La pandemia nel carcere e le grazie del Quirinale di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 18 aprile 2020 Non si può negare l’evidenza? Eccome, se si può. Lo fa il travaglio mentale di chi sostiene che il carcere sia il luogo più sicuro contro il Covid-19, squadernando statistiche alla Trilussa: ad oggi, sono 105 i detenuti e 209 gli agenti positivi al virus; solo 6 i morti, distribuiti equamente tra reclusi, guardie e medici penitenziari; dunque “l’ultima cosa da fare per mettere i detenuti al riparo dal contagio è scarcerarli”. La sostengono in molti, questa incredibile sciocchezza: conviene, allora, mettere in chiaro alcune cose. È l’assenza di uno screening dell’intera popolazione carceraria a illudere sulle dimensioni contenute del fenomeno. A dispetto delle apparenze, il carcere è una realtà porosa attraversata da un viavai di persone (guardie, personale amministrativo e sanitario, cappellani, volontari, avvocati, magistrati, parenti, garanti, pochissimi i parlamentari) e di detenuti trasferiti da un istituto all’altro (e chissà se, con le loro scorte, sono sottoposti al necessario tampone). Ecco perché le mura del carcere possono ritardare ma non impedire la diffusione del virus, agevolata da un sovraffollamento penitenziario di nuovo sub iudice: toccherà, questa volta, alle Sezioni Unite della Cassazione dirci se i 3mq a detenuto vanno calcolati al lordo o al netto degli arredi in cella, e di quali arredi. Dentro istituti di pena dove 55.030 detenuti sono stipati in 47.000 posti effettivi, il virus sarà il cerino acceso gettato nella tanica di benzina, com’è accaduto nelle residenze sanitarie per anziani. È dunque da allibratori irresponsabili scommettere sull’impermeabilità del carcere al virus. Lanciare un’idea così balorda è come un boomerang che tornerà indietro con danni per tutti, a bomba carceraria esplosa. Per disinnescarla, tutte le pertinenti raccomandazioni internazionali (dell’Onu, del Consiglio d’Europa, dell’Oms) invitano gli Stati ad assumere provvedimenti mirati a ridurre la popolazione carceraria. Vale anche per l’Italia: finché siamo in tempo, dobbiamo giocare tutto il possibile contro il probabile. Conosciamo le coordinate da seguire. Servono “scelte giuste e creative”, suggerisce Papa Francesco. E come in ogni emergenza - insegna la Corte costituzionale - gli organi dello Stato hanno “non solo il diritto e potere, ma anche il preciso e indeclinabile dovere di provvedere” (Sent. n. 15/1982). Il loro agire si ispiri al principio di leale cooperazione - invocato dal Quirinale - che assicura efficacia all’azione pubblica. Da ultima, l’emergenza coronavirus “costituisca un elemento valutativo” nell’interpretare e applicare gli istituti vigenti, come suggerisce il Procuratore Generale di Cassazione. Entro questo perimetro, tra le misure da mettere in campo c’è (anche) la grazia presidenziale: d’ufficio, parziale, condizionata, massiva. La invocano i Radicali e pochi altri, a mio avviso con buone ragioni. Lo statuto della grazia è stato ridefinito da una sentenza costituzionale, la n. 200/2006. Presuppone “straordinarie esigenze di natura umanitaria”, non tutelabili tramite strumenti ordinari. Oggi, adesso, subito, proprio di questo si tratta: assicurare la salute (e la vita) dei detenuti quale diritto indisponibile e come interesse collettivo. La conversione in Senato del decreto legge cura Italia non ha rimediato all’insufficienza delle sue misure deflattive. E un indulto è precluso a priori, perché esige - voto per voto - maggioranze dolomitiche calcolate su tutti i parlamentari, mentre oggi le Camere deliberano a ranghi ridotti, imposti dal distanziamento sociale. Il potere di grazia risponde a “finalità essenzialmente umanitarie inerenti alla persona del condannato”. Si tratterà, allora, di concederla prioritariamente ai detenuti più vulnerabili: anziani, oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici, ma anche le 42 madri recluse con i loro 48 bambini. Graziare detenuti il cui stato di salute è moltiplicatore di rischio previene, nell’interesse di tutti, l’innesco della catena epidemiologica. La grazia è assoggettabile a condizioni per contenere rischi di recidiva: ad esempio, evitare condanne per reati non colposi entro tot anni dall’atto di clemenza, pena la sua revoca (e il ritorno in carcere). La salute pubblica, invece, andrà garantita dalle misure di profilassi disposte obbligatoriamente dal Guardasigilli per tutti i rilasciati. In quanto provvedimento straordinario, la grazia va concessa con misura: ad oggi, il Presidente Mattarella ne ha firmate 20. In passato se ne contavano invece a migliaia: è una bulimia clemenziale che la sent. n. 200/2006 censura. Ma è la stessa Consulta a riconoscere che un’emergenza legittima “misure insolite”, purché appropriate e non protratte ingiustificatamente nel tempo (sent. n. 15/1982). Viviamo una condizione pandemica inedita e atipica che richiede, legittimandola, una lunga scia di clemenze individuali costituzionalmente orientate. Il Quirinale ne motivi le ragioni, a sigillarne la copiosa concessione una tantum. Collaboreranno, con l’Ufficio grazie del Quirinale, i magistrati (qui chiamati a compiti solo informativi) e il Guardasigilli (che non ha potere di veto), a garanzia della massima celerità istruttoria. Oggi, su tutte le istituzioni grava l’onere di fare le scelte giuste che, domani, si rovescerà nella colpa di non averle fatte. Vale anche per il potere di grazia. Signor Presidente, lo eserciti, nella misura massima possibile. Torno a chiederle: se non ora, quando? “Seimila detenuti in meno, ma siamo ancora lontani dal 98% della disponibilità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2020 Al 16 aprile risultano 54.998 reclusi su una capienza di 47.000 posti disponibili. C’è un dato, certo, che non può non essere preso in considerazione. Rispetto solo a un mese fa, la popolazione detenuta ha avuto una riduzione di circa 6.000 persone. Nel recente bollettino pubblicato dal Garante nazionale delle persone private della libertà c’è un dato inequivocabile: al 16 aprile risultano 54.998 presenze per una capienza di poco più di 47.000 di posti realmente disponibili. Quindi rimangono quelle circa 8000 persone in più che potrebbero essere raggiunte dai domiciliari, in maniera tale da liberare più spazi per la gestione sanitaria dell’emergenza Covid 19 come richiesto dal protocollo. Spazi necessari soprattutto per gli istituti penitenziari che hanno un sovraffollamento che supera abbondantemente il 100%. Lo scopo da raggiungere, come ha sollecitato sempre il Garante nazionale nei primi bollettini, è quello della decongestione delle carceri tenendo ben presente alcune dimensioni: la dimensione della consistenza numerica perché l’affollamento non abbia a superare il 98% della disponibilità e la dimensione della rapidità perché gli interventi di decongestione producano effetti con un ritmo comparabile con quello inquietante e accelerato di ogni diffusione epidemica. Il Garante nazionale ne ha aggiunto anche una terza. Ovvero la disposizione di misure che si concentrino “sulla salute delle persone, quelle che sono ospitate nelle strutture privative della libertà, quelle che in tali strutture ogni giorno lavorano con professionalità e comprensibile apprensione, quelle che all’esterno di queste strutture potrebbero subire riflessi gravi qualora l’epidemia all’interno dovesse svilupparsi”. Ma la riduzione della popolazione comunque c’è stata. Sicuramente sono tre i fattori che l’hanno determinata. “Un terzo - spiega a Il Dubbio il Garante Mauro Palma - per l’articolo 123 introdotto dal “Cura Italia” relativo alla detenzione domiciliare per pene non superiori a diciotto mesi e l’articolo 124 che ha concesso i domiciliari per i semiliberi, un altro terzo per la significativa diminuzione degli arresti, il rimanente per l’applicazione più incisiva delle normative già esistenti da parte dei magistrati di sorveglianza”. C’è anche il discorso dei braccialetti elettronici. “Circa 400 dispositivi - sottolinea sempre il Garante - sono stati applicati a chi ha la pena residua da espiare superiore ai sei mesi, ma la magistratura di sorveglianza in alcuni casi dove manca la disponibilità dei braccialetti ha comunque concesso i domiciliari”. Il Garante ha comunque ribadito che le misure adottate dal governo non bastano e si deve fare di più. Infatti, nel suo bollettino del 15 aprile ha ricordato che, seppur c’è stato un valore importante nella sua riduzione, è “pur sempre uguale a quello della popolazione detenuta a metà del 2016 e quindi distante da quello (52.184) che nell’anno precedente aveva consentito all’Italia di uscire dalla procedura di esecuzione della sentenza pilota della Corte di Strasburgo (il Comitato dei ministri dichiara chiusa la procedura l’8 marzo 2016 sulla base appunto dei dati raggiunti nel 2015)”. Quindi, seppur la popolazione detenuta è oggettivamente diminuita, ciò non basta per arrivare a non superare quel 98 percento della disponibilità. Non solo non bisogna superare la disponibilità effettiva dei posti, ma bisogna anche non occuparli tutti. Questo non solo nel periodo emergenziale, ma in anche quello “normale”. C’è voluta una pandemia per far capire che i luoghi chiusi (che siano carceri oppure gli ospedali e similari) non devono in alcun caso ospitare una quantità enorme di persone. Si è capito, forse, solo ora che il ricorso eccessivo alla ospedalizzazione, così come alla carcerizzazione, fa male alla società tutta. Cnca e progetti di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa cnca.it, 18 aprile 2020 Presa di posizione della Federazione. Le condizioni per attivare progetti di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa. I gruppi adenti al Cnca, impegnati nell’ambito del carcere e dell’esecuzione penale esterna, si sono confrontati in merito ai bandi emessi dagli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna e sul Programma di intervento della Cassa delle Ammende per fronteggiare l’emergenza Covid 19 negli Istituti Penitenziari, al fine di condividerne le modalità di partecipazione e gli eventuali partenariati possibili. Data per scontata la piena condivisione dell’obiettivo principale di tali programmi (favorire la fuoriuscita dal carcere delle persone che ne hanno diritto) che da sempre costituisce uno dei punti all’ordine del giorno del dibattito interno al Cnca e delle posizioni pubbliche assunte, è evidente che in questa fase di emergenza è necessaria un’accelerazione nel perseguimento di tale obiettivo, oltre che nell’individuazione di strumenti, metodologie e risorse inedite per affrontare un percorso complesso sia per la sua dimensione quantitativa e qualitativa, sia per i ristretti tempi a disposizione, considerato l’elevato numero di detenuti che si vorrebbero portare fuori dal carcere. In questa ottica le iniziative della Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e della Cassa delle Ammende viste nella loro naturale ottica complementare ed integrata sono state accolte come importante sforzo nella giusta direzione e raccolgono pertanto la disponibilità di massima dei gruppi aderenti al Cnca. Perplessità decisive sono invece sorte sulla praticabilità e sulla sostenibilità della dimensione operativa delle azioni richieste alle condizioni indicate negli inviti emessi dagli Uffici Interdistrettuali, quindi la riflessione dei gruppi si è concentrata sull’individuazione condivisa delle condizioni che sarà necessario assicurare affinché la partecipazione alla fase di coprogettazione possa condurre a concreti progetti condivisi e realizzabili: 1. La numerosità e complessità dei beneficiari e le ridotte risorse disponibili potrebbero non essere sufficienti per far emergere ovunque tra i partecipanti alla coprogettazione la immediata disponibilità di immobili dove ospitare i detenuti. In questo caso riteniamo sarà necessaria facilitare l’interlocuzione con quelle istituzioni (comuni, regioni, prefetture, enti pubblici) che possano supportare tale carenza tramite il coinvolgimento di tali enti/associazioni pubbliche e/o private che dispongono di tali beni adeguati (caserme, alberghi, associazioni di piccoli proprietari di case, cooperative edilizie, spazi a destinazione Housing sociale ecc.) come in atto con il Comune di Milano per qualche decina di posti. 2. Prima dell’uscita dal carcere i detenuti devono essere sottoposti ai tamponi che garantiscano la loro negatività da ripetere in tempi brevissimi, per ridurre la possibilità di trasferire all’esterno persone positive ma asintomatiche inserendole in spazi collettivi di accoglienza a grave rischio incubazione collettiva (vedasi esempi Rsa lombarde) e deve essere invece garantito alle organizzazioni che accolgono un protocollo sanitario che assicuri modalità efficaci e veloci nel caso di positività, oltre al supporto nel caso di necessità di isolamento o quarantena (albergo Michelangelo a Milano ed altre situazioni simili). 3. L’urgenza e la necessità di applicazione delle misure durante tutta la fase della realizzazione delle accoglienze e dei percorsi di inclusione non può essere demandata esclusivamente agli enti del Terzo Settore disponibili, proponiamo quindi che la fase di coprogettazione possa essere integrata da tavoli territoriali di progettazione con la partecipazione delle Prefetture, dei Comuni e delle ASL competenti territorialmente. 4. Sin dall’inizio sarà necessario condividere nei tavoli progettuali le garanzie sui tempi di realizzazione dei progetti che non pensiamo possano essere correlati esclusivamente ai tempi dell’emergenza (30 giugno o i 6 mesi previsti) ma dovranno essere tempi medio lunghi come è inevitabile nei casi di accoglienza residenziale con persone prive spesso dei presupposti minimi di cittadinanza legale e residenzialità. Che destinazione avrebbero le persone alla scadenza del progetto, in particolare se l’esito del percorso fosse positivo? chi potrebbe farsene carico? Si rende quindi necessaria una previsione di progressiva trasformazione della misura della detenzione domiciliare in altre misure alternative più evolute dal punto di vista trattamentale, in tempi chiari e definiti. Quali potrebbero essere gli incentivi legali e di prospettiva nella possibile garanzia dei diritti che incentivino una partecipazione attiva e proficua dei destinatari di questi percorsi? 5. Considerato che le misure di contenimento del contagio limitano la possibilità di movimento di tutti i cittadini, è possibile che le prescrizioni indicate nei dispositivi di concessione dei benefici, a prescindere dall’istituto utilizzato, possano prevedere in una possibile fase 2 dell’emergenza la possibilità di uscire dalle strutture di destinazione per finalità di sviluppo dei progetti, pertanto sarà necessario avere garanzie di modifica delle prescrizioni appena le condizioni lo consentano in modo da poter avviare percorsi effettivi di inclusione nei territori. 6. Considerate le esigue risorse messe a disposizione pro capite deve essere esplicitamente consentita la sovrapposizione e la sinergia, pur nella massima trasparenza e verificabilità, con altre risorse disponibili da altri filoni di finanziamento complementari (Cassa Ammende, fondi regionali, fondi comunali, fondazioni private locali e risorse messe a disposizione dai Garanti dei Detenuti ecc.) in modo da coprire i costi, evidentemente di molto superiori a euro 20,00 pro capite pro die, sui diversi finanziamenti. Le condizioni sopra esposte sono il risultato della nostra convinzione che le misure in atto siano estremamente utili e necessarie e che però la complessa situazione che si prospetta sia per la complessità delle situazioni previste, che la quantità delle situazioni coinvolgibili, sia affrontabile esclusivamente con progetti condivisi e cogestiti in una rete di attori pubblici e privati dove ognuno possa dare il suo contributo migliore in base alla propria specificità e natura: condizione che lo strumento della coprogettazione, intesa nella sua migliore interpretazione, di fatto consente. Scuola in carcere. Mauro Palma: “Il diritto allo studio va tutelato anche in emergenza” Redattore Sociale, 18 aprile 2020 Con il blocco dovuto alla pandemia, in pochissime carceri è stata attivata la didattica a distanza: nella maggior parte dei casi, ai detenuti viene spedito solamente il materiale cartaceo, a volte neanche quello. L’appello del Garante nazionale: “I percorsi scolastici sono fondamentali, soprattutto in un luogo come il carcere”. “Non è possibile che si sia fatto un grande lavoro per investire sulla cultura, sull’istruzione, veicolo del reinserimento sociale, e poi venga trascurata l’effettività di questa possibilità durante l’emergenza. Il diritto allo studio della popolazione carceraria deve continuare ad essere tutelato”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma denuncia la situazione negli istituti penitenziari italiani, dove dalla fine di febbraio è vietato l’ingresso ai docenti e ai volontari, oltre che ai familiari, con lo scopo di proteggere la comunità interna dal rischio di contagio da coronavirus. Da quel momento, solo pochissimi istituti penitenziari hanno messo a disposizione strumenti per la didattica a distanza, con l’uso di videoconferenze e lezioni online. Quasi la metà delle scuole si è limitata a inviare agli studenti materiale cartaceo, come libri o fotocopie, mentre un’altra gran parte non è riuscita ad assicurare nemmeno quello. “Ovviamente organizzare la didattica a distanza in carcere non è una cosa semplice, questo lo sappiamo - commenta Palma -. Però bisogna quantomeno provare a trovare soluzioni: tale situazione sta comportando la lesione del diritto allo studio, in taluni casi con l’interruzione del percorso scolastico. Non occorre certamente dire quanto i percorsi scolastici e formativi siano importanti, soprattutto in un luogo come il carcere, la cui finalità sarebbe proprio quella rieducativa. Chiediamo quindi che il governo si impegni a elaborare un piano specifico riguardo l’istruzione dei luoghi di detenzione durante l’emergenza: la quarantena durerà ancora, non sappiamo quanto, e allora non possiamo continuare così”. Oggi i percorsi d’istruzione riguardano circa un terzo della popolazione carceraria, con quasi mille persone detenute iscritte a corsi universitari. Per chiedere soluzioni concrete, il Garante ha inviato una lettera al ministro dell’Istruzione, al ministro dell’Università e ricerca e a quello della Giustizia. “Pur comprendendo la complessità del momento che sta vivendo il Paese, il governo deve mettere anche questo tema nel paniere delle questioni da affrontare - afferma Palma -. A tutti dev’essere garantito il diritto di completare il proprio anno scolastico e di sostenere gli esami di stato, quelli universitari e le sessioni di laurea, attraverso le tecnologie che abbiamo a disposizione. Negli istituti penitenziari serve la disponibilità di computer e tablet, accesso a banche dati e offerta tutoriale attraverso video conferenze, prevedendo la modalità di videochiamata anche per colloqui e esami”. Nel frattempo, anche i docenti che insegnano nelle scuole in carcere si interrogano su come proseguire il proprio lavoro e continuare così a garantire ai loro studenti le lezioni, pur non avendo la possibilità di svolgere la didattica a distanza. In un appello della Rete delle scuole ristrette, Anna Grazie Stammati, insegnante nel carcere di Rebibbia e presidente del Centro studi per la scuola pubblica, scrive: “Noi docenti dei percorsi di istruzione nelle carceri non solo non riusciamo a fare didattica a distanza ma, al massimo, riusciamo a far arrivare qualche fotocopia ai nostri alunni e neppure dappertutto. Da un mese, in moltissimi istituti penitenziari non c’è più alcun contatto tra docenti e studenti. Noi, che nella nostra quotidiana azione di insegnamento dovremmo ridurre e combattere il divario sociale, oggi a quale compito siamo chiamati, qual è il nostro ruolo?” Dal carcere e per il carcere, nuove iniziative per l’emergenza di Raul Leoni gnewsonline.it, 18 aprile 2020 Proseguono senza soluzione di continuità le iniziative di contrasto al Coronavirus legate agli istituti penitenziari, con la tecnica del doppio binario: da un lato l’avvio della produzione dei dispositivi di protezione individuale, nelle sartorie delle strutture in cui lavorano i detenuti, dall’altro le donazioni destinate agli operatori penitenziari e alla stessa popolazione carceraria. A Crotone, Federico Ferraro, garante comunale dei diritti dei detenuti, ha consegnato al comandante di reparto della casa circondariale Manon Giannelli 150 mascherine. Gli strumenti di profilassi sono stati realizzati da otto cittadine crotonesi che hanno preferito mantenere l’anonimato. Sono invece arrivati nel carcere di Uta, vicino Cagliari, i dispositivi donati con la collaborazione del Rotary Club di Quartu Sant’Elena grazie all’impulso dell’Associazione Sdr: l’iniziativa, che ha messo a disposizione della casa circondariale 260 mascherine e 700 guanti, fa seguito ad analoga donazione di 600 dispositivi di protezione individuale (Dpi) recapitati in precedenza. Anche l’istituto di Poggioreale ha visto aumentare la disponibilità degli strumenti di protezione: 800 mascherine chirurgiche, prodotte dall’azienda tessile Corsair dei fratelli Coppola, sono state consegnate dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, accompagnato dal dottor Lorenzo Acampora, responsabile sanitario dei penitenziari napoletani, e dal rapper campano Tueff, impegnato anche in altre mobilitazioni di solidarietà durante l’emergenza pandemica. Tra le esperienze simbolo del progetto legato alla produzione delle mascherine nelle sartorie degli istituti penitenziari, c’è quella di Massa: 1.200 sono i dispositivi che i detenuti impiegati nell’iniziativa riescono a consegnare in un giorno, 8.000 la settimana. Il laboratorio del carcere toscano, diretto da Maria Cristina Bigi, era in precedenza adibito al confezionamento di lenzuola per l’amministrazione penitenziaria. Un ulteriore contributo per far fronte alla situazione emergenziale viene offerto dalla Asl RM4, che gestisce in via ordinaria l’area psicologico-psichiatrica degli istituti penitenziari di Civitavecchia. Nel quadro dell’iniziativa “Vicino a voi … insieme”, l’Istituto di Salute Mentale diretto dalla dottoressa Carola Celozzi, ha elaborato uno specifico percorso di sostegno alla popolazione in isolamento forzato: una particolare attenzione è stata riservata ai detenuti, ai quali - grazie all’azione congiunta dell’Amministrazione Penitenziaria - sono state fornite indicazioni precise e strutturate sulle misure da tenere, sul significato del trattamento e sulle modalità per gestire l’angoscia. Carcere, residenza sanitaria: mondo boia… può succedere anche a te! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 aprile 2020 Casa di reclusione, casa di riposo. Le chiamano così. Ma quale casa? Qui c’è solo obbligo. E ora, sul tetto, quel cecchino che si chiama Covid. Luoghi in cui non vorresti mai andare. Casa di reclusione, casa di riposo. Dove il termine “casa” non è focolare, non è abbraccio, non è protezione né comunità. È un luogo non scelto, non accettato. Vai in carcere innocente in attesa di un processo che non arriva mai, o a scontare una pena e allora puoi segnare sul muro col gessetto i giorni di non vita che passano in attesa di quelli di vita che ti attendono. Vai in una casa di riposo a trascorrere i giorni che ti separano dalla fine di tutto. Ci vai perché non sai più dare a te stesso quel che serve per esserci senza il bisogno degli altri, e perché gli altri non riescono più a contenere la tua fragilità, non ti sanno più ascoltare, e albergano in luoghi e tempi dove non c’è spazio per la vecchiaia. Poi arriva una piccola cosa che chiamano virus e tutti si muovono come formichine impazzite, e cercano di imparare e convivere con la paura, con un’improvvisa mancanza di protezione, con una sorta di nudità che li rende simili a te, a te che sei rinchiuso perché hai peccato o che hai subìto nell’abbandono il peccato di altri. E tu che sei chiuso dentro, sei impotente come tutti i giorni, quelli che ti separano dalla libertà o quelli che ti separano dalla fine. D’improvviso scompaiono tutti quelli che ti portavano da fuori quel pezzetto di vita che non ti appartiene più. Vengono chiuse porte e finestre delle carceri con lesta prontezza. Un po’ più tardi quelle delle case di riposo. Fuori c’è il piccolo virus appostato come un cecchino sul tetto del mondo. Per chi è “dentro” non c’è che il salto tecnologico, di tanto in tanto, nel gesto gentile di un agente o un volontario che allunga il braccio e consente al recluso di assaporare su un I phone o un tablet un finto abbraccio con un coniuge ansioso. E una mano pietosa ti mette nelle mani tremolanti, sul tuo corpo abbandonato su una carrozzina, quel qualcosa di lucido che ti mostra nipotine festanti con le loro mamme frettolose, su, saluta la nonna che dobbiamo andare. Poi succede che nelle case di riposo, per tanti il riposo diventa eterno, definitivo e ci si domanda perché. E si pensa ai tanti, medici e infermieri e operatori sociosanitari che entrano ed escono, e poi ti toccano, ti sollevano e ti imboccano, hanno con te una relazione simbiotica fatta di corporeità e di amore. Tu sai e loro sanno che tu sei lì a passare il tempo e poi a dire addio a tutti, a quelli di dentro e a quelli di fuori che ora non ci sono più perché c’è il cecchino sul tetto del mondo, e nessuno potrà accompagnarti da nessuna parte, neanche alla cremazione. Nelle Case di reclusione c’è l’attesa. L’attesa di una boccata di libertà che arriva in tutte le parti del mondo, quelle che conosci e quelle che hai visto sull’atlante alle medie. Quei paesi di cui ti hanno detto che lì non c’è la democrazia, ci sono dittatori e guerre. E pure in quei luoghi le porte e le finestre delle prigioni si spalancano, e si manda la gente ad affrontare il virus a viso aperto, e allora puoi scegliere di mantenere il “distanziamento sociale” perché hai dei metri intorno a te. E il tuo fiato con le malefiche goccioline non si mescola più con il fiato di quelli che il destino ti ha messo sopra e sotto nel letto a castello di una celletta monacale. E così anche tu che possiedi ancora il tuo corpo integro, che sei giovane e di notte sogni e fai l’amore col tuo corpo, cominci a pensare che non vuoi morire così, con la bestiolina portata dentro da qualcuno che non ti tocca e non ti abbraccia, ma che parla, che emette goccioline e che ti trasmette una fragilità che non credevi di avere. Guardi la televisione, vedi bare e gente che piange e tutti questi ospiti delle case di riposo che se ne vanno. Ma loro sono vecchi, pensi, è normale, è giusto che siano loro a morire. Ma poi ti guardi intorno e senti una valanga di goccioline che ti piomba addosso. E la tv dice che persino in Iraq mandano a casa i detenuti, finché c’è il virus. In Italia no, mondo boia. E senti che può capitare anche a te, non solo ai vecchi. I boss al 41bis possono sfruttare l’emergenza coronavirus per tornare liberi di Lirio Abbate L’Espresso, 18 aprile 2020 Una circolare invita a segnalare detenuti malati e anziani per eventuali pene alternative. E la lista potrebbe comprendere l’intera Cupola di Cosa nostra. I mafiosi che stanno “fuori” e quelli che sono “dentro” si sono messi alla finestra in attesa dell’evolversi della pandemia, perché durante l’emergenza tutto può accadere in loro favore senza destare sdegno in un’opinione pubblica tutta presa a difendersi dal virus. Quelli “fuori” sono pronti a intervenire con le loro azioni dopo la riapertura parziale o totale del Paese. Attendono di capire come la fase due di questa emergenza modificherà l’economia del paese, per individuare i nuovi obiettivi su cui lucrare, forti soprattutto della grande massa di denaro liquido che hanno a disposizione. Il cash è una delle armi più potenti di cui le mafie dispongono in questo momento, capace di spazzare via ogni cosa, senza provocare spargimento di sangue. Per il direttore generale della pubblica sicurezza le organizzazioni criminali hanno già da tempo investito nelle attività di prima necessità che non sono state bloccate dalle restrizioni da Covid-19: la filiera agro-alimentare, farmaci, il trasporto su gomma, servizi funebri, le imprese di pulizia. E le rivolte nelle carceri. Ecco Il documento inviato ai 194 Paesi dell’Interpol Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha avvertito: bisogna evitare “che il deficit di liquidità, che in questo momento emergenziale può interessare imprenditori e intere categorie di cittadini, possa essere finanziato dalle organizzazioni criminali attraverso l’usura o l’acquisizione delle stesse attività”. Per questo motivo i prefetti, su indicazione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, stanno tenendo alta la guardia per scongiurare il rischio di infiltrazioni criminali nella fase di riavvio delle attività economiche e per vigilare sulle dinamiche societarie e in quello immobiliare. E per questo motivo non possono passare inosservati alcuni episodi che si sono verificati nei giorni scorsi a partire dal caso di un furgone con banconote per 500mila euro fermato alla frontiera: proveniva da un Paese dell’Est ed era guidato da calabresi legati alla ‘ndrangheta. Un segno del fatto che le mafie abbiano fiutato le opportunità aperte da situazioni di impoverimento di imprenditori e commercianti e vogliono incrementare il welfare mafioso. E l’attenzione si concentra sulla fase due, quando i fondi per il rilancio dovranno essere tracciati e controllati. E su questo gli investigatori sono già pronti. I poliziotti che lavorano sotto la Dac (Direzione centrale anticrimine della polizia di Stato) diretta da Francesco Messina, hanno già sul territorio oltre trenta agenti operativi sotto copertura: a Roma, Milano, Napoli e Palermo. Puntano ai reati spia di attività mafiose che sono spesso la corruzione. A questi agenti infiltrati altri ancora se ne aggiungeranno nei prossimi mesi. E poi ci sono i mafiosi “dentro”, quelli che attendono, soprattutto chi sta al 41bis. Attendono una finestra per mettere fuori la testa dal carcere “impermeabile” a cui sono sottoposti. In alcuni istituti di pena i capimafia detenuti potrebbero sfruttar e lo stato di emergenza in cui sono i penitenziari per avere pene alternative, magari, come hanno già ottenuto nei giorni scorsi una decina di boss, gli arresti in casa. I 41bis stanno dunque covando, vogliono soluzioni a loro favore che possono essere spinte da chi sta “fuori”. Il 21 marzo scorso l’amministrazione penitenziaria ha inviato a tutti i direttori delle carceri una circolare in cui li invita a “comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo del detenuto, suggerendo la scarcerazione, che potrebbe avere almeno una delle nove patologie che il Dap elenca. È poi si chiede di segnalare, sempre per la pena alternativa, anche le persone che superano i 70 anni, e con questa caratteristica sono 74 i boss che oggi sono al 41 bis. Fra loro si conta Leoluca Bagarella (che sta spingendo da tempo per avere gli arresti in casa) i Bellocco di Rosarno, Pippo Calò, Benedetto Capizzi, Antonino Cinà, Pasquale Condello, Raffaele Cutolo, Carmine Fasciani, Vincenzo Galatolo, Teresa Gallico, Raffaele Ganci, Tommaso Inzerillo, Salvatore Lo Piccolo, Piddu Madonia, Giuseppe Piromalli, Nino Rotolo, Benedetto Santapaola e Benedetto Spera. Sono solo alcuni, ma già questi nomi bastano a comporre la Cupola delle mafie. Immaginare di averli fuori, prima di scontare la pena, mentre ancora circola il virus di Covid19, sarebbe una doppia pandemia. Il Garante della privacy scrive a Bonafede: stop ai processi via computer senza l’imputato di Liana Milella La Repubblica, 18 aprile 2020 Dopo le proteste delle Camere penali che contestano il Guardasigilli per le udienze telematiche. Dopo giorni di tam tam contro i processi cosiddetti “da remoto”, cioè via computer, con il giudice ma anche l’imputato collegati in rete, le Camere penali ottengono un primo stop. Scrivono al Garante della Privacy Antonello Soro protestando per quella che ritengono non solo una violazione della riservatezza, ma anche delle regole costituzionali sul processo. E Soro, esaminato il dossier, scrive a sua volta al ministro della Giustizia per dirgli che, non solo avrebbe dovuto essere informato, mentre finora non sapeva nulla, ma che comunque nell’uso di una piattaforma, per giunta straniera, si rischia di violare i dati riservati della persona sotto processo. Plaudono ovviamente le Camere penali, e con loro il forzista Enrico Costa che, con Italia viva, in commissione Giustizia alla Camera, ha appena chiesto di cancellare la norma. Mentre il Pd la tiene ferma considerandola solo una necessità legata all’emergenza del Covid-19, quindi in vigore solo fino al 30 giugno. Qualche dubbio anche per Federico Conte, di Leu. Ma vediamo cosa scrive Soro a Bonafede: “Questa Autorità non è stata investita di alcuna richiesta di parere sulle norme emanate in merito, con decretazione d’urgenza, né sulla scelta della piattaforma e dell’applicativo da indicare, ai fini della celebrazione da remoto del processo penale”. Ma, alla luce delle considerazioni delle Camere penali, Soro esorta Bonafede a fornire “ogni elemento ritenuto utile alla migliore comprensione delle caratteristiche dei trattamenti effettuati nel contesto della celebrazione, a distanza, del processo penale, ai fini dell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite a questa Autorità”. Soro esprime anche delle preoccupazioni “sull’eventualità che Microsoft Corporation o un amministratore di sistema possa desumere, dai metadati nella sua disponibilità, alcuni dati ‘giudiziari’ particolarmente delicati quali, ad esempio, la condizione di soggetto sottoposto alle indagini o di imputato”. Ovvia la reazione soddisfatta delle Camere penali perché la lettera del Garante a Bonafede “ricalca esattamente le obiezioni tecniche e giuridiche sollevate dai penalisti italiani”. Nonché “la doglianza del Garante di non essere stato preventivamente interpellato in ordine a una prospettiva di riforma legislativa di così clamoroso impatto sulle problematiche proprie della competenza di quella autorità indipendente”. Altrettanto ovvia anche la nota del responsabile Giustizia di Forza Italia Costa, da sempre critico con Bonafede, che chiede “di cancellare la norma, punto e basta, perché non sono ammissibili mediazioni”. Peraltro Costa aveva già criticato l’idea che i processi si potessero celebrare “con il giudice in camera da letto”. Ma cosa succede adesso? In attesa della replica di Bonafede conviene riassumere i termini della querelle e verificarne il possibile esito. Le norme sui processi cosiddetti “da remoto” sogno state inserite negli emendamenti al decreto Cura Italia, in discussione alla Camera dopo il primo sì al Senato, ma con la fiducia. Proprio a palazzo Madama il decreto originario sulla giustizia del 17 marzo è stato ampliato, prevedendo la possibilità di celebrare i dibattimenti del tutto fuori dai tribunali, con collegamenti via computer, mentre fino a quel momento era possibile tenerli, ma con il detenuto in collegamento dal carcere. Tutto questo fino al 30 giugno. Bonafede ha chiesto - dopo un’esplicita richiesta dei procuratori - che anche gli interrogatori nelle inchieste si possano svolgere via pc. Ma questa norma non è ancora passata anche se dovrebbe essere introdotta alla Camera. Da subito le Camere penali hanno protestato “perché in questo modo il giudice non guarda più negli occhi l’imputato”. La preoccupazione è che il sistema superi l’emergenza del Covid e, per accelerare i tempi della giustizia, diventi la regola. Sempre il processo a distanza. E negli emendamenti appena presentati alla Camera, oltre a Forza Italia con Costa, anche Italia viva ha chiesto di abolire i processi da remoto. Possibile solo consentire che gli imputati detenuti si colleghino dal carcere, anche con il difensore, ma mantenendo il giudice nell’aula di tribunale. Alla Camera si vota martedì, anche se il testo del Cura Italia poi dovrà tornare al Senato poter un’ultima lettura. Ma la lettera di Soro potrebbe cambiare qualcosa. “Con le udienze da remoto a rischio le garanzie” di Simona Musco Il Dubbio, 18 aprile 2020 Il Cnf si rivolge alla magistratura e a tutta l’avvocatura italiana: “Dobbiamo trovare il modo di tutelare la salute e il diritto di difesa”. “Due direttrici imprescindibili per la “fase 2”, quella della ripresa, non oltre differibile, dal 12 maggio: valorizzazione e semplificazione di tutte le procedure alternative alla giurisdizione e condivisione di regole che pur rispettando le specificità dei riti dei territori, ne declini lo svolgimento in maniera uniforme, salvaguardando sempre la tutela della salute di tutti gli operatori di giustizia e il diritto di difesa”. È quanto ha ribadito ieri il Cnf al ministro Bonafede. Il punto fondamentale è chiaro: “la smaterializzazione del processo penale”, afferma l’Unione delle Camere penali, sarebbe “contraria a principi costituzionali” e renderebbe impossibile “una qualsiasi forma di contraddittorio dinanzi al giudice con tali modalità”. Poche parole per riassumere tutte le obiezioni avanzate dai penalisti al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ora si trova per le mani anche la lettera con la quale il Garante per la Privacy, Antonello Soro, chiede chiarimenti sulle piattaforme utilizzate per il processo da remoto, girando al guardasigilli tutte le domande formulate dall’avvocatura. E sottolineando, inoltre, come tutte le norme emanate per far fronte all’emergenza, in ambito giudiziario, non siano passate dal fondamentale vaglio dell’Autorità. L’Unione, che giovedì ha incontrato il ministro assieme ai rappresentanti di Cnf, Ocf e Anm, ha sottoposto a Bonafede una serie di proposte alternative per la gestione delle udienze nella seconda fase dell’emergenza, coniugando le precauzioni per la salute con regole in grado di non mortificare diritti e garanzie, non comprimibili nemmeno in nome di un’emergenza grande quanto quella attuale. Così è stato chiesto l’utilizzo di strumenti informatici per il deposito nelle segreterie e nelle cancellerie di istanze, memorie, liste testi e impugnazioni, soluzioni che eviterebbero spostamenti e accessi agli uffici non strettamente necessari. Ma l’Unione, attraverso il presidente Gian Domenico Caiazza, ha anche messo in guardia il ministro sulla possibilità che la smaterializzazione dell’udienza possa comportare, in futuro, anche “un aumento dei contenziosi per le tante eccezioni di legittimità costituzionale ed opposizioni che i difensori si vedranno costretti a rappresentare nei singoli processi”. Obiezioni sulle quali Bonafede ha garantito un confronto, ribadendo la natura temporanea di qualsiasi forma alternativa al processo così come previsto dalle norme ante emergenza. Su questi temi, l’Ucpi ha già coinvolto diverse forze parlamentari, che hanno manifestato l’intenzione di opporsi al processo da remoto. Che, così come pensato, presenta anche non poche insidie da un punto di vista di protezione dei dati personali: per svuotare i tribunali ed evitare il diffondersi del virus, infatti, si è optato per due programmi commerciali americani, Skype for Business e Teams, della società Microsoft Corporation, senza alcuna certezza che l’utilizzo di tali piattaforme “consenta di rispettare le garanzie minime di sicurezza, riservatezza e protezione dei dati personali richieste dalla normativa nazionale e sovranazionale”. Senza dimenticare che, trattandosi di una società statunitense, la stessa è soggetta al Cloud Act, “che consente la discovery dei dati contenuti nei suoi server, anche se localizzati al di fuori del territorio Usa, su semplice richiesta dell’autorità governativa”. Da qui le richieste di Soro, che ora chiede al ministro di spiegare se tali scelte siano o meno compatibili con la legge sul trattamento dei dati personali, nonché che fine faranno i dati eventualmente memorizzati da Microsoft Corporation, col rischio che dagli stessi si possano desumere “alcuni dati “giudiziari” particolarmente delicati quali, ad esempio, la condizione di soggetto sottoposto alle indagini o di imputato, magari in vinculis”. Temi “sicuramente rilevantissimi”, che avrebbero richiesto anche un parere del Garante. Così Soro ha chiesto al ministro “ogni elemento ritenuto utile alla migliore comprensione delle caratteristiche dei trattamenti effettuati nel contesto della celebrazione, a distanza, del processo penale, ai fini dell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite a questa Autorità”. Elementi che potrebbero cambiare le radicalmente le sorti della norma. Processo a distanza, cavallo di Troia per l’orribile giustizia che verrà di Valerio Spigarelli Il Riformista, 18 aprile 2020 Se una cassiera lavora perché non possono fare altrettanto avvocati e giudici? Basterebbe rispettare le regole della messa in sicurezza. Ma anche tra i legali c’è chi invoca misure straordinarie. Apocalittici e integrati, diceva Eco, a proposito della cultura di massa, contrapponendo quelli che avevano una visione aristocratica ma retrò della questione a quelli che ne avevano una popolare ma a volte semplificata. Lui si ritagliò una posizione diversa, in qualche modo mediana, anche se, poi, riconobbe che in qualità di strumenti della cultura pop “i social hanno dato voce a legioni di imbecilli”. Affermazione particolarmente vera di questi tempi, in tutti i campi. La cosa m’è tornata in mente a proposito del dibattito/non dibattito sui rischi che l’attuale situazione sta determinando rispetto alle libertà ed ai diritti civili, in tempo di Coronavirus. Di fronte alle poche voci che ammoniscono a verificare l’impatto di alcune decisioni sulla tenuta democratica complessiva, schiere di fiduciosi nelle magnifiche e progressive sorti del controllo tecnologico dei cittadini, o semplicemente della tecnologia, invocano ad ogni piè sospinto lo stato di necessità sanitaria. Tutti uniti dietro allo slogan “intercettateci, seguitici, controllateci tutti ed informatizzate pure i confessionali” così sconfiggiamo il Corona (o le mafie, o la corruzione ma questo è un altro discorso...). Per ragioni, diciamo così, di competenza, io guardo la cosa soprattutto rispetto alle sorti del Giusto Processo. Anche nel mondo giudiziario, infatti, si registra la stessa dicotomia, e per una volta questa non combacia, perlomeno non del tutto, con le distinzioni di categoria. Soprattutto tra i secondi, infatti, non è raro trovare, oltre che la quasi totalità dei magistrati, anche numerosi avvocati, soprattutto tra quelli più colpiti, per ragioni personali o geografi che, dall’epidemia. Qui la parola d’ordine è: “finché il rischio non sarà azzerato in aula non ci si torna”. L’esigenza di tutela della vita umana - dicono - prevale già sulla libertà di circolazione, sulla libertà di riunione, sulla privacy, perché non sul processo? Pertanto, senza trincerarci dietro a steccati ideologici, si conceda alla macchina della giustizia di riprendere facendo da remoto - in maniera smart, sostengono con deliziosa anglofonia - tutto quel che si può fare: convalide degli arresti, udienze, persino le camere di consiglio e i processi in Corte di Assise. Se la medicina è amara sul versante dei principi, è anche l’unica che permette a quelli che non hanno lo stipendio, cioè proprio gli avvocati, di avere una qualche prospettiva, altrimenti, concludono beffardi, “mangiatevi i principi e morite di fame”. Argomento un po’ rude ma dotato di una sua forza persuasiva, va riconosciuto. La categoria, è praticamente egemone tra i magistrati e, soprattutto, tra i capi degli uffici giudiziari, i quali, visto che il dicastero non brilla, né per lo spirito né per il gusto, per dirla con Faber, molte di queste cose se le sono già decise da soli, e senza neppure una legge a disciplinarle. Poi, come succede da decenni, hanno spedito il compitino alla Politica e quella l’ha copiato. Ora, che rispondono gli avversari - categoria alla quale appartengo - che sono molti di meno persino tra gli avvocati? Beh, intanto, mettono sul piatto una fi gura retorica che rischia avere la stessa fortuna della casalinga di Voghera di Arbasiniana memoria: la cassiera di supermarket. Se a costei chiediamo di essere sufficientemente coraggiosa da incontrare, a meno di un metro, qualche centinaio di persone al giorno, perché lo stesso coraggio non lo pretendiamo dal mitico operatore di giustizia? Orribile neologismo che comprende avvocati e magistrati. Domanda a cui non è possibile rispondere “perché mangiare è necessario” giacché questo argomento, cioè che è necessaria anche la Giustizia, sta alla base anche della posizione avversa. Se la Giustizia è necessaria, tanto da essere disposti a farla camminare coi cannocchiali telematici, lo è come gli altri rami necessari, come la produzione di certi beni, come gli apparati di sicurezza. Ma perché la Giustizia, dopo essersi fermata, ragionevolmente, allo scoppio dell’epidemia, una volta rimessa in moto dovrebbe camminare in maniera sghemba? Ascoltare un agente di pg in tv si potrà anche fare, tanto che già si fa ordinariamente, con i pentiti, ma non è la stessa cosa che farlo dal vivo, come non è la stessa cosa fare un esame ad un perito dal vivo o per via elettronica, né una arringa. Anche qui è facile ribattere dicendo che anche le filiere industriali modificheranno le linee produttive; è vero, ma non in maniera tale da alterare il prodotto: sarebbe inutile perché non lo venderebbero. Viceversa la modifica di alcuni tratti strutturali del processo, si pensi solo alla possibilità di alterazione del meccanismo decisionale nella ipotesi di giudici che stanno a qualche centinaio di chilometri di distanza l’uno dall’altro, mette a rischio la qualità del prodotto/sentenza. Con le camere di consiglio telematiche cosa garantirà la segretezza, per non parlare della collegialità vera? Cosa garantirà l’assenza di meccanismi che possano influire sulla libera determinazione del singolo giudice? Non è necessario arrivare al paradosso del giudice che decide con il parente dell’imputato - o il collega del poliziotto che ha fatto le indagini - in salotto, basta immaginare che la detenzione della documentazione processuale resterà saldamente nelle mani di uno dei giudici, non potendo ipotizzarsi il contrario, per verificare come quel meccanismo porti diritto ad una asimmetria che la tecnologia non potrà mai eliminare. Perché, poi, la medicina più somministrata è quella di estromettere gli avvocati ampliando a dismisura le camere di consiglio non partecipate? Perché, soprattutto, si inserisce una norma, che non esito a definire ricattatoria, per la quale se un avvocato, rischiando prima di tutto la sua di pelle, ritiene necessario presentarsi a fare una discussione, magari in Cassazione, quando è in ballo la custodia cautelare, si prevede che l’eventuale slittamento del processo che l’apparato non riesce a celebrare lo pagherà l’imputato in termini di prolungamento dei termini di custodia cautelare? Qui la risposta è facile: perché è un deterrente rispetto a richieste simili. Il fatto è che, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, molte di queste soluzioni erano invocate anche prima del Corona, che dunque è diventato non solo il cavallo di Troia per farle passare, ma anche una anticipazione sperimentale di una, orribile, giustizia futura. Il che è dimostrato dal fatto che tutti si concentrano sulle udienze, che ben gestite sarebbero i momenti meno pericolosi attraverso fasce orarie, limitazioni temporanee alla partecipazione del pubblico - già previste ordinariamente per motivi di sanità - e distanziamento. In realtà, come per le altre amministrazioni i problemi riguardano la frequentazione degli uffici e delle cancellerie, quella sì, al là del Corona, da semplificare in maniera smart, ma guarda caso ancora non hanno previsto il deposito di atti di impugnazione via pec. Viceversa ci sarebbero altre soluzioni e anche altri settori, prima di tutto il carcere, su cui quali esercitare le virtù degli amanti della sanità giudiziaria. Elenchiamole, non necessariamente in ordine di praticabilità politica, chiarendo che qui nessuno vuole fare il Rodomonte sulla pelle degli altri: i processi vanno fatti in sicurezza e lo Stato deve garantirne le condizioni, come in fabbrica, come negli uffici e nei campi, né di più né di meno. In primo luogo ci vuole un’amnistia, strumento eccezionale che si adotta di fronte a situazioni eccezionali, che libera poco le carceri ma molto i tribunali. Ciò darebbe la possibilità di fare quel che rimane con le forme di ieri e gli accorgimenti di domani per rendere difficile la trasmissione del contagio. Quindi una norma semplice, che renda realmente eccezionale la custodia cautelare in carcere in tempi come questi, impedendo che venga applicata nei casi in cui è escluso l’arresto obbligatorio in flagranza e comunque quando non sussistono esigenze di eccezionale rilevanza. Ancora, abrogazione delle norme che hanno disincentivato il giudizio abbreviato, strumento più gestibile rispetto al dibattimento che alleggerirebbe le Corti di Assise. Inoltre, possibilità di rendere eventuale, e a richiesta, ma senza prezzi da pagare, tutte le udienze partecipate, in camera di consiglio e non, in Cassazione, con dichiarazione da effettuare al momento del deposito del ricorso. Poi un indulto, che porta alla liberazione di spazi in carcere. Senza dimenticare la riesumazione dagli armadi della riforma dell’Ordinamento penitenziario elaborata dalla Commissione Giostra, assieme alla possibilità di scontare le pene brevi ai domiciliari, ma non con la presa in giro dei braccialetti elettronici, e ad una liberazione anticipata rafforzata sul modello sperimentato anni fa dopo la sentenza Torreggiani della Cedu. Infine, eliminazione per quest’anno del periodo di sospensione feriale continuando l’attività giudiziaria in agosto, cosa banalissima che nessuno vuole per motivi assai poco nobili, diciamocelo. Non è un libro dei sogni, sono cose che si possono fare e sono meno complicate di quelle in discussione che saranno approvate la prossima settimana, che liquideranno Oralità & Immediatezza, cioè parenti poveri del processo accusatorio italiano. Certamente non è un programma da Bonafede, che è il ventriloquo delle peggiori idee che circolano sulla giustizia in magistratura, ma il PD perché non prende in considerazione questi temi su cui potrebbe portare anche i garantisti non pelosi dell’opposizione? Forse perché si basano su di un ingrediente, il coraggio, quello politico e quello tout court, che non si trasmette via internet. Sembra che gli italiani sognino più di prima di Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 18 aprile 2020 Potrebbe sembrare strana questa sorta di calma piatta che, dopo gli iniziali tumulti, carcerari in specie, attraversa il Paese. È la quiete che segue la tempesta, la quiete di chi scruta l’orizzonte temendo l’accendersi di sinistri turbini, di chi cerca un assestamento dopo l’intensa scossa tellurica che ha messo a soqquadro il network relazionale, la routine in cui si era immersi più o meno consapevolmente, con maggiore o minore soddisfazione, attivamente o passivamente. La frattura è scomposta o ingranata, per niente allineata e richiede quindi attenzione e cure, le stesse che abbiamo sottratto al talora spossante e frenetico rotolare di cosa in cosa. Lo spostamento energetico è sempre fertile, sempre, benché o forse perché doloroso. Sentiamo levarsi voci di grandi o meno grandi vecchi che reputano moralistico presumere che un simile sconquasso fertilizzi il campo sociale e personale. Costoro sono i primi tra i moralisti, sono i bene integrati in un sistema che li ha colmati di privilegi. Meglio lasciare tali moralisti proiettivi alla loro stantia deriva e privilegiare idee che non si fermino a pregiudizi di maniera, positivi o negativi che siano. Ebbene, l’apnea sociale del periodo dimostra una cosa: che gli italiani riflettono, magari senza saperlo. Da tempo hanno ridotto la loro partecipazione alla crescita demografica della umanità, passo indietro visto da troppi come colpa ovvero aspirazione frustrata, e invece sintomo di una inconscia consapevolezza dei limiti del Pianeta. E ora affrontano l’isolamento arrangiandosi alla loro maniera antica, benedetti da una primavera perfetta e prolungata dei cui colori tersi, della cui atmosfera frizzante tutti possono godere anche solo affacciandosi alla finestra di una qualsiasi abitazione, per piccola, modesta, sovraffollata che sia: una geografia e una meteorologia straordinarie sono tra i doni che gli abitanti del Belpaese hanno in dote. E inoltre, affrontano l’esperienza mettendo a frutto i diffusi strumenti di comunicazione virtuale, adattandoli alla necessità del momento, inventandosi soluzioni mai esperite. Che gli psicoterapeuti potessero convertire le sedute nel proprio studio in incontri in rete sarebbe parso blasfemo ai più; oggi al contrario risulta un percorso praticabile ed efficace, paradossalmente più efficace a volte, un metodo che permetterà a qualcuno, in futuro, di scegliere una figura di riferimento non necessariamente sotto casa e di farlo anche se impossibilitato a muoversi dal proprio domicilio per altre ragioni. Accade persino, udite udite, che gli italiani sognino più di prima. Se per il Libro dei libri l’uomo che non sogna per una settimana è cattivo, forse stiamo diventando più buoni. Espressività ritrovate e scoperte innovative non devono oscurare un’area cui occorre dedicare risorse e pensiero fin da subito: l’ampio spettro delle fragilità che non possono, per ragioni svariate, subire un protratto confino in spazi angusti senza i sostegni necessari, senza gli inevitabili distanziamenti intra familiari, senza un idoneo monitoraggio. Non si è nella condizione di promettere tutto a tutti e mai come in questo momento è necessario creare tabelle di priorità da rispettare, guidati dalla stella polare della “necessità”. Chiunque avverta, ad esempio, un bisogno di rassicurazione e di restauro del proprio percorso esistenziale, sarà nella condizione di decidere autonomamente di rivolgersi ai professionisti che non mancano nel settore. Potrebbe essere l’incipit di un approfondimento utile alla vita anche al di là di questa congiuntura sfavorevole in sé. Sono coloro che non hanno una tale consapevolezza e la sufficiente autonomia per operare delle scelte che vanno sorretti, stanati all’occorrenza, immessi in un tessuto comunicativo indispensabile alla loro sopravvivenza e gravido di conseguenze vantaggiose poi, perché nessuna relazione conta davvero come quella che si stabilisce in uno stato di precarietà estrema. Si tratta di occasioni nutrienti e affidabili per sempre, che mai si sarebbero date nel tran tran, anche duro, di esistenze difficili e che l’urgenza fa germogliare. I rapporti terapeutici che in carcere ho stabilito con persone che non si sarebbero fatte raggiungere all’esterno e che si sono affidate anche poi, ne sono la testimonianza viva. Ecco le ragioni per cui essere proattivi nei confronti dei più fragili, disponibili nei confronti di tutti, generosi in pensieri, parole ed opere e pertanto lucidamente speranzosi, altro che moralisti e induttori di sensi di colpa, come qualcuno filosofeggiando pretende di far credere, mentre non alza un dito, non suggerisce una ipotesi di lavoro, ma si limita a una sterile esaltazione di sé. *Psichiatra psicoanalista, Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto “Carceri, trasparenza questa sconosciuta” romatoday.it, 18 aprile 2020 La lettera della figlia di un detenuto: “Mio padre ricoverato ed io l’ho saputo 11 giorni dopo” Sono Susanna la figlia di un detenuto nel carcere di Rebibbia. Mio padre è ricoverato dal 4 aprile nell’ospedale penitenziario del Pertini: del suo ricovero però ne sono venuta a conoscenza esattamente 11 giorni dopo. Più volte in questo periodo ho chiamato in carcere per capire perché il mio papà non mi faceva le videochiamate, ma nessuno mi ha dato risposte. Undici giorni dopo la telefonata di una dottoressa che mi dice che mio padre ha una forte polmonite e febbre, con delle macchie anomale al polmone. La telefonata era finalizzata non tanto ad avvisarmi, ma a sapere perché mio padre fosse già era in cura con dei medicinali molto importanti per la sua vita. Informazioni queste legate alla necessità di fare delle biopsie al polmone. Mi chiedo: se non avessero voluto sapere delle sue terapie in atto mi avrebbero comunque avvertito? Purtroppo nelle carceri nascondono a volte anche l’evidenza. Ieri, 16 aprile, hanno permesso a mio padre di fare la videochiamata dall’ospedale. Ho chiesto a mio padre perché non ha potuto chiamare mi ha risposto che anche il giorno di Pasqua ha chiesto di chiamare ma non gli è stato concesso. Mio padre è un uomo con mille errori alle spalle ma è un uomo di 64 anni operato da poco al femore e proprio pochi mesi fa l’entrata del carcere ha avuto un’ischemia all’occhio. Toscana. “Non basta rinchiudere le persone per renderle migliori” di Laura Montanari La Repubblica, 18 aprile 2020 Intervista a Giuseppe Fanfani, Garante regionale per i detenuti. I programmi: “Visiterò tutte le carceri”, “servono sgravi per chi fa lavorare i detenuti”. E poi il rapporto che aveva con lo zio Amintore, storico leader Dc e come una volta ha risposto a Salvini. Per trent’anni ha fatto l’avvocato penalista e di carceri ne ha visti. È stato segretario provinciale della Democrazia Cristiana ad Arezzo. Fino al 2006 parlamentare nelle file della Margherita, dopo, fino al 2014 sindaco di Arezzo e quindi al Csm fino al 2018. “Poi mi sono preso un anno sabbatico e mi sono dedicato all’arte e alla letteratura”. Già, ma adesso, a 73 anni, è arrivato quello che lui chiama il quinto lavoro: Giuseppe Fanfani è stato nominato dalla Regione garante toscano per i diritti dei detenuti. Prende il posto che è stato di Franco Corleone. Quale è l’ultima volta che è stato dentro un carcere? “Un anno fa sono andato nel carcere di Sulmona, uno di quelli di massima sicurezza dove ho parlato ai detenuti del senso del pentimento, del perdono e della pena. Alla fine mi hanno abbracciato e mi hanno chiesto di tornare, è stato emozionante. Poi dovevo andare a Regina Coeli a Roma ma l’emergenza coronavirus ha bloccato tutto”. In Toscana ha visitato qualche carcere? “Non di recente. Sono stato a Gorgona tanto tempo fa. Ma naturalmente adesso voglio visitare tutte le strutture, una per una” Da dove comincerà? “Prima voglio esaminare i problemi e poi comincerò dalle realtà più problematiche”. L’ha chiamata qualcuno dopo la nomina? “Sì ho ricevuto tanti messaggi, penso ci sia molto da lavorare” Il presidente Rossi l’ha chiamata? “No, ma lo sento in giornata” Il ministro Bonafede? Qualche sindaco toscano? “No, ai sindaci voglio scrivere una lettera e incontrarli presto, stessa cosa con il ministro e con i parlamentari toscani” Cosa pensa della richiesta dei detenuti di Livorno di mantenere anche dopo l’emergenza le videochiamate? “Penso che, se non esistono elementi di pericolosità, cosa che devono valutare i magistrati e non io, ritengo che debba essere consentito tutto quello che attiene al miglioramento della vita di relazione. Un detenuto è prima una persona e non va mai dimenticato”. Cosa pensa della grigliata di Pasquetta a Sollicciano dei poliziotti della penitenziaria con relative famiglie? “Non sono sufficientemente informato, ma se le cose si sono svolte così come si legge sui media, la ritengo una violazione delle regole, un errore e soprattutto un’imprudenza. Chi ha certi ruoli deve essere un esempio. Spero non abbiano messo a rischio l’incolumità loro e dei detenuti...” La diffusione del contagio da coronavirus ha creato ulteriori tensioni nelle carceri “Il sistema carcerario italiano è vecchio e inadeguato. Non mi piace. Il nostro sistema va avanti nella dicotomia ancora del codice Rocco, tra pena detentiva e pecuniaria. Dobbiamo cambiare radicalmente il sistema sanzionatorio e lo dico da penalista anche se non è certo il compito del garante”. Gli edifici sono vecchi e sovraffollati “Il problema delle strutture è urgente, anzi urgentissimo” Che giudizio dà dell’operato del suo predecessore Franco Corleone? “Ha fatto molto bene. Questo è un lavoro che presuppone altruismo. Corleone ha saputo fare battaglie e attirare anche l’attenzione su certi temi con i digiuni”. A quale battaglie si riferisce? “Non a una in particolare, ma al fatto che ha saputo costruire una immagine del garante come di un organo di garanzia affidabile. Ha lavorato benissimo per le Rems, dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari...” Con uno zio come Amintore Fanfani per lei lo sbocco politico non poteva essere solo la democrazia cristiana… “Con lo zio Amintore ho avuto un rapporto problematico e forte. Ma io sono un lapiriano”. Però lo scorso anno ha difeso la memoria di suo zio da un attacco di Salvini. “Certo ho detto che erano tempi seri e che le persone a cui lui faceva riferimento, Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita erano persone di grandissima cultura. Una delle cose che rimprovero in questo momento alla politica è che spesso mette da parte le competenze e i curricula. Trovo azzardato negare il valore alla professionalità in qualunque campo e momento storico. Non affiderei a un non medico la mia salute...” Torniamo al carcere. Ha pensato a come si muoverà, su quali temi? “Farò di tutto perché le storture all’interno delle carceri lesive della dignità e del decoro vengano eliminate. Starò dalla parte dei detenuti con equilibrio. Mi batterò contro tutto quello che offende la dignità umana. Invocherò un confronto con la politica e cercherò di convincere la politica a riflettere sul fatto che un detenuto è un costo per lo Stato, entra in un certo modo e deve uscire migliorato, altrimenti si spreca denaro pubblico. Non basta isolare le persone per renderle migliori. Nella prospettiva di farle tornare fuori bisogna investire nel lavoro esterno, nell’istruzione e nella formazione”. Come? “In tanti modi. Me ne viene in mente uno: defiscalizzando il lavoro esterno. Se uno assume un detenuto niente contributi e tutte le facilitazioni possibili”. Emilia Romagna. Test sierologici agli agenti penitenziari di Antonella Baccaro Corriere di Bologna, 18 aprile 2020 Test sierologici a tappeto anche al personale di polizia penitenziaria, come da tempo chiedono tutti i sindacati. La Regione viene incontro alla richiesta e in un documento della direzione generale Cura della persona, Salute e Welfare fornisce alle Ausl le istruzioni per procedere. Le Aziende sanitarie “proporranno l’effettuazione dei test al personale dipendente dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile prendendo contatti con le direzioni degli istituti penitenziari e del centro di giustizia minorile per le modalità organizzative”. L’Ausl di Bologna dovrà occuparsi non solo dei test agli operatori del carcere della Dozza, ma anche di quelli al personale del Provveditorato regionale dl Dap e del carcere minorile del Pratello. Alla Dozza sono già stati eseguiti quasi duecento 200 tamponi tra poliziotti e detenuti, ma i sindacati lamentano da tempo sia il ritardo con cui si è intervenuti, sia i criteri adottati per lo screening. Fino alla scorsa settimana 15 erano stati i casi di positività tra i reclusi, 5 tra i poliziotti e 25 tra i sanitari. Ma adesso le stanze dell’Infermeria per l’isolamento sono tutte occupate. Con l’estensione dei sierologici al personale carcerario, ci sarà il primo test, poi la verifica con il tampone a chi risulterà positivo, nell’attesa l’operatore “dovrà allontanarsi cautelativamente dal servizio”. Soddisfatto il segretario del Sappe Giovanni Battista Durante, che ricorda come quella dello screening “sia stata una nostra richiesta fin dall’inizio”. Al momento sono 40 gli agenti contagiati in tutta la regione. In una nota la Fp Cgil ricorda: “Da tempo chiediamo, inascoltati, all’amministrazione penitenziaria di garantire la sicurezza in tutte le carceri” e chiede che l’iniziativa della Regione Emilia-Romagna sia estesa a tutto il territorio nazionale. Friuli Venezia Giulia. “Evitare i trasferimenti di detenuti da carceri di altre regioni” telefriuli.it, 18 aprile 2020 Anche il governatore Fedriga si unisce all’appello lanciato dal sindaco Brollo dopo la positività al coronavirus riscontrata in 5 reclusi giunti dall’Emilia Romagna. Evitare i trasferimenti di detenuti in Friuli Venezia Giulia da carceri di altre regioni per non mettere a rischio la salute della popolazione carceraria, il personale di polizia penitenziaria, gli operatori che a vario titolo lavorano all’interno delle strutture e le famiglie. È questa la richiesta presentata dal governatore della Regione, Massimiliano Fedriga, al Governo nazionale anche alla luce della situazione della Casa circondariale di Tolmezzo, in cui i cinque detenuti del carcere di massima sicurezza provenienti da Bologna sono risultati positivi al Covid-19. “È necessario impedire che il virus si diffonda ulteriormente all’interno delle carceri - rimarca Fedriga - un ambiente che sconta l’impossibilità di praticare il distanziamento sociale e dove non sempre è facile reperire spazi per l’isolamento dei casi positivi o di chi possa essere entrato in contatto con loro. Un focolaio di contagi negli istituti penitenziari può ampliare i rischi sulla salute dei detenuti, degli agenti e di quanti vi operano all’interno”. “Per questo - conclude Fedriga - chiediamo la collaborazione del Governo affinché la salute di tutte le categorie in questione possa essere tutelata, evitando quei sovraffollamenti che, come sottolineato più volte dal mondo scientifico, sono primo elemento di diffusione del virus”. Calabria. Rapporto del Garante dei detenuti: “Nelle carceri ancora troppe criticità” lacnews24.it, 18 aprile 2020 Mancano mediatori culturali per gli stranieri e articolazioni per la tutela della salute mentale. Rilevate carenze anche per quanto riguarda gli ambienti comuni per la socialità. È stato pubblicato stamattina il rapporto conclusivo del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, redatto in seguito alla visita di una delegazione, dal 9 al 13 settembre 2018, alle case circondariali di Vibo Valentia, Castrovillari, Rossano, Crotone e Cosenza. Quel che ne è risultato è che gli istituti penitenziari calabresi presentano una serie di criticità su vari aspetti oltre alla mancanza di figure dirigenziali stabili, con direttori costretti a dividersi su più strutture. Una delle criticità rilevate, è scritto nel rapporto, è “la mancanza di sufficienti articolazioni per la tutela della salute mentale. In una Regione con 12 istituti con una capienza regolamentare di 2.734 ed effettiva di 2.647 posti, che alla data del 2 aprile 2019 ospitava 2.886 persone, sono disponibili solo 17 posti per pazienti psichiatrici”. Altro aspetto preso in esame è stato quello delle sezioni per detenuti protetti, di cui tre per persone che hanno commesso reati a riprovazione sociale (negli Istituti di Castrovillari, Reggio Calabria “Arghillà” e Vibo Valentia) e una sezione di tipo promiscua per gli altri detenuti destinatari di protezione. “La criticità - per il Garante - in questo caso è doppia: il fatto che ci sia una sola sezione protetta per detenuti che non abbiano commesso reati a riprovazione sociale in tutta la Regione e la caratteristica di promiscuità della sezione stessa (per persone omosessuali, transessuali e ex appartenenti alle Forze dell’ordine)”. Inoltre, pur in presenza di un non indifferente numero di detenuti stranieri, “emerge - è scritto nella relazione - una mancanza diffusa del servizio di mediazione culturale”. Sul fronte strutturale, scrive il garante, “pur apparendo in linea generale in buono stato di conservazione, le strutture visitate presentavano alcune criticità relativamente ad aspetti materiali specifici. Sotto il profilo della disponibilità di spazi fruibili collettivamente, particolarmente grave è la situazione riscontrata in alcuni reparti di Rossano e di Crotone dove è stata rilevata l’assenza di ambienti comuni per la socialità. In linea generale, comunque, laddove disponibili queste sono apparse spoglie e prive di arredo. Nella maggior parte dei casi poi sono risultate prive di servizi igienici. Riguardo alla disponibilità di spazi per attività sportive una carenza piuttosto critica si è registrata nelle Case circondariali di Vibo e Castrovillari dove non è disponibile una palestra o aree esterne attrezzate per esercizi all’aria aperta, fatto salvo, in entrambe i casi, del campo da calcio”. Riguardo ai cortili di passeggio, in linea generale, il Garante ha riscontrato “che non sono concepiti come spazi per l’attività fisica e ricreativa, ma come semplici aree dove sostare all’aria aperta, tutt’al più, appunto, passeggiare”. Positivo, invece il giudizio sui locali di accoglienza per i figli minori e le aree per i colloqui. “Pur con differenti livelli di realizzazione - scrive il Garante - è un elemento di positività riscontrato in tutti gli Istituti visitati”. Bologna. Troppi detenuti positivi al Covid-19 alla Dozza, stop a nuovi accessi di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 18 aprile 2020 La Casa circondariale Rocco D’Amato non potrà accogliere nuovi giunti. Tredici detenuti positivi, uno ancora ricoverato. Il Provveditorato dirotta gli arrestati in altri istituti. Troppi detenuti positivi al Covid-19 alla Dozza. Con una missiva, inviata al provveditore regionale, la direttrice della casa circondariale Rocco D’Amato, Claudia Clementi, ha chiesto ieri di sospendere i nuovi ingressi e dirottare gli arrestati, dove possibile, verso altri istituti. La richiesta arriva a seguito della relazione della dirigente dell’unità operativa di medicina penitenziaria dell’istituto, Raffaella Campalastri, che evidenzia come all’interno della Dozza ci sia ormai un focolaio della malattia. “Sono presenti in istituto ben 13 positivi - scrive la dottoressa - un detenuto è ancora ricoverato e un detenuto (Vincenzo Sucato, di 76 anni, ndr), pur se già posto agli arresti domiciliari, è deceduto in ospedale. Per circoscrivere la diffusione dell’infezione sarebbe opportuno che non venissero accolti nuovi giunti provenienti dall’esterno i quali, anche se asintomatici, devono essere forzosamente considerati come potenziali positivi e portatori di infezione”. Una richiesta che il provveditore Gloria Manzelli ha accolto, chiedendo alle autorità giudiziarie e alle forze di polizia “in caso di persone di sesso maschile arrestate o fermate” di prendere accordi preventivi con il Provveditorato “al fine di individuare altro istituto dove condurre le persone”. Intanto, come disposto dalla Regione, tutti gli operatori di polizia penitenziaria, sia della Dozza che del Pratello, come più volte sollecitato dai sindacati, verranno sottoposti nei prossimi giorni a test sierologici. Esami che verranno effettuati anche sul personale dell’amministrazione penitenziaria. Tolmezzo (Ud). “Con una mano ci hanno tolto il tribunale, con l’altra ci portano il coronavirus”. Il Gazzettino, 18 aprile 2020 Dopo la protesta il ministero scrive al Sindaco Brollo: “Al tampone, i 5 detenuti erano negativi”. “Con una mano ci hanno tolto il tribunale, con l’altra ci portano il coronavirus”. Con queste parole, il sindaco di Tolmezzo Francesco Brollo aveva protestato con il ministero della Giustizia, dopo che cinque detenuti trasferiti da Bologna nel carcere carnico erano risultati positivi. Brollo non aveva nascosto la sua indignazione. E ieri il ministero gli ha risposto. “Ho apprezzato la velocità della risposta, direi insperata. Molto spesso si dà per scontato che ci siano i cosiddetti tempi ministeriali, invece, ho avuto un riscontro quasi immediato - spiega Brollo. Nella lettera arrivata oggi (ieri ndr) mi hanno spiegato le ragioni tecniche che hanno condotto ai trasferimenti. Hanno dovuto spostare 80 detenuti perché il carcere di Bologna non era agibile in alcune parti dopo le rivolte. Hanno chiarito che ne hanno trasferiti 7 a Tolmezzo il 27 marzo dopo aver fatto loro il tampone il 23 marzo. Il test aveva dato esito negativo il 26 marzo, hanno scritto: questo ha confermato le informazioni che avevo ricevuto dal carcere. Quindi, dal loro punto di vista era tutto in regola”. Poi, si sa come è andata. “Dopo i 14 giorni di quarantena a Tolmezzo, il tampone ha dato esito positivo per 5 di loro”. Fortunatamente, dai tamponi a tappeto fatti nella struttura penitenziaria di Tolmezzo su agenti, sanitari e un detenuto, “su 88 test è risultato positivo sinora solo un poliziotto. L’auspicio è che gli ulteriori tamponi attestino che la diffusione si è arrestata”, dice Brollo. “Dei cinque detenuti positivi tre sono asintomatici e due sintomatici, ma in discrete condizioni generali”. Brollo ha anche apprezzato la presa di posizione del governatore Massimiliano Fedriga, che ha presentato al Governo nazionale la richiesta formale di evitare i trasferimenti di detenuti in Friuli Venezia Giulia da carceri di altre regioni. “È necessario impedire che il virus si diffonda ulteriormente all’interno delle carceri - rimarca Fedriga -, un ambiente che sconta l’impossibilità di praticare il distanziamento sociale. Per questo chiediamo la collaborazione del Governo affinché la salute di tutte le categorie in questione possa essere tutelata, evitando quei sovraffollamenti”. Sui detenuti positivi interviene anche l’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali italiane. Gli avvocati Catanzariti, Polidoro e Miscia in una lettera al provveditore regionale, chiedono di fare i tamponi a tutti i carcerati e dipendenti, di rilevare la temperatura ogni giorno, di distribuire mascherine Ffp2 e guanti ai detenuti, di segnalare alla magistratura di sorveglianza e all’autorità giudiziaria i casi di persone già malate per altre patologie e di anziani over 65 e di diffondere un bollettino sanitario quotidiano. Saluzzo (Cn). “Tamponi a tutta la comunità penitenziaria” di Barbara Morra La Stampa, 18 aprile 2020 Due casi di Covid-19 in carcere a Saluzzo, il Garante dei detenuti scrive a Cirio: “Tamponi a tutta la comunità penitenziaria”. Due casi di Covid-19 al carcere di Saluzzo. Lo conferma Paolo Allemano, ex sindaco, medico e garante della casa di reclusione che ospita 480 detenuti. Entrambe le persone che hanno contratto il virus sono attualmente isolate dal resto della popolazione carceraria nell’infermeria. “È stata inoltrata la richiesta all’Asl per effettuare tamponi su tutti detenuti, gli agenti di polizia penitenziaria e il personale - dice Alemanno -, ipotizzo che entro 48 ore si procederà ma i tempi dipendono dall’ufficio d’igiene provinciale che dà la priorità ai casi ospedalieri”. Uno degli ammalati è tra i detenuti trasferiti dal carcere di Bologna una ventina di giorni fa, l’altro è un interno già recluso da tempo nella casa circondariale di massima sicurezza. “Il detenuto che arriva dall’Emilia era stato messo come gli altri in quarantena - aggiunge Alemanno - ma i sintomi e la presenza del virus si sono manifestati comunque. È necessario procedere con celerità ai tamponi per la sicurezza di tutti ma c’era comunque da aspettarsi che il virus potesse arrivare anche qui, così come nelle case di riposo e altre comunità di tipo sanitario. La situazione è sotto controllo. Da tempo detenuti e personale indossano dispositivi di protezione anche se con gli spazi che ci sono ovviamente è impossibile mantenere un distanziamento”. All’arrivo dei detenuti da Bologna c’erano state proteste tra la popolazione carceraria: era stata vista come una contraddizione, a fronte del blocco dei colloqui con i parenti. La Fp- Cgil sul tema ha inviato un comunicato sollecitando l’amministrazione penitenziaria a effettuare “con urgenza esami e test clinici su tutti i presenti all’interno della struttura per scongiurare il peggioramento della situazione che potrebbe divenire difficile da gestire, con i relativi rischi di diventare incontrollabile anche sul versante della sicurezza”. Bruno Mellano, Garante per le carceri del Piemonte: “Ho scritto a Cirio e all’unità di crisi per sostenere le richieste dei detenuti e degli agenti per una campagna generalizzata di tamponi a tutta la comunità penitenziaria”. Monza. Tra agenti in malattia e isolamento precauzionale per i nuovi detenuti primamonza.it, 18 aprile 2020 Il direttore del Sanquirico Maria Pitaniello: “Abbiamo avuto tre poliziotti positivi, altri sono in quarantena”. Parte del personale in malattia, nuovi detenuti in isolamento precauzionale e sospensione fino a data da destinarsi di tutte le attività fuori dal carcere. A spiegare qual è la situazione all’interno della Casa circondariale di Monza è il direttore Maria Pitaniello. Agenti in malattia - A giovedì della scorsa settimana erano tre i casi di agenti in servizio in carcere a Monza risultati positivi al coronavirus, di cui uno ricoverato. Altri, invece, sono stati messi in sorveglianza attiva o in isolamento perché hanno avuto sintomi simil-influenzali. “Il virus ha un’altissima potenza di contagio - ha dichiarato il direttore - Per questo è stato fondamentale l’aver attivato fin da subito le procedure necessarie al contenimento”. Ciò significa mascherine, guanti, dispenser di gel disinfettante e una riorganizzazione totale del lavoro. “Le attività fuori dal carcere sono state sospese immediatamente. Abbiamo anche riorganizzato la mensa per fare in modo che non si formassero assembramenti”. Nessun detenuto contagiato - Per quanto riguarda i detenuti, il carcere ha applicato il protocollo dell’Ats. “Ogni nuovo detenuto viene sottoposto a un primo tampone, poi, anche se negativo, viene messo in isolamento precauzionale per 14 giorni. Una volta terminato questo periodo, prima di essere portato nella stanza che dividerà con un’altra persona, verrà sottoposto ad altri due tamponi, effettuati l’uno a distanza di 24 ore dall’altro”. I detenuti che invece si trovano all’interno della casa circondariale fin da prima dell’emergenza vengono costantemente monitorati. “Siamo attenti alle loro condizioni di salute - ha precisato Pitaniello - Dei 13 attualmente in isolamento, tutti sono nuovi arrivati tranne uno che aveva manifestato sintomi riconducibili all’influenza”. Basso numero di detenuti - La situazione, dunque, è sotto controllo. E ad aiutare, in questo, è stato anche il calo sostanziale del numero dei detenuti all’interno del Sanquirico. “Questo è il risultato del lavoro fatto dal Tribunale - ha concluso. A partire dal primo marzo fino al 7 aprile sono stati emessi 68 provvedimenti domiciliari, 13 revoche di custodia cautelare in carcere, mentre un solo detenuto è uscito con la scarcerazione domiciliare speciale. Complessivamente rimangono in struttura 557 detenuti. Un numero così basso non lo avevamo mai avuto, tanto che ora nelle singole camere riusciamo a far stare due persone, mentre prima dovevamo aggiungere una branda per un terzo detenuto”. Alessandria. Carceri, in quarantena i nuovi arrestati di Silvana Mossano La Stampa, 18 aprile 2020 E ora i detenuti producono mascherine. Cinque detenuti - Leonardo, Massimo, Felician, Filippo e Francesco - si sono seduti davanti alle macchine da cucire e hanno confezionato 600 mascherine di tessuto: 220 per chi è rinchiuso al Don Soria e 380 per quelli del San Michele. Una per ciascuno; e adesso stanno già lavorando alla produzione della fornitura di ricambio, visto che possono essere lavate e riutilizzate. L’emergenza coronavirus apre anche spiragli positivi, opportunità fino ad ora ipotizzate che la leva della necessità ha concretizzato in fretta. Qui è accaduto proprio questo: il laboratorio del carcere, attrezzato qualche tempo fa con macchine da cucire e altre strumentazioni grazie all’associazione Ics Onlus e alla Fondazione Social, è diventato in poche settimane un efficiente centro produttivo. Per i detenuti non è prevista una dotazione di mascherine, e nemmeno sono obbligati a indossarle, perché si ipotizza che ci siano poche probabilità di contagio visto che non hanno contatti con l’esterno, ma non mancano le raccomandazioni alla distanza sociale e alle precauzioni. I colloqui con i famigliari (ne sono previsti sei al mese) sono stati vietati di colpo. Ovunque. Un’imposizione maldigerita. In più penitenziari italiani, a inizio marzo, era scoppiato il finimondo. Anche ad Alessandria: al mattino al Don Soria, da dopopranzo a sera al San Michele. Era lunedì 9 marzo. La rivolta pomeridiana era stata la più violenta: in una sezione, che ospitava 44 detenuti, era stato appiccato il fuoco. Per ore, un muro di fiamme e di fumo aveva impedito di capire se qualcuno, intrappolato in quel disastro, ci avesse lasciato la pelle. A distanza di oltre un mese, quella sezione resta inagibile: “Stiamo cercando a poco a poco di ripararla, ma sarà lunga” spiega la direttrice dei penitenziari alessandrini, Elena Vallauri Lombardi. Intanto, in procura il pm Marcella Bosco ha un fascicolo aperto con più indagati (tra venti e trenta), che erano stati identificati come ipotetici sobillatori della sommossa. Le visite causa coronavirus continuano a essere vietate, “ma - spiega la direttrice - si sono incrementate le videochiamate telefoniche. Ci sono stati consegnati più cellulari per esaudire le richieste”. Anche i colloqui tra detenuti e avvocati sono azzerati, tranne casi eccezionali e urgenti. Tuttavia, qualche caso positivo c’è stato: 4 detenuti in tutto, tra Don Soria e San Michele, di cui uno con sintomi più acuti trasferito a Torino. Il rischio può presentarsi con l’ingresso di nuovi arrestati: “In questi casi - spiega la direttrice del carcere - i nuovi arrivati vengono collocati in quarantena in spazi separati, per due settimane”. Dall’esterno, però, entrano ogni giorno, ovviamente a turnazione, i 350 (la somma dei due istituti) agenti di polizia penitenziaria che devono essere dotati di dispositivi di protezione. Inoltre, viene misurata agli agenti la temperatura e si procede alla sanificazione degli ambienti due volte al giorno. La segreteria provinciale del sindacato Osapp, però, critica il servizio mensa: “In queste settimane si è abbassata la qualità e la quantità dei pasti serviti alla polizia penitenziaria. Chiediamo alla direzione di sollecitare la ditta incaricata del servizio a una maggiore attenzione, rispettando le indicazioni contenute nel contratto d’appalto”. La direttrice non nega: “Purtroppo è quel che è accaduto e sto cercando di risolvere il problema. Sono dispiaciuta, perché il personale, in un momento così complesso e pesante, ha bisogno di attenzione e sostegno; un calo di qualità dei pasti crea malessere”. Bari. Entrambi i genitori in cella, tre figli soli: “Date i domiciliari alla madre” di Isabella Maselli La Repubblica, 18 aprile 2020 “La situazione dei figli rimasti a casa si è ulteriormente aggravata in considerazione della applicazione di misura cautelare nei confronti dell’unico fratello maggiorenne che in qualche modo, in assenza dei propri genitori, badava ai tre fratelli minori, in questo momento rimasti senza alcuna guida”. È uno dei passaggi dell’istanza con la quale l’avvocato Damiano Somma ha chiesto al Tribunale di sorveglianza di Bari di scarcerare una 42enne di Bitonto, la mamma di quei tre ragazzi minorenni rimasti soli in casa perché entrambi i genitori e ora anche il fratello 19enne sono finiti in cella. In momenti diversi e per motivi diversi. Ma il fatto è che dal 27 marzo i tre fratelli di 8, 12 e 16 anni vivono senza un adulto in una casa nel centro storico di Bitonto. Ad occuparsi di loro è la zia, sorella della mamma, che abita in una casa a pochi metri da quella dei tre fratelli, e che trascorre con loro buona parte della giornata, facendo su e giù per portargli da mangiare e sorvegliarli. Ci sono poi i servizi sociali del Comune, che subito hanno preso in carico il caso. In altri tempi i tre minorenni sarebbero stati accolti in uno dei centri diurni della città, adesso chiusi per l’emergenza coronavirus. E così vanno a portargli pacchi di viveri, buoni spesa e, nel giorno di Pasqua, il Comune ha donato loro anche le uova di cioccolato, “come abbiamo fatto con tutti i bambini bisognosi della città” ha detto il sindaco Michele Abbaticchio. Ad aiutarli c’è anche l’avvocato di famiglia, che ogni tanto gli fa visita e che in queste settimane ha portato loro cibo e buoni per acquistare generi di prima necessità. Quello che, però, i tre ragazzi aspettano, è che almeno la loro mamma torni a casa. Il padre era già in carcere a Lecce da settembre 2019 per reati di droga e maltrattamenti, quando alla mamma è stata notificata l’esecuzione di una condanna definitiva a 8 anni e 3 mesi di reclusione per droga, armi e rapina nel febbraio 2019. I giudici le avevano concesso inizialmente gli arresti domiciliari, proprio perché madre di figli di età inferiore ai 10 anni. Aveva anche il permesso di svolgere attività lavorativa, nella mensa dei poveri della Fondazione Santi Medici di Bitonto, che “non solo aveva consentito alla stessa una iniziale autosufficienza economica, ma soprattutto l’avvio di un serio riscatto sociale difficilmente intrapreso a causa dei lunghi periodi di detenzione subiti dal marito” spiega nell’istanza di scarcerazione il difensore, l’avvocato Damiano Somma. Nel gennaio scorso, a seguito di una lite condominiale che le è costata ulteriori accuse di minacce, lesioni e danneggiamento, alla donna è stata aggravata la misura e dal 25 marzo è in carcere a Trani. “La valutazione di tale episodio - motiva il legale - è da ritenersi eccessivamente rigida, considerato l’ottimo percorso, testimoniato anche dai servizi sociali, che la donna stava intraprendendo”. E tuttavia il Tribunale di sorveglianza, nell’ordinare la carcerazione della donna, aveva proprio evidenziato che il comportamento “recidivante” della madre era “fortemente diseducativo per i figli minori”. Due giorni dopo anche il figlio 19enne, nei confronti del quale pende un processo per droga, è tornato in carcere ed è attualmente detenuto nella casa circondariale di Bari. L’avvocato ha depositato anche per lui una richiesta di revoca della misura cautelare in carcere al Gup del Tribunale di Bari. Per entrambi sollecita la concessione dei domiciliari, evidenziando che “va operato un bilanciamento tra il diritto all’affettività del minore e le istanze di difesa sociale”. Per il difensore, cioè, è necessario un “corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti, quello di difesa sociale, sotteso al perseguimento del contrasto alla criminalità organizzata”, e quello dei figli, ritenendo quindi che “l’esigenza di pretesa punitiva dello Stato non debba arrecare nocumento al valore costituito della tutela del minore”. Ancona. Permessi in stand-by, parla la moglie di un detenuto di Gino Bove anconatoday.it, 18 aprile 2020 “La sua bimba non gli vuole più parlare”. La lettera della moglie di un detenuto arrivata alla nostra redazione racconta le conseguenze sulla famiglia di un sistema giudiziario in stand-by. Alla nostra redazione è arrivata la lettera di Maria, moglie di un detenuto nel carcere di Barcaglione. Il suo Pasquale tornava a casa per il pranzo, dal lunedì al sabato, ma ora non gli è più consentito e le conseguenze si fanno sentire soprattutto per i quattro figli. Una storia che si aggiunge a quella di altre mogli in attesa di risposte da una giustizia in quarantena. “Buongiorno sono Maria e sono la moglie di un detenuto di Barcaglione. Mio marito Pasquale sta scontando una condanna di 12 anni fa. A gennaio del 2018 gli è arrivato il definitivo e il 17 gennaio sì è presentato nel carcere di Fossombrone, dove anno scorso è stato trasferito a Barcaglione perché a Fossombrone dovevano aggiustare il carcere. Premetto che mio marito nell’arco di tutti questi anni, dall’ultima condanna non ha avuto più precedenti, mai un fermo con pregiudicati, nessun fermo per nessun motivo e in più ha sempre lavorato e da più o meno 8 anni che lavora sempre per la stessa ditta a contratto indeterminato. È un anno che lui è in art.21 e dal 7marzo che per colpa del Coronavirus si è visto costretto a stare di nuovo chiuso in quelle 4 mura senza poter vedere i suoi quattro figli minori. A fine febbraio aveva richiesto dei permessi premio perché già da dicembre rientrava nei termini, ma niente. Adesso ha chiesto l’affidamento provvisorio ma ancora non danno una risposta. È una cosa vergognosa, ho la bimba di quattro anni che tutti i giorni chiede come mai il suo papà non viene più da lei, perché a mio marito gli avevano concesso dal lunedì al sabato di rientrare a casa per il pranzo. Una bambina che per quanto può capire ma è sempre piccola e non vuole sentire il suo papà al telefono perché è arrabbiata con lui. È giusto che chi sbaglia paghi, ma è giusto premiare con misure alternative persone che hanno cambiato vita e di non metterli a paragone con persone che tornano a delinquere sempre. Io non lavoro e andiamo avanti con lo stipendio di mio marito ma non c’è la facciamo economicamente perché è come mantenere due famiglie noi qui e lui li. Poi, una cosa importantissima, è che con questo decreto che è uscito di andare a fare giustamente la spesa un solo componente nel nucleo familiare, io mi ritrovo ogni 10 giorni ad andare a fare la spesa, lasciando da soli i miei quattro figli minori e lasciarli per alcune ore perché ci sono delle cose lunghissime e se nel frattempo succede qualcosa ai miei figli mentre non ci sono vado anche a finire nei casini, per abbandono dei minori. E poi ho anche paura che mio marito si possa infettare come si stanno infettando tante persone nelle carceri, detenuti, guardie, infermieri. So che sono stati trasferiti anche detenuti da Bologna in quel carcere e proprio ieri ho sentito che è morto a Bologna nel carcere un detenuto affetto da Covid-19. Allora mi chiedo perché non mandarlo a casa. Ebbene che sapessero lo Stato, i magistrati che se succede qualcosa a mio marito o ai miei figli mentre io vado a fare la spesa, io denuncio tutti perché è una cosa vergognosa. Abbiamo fatto anche richiesta per la grazia al Presidente della Repubblica ma sono passati 2 anni e ancora non abbiamo avuto risposta. Vi saluto e spero che il mio sfogo possa arrivare a qualche magistrato che si metta la mano sulla coscienza, e poi non diciamo che le carceri sono rieducativi se non si applicano le giuste misure”. Salerno. “Tenete duro, ve lo diciamo noi che stiamo dentro” di Amalia De Simone Corriere del Mezzogiorno, 18 aprile 2020 Le carcerate che fanno le mascherine: “Ne facciamo 300 al giorno, ci sentiamo utili e diamo una mano a chi è fuori in difficoltà”. “Almeno così mi sento utile. Riesco a dare una mano a chi sta fuori ed è in difficoltà”. Jessica ha 26 anni, già 5 alle spalle dietro le sbarre e molti altri davanti da scontare. “Ho fatto tanti errori (viene da un contesto di camorra ma oggi non ha paura di dire che la mafia è il male), e vorrei rimediare”. Lo dice mentre le sue mani curate e tatuate spingono l’orlo della mascherina sotto la macchina per cucire. “Oggi ne abbiamo già fatte 200. In genere a fine giornata arriviamo a 300”, spiega Bruna dagli occhi a volte sorridenti altre volte profondamente malinconici e una condanna per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio. Sono le detenute del carcere di Fuorni, a Salerno, il primo penitenziario dove scoppiò la rivolta il 7 marzo scorso dopo l’annuncio che a causa dell’emergenza Covid-19, non ci sarebbero stati più colloqui. Fu in realtà una rivolta con gravi conseguenze sulle infrastrutture ma inscenata solo da una trentina di detenuti. Alcuni addirittura misero in salvo degli agenti della polizia penitenziaria e per questo per loro è stato proposto un encomio. La sezione femminile non ha mai partecipato alla protesta. “Noi donne abbiamo una marcia in più - spiega Rita Romano, direttore del carcere - ho pensato di avviare la produzione di mascherine per distrarre le signore dal dolore del distacco dai propri figli e in generale dai loro cari. Abbiamo comprato qualche macchina per cucire ma poi loro sono state sorprendenti lavorando gratuitamente tante ore al giorno. E insieme a loro anche le poliziotte che spesso si trattengono oltre l’orario dovuto proprio per dare una mano. Abbiamo cominciato così ma poi siamo stati individuati come un centro dove sviluppare un vero e proprio opificio per la produzione di mascherine e quindi arriveranno dei macchinari dalla Cina”. Giovanna ha cinque figli ed è in pensiero per la mamma anziana: “Non sappiamo bene cosa sta succedendo fuori - spiega - possiamo solo immaginare guardando la tv. Tra poco uscirò e avrò l’opportunità di cambiare vita e questa cosa capita in un momento complicato, ma ce la farò. Ce la devo fare per i miei figli di cui mi sono persa gli anni migliori”. Anche Bruna pensa a sua figlia e spera che resti a casa: “Noi qui siamo in una campana di vetro ma loro no, loro sono in pericolo. Anche per noi è difficile, a volte ci viene l’ansia”. Le mascherine prodotte in una delle due stanze dedicate alla socialità vengono poi sanificate utilizzando un macchinario all’ozono. L’operazione avviene nella sala dedicata normalmente ai colloqui e che invece ora resterebbe vuota se non ci fossero distese di mascherine da sanificare. L’ora di passeggio consentita alle detenute scatta sotto il sole ma le ragazze impegnate nella produzione non l’utilizzano tutta per non togliere tempo al lavoro. “Hanno preso tutto molto sul serio - dice Rita Romano - e questo è molto bello. D’altronde dobbiamo trasformare un momento negativo in qualcosa di positivo e far sì che il tempo della detenzione non diventi tempo perso. Il nostro compito è restituire queste persone alla società”. Le donne di Fuorni intanto si mettono in gruppo per dire in coro agli italiani, approfittando della telecamera, di restare in casa e di tenere duro. “D’altronde - aggiunge Jessica - se ve lo diciamo noi che siamo detenute e abbiamo una certa esperienza, potete farlo anche voi”. Lecce. Il silenzio e poi l’applauso: i detenuti contro il Covid-19 di Mauro Ciardo Gazzetta del Mezzogiorno, 18 aprile 2020 Detenuti, poliziotti e amministrazione penitenziaria uniti per commemorare le vittime del Covid-19. Si è svolto alcuni giorni fa nel carcere circondariale di Borgo San Nicola a Lecce un minuto di raccoglimento in memoria di tutte le persone che hanno perso la vita da febbraio in Italia, a causa del contagio da Coronavirus. Un momento di raccoglimento che era stato organizzato dalla direzione della Casa circondariale con l’obiettivo anche di sostenere moralmente gli operatori sanitari strenuamente impegnati nell’assistenza agli ammalati. Il 6 aprile sorso alle 16 dunque, in tutte le sezioni dell’istituto di pena è stato attivato il suono della campanella che ha preannunciato il minuto di silenzio, a cui hanno preso parte tutti i detenuti. Al termine è scattato un applauso che ha coinvolto anche gli operatori penitenziari in servizio. L’iniziativa, va detto, è nata da un detenuto insieme ai suoi compagni di sezione, fino a coinvolgere con un passaparola tutti i detenuti delle altre sezioni in tutti i padiglioni. Con un’istanza alla direzione, è stato chiesto di organizzare il minuto di silenzio dedicato alle vittime. “È stato molto emozionante - ha scritto il detenuto promotore dell’iniziativa in una lettera al suo legale Fulvio Pedone - sentire il silenzio assordante anche se per un solo minuto da parte di un’intera popolazione carceraria, con un applauso finale che ha fatto venire la pelle d’oca a tutti. Questo per far vedere che nelle carceri le situazioni possono essere affrontate con la giusta sensibilità e serietà per il drammatico momento che tutti stiamo vivendo, ed è giusto che questo si sappia”. Lo stesso legale Pedone (che tra l’altro è sindaco di Lizzanello) ha voluto esprimere un suo commento sulla situazione generale delle carceri italiane in questo periodo di crisi. “Sia i detenuti, che il personale di polizia penitenziaria che l’amministrazione del carcere si sono uniti in questo momento commovente. Come a Lecce in tutte le carceri italiane però - è la sua analisi - i direttori e i magistrati di sorveglianza sono stati lasciati soli a gestire la crisi. La gestione dell’emergenza - prosegue - è stata affidata alla loro buona volontà e i detenuti hanno avuto un altro senso dello Stato come non ha avuto però il Ministro della Giustizia, che ha sì chiesto le scarcerazioni per limitare il diffondersi del contagio, ma non ha dotato i magistrati di sorveglianza degli adeguati strumenti normativi”. Pedone, infine, aggiunge: “Serve un’azione politica netta, coraggiosa, ma principalmente giusta. L’Italia della giustizia non è quella di Bonafede. Lo hanno fatto capire a chiare lettere, oltre a Papa Francesco e alle camere penali italiane, anche i detenuti con un’esemplare manifestazione di forte attaccamento alle istituzioni e di alto senso civico”. Venezia. Carcere della Giudecca. Femminile, solidale di Davide Dionisi vaticannews.va, 18 aprile 2020 La testimonianza di Suor Franca Busnelli, volontaria nel Casa di reclusione di Venezia. Le donne in carcere spesso vivono un doppio dramma: quello della detenzione e dell’essere mamma non in grado di svolgere il proprio ruolo. Inoltre, per natura, hanno un modo differente di vivere la reclusione. Basta visitare un istituto maschile ed uno femminile per capirne le differenze. In un momento drammatico come quello che sta vivendo la società fuori, per loro la sofferenza è accentuata. Ma c’è carcere e carcere. Alla Giudecca per esempio, la reazione a quanto sta accadendo nel cosiddetto “mondo libero” è stata diversa. Sorprendente, per certi versi. L’ascolto, prima di tutto - “Il virus ha colto un po’ tutti di sorpresa e qui le detenute si sono immediatamente preoccupate per i figli e le famiglie. Abbiamo immediatamente intercettato il loro bisogno di parlare e di confrontarsi e quindi, grazie alla Direttrice, abbiamo organizzato diversi incontri” spiega Suor Franca Busnelli, religiosa delle Suore di Carità (di Maria Bambina ndr) che presta servizio da sei anni nella Casa di reclusione femminile di Venezia-Giudecca. In questi giorni continua il suo prezioso servizio, insieme ad una consorella infermiera, ed è una dei rari punti di riferimento all’interno dell’Istituto, considerato che il cappellano è in quarantena. La raccolta fondi per l’Ospedale - “Questo è stato uno dei primi istituti che si è distinto per gesti molto significativi di solidarietà. Tra tutti, la raccolta fondi (110 euro) poi donati al Reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. Le ragazze hanno voluto così testimoniare la loro vicinanza agli ammalati, ai loro familiari, ai medici e agli infermieri. Nel contempo hanno inviato una lettera al Presidente della Repubblica alla quale lo stesso Mattarella ha risposto, elogiando l’iniziativa delle ospiti” racconta la religiosa. La ripartenza - L’investimento sulla formazione personale e lavorativa è una componente fondamentale e irrinunciabile della proposta trattamentale diretta alle donne detenute. Lo è ancora di più in questo momento anche se le filiere di produzione sono ferme. “Il lavoro si è bloccato per due settimane” rivela Suor Franca. “Sartoria chiusa, così come la lavanderia, l’area della cosmesi e perfino l’orto. Da alcuni giorni l’attività è ripresa e le ragazze stanno producendo mascherine sia per l’interno, che per l’esterno. Molte attività sono state interrotte anche a causa dell’assenza dei volontari che, in questo carcere, fanno la differenza. Soprattutto i più giovani. È a loro che ho chiesto di non bloccare la loro attività di supporto e di assistenza, scrivendo lettere e registrando videomessaggi che sono riuscita a fargli vedere” aggiunge. Solidarietà per un domani migliore - Di fronte ad emergenze come questa, abbiamo il preciso dovere di aiutare chi si sforza di alleviare i bisogni del prossimo. Questo avranno pensato le ragazze della Giudecca per testimoniare che non è tutto negativo quello che c’è nel carcere e dimostrare che i percorsi di ravvedimento sono più evidenti quando gli eventi esterni sono tanto straordinari, quanto nefasti. Per Suor Franca “Manifestare solidarietà in un momento così difficile, le aiuta a sentirsi parte attiva di una comunità, nella speranza che quando giungerà il momento di tornare a casa, troveranno una società disposta ad accoglierle e a farle sentire donne e cittadine utili alla società come tutti gli altri”. Genova. Dal carcere di Marassi alla tv: su Primocanale in onda gli spettacoli dei detenuti di Silvia Isola primocanale.it, 18 aprile 2020 L’associazione Teatro Necessario da 15 anni opera all’interno della casa circondariale. Tra i teatri che hanno chiuso i battenti a causa dell’emergenza Coronavirus c’è anche il Teatro dell’Arca, all’interno della casa circondariale di Genova Marassi. Per precauzione e in osservanza alle disposizioni del decreto del Governo, sono state così sospese le prove dell’ultimo spettacolo, “Profughi da tre soldi”, che avrebbe dovuto debuttare alla Corte proprio in questo periodo. “Ogni anno con la nostra associazione Teatro Necessario prepariamo un allestimento assieme ad un gruppo di detenuti affiancati da attori professionisti”, spiega Mirella Cannata presidente della associazione “Da 15 anni portiamo avanti questo progetto davvero ‘necessario’, perché la partecipazione a questo progetto consente loro di riflettere su diversi temi, confrontarsi con gli altri e con il pubblico a teatro”. Per questo Primocanale ha deciso di trasmettere alcuni dei loro spettacoli passati in tv, in modo tale di portare nelle case dei liguri un po’ di intrattenimento in questo periodo. “Abbiamo scelto di portare alcune delle nostre rivisitazioni più apprezzate”, racconta Sandro Baldacci, regista della compagnia e direttore artistico del teatro. “Sarà un modo anche per gli stessi detenuti e ex di rivedersi, una grande emozione che ci fa piacere condividere con voi”. In ogni cella, infatti, c’è un televisore che consentirà a chi vorrà di poter vedere lo spettacolo. Si parte con “L’isola dei sogni”, l’ultimo spettacolo andato in scena l’anno scorso che andrà in prima serata sabato 18 aprile alle ore 21 e domenica 19 aprile alle ore 23. Ma poi seguiranno altri appuntamenti con “Padiglione 40”, “Desdemona non deve morire” e altri titoli. Intanto l’augurio per il Teatro dell’Arca è di poter mettere in scena lo spettacolo di quest’anno in autunno, “anche se per noi è più complesso perché alcuni attori potrebbero essere in stato di libertà per quella data”, spiega Baldacci. “Tra l’altro avevamo scelto un tema molto scottante, come quello dell’immigrazione, con una selezione di un gruppo di numerosi stranieri”. Oltre a quello, è saltata anche parte della loro stagione teatrale: da due anni, infatti, hanno creato un vero e proprio cartellone con spettacoli di musica e di impegno civile. Non lasciamoci addomesticare dall’abuso del virus di Ginevra Bompiani Il Manifesto, 18 aprile 2020 Regole e libertà. Di violazioni della Costituzione e della libertà personale, mi pare di vederne molte per tutti, in norme che incrociano l’arbitrio con l’assurdità. Oggi, per andare in libreria, ho attraversato per la prima volta un pezzo di città. Ho cercato d’imprimermi negli occhi quel che vedevo: rari passanti che si aggirano con la museruola bianca. A un certo punto ho incrociato un’amica e a salubre distanza ci siamo sbracciate per salutarci. Una macchina della polizia si è fermata. “È possibile incontrare per strada un’amica e non salutarla?”. E il poliziotto: “Ci vuole pazienza”. Sì, ce ne vuole molta, ma con chi? Con l’epidemia? O con chi sta sostituendo al nostro il suo libero arbitrio? A chi faccio del male salutando un’amica da lontano? A nessuno. E allora perché la polizia ha facoltà d’interromperci? E quella di comminarci fino a 4000 euro di multa? Quando è stata votata la legge che ci toglie la facoltà di decidere il margine di rischio che vogliamo correre? Recentemente, Vladimiro Zagrebelsky avvertiva che la restrizione protratta della libertà degli anziani viola la Costituzione. Ma di violazioni della Costituzione e della libertà personale, mi pare di vederne molte per tutti, in norme che incrociano l’arbitrio con l’assurdità (Concita De Gregorio ce le elenca in un esilarante articolo): a cominciare dalla passeggiata di 200 metri, o dalla distanza di 1,80 m. in libreria, fino alle multe spropositate di cui parla Mariangela Mianiti, come se la forma delle regole prevalesse sul motivo per cui sono state pensate: evitare nuovi contagi. Ed è appena piovuta sulla nostra testa l’app che rintraccerà tutti i nostri contatti, che ci identificherà per “tenere a bada la diffusione del virus”! Possiamo stupircene, dopo che la celebre fase 2 è stata affidata all’ad di Vodafone? Se usciamo dalla crisi sarà su ali virtuali, così come ci abbiamo vissuto. I governi del mondo stanno facendo del nostro panico una vertiginosa torre di Babele. Da anni la destra ci spaventava coi migranti per raggiungere lo scopo di una dittatura senza dittatore, ma non ha avuto il colpo di genio di usare una delle tante epidemie che periodicamente ci cascano addosso. Qualcuno ha già messo le carte in tavola, come Orban o Trump; qualcuno si rifiuta ancora come la Svezia; altri invece, con Italia e Francia in testa, ci offrono un merletto di menzogne, silenzi e pressioni per convincerci che la cattività imbavagliata è l’unico modo per respingere un virus che però non se ne dà per inteso e continua a sfornare lo stesso numero di morti. Eppure, basterebbe guardare la cartina d’Italia e quella del mondo per notare la declinazione dei colori: il Nord di un bel marrone scuro, la Toscana un po’ meno sostenuto, l’Umbria un amabile avorio e giù al Sud il bianco fulgente di regioni come la Basilicata e il Molise, le regioni meno industrializzate del Paese. O come mai? Non sarà perché nel Nord, coperto da una cappa nero piombo di gas letali, le fabbriche non sono mai state chiuse? E guardate il mondo: in Africa, chi ha più contagi? E in America? E in Asia? Da ogni parte si dice che l’avvelenamento della terra e la sopraffazione di flora e fauna sono la causa di questa e di ogni passata e futura epidemia (ne parlano fra gli altri Silvio Greco e Guido Viale). Ma avete mai sentito qualcuna delle autorità accennare a una conversione delle fabbriche, a una riduzione del traffico a benzina, alla chiusura di allevamenti intensivi, alla protezione dei cittadini, non da sé stessi, ma dall’inquinamento che li sta uccidendo, per avviare misure utili a ripulire l’aria che respiriamo e lasciarcela respirare in pace? Da ogni parte si alzano voci ragionevoli e inquiete, che se non svegliano i nostri governanti, dovrebbero almeno svegliare noi. Perché non si tratta di immolarsi al virus: è giusto stare riparati e tenere chiusi luoghi potenzialmente affollati, e soprattutto le fabbriche che saranno invece le prime a ripartire, ed è giusto che chi è stato contagiato non contagi a sua volta, ma per favore usciamo da questa retorica dell’#iorestoacasa, dell’ #andratuttobene, della bandiera tricolore che sventola sui campi, smettiamo di vivere in un terrore superstizioso, non lasciamoci addomesticare dalle serie tv, dagli zum, dai webinar (senza i quali non sarebbero mai riusciti a tenerci rinchiusi), alziamo le orecchie e ascoltiamo la voce di quello che abbiamo di più prezioso, la nostra responsabilità e libertà presente e futura, la libertà che è il nostro sangue letterario e politico, quella, come dice il nostro poeta preferito, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.. Passato il coronavirus non torniamo al mondo di prima di Muhammad Yunus* La Repubblica, 18 aprile 2020 La portata dei disastri provocati nel mondo dalla pandemia da coronavirus è sconvolgente. Nonostante ciò, e malgrado danni ingentissimi, siamo davanti a un’occasione senza precedenti. In questo momento tutto il mondo deve trovare una risposta a un grande interrogativo. Non si tratta di come far ripartire l’economia perché, per fortuna, sappiamo già farlo. Le esperienze vissute in passato ci hanno aiutato a mettere a punto una terapia generica per ridare vita all’economia. No, il grande interrogativo a cui dobbiamo dare risposta è un altro: riportiamo il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo? La decisione spetta soltanto a noi. Inutile dire che, prima del coronavirus, il mondo non ci andava bene. Fino a quando tutti i titoli dei giornali non sono stati dedicati interamente al coronavirus, ovunque si gridava a gran voce annunciando le terribili calamità che stavano per accadere. Contavamo letteralmente i giorni che mancavano a quando l’intero pianeta sarebbe diventato inabitabile per la catastrofe climatica. Parlavamo di quanto fosse grave la minaccia di una disoccupazione di massa provocata dall’intelligenza artificiale, e in che modo la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi stesse raggiungendo un livello deflagrante. Ci rammentavamo di continuo a vicenda che questo decennio è l’ultimo a nostra disposizione. Al termine di esso, infatti, tutti i nostri sforzi porteranno a risultati soltanto parziali, inadeguati a salvare il nostro pianeta. All’improvviso il coronavirus ha cambiato radicalmente il contesto delle cose e i dati spiccioli. Ha spalancato davanti ai nostri occhi possibilità temerarie che non erano mai state prese in considerazione in precedenza. All’improvviso, eccoci di fronte a una tabula rasa. Possiamo andare in qualsiasi direzione vorremo. Che incredibile libertà di scelta! Prima di farla ripartire, dobbiamo decidere che tipo di economia vogliamo. Prima e più di ogni altra cosa, l’economia è uno strumento che ci può aiutare a perseguire gli obbiettivi che noi stessi ci prefiggiamo. Non deve farci sentire tormentati e impotenti. Non dovrebbe fungere da trappola letale messa a punto da qualche potenza divina per infliggerci una pena. Non dobbiamo dimenticare mai, neppure per un istante, che l’economia è uno strumento creato da noi uomini. Dobbiamo dunque continuare a progettarlo e riconfigurarlo finché non renderà tutti felici. È uno strumento messo a punto per arrivare alla massima felicità collettiva possibile. Se, a un certo punto, abbiamo la sensazione che non ci sta portando dove vogliamo andare, sappiamo immediatamente che nel suo hardware o nel suo software di cui facciamo uso c’è qualcosa di sbagliato. Tutto quello che dobbiamo fare è sistemarlo. Non possiamo esimerci dicendo semplicemente “scusate, non possiamo realizzare i nostri obbiettivi perché il nostro software e il nostro hardware non ce lo permettono”. Si tratterebbe di una scusa patetica e inaccettabile. Se vogliamo creare un mondo di zero emissioni di anidride carbonica, costruiremo il software e l’hardware giusti per riuscirci. Se vogliamo un mondo nel quale la disoccupazione non esista, faremo altrettanto. Se vogliamo un mondo nel quale non ci sia nessuna concentrazione della ricchezza, faremo altrettanto. Tutto sta nel mettere a punto l’hardware e il software giusti. Ne abbiamo le capacità. Possiamo farlo. Quando gli esseri umani decidono di fare qualcosa, la fanno e basta. Niente è impossibile per gli uomini. La notizia più entusiasmante legata alla crisi del coronavirus è che ci sta offrendo inestimabili opportunità per un nuovo inizio. Possiamo iniziare progettando l’hardware e il software su uno schermo praticamente vuoto. La ripresa post-coronavirus deve essere una ripresa trainata da una consapevolezza sociale - Ad aiutarci in modo sostanziale è una singola decisione globale unanime: sia chiaro, non vogliamo assolutamente tornare al mondo di prima. Nel nome della ripresa, non vogliamo saltare nella stessa padella rovente di prima. I governi devono garantire ai cittadini che questo programma di ripresa sarà completamente diverso da quelli del passato. La prossima ripresa non sarà attuata per riportare le cose al punto in cui erano prima. Questa sarà la ripresa della gente e del pianeta. Si dovranno creare imprese in grado di rendere tutto ciò possibile. Il punto cruciale per lanciare un programma di rilancio post-coronavirus consisterà nel mettere al centro di ogni decisione e di tutti i processi decisionali politici una nuova consapevolezza sociale e ambientale. I governi dovranno garantire che neanche un dollaro andrà a finire nelle tasche di qualcuno a meno che non ci sia la garanzia che, rispetto a qualsiasi altra opzione, quel dollaro dato a quel qualcuno porterà al massimo vantaggio sociale e ambientale possibile per la società intera. Tutto quello che andrà fatto nella ripresa dovrà portare alla creazione di un’economia consapevole per il singolo Paese e per il mondo intero a livello sociale, economico, ambientale. Il momento è arrivato - Inizieremo come raccomandato dalle terapie di un tempo con i bailout, pacchetti di salvataggio in extremis, ma questa volta li useremo per progetti e interventi stimolati dalla consapevolezza sociale. Dobbiamo metterli a punto adesso, in piena crisi perché, quando questa sarà finita, ci sarà un tumulto di vecchie idee e di vecchi esempi volti a indirizzare gli interventi in una data direzione. Ci sarà chi argomenterà con foga per far deragliare le nuove iniziative, e dirà che si tratta di politiche mai collaudate. (Quando proponemmo di definire le Olimpiadi imprese sociali, i contrari pronunciarono proprio quelle parole. Adesso, i Giochi Olimpici di Parigi del 2024 sono intesi in questo senso, e l’entusiasmo è crescente.) Dobbiamo prepararci prima che abbia inizio il fuggi-fuggi generale. Il momento è arrivato. Quel momento è adesso. Impresa sociale - In questo mio articolo illustro una serie di politiche che mi sono ben note e nelle quali ripongo fiducia. Questo non esclude che vi siano molte altre opzioni creative ed efficaci. Incoraggio pertanto anche altre persone a farsi avanti con le loro raccomandazioni, tenendo sempre presente che dovranno soddisfare i requisiti di un programma di ripresa trainato dalla consapevolezza sociale e ambientale. Possiamo lavorare tutti insieme per cogliere l’occasione che ci si presenta. Nel Nrp (New Recovery Programme, Programma della nuova ripresa) che vi propongo, assegno un ruolo fondamentale a una nuova forma di impresa detta impresa sociale. Si tratta di un’impresa creata esclusivamente per risolvere i problemi delle persone, un’impresa che non crea un utile personale per gli investitori, se si eccettua il solo recupero dell’investimento iniziale. Una volta rientrati in possesso dell’investimento originario, tutti gli utili successivi devono essere re-immessi nell’impresa. I governi avranno molte occasioni per incoraggiare, assegnare le priorità, fare spazio affinché le imprese sociali possano impegnarsi in responsabilità crescenti e di ampia portata finalizzate alla ripresa. Al tempo stesso, i governi dovranno portare avanti i programmi nei confronti dei quali si devono impegnare in ogni caso, per esempio l’assistenza agli indigenti e ai disoccupati grazie ai tradizionali programmi del welfare, ripristinando i programmi dell’assistenza sanitaria e con questi tutti i servizi necessari, sostenendo tutte le imprese di ogni settore dove le opzioni per il social business non facciano ancora passi avanti. Sul fronte delle imprese sociali, i governi possono creare Social Business Venture Capital Funds, fondi a livello centrale e locale; possono stimolare il settore privato, le fondazioni, le istituzioni finanziarie e i fondi di investimento a fare altrettanto; possono incoraggiare le imprese tradizionali a trasformarsi in imprese sociali o a stringere accordi con partner, imprese e soci che operino a questo livello, così che tutte le imprese siano spronate ad avere una divisione che si occupa di social business o a dar vita a imprese sociali che operino in joint venture con altre imprese di questo tipo. In base al Nrp, i governi potranno finanziare le imprese sociali per acquisire altre aziende e allearsi a quelle in stato di bisogno per trasformarle a loro volta in imprese sociali. La banca centrale potrà dare la priorità a queste ultime nell’assegnazione dei finanziamenti da parte delle istituzioni finanziarie, da investire nel mercato azionario o per immettervi quelli di imprese sociali forti. Ovunque si presentano opportunità gigantesche: i governi dovrebbero coinvolgere quanti più attori possibile impegnati nelle imprese sociali. Chi sono gli investitori nelle imprese sociali? Dove si possono trovare? Sono ovunque. Non li vediamo perché i libri di testo di economia in circolazione non ne riconoscono l’esistenza. Di conseguenza, i nostri occhi non sono abituati a individuarli. Solo di recente i corsi di economia prevedono di affrontare alcune tematiche a questo proposito, quali le imprese sociali, l’imprenditoria sociale, gli investimenti a impatto sociale, le organizzazioni no-profit e così pure alcune questioni ispirate dalla popolarità globale della Grameen Bank e dal micro-credito. Finché l’economia resterà una scienza per massimizzare i profitti, non potremo farvi affidamento per mettere a punto un programma di rilancio e ripresa basato sulla consapevolezza sociale e ambientale. Ma non potremo girare l’interruttore e spegnere dalla sera alla mattina l’economia tradizionale. Mentre essa proseguirà nelle sue attività, i governi dovranno creare sempre più spazio affinché le imprese sociali possano far valere la loro affidabilità ed efficienza. Il successo delle imprese sociali diventerà tangibile quando vedremo che chi massimizza gli utili per il proprio tornaconto non soltanto coesisterà con imprenditori interessati ad avere zero profitti personali - e nasceranno amicizie e forme di collaborazione - ma anche quando sempre più imprenditori e investitori interessati al ricavo personale creeranno imprese sociali per conto loro o legandosi in partenariato con altre attività sociali. Quello sarà l’inizio di un’economia trainata da una consapevolezza sociale e ambientale. Non appena la politica di governo inizierà a riconoscere gli imprenditori e gli investitori nell’impresa sociale, costoro si faranno avanti con entusiasmo per assumere l’importante ruolo sociale che si renderà necessario a quel punto. Gli imprenditori delle imprese sociali non appartengono a una piccola economia di “gente che fa del bene”. Qui si parla di un ecosistema globale significativamente grande, che comprende le grandi multinazionali, i grandi fondi delle imprese sociali, i molti amministratori di talento, oltre a istituzioni, fondazioni, trust con molti anni di esperienza alle spalle nei settori della finanza e della gestione di imprese sociali globali e locali. Infine, quando il concetto di fondo e l’esperienza delle imprese sociali inizierà a ricevere l’attenzione dei governi, molti irremovibili imprenditori interessati al tornaconto personale saranno felici di mettere in mostra la parte più sconosciuta del loro talento diventando a loro volta imprenditori di imprese sociali di successo, e rivestiranno ruoli di importanza inestimabile in tempi di crisi sociale ed economica come la crisi del cambiamento del clima, la crisi della disoccupazione, la crisi della concentrazione della ricchezza e così via. Gli esseri umani nascono imprenditori, non cercatori di un posto di lavoro - L’NRP deve spezzare la tradizionale divisione del lavoro tra i cittadini e il governo. Si dà per scontato che compito dei cittadini sia prendersi cura delle rispettive famiglie e pagare le tasse, e che sia responsabilità del governo (e, in misura circoscritta, del settore no-profit) prendersi cura di tutti i problemi della collettività, come il clima, il mondo del lavoro, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’acqua e così via. L’NRP deve far cadere questo muro divisorio e incoraggiare tutti i cittadini a farsi avanti, a dar prova dei loro talenti nella risoluzione dei problemi creando imprese sociali. La loro forza non sta nella portata delle loro iniziative, ma nel loro numero. Una piccola iniziativa moltiplicata per un grande numero si trasforma in un’azione nazionale significativa. Uno dei problemi che gli imprenditori delle imprese sociali potranno affrontare e risolvere immediatamente sarà quello della disoccupazione provocata dal tracollo dell’economia. Chi vorrà investire nelle imprese sociali potrà occuparsi di crearle per produrre a cascata posti di lavoro per i disoccupati. Potrà anche scegliere di trasformare i disoccupati in imprenditori a loro volta, e dimostrare così facendo che gli esseri umani nascono imprenditori, non cercatori di lavoro. Le imprese sociali potranno adoperarsi insieme al sistema di governo per creare un solido sistema sanitario. Chi investe in un’impresa sociale non deve essere necessariamente una persona fisica. Può essere un’istituzione, per esempio, o un fondo di investimento, una fondazione, un trust, un’azienda di gestione o amministrazione di imprese sociali. Molte di queste istituzioni sanno benissimo come lavorare con amabilità con i proprietari d’azienda tradizionali. Un invito proficuo lanciato dal governo per la disperazione e la situazione di emergenza del periodo post-coronavirus potrà mettere in moto un’ondata di attività finora sconosciute. Sarà una cartina di tornasole per la leadership per dimostrare come il mondo possa essere fatto rinascere in modi inediti e del tutto nuovi a cominciare dai giovani, dalle persone di mezza età, e dagli anziani, uomini e donne. Non ci sarà un posto dove nascondersi - Se mancheremo di impegnarci in un programma di ripresa economica post-coronavirus trainato da una consapevolezza sociale e ambientale, imboccheremo inevitabilmente una strada molto peggiore della catastrofe provocata dal coronavirus. Per difenderci dal coronavirus possiamo rinchiuderci nelle nostre case ma, se non riusciremo a dare risposte adeguate alle questioni globali in costante peggioramento, non avremo dove nasconderci da Madre Natura arrabbiata con noi e dalle masse degli arrabbiati di tutto il pianeta. *Economista bengalese, Premio Nobel per la Pace nel 2006 Sugli over 70 il nuovo razzismo di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 18 aprile 2020 Tra i pericolosi veleni diffusi dal Coronavirus ho colto una proposta particolarmente malsana e inquietante, che si riflette negativamente sulla moralità, la ragionevolezza e la credibilità delle risposte alla pandemia. Tra altre sortite piuttosto infelici, alcune riferite alla specifica situazione italiana, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha proposto la segregazione in casa degli anziani, se ho ben capito, sino alla fine dell’anno. Quindi ben oltre il prevedibile picco della pandemia, con il pretesto di apprestare una più forte tutela di una categoria di soggetti ritenuti particolarmente vulnerabili. Con stupore ho rilevato che nel dibattito che ne è seguito la proposta ha incontrato non poche adesioni, peraltro prive di qualsiasi evidenza scientifica dei rapporti tra mera anzianità e vulnerabilità al contagio. Tale è la confusione e lo sconcerto di fronte alla aggressività e alla diffusione del coronavirus che anche una proposta che comporterebbe la sostanziale morte civile di un’intera categoria di cittadini, individuata esclusivamente in relazione al dato astratto dell’età, rischia di entrare nel novero delle possibili risposte alla pandemia. Uno dei punti di forza della reazione al coronavirus è stato ed è tuttora l’atteggiamento del popolo italiano, che sta affrontando con grande senso di responsabilità e consapevolezza della gravità della situazione le restrizioni imposte all’esercizio di numerosi diritti costituzionali, tra cui in primo luogo la libertà di circolazione. Tanto è vero che il Presidente Mattarella, che si è più volte appellato ai valori dell’unità e della solidarietà quali presupposti di una efficace risposta al coronavirus, ha ripetutamente riconosciuto che tali valori sono condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione. Ebbene, la creazione artificiale e astratta di una categoria di cittadini “diversi” a cagione del solo dato dell’età violerebbe palesemente i fondamentali valori dell’unità e della solidarietà. In realtà dietro la dichiarata intenzione di predisporre una speciale tutela per gli anziani si cela la convinzione che gli anziani siano di per sé, per il solo dato dell’età, potenziali portatori e diffusori del virus, a prescindere dalle loro effettive condizioni di salute: con il pretesto di difendere la sua vulnerabilità, in realtà l’anziano viene minacciato di totale isolamento per una supposta maggiore pericolosità. Bisogna stare molto attenti perché la proposta, oltre a scalzare i valori dell’unità e della solidarietà, riecheggia metodi che richiamano le dinamiche del razzismo: quelli che sino a ieri erano cittadini come tutti gli altri diventerebbero “diversi”, come da un giorno all’altro lo furono gli ebrei dopo le leggi razziali del 1938. Tutti gli anziani sarebbero relegati in casa e destinatari del divieto di circolazione per il solo fatto di avere più di 65/70 anni, a prescindere dal loro effettivo stato di salute. Ecco il punto: vi sono anziani che malgrado l’età sono perfettamente sani e, in quanto tali, non sono di per sé più vulnerabili di un giovane; al contrario, vi possono essere giovani affetti da malattie gravi che li rendono particolarmente vulnerabili e quindi potenziali propagatori del contagio. Disporre misure limitatrici per una categoria di soggetti individuati solo sulla base dell’età determinerebbe anche una palese violazione del principio costituzionale di eguaglianza. Nell’epoca del coronavirus l’anziano e il giovane non affetti da alcuna morbilità sarebbero destinatari di un trattamento diverso, in quanto solo il primo verrebbe confinato in casa e privato del diritto alla libera circolazione. Alla faccia dei valori dell’unità e della solidarietà gli anziani diverrebbero una categoria di soggetti “diversi”, di per sé sospetti di essere contagiabili o contagiati, sì che, se un anziano avesse l’ardire di mostrarsi in strada, potrebbe essere considerato e trattato alla stregua degli “untori” della peste di manzoniana memoria. Ma allora eravamo alla metà del Seicento, un secolo che, quanto alla risposta alle epidemie, abbiamo sempre ritenuto essere governato da superstizioni e ignoranza. Da 70enne produttivo a reduce da corsia di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 18 aprile 2020 Che cosa sarà di noi? In apparenza la nostra vita cambierà e - chissà per quanto tempo - sarà dominata dal pensiero della sopravvivenza, fisica ed economica. La precarietà a cui ci sta abituando il virus sarà permanente per molto tempo: non basterà soltanto il vaccino per esorcizzarla, dal momento che il morbo muta continuamente, come è stato accertato, e nessuno può prevedere come e quando, complici perfino i cambiamenti stagionali, le forme e la forza che assumerà. Indiscutibilmente saremo tutti meno liberi nei movimenti e più inclini alla diffidenza negli spostamenti e nell’avvicinare i nostri simili. La cura del corpo ci imporrà atteggiamenti sostanzialmente nuovi in rapporto anche alle cose più banali, dal fare la spesa a concederci una passeggiata, dall’estrinsecare il nostro affetto con un abbraccio fino a riconsiderare l’amore come un agente influente se non “pericoloso”, con tutto ciò che ne discende. L’inevitabile impoverimento (il Pil è già sotto il 9%) ci costringerà ad elevare la soglia della sobrietà con conseguenze e ricadute sui consumi e sullo stile di vita. E saranno soprattutto gli anziani, i vecchi, gli over settanta a pagare un mutamento che non prevedevano nella loro età più o meno “protetta” da una dignitosa - non sempre tuttavia - pensione e da un sistema sanitario che s’immaginava solido e strutturato, mentre abbiamo visto che fa acqua da tutte le parti e non certo per l’inadeguatezza della classe medica, quanto per la inane funzione della politica nel provvedere alla sua gestione. Un capitolo tra i più dolorosi della storia repubblicana recente. Fino ad un paio di mesi fa, la terza e la quarta età venivano viste dal sistema produttivo nel suo complesso (e di conseguenza “corteggiate” dal mercato attraverso ammiccanti campagne pubblicitarie - farmacologiche, turistiche, di svago e di abbigliamento) come fasce di popolazione alquanto serene, sostanzialmente prive di problemi (dotate in gran parte di assicurazioni sulla vita e di risparmi non disprezzabili, oltre che di immobili residenziali e perfino di seconde case) e perciò in grado di guardare alla vita nonostante gli inevitabili acciacchi dell’età, mitigati da un’aspettativa di vita ragionevolmente lunga. Un “bacino” sul quale investire con una certa sicurezza, insomma. Progettavano i vecchi (ma non gradivano sentirsi etichettare così) un ultimo sprazzo di vita, prima della decadenza finale. Sport, viaggi, vita da circolo (soprattutto in provincia), progetti per chi aveva ancora la fantasia di farne, buona tavola, coltivazione di una certa eleganza per chi poteva permettersela. E infine l’amore, anche per vincere, nella maggior parte di casi, quell’insopportabile solitudine piombata sulle salde spalle di uomini e di donne che avvertivano ancora una certa vitalità. L’industria farmaceutica non ha risparmiato sollecitazioni al riguardo, con buoni risultati a quanto si sa, complice una cultura edonista che ha messo al centro della nostra vita sociale il sesso, oltre al denaro si capisce. Che ne sarà degli over settanta, sempre che i poco più giovani ce la facciano a mantenere gli stessi standard di vita di chi li ha preceduti? Il pessimismo è più che ragionevole. Intanto perché quella “comunità” di vecchi e di anziani si è tragicamente assottigliata negli ultimi mesi e, purtroppo, temiamo, ancor più si assottiglierà. Su oltre 20.000 decessi il 52% aveva più di ottant’anni; il 31,5% aveva tra i 70/ 79 anni. In totale l’83,5%. Comprendendo chi aveva tra i sessanta ed i sessantanove anni si arriva al 95% dei deceduti. Cifre impressionanti che proiettandole su quel che inevitabilmente continuerà ad accadere non si sa per quanto tempo ancora, danno la dimensione di una vera e propria strage che inciderà non soltanto sul depauperamento della memoria collettiva, ma sui gusti, sulle abitudini, sullo stile di vita, sui rapporti sociali. Ma dei vecchi sembra che si possa fare a meno, secondo cinici contabili che almanaccano quotidianamente sui costi pensionistici della popolazione “inservibile”. È una questione di cultura che il produttivismo da un lato ed il relativismo morale dall’altro hanno accentuato soprattutto negli ultimi anni creando una sorta di accettazione dell’eugenetica come prospettiva per rendere più vivibile la vita secondo i neo-egoisti. I settantenni in Olanda hanno ricevuto nelle scorse settimane un modulo da compilare con il quale s’impegnano a non farsi ricoverare se colpiti dal Covid-19. In Svezia gli ottantenni hanno rinunciato volontariamente alla ospedalizzazione per cercare di guarire dall’epidemia. Ci si abitua ad essere crudeli. La società dell’omicidio pre-natale e l’eutanasia sono l’alfa e l’omega di una società nichilista. Si inizia, insomma, con l’aborto e di finisce con l’eutanasia o con il rifiuto dell’esistenza quando non vengono soddisfatti parametri accettabili. Per quanto ci riguarda, forse tra un mese usciremo per strada nelle gabbie delle nostre paure. Immaginando la vita non come un dono, ma una tragedia. O vissuta secondo i parametri della libertà condizionata stabiliti da un decreto governativo. Scuola, l’ingiustizia è digitale: i ricchi in rete, i poveri offline di Eraldo Affinati Il Riformista, 18 aprile 2020 Al Sud connessioni carenti e lezioni sospese. L’interruzione della scuola in molte parti del mondo assomiglia a una frenata interiore dell’intero pianeta: si è accesa una luce rossa di allarme intermittente per segnalare la vera emergenza annunciando lo stop dell’istruzione globale tradizionale le cui conseguenze, di qualità e forma imprevedibile, cominciano a essere indagate da molti osservatori. Un miliardo e seicento milioni di bambini e ragazzi di 165 Paesi non vanno più in aula. Soltanto in Italia sono oltre dieci milioni, dall’asilo nido alle medie superiori, gli scolari che in queste settimane hanno smesso di frequentare gli istituti dov’erano iscritti e restando a casa si stanno dedicando, chi più chi meno, alla cosiddetta didattica on line. In un documento molto interessante prodotto dal Forum delle Disuguaglianze e delle Diversità e diffuso nei giorni scorsi da Marco Rossi Doria, si evincono alcune considerazioni che qui sinteticamente riassumo. Vediamo innanzitutto gli aspetti negativi: le scuole chiuse non stanno assicurando il presidio etico contro la malavita che soprattutto nelle periferie delle regioni meridionali da sempre rappresentano. Un ruolo, come sappiamo, prezioso per non lasciare esposti al richiamo della criminalità organizzata gli adolescenti più a rischio. Inoltre, in considerazione della scarsa qualità delle connessioni wi-fi presenti in numerose famiglie, stiamo assistendo al ritorno di una grave forma di sperequazione, come se nella nuova dimensione informatica ritrovassimo il vecchio tema dell’ingiustizia sociale: mentre nei licei meglio attrezzati le lezioni proseguono con scansioni accettabili, in troppi istituti di fatto risultano ancora sospese. Se quindi numerosi allievi hanno la possibilità di elaborare in un contesto speciale com’è il gruppo classe, in qualche modo preservato grazie alle piattaforme digitali, quanto sta accadendo intorno a noi, molti altri ne risultano esclusi, privati del sostegno dei loro insegnanti, oltre che del rapporto fondamentale coi compagni di pari età. Accanto a tali amare riflessioni dobbiamo registrare anche alcune note positive, fra cui l’innegabile accelerazione tecnologica che la fase emergenziale giocoforza comporta, in quanto immette nella prassi scolastica modalità didattiche innovative, anche dal punto di vista valutativo, che in futuro potrebbero essere analizzate. In particolare, a causa del coronavirus, viene sancito l’anacronismo della lezione frontale. Più difficile è il superamento dello schema fisso da tutti ben conosciuto: spiegazione-compito da assegnare-controllo delle nozioni apprese-giudizio da formulare. Eppure, se ci doveva essere un momento in cui porre in discussione il suddetto vecchio schema mentale, nel tentativo di sostituirlo con altre più efficaci pratiche tese a privilegiare esperienze conoscitive da realizzare sul campo delle operazioni, bene, questa occasione è ora davanti a noi: sarebbe imperdonabile lasciarsela sfuggire. Sulla partecipazione delle famiglie al lavoro giornaliero esistono opinioni contrastanti, ma specialmente per quanto riguarda gli alunni più piccoli, dovrebbe essere da incrementare proprio nella prospettiva di un rinnovamento strutturale dell’istruzione pubblica. In questi giorni, parlando con alcuni ragazzi impegnati nella didattica a distanza, ho avuto l’impressione di cogliere in loro da una parte la scoperta di una fragilità che tutti ci lega, dall’altra la consapevolezza di rappresentare delle avanguardie preziose perché l’esperienza nella quale sono impegnati potrebbe risultare utile anche in futuro. Inoltre il rapporto che stanno avendo coi professori, nelle settimane dell’interruzione coatta, sembra più autentico rispetto a quello a cui erano dispersi o abituati, come se il pericolo comune aiutasse finalmente a scoprire le carte uscendo dalla deleteria finzione pedagogica che spesso scatta fra l’adulto e il giovane. Oggi, come ha dichiarato Giuseppe Bagni, presidente del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti), “non è più lo studente che va a scuola, ma è la scuola ad andare da lui”. Questo è l’aspetto secondo me più importante: se riusciremo a farne tesoro, potremo uscire a testa alta dal tunnel che stiamo attraversando. Certo il prossimo anno scolastico non potrà riprendere come se nulla fosse accaduto: chiunque intendesse continuare a ragionare secondo i modelli trascorsi, ad esempio l’idea di dover recuperare le parti del programma non svolto, calibrando col bilancino il sistema dei crediti e dei debiti, rischia di non cogliere la portata della sfida che dobbiamo affrontare: integrare la tradizione culturale del passato nel mondo digitale di oggi. Stiamo parlando di percezioni mentali diverse da quelle novecentesche. Bisogna mettere a frutto i cambiamenti epocali in corso, senza rinunciare alla conoscenza a trecento sessanta gradi che soltanto il rapporto fisico personale e la perlustrazione dei territori, quando sarà possibile uscire di casa, possono consentire. Nei periodi di crisi diventa più facile sperimentare: adesso lo stiamo facendo perché siamo obbligati dalle drammatiche circostanze derivate dalla pandemia; domani potremo approfittare di questi giorni difficili per progettare una scuola nuova. “Nessuno escluso”: la Campagna di Amnesty per affrontare le conseguenze del virus di Marta Rizzo La Repubblica, 18 aprile 2020 L’iniziativa per la raccolta fondi dell’Organizzazione per la difesa dei diritti umani. L’obiettivo è chiedere che non ci siano discriminazioni nella gestione dell’emergenza Covid-19. Con #Nessunoescluso, Amnesty International chiede l’impegno delle istituzioni affinché persone e gruppi vulnerabili che vivono in strutture inadeguate e non preparate a fronteggiare un’emergenza sanitaria, possano adottare le misure imposte dell’Organizzazione mondiale della sanità e dalle autorità sanitarie italiane per contenere la pandemia del Covid19. Cos’è #Nessunoescluso. Amnesty International sostiene concretamente organizzazioni che lavorano con i gruppi vulnerabili più esposti alle conseguenze dell’epidemia, con una raccolta fondi per l’assistenza diretta a tali gruppi, grazie a una collaborazione con associazioni già attive nella tutela delle persone. Il ricavato è destinato ad attività di sostegno sociale, sanitario, psicologico, alla fornitura di beni di prima necessità, medicinali, dispositivi sanitari, materiale informativo e di supporto generale alla campagna stessa. In particolare, i partner beneficiari della campagna sono: Binario95, Medici per i Diritti Umani (Medu) e Arci Torino I gruppi a rischio sono: Persone anziane e con malattie croniche: gli anziani e le persone con condizioni mediche preesistenti (come l’asma, il diabete o le malattie cardiache) sembrano essere più suscettibili a ammalarsi gravemente. Le persone in prima linea: gli operatori sanitari sono in prima linea nella lotta alla pandemia. La possibilità di essere infettati durante il lavoro, turni più lunghi, disagio psicologico sono minacce concrete. Persone senza fissa dimora: le persone senza fissa dimora, compresi coloro che dormono in strada, corrono un elevato rischio di contrarre il virus. Se si ammalano, non possono conformarsi alle misure di contenimento raccomandate e possono incontrare ostacoli nel mettere in atto le misure di prevenzione. Popolazione carceraria: le persone detenute, nonché il personale che lavora all’interno delle carceri, spesso sovraffollate, corrono un alto rischio di contagio. Donne: per molte donne e ragazze, “stare a casa” significa essere confinate in un ambiente non sicuro o con un partner violento. Devono continuare ad accedere alla protezione e ai servizi di supporto soprattutto in questo periodo di emergenza. Lavoratori precari: le persone con forme precarie di lavoro sono spesso colpite in modo sproporzionato dalle misure adottate per affrontare la pandemia. Non ricevono adeguate protezioni sociali, il che significa che perdono i salari e non hanno alcuna retribuzione per malattia. Altre persone vulnerabili: migranti, Rom, persone che vivono in condizioni igieniche e abitative precarie. Per loro il Covid-19 è un rischio concreto. nei ghetti, nei campi, negli insediamenti informali, per strada. Come i diritti, anche l’epidemia non è uguale per tutti. “L’epidemia ha messo ancora più in luce la profonda diseguaglianza che divide non solo il Nord e Sud del mondo ma anche la nostra stessa società - spiega Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia - Amnesty ha scelto di richiamare l’attenzione su quelle persone che pagano il prezzo più caro, quelli che non hanno più un lavoro per sopravvivere, quelli che non hanno una casa, le vittime di violenza domestica, gli operatori della sanità esposti a rischi enormi per la propria salute, le persone più anziane e fragili, i più deboli ed emarginati della nostra società. I loro diritti valgono quanto i nostri e spetta a noi difenderli. Anche l’epidemia non è uguale per tutti”. Campi senza braccianti, ecco la bozza della legge per regolarizzare i migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 18 aprile 2020 Sulla Pista di Borgo Mezzanone gli italiani non sono più graditi, nemmeno se portano cibo o medicine: “Non entrate, abbiamo paura di voi!”, implorano gli ultimi duemila disperati del ghetto pugliese tuttora più affollato. “Dall’inizio della pandemia il loro desiderio più forte è andarsene dall’Italia, temono il contagio, ma non riescono neppure a scappare”, spiega il sociologo Leonardo Palmisano, analista del lavoro nelle nostre campagne. Il paradosso è che per molti, adesso, il popolo dei ghetti è una riserva preziosa in tempi di carestia. Gli invisibili diventano appetibili quando il Covid-19 desertifica terreni e serre dai braccianti stagionali europei: così tra i ministeri di Agricoltura, Lavoro, Interni, Economia e Giustizia circola, per ora in via riservata, una bozza di legge in 18 articoli nella quale si parla esplicitamente della loro “regolarizzazione” tramite una “dichiarazione di emersione dei rapporti di lavoro”. All’articolo 1 si spiega che “al fine di sopperire alla carenza di lavoratori nei settori di agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura”, chi voglia mettere sotto contratto di lavoro subordinato “cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale in condizioni di irregolarità” può presentare istanza allo sportello unico per l’immigrazione. Il contratto “non superiore a un anno” genera, dopo una serie di verifiche burocratiche, un permesso di soggiorno, che può essere rinnovato tramite nuovi rapporti di lavoro. Il provvedimento, che potrebbe finire presto in un decreto, non sarà privo di contraccolpi. Già è in atto la proroga dei permessi di soggiorno in scadenza, ma questa partita è ben diversa. Gli irregolari in Italia “sono circa 600 mila e vivono in insediamenti informali, sottopagati e sfruttati spesso in modo inumano”, ha detto giovedì nella sua informativa alle Camere la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, sponsor del progetto, per poi anticipare ai parlamentari il senso del testo che il Corriere ha ora visionato: “Ritengo fondamentale nella fase emergenziale regolarizzare gli extracomunitari che ricevano offerte di lavoro… o è lo Stato a farsi carico della vita di queste persone o sarà la criminalità a sfruttarla”. Nessuno pronuncia la parola “sanatoria”, ma i campi diventano prima linea economica e politica. Da Nord a Sud, dalle prossime raccolte di pesche nella piemontese Saluzzo fino a quella ormai in esaurimento delle arance nella Calabria di Rosarno, il Covid-19 ha terrorizzato e svuotato: il “si salvi chi può” di polacchi, bulgari e romeni, slovacchi e albanesi ha lasciato a terra fiori e pomodori, zucchine e melanzane; forse le ciliegie Ferrovia di Turi resteranno a marcire, forse l’uva seguirà. Un crac. “Le associazioni ci parlano di una carenza di manodopera stagionale tra le 270 e le 350 mila unità”, ha aggiunto la Bellanova. Il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, in effetti ci descrive uno scenario bellico: “Rischiamo di perdere il 35% di ciò che c’è nei campi, e questo peserà poi soprattutto su chi è più povero”. La sua associazione ha stilato una mappa delle province più colpite, dove lavorava quasi un terzo degli stagionali svaniti: Bolzano e Trento, per fragole, mele e uva; Verona con gli asparagi; Cuneo con pesche, kiwi e susine; Latina coi suoi ortaggi in serra; Foggia coi pomodori, i broccoli e i cavoli. Il Trentino rimpiange come minimo 12 mila braccianti, in gran parte romeni, il 75% della forza lavoro. Sicché si tentano vie diplomatiche. Il locale presidente di Coldiretti, Gianluca Barbacovi, plaude al suo presidente nazionale che sta aprendo canali con l’ambasciata di Bucarest per convincere i romeni a tornare indietro, nei “corridoi verdi”, in sicurezza. È una parola. Piemonte e Veneto guardano già ai migranti nei centri d’accoglienza. Tuttavia, sulle ricette c’è grande distanza. Prandini punta sui voucher e spiega che in un solo giorno la piattaforma di Coldiretti “Job in country” ha raccolto “più di 500 richieste di cassintegrati e disoccupati per venire a lavorare nelle nostre aziende”. Scommette: “In venti giorni possiamo avere migliaia di curricula e fare entrare i lavoratori con procedure più semplici. Abbiamo contro la Cgil, ma insistiamo. E comunque la sanatoria non va, è un tema politico e partitico, queste persone non in regola non è detto affatto che lavorino in un contesto agricolo, anzi”. In realtà l’opposizione sindacale ai voucher appare compatta in una lettera mandata al premier Conte a inizio aprile da Landini, Furlan e Barbagallo, i segretari confederali: “Si tratta di uno strumento che precarizza il lavoro”. Indecisi a tutto, marciamo verso un’estate di raccolti mancati mentre tra i ghetti blanditi o esorcizzati potrebbe scatenarsi un inferno se il Covid-19 facesse breccia nel sostanziale isolamento dei migranti. “Fa ridere la disposizione di lavarsi le mani e stare in casa quando non hai acqua e vivi in una baracca”, dicono sindacalisti di prima linea come Giovanni Mininni della Flai-Cgil che ha lanciato online una conferenza stampa, “Ghetti pieni e scaffali vuoti”. “Una sanatoria era attesa anche prima del Covid-19, Bellanova non ha risolto il problema”, rincara la dose Alessandro Verona, medico di Intersos che gira per campi tra Calabria e Puglia. C’è chi giura che, prima dell’epidemia, il Viminale meditasse una regolarizzazione più generosa. Ora la bozza di legge scalderà gli animi. L’articolo 7 esclude dal provvedimento destinatari di espulsioni, condannati o soggetti pericolosi per la sicurezza dello Stato, ma questo non placherà di certo i sovranisti. Gli stretti limiti temporali del permesso di soggiorno e il rischio di restare nel limbo dopo l’emersione in caso di perdita del lavoro faranno storcere il naso a partiti e gruppi pro-migranti. Del resto, in ballo non ci sono norme astratte. Qualche complicazione capita con le persone in carne ed ossa, come quarant’anni fa notava lo svizzero Max Frisch a proposito dei migranti italiani: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. La tragica sceneggiata libica di Alberto Negri Il Manifesto, 18 aprile 2020 Pandemia e guerra. La missione europea Irini prevede un numero limitato di comparse: per ora partecipano solo navi greche e italiane, la Francia deve ancora arrivare mentre la Germania, che pure aveva promosso l’iniziativa, sta ancora decidendo cosa fare. Così a Tripoli e in Cirenaica arrivano armi e mercenari da ogni dove. La guerra sotto casa continua, con i suoi 20 milioni di fucili, sei milioni di abitanti e quelle centinaia di migliaia di “invisibili” profughi che nessuno vuole, ora attanagliati come tutti anche dalla pandemia. La Libia è il ventre molle dell’Europa, proclamava Churchill nel ‘42 mentre le truppe del generale Montgomery avanzavano ben oltre El Alamein. Deve essere ancora così perché oggi la Libia (come la Siria) è sempre più una faccenda tra Erdogan e Putin e i loro alleati sul campo e nella regione, con gli Usa innervositi dalla presenza russa e gli europei che si stanno misurando con un altro flop annunciato, la missione Irini contro il traffico d’armi. Lasciamo annegare profughi in mare ma nei porti libici e via terra i rifornimenti bellici arrivano eccome, dai turchi, dagli arabi e persino dagli europei. Alla faccia dell’embargo e delle false tregue da coronavirus. Che ci sia aria di un altro fallimento europeo e dell’Onu - che non è ancora riuscito a sostituire il suo vecchio inviato Ghassam Salamé - lo si intuisce anche da una pagina che il New York Times dedica alla Libia e ai giochi dell’amministrazione Trump con il generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Il quotidiano americano ci informa che la Libia è stata “lasciata ai russi” proprio da Trump che ha subito l’influenza del principe degli Emirati Mohammed bin Zayed e soprattutto di Al Sisi, “il dittatore preferito” del tycoon americano. Al Sisi avrebbe convinto Trump un anno fa ad appoggiare l’offensiva di Haftar contro Tripoli ma intanto l’Egitto ha aperto una base militare segreta per la Russia, destinata a rifornire i mercenari della Compagnia Wagner e le milizie della Cirenaica. Gli americani avrebbero messo inoltre le mani su documenti che comprovano i legami tra Mosca, gli ex gheddafiani e Seif Islam, figlio maggiore del dittatore ucciso nel 2011, reclutati per condizionare le mosse di Haftar ritenuto dai russi un alleato non così affidabile: per sostenerli Mosca li ha anche dotati di una tv satellitare (Libya Alhadat). In tutto questo l’Europa sembra avere un ruolo assai secondario. In realtà è complice di una tragica sceneggiata. L’operazione navale Irini per contrastare il traffico d’armi appare una buffonata partorita dopo la Conferenza di Berlino del gennaio scorso. Le navi sono dislocate solo nell’est del Paese, non possono operare nelle acque territoriali libiche e neppure via terra. E siccome la maggior parte dei rifornimenti di Haftar arrivano dal confine con l’Egitto, è chiaro che l’embargo viene continuamente violato. Ma neppure Sarraj può lamentarsi. Nessuno pensa davvero di disturbare la Turchia, insieme al Qatar il principale sponsor di Tripoli, un membro storico della Nato con cui l’Europa scende sempre a patti per trattenere tre milioni di profughi. Non solo: le ispezioni sulle navi devono avvenire con il consenso dello stato di bandiera e Ankara, per prevenire “sorprese”, mantiene cinque fregate di fronte alle coste libiche. La sceneggiata, poi, prevede un numero limitato di comparse. Alla missione Irini per ora partecipano solo navi greche e italiane, la Francia deve ancora arrivare mentre la Germania, che pure aveva promosso l’iniziativa, sta ancora decidendo cosa fare. Così a Tripoli e in Cirenaica arrivano armi e mercenari da ogni dove. Anche armamenti europei, triangolati con carichi dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi che sono i maggiori acquirenti dell’industria bellica occidentale. La missione Irini serve agli europei per salvare la faccia ma è inefficace anche nei confronti del contrabbando di petrolio che prosegue senza sosta mentre il Paese dal 17 gennaio - data del blocco delle esportazioni - ha perso tre miliardi di dollari e la produzione è scesa a 80mila barili, quasi niente, il che dovrebbe allarmare pure l’Eni il maggiore operatore straniero. Sarraj e Haftar con i loro sponsor sono quindi liberi di farsi la guerra e lo stanno dimostrando le ultime battaglie durante le quali Haftar ha subito una serie di sconfitte da parte del governo di Tripoli che è tornato a controllare tutta la costa a ovest della capitale fino alla frontiera con la Tunisia. Il livello dello scontro si sta alzando: Sarraj ha escluso qualsiasi trattativa mentre il portavoce di Haftar ha dichiarato che il generale “sta combattendo una guerra di liberazione contro l’esercito turco”. Ed è proprio questa presenza della Turchia che qualche giorno fa ha spinto una delegazione di Bashar Assad nel quartiere generale di Haftar a Bayda per firmare un accordo ripreso dalle telecamere. Siria e Libia sono sempre più guerre “comunicanti”. In vista di un rientro ufficiale nella Lega araba, Damasco si avvicina al campo filo-saudita, emiratino ed egiziano alleato di Haftar, uno schieramento anti-turco e anti-Fratelli Musulmani. Quello che più piacerebbe a Trump - con raìs e monarchi assoluti - se a sostenerlo non ci fosse la Russia di Putin. Libia. Scomparsi centinaia di migranti intercettati dalla guardia costiera e riportati a terra La Repubblica, 18 aprile 2020 Il richiamo dell’OIM. Sono almeno 200 persone che nei giorni scorsi sono finite in centri di detenzione non ufficiali e non sono più rintracciabili. Testimonianze sugli abusi che si verificano in quei luoghi. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) lancia un allarme per la sorte di centinaia di migranti che quest’anno la Guardia Costiera libica ha riportato a terra e dei quali non si sa più nulla. Secondo recenti dati forniti dal governo di Tripoli, circa 1.500 persone sono attualmente detenute in 11 centri della “Direzione per la lotta contro l’immigrazione illegale” libico (Dcim), alcuni da molti anni. Nel 2020, almeno 3.200 uomini, donne e bambini a bordo di imbarcazioni dirette in Europa sono stati soccorsi o intercettati dalla guardia costiera libica e riportati indietro, in un Paese in cui ancora si combatte. La maggior parte finisce in strutture adibite ad attività investigative o in centri di detenzione non ufficiali. L’OIM non ha accesso a questi centri. Le autorità libiche non danno informazioni. Nonostante le molteplici richieste, le autorità libiche non hanno fornito alcuna informazione su dove si trovino con esattezza queste persone o perché siano state portate in strutture di detenzione non ufficiali. “La mancanza di chiarezza sulla sorte di queste persone scomparse è una delle preoccupazioni più gravi”, ha detto una portavoce dell’OIM, Safa Msehli. “Siamo a conoscenza di molte testimonianze di abusi che si verificano all’interno dei sistemi di detenzione formali e informali in Libia”. Le numerose testimonianze. Numerosi racconti, considerati credibili, da parte di comunità di migranti in contatto con l’OIM sostengono che i detenuti vengono consegnati ai trafficanti e torturati nel tentativo di estorcere denaro alle loro famiglie, abusi che sono stati ampiamente documentati in passato dai Media e dalle agenzie dell’ONU. L’OIM chiede al governo libico di chiarire che fine abbiano fatto tutti coloro di cui non si ha più notizis e di porre fine alla detenzione arbitraria. Lo smantellamento di questo sistema deve essere una priorità così come è necessario stabilire alternative che garantiscano minimi standard di sicurezza per i migranti. Nell’ultima settimana almeno 12 persone sono morte o disperse. Solo nell’ultima settimana, almeno 800 persone sono partite dalla Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quasi 400 sono state riportate in Libia e, dopo operazioni di sbarco ritardate a lungo a cause della situazione di scarsa sicurezza a terra, sono state poi mandate in detenzione. Almeno 200 di loro sono finiti in centri non ufficiali e risultano non più rintracciabili. Molti di coloro che hanno raggiunto le acque internazionali e la zona di ricerca e soccorso maltese sono rimasti bloccati in mare su imbarcazioni fragili e poco sicure per giorni, senza essere soccorsi. È notizia confermata che almeno 12 persone sono morte o disperse in mare negli scorsi giorni. Basta con i ritorni coatti in Libia. L’OIM è allarmata dal deterioramento della situazione umanitaria in Libia e ribadisce che è inaccettabile che le persone soccorse in mare vengano riportate in un contesto in cui si combatte e in cui diventano vittime di abusi e di traffici. L’Organizzazione ribadisce inoltre il suo appello all’Unione Europea affinché si stabilisca con urgenza un meccanismo di sbarco chiaro e rapido per porre fine al ritorno coatto dei migranti in Libia. Ricordiamo agli Stati che salvare vite umane è la priorità numero uno e che occorre sempre rispondere alle richieste di soccorso, così come stabilito dal diritto internazionale. Il COVID-19 non deve essere una scusa per non ottemperare a diritti internazionali duramente conquistati e a quegli obblighi che gli Stati hanno nei confronti delle persone vulnerabili. Myanmar. Coronavirus: liberati 25mila detenuti, un quarto del totale rainews.it, 18 aprile 2020 Il tradizionale provvedimento di clemenza per le festività ha riguardato quest’anno più del doppio dei carcerati. Tweet 17 aprile 2020 Una folla di familiari ha atteso venerdì fuori dalle carceri in Myanmar il rilascio di quasi 25.000 prigionieri in seguito all’amnistia presidenziale che segna la tradizionale celebrazione del nuovo anno buddista nella ex Birmania e cade nel momento di picco della pandemia di Covid-19. Le immagini mostrano le scene di esultanza e commozione fuori dal carcere Insein di Yangon - dove le autorità hanno distribuito maschere alle persone in attesa - quando gli autobus con i detenuti liberati hanno oltrepassato i cancelli. Il provvedimento di clemenza per le feste di Thingyan, consueto in Myanmar, è stato annunciato in un comunicato dell’ufficio del presidente Win Myint in cui non si fa cenno alla diffusione del Coronavirus tra i motivi dell’amnistia, ma sta di fatto che quest’anno è stato graziato più del doppio delle persone rispetto alle precedenti occasioni in un Paese con una popolazione carceraria totale di circa 92 mila persone. Previste anche la commutazione della pena di morte in ergastolo per diversi detenuti e sconti di pena. Human Rights Watch (Hrw) all’inizio di questo mese aveva esortato il Myanmar a ridurre immediatamente la sua popolazione carceraria per frenare la diffusione del Coronavirus. Il Myanmar ha segnalato ad oggi 85 casi confermati e 4 decessi da Covid-19. Secondo le stime delle organizzazioni in difesa dei diritti umani le prigioni del Myanmar conterrebbero circa 92.000 persone, compresi quelle in attesa di processo. Non è chiaro se alcuni prigionieri politici siano tra i detenuti rilasciati. Secondo l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici del Myanmar, ci sono attualmente 92 prigionieri politici in carcere e altri 124 in detenzione in attesa del processo. Questi detenuti sono considerati criminali comuni dal governo dell’ex Birmania. La decisione del governo di Yangon è in linea con le indicazioni delle Nazioni Unite che hanno chiesto ai Paesi di rilasciare detenuti non pericolosi, vulnerabili e malati per prevenire la diffusione del nuovo Coronavirus nelle carceri che, anche in paesi della regione come Birmania, Filippine, Indonesia e Thailandia, sono sovraffollate. All’inizio del mese, l’Indonesia ha rilasciato circa 30 mila detenuti e altri paesi come l’Iran, la Germania e il Canada hanno adottato misure simili per prevenire i contagi. Human Rights Watch (Hrw) ha richiesto amnistie per i prigionieri nelle Filippine e in Tailandia, dove le carceri ospitano il triplo della loro capienza.