Nelle carceri 6.000 detenuti in meno, ma non basta per il “distanziamento” di Simona Olleni agi.it, 19 aprile 2020 Tra le misure di alleggerimento, la detenzione domiciliare e licenze. Secondo l’Associazione Antigone, però, per ridurre i rischi di contagio dovrebbero uscire altri 8-10 mila reclusi. Oltre ?6 mila i detenuti in meno negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’emergenza sanitaria: gli ultimi numeri aggiornati, forniti dal Garante nazionale dei detenuti due giorni fa, parlano di ?54.998 presenze nei penitenziari, ?a fronte delle 61.230 del 29 febbraio scorso. “Certamente sono state prese delle misure - rileva Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, interpellata dall’AGI - ma sono del tutto insufficienti: bisogna fare molto più spazio in carcere per attuare il distanziamento sociale”. Allo stato, è “stabile” il numero dei contagi da coronavirus registrati nelle carceri - ?il Garante, nel bollettino di mercoledì scorso, parlava di “105 situazioni di positività che attualmente riguardano le persone detenute” con 11 ospedalizzati - ?concentrato soprattutto in alcuni istituti del Nord Italia. Due i decessi tra i detenuti, avvenuti in ospedale, e 19 i guariti. Nessun contagio negli istituti di pena minorili, mentre, per quanto riguarda gli agenti penitenziari, i dati ufficiali del Dap ?parlano di 204 contagiati, 6 guariti e due morti. Diverse le misure adottate per far fronte al rischio di epidemia tra i reclusi: tra queste, gli articoli del decreto ‘Cura Italia’, con i quali si è rimodulata la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena inferiore ai 18 mesi, prevedendo iter più snelli, fino al 30 giugno, per chi può accedere a tale misura, con braccialetto elettronico per pene tra i 7 e i 18 mesi, nonché licenze per chi è in semilibertà. ? Il Garante, proprio ieri, ha riferito, rispetto al calo dei detenuti, che “in 2.078 casi si è trattato di uscita in detenzione domiciliare”, di cui 436 con applicazione del braccialetto elettronico, e in 425 casi di licenze fino al 30 giugno di persone semilibere. Dopo un’interlocuzione con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, inoltre, il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha affidato a Fastweb la fornitura per ulteriori 4.700 braccialetti entro la fine di maggio, mentre fondi sono stati stanziati da Cassa delle ammende e avviati progetti dagli uffici dell’esecuzione penale esterna per aiutare quei detenuti che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare ma non hanno un domicilio fisso. Dal punto di vista sanitario, infine, sono ad oggi previsti test sierologici nei penitenziari di Abruzzo, Campania, Toscana, Umbria, Emilia Romagna e Sicilia, sulla base di protocolli stabiliti dagli assessorati regionali. “La capienza regolamentare ufficiale - osserva ancora Susanna Marietti - è di circa 50 mila posti, ma dobbiamo tenere conto che vi sono sempre aree in manutenzione e che, dopo le rivolte di marzo, ci sono più posti inagibili. Serve un ‘alleggerimento’ più massiccio delle presenze in carcere, dovrebbero uscire altri 8-10 mila detenuti”. L’attenzione sanitaria “va mantenuta altissima”, aggiunge, ricordando che “da subito abbiamo chiesto misure più intense per chi, in carcere, ha problemi di salute. Inoltre, servirebbero meno paletti sulla detenzione domiciliare e, pensando ai braccialetti, non si capisce perché ora sono così importanti, mentre prima venivano usati soltanto per la custodia cautelare ai domiciliari, a fronte di 61mila persone, senza braccialetto, che usufruivano di misure alternative”. La fase critica delle rivolte, osserva ancora la coordinatrice di Antigone, “è superata, e speriamo non torni: per scongiurare questo rischio serve una corretta e assolutamente trasparente informazione all’interno dei penitenziari che eviti si crei allarme, tra i detenuti e i loro familiari all’esterno, sulla base di voci incontrollate”. Torna invece a chiedere provvedimenti di clemenza l’associazione Nessuno tocchi Caino: “L’amnistia e l’indulto sono gli unici provvedimenti idonei ad affrontare radicalmente il problema delle carceri”, afferma Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno Tocchi Caino. Quelle adottate finora dal Governo “sono misure inadeguate alla gravità della situazione carceraria, che necessita quindi - sottolinea in un’intervista all’Agi - di più radicali provvedimenti volti a ridurre la popolazione carceraria a fronte dei problemi posti dalla pandemia”. Io, prete di galera, vi dico: qui l’epidemia è solitudine e terrore di Carmine Fotia L’Espresso, 19 aprile 2020 Nessun distanziamento possibile. Paura di tutti e di tutto. Senza più colloqui con le famiglie. Il cappellano di Rebibbia racconta. E denuncia. Chiudete per un momento gli occhi. Tornate alla notte tra domenica 8 e lunedì 9 marzo, a quelle fiamme che salgono dai reparti delle carceri incendiate, a quegli uomini sui tetti, al fumo dei gas, al clangore degli scudi dei reparti antisommossa, all’eco degli scarponi sul terreno, alle urla, al canto ipnotico delle sirene spiegate. Alle tentate fughe. Ai morti. A quei 13 morti a Modena e Rieti, che si sono imbottiti di psicofarmaci e droghe rubate nelle infermerie devastate per dire addio al carcere al tempo del virus nell’unico modo in cui credevano di poterlo fare. E poi cercate i frammenti di quella via Crucis di venerdì 10 aprile, quasi esattamente un mese dopo, in una Piazza San Pietro spettrale: li vedete quegli uomini e quelle donne che vengono dal carcere: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, volontari, magistrati di sorveglianza, che ne percorrono le stazioni in silente preghiera, dinanzi al volto sofferente di Papa Francesco che ha voluto loro per celebrare questa Pasqua nella quale la speranza lotta come mai prima contro le tenebre della morte? E, poiché il carcere inumano causa dolore e uccide la dignità, sentiamo su di noi la vergogna che dovrebbero provare i tanti Javert che considerano tutto ciò come la giusta punizione per chi ha sbagliato? Che restino dove stanno, decretano. E ora ascoltate le parole di quel mondo nelle meditazioni che vengono dal carcere Due Palazzi di Padova: “Tante volte, nei tribunali e nei giornali, rimbomba quel “Crocifiggilo, crocifiggilo!”, dice un ergastolano. “Una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce”, risponde un magistrato di sorveglianza. Dice Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti: “Quella via Crucis ci dice che il mondo del carcere non è altro da noi. E ci richiama a quel diritto alla speranza proclamato dal Pontefice, che era anche il titolo di un volume che gli abbiamo inviato e che è anche richiamato dalla Corte di Strasburgo quando dice che non può esserci condanna a vita senza speranza”. “Credo che i detenuti in rivolta pensassero: se il virus arriva qua dentro sarà una strage”, dice chi sta in carcere da una vita, “31 anni, più di un ergastolo”, ovvero don Sandro Spriano, 79 anni, da San Salvatore Monferrato, cappellano di Rebibbia, che ha vissuto in prima linea i giorni delle rivolte. “All’inizio l’allarme per il virus dentro il carcere era abbastanza basso”, racconta, “sono state le restrizioni alle visite ad accendere la scintilla della rivolta. Infatti cosa chiedevano i rivoltosi? Indulto, amnistia, misure alternative, le richieste di sempre, esasperate dal terrore che se l’epidemia dovesse arrivare in carcere sarebbe una strage. Vedo che ora il ministro Alfonso Bonafede parla di braccialetti per i detenuti. Giustissimo, per carità, ma perché attendono i fatti drammatici come i suicidi di Modena e Rieti (perché di questo si tratta di suicidi) per fare qualcosa? Le restrizioni alla vita sociale per chi già vive recluso diventano insopportabili, l’impossibilità di vedere i parenti diventa un incubo”. Racconta Mauro Palma che nelle carceri in rivolta c’è andato subito: “Quel lunedì mattina a Regina Coeli ho visto uno spettacolo tremendo: cancelli divelti dalle sbarre, il lancio delle stoviglie e gli sputi, mentre si udiva un sordo rumore di fondo, come un rombo. C’era tanta rabbia. Mi affrontavano duri: solo ora vi ricordate di noi? Chi ha la massima responsabilità doveva essere sul posto. Non vorrei che l’infiltrazione mafiosa che in taluni casi c’è stata, penso a Foggia, possa offuscare la comprensione di quanto avviene: le carceri italiane sono una bomba sociale pronta a esplodere. Così quando si è diffuso l’allarme per l’epidemia i detenuti si sono sentiti vittime di una doppia reclusione: quella dovuta alla pena e quella alle restrizioni sanitarie, di cui hanno visto solo divieto ai colloqui, perché le altre norme di sicurezza sono praticamente impossibili da adottare in queste condizioni. Sicché i detenuti si sono sentiti al tempo stesso rinchiusi e indifesi”, prosegue Palma. Al 17 marzo i detenuti erano tornati a essere 60 mila circa, dinnanzi a una capienza di 50 mila, azzerando tutti gli sforzi compiuti dopo la condanna della Cedu del 2013, soprattutto per impulso del ministro Andrea Orlando e del suo direttore del Dap Santi Consolo. Un mese dopo, di fronte al procedere del virus (dati al 14 aprile: 104 contagiati tra i detenuti, di cui 11 trasferiti in ospedale, e 201 tra il personale) siamo a circa 55 mila persone nelle carceri italiane. Solo 1.800 detenuti (di cui 350 con braccialetto) sono usciti per andare ai domiciliari grazie alle timide misure prese dal ministro Bonafede (scarcerazione anticipata per chi aveva da scontare fino a sei mesi); gli altri 3.000 circa sono usciti grazie alle misure prese dai magistrati di sorveglianza in base alle vecchie norme. “Negli ultimi giorni, per fortuna, i contagi hanno avuto una crescita limitata, ma all’inizio la progressione è stata esponenziale. Se dovesse riprendere a quel ritmo sarebbe una tragedia ecco perché dovremmo arrivare presto a non più di 47 mila detenuti in carcere”. Naturalmente di tutto questo avrei voluto parlare con il direttore del Dap, Francesco Basentini, nominato dal ministro Bonafede e criticato da tre partiti su quattro dell’attuale maggioranza per non essersi recato nelle carceri durante la rivolta, e gli ho inviato tre domande: come mai le prime misure deflattive sono state prese dopo e non prima che scoppiassero le rivolte? Ritiene che le misure adottate finora siano sufficienti? Pensa che i detenuti siano più al sicuro dal corona virus dentro le carceri che fuori? Questa è stata la sua risposta: “Le carceri non sono un argomento da trattare in tre battute. Contatti il mio ufficio stampa quando avrà il tempo di parlare seriamente del carcere”. A parte il fatto che avevo spiegato che avrei dato tutto lo spazio necessario alle sue risposte, lascio a voi giudicare cosa ci fosse di poco serio nelle mie domande. Conviene allora tornare a parlarne “seriamente” con don Sandro. Chissà se, quando ha messo per la prima volta in un carcere, pensava che ci sarebbe rimasto tutta la vita: “Ci sono entrato per la prima volta nel Natale del 1988 per dire messa insieme al mio amico Salvatore Boccaccio, che era appena stato nominato vescovo e che mi disse: “Qua dentro c’è una pena enorme, perché non cerchiamo di fare qualcosa?”. Da allora non c’è giorno della sua vita che don Sandro non abbia dedicato al carcere: detenuti e detenute comuni, brigatisti e brigatiste, mafiosi al 41 bis. “Sono nato a San Salvatore Monferrato, in provincia di Alessandria, dove non c’era la scuola media e quindi, finite le elementari, per continuare non c’era che il Seminario. Così ci sono entrato bambino a 11 anni e ne sono uscito sacerdote a 23. Per conoscere il mondo a quel punto c’erano tre strade possibili: la fuga, il matrimonio, proseguire gli studi. Ho deciso di andare a Roma dove mi sono laureato in teologia all’Ateneo Salesiano. Poi l’incontro con la scuola. Insegnante di religione al liceo scientifico Archimede che era uno dei più turbolenti di Roma. Prima vicepreside, poi preside. A un certo punto, dal momento che ero iscritto alla Cgil un gruppo di insegnanti di destra mi denuncia come prete comunista e dunque mi viene tolto l’insegnamento. Per due anni ho vissuto grazie alla solidarietà degli amici. Due anni dopo il cardinale che mi aveva cacciato mi chiamò e mi chiese scusa”. Poi, l’incontro con il carcere: “Adesso sono al braccio femminile. Credo che le donne soffrano di più il carcere che è stato disegnato per le esigenze maschili, pensa che fino a qualche tempo fa nel carcere non si trovavano né assorbenti né pannolini. La mentalità del carcere è maschile. Le donne sono più reattive alla sofferenza, non si fanno una ragione del dover rinunciare alla maternità, ai figli”. Il carcere di don Sandro è fatto di incontri che ti segnano. Quello con i brigatisti e le brigatiste: “Ho a che fare con quelli che si definiscono irriducibili. Sono persone che hanno scontato già 34 anni di pena, che hanno riconosciuto i propri errori, ma non vogliono fare nessuna richiesta allo stato, si aspettano che lo stato faccia autonomamente la sua parte. Si tratta di persone generalmente più acculturate della media dei carcerati, sono spesso atei. Ma anche il cuore che sembra più duro e abituato alla violenza può riconoscere i propri errori se trova qualcuno che lo accompagni”, dice. E racconta: “Mi è capitato spesso di accompagnare alcuni di questi detenuti in permesso e molti, mentre eravamo in macchina, mi chiedevano: senti don Sandro, possiamo passare un momento dalla tua chiesa?”. Diverso l’incontro con i mafiosi ristretti al 41bis, che don Sandro considera inumano e incompatibile con la rieducazione. Con loro il rapporto non è stato semplice: “Pensavano che la messa fosse un atto dovuto, davano per scontato che io la celebrassi. Allora l’ho sospesa. E hanno cominciato a scrivermi i sacerdoti del sud cui i boss si erano rivolti. Non è che io voglia convertire nessuno ma volevo che nessuno pensasse che la messa fosse un fatto scontato e ho ricominciato a celebrarla solo quando ho pensato che avessero capito. Uno dei boss, uno dei capi più importanti, mi disse: “Don Sandro, è la prima volta che qualcuno mi fa pensare al fatto che un omicidio è sempre sbagliato, anche se commesso a fin di bene”. Nella sua mentalità lui ordinava gli omicidi per mantenere l’ordine del suo mondo, ma il dubbio si era insinuato anche nel suo cuore”. Vivere per i più deboli e fragili è fatica quotidiana, rinuncia, generosità. Ma, e ditemi se è poco in questo strano tempo sospeso tra crudeltà e speranza, per don Sandro è qualcosa che riempie la vita: “Vuoi sapere cosa mi rimane di tutti questi anni? Il fatto di aver vissuto sempre in mezzo alla gente: la parrocchia, la scuola, il carcere, il volontariato. Quando giro per Roma, prima o poi, a questo o quel semaforo incontro qualcuno che mi riconosce e mi saluta con affetto. E tanto mi basta”. Tenere sempre alto il volume dell’allarme sull’emergenza carceri di Carmelo Minnella* dirittodidifesa.eu, 19 aprile 2020 Come scriveva qualche tempo fa su questa rivista Glauco Giostra, “l’emergenza carceraria non è un incendio al di là del fiume”, soffermandosi sull’urgenza di chi abbia poteri decisori di “disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri” (sempre Giostra, in Sistema penale, 22 marzo 2020). Ad oggi assistiamo invece ad un silenzio assordante del governo che si è limitato ad adottare misure insufficienti nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, Cura Italia che stanno costringendo la magistratura di sorveglianza ad un delicato ruolo di “supplenza”. Quest’ultima sta adottando delle decisioni coraggiose per “svuotare” le stracolme carceri italiane. Si cerca così di ridurre il carico della densità penitenziaria per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Fin troppo ovvio rimarcare che la situazione di sovraffollamento delle carceri rappresenta un fattore di ampliamento del rischio di diffusione del contagio. Le Camere Penali continuano a svolgere un ruolo di “cane da guardia” che ringhia quotidianamente all’esecutivo e, in generale, agli operatori del settore (Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Capo del D.A.P.), per superare un pericoloso immobilismo, che potrebbe risultare fatale. Soprattutto dopo aver registrato il primo caso di detenuto morto per il contagio di Covid-19 all’interno di un istituto penitenziario, considerato che secondo gli ultimi dati si registrano positivi 58 detenuti e 178 agenti di custodia penitenziaria (Corriere della Sera, 8 aprile 2020). Come ripetuto nel documento del 2 aprile (“Emergenza carcere: basta con i silenzi e le reticenze indegne di un Paese democratico. Le 10 domande dei penalisti italiani”) “il rischio di epidemia nelle carceri riguarda i detenuti, la polizia penitenziaria ed il personale amministrativo e civile che in esse opera, ma riguarda ovviamente anche la intera comunità sociale, per la ovvia, catastrofica ricaduta sulle strutture sanitarie pubbliche di un eventuale contagio di massa”. Occorre intervenire con “urgenza” e con il “coraggio di osare”. Per fare ciò occorre abbandonare, anche per poco tempo, il panpenalismo e l’ossessione carcerocentrica che la anima politicamente (secondo la logica del “buttiamo le chiavi delle prigioni e facciamoli marcire in carcere”). Niente di tutto questo è avvenuto fino ad ora. Ma vediamo da dove siamo partiti per comprendere la (poca e poco chiara) strada che abbiamo percorso fin qui. L’inizio dell’ingresso del Coronavirus nel carcere, dove sono stati riscontrati i primi casi di positività in quattro penitenziari lombardi, ha indotto il Governo a cambiare la strada normativa intrapresa in una prima fase della gestione dell’emergenza: quella cioè di chiudere le porte delle carceri. Infatti, con un primo intervento l’esecutivo ha previsto che i colloqui con i detenuti avvengano ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020 (d.l. 8 marzo 2020, n. 11, art. 2 commi 8 e 9). Ciò per evitare che il virus entrasse dentro le strutture penitenziarie. La chiusura delle porte del carcere è stato uno dei motivi che ha provocato le note rivolte dei detenuti in molte carceri italiane, rischiando di fare saltare i già delicati equilibri della tranquillità penitenziaria; e facendo riemergere l’emergenza delle carceri (legata in particolare al sempre cronico problema del sovraffollamento e alle condizioni igieniche spesso precarie) che l’emergenza Coronavirus rischia di fare esplodere. Come affermato, infatti, da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il 67% dei reclusi ha almeno una patologia pregressa, con la conseguenza che “le carceri rischiano di diventare una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta del sistema sanitario nazionale” (sito Associazione Antigone il 18 marzo 2020). Gli fanno eco i Dirigenti e i Funzionari della Polizia Penitenziaria che in una lettera inviata il 7 aprile 2020 al premier Conte hanno chiesto misure immediate perché “l’emergenza sanitaria ha trasformato gli istituti penitenziari in una bomba ad orologeria” (Adnkronos, 7 aprile 2020). Ben presto, peraltro, ci si è resi conto che, quanto al sistema penitenziario, la lotta all’epidemia da Coronavirus non poteva essere condotta semplicemente chiudendo le porte dei penitenziari e adottando qualche precauzione al suo interno. Anche perché è accaduto quel che si temeva, in ragione delle condizioni di vita all’interno del carcere: un luogo caratterizzato da una forzata convivenza a stretto contatto gli uni con gli altri, in spazi estremamente ridotti e in condizioni igieniche spesso precarie. Non a caso, il virus ha iniziato ad espandersi anche all’interno delle mura degli istituti di pena. Sono arrivate allora le richieste di provvedimenti normativi in cui fossero previste, ed analiticamente suggerite, misure urgenti e di immediata applicazione (segnalazione congiunta, inviata al Ministero della giustizia il 15 marzo, dai presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia) perché in assenza di automatismi “non è possibile fronteggiare l’emergenza così drammaticamente insorta: il virus corre più veloce di qualunque decisione che, alle condizioni, è certo perverrebbe fuori tempo massimo” (in Giurisprudenza penale, 22 marzo 2020). Sono arrivate pure le raccomandazioni del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle punizioni e dei trattamenti inumani e degradanti, stilate il 20 marzo 2020, indirizzate alle autorità degli stati membri e volte a ricordare, in questo particolarissimo momento emergenziale, il divieto della tortura e di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). In particolare, nella raccomandazione n. 5, vi è l’invito del CPT agli stati membri di ricorrere il più possibile a misure alternative alla detenzione: una strada che diventa “un imperativo, in particolare, in situazioni di sovraffollamento” (Gatta, Coronavirus e persone private della libertà: l’Europa ci guarda. Le raccomandazioni del CPT del Consiglio d’Europa, in Sistema penale, 21 marzo 2020), quali notoriamente sono quelle italiane. Non solo, secondo il CPT gli stati membri dovrebbero fare un uso maggiore di alternative alla carcerazione preventiva (ad es. agli arresti domiciliari) e valutare ulteriori misure, come il rilascio anticipato. Il punto 5 degli Statement of principles viene richiamato anche da Magistratura democratica, nel cui relativo documento si sottolinea l’esigenza di “ridurre subito le presenze all’interno del carcere, anche alleggerendone la pressione dall’esterno: soltanto in questo modo il rischio di contagio potrà essere seriamente fronteggiato. Per tutelare, oggi, la salute dei detenuti e garantire così, un domani, la sicurezza dei cittadini” (Carcere e coronavirus, non aspettare, in Magistratura democratica, 23 marzo 2020). Sempre in seno al Consiglio d’Europa, il 6 aprile 2020, si aggiunge l’appello della Commissaria per i diritti umani, Dunja Mijatovi? agli Stati membri con cui chiede di adottare misure che non comprimano i diritti fondamentali dei detenuti in questo momento di contrasto alla diffusione del Coronavirus che, oramai, è entrato in molti Istituti di pena dei Paesi europei. Inoltre, la Commissaria esorta gli Stati membri a “utilizzare ogni possibile alternativa alla detenzione senza discriminazione alcuna” poiché tale strategia è “necessaria e tassativa in situazioni di sovraffollamento e ancor più nel contesto di un’emergenza” per assicurare che le misure preventive alla diffusione del contagio siano efficaci (in Ristretti, 7 aprile 2020). Il vaso di pandora che abbiamo aperto in questa fase delicata di lotta al Covid-19 è infatti che all’emergenza Coronavirus si affianca quella relativa alla “emergenza carceri”. Lo stesso CTPha pubblicato il 21 gennaio 2020 un corposo report dove si continua a segnalare la cronica patologia del sovraffollamento carcerario, per alleggerire il quale suggerisce l’applicazione di misure non custodiali in fase cautelare, e di misure alternative alla detenzione, che siano disegnate sulla personalità dell’imputato e la natura della pena inflittagli (C. Pagella, Le carceri italiane sotto la lente del Consiglio d’Europa: il report del CPT sulle visite, in Sistema penale, 11 febbraio 2020). Le Sezioni Unite a breve saranno chiamate a decidere su questioni che potrebbero aggravare ulteriormente la patologia cronica del sovraffollamento. Infatti, all’esito della camera di consiglio del 21 febbraio 2020 la I Sezione penale ha deciso di rimettere il ricorso alle Sezioni unite affinché chiariscano la seguente questione, in materia di rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Cedu e di criteri di computo dello spazio minimo disponibile per ciascun detenuto, fissato in tre metri quadrati dalla Corte EDU: “se esso debba essere calcolato al netto della superficie occupata da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; se assuma rilievo, in particolare, nella determinazione dello spazio minimo disponibile, quello occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura del letto “a castello” o “singola”, ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello; se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo disponibile (3 mq), secondo il corretto criterio di calcolo, da determinarsi al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i 3 e i 4 mq” (in Sistema penale, 28 febbraio 2020). La strada era stata tracciata insomma, vi era (e vi è) l’imbarazzo della scelta tra le opzioni per aprire l’ombrello delle misure (e degli accorgimenti da apportare alle stesse) da applicare per la fuoriuscita di una fetta della popolazione carceraria. Tuttavia, il legislatore d’urgenza nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 ha partorito un topolino. Lo strumento principale per fronteggiare la doppia emergenza (Coronavirus e sovraffollamento) è stato individuato nell’esecuzione della pena nell’abitazione (o in altri luoghi di cura e assistenza) secondo il modello già avviato nella l. 199 del 2010, per le pene detentive, anche residue, fino a diciotto mesi. All’uopo, si sono apportate alcune deroghe che, sulla carta, avrebbero dovuto accelerare l’applicazione dell’istituto (di carattere temporaneo perché applicabile alle esecuzioni domiciliari concesse - rectius, richieste - entro il 30 giugno 2020). In primis, quella della scomparsa della valutazione del requisito della pericolosità del condannato, il cui accertamento rallenta i tempi delle decisioni. Invece sono rimasti inascoltati gli unanimi suggerimenti di ampliare il perimetro dell’esecuzione domiciliare allargando anzitutto il range temporale (invece rimasto a diciotto mesi), elevandolo verso l’alto, per aumentare il ventaglio dei detenuti potenzialmente destinatari. In secondo luogo, anziché velocizzare l’applicazione della misura, il decreto Cura Italia ha posto in essere tanti nodi e laccetti al suo accesso, primo fra tutti quello di incatenarla nel braccialetto elettronico (per i residui di pena superiori a sei mesi). Come si legge nella relazione illustrativa al decreto legge 18 del 2020, il braccialetto ha come finalità quella di “elidere il rischio concreto di fughe, ma anche di reiterazione di condotte delittuose”, mostrandosi ancora una volta il governo resistente a ridimensionare, sia pure per poco, le esigenze di sicurezza pubblica e a non volergli far cedere il passo a quelle di sanità pubblica che, in un’ottica di bilanciamento “momentaneo” di contrapposti valori costituzionali, vanno primariamente salvaguardati. Sul punto occorre sgombrare il campo da un equivoco cristallizzato anche in seno agli operatori pratici. Neanche l’esecuzione domiciliare si sottrae al principio costituzionale per cui “tutte” le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e tutelare la collettività. Per dirla con le parole della Suprema Corte, “la l. 199 del 2010 ha introdotto una speciale modalità di esecuzione della pena, volta ad attuare il principio del finalismo rieducativo, sancito dall’art. 27 Cost., e per rendere nel contempo possibile l’esecuzione delle pene detentive brevi in luoghi esterni al carcere, attesa la situazione di emergenza nella quale si trovano le strutture penitenziarie italiane” (Sez. I, n. 6138 del 2014). Appare evidente che il legislatore, laddove ha previsto l’applicazione pressoché automatica dell’esecuzione domiciliare, ha deciso che, per le pene detentive brevi, la modalità “ordinaria” di esecuzione della pena - almeno fino a quando perdura il sovraffollamento carcerario, ancora in atto, a prescindere dall’emergenza Covid-19 - è quella presso il domicilio. Tuttavia, ciò non significa rinunciare né al percorso rieducativo che proseguirà (non all’interno del carcere ma) nel domicilio e sotto il controllo e l’aiuto dell’UEPE; né arretrando sull’esigenza di garantire la sicurezza della collettività legate al pericolo di fuga e di recidiva (che viene valutata nel modello originario della legge 199 del 2010, mentre risulta “apparentemente” sottratta nella versione derogatoria del decreto Cura Italia). Occorre però uscire dall’idea la quale il carcere sia l’unico luogo deputato a fronteggiarle, potendo bastare il contenimento “domiciliare”, soprattutto per le condanne a pene detentive brevi e soprattutto laddove, in armonia al finalismo rieducativo della pena, anche per pene originariamente non brevi, il condannato abbia avviato un percorso che “gradualmente” lo porti al suo reinserimento e nel vivere nei binari della legalità penale. Ancora una volta, il legislatore odierno sembra restare ingabbiato nella sua visione carcerocentrica dalla quale non riesce a liberarsi, neanche per poco, neanche in questa fase emergenziale. Come auspicava nei giorni scorsi Giovanni Maria Flick, occorre superare il carcere: “Solidarietà. È il nostro scudo. Il nostro bene più prezioso. Solidarietà vuol dire anche guardare alla condizione del detenuto senza ridurlo a diverso. Comprendere che gli “spazi residui” di libertà personale non possono essere garantiti da una pena in carcere. È un’occasione per rifletterci. E per riuscire forse a superare il carcere, a farvi ricorso solo per le persone di cui sia accertata la violenza, l’aggressività, il “codice rosso”. Forse l’emergenza coronavirus può sollecitare un passo così grande” (Il Dubbio, 8 aprile 2020). Tornando all’esecuzione domiciliare prevista dall’art. 123 del decreto cura Italia, è prevedibile in i braccialetti elettronici non saranno sufficienti perché - come rilevato subito dal Presidente dell’Unione camere penali italiane - “non bastano neanche per la custodia cautelare. Il Governo deve chiarire quanti sono i braccialetti disponibili ora, altrimenti la misura è ineseguibile. Oltre il fatto che per gestire una eventuale diffusione del virus devono uscire almeno 10.000 persone” (secondo le linee per documento delle Camere penali 20 marzo 2020, “Emergenza carceri: basta mistificazioni!”). A complicare definitivamente le cose ci ha pensato, nel partorire l’art. 123, un altro sussulto “mascherato” di riemersione della visione carcerocentrica del governo. Da un canto, infatti, per accelerare i tempi decisori, si è sbandierata la scomparsa della valutazione del pericolo di fuga e di recidiva da parte del magistrato di sorveglianza; dall’altro quest’ultima si è fatta rientrare dalla finestra attraverso l’oscura formulazione dell’unico momento discrezionale lasciato al giudice dei “gravi motivi ostativi”. Tra le varie ipotesi ostative all’esecuzione domiciliare, vi è quella delle condanne per delitti 4-bis ord. penit., ossia quelle che fotografano un detenuto presuntivamente socialmente pericoloso e per il quale la tutela della collettività andrebbe assicurata con la reclusione carceraria. Qui però le criticità e tensioni costituzionali riguardano il recente ampliamento dei delitti ostativi alla figura del “corrotto”, accanto a quella del “mafioso” e del “terrorista”. L’ampliamento dell’ombrello del 4-bis sarà nuovamente portato all’attenzione della Consulta dopo che, per il momento, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’applicazione retroattiva della legge n. 3 del 2019 c.d. spazza-corrotti, operata nella storica sentenza n. 32 del 2020, ha portato alla rimessione degli atti al giudice a quo per valutare nuovamente la rilevanza della quaestio. Bisognerà attendere insomma la condanna per un reato del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione commesso dopo il 30 gennaio 2019. Senza dimenticare le recenti picconate date alla diga del 4-bis dapprima, indirettamente, dalla Corte Edu, che ha dichiarato l’ergastolo ostativo contrario al divieto di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 Cedu (sentenza sul caso Viola n. 2 del 13 giugno 2019, definitiva l’8 ottobre 2019, quando la Corte di Strasburgo ha rigettato la richiesta del Governo italiano di rinvio alla Grande Chambre) scardinando il meccanismo della necessaria collaborazione quale condicio sine qua non per l’accesso alle misure penitenziarie extramurarie (meccanismo che riguarda anche, e soprattutto, l’ostatività dei delitti di prima fascia, prevista proprio dall’art. 4-bis ord. penit.). Successivamente, anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019 (tanto discussa, da parte di alcune forze politiche e non solo, ma che rappresenta invece un altissimo momento di civiltà giuridica) ha trasformato da assoluta a relativa la presunzione di pericolosità per tutti i delitti ostativi, in quanto è inammissibile punire ulteriormente il condannato se non collabora (sia pure al momento solo per i permessi premio). Affermando a chiare lettere che una pena “senza speranza” è in contrasto con il faro della Costituzione e, in particolare, col volto rieducativo della pena. Neanche una parola nel decreto Cura Italia poi per i detenuti non definitivi. Lacuna gravissima sol se si constati che i detenuti in attesa di giudizio rappresentano una grossa fetta della popolazione carceraria. Sul punto è intervenuta la magistratura requirente che in un documento dell’1 aprile 2020, a firma del Procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi, all’esito di una riunione web del 23 marzo (assieme ai procuratori generali presso le corti d’appello e tiene altresì conto di interlocuzioni svolte in seno alla Procura Generale della Cassazione e agli uffici di primo grado) ha indicato le opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione dei P.M. Il titolo del documento indica gli obiettivi da esso perseguito: ridurre la presenza in carcere a causa della sottoposizione a misure cautelari o pene detentive, allo scopo di contribuire alla miglior prevenzione del rischio contagio da Covid-19 durante la fase emergenziale (in Diritto e Giustizia, 6 aprile 2020). Nel documento si rafforza l’idea che “mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema il carcere costituisce l’extrema ratio. Occorre dunque incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione dalle presenze non necessarie in carcere: ciò limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro predittivo di pericolosità e con l’ulteriore eccezione legata ai reati di ‘codice rosso’” (in Diritto e Giustizia, 6 aprile 2020). Il rischio epidemico del contagio da coronavirus nelle carceri è concreto e attuale e “non lascia tempo per sviluppare accertamenti personalizzati, e può in molti casi rappresentare l’oggettivazione della situazione di inapplicabilità della custodia cautelare in carcere a tutela della salute pubblica, in base ai medesimi criteri dettati per la popolazione al fine di contrastare la diffusione del virus”. Con particolare riferimento al flusso in entrata nel carcere si sottolinea la necessità di privilegiare gli arresti domiciliari, eventualmente con braccialetto elettronico. La Procura generale della Suprema Corte chiede di interpretare le norme processuali sulla necessità di disporre la custodia in carcere quando le altre misure risultano inadeguate, e non possono essere fronteggiate neanche con gli arresti domiciliari col braccialetto (art. 275, comma 3, c.p.p.) alla luce dell’emergenza coronavirus e della situazione giuridica fattuale che ne è derivata per tutti i cittadini (con i divieti di allontanarsi dalle abitazioni, ai divieti di aggregazione) e che ha portato ad un abbattimento del 75% dei reati. Occorre pertanto che i pubblici ministeri privilegino la richiesta di arresti domiciliari, ove necessario anche con il braccialetto elettronico (ad eccezione dei casi di rilevante gravità e di assoluta incompatibilità). Con riguardo invece al flusso in uscita dal carcere nel documento si incentiva il P.M. a chiedere la revoca o attenuazione delle misure cautelari già disposte. Nella costante verifica dei presupposti in ordine all’eventuale attenuazione o venir meno della proporzionalità della custodia in carcere (in relazione alla entità del fatto o alla sanzione irroganda) il P.M. dovrà valutare se l’affievolimento delle esigenze cautelari e/o lo stato di salute dei detenuti (laddove le patologie già acclarate, sia pure ritenute compatibili con la detenzione intramuraria, potrebbero portare a conseguenze letali o grandemente pregiudizievoli per la salute) possano consigliare la sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, in tutti i casi in cui la disponibilità di un alloggio lo consenta, con l’applicazione del braccialetto elettronico, laddove disponibile. Tali passaggi del documento della Procura generale di cassazione sono di grande pregio, anche alla luce della inspiegabile assenza di misure svuota-carceri nel decreto cura Italia (avendo il d.l. 18/2020 previsto l’istituto della detenzione domiciliare in deroga all’art. 1 l. 199/2010 che si applica solo ai condannati). Ed è noto che da più parti in dottrina si è autorevolmente suggerito al legislatore, in vista della conversione del decreto-legge, l’introduzione di una disciplina temporanea che imponga al giudice di tener conto, al momento della scelta della misura cautelare, anche dell’odierna emergenza sanitaria, così da favorire una più diffusa applicazione degli arresti domiciliari, eventualmente con l’uso del braccialetto elettronico. Cercando di trarre le fila dell’intervento normativo, preziose sono le parole del Garante nazionale: “C’è molto cammino da fare, andando a passo svelto perché così richiesto dall’impellenza del presente, ma anche con passo ben direzionato perché deve essere chiara la necessità di ridare sensatezza al cammino, di ricomprendere l’orientamento dei passi. In questa ipotesi il decreto (n. 18 del 2020) è soltanto un primo piccolo passo in avanti che sarà ben direzionato se in sede applicativa saprà cogliere il senso del suo andare e non si restringerà nella timidezza” (in Diritto penale e uomo, 25 marzo 2020). Evidente però che l’arsenale deflattivo offerto dal legislatore ai magistrati di sorveglianza è veramente povero. E manca chiarezza della direzione da seguire. Invece, occorre agire subito. Gli ostacoli che sbarrano o comunque appesantiscono il percorso per arrivare alla concessione dell’esecuzione presso il domicilio, così come “ingabbiata” nel decreto Cura Italia, spingeranno la magistratura di sorveglianza a svolgere - per dirla con le parole del Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere del 26 marzo - “un difficile ruolo di supplenza con l’assunzione di gravi responsabilità: i giudici di sorveglianza, infatti, dovranno ricercare soluzioni adeguate a contemperare la sicurezza collettiva con l’esigenza di garantire la massima tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, muovendosi in un quadro normativo che non offre strumenti per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento che, in considerazione dei gravi rischi che determina per la salute collettiva, richiede precise e urgenti scelte da parte del legislatore” (in Giurisprudenza penale, 27 marzo 2020). Abbiamo già avuto i primi casi di applicazioni “coraggiose”, ad iniziare proprio da parte dell’Ufficio di sorveglianza di Milano, quello colpito al cuore dall’emergenza sanitaria (dove il Covid-19 è arrivato anche ai polmoni economici di una città che avrà la forza di rialzarsi e tornare velocemente a correre) in cui sono state percorse strade diverse da quelle insufficienti finora adottate dal legislatore per arrivare alla fuoriuscita del detenuto dal carcere. Si tratta della concessione di misure alternative (affidamento provvisorio in via d’urgenza e differimento della pena nelle forme detenzione domiciliare umanitaria sempre in presenza di un grave pregiudizio derivante dalla protrazione della detenzione), a costo di forzare (ma non travalicare) il perimetro dei presupposti applicativi. Di estremo interesse è la valutazione compiuta dal giudice meneghino sull’esistenza del “grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione” ove entra proprio “l’attuale emergenza sanitaria da Covid-19, al fine di limitare il rischio di contagio all’interno delle carceri” (Uff. Sorv. Milano 20 marzo 2020, in Diritto e Giustizia, 1 aprile 2020). È importante pertanto che i difensori dei detenuti spingano in questa direzione, avanzando istanza agli uffici di sorveglianza per la concessione provvisoria dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare, ritenendo come “grave pregiudizio” la prosecuzione della detenzione nella situazione emergenziale da Coronavirus, sia alla luce delle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità che richiede di ridurre le presenze nei luoghi di aggregazione per le possibili conseguenze in termini di contagio, sia per l’assenza di qualsiasi valenza trattamentale all’interno degli istituti di pena nel periodo attuale. Misure che appaiono, ancora più ragionevoli, laddove le persone sono già state ritenute meritevoli di benefici penitenziari immediatamente antecedenti alla misura alternativa alla detenzione più ampia, come il permesso premio e il lavoro all’esterno; benefici bloccati per ragioni sanitarie con conseguenze in termini di regressione trattamentale e perdita di effettive opportunità lavorative. Altra strada già seguita per la rapida fuoriuscita del detenuto in tale fase emergenziale è quella del differimento della pena, nelle forme della detenzione domiciliare, anche in presenza di un quadro clinico grave ma ritenuto dai sanitari non incompatibile con il regime detentivo. Si è ritenuto, in particolare, che “non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluri-patologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete, tenuto conto che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; tali patologie possono considerarsi gravi con specifico riguardo all’elevato rischio di contagio attualmente in corso per Covid-19 che, contrariamente a quanto ritenuto dal Magistrato di sorveglianza, appare più elevato in ambiente carcerario ove non è possibile l’isolamento preventivo” (Tribunale di sorveglianza di Milano, 31 marzo 2020, in Diritto e Giustizia, 7 aprile 2020, con nota, se vis, di C. Minnella, Continuano le “coraggiose” decisioni svuota carceri della magistratura di sorveglianza milanese). Tali arresti, peraltro, lungi dal rappresentare una forzatura dei presupposti per disporre il rinvio della pena (ossia del concetto di grave infermità fisica previsto dall’art. 147, comma 1, n. 2, c.p.), sono una corretta applicazione del quadro normativo perché superano l’equazione, ormai aprioristicamente cristallizzata nelle aule della magistratura di sorveglianza, grave infermità fisica=incompatibilità, ossia che si è in presenza della prima solo quando le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario. La Suprema Corte ci dice invece chiaramente che anche in situazioni di ritenuta compatibilità il giudice di sorveglianza non deve fermarsi, respingendo il differimento della pena e/o l’applicazione della detenzione domiciliare c.d. umanitaria o in deroga. Deve invece verificare se le condizioni di salute di cui è affetto il detenuto, anche se compatibili con il regime detentivo, siano da considerarsi gravi facendo uscire la pena dai binari della sua umanità, alla luce principi di cui all’art. 3 Cedu e art. 27 Cost., comma 3, Cost. Pertanto, in presenza di uno stato morboso o scadimento fisico che possa determinare un’esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria - dovendo contemplarsi l’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (Sez. I, n. 39797/2019) - si ha lo sconfinamento verso una pena disumana e degradante. In questi casi va disposto il differimento dell’esecuzione della pena, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare, laddove residuino margini di pericolosità per la collettività da fronteggiare. Sulla stessa lunghezza d’onda, la Corte Edu, nell’individuare i parametri dai quali evincere quel livello minimo di gravità per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3 Cedu ha individuato anche “l’età e lo stato di salute del recluso” (Sez. IV, n. 20034/2015). Sempre la Corte di Strasburgo ha affermato che la circostanza che un detenuto soffra di gravi e molteplici patologie, attestate da un’adeguata documentazione medica sottoposta alle autorità competenti, comporta che la detenzione in carcere è incompatibile con il suo stato di salute. Il mantenimento dello stato detentivo comporta, in presenza di uno stato di salute precario, un trattamento disumano e degradante (Sez. II, n.7509/2014). Ci si augura che tale esegesi, che corre lungo i corretti binari della lettera dell’art. 147, comma 1, n. 2, c.p., se mossa di tutelare la salute pubblica legata al rischio di contagio da COVID-19 (che il cronico sovraffollamento delle carceri non può che ulteriormente aggravare), si cristallizzi nel tempo e costituisca la norma (e non l’eccezione) anche dopo che la fase emergenziale sia cessata. Pure in questo versante è centrale il ruolo del difensore, che deve avanzare istanze per ottenere il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in via d’urgenza, da eseguirsi nelle forme della detenzione domiciliare (comma 1-quater dell’art. 47-ter ord. penit)., laddove vi siano patologie a rischio come quelle indicate dall’OMS (over 65, pazienti oncologici, pazienti immunosoppressi; pazienti con malattie cardiovascolari pazienti con ipertensione arteriosa, pazienti reumatici o diabetici; pazienti come asma e patologie polmonari croniche) che appaiono suscettibili di esito infausto immediato in caso di contagio virale. Stesso discorso quando vi siano condizioni di grave infermità fisica, contemperate oggi alla luce sia delle condizioni cliniche e personali del soggetto sia dell’emergenza sanitaria in atto, tenuto conto della loro maggiore vulnerabilità a contrarre infezioni e/o della loro più alta probabilità di incorrere, per comorbilità, in gravi complicanze. L’emergenza legata al Covid-19 avrebbe dovuto portare nell’agenda politica del Paese le difficoltà del nostro sistema penitenziario, ove il detonatore coronavirus impone interventi drastici e immediati. Ma così, almeno per il momento, non è stato. Parafrasando ancora le parole di Giostra, non bisogna mai rassegnarsi all’idea che “il cimitero dei vivi” (all’interno delle mura carcerarie) da icastica metafora turatiana possa divenire un’inconfessabile soluzione. Il faro che ci deve guidare, anche e soprattutto nell’emergenza, è la Costituzione e i valori facenti parte del nucleo dei principi supremi inderogabili. Tra questi, il “fondamentale” diritto alla salute (l’unica volta che la Carta costituzionale utilizza tale aggettivo per qualificare un diritto), il rispetto della dignità umana e di tutte le libertà che devono essere riconosciute e garantite a fortiori a chi si trova privato della libertà personale, quando, come in questi casi, possano essere messe a repentaglio dalla situazione emergenziale in atto. Primo fra tutti va salvaguardato il diritto alla vita che la Costituzione nemmeno consacra e ingabbia in una norma in quanto la vita è qualcosa che sgorga naturalmente e non può essere sottratta all’individuo (come conferma il divieto della pena di morte) avendo invece lo Stato l’obbligo di tutelarla dalla culla alla tomba. Quella vita oggi messa seriamente a rischio dall’emergenza sanitaria mondiale in atto proprio nei confronti di quei soggetti che, per lo stato detentivo in carcere, sono quelli più vulnerabili e a rischio contagio. Non può certo essere il primo detenuto morto a causa del contagio Covid-19 (recluso nell’istituto bolognese della Dozza, che era stato trasferito in terapia intensiva dopo il peggioramento delle sue condizioni e poi ammesso agli arresti domiciliari in ospedale) a riaccendere il dibattito sul pessimo stato di salute delle nostre carceri e sulle misure da adottare immediatamente per aumentare il flusso in uscita dalle carceri e ridurre quello in entrata. Non si può più aspettare! *Avvocato penalista del foro di Catania Le porte delle carceri non devono rimanere chiuse di Caterina Fuda* larivieraonline.com, 19 aprile 2020 In Italia è sempre più acceso il dibattito sulle condizioni degli Istituti Penitenziari in seguito alla crescita dei contagi da Covid 19 al loro interno. Purtroppo si sono verificati morti tra i ristretti e il personale della polizia penitenziaria. E allora ci si domanda se le misure introdotte con il D.L. 18/2020 sono la soluzione più idonea a fronteggiare l’emergenza Coronavirus nelle carceri. In un Paese in cui il termine “sovraffollamento carcerario” è sempre più attuale, la risposta è negativa. I detenuti che hanno visto completamente compressi i loro diritti, con lo stop dei colloqui visivi e la privazione dei permessi premio, si sono dovuti accontentare di condividere i loro già minimi momenti di familiarità attraverso il telefono e, ove possibile, con una videochiamata. Per non parlare dell’obbligo di condividere spazi minimi, dove non può essere garantita la distanza minima di un metro e le condizioni igienico - sanitarie fortemente consigliate dai vari Dpcm. E infatti i nostri Istituti Penitenziari, proprio per i loro spazi limitati, non possono isolare tutti i reclusi. Come ben ha osservato il Garante Nazionale dei Detenuti, nelle carceri non è più tempo di rivolte, ma bisogna far uscire immediatamente i detenuti che hanno un fine pena vicino. Oltre ciò, l’attenzione non va mai distolta dai detenuti che soffrono di patologie pregresse che sono più esposti al contagio epidemico. In presenza di norme insufficienti, il popolo dei detenuti si è ancorato alle decisioni, diversificate, dei Giudici. Una sorta di sensibilità è pervenuta dai Magistrati di Sorveglianza che, ancor prima del D.L. 18/2020, hanno cercato di fronteggiare l’emergenza Covid con gli strumenti a loro disposizione. Questo, però, non è abbastanza. Servono decisioni più concrete e stringenti per la tutela dei nostri detenuti. Sul punto, richiamando le parole dell’Eurodeputato Giuliano Pisapia, è il momento che “dalle parole si passi ai fatti”. Anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato che non intende girarsi dall’altra parte di fronte alle condizioni delle carceri e alla tutela dei detenuti e di chi lavora ed opera negli istituti penitenziari, ma nonostante le sollecitazioni anche del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del Papa, dell’Avvocatura e di tanti altri, a oggi non abbiamo nulla di concreto. Eppure l’attenzione nelle carceri deve essere alta, al punto che Papa Francesco ha dedicato la Via Crucis del Venerdì Santo alle storie dei detenuti, delle loro famiglie e di chi lavora per loro. Inutile dire che il Primo Vescovo di Roma ha voluto lanciare un messaggio per questa categoria di persone di cui nessuno al Governo sembra curarsi in questa emergenza. Resta, infine, la speranza che per i soggetti sottoposti a carcerazione preventiva per reati datati e coloro che hanno un fine pena tale da essere ammessi alle misure alternative, le porte del carcere si possano aprire al più presto, al fine di alleggerire le strutture penitenziarie. Senza dimenticare che rimane l’auspicio che l’istituto dell’indulto o quello dell’amnistia, in un momento di sofferenza collettiva, venga preso in seria considerazione dal Ministro della Giustizia. *Avvocato Covid-19 e detenuti: l’Italia è meno severa dell’Europa di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2020 Anche all’estero i provvedimenti di scarcerazione sono limitati a chi ha da scontare un residuo di pena e non per reati gravi. Chi sostiene che in tempo di coronavirus gli altri Paesi europei siano più elastici nel concedere scarcerazioni, in funzione anti contagio, si sbaglia. Anche per la vita in carcere sono state prese misure come in Italia: l’aumento del numero di telefonate in conseguenza all’azzeramento delle visite dei familiari, collegamenti via Skype. I provvedimenti di scarcerazione sono limitati a chi ha da scontare un residuo di pena e non per reati gravi, con criteri anche più restrittivi dell’Italia. Anzi, diversi Paesi sono decisamente più rigidi del nostro, per esempio Germania, Spagna, Norvegia e Inghilterra. Invece, rispetto alla sospensione delle visite esterne e all’adozione di misure ad hoc di tipo igienico-sanitario, dentro le carceri c’è un’omologazione tra Paesi europei e non: dalla Francia al Belgio, alla Spagna, alla Germania all’Olanda, ai Paesi scandinavi e a quelli dell’Est Europa. Ma anche Russia, Usa, Marocco. In Italia, fino al 30 giugno può stare ai domiciliari chi ha un residuo di pena fino a 18 mesi, non per gravi reati. A partire dai 6 mesi solo se si ha il braccialetto elettronico. I detenuti in semilibertà possono dormire a casa. Sono misure già previste dalla legge del 2010 ma fino al 30 giugno la procedura è semplificata anche se resta il vaglio del giudice di sorveglianza. Francia. Al 1° aprile erano stati scarcerati 3.500 detenuti, l’obiettivo del governo è di liberarne fino a 5 mila e la ministra della Giustizia, Nicole Bolloubet si è appellata ai giudici affinché diminuiscano gli ingressi di nuovi detenuti facendo ricorso a pene alternative previste dalla legge ordinaria o al differimento della pena, in caso di condanne lievi. Sono aumentate le sospensioni della pena per detenuti gravemente malati. In forte calo la custodia cautelare preventiva, eccetto per arresto in flagranza di reato, come in Italia. Sono aumentate le possibilità di libertà vigilata senza braccialetto elettronico. Spagna. I detenuti spagnoli che hanno potuto lasciare il carcere sono solo quelli che erano già in regime di semilibertà. Invece di rientrare in carcere per dormire, come in Italia possono restare nelle loro case ma con il braccialetto elettronico. Una possibilità già prevista dall’ordinamento penitenziario spagnolo e adesso impiegata sostanzialmente a tutti i casi dei detenuti semiliberi che abbiano un domicilio. Nessun differimento di pena ai domiciliari per alcuni tipi di detenuti che devono scontare un residuo di pena. Sono stati, però, ridotti gli ingressi di nuovi detenuti in carcere. Germania. Anche in Germania non c’è stata alcuna scarcerazione, perché non c’è una legislazione vigente che lo consenta. C’è, invece, come sempre, la possibilità di richiedere la sospensione della pena per ragioni di salute gravi; in questo periodo l’ingresso dei nuovi detenuti è previsto solo per i condannati a pene per reati gravi. I nuovi entrati per due settimane sono in strutture separate per evitare un rischio eventuale di contagio. Norvegia. I detenuti che possono ottenere la libertà anticipata per l’emergenza coronavirus sono coloro a cui resta una pena residua fra i 3 e i 6 mesi e hanno diritto a uscire tra i 10 e i 30 giorni in anticipo rispetto alla data prevista, devono anche essere sottoposti a una valutazione di pericolosità sociale. Inghilterra-Galles. Il 6 aprile è stato varato un piano di liberazione graduale di detenuti fino a un massimo di 4.000, ritenuti a basso rischio e con due mesi di pena da scontare in regime di libertà condizionata. “Saranno provvisti - si legge sul sito del ministero della Giustizia inglese - di strumenti elettronici e rilasciati temporaneamente”. Saranno controllati anche con il Gps per verificare che restino a casa. Il pm Albamonte contro gli avvocati: “Stanno strumentalizzando Soro” di Liana Milella La Repubblica, 19 aprile 2020 Dopo la lettera del Garante della privacy al Guardasigilli Bonafede, il segretario di Area mette in guardia da iniziative che rischiano di bloccare definitivamente la giustizia italiana. “Attenzione, se la giustizia non riparte subito andremo incontro a una crisi epocale del sistema e poi serviranno anni per rimetterlo in piedi”. Dice così Eugenio Albamonte, il pm romano che a piazzale Clodio da oltre dieci anni si occupa dei reati informatici, ed è segretario di Area, la corrente di sinistra dei giudici. Ma le norme eccezionali, come la possibilità di fare i processi via computer, devono valere solo adesso o per sempre? La questione è caldissima. Divide il mondo della giustizia. Gli avvocati dicono di no, ma anche l’Anm parla di “una disciplina imposta dall’emergenza e valida per la sola durata di essa”, proprio come fa il Pd che con il responsabile Giustizia Walter Verini vede misure “limitate al periodo dell’emergenza”. Mentre dal gruppo di Piercamillo Davigo al Csm viene l’invito a verificare se proprio queste misure non possano durare nel tempo e andare a regime per “semplificare e sburocratizzare l’attività giudiziaria, sperimentare nuove modalità operative, avere nuovi approcci ai problemi”. Il dibattito è aperto. Ecco il parere di Albamonte, che è stato anche presidente dell’Anm. Chi ha ragione tra il Garante della privacy Soro e il Guardasigilli Bonafede sui cosiddetti processi “da remoto”? “Un attimo, è necessario fare un passo indietro. Le Camere penali si sono rivolte a Soro, ma noi magistrati, non appena è uscito il primo decreto, quindi stiamo parlando di metà marzo, ci siamo posti il problema della sicurezza dei dati ricorrendo a un processo via computer. Ne abbiamo parlato con i colleghi di via Arenula e abbiamo avuto ampie rassicurazioni sulla tutela della privacy”. In due parole, che s’intende per processi “da remoto”? “Solo durante la fase di emergenza sarà possibile celebrare alcuni processi senza esporre a pericolo la salute degli avvocati, degli imputati, degli amministrativi e degli stessi magistrati attraverso sistemi di videoconferenza che consentono di partecipare all’udienza senza rischi di contagio”. Beh, se le cose stanno così, ammetterà che per un imputato e per il suo avvocato collegarsi con un computer può essere un problema, come dicono appunto gli stessi avvocati... “Ricordo che già prima dell’entrata in vigore dei decreti legge sulla giustizia gli avvocati avevano indetto uno sciopero nazionale, con il blocco totale delle udienze, proprio perché erano preoccupati di venire nei tribunali. Quindi delle due l’una: o blocchiamo completamente la giustizia fino alla fine della pandemia, oppure cerchiamo un compromesso come quello di utilizzare i sistemi informatici almeno laddove non sarà possibile ancora per lungo tempo andare nelle aule”. Innanzitutto chiariamo un fatto: stiamo parlando quindi di una misura d’emergenza che, secondo lei, dovrà essere necessariamente limitata a questo periodo. Fino al 30 giugno è scritto nel decreto Cura Italia. Ma la preoccupazione degli avvocati e anche degli esponenti del centrodestra è che questo possa diventare un sistema definitivo per accelerare la giustizia italiana... “Questo strumento dovrà essere utilizzato soltanto per il periodo dell’emergenza e solo in quei tribunali dove sarà ancora pericoloso tornare nelle aule. Non c’è nessun rischio di una modifica permanente del processo perché i magistrati per primi non la vorrebbero, almeno in questi termini. E lo stesso ministro ha preso un impegno in questa direzione”. Sia sincero, lei pensa che gli avvocati abbiano sollevato strumentalmente la violazione dei dati e della privacy dei loro assistiti? “Sono rimasto meravigliato del fatto che abbiano chiesto chiarimenti al Garante della Privacy e non direttamente al ministero, visto che è in corso un tavolo tecnico proprio su questi argomenti nel quale si poteva porre il problema ottenendo una risposta ben più rapida di quella che può dare il Garante che a sua volta dovrà chiedere informazioni al ministero”. Insomma, mi sta dicendo che il comportamento delle Camere penali è strumentale? “Sicuramente questa operazione interferisce con la fase di conversione del decreto legge. Tant’è che alcuni soggetti politici hanno subito ripreso l’argomento. L’effetto finale è quello di ritardare ulteriormente quel minimo riavvio della giustizia penale che sarebbe oggi possibile”. Lei da pm condivide l’idea, sollecitata dai suoi colleghi, di poter fare anche gli interrogatori “da remoto”? “I pm come gli avvocati sanno benissimo che gli interrogatori da remoto sono molto più difficoltosi e meno efficaci. Ecco perché misure come questa sono giustificate solo dall’esigenza di rimettere in moto la giustizia il prima possibile. E non potranno mai essere inserite per sempre nel processo”. Ma davvero ritiene che per un pm e un poliziotto sia possibile interrogare una persona senza guardarla in faccia dal vivo cogliendo sue esitazioni ed eventuali incertezze? Io le confesso di essere un po’ perplessa.... “È esattamente quello che intendo dire. E ancora più importante è che il giudice possa vedere dal vivo questi comportamenti non verbali ma sicuramente significativi durante il processo. Per questo dico che si tratta di misure limitate all’emergenza. Un ex magistrato di lunga esperienza come Piero Grasso in questi giorni, rispetto a chi solleva dubbi, ripete che da lungo tempo ormai gli interrogatori dei collaboratori avvengono in videoconferenza. Stiamo parlando della stessa cosa? “Sostanzialmente sì, ma in quel caso la maggior fatica che tutti noi facciamo per fare quegli interrogatori è giustificata da ragioni di incolumità personale dei collaboratori. Le stesse esigenze non ci sono per gli altri testimoni del processo ed è quindi giusto che, finita l’emergenza, tornino a deporre in aula”. E poi come la mettiamo con il software fornito da Microsoft? Soro mette in evidenza il rischio che dati molto delicati inerenti ai processi finiscano in mano ad estranei. Questo non è un pericolo? Come ci si può tutelare? “Proprio in questi giorni si sta parlando di App per il tracciamento sanitario di tutti gli italiani. Entrambe le situazioni presuppongono la massima attenzione a chi gestisce i dati. Ciò non vuol dire che una volta raggiunta tale sicurezza questi strumenti non possano essere usati. E per le piattaforme ministeriali sembra di capire che proprio questo livello alto di sicurezza già sia stato predisposto”. Sta dicendo che Soro dà il via libera sulla App Immuni e invece solleva problemi sui processi via pc? “Le cronache della giornata sembrerebbero evidenziare questa contraddizione. Ma in verità il pronunciamento del Garante sulle piattaforme del ministero della Giustizia, allo stato, è solo interlocutorio e sono convinto che all’esito della procedura questa apparente contraddizione sarà risolta”. Calabria. Il Garante: “Coronavirus nelle carceri, un contagio sarebbe drammatico” di Francesco Donnici Corriere della Calabria, 19 aprile 2020 I detenuti nei 12 penitenziari della regione superano di 100 unità i posti disponibili. Il Garante: “Bisogna sfoltire la popolazione carceraria prima che sia troppo tardi”. A Crotone interrotto lo sciopero della fame, “ma siamo 8 in celle da 5, non è possibile rispettare il distanziamento”. “La situazione, nei 12 penitenziari della regione, ad oggi può dirsi tranquilla. Non ci sono state rappresaglie se non una “battitura” nel carcere di Cosenza durante le rivolte del mese scorso ed una protesta pacifica dei detenuti di Crotone. Non va però dimenticato che un contagio all’interno del carcere potrebbe diventare un moltiplicatore di drammatica gestione”. A parlare è Agostino Siviglia, garante regionale dei diritti dei detenuti. Con lui abbiamo cercato di ricostruire il quadro della situazione nei luoghi di privazione della libertà personale in questo periodo delicato dove torna a far parlare di sé un problema che può dirsi quasi “atavico” nelle carceri del nostro paese: il sovraffollamento. Gli ultimi numeri ufficiali risalgono allo scorso 31 marzo 2020, quando i detenuti dislocati nei 12 penitenziari calabresi erano 2.832 a fronte di una capienza regolamentare di 2.734 posti. Una sproporzione che rispecchia la situazione del resto del paese. Al 31 dicembre 2019, i detenuti in tutta Italia erano 60.769. Il numero è progressivamente aumentato dal 31 dicembre 2015, quando erano calati a 52.164, ed è il più alto dal 2013, quando al 31 dicembre erano 62.356. Secondo i dati diffusi dallo United Nations Office on Drugs and Crime, nel 2017 il “tasso di detenzione” in Italia era di 100,5 detenuti ogni 100 mila abitanti. Fatta eccezione per la Germania, quasi tutti i paesi europei hanno numeri superiori al nostro: in Francia 106 detenuti ogni 100 mila abitanti, nel Regno Unito 143 detenuti ogni 100mila abitanti, in Spagna 127 detenuti ogni 100 mila abitanti, in Polonia 195 detenuti ogni 100 mila abitanti. Il problema è ancora più visibile in questo periodo di pandemia, dove cresce la paura all’interno delle carceri, dove le celle non consentono un distanziamento sociale tra i reclusi e in alcune strutture mancano degli spazi di isolamento dove poter alloggiare i casi sospetti. Tema da non sottovalutare, a maggior ragione se letto nella chiave delle diverse pronunce con le quali l’Italia è stata sanzionata a più riprese dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo che, tra le altre, nella sentenza “Torreggiani” dello scorso 8 gennaio 2013 ha sottolineato come “in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”. Per far fronte alle rivolte, il Governo è intervenuto introducendo, nel Decreto “Cura Italia”, gli articoli 123 e 124 che permettono ad alcuni detenuti, alla presenza di determinate condizioni, l’accesso a misure alternative alla detenzione. Allo scorso 8 aprile - come riportato dal Corriere della sera - le presenze nelle carceri italiane sono scese da 61.235 a 57.137 detenuti, ma i posti rimangono 47.482. La ratio è proprio quella di sfoltire la popolazione carceraria, ma pare non bastare. “Ad oggi posso dire - continua Siviglia - che il numero delle persone detenute che riesce poi ad accedere a misure alternative, almeno in Calabria, si può contare sulle dita di una mano”. Le problematiche sono molteplici: “L’apparato burocratico è rimasto invariato e questo non aiuta in un contesto di emergenza dove agire immediatamente è fondamentale”. Non per tutti i detenuti è altrettanto facile accedere alle istanze per la richiesta di misure alternative. La regola dice che possono accedervi coloro i quali abbiano - alla data di entrata in vigore del decreto - un residuo pena non superiore ai 18 mesi. Tuttavia, se il residuo pena è inferiore ai 18 mesi ma superiore ai 6 lo si subordina alla concessione del braccialetto elettronico “che tra l’altro non è di facile reperimento”, rimarca Siviglia, che aggiunge: “Se rimane vincolata la valutazione sugli eventuali motivi ostativi all’esame del Magistrato di sorveglianza, tutto l’apparato burocratico normativo resta invariato e si congestiona ancor più il lavoro degli uffici giudiziari”. Lo scorso 21 marzo è stata diramata una circolare dell’amministrazione penitenziaria con la quale venivano invitati i direttori dei penitenziari di tutto il paese “a comunicare all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza il nominativo del detenuto, suggerendo la scarcerazione che potrebbe avere almeno una delle nove patologie elencate dal Dap”, oltre che le superano i 70 anni. Un provvedimento che guarda in maniera indiscriminata alla popolazione carceraria e che, secondo alcuni, solo per fare un esempio, potrebbe riguardare anche 74 boss oggi al 41bis. In questa chiave, ha fatto molto discutere, nei giorni scorsi, la scarcerazione del boss di Melicucco, Santo Rocco Filippone. La Corte d’Assise di Reggio Calabria ha accolto la sua istanza per l’accesso alla misura degli arresti domiciliari proprio per evitare il rischio di contagi all’interno del carcere. La deputata in quota Fratelli d’Italia e membro della Commissione antimafia, Wanda Ferro, ha così commentato: “Come temevamo, con l’articolo 123 del decreto 18, il governo ha dato il “tana libera tutti” a boss e criminali d’ogni grado” aggiungendo “anziché liberarsi facendo tornare a casa i boss, il governo dovrebbe impegnarsi a garantire l’adeguamento degli istituti penitenziari all’emergenza in corso”. C’è però da fare un distinguo ed osservare nel concreto la situazione all’interno dei penitenziari. Che le misure del governo non abbiamo dato un “tana libera tutti” lo testimoniano le parole dei detenuti del carcere di “media sicurezza” di Crotone, che scontano condanne per reati meno gravi rispetto, ad esempio, ad un eventuale 416bis. Nella lettera inviata al Capo dello Stato ed altre Istituzioni ed autorità si legge: “La capienza della struttura è di 90 posti e siamo circa 146. Viviamo in due sezioni e una emergenziale. Nelle stanze di pernottamento invece di 5 siamo in 8 e in quelle da 2 siamo in 4”. La missiva risale allo scorso 4 aprile, giorno in cui i detenuti di Crotone hanno iniziato uno sciopero della fame per portare l’attenzione delle istituzioni sul problema del sovraffollamento e per chiedere eventuali cautele all’interno dei penitenziari: “Ai nuovi entrati viene effettuata solo una rilevazione di temperatura. Loro chiedono che a tutte le persone che gravitano intorno al carcere, da fuori, venga fatto il tampone. Questo, le normative attualmente in vigore, non lo prevedono”, ci spiega il garante comunale di Crotone, Federico Ferraro che già giorni fa rafforzava un appello alla cittadinanza: “Non c’è materiale sanitario ed igienizzante per i detenuti, per questo chiediamo alle persone ed alle associazioni che possano guardare al carcere e darci una mano”. Lo sciopero è durato 5 giorni, fino a che otto donne crotonesi, raccogliendo l’appello, hanno cucito a mano e consegnato in carcere 150 mascherine lo scorso 16 aprile. “Un gesto importante - rimarca Ferraro - ma l’attenzione deve rimanere alta sulla problematica: per maggior tutela di tutti coloro che gravitano nel mondo carcere servono ancora guanti protettivi, gel igienizzante, amuchina”. La situazione nel resto del paese è precipitata dopo la decisione di sospendere le visite in carcere di familiari e prossimi congiunti, oltre che gran parte delle attività ricreative che esporrebbero al rischio di assembramenti. A maggior ragione, in queste condizioni, fondamentale dovrebbe essere l’apporto di psicologi e psichiatri. Apporto divenuto cruciale a seguito delle rivolte e contestuale smistamento di 150 detenuti da altri penitenziari (Napoli, Foggia e Rieti su tutti), nei 12 Istituti della regione. Ma nelle carceri calabresi, come denunciato proprio da Agostino Siviglia, ci sono gravi carenze: “Ci sono penitenziari, come quello di Arghillà a Reggio Calabria, dove il personale lavora con un monte orario molto basso rispetto a quello previsto per più di 300 detenuti. Gli psicologi, ad esempio, hanno a disposizione solo 8 ore rispetto alle 36 che sarebbero normalmente previste”. Risale allo scorso 7 aprile l’ultima missiva urgente inviata alla governatrice Santelli e al generale Saverio Cotticelli “ai fini di un reclutamento di personale infermieristico e completamento orario di specialistica psichiatrica e psicologica ad Arghillà”. La risposta è arrivata proprio dal commissario “ad acta” della sanità calabrese che ha dato l’autorizzazione all’assunzione di 8 infermieri “non lasciando - rimarca Siviglia - più scuse all’Asp”. Una situazione complessa e delicata dunque, che richiede una comune presa di coscienza ed un’azione preventiva: “Dall’Ufficio nazionale non trapelano indiscrezioni positive per il prossimo futuro - dice ancora Siviglia - Stiamo spingendo per interventi che possano alleggerire la popolazione carceraria. Non stiamo parlando di atti di amnistia e indulto perché non ci sono le condizioni politiche in questo momento. Non possiamo illudere le persone private della libertà personale. E sia chiaro: non stiamo parlando nemmeno di scarcerazioni, perché continuerebbero a scontare la loro pena in condizioni più consone alla salute loro e a quella di tutti noi”. Veneto. “Contagio nelle carceri, la Regione intervenga” venetonews.it, 19 aprile 2020 “La Regione deve subito organizzarsi per consentire uno screening completo nelle carceri del Veneto”. A chiederlo, sono i Consiglieri regionali del coordinamento Veneto 2020 Piero Ruzzante (Liberi e Uguali), Patrizia Bartelle (Italia in Comune) e Cristina Guarda (Civica per il Veneto) che nella mattinata di oggi hanno depositato un’interrogazione urgente con la quale chiedono alla Giunta regionale “di intervenire rispetto al contagio da coronavirus che si sta diffondendo nelle carceri, avviando interventi a garanzia della salute dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria”. “Il clima all’interno delle carceri del Veneto - sottolineano i tre Consiglieri - è sempre più teso mano a mano che si diffonde il contagio di Covid-19; il virus viene aiutato dal sovraffollamento cronico delle strutture penitenziarie. Il dato più preoccupante arriva da Verona, dove 17 agenti di polizia penitenziaria e 25 detenuti sono risultati positivi al tampone. Il sindacato di polizia penitenziaria ha denunciato addirittura inviti verbali a non utilizzare le mascherine per non spaventare i detenuti”. “Così si rischia una strage - concludono Ruzzante, Bartelle e Guarda - la salute dei detenuti e delle guardie penitenziarie va messa al primo posto: la Regione attivi subito tutti gli strumenti necessari per garantire la tutela della salute dei carcerati e degli agenti”. Piemonte. Coronavirus, 52 detenuti positivi nei penitenziari piemontesi torinoggi.it, 19 aprile 2020 Il Garante Bruno Mellano risponde all’Osapp: “Tenderei a escludere che i detenuti a Torino siano cosi scriteriati da inseguire un sogno di libertà, peraltro relativa, mettendo a rischio la loro stessa vita”. Lo ha detto il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, dopo che il segretario del sindacato autonomo degli agenti penitenziari Leo Beneduci, ha affermato che tra i detenuti del carcere di Torino “sarebbe in uso scambiarsi effusioni in maniera più che palese, probabilmente con l’evidente scopo di contrarre una positività che faciliterebbe l’uscita all’esterno”. “Condivido però la richiesta dei sindacati - ha aggiunto Mellano - di eseguire tamponi a tappeto sia ai detenuti che agli agenti, così da contenere il contagio. Proprio di questo oggi ho scritto al presidente della Regione Alberto Cirio e all’Unità di crisi, a cui spetta decidere”. Intanto, nelle carceri piemontesi i detenuti positivi sono saliti a 52. A Torino i contagi sono 46, ai quali bisogna aggiungere altri 12 detenuti già collocati agli arresti domiciliari. È stata decisa la quarantena nel polo universitario, nella sezione Arcobaleno e nella sezione Rugby, mentre nella sezione “semiliberi”, i positivi si trovano in isolamento sanitario. Fra i contagiati figura anche un detenuto recluso nella sezione Alta sicurezza. Ad Alessandria, i positivi sono 4 (di cui uno in ospedale a Torino) con un’intera sezione che è stata messa in quarantena. Infine al carcere di Saluzzo, di recente diventato penitenziario di Alta sicurezza, i positivi sono 2, entrambi trasferiti nell’infermeria interna. Abruzzo. Coronavirus, Marsilio firma l’ordinanza: “Task force per le carceri” Il Centro, 19 aprile 2020 Il governatore Marco Marsilio ha firmato l’ordinanza per le misure straordinarie di contrasto e contenimento sul territorio regionale della diffusione del Covid-19 nell’ambito delle strutture penitenziarie e dei servizi territoriali afferenti alla giustizia minorile della Regione Abruzzo. Con il provvedimento è prevista l’applicazione sul territorio regionale del Modello organizzativo per la gestione dell’emergenza Sars-Cov 2, siccome definito dalla task force sanitaria coordinata dal referente sanitario regionale, Alberto Albani, di concerto con dipartimento sanità della giunta regionale, le unità operative di Medicina penitenziaria delle Asl della Regione Abruzzo, il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, il centro per la giustizia minorile di Lazio, Abruzzo e Molise, il garante dei detenuti della Regione Abruzzo. Tra le disposizioni c’è quella relativa alla costituzione di una task force, attiva per tutta la durata dell’emergenza, che coordini nel sistema penitenziario tutte le fasi della risposta emergenziale. La stessa task force è costituita dai quattro direttori/responsabili delle unità operative di Medicina penitenziaria delle Asl della Regione. Il coordinamento è affidato al coordinatore regionale della rete dei servizi sanitari penitenziari della Regione Abruzzo, Francesco Paolo Saraceni, responsabile dell’unità operativa di sanità penitenziaria della Asl Lanciano Vasto Chieti. Sardegna. La Regione è sprovvista di reparti ospedalieri per i detenuti di Michele Cossa L’Unione Sarda, 19 aprile 2020 Ne esiste solo uno non ancora consegnato: l’interpellanza dei Riformatori all’assessore della Sanità Nieddu. Perché la Sardegna è sprovvista di reparti ospedalieri detentivi? E per quale motivo l’unico già realizzato presso l’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari nonostante sia pronto da diverso tempo non è ancora stato consegnato? Sono, in estrema sintesi, le domande che pongono i consiglieri dei Riformatori Michele Cossa, Alfonso Marras, Aldo Salaris, Giovanni Antonio Satta nella interrogazione al Presidente della Regione Solinas e all’Assessore della Sanità Nieddu sulla situazione sanitaria in riferimento alle carceri sarde. L’interrogazione è volta a sanare una ferita che rischia di aprirsi ulteriormente mettendo a rischio la salute dei pazienti e del personale sanitario e penitenziario - tutti esposti a eventuali rischi di contagio da Covid19 nel caso di positività di un detenuto - se non si dovesse procedere all’attivazione dei reparti ospedalieri detentivi per l’accoglienza dei detenuti che hanno necessità di cura. “Siamo nel 2020, immersi in una crisi sanitaria ed economica senza precedenti, e ed è inaccettabile che nell’attuazione del diritto alla salute permangano zone grigie tali da non consentire a tutti l’accesso alle medesime cure e terapie creando situazioni di svantaggio o di pericolo”, spiegano i Consiglieri dei Riformatori, che pongono l’accento sul fatto che “l’assistenza sanitaria penitenziaria è a carico del sistema sanitario regionale e deve essere realizzata anche con l’istituzione di apposi reparti detentivi all’interno dei presidi ospedalieri esistenti nei territori dove si trovano gli Istituti di pena”. Oggi invece il ricovero dei detenuti avviene in stanze dove sono presenti anche altri pazienti, che vengono conseguentemente esposti a pesanti disagi e probabili rischi, e con un oneroso impiego di risorse umane ed economiche. “Malgrado le ripetute rassicurazioni dei vertici Ats in riferimento alla immediata definizione delle procedure per garantire spazi adeguati e idonei per chi ci lavora, medici, infermieri e poliziotti, e per gli altri pazienti, la situazione è rimasta immutata”, denunciano i consiglieri, che considerano improcrastinabile intervenire in questo senso, anche e soprattutto alla luce dell’epidemia di Covid19 in corso e ai correlati rischi di diffusione del virus all’interno delle strutture penitenziarie sarde, che si tradurrebbe in una emergenza difficilissima da gestire. “Non possiamo rimanere sordi davanti ai campanelli d’allarme che già abbiamo sentito suonare - concludono i Consiglieri regionali - Già in diverse occasioni, a causa dell’esiguo numero di personale di Polizia Penitenziaria impiegato nel servizio di piantonamento in ospedale, con grande fatica è stato possibile contenere tentativi di evasione o di aggressione nei confronti degli stessi Agenti o degli operatori da parte di detenuti particolarmente pericolosi, come denunciato dalle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria, che in numerose occasioni hanno manifestato pubblicamente il disagio degli operatori, reclamando l’intervento delle Istituzioni”. Roma. Rebibbia e Regina Coeli sotto controllo, ma in carcere ci si ammala di Alessandro Luna Il Foglio, 19 aprile 2020 Forte impegno della magistratura di sorveglianza: 300 ingressi in meno. Ma il sovraffollamento preoccupa. I numeri del Lazio, come d’altra parte quelli nazionali, segnerebbero un trend decisamente positivo se non fosse per le Rsa, i centri anziani o gli ospizi che, di giorno in giorno, si stanno trasformando in piccoli focolai che sporcano i numeri e mantengono alta la curva dei contagi. Sono strutture che hanno in comune il fatto di ospitare in spazi abbastanza ristretti e comunitari le persone che ci vivono. Ed è per questo che si comincia a guardare con un po’ di preoccupazione e apprensione un altro tipo di strutture che, pur molto diverse, hanno alcune caratteristiche comuni alle Rsa: le carceri. È diffuso il timore, tra le associazioni e i famigliari dei detenuti, che la storica condizione di sovraffollamento di queste strutture possa diventare la scintilla di focolai simili a quelli delle Rsa. Come ci ha spiegato Stefano Anastasia, uno dei fondatori dell’associazione Antigone, da sempre impegnato nelle condizioni delle carceri e in costante contatto con le direttrici del carcere romano di Rebibbia: “Si tratta di strutture, per promiscuità, molto simili e quindi non bisogna abbassare la guardia, per evitare che diventino i nuovi focolai. A Rebibbia si è scoperto qualche settimana fa che due operatori sanitari della sezione femminile del carcere erano risultati positivi. Uno di loro non faceva visite a Rebibbia da tempo, mentre l’altro era stato nella sezione femminile proprio il giorno prima di essere risultato positivo. Così la direttrice ha isolato tutte e sei le donne che lo avevano incontrato per sottoporle a tampone. La situazione sembrava quindi essere rientrata, ma altri nove operatori sono risultati positivi e si è quindi dovuto procedere a uno screening a tappeto che ha coinvolto quasi un centinaio di persone, tra cui una detenuta è risultata positiva ed è stata trasferita allo Spallanzani. La buona notizia è che queste strutture non hanno visto ancora un’esplosione simile a quella delle Rsa perché si è agito con estrema tempestività nell’isolarle rispetto al mondo esterno, sospendendo visite e limitando gli ingressi già a febbraio, mentre nei centri anziani e negli ospizi si è agito a inizio marzo. Ma il problema è che le carceri potrebbero essere, per una ragione storica e strutturale, un terreno estremamente fertile per questo virus. Infatti, mentre nel paese il trend è in discesa e i casi giornalieri diminuiscono, tra le celle la progressione è più sostenuta rispetto al mondo esterno. I casi sono raddoppiati in sole due settimane, sia per via del problema del sovraffollamento delle nostre carceri, che per il fatto che molti detenuti presentano storie di vulnerabilità sanitaria pregressa. Spesso si parla di quadri clinici già complicati e questo è un altro punto in comune con le strutture sanitarie come Rsa, ospizi e centri anziani”. Affidandoci a una similitudine, si potrebbe dire che un caso di coronavirus viaggia nel mondo civile come una fiamma in una casa di mattoni, mentre in un ospizio o in un carcere divampa come il fuoco in una casa di paglia. Ma quali sono quindi le precauzioni che si possono prendere? Ci dice la sua Riccardo Magi, deputato di +Europa e leader radicale, che avverte: “Nelle carceri stiamo scherzando col fuoco. Sono strutture in cui non si può applicare la norma di distanziamento sociale e, quando si trovano dei positivi, individuare la catena di contatti da isolare è praticamente impossibile, visto che i detenuti condividono spazi e ambienti comuni ed entrano in contatto gli uni con gli altri continuamente. Andrebbero fatte uscire almeno 10.000 persone, con depenalizzazioni o conversioni in isolamento domiciliare di alcune sentenze. E si dovrebbe cercare di non affollare ulteriormente le carceri già piene”. A che punto siamo su questo fronte lo abbiamo chiesto ad Anastasia: “Nel Lazio so che la magistratura di sorveglianza sta lavorando per evitare in tutti i casi possibili il carcere e per fortuna in Italia ci sono stati, nell’ultimo mese, 5000 ingressi in meno, di cui 3-400 solo nel Lazio, il che dà un po’ di respiro a strutture come Rebibbia o Regina Coeli. Ma le misure del governo ancora sono insufficienti. L’articolo 123 del decreto Cura Italia prevede l’utilizzo del braccialetto elettronico per pene superiori ai sei mesi, mentre l’isolamento domiciliare ordinario no. Arcuri si è impegnato, in un accordo con Fastweb, a comprare i braccialetti necessari per mandare quante più persone possibile ai domiciliari, ma nel frattempo ci sono giudici che procedono per isolamento ordinario e altri che non lo fanno. Nel frattempo, non ci resta che sperare e pregare che in carceri come Rebibbia non scoppino altri casi o che quelli che emergono vengano gestiti in tempo e con tempestività”. Un mese di tempo prima che le condizioni delle carceri possano cominciare ad avvicinarsi agli standard cui già dovrebbero rispondere. Nel frattempo a Roma, come spiega Riccardo Magi, “non ci sono state grandi emergenze perché in generale nel Lazio la situazione è sotto controllo. Ma non bisogna abbassare la guardia e serve agire subito per evitare che le carceri diventino le prossime Rsa. Sono proprio le strutture in cui le persone vivono in poco spazio e condividendo ambienti comuni che i focolai possono trasformarsi in nuove emergenze”. Pesaro. Domanda di domiciliari respinta ad alcuni detenuti, scoppia la protesta Il Messaggero, 19 aprile 2020 È partita nel tardo pomeriggio di venerdì la protesta dei detenuti della Casa circondariale di Villa Fastiggi. Arnesi di fortuna, stoviglie, coperchi e pentole sbattuti contro le pareti delle celle, contro le porte di ferro, contro le inferiate. Un rumore sempre più forte, sempre più violento che ha finito per coinvolgere almeno 170 dei 230 detenuti ospitati nel carcere di Villa Fastiggi creando attimi di forte tensione. Nell’edificio già sovrappopolato, affidato a un corpo di guardia i cui numeri sono insufficienti, si è diffuso l’allarme. Per un po’ si è temuta una rivolta che sarebbe potuta essere poi difficile da contenere. Ma non è stato così, la mediazione e il buonsenso hanno avuto la meglio. In tarda serata la situazione è tornata sotto controllo. Non è chiaro nel dettaglio cosa abbia scatenato la protesta dei detenuti ma pare che, i primi di loro che avevano presentato richiesta di trascorrere in detenzione domiciliare per l’emergenza coronavirus, abbiano ricevuto un rifiuto. La notizia è corsa di corridoio in corridoio, di cella in cella fino a fare esplodere la rabbia. Sul posto sono arrivate sul posto due auto dei carabinieri di Pesaro, due pattuglie delle squadre volanti e della squadra mobile supportate da altri due equipaggi del reparto mobile di Senigallia. Il Garante in contatto con l’Istituto penitenziario - Il Garante dei diritti Andrea Nobili in contatto con l’istituto penitenziario di Villa Fastiggi a Pesaro, dopo la protesta dei detenuti. “La nostra interlocuzione con i vertici della casa circondariale e dell’amministrazione penitenziaria - sottolinea Nobili - non si è mai interrotta. In questo periodo l’attenzione dell’Autorità di garanzia è stata rivolta soprattutto alla questione sanitaria ed a ieri, secondo riscontri effettuati, non risultano casi positivi al Coronavirus sia tra i detenuti che tra gli agenti di polizia penitenziaria”. Il Garante non manca di evidenziare che “a Villa Fastiggi esiste, non l’abbiamo mai nascosto, un oggettivo problema di sovraffollamento che in situazioni emergenziali non può che acuire le criticità più volte rappresentate”. Il rinnovato auspicio è che per far fronte alla situazione degli istituti marchigiani “ci sia una collaborazione concreta - stigmatizza Nobili - che veda la partecipazione attiva di tutte le componenti chiamate ad intervenire nell’ambito del mondo carcerario. Questo al di là delle più volte segnalate problematiche di organici e dell’assegnazione di un Presidente effettivo, come nel caso del Tribunale di sorveglianza di Ancona, e di presenza sul territorio, come per il Prap attualmente chiamato ad interagire con Emilia Romagna e Marche con le innumerevoli difficoltà logistiche del caso”. Pesaro. Tregua dopo la rivolta in carcere, ma a Villa Fastiggi si contano i danni di Luigi Benelli Corriere Adriatico, 19 aprile 2020 Rivolta in carcere a Pesaro, diverse sezioni sotto scacco e ora si contano i danni dopo la tregua. Momenti di tensione venerdì con i detenuti che hanno sradicato termosifoni, rotto plafoniere. I sindacati degli agenti di Polizia penitenziaria spiegano cosa sta accadendo. Nicandro Silvestri, Segretario regionale per le Marche del Sappe, argomenta: “Da diversi giorni sono in atto proteste che coinvolgono 4 delle 7 sezioni detentive per un totale di oltre 173 detenuti. Lamentano l’inefficacia dei provvedimenti del governo per ridurre i prezzi dei cibi o prodotti che possono acquistare e la mancata applicazione di tutte le misure alternative alla detenzione da parte del Magistrato di Sorveglianza di Ancona”. Altro tema, il Coronavirus. “I detenuti parlano di uno stato di abbandono a fronte dell’emergenza Covid 19 in ragione dell’eccessiva concentrazione dei detenuti all’interno delle sezioni, per loro una situazione di rischio per la salute in caso di diffusione del virus. Infine non possono incontrare i propri familiari”. Così, nel tardo pomeriggio e nella serata di venerdì, quattro manifestanti hanno danneggiato termosifoni e plafoniere e per questo motivo è saltata la socialità a camere aperte ed è stato richiesto l’intervento di Polizia e Carabinieri”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, precisa: “Da tempo denunciamo una situazione allarmante, caratterizzata da un significativo sovraffollamento del carcere a cui si contrappone una significativa carenza di appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Siamo pronti a manifestare anche davanti al Ministero della Giustizia ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Il vice Segretario Regionale Osapp Marche Mauro Nichilo parla di “ore di apprensione e tensione con i detenuti che hanno creato disordini e messo a repentaglio la sicurezza dell’istituto. Il tutto è scaturito dalla mancata risposta da parte del Magistrato di Sorveglianza di Ancona sulle richieste avanzate dai reclusi in merito alla concessione degli arresti domiciliari in riferimento all’ultimo decreto “svuota-carceri” emanato per contrastare la diffusione del contagio del Coronavirus. Il magistrato di Sorveglianza ha replicato riferendo che, per quanto di sua competenza, avrebbe dato seguito alle richieste avanzate dai detenuti. Solo nella tarda serata la tentata rivolta è rientrata”. Catanzaro. La Camera penale: “superare la centralità del carcere” catanzaroinforma.it, 19 aprile 2020 Il Consiglio Direttivo della Camera Penale “Cantafora” di Catanzaro - si legge in una nota - quotidianamente impegnato nel monitoraggio delle vicende che riguardano l’avvocatura in questo periodo di emergenza sanitaria, ha inteso licenziare nella seduta di ieri, un documento che riguarda la situazione delle carceri. A tal proposito, si è avvalso del contributo del proprio Osservatorio carcere guidato dall’avv. Orlando Sapia. Numerosi sono stati gli interventi che hanno riguardato il pianeta carcere visto e considerato che le restrizioni adottate anche nelle case circondariali hanno prodotto una situazione di particolare allarme. Mai come oggi un coro unanime si è levato da più parti per sensibilizzare il Governo ad adottare misure in grado di contenere i contagi evitando il pericolosissimo diffondersi del virus all’interno delle mura carcerarie. Anche le carceri italiane, infatti, non sono rimaste immuni dal contagio da coronavirus. Negli ultimi giorni è aumentato il numero delle persone contagiate dal Covid-19 sia tra i detenuti che tra il personale di servizio. Addirittura si segnala, come già avvenuto nelle case di riposo per anziani, il sorgere di veri e propri focolai: nel carcere di Verona ci sarebbero trenta contagiati tra i detenuti e venti tra gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Lungo tutta la penisola crescono quotidianamente i casi di contagi e si iniziano a contare i primi decessi tra coloro i quali sono reclusi o lavorano negli istituti di pena. Il Papa, più volte nel corso delle liturgie pasquali, ha preso posizione contro il dramma del sovraffollamento carcerario ed i pericoli che ne derivano, in un contesto di pandemia, sia per chi è recluso che per la società al di fuori delle mura. Le rappresentanze istituzionali della magistratura e dell’avvocatura hanno espresso la propria preoccupazione in ordine alla concreta possibilità che il carcere possa divenire una bomba epidemiologica in grado di investire l’intera società. Il governo, tuttavia, nel recente decreto legge, ribattezzato “Cura Italia”, ha dedicato alla vicenda solo due articoli (123 e 124), accogliendo solo in minima parte le proposte provenienti dalla magistratura, dall’avvocatura e dalle associazioni (Antigone, Yairaiha Onlus etc.) che da sempre si occupano delle problematiche della detenzione. In sostanza, si è disposto che nei casi di soggetti con pena o residuo di pena non superiore ai diciotto mesi è possibile godere della misura della detenzione domiciliare attraverso un iter semplificato, specificando, tuttavia, che laddove la pena sia superiore a sei mesi la detenzione domiciliare avrà luogo con le modalità del c.d. braccialetto elettronico. La logica è stata chiaramente quella di favorire la fuoriuscita rapida dagli istituti di coloro i quali, comunque, avrebbero potuto godere di detto beneficio ma in tempi più rapidi, in modo da poter così fronteggiare un’eventuale emergenza sanitaria negli istituti di pena. Altra misura, avente medesima finalità, è la previsione di un’estensione, anche in deroga ai limiti massimi, delle licenze premio ai semiliberi sino al 30 giugno 2020. Le misure prese dal governo, in vero, sono poca cosa. Si calcola che coloro i quali ne potranno usufruire non saranno più di seimila, ciò solo nel caso in cui verranno recuperati le migliaia di braccialetti elettronici che, fino a qualche giorno addietro, scarseggiavano al punto tale che la magistratura, di frequente, era impossibilitata a disporre la misura dei domiciliari con il dispositivo elettronico. Nonostante la pochezza di quanto disposto, che, peraltro, non sarà applicato ai c.d. ostativi, agli autori di maltrattamenti in famiglia e di stalking ed ai detenuti sanzionati disciplinarmente perché coinvolti nella rivolta dei giorni passati, qualcuno ha avuto l’ardire di affermare che ci troviamo dinanzi ad un indulto e si fa così un regalo ai rivoltosi. Difatti, sebbene le misure adottate siano distanti anni luce dai provvedimenti di clemenza collettiva (amnistia/indulto), sia in campo politico che istituzionale c’è stato chi ha affermato la propria contrarietà al fine di tutelare la certezza della pena. È necessario chiarire, per amor di verità, che la detenzione domiciliare è essa stessa una pena, rientrando nel novero delle misure alternative al carcere previste dalla legge sull’Ordinamento Penitenziario. Non siamo, quindi, dinanzi a nessun indulto. Inoltre, alcuni esponenti della magistratura italiana hanno più volte ribadito la propria contrarietà ai provvedimenti di clemenza collettiva, arrivando addirittura ad affermare che parole quali amnistia, indulto non dovrebbero esistere in un paese civile. Sempre in tal senso il dott. Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, ha nel corso di una recente trasmissione televisiva sostenuto che, nonostante il numero dei detenuti contagiati sia in costante aumento, non esisterebbe un reale pericolo di esplosione della pandemia anche all’interno delle mura carcerarie, in quanto l’universo penitenziario sarebbe isolato dal resto della società e, pertanto, luogo per sua natura sicuro. Non ci meraviglia quanto detto dal dott. Gratteri, che giova ricordarlo risolverebbe il problema del sovraffollamento costruendo supercarceri in stile americano, quanto il fatto che il procuratore ha sorvolato sul problema concreto senza proporre niente di realmente utile a superare la contingenza. Orbene, nonostante alcuni possano serbare, coltivare e diffondere opinioni di censura nei riguardi di istituti giuridici quali amnistia e indulto, è bene ricordare che i provvedimenti di clemenza collettiva sono introdotti nell’ordinamento repubblicano dalla Carta Costituzionale che è internazionalmente riconosciuta quale esempio di civiltà giuridica. In relazione all’idea che il carcere possa essere un luogo più sicuro rispetto alla civiltà libera, essa è palesemente smentita dai molteplici contagi che si stanno manifestando negli istituti di pena, tanto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha, qualche giorno addietro, accolto il ricorso di un detenuto di Vicenza, e disposto che, entro il 14 aprile, il governo italiano riferisca alla Corte su quali siano “le misure preventive specifiche adottate per proteggere il richiedente e gli altri detenuti, volte a ridurre il pericolo di contagio all’interno del carcere” Invero, in un contesto quale quello attuale, il tentare di minimizzare il dramma del sovraffollamento carcerario, che è già valso all’Italia svariate condanne internazionali da parte della Cedu per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (divieto di tortura, trattamenti e pene inumane) e negare la concreta possibilità dell’esplosione di una bomba epidemiologica capace di travolgere tutta la società, è comportamento errato ed esiziale per l’intero consorzio sociale, dal momento che il dramma delle carceri, se non verrà correttamente gestito, si riverserà sull’intera società. Insomma non basta far finta che il problema non sia poi così grave e proporre di risolverlo con la costruzione di città penitenziarie della capienza di 5000 posti ciascuna in stile U.S.A Non condividiamo tale assunto per diversi motivi, ma uno su tutti spicca: Gli Stati Uniti d’America non sono un modello di sistema penale da seguire. Trattasi di una realtà sociale che ha fatto del profitto il centro intorno al quale tutto gira ed in cui la lotta alle diseguaglianze economiche e alla povertà non rientrano negli obiettivi dell’agenda politica, tant’è che negli ultimi quaranta anni, negli U.S.A., si è realizzato il passaggio dal welfare al sistema carcerario quale momento per la regolazione/gestione della povertà, creando così un sistema penale ipertrofico ed iperattivo. Uno degli effetti di queste scelte politiche, fortemente ispirate alle teorizzazioni economiche della c.d. scuola di Chicago, è stata la criminalizzazione degli strati di società confinati nella povertà economica e sociale ed il conseguente aumento dei tassi di carcerazione. Attualmente negli U.S.A. si contano quasi sette milioni di persone coinvolte nel circuito penale e di queste oltre due milioni sono effettivamente in prigione: si tratta della più numerosa popolazione penitenziaria al mondo, al secondo posto vi è la Cina che ha una popolazione complessiva oltre quattro volte superiore a quella americana. In sostanza, è stato il trionfo della Zero Tolerance e della creazione di uno Stato minimo nei contenuti sociali e massimo nell’esercizio dell’uso della forza. Questa logica negli ultimi decenni ha ispirato le politiche legislative in materia penale/ penitenziaria anche nel nostro Paese, così producendo un’ipertrofia della penalità, causa primigenia dell’aumento vertiginoso della popolazione carceraria e della conseguente tragedia del sovraffollamento, nonostante i tassi di commissione dei reati siano in costante calo da diversi anni. Anche solo limitando l’analisi agli ultimi anni: si è assistito all’aumento degli edittali delle pene dei delitti contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione), già puniti in modo piuttosto severo dal legislatore degli anni 30; si è avuta la reintroduzione di reati, un tempo depenalizzati, quali il divieto di accattonaggio e il blocco stradale; si sono innalzate in modo spropositato i massimali di pena, addirittura sino a sei anni di reclusione, per l’occupazione di edifici ed, infine, continua ad esserci una disciplina in materia di contrasto alla diffusione delle sostanze stupefacenti tra le più severe dell’intera Europa, si pensi al riguardo che la violazione dell’art. 73 co. 1 DPR n. 309/90 è punita, nel suo massimale di pena, fino a venti anni di reclusione quasi quanto un omicidio. Insomma, i reati diminuiscono, ma le pene si sono allungate ed uscire dal carcere diviene più difficile e richiede più tempo. Ciò perché si è posto al centro della visione politico - legislativa non la sicurezza dei diritti ma un’idea astratta di sicurezza, sempre più distante dai diritti delle persone, ma necessaria per gestire una società attraversata in maniera sempre più consistente dalla povertà. Infatti, negli ultimi decenni in Italia il numero dei poveri è aumentato vertiginosamente ed attualmente vi sono oltre cinque milioni di persone in condizione di povertà assoluta. Nel corso degli ultimi anni il legislatore aveva posto in essere una serie di riforme tese a favorire, da un lato, la fuoriuscita della popolazione carceraria e, dall’altro lato, la possibilità di ricorrere con più facilità a forme di esecuzione penale alternative al carcere. Purtroppo la parte migliore e più innovativa di dette riforme è stata disattesa. Nel 2014 con la legge n. 67 il Parlamento aveva delegato il Governo affinché innovasse il catalogo delle pene di cui all’art. 17 del c.p. ed introducesse la reclusione domiciliare e l’arresto domiciliare tra le pene principali, ma il timore di perdere consenso elettorale ha fatto sì che tale delega decadesse a causa dell’inerzia dell’esecutivo in carica. Similmente è accaduto per la riforma dell’ordinamento penitenziario, anche in questo caso il Parlamento aveva delegato (L. n 103 del 2017) il governo ma la delega è stata realizzata solo in minima parte, così vanificando il grande lavoro fatto nell’ambito dell’innovativa esperienza degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Tale fallimento è stato causato dall’assenza di un reale programma alternativo, così appena si è realizzato il decremento della popolazione detenuta, richiesto dalla Cedu, le tematiche dell’allarme sociale e dell’ossessione securitaria hanno ripreso il sopravvento, facendo divenire lettera morta le deleghe parlamentari. È oggi più che mai necessario, anche in virtù dell’emergenza sanitaria in corso, superare la logica panpenalistica e carcero-centrica che regna incontrastata nel dibattito politico. È necessario ripensare le parole che usiamo guardando alla Costituzione in quanto fondamento della nostra società. Le parole amnistia e indulto non devono scandalizzare. Si tratta di istituti giuridici di rango costituzionale, il cui utilizzo è stato costante durante tutta la vita dello Stato Italiano sino alla riforma costituzionale dell’art. 79 Cost. fatta nel 1992, durante l’ultima legislatura della c.d. prima Repubblica. In particolare, a seguito di detta riforma l’approvazione di una legge di concessione di detti provvedimenti clemenziali richiede una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per ogni singolo articolo, oltre che per la votazione finale. È probabilmente l’unico caso in cui è più semplice modificare la fonte normativa, cioè l’art. 79 Cost., che emanare una legge di amnistia o indulto. Difatti, dal 1992 ad oggi si è avuto solo l’indulto del 2006. È certamente sintomo di civiltà quantomeno aprire un dibattito sui provvedimenti clemenziali, sulla loro funzione e sulla possibilità di restituirgli una agibilità legislativa che oggi nei fatti è negata. La riscoperta di tali provvedimenti non si tradurrebbe in un perdono per il reo né tantomeno in una violazione dei diritti della eventuale vittima, ma rappresenterebbe l’utilizzo di strumenti eccezionali in una situazione di oggettiva emergenza. Si tratterebbe di una clemenza per ragioni di giustizia, da un lato tesa ad evitare gli effetti di una desocializzazione conseguente alla drammatica realtà del sovraffollamento carcerario] e dall’altro mirata ad intervenire in un contesto di emergenza sanitaria che potrebbe travolgere prima il carcere e poi il resto della società. Sempre partendo dalla Costituzione, l’art. 27 dispone che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. Il legislatore costituente opera il proprio riferimento alle pene, non alla pena e, nell’articolo dedicato alla funzione della pena non fa alcun riferimento al carcere. Già in Costituzione è presente una logica penale non assolutamente carcero centrica, che pone la dignità umana, cioè i diritti umani, quale limite nell’esecuzione della pena e ne sancisce il carattere rieducativo, finalizzato quindi a riaggregare il soggetto condannato nel consorzio sociale. In sostanza, il costituente non ha ritenuto la parola carcere degna o, perlomeno, necessaria alla Costituzione. In prospettiva, sarebbe necessario prevedere, con maggiore ampiezza di quanto avviene oggi, che la pena possa consistere in privazioni della libertà differenti da quella carceraria, come ad esempio era il caso della reclusione/arresto domiciliare di cui alla L. n. 67 del 2014. Sarebbe opportuno consentire un uso più ampio delle già esistenti misure alternative alla detenzione ed, in particolare, prevedere la possibilità di accesso alla misura dell’affidamento in prova anche in presenza della sola possibilità di svolgere un’attività di volontariato. Ad oggi, sebbene la condizione lavorativa non sia espressamente prevista dalla legge, tendenzialmente le istanze di affidamento ex art 47 O.P. vengono sistematicamente rigettate senza la presenza della prospettiva lavorativa. Si tratta di due esempi che alleggerirebbero di molto il numero dei detenuti e consentirebbero di potenziare il filone dell’esecuzione penale esterna, dandogli così quell’importanza che un paese civile meriterebbe. Del resto le statistiche sono chiare: la recidiva per chi esce dal carcere tocca quasi il 70%, mentre scende a meno del 20% per coloro i quali scontano la pena al di fuori delle mura penitenziarie. Tuttavia, l’emergenza si fa sempre più pressante e il carcere rischia seriamente di divenire una tragedia annunciata ed allora è necessario, qui ed ora, agire rapidamente, accogliendo quelle indicazioni che provengono dai vari corpi sociali (magistratura, avvocatura, mondo accademico) e, quindi, implementare in fase di conversione del D.L. “Cura Italia” le misure ivi previste: innalzare a due anni il limite di pena detentiva eseguibile presso il proprio domicilio, disponendo che tale disciplina si applichi in aggiunta e non in sostituzione di quanto previsto in via ordinaria; rendere facoltativo e non obbligatorio l’uso del braccialetto elettronico; reintrodurre, vista l’emergenza, la liberazione anticipata speciale sino a 75 giorni; prevedere il differimento dell’esecuzione degli ordini di carcerazione per condanne fino a quattro anni a data successiva alla fine dell’emergenza sanitaria. Insomma, è più che mai necessario liberarsi immediatamente, se non della necessità, per lo meno della centralità del carcere. Siamo dinanzi ad un bivio ed oggi, per via della attuale crisi sanitaria ed economica, il problema si ripresenta in tutta la sua urgenza. Bisogna scegliere definitivamente verso quale forma di Stato andare: uno Stato che massimizzerà l’utilizzo del sistema penale, implementandolo di nuove fattispecie, continuando ad aumentare gli edittali di pena, rendendo il processo così veloce da smaterializzarlo in nome dell’efficienza, ed, infine, costruirà grandi città penitenziarie in cui stipare i marginali sociali; oppure uno Stato che si impegni nella realizzazione di quel programma che è la nostra Costituzione, garantendo la sicurezza dei diritti e utilizzando il sistema penale in una logica di extrema ratio. Il Consiglio Direttivo Camera Penale “Cantafora” Perugia. Il cardinale Bassetti visita i detenuti e promette una struttura tra carcere e società umbria24.it, 19 aprile 2020 Ai tempi del Covid una promessa per l’accoglienza verso il fine pena e prima di rientrare nella comunità civile. “Carissimi fratelli ristretti, la mia non è una visita di cortesia e neppure frutto di un invito ufficiale. Ho sentito il bisogno di essere per un po’ in mezzo a voi. Naturalmente, come i tempi del coronavirus ce lo consentono, con mascherina e guanti. E questo mi mette un po’ a disagio”. Con queste parole il cardinale arcivescovo Gualtiero Bassetti ha salutato una rappresentanza di detenuti, di detenute e del personale di sorveglianza della Casa Circondariale in località Capanne di Perugia, nella mattinata del 18 aprile. Il cardinale è stato accolto dalla direttrice Bernardina Di Mario e dal comandante della Polizia penitenziaria Fulvio Brillo. La direttrice Di Mario, nel rivolgere il saluto di benvenuto all’ospite, ha sottolineato quanto l’arcivescovo di Perugia sia “vicino e sensibile al mondo carcerario, anche attraverso la sua periodica presenza sia in occasioni belle che meno belle, condividendo con questa realtà, spesso relegata ai margini della società, le gioie e le sofferenze che la vita riserva come nel tempo del Covid-19”. Vite dei guariti profondamente segnate “Ieri sono stato a visitare il grande ospedale della Misericordia di Perugia, che non è lontano da voi. Ho ascoltato la testimonianza dei medici, ho saluto gli infermieri e gli operatori sanitari. Ho potuto parlare, attraverso contatto telematico, con alcuni malati. Li ho confortati, ho pregato con loro, li ho benedetti. Ho fatto gli auguri ad un uomo ed una donna, che penso siano in via di guarigione, le cui vite però rimarranno profondamente segnate”. La libertà il più grande dono di Dio - “So quanto sia difficile, ed anche a me è costato tanto dover abbandonare il proprio impegno, la propria missione, e rinchiudermi in casa; ma io tutto sommato vivo in un episcopio grande… Penso ad alcune famiglie che conosco e che vivono, con tre o quattro bambini, in 60/70 metri quadrati: senza terrazza, senza possibilità di uscire. Penso soprattutto a voi. Sempre ho pregato per voi. Penso a tanti di voi, ristretti in spazi, certamente limitati, lontani dai vostri cari e dagli affetti più belli e naturali. Privati della vostra famiglia e della vostra libertà. La libertà, come dice Dante, è il più grande dono che Dio ci abbia fatto, creandoci”. Una situazione ancor più problematica - “Soprattutto in questo periodo, sono molto preoccupato anche per la grave crisi economica, che già accentuata dalla pandemia - ha detto il cardinale -, si abbatterà su tutta la nazione. I rischi per la salute, la necessaria mancanza di contatti con l’esterno, e per voi le visite e i permessi aboliti, come pure la mancanza di possibilità di qualche lavoro, fa sì che il carcere diventi ancor più problematico di quanto non lo fosse già nel passato. Forse anche come Chiesa, dovremo trovare nuove forme suggerite dall’amore e dalla fantasia, e soprattutto dal Vangelo. Ho visto, girando per l’Italia, in qualche Diocesi, delle case in cui si accolgono i carcerati quando arrivano verso il fine pena, oppure coloro che, ottenuto il permesso, non hanno la possibilità di tornare in famiglia. Credo che anche da parte della nostra Diocesi sarà opportuno pensare a tali iniziative di carità, perché particolarmente i carcerati possano sentirsi amati, rispettati e accolti”. Il pensiero corre veloce verso Capanne. “Vi sono vicino, vi penso quotidianamente - ha concluso Bassetti, rivolgendosi ai detenuti e alle detenute presenti. Tutte le mattine, quando mi reco a pregare nella mia Cappella, il pensiero corre veloce verso Capanne. Per me voi ci siete, siete nel cuore del vostro Vescovo. Mi dia il Signore la forza, nonostante la fragilità dei miei 78 anni, di poter fare ancora qualche cosa di buono per voi, fratelli e sorelle carissimi”. Ivrea (To). La vita in carcere al tempo del coronavirus primailcanavese.it, 19 aprile 2020 Alcuni scritti a firma dei detenuti in carcere al tempo dell’emergenza sanitaria. “Ciao a tutti voi, in primis spero di vero cuore che stiate tutti bene, visto come stanno le cose lì fuori con questo virus Covid-19”. Inizia così uno degli scritti a firma di alcuni detenuti in carcere al tempo dell’emergenza sanitaria. Scritti destinati alla pubblicazione sul “giornalino” della Casa circondariale di Ivrea, “L’Alba”. “Noi qui tutto bene - prosegue l’autore del testo - Per dirvi la verità, come la penso io, sembra paradossale, ma noi detenuti in questo triste momento nazionale siamo al sicuro, siamo protetti da ogni cosa, proprio perché siamo in un totale isolamento esterno”. E prosegue: “Questo è molto duro, perché non c’è alcuna attività! Io, per esempio, passo le mie giornate a leggere, faccio qualche partita a carte, provo a cucinare e via così: le mie giornate volano. Adesso aspetto la garante per darle tutto il cartaceo degli articoli scritti da noi compreso quello sul Covid-19. Resta solo da correggere perché, come ben sapete, i punti e le virgole non sono il mio forte. Ora vi porgo i saluti di tutti noi e la stima che proviamo per tutti voi: un abbraccio virtuale”. E infine taglia corto con un augurio ai lettori: “A presto, spero prestissimo, e abbiamo tutti fede che presto passerà”. Un altro, invece, racconta un punto di vista diverso, soffermandosi sui timori avuti nei primi giorni di emergenza: “I detenuti della Casa circondariale di Ivrea certamente non l’hanno presa bene, consapevoli che la situazione si possa complicare all’interno dell’istituto. Certo c’è stata un po’ di tensione quando l’Amministrazione ha chiuso i colloqui visivi con i familiari, ma non più di tanto perché ha subito provveduto con le videochiamate: così facendo abbiamo avuto modo di telefonare alle famiglie e rasserenarci, noi e loro. Siamo consapevoli che questa pandemia non è una passeggiata per nessuno: rimane il forte pensiero per i familiari, in particolare per chi ha parenti anziani. Si aggiunge il problema dei pacchi che spediscono i familiari, in quanto tanti sono tornati indietro”. E rimarca: “Questo influisce molto sul morale dei detenuti che pensano ai grossi sacrifici che i loro familiari fanno per spedirli e che risultano vani”. E poi sottolinea: “In modo particolare per i detenuti fuori dalla nostra Regione che non hanno incontri e puntano moltissimo sul ricevimento dei pacchi da casa: già viviamo brutti momenti individuali e queste cose portano un po’ di tensione in più. Ora c’è la buona notizia che parecchi detenuti forse potranno usufruire del cosiddetto “Decreto svuota carceri”. In merito alla definizione ancora la vaglio del Governo, commenta: “Forse parecchi di noi potranno ricongiungersi con i propri cari, scontando il residuo della pena nella propria casa”. Infine, lancia un appello: “Faccio appello alle associazioni, alla Chiesa che possano dare l’opportunità a tutti questi detenuti di poter varcare le porte del carcere e così poter raggiungere la così tanto desiderata libertà”. Milano. Il cappellano di Bollate “con il coronavirus rinunce durissime per i detenuti” Adnkronos.it, 19 aprile 2020 La realtà del carcere è più simile a quella prima dell’emergenza coronavirus, fuori le differenze sono abissali ed abituarsi anche se sono passate diverse settimane è difficile. Lo racconta all’Adnkronos don Fabio Fossati, Cappellano del carcere milanese di Bollate “che conta circa 1.200 detenuti”. “Inizialmente c’era un po’ di tensione, c’era l’attesa di riuscire ad avere dei benefici, il dispiacere di dover rinunciare ai colloqui con i familiari. La sofferenza più grande qui era per i detenuti che in regime di articolo 21 dovevano rinunciare al lavoro all’esterno. È stato un passo indietro, anche il dover fare a meno dei laboratori e dei corsi gestiti dai tanti volontari che per colpa del virus non potevano più accedere alla struttura”, spiega. Rinunce “durissime”, per chi ogni giorno deve fare i conti con poco, “gestite, però, bene: sono state concesse più opportunità per comunicare all’esterno, gli interventi del tribunale di Sorveglianza hanno permesso di concedere la semilibertà a chi ne aveva diritto e bisogna continuare su questa strada, liberare il carcere vuol dire anche ridurre il rischio contagio che mi sembra sotto controllo”, spiega don Fabio. La normalità ora, sembra un paradosso, è quella dietro le sbarre. “C’è più normalità dentro che fuori, adesso sono loro che non riescono a capire come viviamo noi, come facciamo con tutti i negozi chiusi. Quando entro in carcere trovo la vita di prima, noi invece facciamo fatica a capire il cambiamento esterno. Adesso tutti speriamo in un ritorno alla normalità ma che sia migliore, sia un passo avanti sia per chi è dentro che per chi è fuori”, conclude don Fabio. Milano. La raccolta fondi dei detenuti di Bollate: “Piccolo gesto per chi lotta in prima linea” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 aprile 2020 Un bonifico alla Protezione civile e un contributo al Banco Alimentare. La lettera intitolata “Al nostro grande Paese” e la paura per le cronache del virus. I detenuti del carcere di Bollate hanno inviato 1.405 euro in dono alla Protezione civile. Magari rischierebbero di passare quasi inosservati, spersi nel fiume di generose donazioni di euro alla Protezione civile. Eppure 1.405 euro pesano più dei dieci milioni di euro del mega imprenditore, o dei tre milioni della coppia di “vip” social, o del milione di euro del grande banchiere, se a toglierseli di tasca - fra i pochi euro della propria mercede di piccoli lavori in cella, e sottraendoli a quel minimo di spesa aggiuntiva al gramo vitto quotidiano - sono i detenuti di un carcere: in questo caso i detenuti dell’istituto di Bollate. Che in più, oltre a bonificare 1.405 euro alla Protezione civile per il “Nostro grande Paese” alle prese con il virus Covid-19, hanno anche organizzato una raccolta di 250 chilogrammi di generi alimentari che il Banco Alimentare della Lombardia “Danilo Fossati Onlus”, tramite l’associazione “Incontro e Presenza”, ora distribuirà a chi ne abbia bisogno. “Anche noi nel nostro piccolo - spiegano i detenuti in una lettera scritta a mano con l’ordinata grafia di chi ci tiene a farsi leggere e comprendere all’esterno - cerchiamo di dare un contributo al nostro Paese”. I reclusi di Bollate raccontano di aver seguito sui giornali e tv, come tutti, le cronache sul virus “mostro”, e “ad essere sinceri ci siamo molto spaventati”. Ma “allo stesso tempo - aggiungono - ci siamo chiesti come poter aiutare tutte quelle persone che in questo momento, con un piccolo gesto di solidarietà da parte nostra, possano concretamente realizzare che anche noi che facciamo parte dell’ultima classe sociale ci siamo rapidamente attivati”. Come per la colletta alimentare, che “tramite la direttrice Cosima Buccoliero e il capo area educativa Roberto Bezzi” i detenuti sono riusciti a far “portare rapidamente nelle case dei più bisognosi”. Due sforzi con i quali, concludono le persone in carcere a Bollate in questa loro lettera, dove spiegano di voler approfittare dell’occasione della raccolta fondi, “intendiamo veramente ringraziare tutti gli eroi del personale sanitario che, in questo momento così difficile, combattono senza esitare questa durissima battaglia in prima linea, rischiando la propria vita per poter aiutare il prossimo”. L’iniziativa dei detenuti di Bollate, con la raccolta di fondi e la colletta alimentare, si inserisce tra quelle alle quali altri loro compagni in giro per l’Italia stanno dando corpo nei limiti dei propri mezzi. Nel carcere di Poggioreale a Napoli, ad esempio, 30o detenuti hanno aderito alla raccolta di 1.60o euro per l’ospedale Cotugno, trincea avanzata cittadina per la cura delle malattie infettive, e l’hanno fatto spiegando di “voler manifestare il loro sentimento di vicinanza e ringraziamento al personale sanitario di una delle aziende ospedaliere campane più attive nella ricerca e nella cura dei pazienti affetti da Covid-19, sia a livello territoriale, sia a livello nazionale”. Mille euro sono stati invece messi a disposizione nel Lazio anche dai reclusi dell’istituto di Civitavecchia. Ottocento euro sono stati donati dai detenuti dell’alta e media sicurezza della casa circondariale delle Sughere all’ospedale di Livorno. E, infine, in Piemonte a Ivrea la particolarità è che qui i detenuti hanno deciso di promuovere una raccolta fondi in favore dell’ospedale cittadino insieme agli agenti della polizia penitenziaria. “Carità senza confini”, in un docu-film la solidarietà verso i detenuti di Regina Coeli agensir.it, 19 aprile 2020 In questi giorni di pandemia, mentre il mondo è fermo in quarantena, la solidarietà e l’impegno pastorale dei cappellani e dei volontari del carcere Regina Coeli di Roma non si ferma. Anzi, l’attività è stata intensificata, grazie alla continua assistenza spirituale e sociale all’interno e fuori del carcere. Lo racconta in 25 minuti il documentario sulla pastorale carceraria della Provincia italiana di San Francesco d’Assisi (Italia Centro) dei Frati minori conventuali. Si intitola “Carità senza confini” e presenta le varie forme di assistenza in favore dei più poveri che vivono nel quartiere Trastevere di Roma. Una carità che viene attuata all’interno del carcere, grazie ai 150 volontari, ma anche fuori, da un decennio, con il Centro “Volontari Regina Coeli” (Voreco). Il Centro porta avanti svariate iniziative benefiche in favore di centinaia di ex detenuti e senza dimora che vivono sotto i ponti del Tevere. Il docu-film, prodotto dal Centro Missionario Francescano Onlus, descrive la attività dei frati all’interno del carcere e racconta le iniziative del Centro Voreco: alloggio notturno per 20 indigenti, distribuzione della colazione e della cena a 30 poveri del rione e, in questi giorni di pandemia, a più di 60 persone senza fissa dimora. Vengono distribuiti pacchi viveri, vestiti, medicinali con la “farmacia di strada”, è attivo il laboratorio medico con due medici volontari e l’assistenza giuridica e fiscale. Nel documentario, diretto da fra Paolo Fiasconaro, diverse interviste ai cappellani, alla direttrice del carcere, ai medici, ai volontari. Si conclude con le immagini della lavanda dei piedi di Papa Francesco a 12 detenuti, nel Giovedì Santo 2018, e con l’udienza nell’Aula Paolo VI in Vaticano a tutto il personale del carcere. “L’era legale”, gratis sul web il docu-film sulla sconfitta del narcotraffico Corriere del Mezzogiorno, 19 aprile 2020 Riecco “L’era legale”, il docu-film di immaginazione di Enrico Caria, che narra di come, grazie alla legalizzazione delle droghe, le mafie siano finalmente sconfitte, arriva da oggi per la prima volta gratis sul web (https://instagram.com/patriziorispo?igshid=izfq9cnw88mf), con l’apporto mediatico solidale di Articolo 21 Campania. Un’anteprima simbolica che vuole denunciare come il proibizionismo renda esplosiva l’emergenza nelle carceri al tempo del coronavirus: “Si calcola - spiega il regista - che almeno il 30% dei detenuti condannati o in attesa di giudizio (cioè tecnicamente innocenti) siano in prigione chi per qualche grammo in più di marijuana, chi per le droghe pesanti. Tossici. Persone malate da curare... mentre fuori c’è chi grazie al proibizionismo, si arricchisce in modo schifoso: i narco-trafficanti ricchi e potenti che in questo momento di crisi già provano a sostituirsi allo Stato prestando i loro soldi sporchi a strozzo e rilevando negozi e imprese in difficoltà”. “Di questi tempi -aggiunge Patrizio Rispo, protagonista del film con Cristina Donadio - le riflessioni sono tante e io ne vorrei condividere una con voi. Immaginate Napoli come una città sicura, moderna e non inquinata con un sindaco venuto dal basso che legalizza la droga tagliando così le gambe alla criminalità ed eliminando un problema sociale. In un sol colpo si ridà voce e respiro alla parte genuina della città, sconfiggendo per sempre il narcotraffico e ridando valore al lavoro”. “Era il 2011 - spiega la Donadio - e in questo film già si era immaginata una Napoli messa di fronte ad un bivio: affogare per sempre o rimanere a galla. Il mio personaggio, Idra Duarte, personifica queste due anime della città. Da una parte è una camorrista spietata, dall’altra, attraverso il dolore per la tragica morte del figlio, riesce a redimersi, fino ad aiutare Nicolino Amore a sconfiggere la malavita”. Non lasciare indietro nessuno di Roberto Saviano L’Espresso, 19 aprile 2020 Il governo ha un piano per farci ripartire in sicurezza? Come difendere gli stranieri che lavorano nei campi? E quelli della sanità? Un appello. È il momento di chiedere a gran voce a chi ci governa di governarci con giustizia e di non lasciare indietro nessuno. L’Italia è in lockdown da tanto tempo e, nella maggior parte delle regioni, lo è senza risposte e senza prospettive. L’idea di poter arrivare a contagi zero è una moderna favola cinese a cui non darei troppo credito, dunque servono risposte per la famosa fase 2, risposte e non litigi. Oggi sembra che il dibattito sul Covid-19 saturi ogni spazio, eppure manca forse la parte di informazione più importante ed è proprio quella che cerco e che non riesco a trovare nelle conferenze stampa quotidiane in cui si elencano numeri - i tamponi fatti, i positivi, i ricoverati, i deceduti - che peraltro offerti giorno per giorno dicono poco e confondono molto, gettando la popolazione nel panico dal momento che i dati sono in continua oscillazione e che non riescono a determinare una tendenza consolidata. Quello che manca è un discorso chiaro su cosa si sta facendo per poter consentire la riapertura e non mi riferisco alle tempistiche sulle aperture di esercizi commerciali e realtà produttive, ma alla messa in sicurezza della salute pubblica. Posto che a contagi zero - dato che non siamo la Cina - non arriveremo mai, e posto che non si possono tenere chiusi in casa gli italiani per un anno, abbiamo capito come sta cambiando la sanità? Abbiamo capito quali risorse già adesso, mentre scrivo e mentre leggete, sono state stanziate per far fronte a una nuova emergenza senza dover mettere i medici in condizione, di nuovo, di scegliere chi ha maggiori possibilità di salvarsi e chi no? Sappiamo riconoscere situazioni in cui la politica deve prendere decisioni e pretendere che lo faccia - istituire zone rosse, ad esempio - senza aspettare il placet di Confindustria? Sappiamo se esiste una informazione chiara in grado di tranquillizzare coloro i quali necessitano di cure mediche non connesse alla pandemia e che non li dissuada dal recarsi in strutture ospedaliere per il timore del contagio? Capisco che l’emergenza ci abbia colto di sorpresa, ma è pur vero che forse l’immagine che meglio descrive la disorganizzazione di queste ultime settimane, e ne restituisce il ridicolo oltre il dramma, è cristallizzata nelle continue modifiche alla famigerata autocertificazione che gli italiani sono tenuti a stampare e compilare. Ogni settimana un nuovo testo, senza tener conto che non tutti hanno stampanti in casa e che, magari, chi le ha preferirebbe conservare fogli e inchiostro per il lavoro scolastico degli oltre otto milioni di studenti che svolgono le attività da casa. E quindi è questo il momento degli appelli, il primo è mio, personale, e la domanda è chiara: diteci non quando finirà la quarantena, ma come state preparando l’Italia per la fine della quarantena. Non ditemi quali attività riprenderanno e quando, ma cosa avrete fatto perché tutto questo possa avvenire in sicurezza, perché i medici non sono sereni e lo stanno comunicando alle regioni senza troppi giri di parole. Sono trascorse diverse settimane, credo sia giunto il momento di incalzare su questo. Accolgo poi due diversi appelli. Dobbiamo pretendere dalla politica che si occupi, sì proprio ora, delle condizioni dei braccianti stranieri senza diritti che lavorano nelle campagne italiane: il sindacalista Aboubakar Soumahoro ha lanciato un appello rivolto al Presidente del Consiglio perché si faccia carico di questa vergognosa moderna schiavitù. E dobbiamo pretendere che i cittadini italiani, nati in Italia da genitori stranieri abbiano la cittadinanza. Faccio mie le parole che Hamilton Dollaku, infermiere di origini albanesi, rivolge al Presidente della Repubblica perché il suo sguardo si posi sul personale medico, che oggi lavora senza sosta, la cui vita è una corsa a ostacoli solo per essere nati in Italia da genitori stranieri. Dove esistono cittadini più cittadini di altri, dove la politica perde di vista gli ultimi (poniamo che siano gli stranieri), non lo fa per tutelare i penultimi (poniamo che siano gli italiani in difficoltà), ma solo per tutelare sé stessa. La politica che non spiega ai cittadini italiani perché i braccianti stranieri possono essere trattati come schiavi e perché un medico nato in Italia da genitori stranieri deve penare per avere un documento, è la stessa politica che non dirà ai cittadini italiani come intende tirarli fuori dal lockdown in sicurezza. La pandemia è disvelatrice e ci mostra che quando la politica non funziona per alcuni, non funziona per nessuno. Agricoltura, Provenzano: “Sì ai migranti, ma con contratto e salario dignitoso” di Alessia Candito La Repubblica, 19 aprile 2020 Il ministro: “Ero d’accordo per la regolarizzazione già prima dell’emergenza coronavirus”. Intanto, nei ghetti in cui gli immigrati sono costretti a vivere, il rappresentante Usb distribuisce cibo e mascherine. E porta avanti la petizione sui diritti. “Il lavoro gratuito non esiste. Se si lavora ci deve essere un contratto regolare. Così anche per i 600 mila immigrati che si vorrebbero impiegare nei campi”. Parola del ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che ne ha parlato a “L’Intervista” di Maria Latella su Sky TG24, e si è così accodato alla collega Teresa Bellanova sulla necessità di regolarizzare i braccianti migranti impiegati in agricoltura”. Anzi, specifica, “ero d’accordo già prima dell’emergenza coronavirus”. Reali destinatari, Matteo Salvini e la Lega, che contro un’eventuale sanatoria hanno promesso barricate, proponendo di spedire nei campi disoccupati e percettori di reddito di cittadinanza, magari da retribuire con i voucher. “Anche per quelli che in passato hanno chiesto il reddito di cittadinanza - puntualizza il ministro Provenzano al riguardo - se andranno a lavorare nei campi dovranno essere contrattualizzati e ricevere un salario dignitoso e consono al lavoro svolto. Questa è la regola”. Nel frattempo, nei ghetti in cui i braccianti migranti sono costretti a vivere, è partita la distribuzione di alimenti, guanti e mascherine acquistati grazie ad una raccolta fondi coordinata dal sindacato Usb che ha già superato i 121mila euro. Ed è da quegli stessi campi che oggi arriva una nuova petizione, rilanciata dal sindacato Usb, che chiede al governo Conte lavoro regolare, salario dignitoso, soluzioni abitative degne. “I diritti dell’uomo sono violati quando le persone sono costrette a vivere nella miseria La civiltà è ferita quando le persone vengono spogliate della dignità. Unitevi a noi in questo cammino di giustizia. Date voce al nostro grido firmando questo appello. Insieme possiamo” scrive su Facebook il sindacalista Usb Aboubakar Soumahoro, che nelle ultime settimane insieme ad una delegazione ha distribuito cibo e dpi nei ghetti del Sud Italia. Borgo Mezzanone, Torretta Antonacci, il beneventano, San Ferdinando, la Piana di Gioia Tauro. Vengono definiti “insediamenti informali”, ma anche in tempi di pandemia sono rimasti “assembramenti obbligati” senza servizi, senza condizioni igieniche minime, senza possibilità di proteggersi dall’avanzata del Covid19 che ha bloccato l’Italia. Per i braccianti migranti, che anni di lavoro nero e grigio nel settore agricolo hanno condannato a miseria e invisibilità, sono diventati spesso quasi scelta obbligata. Ed è da qui che non possono uscire adesso che per spostarsi è necessario uno straccio di impiego regolare. Risultato, un intero settore è andato in crisi. Secondo le stime ufficiali, nei campi mancano fra i 270mila e i 350mila braccianti. In molti sono “prigionieri” dei ghetti, dove chi non può più lavorare inizia a patire anche la fame. Ed è dagli insediamenti dei braccianti che arriva l’appello al governo Conte, sostenuto dall’Usb e rilanciato sulla piattaforma change.org, dove in poche ore ha raccolto oltre 6mila firme. Le richieste non riguardano solo i braccianti migranti, ma tutti gli operai della filiera. “Da troppo tempo, il nostro lavoro e quello dei contadini/agricoltori - si legge nel testo della petizione - viene schiacciato sotto lo stesso rullo compressore della macchina dei grandi monopoli. Da troppo tempo, la terra madre viene mortificata dalla bulimia del produttivismo sollecitata dall’ardita cupidigia dei giganti del cibo. Da troppo tempo, il consumatore viene tenuto all’oscuro dall’abbrutimento, dallo sfruttamento, dall’immiserimento e dall’ingiustizia che accompagna il cibo, ipotecandone la qualità etica, lungo la filiera agricola”. Per questo “è l’ora del basta” - affermano - “la lunga notte dell’ingiustizia deve calare e l’alba del giorno luminoso dell’alleanza tra i braccianti sfruttati, i contadini/agricoltori schiacciati e i consumatori deve sorgere”. Gli strumenti - si suggerisce al governo Conte - sono semplici: un salario dignitoso, indipendentemente dalla provenienza geografica, una regolarizzazione per uscire dall’invisibilità esistenziale, la possibilità di usufruire di alloggi decorosi per affrancarsi dalla vulnerabilità sociale, un codice etico pubblico per garantire ai consumatori un cibo sano e per tutelare nostro lavoro e quello dei contadini/agricoltori. Tutti schiacciati - spiegano - dalla grande distribuzione, che impone prezzi al ribasso i cui costi si scaricano lungo tutti gli anelli della filiera e di cui i braccianti, pagano il pegno maggiore. Il problema non è solo il lavoro nero, ma anche quelle forme di “grigio” - così vengono definite - che condannano tutti gli operai della filiera allo sfruttamento. Se da contratto nazionale la giornata lavorativa è di sei ore e mezza, in realtà spesso nei campi si sta a schiena curva per l’intera giornata, senza pause o riposi settimanali. E poco o nulla alla fine del mese risulta in busta paga. Un problema che riguarda tutti i lavoratori della terra, ma per i braccianti migranti, anche a causa dei decreti sicurezza voluti dall’ex ministro dell’Interno Salvini, significa spesso anche clandestinità. “Signor Presidente - scrivono, chiamando in causa direttamente il premier Conte - non rimandi questo atto di Giustizia e di Civiltà ma assuma con audacia questa decisione per darci Diritti, perché un diritto ritardato è un diritto negato e un diritto per pochi diventa un privilegio per tutti”. Agricoltura, braccianti stranieri bloccati dal virus nei ghetti senza cibo e senza lavoro di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 aprile 2020 Nella Piana di Gioia Tauro. La stagione è finita ma i migranti senza contratto non possono partire. “Sono bloccati nella Piana di Gioia Tauro, vivono in condizioni terribili e hanno paura di contrarre il Covid-19, “l’Italia ci riserva il posto degli animali” ci dicono. Ruggero Marra è un delegato Usb di Reggio Calabria ed esponente di Potere al popolo, segue le lotte della comunità di braccianti africani della zona, che da settimane si riuniscono per cercare di organizzarsi. “Non hanno più cibo - spiega - perché molti non stanno lavorando, stiamo portando pacchi alimentari ma la situazione è tragica”. Tra la tendopoli ufficiale di San Ferdinando e gli altri insediamenti informali sparsi nell’area, sono circa 1.200 i braccianti migranti: la stagione nella piana è praticamente finita, la maggior parte sta cercando vie di fuga per raggiungere Puglia, Basilicata, Campania, Piemonte ma chi non ha il contratto viene fermato ai posti di blocco. “Circa in 70 sono riusciti a spostarsi. Probabilmente i datori di lavoro hanno mandato i contratti via mail pur di avere la manodopera disponibile per i loro raccolti”. I più fortunati lavorano nelle serre: dalle 7 di mattina alle 5 del pomeriggio per 35 euro al giorno, il contratto che firmano prevede un compenso più alto per meno ore ma sono i compromessi che devono digerire per avere un impiego. Raccolgono zucchine e fragole: “Un ragazzo mi ha raccontato che mascherina e guanti li ha avuti il primo giorno e poi basta. Così preferisce usarli quando esce. Raccoglie fragole nel vibonese, a 30 chilometri da Gioia Tauro. Ha la schiena rotta perché è particolarmente faticoso raccogliere fragole ma, rispetto agli altri, si sente fortunato perché vive in una casa”. Gli altri restano negli accampamenti con la paura del contagio. La condizione peggiore si registra nel ghetto di contrada Russo a Taurianova, a pochi passi da Rosarno: è il campo messo peggio, circa 300 persone vivono in baracche fatiscenti senza servizi igienici né acqua, in edifici ricoperti d’amianto. Un mese fa la regione Calabria ha inviato a San Ferdinando una cucina da campo: la comunità l’ha rifiutata in segno di protesta. “Il problema non è cucinare. Non vogliono che venga abbellito il ghetto, vogliono uscirne, affittare una casa - spiega Marra. Qualcuno ci è riuscito: pagano regolarmente il canone perché non vogliono avere problemi con il permesso di soggiorno ma c’è molta diffidenza da parte dei proprietari. Avevamo chiesto alla regione di istituire un fondo di garanzia ma gli enti pubblici concepiscono solo interventi compatibili con lo stato di emergenza, non fanno nulla per superarlo”. Bloccati nella piana, in molti hanno contattato il sindacato per ottenere il bonus di 600 euro per chi ha avuto registrate almeno 50 giornate lavorative nel corso del 2019: “Sono convinti di avere i requisiti ma, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi i datori di lavoro registrano pochissime giornate e così svanisce l’opportunità di avere il sussidio che li avrebbe aiutati ad andare avanti. Quello che è peggio è che nella realtà fanno molte più ore. Ore che però finiscono ai falsi braccianti italiani, che non hanno mai messo piede in campagna. Siccome i controlli non ci sono, questa è diventata la prassi. Così la rabbia nella comunità aumenta”. I ghetti non si riempiono solo di braccianti ma anche di disperati che sono stati espulsi dal circuito dell’accoglienza e non trovano riparo altrove. Tre settimane fa in quello di Taurianova un uomo con problemi psichici ha ucciso senza motivo un ragazzo maliano di 28 anni colpendolo ripetutamente alla testa: “È una morte da ghetto - conclude Marra - una morte di chi vive in condizioni impossibili. Il dibattito sulla regolarizzazione di questi giorni è vergognoso: sono tutti preoccupati di metterli al lavoro e nessuno considera i loro diritti”. E Viola Carofalo, portavoce di Pap: “Giustizia e diritti non possono essere legati a se e quanto produci. Si è parlato di un permesso temporaneo, si tratterebbe quindi di una regolarizzazione “tampone” che non risolve il problema dei diritti e dei documenti. Risponde solo al bisogno immediato di manodopera delle aziende”. “L’emergenza non sia una scusa per lasciar morire i migranti in mare” Il Dubbio, 19 aprile 2020 L’appello agli Stati di Dunja Mijatovi?, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. “Nonostante le sfide senza precedenti che i paesi europei devono affrontare a causa del Covid-19, devono continuare a salvare vite in mare e far sbarcare i sopravvissuti in un porto sicuro”. A dichiararlo è Dunja Mijatovi?, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Il commissario ha invitato gli Stati membri del Consiglio d’Europa a rispondere prontamente a qualsiasi richiesta di soccorso in mare, ad attuare tempestivamente le necessarie capacità di salvataggio e a cooperare efficacemente per identificare un luogo di sicurezza in cui i sopravvissuti possano essere sbarcati, prendendo tutte ke necessarie misure per proteggere la salute di tutti i soggetti coinvolti. Come già sottolineato nella sua raccomandazione del giugno 2019, la riduzione delle operazioni di ricerca e salvataggio guidate dallo Stato, combinata con il ritiro dei paesi dalle loro responsabilità di salvataggio e l’adozione di misure restrittive che colpiscono le navi private che salvano le persone in pericolo in mare hanno comportato una mancanza di adeguate capacità di salvataggio e di un efficace coordinamento nel Mediterraneo centrale. Negli ultimi giorni, in risposta all’emergenza Covid-19, sono state adottate diverse misure e pratiche in Italia e Malta che hanno portato alla chiusura dei porti per le navi delle Ong che trasportavano migranti soccorsi e all’interruzione delle attività di co-organizzazione di operazioni di salvataggio e sbarco di persone in difficoltà. Ciò ha ulteriormente aggravato le lacune esistenti nelle operazioni Sar nel Mediterraneo centrale. “Accogliere e assistere i soccorsi in mare, proteggendo allo stesso tempo la salute pubblica, è una grande sfida in questo momento difficile”, si legge in una nota del commissario. Consapevole delle difficoltà affrontate dall’Italia e da Malta, Mijatovi? ha invitato tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, compresi gli Stati di bandiera, a fornire un sostegno e un’assistenza efficaci nella ricerca di soluzioni rapide (comprese quelle temporanee, ove necessario) e per garantire che gli Stati costieri non sono lasciati ad affrontare questo da soli. “La crisi Covid-19 non può giustificare l’abbandono consapevole delle persone lasciate ad annegare, lasciare i migranti salvati bloccati in mare per giorni o vederli effettivamente rientrati in Libia dove sono esposti a gravi violazioni dei diritti umani. La solidarietà europea e un’azione concreta per condividere la responsabilità e proteggere i diritti umani sono oggi più che mai essenziali - ha aggiunto il commissario -. In questo periodo di prova, ci viene ricordato il modo duro del valore della vita umana e la necessità di preservare il diritto alla vita, compresi quelli che, alla deriva in mare, sono lontani dagli occhi del pubblico”. La Libia è peggio del virus”. L’appello in video dei migranti: riaprite le vie d’uscita legali di Francesca Ronchin Corriere della Sera, 19 aprile 2020 Sono almeno 600mila i migranti bloccati i Libia: tutti i canali legali di uscita sono interrotti. E i trafficanti offrono viaggi “a sconto” verso l’Italia. “La Libia fa più paura del Covid” e da quando è scoppiata la pandemia, “è persino peggio”. Per i 600 mila migranti bloccati in Libia e in primis i 48mila richiedenti asilo registrati dall’Unhcr, forse non ci sono modi migliori per spiegare come la conseguenza principale dell’emergenza sanitaria è che i canali di uscita legali dal Paese, già compromessi dalla guerra, si sono ormai interrotti. “Ho chiamato l’ufficio dell’Oim per essere evacuato ma non mi hanno risposto” racconta un ragazzo somalo dal centro di detenzione di Zawiyah e la sua è una delle tante testimonianze che Michelangelo Severgnini, videomaker e autore del progetto “Exodus Voci dalla Libia”, è riuscito a raccogliere in questi giorni. Da anni attraverso il metodo della geolocalizzazione setaccia il web nel tentativo di far emergere le voci di chi si aggancia ogni volta ci sia un WiFi, dentro e fuori i centri di detenzione. Questa volta, grazie all’uso delle mascherine, strategiche nel proteggere l’identità dei migranti, possiamo vedere anche i loro volti. Sospesi reinsediamenti e rimpatri volontari - Il ragazzo somalo è uno dei tanti che aspettano di essere evacuati grazie ai programmi coordinati dall’Unhcr presso il Gathering and Departure Facility di Tripoli. A causa dell’inasprirsi dei combattimenti però, lo scorso il 30 gennaio l’Unhcr ha deciso di abbandonare il centro perché la prossimità con i luoghi di esercitazione delle milizie avrebbe potuto facilmente trasformarlo in un obiettivo militare. Là dove non è arrivata la guerra però è arrivato il Coronavirus. In seguito alle restrizioni ai viaggi aerei internazionali e alla decisione da parte di molti Paesi africani di limitare gli ingressi, il 18 marzo Iom e Unhcr hanno sospeso l’intero programma di reinsediamento in paesi terzi e quello dei rimpatri volontari che dal 2017 ad oggi aveva permesso a 14700 migranti di tornare nel proprio Paese d’origine. Con il lockdown strade ancora meno sicure - Dopo i bombardamenti del centro di detenzione di Tajoura e lo spostamento di centinaia di migranti dal centro di detenzione di Abu Salim, dall’estate scorsa il centro di raggruppamento e partenza di Tripoli ospita 1200 migranti a fronte di una capienza di 600. Per ovviare al sovraffollamento nei mesi scorsi l’Unhcr aveva attivato un “programma di assistenza urbana” per la fornitura di kit d’igiene e soprattutto soldi con cui incentivare i migranti a cercarsi una sistemazione autonoma a Tripoli. Con il lockdown però, molti migranti hanno preferito tornare nei centri di detenzione ufficiali perché “fuori è persino peggio”, “il rischio di estorsioni e crimini da parte delle milizie è più alto di prima”. “Se hai la pelle scura meglio non farti vedere in giro” spiega una ragazza della Nigeria mentre mostra con il telefonino la strada deserta che circonda la casa della famiglia libica presso la quale vive come schiava. “In Nigeria come in altri paesi dell’Africa subsahariana ci sono molti più contagi che qui in Libia per questo i libici sono convinti che il virus lo portiamo noi, ci trattano come untori”. Con la crisi i trafficanti abbassano i prezzi - Con la comunità internazionale alle prese con la pandemia, nelle ultime settimane il conflitto sembra essere aumentato d’intensità. Martedì le milizie di Serraj supportate dalla Turchia hanno strappato le città di Sorman e Sabratah al controllo di Haftar. In un Paese già strangolato dalla guerra e dal blocco della produzione del petrolio dettato dalle tribù dell’est, il lockdown imposto dalla pandemia è un’ulteriore stretta alle possibilità di trovare lavoro e quindi soldi per pagare i trafficanti. A quanto pare però, per andare “incontro alla crisi” i prezzi del viaggio verso l’Europa si sono abbassati e dai canonici 1500 dollari a i trafficanti possono chiedere poco più di 700. Un modo per incentivare le partenze dopo un mese di magra. Con solo 241 arrivi in Italia contro i 1342 di gennaio e 1211 a febbraio, il mese di marzo ha interrotto un trend che da settembre 2019 viaggiava al ritmo di circa 50 sbarchi al giorno. Dopo il calo di marzo a Pasqua boom di partenze - Nonostante la pandemia in Europa e l’assenza totale in mare di mezzi di soccorso dopo mesi in cui le ONG si alternavano per una media di 4 navi al mese, per tutto il mese di marzo le partenze rallentano ma non si fermano. Da dati Iom 603 migranti vengono intercettati dalla Guardia Costiera Libica mentre tentano la traversata, quasi la metà di quelli di gennaio (1072) e febbraio (1109). A fine mese l’aria cambia. Il silenzio sul Mediterraneo viene interrotto dall’arrivo della Alan Kurdi che il 30 marzo annuncia la partenza verso l’area Sar libica dichiarandosi pronta ad eventuali “outbreak management plan” e di essere in continuo contatto con le autorità tedesche. Il 6 aprile soccorre 156 migranti e si dirige verso Pozzallo. Dopo un tam tam di messaggi su whatsapp, il 9 aprile Exodus dà la notizia di un infittirsi delle partenze: “Ogni notte c’è qualcuno che tenta la traversata” scrive un migrante. “Proprio ieri tre gommoni sono partiti da Zawiyah, hanno paura della guerra e la vita in questo momento è molto dura”. Due giorni dopo, nel weekend di Pasqua, nel Mediterraneo è allarme. Alarm Phone, la linea telefonica di emergenza a supporto dei soccorsi nel Mediterraneo, dà l’allarme: ci sono tre target in mare e uno di questi ad oggi risulta ormai disperso. Tra arrivi, dispersi e intercettati dalla Guardia Costiera Libica, solo nelle prime due settimane di aprile i tentativi di partenza raggiungono quota 1500 più di tutto il mese di marzo. Dalla Tunisia alla Libia per partire - Lo stop delle vie di uscita legali, i prezzi scontati, la speranza di intercettare le navi di soccorso, sono fattori che i migranti considerano. “Dopo tre anni in Libia ero scappato in Tunisia - racconta un ragazzo somalo con tanto di mascherina - due mesi fa sono rientrato, ho visto che c’erano varie navi di salvataggio e volevo imbarcarmi da Zawiyah. Poi però è scoppiata l’epidemia del corona virus e ora non so che fare. Siamo nelle mani dei trafficanti, decidono loro di noi”. Altri dichiarano di voler restare in Tunisia e sperare nelle vie legali. Con molti di loro Severgnini è in contatto da tempo. “I migranti seguono tutto quello che succede sui social, tutti hanno Facebook, ci mettono un attimo a vedere quello che si muove davanti alle coste libiche o a entusiasmarsi quando Alarm Phone scrive su twitter #nessunosialasciatoindietro. Io cerco di spiegare loro che è pericoloso. I gommoni usati dai trafficanti non sono fatti per lunghe traversate. Servono vie legali”. Ridurre il rischio che i migranti si affidino ai trafficanti mettendo così a rischio la propria vita era stata definita “una priorità” anche dalla Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen. Dopo aver evacuato 1476 destinatari di protezione internazionale nel 2019, per il 2020 l’UE ha annunciato la disponibilità di 30mila posti, numeri complessivi però, da spartire con i migranti fermi in Libano, Giordania e Turchia, e soprattutto promesse pre pandemia. Se le agenzie internazionali non concentreranno i loro sforzi nella riapertura e implementazione dei canali legali di uscita, è possibile che nelle prossime settimane, complice il bel tempo, si assista ad un boom delle partenze via mare, e probabilmente, di morti. “Resistere alla possibilità di prendere un gommone e arrivare in Europa in due settimane non è facile” racconta un ragazzo da un centro accoglienza nel sud della Tunisia “ma se si diffondesse la voce che i ricollocamenti dalla Tunisia funzionano, sono sicuro che molti in Libia non ci andrebbero più”.