione nei campi che sta per finire e il timore del Covid-19. L’aiuto dei medici volontari. Girare in macchina a Rosarno e nei paesi vicini fa impressione, in giro ci sono poche auto e tantissime biciclette, quelle con le quali i migranti si muovono dalle tendopoli ai campi di arance, passando per i piccoli negozi alimentari gestiti da altri migranti e dove è possibile trovare spezie e cibo africani. Il lavoro dei braccianti nella Piana di Gioia Tauro rientra tra quelli fondamentali per il nostro Paese, quindi non si può bloccare. Le arance che arrivano nelle tavole degli italiani vengono raccolte dai 1.200 braccianti, tutti migranti, che vivono nei comuni di Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro e Taurianova in campi formali e informali, in condizioni sanitarie precarie e che oggi fanno paura non solo ai braccianti ma anche alle istituzioni. I casi di coronavirus nella Piana di Gioia Tauro sono pochi e tra questi al momento non ci sono migranti. Questa situazione però sembra poter esplodere da un momento all’altro e nel momento in cui dovesse esserci il primo contagio la diffusione sarebbe velocissima. “Viviamo in 7 o in 8 in ogni tenda, non c’è spazio per stare lontani. Nella tendopoli siamo circa 500 e ci sono solamente 7 bagni, il contagio sarebbe immediato e scontato. Non abbiamo né mascherine né guanti, solo un po’ di igienizzante per le mani quando entriamo e quando usciamo dal campo” racconta Mohammed, Ivoriano di 22 anni che vive nella tendopoli di San Ferdinando. Di fatto è l’unica ufficiale nella zona, è nata dalle ceneri della vecchia, che sorgeva a poche centinaia di metri e della quale si vedono ancora i resti, mai smaltiti dopo lo show delle ruspe del marzo 2019. L’igienizzante al campo lo ha portato una rete solidale composta da diverse associazioni, tra cui Mediterranean Hope. Ci sono arrivati perché hanno visto il totale disinteresse delle istituzioni nei confronti dei braccianti. “Sono lavoratori di una filiera indispensabile e come tali vanno trattati. Quello che stiamo facendo noi non basta, andrebbero requisiti gli hotel della zona oltre che assegnare i beni confiscati alle mafie. Solo così tutti sarebbero più sicuri contro il virus” dice Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope che ogni due giorni fa il giro dei campi, formali e informali, proprio per consegnare l’igienizzante. In uno di questi campi, quello di Taurianova, c’è la condizione peggiore: tra le 150 e le 200 persone vivono senza acqua e senza elettricità in edifici fatiscenti ricoperti di amianto. “Quando ci siamo trovati a fare l’attività di informazione per la prevenzione in questo contesto è stato difficile, se non c’è acqua come possiamo spiegare che bisogna lavarsi bene e spesso?” racconta Ilaria Zambelli di Medu, Medici per i diritti umani, che prima dell’emergenza lavorava con il resto del team medico con una clinica mobile nei campi della zona. “Da sempre riscontriamo problemi respiratori, circa un quarto dei braccianti ne soffre per via delle condizioni di vita e di salute” aggiunge la dottoressa. Le baracche e le tende sono umide e fredde, il lavoro nei campi molto duro, quindi anche se l’età media è molto bassa i polmoni e le vie respiratorie ne risentono. La pioggia degli ultimi giorni ha ridotto i terreni a fanghiglia e nel campo di Taurianova, nato attorno ad un’ex casa agricola, per passare da una tenda all’altra è necessario fare lo slalom tra le pozzanghere. Dietro all’edificio fatiscente c’è una cisterna grande abbastanza per garantire l’acqua a tutti per due giorni, ma non è collegata. “Fino a qualche giorno fa era collegata ad una fonte a poche centinaia di metri ma essendo abusivo la polizia l’ha staccata, senza darci alternative” ci dice Issa, che è appena tornato dal lavoro nei campi, lui è uno dei pochi che ancora ha un’occupazione. La stagione delle arance sta per finire e il lavoro scarseggia, inoltre la gran parte di loro non ha un contratto e quindi se viene fermato per strada non ha una giustificazione per l’autocertificazione. Il problema nei prossimi giorni sarà proprio questo: l’assenza di lavoro e quindi di cibo. In una condizione di normalità sarebbero andati a Saluzzo, in Piemonte, per raccogliere le mele o in Puglia per i pomodori. Altri contesti ma stessa tipologia di sfruttamento. Invece oggi in 1.200 sono bloccati in Calabria, dove non possono lavorare e vivono di stenti. “È necessario che si pensi ad una pianificazione del lavoro su questo territorio. Da anni assistiamo all’arrivo e alla partenza di queste persone e in mezzo, nel periodo in cui lavorano, la politica non si occupa di loro nonostante facciano un lavoro importante ma soprattutto programmabile. Questa emergenza dovrebbe darci la possibilità di ripensare al modello che abbiamo conosciuto fino ad oggi” spiega Andrea Tripodi, sindaco di San Ferdinando che insieme alle organizzazioni che lavorano con i braccianti da giorni chiede l’intervento della Regione. “Queste persone sono un’umanità offesa da queste condizioni, si aspettano una risposta civile che noi dovremmo garantire” conclude il sindaco. Migranti. “Grecia, campo di prigionia per 40mila profughi” di Nello Scavo Avvenire, 1 aprile 2020 Le Ong: “Con il pretesto del Coronavirus, arresti e ancora stop al diritto d’asilo. Grave che un Paese Ue sospenda diritti umani”. Il più grande campo di prigionia d’Europa: mezzo migliaio di persone in carcere per un periodo indefinito, altre 40mila trattenute in condizioni disumane nei cinque accampamenti allestiti dall’Ue sulle isole. Prima con il pretesto della provocazione turca e ora del Coronavirus, la Grecia conferma la sospensione dei diritti umani fondamentali. Con il beneplacito di Bruxelles, che ricambierà con milioni di euro l’ok di Atene a far sbarcare i migranti dalla Libia. Ufficialmente scade oggi la sospensione di un mese della procedura per l’esame delle domande di protezione, interrotta dopo che Erdogan aveva ammassato sul confine terrestre lungo il fiume Evros migliaia di migranti dal territorio turco. Tuttavia, chi è in carcere dovrà essere processato per immigrazione illegale, richiedenti asilo compresi. Non bastasse, “le ultime decisioni assunte da Unione europea e Turchia non faranno che aggravare ulteriormente quella che è in questo momento a tutti gli effetti la peggior catastrofe umanitaria in Europa”. Lo scrivono Oxfam e il Consiglio greco per i rifugiati (Gcr). I 40mila bloccati sulle isole sono una bomba a orologeria. Nei campi, infatti, si trova un numero di persone sei volte superiore alla capienza originaria. Per mettere in guardia i migranti l’Ong italiana Intersos con il progetto “Il Grande Colibrì- PartecipAzione” divulgherà una serie di video multilingue con istruzioni, suggerimenti e avvertenze per gli stranieri che devono vedersela con Atene. A dispetto della linea dura sull’immigrazione, il premier conservatore Kyriakos Mitsotakis avrebbe oramai ottenuto da Bruxelles una serie di aperture sul piano politico e finanziario. A quanto trapela, la nuova missione navale dell’Ue nel Mediterraneo non prevede lo sbarco in Italia e a Malta dei migranti salvati al largo della Libia. I naufraghi verrebbero tutti accompagnati in alcuni porti della Grecia. “Nulla può giustificare la detenzione indiscriminata di persone in cerca di asilo, né il rimandarli indietro in Paesi dove rischiano la vita o la loro libertà. Allo stesso tempo gli stati membri della Ue hanno il dovere umanitario di intervenire accogliendo i tanti disperati che sono allo stremo in Grecia”, insiste Paolo Pezzati, di Oxfam Italia. La spinta dell’ultradestra che in Grecia sta coalizzando formazioni da diversi Paesi europei preoccupava di certo Manolis Glezos, che il generale De Gaulle definì “primo partigiano d’Europa”. Morto ieri all’età di 97 anni, Glezos era passato alla storia per aver staccato la bandiera con la svastica dall’Acropoli di Atene nel 1941. Parole e simboli che sempre più spesso vengono branditi impunemente contro i profughi. Covid-19, mezzo milione di prigionieri a rischio in Russia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 aprile 2020 Amnesty International ha sollecitato il governo della Russia a prendere misure urgenti per evitare le conseguenze devastanti della possibile diffusione del virus Covid-19 nella popolazione carceraria: 591.600 persone, tra condannate e in attesa di giudizio, almeno 9000 delle quali ultrasessantenni e un numero ancora maggiore in cattive condizioni di salute. La situazione del sistema penitenziario russo, caratterizzata da sovraffollamento, scarsa ventilazione, inadeguatezza dei servizi igienico-sanitari e insufficiente accesso alle cure mediche, espone i prigionieri a un elevato rischio di contrarre il virus. Molti prigionieri si trovano in colonie penali distanti centinaia e centinaia di chilometri da casa e dagli ospedali civili. Alcune caratteristiche del sistema penitenziario russo sono particolarmente pericolose nel contesto dell’attuale pandemia da Covid-19. Una di queste è la modalità di trasferimento dei prigionieri: ammassati in furgoni blindati (nella foto) o all’interno di vagoni ferroviari chiusi e poco aerati, senza luce né acqua corrente o servizi igienici, sono costretti a viaggiare anche per settimane per raggiungere le remote colonie penali. Secondo gli ultimi dati disponibili, almeno 97.000 prigionieri (il 18,7 per cento del totale) sono nei centri di detenzione preventiva, dove anche a causa del sovraffollamento sono maggiori i rischi d’infezione. Queste persone rischiano di rimanere ancora più a lungo in tali centri dato che tutti i processi sono stati sospesi. Sebbene secondo il diritto internazionale sia una misura eccezionale, in Russia la detenzione preventiva è la norma. Per questo, Amnesty International ha sollecitato le autorità russe competenti a rivedere urgentemente tutte le decisioni di rinvio in carcere, in attesa di giudizio, dei presunti autori di reati e soprattutto a considerare il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza che sono in carcere solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti e che non avrebbero mai dovuto mettere piede in una cella. Stati Uniti. La California anticipa il rilascio di 3.500 detenuti Corriere della Sera, 1 aprile 2020 Le autorità penitenziarie della California prevedono di anticipare il rilascio di circa 3.500 detenuti non violenti per contribuire a rallentare la diffusione del coronavirus nello Stato. Il Dipartimento di Correzione e Riabilitazione della California ha reso noto che il primo gruppo riguarderà i detenuti con meno di 30 giorni da scontare, seguito da un secondo gruppo con meno di 60 giorni. Simili misure sono state annunciate nei giorni scorsi anche da altri Stati, tra i quali il New Jersey, e da alcune città americane. La Turchia rilascerà 90mila prigionieri. Non quelli politici di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 aprile 2020 Carceri affollate il doppio della loro capienza, ma giornalisti, attivisti e deputati Hdp restano in cella. Erdogan lancia una campagna di donazioni regalando il suo stipendio ma le opposizioni vanno all’attacco: crisi dovuta alle spese per i mega progetti infrastrutturali. Al tempo del coronavirus lo svuotamento delle sovraffollate carceri turche, riempite a dismisura con la campagna di epurazioni seguita al fallito golpe del luglio 2016, arriva in parlamento. Mentre il ministero della Giustizia, lunedì, ha annunciato fiero la produzione di un milione e mezzo di mascherine in un mese dentro sei diverse carceri, frutto del lavoro dei detenuti, il governo ha proposto il rilascio di decine di migliaia di prigionieri. Da mettere agli arresti domiciliari a tempo determinato, come accaduto nel vicino Iran, nella consapevolezza che celle piccole e sovraffollate, spesso con scarse condizioni igieniche, siano uno dei migliori veicoli di contagio. Sono 300mila i detenuti in Turchia (su una popolazione totale di 80 milioni) in 375 carceri, la cui capienza massima non supera le 120mila unità. A presentare la proposta di legge di 70 articoli è stato il partito del presidente Erdogan, l’Akp, due settimane fa. Ieri è arrivata in parlamento. L’idea è un rilascio temporaneo, fino a quando l’epidemia sarà più o meno domata, di 90mila detenuti: prigionieri in carceri di minima sicurezza, sopra i 65 anni, malati, donne incinte o con figli con meno di sei anni. Il numero potrebbe aumentare considerando chi ha scontato almeno metà della pena e che potrebbe essere rilasciato con la condizionale fino a tre anni. Chi resta fuori? I condannati per stupro, omicidio di primo grado, droga e - soprattutto - terrorismo. Una categoria che in Turchia ha le maglie larghe. Sono giornalisti, deputati del partito di sinistra pro-curdo Hdp, attivisti, scrittori, avvocati. A loro è rivolto l’appello di 27 organizzazioni per i diritti umani turche e internazionali: Amnesty, Articolo 21, l’European Center for Press and Media Freedom e tante altre ne chiedono il rilascio immediato e senza condizioni. “Queste persone non dovrebbero essere detenute - si legge nel comunicato - Giornalisti, difensori dei diritti umani e persone imprigionate per aver semplicemente esercitato i propri diritti resteranno dietro le sbarre. E le autorità turche dovrebbero riesaminare i casi dei prigionieri in detenzione preventiva”. Uno strumento abusato, routine per migliaia di prigionieri politici, a cui si aggiungono i numeri raccolti da Bianet, agenzia indipendente turca: sono tuttora in carcere 102 giornalisti, metà di loro per terrorismo o propaganda del terrorismo, condannati a pene che sommate arrivano a 1.103 anni. E la caccia al reporter continua: sarebbero sette i giornalisti fermati per aver coperto l’emergenza sanitaria. I primi casi sono stati registrati il 12 marzo, fino all’ultimo bilancio di ieri: 13.531 positivi, 725 ricoveri in terapia intensiva, 214 decessi. Lo scorso fine settimana le autorità hanno adottato nuove misure, tra cui la sospensione dei voli internazionali e il divieto di ingresso agli stranieri fino a fine aprile, il limite ai voli interni, la riduzione dei servizi taxi e autobus nelle principali città. In precedenza erano stati chiusi bar, ristoranti, teatri, aree gioco per bambini, parchi e scuole e 41 tra quartieri e cittadine sono stati messi in quarantena. Sul piatto Ankara ha messo un pacchetto di aiuti a dipendenti pubblici e privati da 15,4 miliardi di dollari, ma non basta in un paese alle prese da quasi un anno con una dura crisi economica, accompagnata da svalutazione della lira e inflazione-boom. Per questo lunedì Erdogan ha lanciato una “campagna nazionale di solidarietà”, a partire da se stesso: “Dono sette mesi del mio stipendio - ha detto in un messaggio alla nazione - Il nostro obiettivo è aiutare chi economicamente lotta, in particolare i lavoratori a giornata”. Ministri e parlamentari doneranno quasi 800mila dollari, ora tocca agli altri cittadini, questo il messaggio. Una mossa criticata dalle opposizioni che lamentano l’utilizzo del gettito fiscale per pagare i mega progetti infrastrutturali - tutti affidati a compagnie collegate alla famiglia Erdogan, per sangue o amicizie - che hanno spinto il paese alla crisi. Coronavirus, l’Iran libera 85mila detenuti ma restano in carcere tre note attiviste dei diritti umani di Viviana Mazza Corriere della Sera, 1 aprile 2020 Documentate 280 esecuzioni nel 2019: Teheran è al secondo posto dopo Pechino, nonostante una diminuzione dovuta all’emendamento della legge contro il traffico di droga. Nonostante il coronavirus sono in prigione Nasrin Sotoudeh, Atena Daemi e Narges Mohammadi che potrebbe essersi ammalata. Un attacco informatico ha preso di mira la conferenza stampa su Zoom dell’associazione con sede a Oslo. L’Iran ha rilasciato “temporaneamente” 85.000 prigionieri, durante la crisi del coronavirus. Ma restano in carcere prigionieri di coscienza come le attiviste Narges Mohammadi, condannata a 16 anni, 10 dei quali per le attività contro la pena di morte, che secondo alcune fonti potrebbe aver contratto il coronavirus; Atena Daemi, condannata a 7 anni; e l’avvocata Nasrin Sotoudeh, condannata a 33 anni e 148 frustate, per aver espresso le sue opinioni e manifestato contro la pena di morte. Lo denuncia il rapporto annuale di Iran Human Rights, organizzazione con sede ad Oslo che monitora la pena di morte e le violazioni dei diritti umani nella Repubblica Islamica. Il rapporto, presentato dal fondatore di IHR, Mahmood Amiry-Moghaddam su Zoom - in una conferenza stampa che è stata presa di mira da un attacco informatico ma è continuata fino alla fine - documenta almeno 280 esecuzioni avvenute nel 2019 nella Repubblica Islamica, sette in più del 2017, l’80% delle quali per omicidio (tra cui 15 donne e almeno 4 minorenni). Il Paese resta dunque al secondo posto nel mondo dopo la Cina per persone giustiziate. Solo il 30% sono state annunciate dalle autorità, il resto delle informazioni provengono da avvocati, personale delle prigioni e familiari dei condannati. Il rapporto viene pubblicato, in collaborazione con l’associazione Ecpm (Together against the death penalty) in un momento critico per due ragioni: la prima è che l’Iran è uno dei Paesi più colpiti al mondo dal Covid-19, con 44.000 casi confermati e 2.898 morti; la seconda è che nel novembre e dicembre 2019 centinaia di persone sono state uccise nella repressione delle proteste di piazza più gravi della storia della Repubblica Islamica. Mentre le autorità non hanno ancora reso noto un numero ufficiale né punito alcun responsabile, l’agenzia Reuters ha affermato che i morti sarebbero 1.50o, IHR è riuscita a documentarne 324, tra cui 14 minorenni, la maggior parte con colpi d’arma da fuoco alla testa o al petto, e circa diecimila arresti nelle settimane successive. “Nonostante il rilascio temporaneo di migliaia di detenuti - ha detto Raphael Chenuil-Hazan di Ecpm - la Repubblica Islamica ha messo a morte una persona anche l’11 marzo nonostante si trovasse nel mezzo di questa terribile crisi mondiale”. “Molti si sorprendono quando vedono che nei sei anni e mezzo al potere del presidente Hassan Rouhani ci sono state più esecuzioni (3.780) che negli otto anni di Mahmoud Ahmadinejad (3.327), 48 al mese contro 35 al mese”, ha osservato Mahmoud Amiry-Moghaddam, sottolineando come il nuovo capo della magistratura Ebrahim Raeisi, nominato dalla Guida Suprema Ali Khamenei nel marzo 2019 tra le proteste degli attivisti dei diritti umani è stato procuratore e viceprocuratore di Teheran negli anni Ottanta e Novanta, e fece parte con altre tre persone della cosiddetta “Commissione della morte” che nel 1988, su ordine di Khomeini, portò a termine migliaia di esecuzioni di prigionieri politici in pochi mesi. C’è un’unica buona notizia nel rapporto. Negli ultimi anni due c’è stata una riduzione del 47% rispetto a quelli precedenti, grazie ad un emendamento avvenuto alla fine del 2017 alla legge contro il traffico di narcotici, dopo anni di pressioni internazionali. “Si tratta della conquista più importante nei quarant’anni, e dimostra che è possibile cambiare le cose, ma deve esserci pressione costante”, sottolinea Amiry-Moghaddam. “L’Unione Europea deve fare più che esprimere preoccupazione, deve essere proattiva, solo se c’è un costo politico ci sarà il cambiamento”. Somaliland. Più di 800 detenuti saranno liberati contro la diffusione del coronavirus in carcere nessunotocchicaino.it, 1 aprile 2020 Il Somaliland starebbe per rilasciare temporaneamente più di 800 detenuti nel tentativo di combattere la diffusione del Coronavirus nelle prigioni affollate del Paese, ha riportato il Somaliland Standard il 28 marzo 2020. Il presidente del Somaliland, H.E. Musa Bihi Abdi, ha inviato un elenco ufficiale di prigionieri che saranno liberati alle agenzie giudiziarie, tra cui la Procura Generale, il Ministero della Giustizia e il Corpo di custodia per ricevere pareri sui prigionieri che saranno liberati e notizie sul periodo di detenzione scontato finora da ciascuno. Il Presidente ha ordinato che non vengano liberati i prigionieri responsabili di gravi crimini come il commercio di alcol illecito, atti di pirateria, atti di terrorismo, omicidio e stupro.