Come topi in gabbia. Detenuti e personale carcerario: condannati al virus? Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2020 Registrazione del dibattito video sulla pagina Facebook del "Centro Donati - I care". Con Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti; Marcello Matté, giornalista, dehoniano e cappellano presso la Casa Circondariale di Bologna; Chiara Giannelli, volontaria de Il Poggeschi per il carcere. "Provate a immaginare oggi di essere rinchiusi in una galera sovraffollata, sentir parlare della necessità di stare almeno a un metro di distanza l’uno dall’altro e sapere che il tuo vicino di branda sta a pochi centimetri da te, in una pericolosa promiscuità dettata dagli spazi ristretti; sentir dire che è un virus che può diventare mortale se attacca persone indebolite dalla malattia e vedere che le persone che hai intorno sono spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e che altre e più gravi patologie coesistono con la detenzione; avere una vita povera di relazioni e vedere dapprima “sparire” tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e poi improvvisamente anche i famigliari. Veder sparire le già poche possibilità di formazione e istruzione e dover riempire le giornate con il nulla e la paura". (Ornella Favero) Link: https://www.facebook.com/centrostudidonati/videos/229486968461671/ Il Dap: le rivolte, l’evasione riuscita e i trasferimenti nonostante il Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2020 Le informative, dell’11 e del 24 marzo, del Dipartimento al Ministro della Giustizia. Nei giorni in cui alcune forze politiche hanno chiesto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di riferire in Parlamento dei fatti relativi alle rivolte scoppiate in circa 50 carceri italiane e dei detenuti morti come conseguenza più tragica, è stata richiesta una informativa urgente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Due sono state le informative rese. La prima risale all’11 marzo, seguita da una relazione integrativa, mentre il 24 marzo è giunta l’informativa aggiornata sempre dal Dap. La prima cosa che salta nell’occhio è che non c’è alcun accenno a una eventuale indagine interna da parte del Dap su eventuali pestaggi subiti dai detenuti coinvolti nelle rivolte. Molte segnalazioni, giunte anche all’associazione Antigone, parlavano di azioni violente che sarebbero avvenute in tutte le carceri interessate, in momenti successivi a quelli in cui sono stati attuati gli interventi per far fronte alle rivolte. “Parallelamente all’azione penale, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria deve avviare subito un’indagine interna urgente che sappia dare un segnale chiaro e mai ambiguo di condanna assoluta del possibile utilizzo della violenza ai danni delle persone detenute”, aveva affermato Patrizio Gonnella di Antigone. Ma almeno dalle informative del Dap inviate al ministero della Giustizia, di questo non c’è alcuna traccia. Molto dettagliato, invece, carcere per carcere, la ricostruzione delle rivolte avvenute tra il 7 e l’11 marzo. Fortunatamente, la stragrande maggioranza degli agenti penitenziari non hanno riportato nulla di grave. Mentre rimane la tragica conseguenze dei 14 reclusi morti. I morti del carcere di Modena - “L’otto marzo 2020, alle ore 13.15 circa, nelle fasi di immissione dei detenuti ai cortili dedicati alla permanenza all’aperto, alcuni ristretti arrampicandosi sulle pareti, sono riusciti a raggiungere il muro di cinta”. Si legge nella relazione del Dap che, vista la situazione, il Comandante di Reparto ha impartito le disposizioni per il contenimento della protesta in atto, attraverso la chiusura di tutti i cancelli di “sbarramento” delle singole sezioni detentive. Nello stesso momento, si sono manifestati disordini in altre sezioni dove alcuni detenuti, armati di estintore e di altri oggetti contundenti, hanno avuto accesso all’interno del “box agenti”. Gli agenti, dotati dei dispositivi di protezione disponibili e degli strumenti antisommossa, hanno tentato di resistere “agli agiti violenti di un sempre maggiore numero di soggetti, provenienti da ogni punto di accesso”. Una parte del personale viene quindi armata con la dotazione d’emergenza e inviata sul muro di cinta, per presidiare i posti chiave e impedire possibili tentativi di evasione. Si legge ancora che un detenuto ha tentato di sottrare l’arma di reparto a un agente di polizia il quale, grazie ad una repentina azione di contrasto, ha scongiurato il peggio. Contemporaneamente altri detenuti hanno tentato di evadere forzando le “porte carraie” e gli accessi alla “portineria centrale”. “Grazie all’intervento del personale presente - scrive il Dap nell’informativa - all’utilizzo di autovetture ed altri mezzi blindati posti a protezione della “porta carrata esterna”, si riusciva a respingere il tentativo di evasione in massa”. Un gruppo di detenuti è riuscito ad accedere all’area sanitaria interna, distruggendo le porte di ingresso agli ambulatori e al deposito dei farmaci, “ove peraltro vi era ancora personale”. Poi c’è tutta la descrizione della rivolta che è degenerata sempre di più, per poi concludersi il giorno dopo. Al carcere di Modena, si legge nella relazione, un agente penitenziario ha riportato una rottura dei legamenti, subita durante le concitate fasi dei disordini. Mentre, riporta sempre l’informativa, “sono deceduti n. 9 detenuti, presumibilmente per ingestione di farmaci, n. 5 presso l’istituto di Modena, n. 4 presso gli istituti di destinazione a seguito del trasferimento (C.C. Parma, C.C. Verona, C.R. Alessandria C.C. Ascoli Piceno)”. Ahmadi Erial, Qtouchane Hafedl, Agrebi Slim, Iuzu Arffiur, Rouan Abdellha, Hadidi Ghazi, sono alcuni nomi dei detenuti morti riportati dal Dap nell’informativa. Così come viene specificato che ulteriori decessi, causati da situazioni analoghe a quelle di Modena, risultano avvenuti presso l’istituto di Rieti (dove il 10 marzo 2020 hanno trovato la morte tre detenuti) e presso quello di Bologna, dove un detenuto - specifica il Dap - risulta deceduto in data 11 marzo. “Allo stato degli elementi finora acquisiti - si legge sempre nell’informativa - può riferirsi che i detenuti avrebbero approfittato del caos determinato dalla protesta per appropriarsi dei farmaci presenti nell’ambulatorio dell’istituto modenese, verosimilmente metadone”. La paura diffusione del contagio con i trasferimenti - Molto interessante la prima informativa, quella dell’11 marzo, dove il Dap sottolinea la difficoltà nei trasferimenti. In sostanza le direzioni delle altre carceri avevano opposto resistenza proprio per il timore che i detenuti potessero veicolare il Covid-19 e contaminare le carceri. Timore che poi si rivelerà effettivamente fondato. “Particolarmente complessa - si legge - fino a questo momento, è risultata l’attività di trasferimento verso altri Istituti penitenziari dei detenuti che hanno preso parte alle rivolte: le principali cause, che hanno ostacolato i trasferimenti, sono collegabili soprattutto alla difficoltà, da parte delle zone meno colpite dalla contaminazione del Covid-19, a ricevere detenuti provenienti in particolare da Modena o dalle zone colpite dalla maggiore diffusione del virus”. Su questo punto tuona Rita Bernardini, l’esponente del Partito Radicale. “Ma come ci si può lamentare - osserva la radicale del fatto che gli istituti penitenziari delle zone meno colpite dal Covid-19 hanno fatto un po’ di resistenza a ricevere i detenuti provenienti dai luoghi a maggiore diffusione del virus? Anziché diminuire il sovraffollamento, in piena pandemia, il ministero della Giustizia ha trasferito centinaia di detenuti (forse migliaia, visto che il ministro Bonafede ha parlato di 6.000 detenuti partecipanti alle rivolte) da una parte all’altra del Paese mettendo a repentaglio la vita di detenuti e detenenti”. Cancelli non protetti e l’unica evasione di massa riuscita - Mentre nel carcere di Bologna (così come a Modena) la polizia penitenziaria è riuscita ad evitare l’evasione grazie al fatto che “constatata l’inattitudine dei cancelli di sbarramento delle sezioni a contenere i detenuti ivi reclusi, per la cedevolezza degli stessi alle violenze dei medesimi - si legge nell’informativa relativa alla protesta del carcere bolognese - il Comandante disponeva la saldatura dei cancelli intermedi presenti, fino al cancello d’ingresso principale”, al carcere foggiano la situazione è andata diversamente. Non c’è stata nessuna azione volta a rafforzare o a proteggere i cancelli come è accaduto nelle altre carceri. Sempre nella relazione si legge che i rivoltosi della casa circondariale di Foggia erano riusciti ad accedere nel piazzale esterno abbandonando così la zona detentiva. “Altri numerosi detenuti - si legge nell’informativa - giungevano nel medesimo piazzale dopo aver sfondato il doppio varco della carraia. La ressa così costituita e formata da oltre 400 detenuti, si impadroniva di tutta l’area”. Dopodiché “un gruppo di circa 100 detenuti si dirigeva verso il primo dei due cancelli di ingresso buttandolo a terra e favorendo in questo modo la fuga verso l’esterno di numerosi detenuti attraverso la porta pedonale temporaneamente aperta per mettere in sicurezza avvocati e alcuni operatori che manifestavano segnali di evidente paura”. A seguito di ciò si era quindi verificata l’evasione di 72 detenuti. Quasi tutti sono stati ripresi. Due li hanno riarrestati due giorni fa. Manca all’appello solo Cristoforo Aghilar, 36enne, che nell’ottobre scorso ha ucciso la mamma dell’ex fidanzata. Covid-19, la nuova ideona di Gratteri: riapriamo le vecchie caserme di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 aprile 2020 Contro il sovraffollamento delle carceri ogni giorno ne pensa una, l’unica cosa che non pensa è che si possano mandare ai domiciliari i detenuti. Lo ha fatto anche il regime iraniano. Sa bene che c’è una polveriera pronta a esplodere e che si chiama carcere. Quel luogo chiuso che ospita 57.000 prigionieri, di cui 10.000 sono di troppo, perché per loro c’è solo posto in piedi. Quel luogo dove pure ogni giorno entrano ed escono per motivi di lavoro 30.000 persone e che l’ex ministro di giustizia Andrea Orlando ha definito “bombe epidemiologiche”. Sa tutto questo Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. Lo sa e se ne preoccupa. Non perché sia compito suo, non essendo lui né il ministro guardasigilli e neanche il titolare della salute, cui spetta il dovere di porre rimedio a tutti i pericoli per la salute dei cittadini quando scoppia un’epidemia, soprattutto se contagiosa come il Covid-19. Non è compito suo, ma lui dà consigli e cerca soluzioni. Come prima cosa ha pensato a tranquillizzare i detenuti delle carceri milanesi: state sereni, ha loro mandato a dire, che si sta meglio a San Vittore e Opera piuttosto che in piazza Duomo. In seguito ha fatto sapere che lui risolverebbe il problema del sovraffollamento costruendo nuove carceri. Idea non del tutto originale, già suggerita, anche in sede politica, da tutti coloro che non vogliono affrontare il problema, neanche nei momenti, come quelli di questi giorni, in cui nei luoghi ristretti si rischia la vita. In sei mesi ne costruirei quattro, ha buttato lì il procuratore. Non pare aver avuto molto ascolto, anche perché il virus nel frattempo cammina e non aspetta i tempi dei procuratori e neanche dei progettisti di nuove carceri. Così, pensa e ripensa, e non arrendendosi neppure alle timidissime e un po’ imbroglionesche proposte del governo per mandare qualcuno ai domiciliari, ha estratto l’ennesimo coniglio dal cappello. Si è ricordato che esistono degli istituti di pena con sezioni vuote, e dimenticando che se sono state svuotate esistevano ragioni del tipo necessità di ristrutturare oppure mancanza di personale addetto, ha pensato di farle riaprire. Come se bastasse una bacchetta magica. Ma non è sufficiente, ancora. Ideona: ci sono in Italia circa 1.500 caserme ormai vuote da quando non esiste più il sistema di leva obbligatoria. Buttiamoli lì, i reclusi in eccesso! Quasi come se si trattasse di materiale avariato da mandare al macero. Possibile che a un magistrato esperto come il dottor Gratteri sfugga il fatto elementare che se il “distanziamento sociale” pare il più efficace strumento per affrontare, in assenza di terapie e di vaccino, il Covid-19 e impedire il contagio, questo non è applicabile in celle con dieci detenuti? Gli dice niente il fatto che in tutto il mondo, ieri persino in Iraq dopo la Turchia, siano mandate a casa, anche provvisoriamente, decine di migliaia di prigionieri? Visto che il procuratore di Catanzaro parla a reti unificate più di Mattarella e tutti, buon ultimo Famiglia Cristiana, gli chiedono interviste, non potrebbe cogliere l’occasione per sviluppare qualche ragionevole pensiero? L’articolo 123 del decreto Cura Italia, che prevede la possibilità di detenzione domiciliare per gli ultimi diciotto mesi di pena, pare costruito appositamente per non essere applicato, visto che ne ha condizionato l’esecuzione ai braccialetti elettronici. E i 4.700 ordinati fuori tempo massimo a Fastweb dal neo commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, saranno disponibili solo alla fine di maggio. E nel frattempo? Se uno di questi giorni si accendesse all’improvviso il famoso fiammifero nel pagliaio? Neanche l’accorata preghiera di papa Francesco durante la via crucis è stata ascoltata. Il più sordo, insieme al procuratore Gratteri, rimane tuttora il ministro Bonafede, che ha risposto in modo quasi clandestino alla richiesta della Commissione europea dei diritti dell’uomo che chiedeva all’Italia come intendesse provvedere a evitare il contagio nelle carceri. Non è dato sapere che cosa ha scritto. Ma occorre ricordargli sempre la raccomandazione principale dell’Organizzazione mondiale della sanità: prima di tutto garantire il “distanziamento sociale”. Come intende garantirlo il Guardasigilli nelle nostre carceri? Aspetta proprio che la polveriera esploda, o chiede consiglio al dottor Gratteri? Che cosa stupida la galera, figlia del rancore di Gioacchino Criaco Il Riformista, 17 aprile 2020 Il carcere è un tempo dilatato, stecche di balena a sostenerlo e ossa di topo a contarne le articolazioni infinite. I secondi si spaccano come le molliche di formaggio nella cagliata spinte dal mestolo di un infaticabile pastore. Si espande il gorgoglio del caffè dentro la moka per una colazione che dura quanto due pranzi. Ore infinite sono gli spruzzi sotto la doccia. L’ora d’aria ha la consistenza di giorni d’autunno rinvigoriti dalla nebbia. La galera non è una quarantena, è l’esilio peggiore dal mondo, da qualunque mondo. Una mancanza assoluta di abbracci vissuta fra gli estranei, un fiato che si mischia al puzzo di altri fiati senza vento alle finestre e senza luce attraverso vetri incrostati dalla polvere del dolore. Si sta chiusi per scontare i germi di una malattia più grave di qualunque infezione, non si fugge per sfuggire al morbo ma si sta inchiodati al muro per beccarsi le frustate di tutti i mali di un’umanità che è ancora in fuga, non si sa quando si troverà, se avrà il tempo di trovarsi. In galera non si è più sicuri dal male, si è dentro il male continuamente, si è in una febbre cronica che sa solo alzarsi, che resterà nelle ossa dei carcerati per sempre. In galera la disperazione peggiore non è la colpa di avere sbagliato, ma la visione limpida di una società che non ha pietà per chi sbaglia, non di te che stai sottochiave, ma di sé stessa. Una società che si lascia trascinare da maestri del rancore che vivono, o credono di farlo, senza bisogno di carezze perché ne disconoscono il sapore, e non le negano per punire ma solo perché non le hanno mai date, mai avute, e camminano fino alla fine lungo l’infinito corridoio di un carcere, consapevoli di non saper essere liberi. La galera è una quarantena arredata senza i mobili che hai scelto tu, senza le foto in cui sei uscito meglio attaccate sui muri, senza i capricci dei tuoi figli, le litigate col tuo partner. La galera non è una quarantena che finirà quando l’altoparlante dalla strada strillerà che il pericolo è passato. Carceri, situazione esplosiva di Elio Romano Belfiore* Gazzetta del Mezzogiorno, 17 aprile 2020 È noto come il Parlamento europeo, nell’ambito delle proprie competenze, faccia ormai da tempo pressing sull’Italia alfine di garantire-più di quanto il bel Paese non abbia fatto finora - i diritti delle persone private della libertà personale e combattere la piaga del sovraffollamento delle carceri. Diciamolo senza tanti giri di parole: nel vecchio continente siamo tra gli ultimi per il trattamento riservato a coloro che hanno la sventura di varcare la soglia dei nostri istituti di pena. Lo testimoniano le numerose sentenze di condanna inflitte all’Italia dalla Cedu, la mancanza di “spazio vitale” nelle celle, i trattamenti “inumani e degradanti” cui i carcerati sono spesso sottoposti, i tempi insopportabilmente lunghi della giustizia penale prima che si arrivi ad una sentenza definitiva, il numero eccessivamente vergognoso di detenuti in attesa di giudizio. L’esplosione del Covid-19 ha fatto il resto, rendendo incandescente una situazione già di per sé altamente drammatica. È evidente che i provvedimenti finora messi in campo dal Governo si sono rivelati insufficienti. Ce lo dicono i dati. Chi ha la possibilità di beneficiare di misure alternative al carcere ha un tasso di recidiva assolutamente inferiore rispetto a coloro che sono costretti a scontare la pena interamente dietro le sbarre. Per non parlare del “contagio criminale” cui specialmente i giovani detenuti sono esposti e sul quale più volte hanno posto l’accento i rappresentanti dell’avvocatura, i magistrati di sorveglianza, i garanti dei detenuti, i sindacati dei lavoratori della polizia penitenziaria, oltre che presidenti emeriti della Corte costituzionale e lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Giovanni Fiandaca, prendendo spunto dalla notizia del primo detenuto morto a Bologna per coronavirus, ha sottolineato: “Le condizioni di vita carcerarie e la prossimità tra i detenuti sono fattori che possono agevolare il contagio fino a portate alla morte dei soggetti più anziani. Fattori che potrebbero fungere da moltiplicatori nella realtà esterna”. Chi ha guardato in diretta televisiva il rito della Via Crucis in una Piazza San Pietro deserta non può non essere rimasto colpito dalla presenza di un ergastolano già sottoposto al regime del 41bis; presenza che richiama tutti a riflettere sull’importanza del rispetto del “fine rieducativo della pena” quale principio costituzionale fortemente voluto da un penalista e statista del calibro di Aldo Moro. Fino ad oggi il Ministro della giustizia non ha ascoltato le proposte per migliorare i provvedimenti fin qui adottati. Dopo settimane di silenzio il Presidente del Consiglio in un’intervista all’Osservatore Romano ha dichiarato che il problema carceri è una delle priorità di questo Governo. Staremo a vedere, anche perché la situazione è davvero esplosiva. *Ordinario di Diritto Penale al Dipartimento di Giurisprudenza Università di Foggia Il Cnf scrive al governo: “Garantire i diritti ai deboli, senzatetto e migranti” di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 aprile 2020 Il Consiglio Nazionale Forense interviene di nuovo in difesa dei soggetti deboli e vulnerabili e lo fa con una delibera, inviata al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e al presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, Fabrizio Petri. “In questo periodo di emergenza per la pandemia da virus Covid-19 occorre tutelare i diritti fondamentali delle persone maggiormente vulnerabili, tra cui i senza fissa dimora, coloro che vivono in accampamenti informali o ripari di fortuna ed i richiedenti asilo”, scrive il Cnf, sottolineando come “la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, con dichiarazione del 26 marzo 2020, ha chiesto a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa “di rivedere la situazione dei richiedenti asilo respinti e dei migranti irregolari in centri di detenzione e di procedere al loro rilascio nella massima misura possibile”, e con successiva dichiarazione del 7.4.2020 ha chiesto ai governi di assicurare l’accesso all’acqua ed ai dispositivi igienico-sanitari essenziali senza discriminazioni per i Rom e i Sinti che vivono in accampamenti informali”. Per questa ragione, dando applicazione all’articolo 32 Costituzione tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo, il Cnf ha formalmente chiesto al governo di “adottare, con urgenza, ogni ulteriore misura necessaria per garantire il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione, evitando il propagarsi della pandemia da virus Covid-19, alle persone vulnerabili tra cui, i senza fissa dimora e coloro che vivono in accampamenti informali o ripari di fortuna, assicurando loro un alloggio, l’accesso alle cure mediche ed al sostegno socio- assistenziale e l’accesso all’acqua ed ai servizi igienico sanitari, ed ai richiedenti asilo, nell’ambito dei centri di prima accoglienza (Hotspot) e delle strutture di accoglienza (Cas, Cara, Siproimi) ed alle persone soggette a trattenimento nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), garantendo loro la dotazione di dispositivi di protezione personale, la sanificazione dei locali dove sono trattenuti, l’esercizio effettivo del diritto alla difesa ed i colloqui con gli avvocati”. L’iniziativa è stata presa nell’ambito di un pacchetto di misure promosse dall’organo istituzionale dell’avvocatura in difesa dei soggetti più vulnerabili: il Consiglio, infatti, ha già preso posizione a tutela delle donne vittime di violenza, aderendo alla campagna di comunicazione e sensibilizzazione “Libera puoi” promossa dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e sostiene gli emendamenti proposti dalla Commissione parlamentare sul femminicidio. Nei giorni scorsi, il Cnf ha anche aderito al Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione, “ritenuto che il Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione valorizza il ricorso ai procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita, assolutamente indispensabili nella presente fase storica per la rinascita economica del Paese, quali strumenti insostituibili per la riattivazione della comunicazione interrotta fra le parti del conflitto, esaltandone l’autonomia, la consapevolezza e la responsabilità”. Inoltre, ha condiviso proposte di emendamento al D.L. n. 18/20 elaborate in seno al Tavolo Tecnico Ministeriale sulle procedure stragiudiziali in ambito civile e commerciale, in quanto “l’emendamento relativo alla mediazione da remoto coincide nella sostanza con quanto proposto da questo Consiglio con analoga proposta emendativa” e “gli emendamenti relativi agli incentivi fiscali alla mediazione e all’art. 91 (preventivo esperimento della mediazione in materia di obbligazioni contrattuali) perseguono il condivisibile scopo di favorire il ricorso alle procedure alternative per la definizione delle controversie in questo particolare periodo emergenziale”. Infine, il Cnf si è rivolto a tutti i consigli degli ordini degli avvocati italiani in merito alla possibilità di mettere gratuitamente a disposizione degli Ordini una piattaforma per consentire la formazione da remoto degli iscritti. Per questo, il Cnf ha chiesto a ogni ordine di manifestare l’eventuale interesse a usufruire della piattaforma, in modo da conoscere le esigenze di ogni territorio. I diritti, una variabile dipendente dei delitti... di Piero Sansonetti Il Riformista, 17 aprile 2020 Pm, prefetti, ministri, hanno una idea tutta loro su come deve funzionare una società. L’idea di una parte dei Pm italiani è molto semplice. Una società si organizza dando delle priorità. La priorità assoluta è punire i colpevoli. Lo Stato serve a questo, l’etica è questa, è questo, in fondo, il fine della vita. Per capire chi sono i colpevoli ci sono, appunto, gli stessi Pm. I quali sulla base dei loro idee, o congetture, o sulla base di qualche soffiata, o di qualche intercettazione, o anche di una lettura attenta dei giornali, li individuano e mandano loro un avviso di garanzia. La parola garanzia, per questi Pm, sta a significare “garanzia di colpevolezza”. Da quel momento in poi è anche possibile che il colpevole si divincoli e ottenga una assoluzione, ma questo - come è noto - non determina la sua non colpevolezza ma semplicemente certifica il fatto che l’ha fatta franca. Resta colpevole. Se un Pm gli ha mandato un avviso di garanzia evidentemente non è innocente, altrimenti il Pm non glielo avrebbe mandato. Ci sarà pure una differenza tra chi ha ricevuto un avviso di garanzia e chi non lo ha ricevuto. Questo ce lo dice il buonsenso, non c’è bisogno di aver studiato tanto diritto. Studiare troppo diritto è inutile e dannoso. Non a caso è una pratica alla quale sono molto affezionati soprattutto gli avvocati. I Pm meno. Una volta che si è stabilito che i Pm cercano i colpevoli e li scovano, poi si può procedere a tutto il resto. Per esempio, si può anche affrontare la questione economica e persino - talvolta - la questione dei diritti. Il problema dell’economia italiana è uno solo: evitare che i colpevoli possano partecipare alla partita economica. Libero mercato, statalismo, liberismo, socialismo, keynesismo: tutte chiacchiere da lestofanti. Il problema dell’economia è evidentemente un problema essenzialmente giudiziario. È bene che imprenditori, lavoratori e economisti non si occupino di queste cose: devono occuparsene i Pm con l’aiuto, eventualmente, di qualche prefetto. Su questo punto spesso i prefetti sono d’accordo coi Pm. Anche quando diventano ministri. La ministra Lamorgese, l’altro giorno, ha concordato coi Pm ed è andata oltre le ipotesi di Di Matteo e Gratteri (che guidano da tempo questa squadra di Pm, e la guidano dalle colonne dei giornali e dagli schermi della Tv). Gratteri e Di Matteo propongono di avere un controllo dei Pm sui prestiti alle aziende mentre la ministra, sembra di capire, ha idea di affidare ai Pm anche la distribuzione dei 600 euro di aiuto a chi resta in mezzo a una strada. La ministra, suppongo, pensa che se resta in mezzo a una strada un individuo sospetto è bene che resti in mezzo a una strada senza sussidio. E qui arriviamo alla questione dei diritti. I diritti sociali, ad esempio, non possono essere universali. Il sussidio a un indagato è immorale. L’indagato se è rimasto senza una lira in tasca è bene che muoia di fame. Non è stato ancora detto che un indagato, così come non ha diritto al sussidio, potrebbe essere escluso anche dall’assistenza sanitaria. Se un medico si trova in corsia con un non indagato e un indagato è bene che dia priorità al primo, quantomeno. Poi vedremo se il secondo può o no, in seconda battuta, ricevere assistenza anche lui. Forse è meglio negargli l’assistenza, altrimenti i diritti diventano una scusa per diffondere la corruzione e la mafia. Processo da remoto: “Prendiamo il buono e mettiamolo a sistema” di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 aprile 2020 Una parte dell’avvocatura, gli Ordini per primi, cerca gli strumenti per governare la nuova realtà telematica. Dubbi sì, ma anche la consapevolezza che il processo in videoconferenza sia un “male” necessario in questa fase di emergenza e possa insegnare qualcosa per il futuro. Accanto al fronte compatto capitanato dall’Unione camere penali italiane, che mette in guardia contro le storture e i rischi del processo da remoto, esiste anche una parte di avvocatura che sta cercando di adattare il proprio lavoro ai nuovi strumenti. I presidi di aiuto ai colleghi, nella maggior parte dei casi, sono gli Ordini territoriali. Non a caso la situazione è stata riassunta in questi termini dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo: “Stiamo vivendo un momento storico impegnativo - ha spiegato qualche giorno fa al Corriere della Sera - che prepotentemente ci impone cambiamenti di abitudini e un nuovo modo di concepire la quotidianità. La rivoluzione digitale si fa strada nell’emergenza. A noi il compito di intercettare il buono che ne deriva e canalizzarlo per crescere professionalmente e isolare le criticità. L’importanza dunque della formazione in questo momento diviene cruciale; ci consentirà di individuare nuove competenze, spunti di riflessione e tracciare nuove strade. Ritengo che il compito dell’avvocato e di un’istituzione come l’Ordine sia di vigilare e indirizzare il futuro con il quale già oggi iniziamo a confrontarci”. Proprio l’Ordine di Milano ha già organizzato corsi di formazione per gli iscritti e sposato la filosofia di provare a governare i processi che l’emergenza sanitaria ha attivato: “Fare l’avvocato da casa è una delle sfide che questa emergenza ci sta proponendo. Decidiamo di considerarla un’opportunità che potrà rendere il nostro lavoro più agile. Anche in futuro”, si legge sulla pagina web dell’Ordine. In molti, soprattutto civilisti, ricordano spesso nei gruppi di confronto sui social - dove oggi, complice il lockdown, è concentrata una parte del dibattito tra professionisti - come la stessa avversione che si percepisce oggi per il processo a distanza montò anche nel 2014, con l’avvio del Processo civile telematico. Anche all’epoca, dubbi e ritrosie erano stati forti, ma oggi proprio il Pct, oggi ormai realtà consolidata, può diventare una sorta di prototipo (soprattutto per il settore penale) da cui attingere il meglio e imparare dagli errori. In ambito civilistico, alcuni approfondimenti sul tema sono stati proposti dalla Fiif (Fondazione Italiana per l’innovazione Forense), i cui membri Giovanni Rocchi e Giuseppe Vitriani hanno sottolineato alcune mancanze (la difficoltà nella produzione delle prove e nel deposito degli atti), ma, pur riconoscendo che “L’emergenza probabilmente non consentiva interventi di maggior portata, che peraltro avrebbero anche richiesto oneri formativi non da poco”, hanno evidenziato come “si sia comunque segnato un passo in avanti in ottica digitale. La speranza è che il passo successivo possa essere quello di ripensare il processo abbandonando l’idea di trasporre il rito cartaceo sul digitale”. Se l’auspicio di tutti sembra essere un ritorno alla normalità nel minor tempo possibile, dunque, esiste però lo sprone ad immaginare come uno strumento emergenziale - se affinato e soprattutto bilanciato con le ragioni del diritto di difesa - possa trasformarsi in prassi virtuosa anche in futuro, per far fare alla giustizia italiana un salto qualitativo in termini di efficienza, nell’interesse dei cittadini. Donne e violenza, è allarme: “Boom di richieste d’aiuto” di Giulio Isola Avvenire, 17 aprile 2020 L’hanno trovata in un dirupo. Senza vita. Anche ai tempi del coronavirus non si ferma la mano criminale. Maria Angela Corona, 47 anni, è stata trovata senza vita tra le sterpaglie lungo la strada provinciale di Bagheria, nel Palermitano. Era sparita da due giorni: le ricerche dei carabinieri erano partite dopo la denuncia di scomparsa da parte del compagno che ieri è stato interrogato dai Carabinieri. Sul corpo della donna sono stati trovati ematomi e segni tipici riconducibili allo strangolamento ma al momento nessuno formula ipotesi. Intanto si parte dal racconto del compagno della donna, 20 anni più anziano di lei, che, al momento però sarebbe estraneo all’omicidio. Si indaga anche nei difficili rapporti tra Maria Angela e i suoi familiari e sulle frequenti tensioni che potrebbero essere sfociate in un violento litigio finito nel peggiore dei modi. Intanto è sempre più drammatica la condizione delle donne, costrette a vivere col proprio “aguzzino” a causa del lockdown. La rete Dire (Donne in rete contro la violenza) conferma che dal 2 marzo al 5 aprile sono in tutto 2.867 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza, con un incremento del 74,5% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Mentre sono in calo le prime richieste d’aiuto di donne “nuove” (che si ferma al 28% delle richieste d’aiuto ricevute), che non si erano mai rivolte prima a un centro antiviolenza. “Ben oltre 1.200 donne in più si sono rivolte ai centri antiviolenza D.i.Re in poco più di un mese, rispetto alla media annuale dei contatti registrata nell’ultima rilevazione”, nota Paola Sdao, che con Sigrid Pisanu cura la rilevazione statistica annuale della rete D.i.Re, “un dato che conferma quanto la convivenza forzata abbia ulteriormente esacerbato situazioni di violenza che le donne stavano vivendo”. Ma a preoccupare sono soprattutto le nuove richieste, che un anno fa si attestavano al 78% del totale delle donne accolte. “E di queste solo il 3,5 per cento sono transitate attraverso il numero pubblico antiviolenza 1522”, segnala ancora Sdao. La rete che aiuta le donne punta il dito contro i fondi sbloccati da un anno ma non ancora assegnati. “Oggi, ancora in piena emergenza, siamo nella stessa situazione di 53 giorni fa, quando si è registrato il primo decesso per Covid. Nonostante avessimo chiesto risorse straordinarie e le necessarie protezioni per gestire l’accoglienza, i centri antiviolenza e le case rifugio hanno dovuto nella maggior parte dei casi provvedere in autonomia a mettersi in sicurezza e a reperire alloggi di emergenza”, fa notare la Presidente di D.i.Re. “I fondi del 2019 sbloccati dal Dipartimento Pari Opportunità il 2 aprile devono ora transitare per le Regioni: ad oggi nessuna Regione risulta essersi attivata”, denuncia Veltri. “Inoltre non si tratta di risorse aggiuntive, ma di risorse destinate a fondamentali attività aggiuntive, quali la formazione e l’inserimento lavorativo delle donne, che ora verranno meno”. Ma ci sono anche i 3 milioni annunciati con il Cura Italia, “irrisori”, sottolineano dalla rete, rispetto ai bisogni dei centri. “Non siamo ancora fuori dall’emergenza”, conclude Veltri, “e ora che si sta avvicinando il momento della riapertura del Paese nessun intervento è stato previsto per affrontare la situazione mentre le richieste di supporto potrebbero aumentare ancora, come è già successo in Cina. Il governo deve assolutamente cambiare strategia”. Bancarotta fraudolenta, sì ai servizi sociali per l’imputato ultraottantenne di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2020 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 16 aprile 2020 n. 12324. Il giudice non può negare l’affidamento in prova ai servizi sociali al posto dei domiciliari al condannato, ultraottantenne, per bancarotta fraudolenta solo in assenza di una riparazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 12324, accoglie il ricorso contro il no alla domanda per il servizio sociale, malgrado l’assenza di precedenti penali e l’attività di collaborazione aziendale da parte dell’imputato. Ad avviso della difesa era stata valorizzata solo la mancata riparazione e non era stato invece valutato che il danno cagionato ai creditori, con una distrazione di 750 mila euro, non superava il valore dei beni in sequestro e liquidati a titolo di provvisionale. Il tribunale aveva inoltre considerato troppo blande le prescrizioni correlate alla misura richiesta dal ricorrente e, dunque, non grado di assicurare la rieducazione e la prevenzione. Di parere diverso la Suprema corte. Per i giudici di legittimità, infatti, la misura alternativa ai domiciliari doveva essere concessa, in assenza di indicatori di una pericolosità sociale attuale, né si poteva escludere, come aveva fatto il tribunale, la funzionalità rieducativa del servizio sociale. Dirimente poi, il fatto che la volontà della legge non è quella di subordinare la concessione delle misure alternative al risarcimento. Principio che resta fermo malgrado la presenza sul punto di precedenti contrastanti e, comunque non, condivisibili. Esercizio abusivo dell’attività per il consulente tributario di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2020 Indicare sulle fatture l’iscrizione all’associazione nazionale dei consulenti tributari non salva dal reato di esercizio abusivo della professione di commercialista, se le prestazioni invadono la sfera riservata agli iscritti all’Albo. La Cassazione, (sentenza 12282/2020) respinge il ricorso contro la condanna per il reato, previsto dall’articolo 348 del Codice penale. Nel mirino dei giudici è finito il lavoro svolto dalla consulente per due società, che andava dalla tenuta della contabilità alle dichiarazioni fiscali, dalla predisposizione dei modelli di pagamento, alle verifiche delle imposte. A questo si aggiungeva un compito di rappresentanza nei rapporti con Equitalia e agenzia delle Entrate. Funzioni, svolte con continuità e organizzazione che - specifica la Corte - pur non essendo esclusive di una professione rientrano nella competenza specifica dei dottori commercialisti ed esperti contabili. Dunque, off-limit per il non iscritto all’Albo, a prescindere dal consenso e dalla consapevolezza del cliente che la prestazione non è eseguita da un abilitato. Un principio, ricorda la Suprema corte, ribadito anche dalla sentenza 33464/2018, in un caso di tenuta della contabilità aziendale con consulenza di lavoro. Nello specifico non basta la presenza delle “indicazioni diverse”, invocate dalla difesa. L’imputata, riteneva di poter svolgere il lavoro perché nelle fatture che rilasciava era, specificato “consulenze di direzione-legale rappresentante iscritto all’Ancot”. Questo senza riportare mai il titolo di commercialista. Ad avviso della ricorrente le cautele, che provavano anche la buona fede, erano adeguate - come riconosciuto in parte dal Tribunale - a integrare quella “chiara indicazione diversa” che basta a escludere il reato. Per la Cassazione però, l’esplicitazione dell’assenza di un’abilitazione, che andrebbe comunque fatta su un piano generale e oggettivo, e non nell’ambito dei rapporti interpersonali, non è una scriminante. Non passa neppure la richiesta delle attenuanti generiche, negate per il lungo periodo di tempo nel quale si era esercitata la condotta illecita. Confisca solo se l’imputato è pericoloso e la somma deve tenere conto del condono di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 16 aprile 2020 n. 12322. La pericolosità non attuale dell’imputato e una somma non quantificata in maniera precisa annullano la possibilità di procedere alla confisca nei confronti dell’imputato. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 12322/2020. La misura cautelare reale era voluta dalla Procura che aveva appellato la sentenza di merito in funzione della sproporzione dei redditi di un soggetto rispetto al reddito del proprio nucleo familiare. Richiesta della Procura. La Procura peraltro ha evidenziato che la restituzione nel 1992 di tutti di beni oggetto di sequestro non era di ostacolo all’applicazione della confisca in funzione dei cambiamenti in diritto derivanti dall’introduzione della confisca disgiunta all’interno del Codice antimafia. Il tribunale non aveva proceduto alla confisca per la non pericolosità del soggetto che non era attaccabile nemmeno sul fronte dell’evasione fiscale vista l’adesione al condono n. 413/1991. La Procura ha eccepito come la reale pericolosità del soggetto fosse riferibile al periodo 1961/1984. Tuttavia si parlava di contatti e frequentazioni intervenute con soggetti autori di altri sequestri di persona o su mere presunzioni relative alla movimentazione non giustificata di somme di denaro. La Cassazione ha chiarito che per procedere alla confisca è necessario che il giudice della prevenzione debba individuare il momento iniziale della richiamata pericolosità, al fine di sostenere la correlazione con l’acquisto di beni. Si trattava di una tipologia particolare di confisca che si atteggiava quasi a confisca pertinenziale del nesso di derivazione del profitto illecito da una ben determinata fattispecie. Conclusioni. Si legge nella sentenza che la confisca al più poteva essere effettuata attraverso un’affidabile quantificazione della somma evasa detratto l’importo versato in sede di condono e successivo “dimensionamento” della medesima sul valore degli investimenti realizzati in epoca posteriore all’anno 1992, nei limiti dunque di un’affidabile ricostruzione di pertinenezialità. La libertà (almeno) di essere esseri umani di Fabrizio Schirripa Left, 17 aprile 2020 Sono un medico, aspirante specializzando in psichiatria e lavoro presso uno degli istituti penitenziari più grandi e importanti del Lazio. Ho avuto modo di leggere gli articoli comparsi su Left in merito alla situazione delle carceri in Italia. Ho sentito l’esigenza di scrivere questo messaggio per raccontare la mia realtà, il racconto di chi il carcere lo vive da dentro, da chi tutti i giorni entra a contatto con una realtà che da fuori può soltanto essere immaginata. Una realtà amara, nella quale molto spesso viene persa ogni possibilità di cura intesa come dovrebbe essere; cura dell’essere umano, in tutti i suoi aspetti fisici e psichici. Aleggia sempre l’idea di fondo che il detenuto, qualsiasi reato egli abbia commesso, non meriti le attenzioni o anche solo l’interesse umano, volto a migliorare la sua condizione. Riprendendo quello che è stato scritto nell’articolo di Massimo Ponti sull’ultimo numero di Left, è doveroso secondo me aggiungere che prima di arrivare a parlare di esigenze e di cura per il benessere mentale, bisogna farsi carico della soddisfazione dei bisogni primari, primo fra tutti la cura rapida ed efficace delle malattie del corpo. Visito tutti i giorni decine e decine di detenuti, a volte per richiedere un esame, un accertamento diagnostico, una visita specialistica passano anche intere settimane e non solo per mancanze strutturali, Si cerca di accontentare i detenuti per quel che si può (o per quel che si vuole) cercando di mantenere gli equilibri necessari, fino a che poi non entra in gioco qualcosa che rompe questi equilibri, come è successo con il dilagarsi della pandemia da Covid-19 arrivata fino a dentro le mura dei penitenziari, scatenando rivolte e tutto quello che ci è stato proposto dai media. Per chi come me ha un’idea e un interesse verso gli esseri umani che è molto distante da questa realtà è difficile continuare a vedere certe cose, ed è molto dura cercare di cambiare qualcosa soprattutto quando ti ritrovi da solo a farlo. Molti hanno commesso reati anche spregevoli è vero, ma rimangono esseri umani. E se è vero che pagano i loro reati con la privazione della loro libertà personale, la libertà di essere esseri umani quella non gliela deve togliere nessuno. Trovare spazi per i detenuti di Arrigo Cavallina L’Arena di Verona, 17 aprile 2020 È difficile, con le competenze e le informazioni di un cittadino medio, prendere posizione nel palleggiamento di responsabilità su tutto quanto andava e va fatto per contrastare il virus, in generale e in particolare nelle carceri: tra Governo, Regioni, Enti locali, Aziende sanitarie, Amministrazione penitenziaria, Magistratura e così via. Mi trovo però completamente d’accordo con l’assessore Bertacco (L’Arena del 14 aprile) almeno sul punto che il Governo, apparentemente succube del ministro della Giustizia Bonafede, abbia sottovalutato se non ignorato il rischio gravissimo di contagio nelle carceri e abbia adottato provvedimenti totalmente al di sotto delle necessità e del buon senso. Malgrado le vivaci raccomandazioni provenienti da ogni ambito informato: dalle Camere dell’avvocatura penale al Consiglio superiore della Magistratura, dai docenti di diritto penale alle organizzazioni di volontariato, dal personale che in carcere lavora e perfino dalla voce più alta e autorevole, del Papa. Tutti a far presente che il sovraffollamento costringe a non rispettare le indicazioni per noi obbligatorie della distanza minima e che in poche carceri si potrebbero aprire reparti di quarantena. Mentre quasi un terzo dei detenuti sono tecnicamente innocenti in attesa di giudizio definitivo e quasi un terzo dei condannati ha ancora da scontare meno di due anni. Ci sarebbero cioè le condizioni per uno sfoltimento che non rappresenti la minima minaccia alla sicurezza sociale, anzi verrebbe privilegiata la sicurezza sanitaria a vantaggio non solo dei detenuti usciti o rimasti, ma dello stesso personale costretto ad avere con loro contatti, e di noi tutti per il rischio di propagazione. Invece il Decreto governativo prevede lo spostamento ai domiciliari solo per chi ha un residuo di pena inferiore ai 6 mesi, e i domiciliari con braccialetto elettronico per chi ha fino a 18 mesi. E qui la farsa del braccialetto, che non c’è, ma c’è in quanto annunciato, cioè in quanto ci sarà. Su tempi che non credo si potrà convincere il virus a rispettare. E ancora l’impossibilità di uscire, anche per chi avrebbe i requisiti tranne quello fondamentale di un luogo dove abitare e rinchiudersi. In conclusione, siamo ancora con 5.000 detenuti in più rispetto ai posti teoricamente disponibili; il contagio è in piena diffusione con numeri che sono già diventati ingestibili. E meno male che, con inqualificabile ritardo, si stanno finalmente consegnando gli strumenti assolutamente necessari (mascherine, guanti, occhiali, tute, disinfettanti). C’è però almeno una notizia confortante: la parte che potremmo chiamare buona dell’Amministrazione penitenziaria (la Cassa Ammende, presieduta dall’ex magistrato Gherardo Colombo, e la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna) hanno deciso due programmi d’intervento per finanziare le strutture che ospiteranno detenuti privi di abitazione propria e quindi altrimenti esclusi dalla detenzione domiciliare. Si tratta di cifre che non consentono speculazioni, ma che riconoscono e compensano almeno la buona volontà. Programmi di questo impegno richiedono una ricognizione delle risorse territoriali, comunali e di altri enti (penso in primo luogo a Caritas) e un coordinamento che credo solo l’Ente locale può svolgere. Mi sembra molto apprezzabile la disponibilità che l’assessore Bertacco dichiara, anche a trovare siti alternativi. Non dovrebbe trattarsi solo di spazi per detenuti positivi al virus, ma anche di spazi per consentire lo spostamento in detenzione domiciliare di un numero di persone tale da lasciare il carcere in condizioni di rispetto della normativa comune e di relativa sicurezza, per i detenuti e per tutto il personale che ci lavora. Toscana. Progetto di inclusione per detenuti senza fissa dimora di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 17 aprile 2020 L’Ufficio interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Toscana e l’Umbria ha indetto un’istruttoria pubblica per realizzare interventi di supporto abitativo e di sostegno all’inclusione sociale di detenuti che non dispongono di un domicilio effettivo e idoneo e che risultano ammessi a misure alternative. L’obiettivo è incrementare il numero di persone ammesse all’esecuzione della parte finale della pena all’interno del domicilio, anche per tutelare la salute dei detenuti durante l’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di Covid-19. Ogni ente interessato deve poter accogliere nella propria struttura detenuti provenienti da qualsiasi istituto penitenziario. Le proposte dovranno pervenire entro le ore 24 del 29 aprile 2020 esclusivamente all’indirizzo PEC prot.uepe.firenze@giustiziacert.it. Nell’ambito del budget complessivo, l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna corrisponderà agli enti selezionati un contributo finanziario di 20 euro giornalieri (finanziamento Dgepe) più € 5,00 (finanziamento Uiepe) per un totale di 25 euro al giorno per un periodo di sei mesi per ciascuna persona accolta, nel limite della disponibilità finanziaria prevista. Il progetto promosso dall’Ufficio interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Toscana e l’Umbria arriva dopo quelli realizzati dai Direttori degli altri Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna con l’obiettivo di accogliere detenuti con poche risorse, che risultano in possesso dei requisiti per l’accesso alle misure alternative e favorirne così il graduale reinserimento sociale. Link al bando: www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_4_1.page?contentId=SBG265687&previsiousPage=mg_2_21 Abruzzo. Coronavirus, il presidente della Regione firma ordinanza per le carceri rete8.it, 17 aprile 2020 Nell’Ordinanza numero 38 sono state disposte misure straordinarie per il contrasto ed il contenimento sul territorio regionale della diffusione del virus Covid-19 nell’ambito delle strutture penitenziarie e dei servizi territoriali afferenti alla giustizia minorile della Regione Abruzzo. L’Ordinanza dispone l’applicazione sul territorio regionale del Modello organizzativo per la gestione dell’emergenza Sars Cov-2, siccome definito dalla Task Force Sanitaria coordinata dal Referente Sanitario Regionale, di concerto con il Il Presidente della Regione Dipartimento Sanità della Giunta Regionale, le UU.OO. di Medicina Penitenziaria delle Asl della Regione Abruzzo, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Lazio, Abrzzo e Molise, il Centro per la Giustizia Minorile di Lazio, Abruzzo e Molise ed il Garante dei detenuti della Regione Abruzzo. Torino. Coronavirus: morto paziente in una Rems, altri 3 hanno sintomi febbrili adnkronos.com, 17 aprile 2020 “Riguardo alla situazione dell’emergenza Covid-19 nelle Rems, nei giorni scorsi era stata segnalata la presenza nella struttura “Anton Martin” di San Maurizio Canavese in Piemonte di due pazienti positivi al virus, trasferiti subito in ospedale. Uno di essi è deceduto”. A darne notizia è Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti dei detenuti, nel bollettino quotidiano. “Altri quattro pazienti che presentavano sintomi febbrili erano stati sottoposti al tampone. Pur essendo ormai tutti sfebbrati, in attesa della risposta del test, restano in isolamento - spiega il Garante. È stata già effettuata la richiesta di sottoporre al tampone tutti i pazienti. La maggior parte del personale è stato sottoposto al tampone. Mancano per ora due operatori”. Bologna. Il caso di Giacomo Ieni: in cella con un positivo, infetto e non va a casa di Angela Stella Il Riformista, 17 aprile 2020 Immunodepresso, divideva la branda con un altro contagiato in un istituto dove i colpiti dal virus sono 10. Trentenne recluso a Venezia, a breve la decisione della Cedu. Ieri mattina protesta davanti al carcere romano di Rebibbia. Alcune persone hanno manifestato davanti all’istituto per chiedere di “aprire le carceri” e hanno distribuito volantini con su scritto: “Stato boia. Aprire le carceri. Chiudere le fabbriche”. All’Ansa invece è giunta ieri una lettera dell’ex boss della Mala del Brenta, Felice Maniero, che, insieme ad un altro detenuto, denuncia le condizioni dei detenuti del carcere di Voghera: “Il rischio di eventuali focolai nelle carceri è probabile; dovesse verificarsi un “si salvi chi può” le conseguenze sarebbero inimmaginabili”. “Dopo le reiterate richieste - ha scritto Maniero - ci è ancora vietato, da oltre due mesi di acquistare un disinfettante efficiente”. Invece gli avvocati Giorgio Antoci ed Enrico Trantino ci segnalano il caso di un loro assistito, Giacomo Ieni, detenuto nel carcere di Bologna, dove c’è stato il primo recluso morto da Covid-19 lo scorso 2 aprile e all’interno del quale, secondo Gennarino De Fazio della Uil-pa Polizia Penitenziaria nazionale, altri dieci detenuti sarebbero risultati positivi al tampone. I legali hanno inviato per ben due volte - il 2 e l’8 aprile - una richiesta di detenzione domiciliare al magistrato di sorveglianza di Bologna adducendo diverse motivazioni: il signor Ieni “afferma di essere affetto da anemia acuta, pancreatite acuta, depressione grave, curata con massicce dosi di tranquillanti, immunodeficienza”. Inoltre “ha convissuto con il compagno di cella risultato affetto da Covid-19, mentre è deceduto un altro detenuto, appartenente alla stessa sezione, anch’egli affetto da Covid-19. Nella stessa sezione vi sono altri due contagiati e tre soggetti in quarantena. Ovviamente costoro usano gli stessi servizi degli altri detenuti, acuendo il rischio di contagio in maniera inaccettabile”. A loro non è mai giunta alcuna risposta. Ieri l’ennesima comunicazione: “La difesa comunica che in data odierna lo Ieni Giacomo li ha informati di essere risultato affetto dal Covid-19”. Infine segnaliamo il caso del trentenne modenese recluso nel carcere di Vicenza a cui, pur dovendo scontare una pena residua sotto i 18 mesi, è stata negata dal magistrato di sorveglianza di Verona la detenzione domiciliare con o senza braccialetto. Gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico hanno presentato ricorso al Riesame di Venezia e si sono rivolti qualche giorno fa anche alla Cedu: “Solamente martedì sera - ci dicono - la Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo ha trasmesso le Osservazioni del Governo Italiano dandoci tempo sino a giovedì mattina per replicare. Le Osservazioni si limitano a generiche rassicurazioni circa l’intervento del Governo a tutela della salute dei detenuti e del personale che opera all’interno delle carceri. Possiamo infine dire che su una domanda precisa sottoposta dalla Corte dei Diritti Dell’Uomo, il Governo ci pare non aver fornito alcuna risposta. Questa mattina (ieri, ndr), rispettando le richieste della Corte, abbiamo trasmesso le nostre ulteriori osservazioni e abbiamo portato la Cedu a conoscenza di ulteriori documenti che ci sembrano in netto contrasto con quanto sostenuto dal Governo nei propri scritti”. Abbiamo contattato anche l’ufficio stampa del Ministero della Giustizia per avere chiarimenti in merito e ci hanno detto che “la risposta alla Cedu è ad opera dell’Agente del Governo italiano davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non del ministero della Giustizia”, quindi non spetterebbe al Ministro rendere noto quanto risposto. Intanto la decisione della Cedu potrebbe arrivare a brevissimo, essendo una procedura di urgenza. Per discutere di quanto sta accadendo e per valutare iniziative l’associazione radicale Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem ha convocato il suo Consiglio Direttivo per sabato, 18 aprile dalle ore 14:30 alle ore 20:00. Il dibattito sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale. Milano. Coronavirus, detenuti e agenti nel “focolaio” di San Vittore di Stiben Mesa Paniagua milanotoday.it, 17 aprile 2020 Milano Today ha letto l’esposto di alcuni detenuti di San Vittore per denunciare la situazione e sentito i rappresentati sindacali della Polizia penitenziaria. Anche il garante dei detenuti e la Commissione Regionale carceri lanciano l’allarme su un contesto al limite e da monitorare. Il coronavirus è un nemico invisibile, subdolo e l’unico modo concreto per evitare il contagio è il distanziamento sociale. Il concetto è stato ormai accettato universalmente da chiunque, dopo settimane e settimane di quarantena. Il paradosso è che questa misura è quasi impossibile da mettere in pratica proprio per quelle persone che, per definizione, vivono già continuamente isolate dal resto della società: i detenuti e le detenute. Donne e uomini la cui libertà è limitata dalle mura che definiscono il perimetro degli istituti penitenziari dove sono reclusi. Peggio ancora, limitata ai pochi metri quadri delle loro celle. Isolati come loro, in qualche maniera, lo sono anche gli agenti della Polizia penitenziaria e gli operatori che ogni giorno visitano le carceri. Tuttavia c’è una grande e pericolosa differenza: poliziotti, avvocati, assistenti sociali, educatori, sacerdoti e psicologi entrano ed escono dalle prigioni. E questo vuol dire che hanno la concreta possibilità di portare dentro il Covid-19. Lo sanno i provveditori, lo sanno i direttori, lo sanno i comandanti, lo sanno al ministero, e lo sanno anche i garanti ma le soluzioni sembrano faticare ad arrivare. Benché all’inizio dell’emergenza Covid, secondo le direttive emanate dal ministero di Giustizia guidato da Alfonso Bonafede, si fossero prese tutte le precauzioni del caso. In primo luogo con la stretta sui controlli per i colloqui e sul personale che gravita attorno alle prigioni. Successivamente con la sospensione totale delle visite. Fatto questo che, moltiplicato all’incertezza e la paura per la situazione, aveva provocato vere e proprie rivolte nelle carceri italiane. In alcune anche con un bilancio pesante in termine di vite. Proteste mosse pure nella casa circondariale milanese di San Vittore, con incendi e cori sul tetto da parte di alcuni dei detenuti. Purtroppo, però, nonostante sia passato oltre un mese e mezzo dall’inizio dell’emergenza, tutte le misure e i provvedimenti faticano a diventare pienamente realtà. Lo denunciano avvocati, polizia penitenziaria, detenuti e perfino onorevoli in Parlamento. A materializzare la problematica a Montecitorio, con il folclore che lo contraddistingue, è stato l’onorevole Vittorio Sgarbi. “Il dilemma di questi giorni - ha detto durante il question time con il ministro Bonafede - è tra due concetti fondamentali che riguardano la vita dei cittadini: la libertà e la salute. Abbiamo accettato di comprimere la prima. E, ammesso che sia giusto, è dovere di tutti i cittadini compresi i carcerati vedere tutelato il proprio diritto alla salute. Come si può garantire la distanza di sicurezza in carceri sovraffollate? Mi chiedo come possa vivere serenamente in questi giorni il ministro Bonafede che è in piena flagranza di reato. Come può garantire la distanza di sicurezza di un metro in carceri dove sono in tre, in quattro, in cinque insieme. Lei, dunque, per la sua responsabilità giuridica e morale, è indagato. Un giudice che abbia correttezza dovrebbe indagarla perché lei è un untore”. Un discorso provocatorio che però rivela una verità innegabile di fondo. Tanto che alcuni detenuti di San Vittore lo hanno citato in un loro esposto presentato al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, alla pubblica autorità competente e al direttore dell’istituto carcerario meneghino. Nel documento, visionato da Milano Today, i detenuti del raggio 5 della casa circondariale chiedono all’autorità giudiziaria competente di valutare se esistono i presupposti per l’azione penale contro i responsabili della loro condizione. “Per - scrivono nell’esposto - violazione del decreto legge numero 18 del 17 marzo, e seguenti, in materia di salvaguardia e contenimento del Covid-19. Per violazione delle norme costituzionali in materia di tutela e salvaguardia della salute del cittadino. Per la violazione dell’articolo 27 della Costituzione. Per la violazione delle convenzioni per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (articoli 1, 3, 14 e 17)”. I detenuti chiedono di valutare se tale ipotetiche violazioni possano essere contestate ai responsabili dell’Amministrazione penitenziaria a livello regionale e nazionale e agli Uffici dei giudici per le indagini preliminari firmatari delle ordinanze di custodia cautelare: “A distanza di circa due mesi dalla diffusione dell’allarme Covid-19 e dopo 3 mesi dalla dichiarata emergenza sanitaria dello Stato italiano ci vediamo in balia della burocrazia e di pochi burocrati che a nostro vedere male amministrano il sistema giustizia, facendo ricadere in maniera prepotente le conseguenze, prima sul detenuto e successivamente su tutte le figure gravitanti nel pianeta carcere”. “Vale la pena ricordare - proseguono nella loro richiesta di attenzione - come il carcere è un potenziale focolaio dove, se come stiamo percependo nelle ultime ore, si è addentrato il virus. Ci troveremmo tra breve tempo di fronte ad una strage di detenuti immunodepressi, malati, tossicodipendenti e quanti portatori di malattie varie, senza contare i detenuti cosiddetti sani che, si vedrebbero contagiati con conseguenze che la scienza e la medicina non sa prevedere”. Un grido per chiedere aiuto che arriva da San Vittore, dove ci sono già 18 agenti della Polizia penitenziaria e 11 detenuti contagiati, uno dei quali in ospedale, e decine e decine di isolati, tra carcerati e poliziotti. Questo - ripetiamo - nonostante le precauzioni prese all’inizio dell’emergenza. Molte delle quali sono rimaste, però, solo sulla carta. Anche perché i numeri sono quelli che sono e, come praticamente in ogni ramo della società, anche dietro le sbarre sono arrivati con estrema difficoltà i dispositivi di protezione individuale per agenti e detenuti. Così come i tamponi per i sintomatici. Non è bastato, ad esempio, il triage da campo allestito all’esterno dall’istituto di piazza Gaetano Filangieri, dove ogni nuovo arrivato veniva - e viene - sottoposto ad un controllo medico prima di accedere in carcere. Tra gli agenti contagiati, rivela il documento dei detenuti, c’è un appuntato Capoposto del 5° reparto. “Ebbene - denunciano - anche se a conoscenza di questo caso non si è provveduto come da indicazioni dell’Oms e dell’Iss a individuare e mettere in quarantena le persone che nel tempo sono state a contato con lo stesso. Anzi gli agenti di polizia penitenziaria che erano parte dello stesso gruppo di lavoro ad oggi sono ancora in servizio presso il reparto di appartenenza e, cosa che sembra ancor più grave, altri agenti di polizia venuti in contatto con lo stesso sono stati spostati in altri reparti del carcere. Con lo stesso agente di polizia sono venuti in contatto quasi tutti detenuti del reparto ma nessuna precauzione”. Un fatto inammissibile anche al buon senso, insomma. Lo stesso discorso, sottolineano, vale per le persone rinchiuse: “Ci sono detenuti contagiati che seppur separati, sono stati in contatto con altri detenuti. Vogliamo far presente - dicono - che solo a fine marzo siamo stati dotati di mascherina in cotone”. Detenuti e agenti soli, isolati e uniti, ironicamente, dallo stesso destino denunciano la situazione e temono l’esplosione di un focolaio dietro le sbarre come sta succedendo nei penitenziari di Bologna, Verona, Pisa o Voghera. Sapendo di non voler arrivare a morire per coronavirus: come purtroppo è già toccato in Italia ad alcuni di loro. Ma anche a Milano: un detenuto del carcere di Voghera, Antonio Ribecco, è deceduto pochi giorni fa all’ospedale San Carlo. Stessa sorte toccata a fine marzo all’agente della penitenziaria in servizio nella casa di reclusione di Opera (Mi), Nazareno Giovanitto. San Vittore in particolare, spiegano i detenuti nell’esposto, è un istituto dove anche, e soprattutto, a causa del sovraffollamento, vede “violare sistematicamente” tutti i loro diritti. “Rappresentiamo - proseguono - le nostre lamentele affinché l’autorità giudiziaria possa valutare l’esistenza dei presupposti per l’azione penale o in ogni caso per far cessare le violazioni laddove poste in essere. Le nostre lamentele giungono dopo avere preso coscienza dell’impossibilità da parte dell’amministrazione penitenziaria e degli organismi competenti di attuare le direttive emanate dal governo in materia di misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19”. Un punto sul quale concordano anche i legali impegnati nella difesa degli ‘ospiti’ delle carceri. L’Ordine degli avvocati di Milano e dalla Camera Penale ha definito la situazione milanese “insostenibile”. Case circondariali dove “scarseggiano i presidi sanitari: mascherine, guanti e tamponi. Le strutture vetuste di parecchi istituti, che non prevedono certo celle singole o bagni ad uso individuale, renderebbero problematica la gestione anche a capienza regolamentare rispettata”. Una situazione che rischia di aggravarsi dopo l’incendio che a marzo ha reso impraticabili proprio gli uffici - Gip e Sorveglianza - che si devono occupare delle istanze dei detenuti. Per gli avvocati, stando ovviamente nei margini consentiti dalla legge, diventa “improcrastinabile un intervento che preveda, in via quasi automatica e dunque senza il necessario intervento degli Uffici di Sorveglianza, l’immediata fuoriuscita dal carcere di un numero di detenuti idoneo a consentire la gestione dell’emergenza sanitaria negli istituti. Si tratta di intervento che davvero pare non poter più essere rinviato”. Nel calderone delle galere gli altri attori principali sono gli uomini e le donne in divisa. “La morte del secondo detenuto nelle carceri italiane aumenta ancora di più l’attenzione da parte nostra sulla situazione dei contagi da Covid-19 all’interno degli istituti”. A lanciare questo grido d’allarme è Aldo Di Giacomo segretario generale del Sindacato del corpo di polizia penitenziaria: “Sono molti gli istituti in Italia che sono oramai in enorme difficoltà per il propagarsi del virus tra i detenuti e i poliziotti. Siamo molto preoccupati vista l’incapacità dell’Amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia di gestire le criticità che ogni giorno si presentano”. Di Giacomo denuncia inoltre un altro aspetto critico: “La mancanza di trasparenza sui dati forniti dall’Amministrazione”. In Italia su circa 36mila unità, gli agenti positivi sono, stando all’ultimo dato ufficiale, 204 ma “400 colleghi sono a casa in isolamento o quarantena e ci sono difficoltà a fare i tamponi. I numeri sono irrealistici”, rivela Di Giacomo. Nel milanese qualcosa sembra muoversi, come ha rivelato a Milano Today Alfonso Greco, segretario regionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “A Milano la situazione negli ultimi giorni si sta sbloccando. Ovviamente ci vuole più tempo ma sembra che Ats e medici competenti si stiano attivando. Vivere in un ambiente chiuso, rispetto a carabinieri e polizia di Stato, può essere una fortuna ma paradossalmente in questo caso può non esserlo. Dopo la morte del collega Giovanitto, per esempio, ad Opera hanno fatto il tampone a tutti ma con i tempi della Sanità. Negli ultimi giorni la situazione sembra migliorare e ci sono anche più tamponi. Ma manca ancora qualcosa”. “Ci sentiamo tutelati a metà, o meglio a un terzo. Devono darsi da fare. Il tampone, per esempio, non basta farlo una volta ma va rifatto periodicamente. Se tu tieni sotto controllo quelli che entrano ed escono, come noi, eviti che il problema diventi più grande. Medici, infermieri, agenti della penitenziaria, avvocati, educatori. Gli untori potenziali siamo noi. Quello che gli amministratori devono capire è che tutelando noi, tutelano anche la popolazione carceraria”. Ora la politica ha capito e qualcuno come il presidente della Commissione Carceri del Consiglio Regionale della Lombardia, Gian Antonio Girelli, si muove rilanciando l’appello dei Garanti dei detenuti: dove si sottolinea in particolare quanto siano necessari interventi deflattivi della popolazione detenuta che consentano la domiciliazione dei condannati a fine pena e la prevenzione e l’assistenza necessaria a quanti debbano restare in carcere. “La situazione degli istituti penitenziari lombardi - spiega Girelli - diventa di giorno in giorno sempre più difficile. A mano a mano che si effettuano i tamponi, i numeri restituiscono un panorama dei contagi preoccupante sia tra il personale di polizia penitenziaria che fra i detenuti”. “Nelle carceri sovraffollate le necessarie restrizioni dettate dall’emergenza Covid-19 non sono applicabili. Occorre tutelare - il suggerimento in linea con le richieste di detenuti e agenti - con ogni mezzo la salute del personale che opera nelle carceri e delle persone in stato di restrizione della libertà, per impedire che crescano focolai che, con i problemi di sovraffollamento che conosciamo, diventerebbero rapidamente ingestibili”. E proprio il garante dei detenuti regionale, Carlo Lio, ha visitato il carcere milanese per un incontro con il direttore Giacinto Siciliano e la comandante della polizia penitenziaria. “Sono intervenuto su invito della Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa - le sue parole - e in seguito ad alcune informazioni secondo le quali sarebbe prevista la creazione di un centro clinico per Covid-19 presso la casa circondariale. Abbiamo a questo proposito fatto presente le nostre perplessità, in quanto non riteniamo il carcere il luogo ideale per un insediamento del genere”. “Certamente come ufficio del garante vigilerò - ha concluso Lio - affinché si proceda nel rispetto di tutte le necessarie precauzioni e con le opportune attenzioni”. Le sorti di agenti e detenuti sono dunque legate allo stesso destino e in qualche modo parte lesa in questa vicenda che potrebbe diventare più complicata di quanto già non lo sia se non si inverte per tempo la rotta. I detenuti lo specificano chiaramente nel loro documento: “Nessuno può più negare l’evidenza dei fatti e nessun organo competente può sottrarsi a tali evidenti violazioni. Crediamo e chiediamo di denunciare in nome e per conto nostro tale situazione alle procure competenti”. detenuti, già per natura definiti ‘soggetti deboli’, chiedono che non gli venga negato quel diritto fondamentale che è la salute: “Vogliamo far giungere un grido di aiuto alle istituzioni. Le stesse istituzioni che prontamente hanno agito per punire le condotte di cui noi rei ci siamo macchiati. Intendiamo far giungere all’autorità competente alcune situazioni che a nostro parere sono contro legge. Ci viene detto che fuori è lo stesso, sì, è vero ma, in carcere ci ha voluto il legislatore con regole ben precise e se abbiamo sbagliato paghiamo con il carcere, vogliamo pagare il giusto prezzo non un prezzo che potrebbe risultare fatale per la nostra salute”. Torino. Il coronavirus nelle carceri sovraffollate. Parla la Garante dei detenuti di Marina Lomunno vocetempo.it, 17 aprile 2020 Il Papa ha affidato i commenti del Venerdì Santo ai detenuti di un carcere italiano. Durissima la condizione delle carceri nei giorni dell’emergenza Coronavirus. Parla la Garante dei detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo. Monica Cristina Gallo, dal luglio 2015 è la Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino. Tra le prime sostenitrici della campagna “abbona un detenuto” con cui il nostro giornale, grazie alla generosità di tanti lettori ogni settimana entra in 40 sezioni del carcere torinese, oggi è in prima linea, con la Direzione e chi lavora a vario titolo al “Lorusso e Cutugno” per arginare gli effetti del coronavirus in uno dei luoghi più a rischio della città. Fin dall’inizio del blocco dei colloqui dei detenuti, la Direzione del carcere ha attivato le videochiamate con i famigliari dei distretti attraverso gli smarphone giunti dal Dipartimento dell’amministrazione carceraria e Monica Gallo ha richiesto immediatamente di utilizzare la stessa modalità per i colloqui riservati con la Garante. “L’iniziativa apprezzata dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e condivisa con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria è stata estesa, con l’approvazione del Dipartimento, a tutti i Garanti d’Italia” spiega Monica Gallo “mi è sembrato un modo per alleviare l’isolamento dei ristretti: non potendo vederli di persona da due sabati - il giorno riservato per i miei colloqui - sono davanti al video a parlare con i detenuti che lo richiedono. In due giorni ho sentito molte persone detenute, per alcuni sono necessari interventi con la direzione, per altri è utile contattare la famiglia per rassicurare i familiari che il proprio caro recluso sta bene: faccio da tramite per quanto mi è possibile, per alleviare la solitudine che in carcere in questi giorni è incolmabile”. Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino L’emergenza Covid-19 è scoppiata in un tempo problematico per i penitenziari italiani che già soffrono per sovraffollamento e difficoltà dovute spesso a strutture obsolete e carenza di personale. Come si stanno affrontando le urgenze nel carcere torinese? All’inizio dell’emergenza Covid-19 nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” erano recluse 1480 persone su una capienza regolamentare di 1062 posti. Un dato preoccupante che, dall’avvio del mio mandato, ha registrato un aumento importante: alla fine del 2019 le persone detenute presenti erano 1.470, 1.416 alla fine del 2018, 1.371 alla fine del 2017, 1.321 nel 2016, 1.162 nel 2015. Al sovraffollamento vanno aggiunte condizioni strutturali fatiscenti che creano ambienti non tutelati sotto un profilo igienico sanitario. L’inizio dell’emergenza si è dovuta gestire con queste drammatiche problematiche e proponendo alla popolazione detenuta raccomandazioni impraticabili. Ma andiamo per ordine. Il primo problema, il blocco dei colloqui con i familiari non è stato preceduto da alcun dialogo e, a livello nazionale si sono registrate le tragiche vicende che conosciamo. A Torino, a partire da lunedì 9 marzo, quando è scattato il provvedimento, la Direzione ha iniziato un percorso di dialogo e condivisione con la popolazione detenuta, attraverso un ciclo di incontri con i ristretti provenienti dalle varie sezioni del carcere, alle quali ho sempre partecipato. Le assemblee con cadenza settimanale hanno determinato un clima di fiducia, attraverso un cammino di mediazione e compensazione. Alcune raccomandazioni hanno giustamente incontrato imbarazzi fra i detenuti. Quali? È inutile pretendere la distanza di sicurezza di un metro in piccole celle occupate da due persone, il lavaggio frequente delle mani senza sapone a disposizione e l’igiene degli ambienti in assenza di prodotti idonei. E, a partire da quel lunedì, ci siamo messi tutti al lavoro, ognuno secondo le proprie competenze, e insieme abbiamo dato risposte concrete. Non abbiamo aspettato che le risposte alle carenze giungessero dai vertici ai quali spetterebbe il compito, in particolare in una situazione grave come questa, ma abbiamo attivato con la comunità il principio di sussidiarietà orizzontale tramite azioni che favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. La risposta all’appello è stata tempestiva, in particolare dalla Caritas diocesana, da alcune associazioni legate al mondo penitenziario, da liberi cittadini che hanno compreso sin da subito la gravità della situazione e si sono spesi per far fronte alle emergenze materiali. Ad oggi, ad esempio, è attiva una significativa raccolta fondi nata su iniziativa di alcuni genitori di giovani reclusi e gestita dall’Associazione Museo nazionale del Cinema. Il blocco degli ingressi dei famigliari e dei volontari ha suscitato, come lei ha accennato, a proteste nelle carceri italiane ma a Torino le reazioni sono state contenute. Come garanti avete fatto subito un appello alle Istituzioni e alle Asl perché il mondo carcerario non venga lasciato solo ad affrontare l’emergenza. Quali sono state le risposte? Il blocco degli ingressi dei familiari è stato tempestivamente affrontato con le misure compensative, oltre alle telefonate straordinarie concesse sin da subito: da due settimane sono attive le video chiamate con whatsapp che consentono alle persone di mantenere i rapporti familiari, le relazioni con i propri legali e il sabato è la giornata dedicata ai colloqui con la sottoscritta. Gli appelli alle istituzioni del territorio sono stati moderati e cauti nella prima fase dell’emergenza, divenuti più incisivi nelle ultime settimane, quando la sanità penitenziaria ha iniziato ad appellarsi al Garante per trovare soluzioni alternative alla detenzione per le persone detenute contagiate o a forte rischio di contagio. Con stupore si è appreso che nulla di preventivo era stato previsto per l’uscita di coloro che diventano incompatibili per le ragioni sopra citate… E allora come si sta gestendo la situazione dei contagiati e quali sono le richieste dei detenuti? Non vi è alcuna gestione programmata, l’Unità di crisi territoriale non ha strutturato un piano per gestire l’emergenza Covid-19 all’interno dell’Istituto di pena torinese: ne sono la prova l’affannata corsa di noi tutti, garanti, educatori, agenti nel trovare luoghi idonei affinché i detenuti che hanno contratto il virus vengano alloggiati in luoghi all’esterno per evitare il dilagarsi del contagio. La Direzione dell’Istituto ha immediatamente strutturato una piccola sezione della Casa Circondariale ma di transito. Ancora una volta emerge che il carcere è roba da ricchi: per coloro che hanno una famiglia ed una situazione di normalità all’esterno si aprono le porte e la possibilità di stare in isolamento altrove, per coloro che non hanno legami territoriali e una dimora inizia un calvario. Da alcuni giorni è attivo un bando dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) e a breve saranno disponibili fondi della Cassa delle Ammende, sostegni importanti ma che vedranno la loro piena realizzazione forse tra un mese… E nel frattempo? Il direttore della Caritas torinese da queste colonne la scorsa settimana ha evidenziato come dopo il blocco degli ingressi e delle uscite dal carcere si siano interrotti tutti gli inserimenti lavorativi e i tirocini con cui i ristretti possono riprogettare un reinserimento a fine pena. Cosa succederà dopo la fine dell’emergenza? Qui tocchiamo un altro tasto drammatico. Molti detenuti erano stati avviati ad interessanti percorsi all’esterno che purtroppo sono stati interrotti. Gli inserimenti sono sempre complicati e chi li attiva sa bene a cosa mi riferisco. C’è da sperare che, finita l’emergenza, associazioni, enti e aziende che avevano privilegiato questa tipologia di lavoratori continuino a considerare la loro collocazione una priorità per la riduzione della recidiva e la possibilità di rientrare in società. “Tutti anche da condannati siamo figli della stessa umanità”: è uno dei brani della Via Crucis celebrata Venerdì Santo in piazza San Pietro e che il Papa ha voluto fosse scritta dal mondo carcerario, detenuti, magistrati, volontari, agenti… Che impressione le ha fatto la scelta di Francesco in un momento così difficile per chi vive e lavora in carcere? Il Papa si è espresso più volte dall’inizio dell’emergenza a favore di quella parte di umanità dimenticata che popola le nostre carceri, così come il Presidente della Repubblica. Hanno commosso le meditazioni della Via Crucis, un altro delicato passo per connettere il mondo carcerario e la sua complessità al resto della società. Forte il vuoto tutto intorno che riconduce a quel senso di abbandono che si sente ancora troppo spesso dentro le mura del carcere. In tanti in questi giorni in tanti si offrono per dare una mano a chi è più fragile e chi è in carcere in questo momento è doppiamente recluso: lei è in prima linea accanto a chi opera nel penitenziario torinese perché la situazione rimanga sotto controllo. Cosa possiamo fare per contribuire anche materialmente ad alleviare le difficoltà di chi vive in questi mesi dietro le sbarre? Azzardo una richiesta. Il vostro giornale è uno strumento importantissimo che serve per comunicare con la società libera e reclusa. È necessario più che mai spiegare ai lettori che le pene alternative sono previste dalle norme e si devono scontare fuori dal carcere, è urgentissimo comprendere cosa vuole dire ri-accoglienza senza distinzione, è necessario stimolare il lettore ad uno sguardo verso che quei provvedimenti indispensabili per diminuire i numeri della comunità penitenziaria che non è fatta solo da detenuti, ma da agenti penitenziari, uomini e donne, da educatori e da tutto il personale che sta vivendo in condizioni difficilissime e ogni giorno che passa, con l’aumento dei contagi, si intravvede il dramma che ha duramente colpito le Rsa dove stanno morendo centinaia di anziani. Bologna. Carcere della Dozza, si aggravano i contagi: l’appello della Cgil di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 17 aprile 2020 Si aggravano i contagi da coronavirus alla Casa circondariale della Dozza. Seppur i tamponi effettuati siano pochi e a campione, denunciano i sindacati, sono emersi una ventina di casi positivi fra i detenuti e ciò crea allarme. Fp Cgil ha scritto al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e al Direttore della Casa circondariale chiedendo che vengano effettuati tamponi su tutta la popolazione carceraria e che ci si prepari a fronteggiare un’ulteriore emergenza prima che la situazione diventi insostenibile. “Se dai tamponi effettuati a tampone è emerso un numero cospicuo di positivi - sottolinea ai nostri microfoni Salvatore Bianco di Fp Cgil - la cosa non può che preoccuparci. A differenza di altri sindacati noi chiediamo che i test vengano effettuati su tutta la popolazione carceraria, sia sugli agenti che sui detenuti, perché tutti hanno diritto a sapere quali sono le proprie condizioni di salute”. L’incertezza, in particolare, crea panico e ciò può portare al ripetersi delle rivolte che si sono registrate a inizio marzo. Uno scenario che, per il sindacato, va assolutamente evitato. Un altro punto riguarda gli spazi destinati all’isolamento dei casi positivi. “I nostri delegati ci dicono che sono stati predisposti e aumentati - osserva il sindacalista - ma se l’epidemia dovesse allargarsi gli attuali spazi per l’isolamento delle persone positive potrebbero non bastare, anche perché alcuni locali, in seguito ai disordini, non sono più utilizzabili”. Alcuni detenuti, nei giorni scorsi, sono già stati trasferiti in altre strutture, ma anche questa misura potrebbe non bastare, a fronte di un cronico sovraffollamento del carcere. “La Regione si sta attivando per trovare strutture esterne - riporta Bianco - ma poiché il sovraffollamento è un problema strutturale, occorre mettere subito in atto misure alternative alla detenzione, in particolare per i detenuti a fine pena”. Il decreto del governo si muoveva in questo senso, ma per alcune associazioni le persone che possono beneficiare di una misura alternativa alla detenzione sono troppo poche e lo svuotamento effettivo procede troppo a rilento. Molte domande presentate nei giorni scorsi, inoltre, sono state rigettate. Tra i problemi riscontrati si registra la mancata disponibilità dei braccialetti elettronici, previsti dall’ordinamento. Trento. Appello degli insegnanti in carcere: attivate Skype di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 17 aprile 2020 La scuola va sempre avanti. Anche e nonostante il coronavirus. Con modalità e tempistiche diverse, ma va avanti, a tutti i livelli e settori. Tranne che in carcere. Da quasi un mese e mezzo 180 studenti (età media 30 anni, di diversa etnia, italiani compresi) dei corsi di alfabetizzazione (elementari), medie e superiori del carcere di Spini di Gardolo, attendono di proseguire le lezioni alle quali sono iscritti. Un’opportunità per imparare, ma anche per socializzare, per mantenere quel filo con l’esterno, con la vita. Il problema, come spiegano gli insegnanti, è solo tecnico: l’inaccessibilità a Skype per le video-lezioni. Un problema già noto alla direzione sanitaria e alla garante dei detenuti, che si stanno muovendo per risolvere la situazione. “Siamo tutti pronti per proseguire - spiega Stefano Kircher, dirigente scolastico del liceo Rosmini di Trento e coordinatore del ciclo di studi in carcere - se si potesse ripartire al più presto, accelerando la problematica dei collegamenti, sarebbe importante”. Il nodo da risolvere è nelle mani della Provincia, che in collaborazione con gli istituti scolastici sul territorio offre i corsi rivolti ai detenuti: 25 i docenti impegnati per i corsi di alfabetizzazione (tutti i giorni), medie e superiori (impegnati dalle 2 alle 10 ore a settimana). Un progetto di collaborazione in piedi già dal 2012 e nel quale si investe con convinzione per consentire ai detenuti di acquisire alcune competenze di base o di accedere ad un diploma o a una qualifica professionale specifica. Ma in questo periodo di emergenza per il coronavirus tutto si è fermato con il problema delle lezioni a distanza. Come per le altre realtà scolastiche anche per le lezioni in carcere era stata fatta richiesta di poter attivare la didattica online, ma non è stato possibile per i problemi di linea interna del carcere. Anche per i colloqui con i parenti. Il ministero dell’Istruzione ha di recente richiamato l’attenzione sulla didattica online in carcere come diritto all’istruzione, favorendo, in via straordinaria ed emergenziale, in tutte le situazioni dove possibile, il diritto all’istruzione attraverso modalità di apprendimento a distanza anche per i detenuti. Spingendo le case circondariali ad attrezzarsi. Anche la garante dei detenuti, Antonia Menghini, spinge per una soluzione del problema per quella che ritiene una priorità. Tanto più che ci sono una trentina di studenti che devono sostenere l’esame di terza media e, come gli altri, hanno ricevuto per sole tre volte in quaranta giorni il materiale cartaceo per le lezioni. Un modo che serve solo per mantenere un filo con gli insegnanti ma non è fare scuola, dicono gli insegnati. I docenti delle scuole in carcere si sono raccolti, da alcuni anni, nella rete delle scuole ristrette e hanno portato avanti una battaglia incessante per far riconoscere la scuola in carcere quale elemento essenziale dell’esecuzione penale, visto che i docenti, per nove mesi l’anno, hanno un rapporto quotidiano e costante con i detenuti iscritti e rappresentano, per loro, l’unico contatto col mondo esterno nel quale prima o poi torneranno. Oggi, però mentre le scuole esterne continuano, anche se con difficoltà, il proprio percorso, gli studenti in carcere non hanno più alcun rapporto diretto con i propri insegnanti, se non mediato da materiale cartaceo consegnato tramite educatori o agenti penitenziari che spesso, per le condizioni di invivibilità interna, non potranno essere neppure lette. “Attendiamo che la Provincia finisca di sistemare i collegamenti per poi ripartire - conclude Kirchner - la scuola per gli studenti è molto importante, specialmente ora, in questa emergenza, isolati ancora di più: serve per impegnarli e vedere il futuro”. Tolmezzo (Ud). I familiari di un detenuto contagiato: siamo preoccupati di Tiziano Gualtieri Il Gazzettino, 17 aprile 2020 “Siamo preoccupati per le condizioni di salute di mio papà che si trova in carcere a Tolmezzo ed è risultato positivo al Covid-19”. A raccontarlo è il figlio di un detenuto di sessantadue anni, uno dei cinque affetti da Coronavirus e scoperti qualche giorno fa all’interno della casa circondariale carnica di massima sicurezza. Già a fine marzo l’uomo era stato sottoposto a un tampone che aveva dato esito negativo, poi lo scorso 27 marzo il trasferimento in Carnia da Bologna, dove si trovava recluso perché condannato in primo grado e sottoposto a misura cautelare. Il contagio potrebbe essersi verificato proprio durante il viaggio dall’istituto di pena emiliano, dove si è verificato il primo decesso di un recluso per Covid-19, a quello friulano. A riferirlo, come riportato in una lettera scritta dalla famiglia, è lo stesso detenuto che sottolinea come nel corso del trasferimento si siano create situazioni di assembramento che potrebbero aver contribuito alla diffusione del virus. Al momento dell’arrivo a Tolmezzo, l’uomo e gli altri sei detenuti sono stati sottoposti nuovamente a tampone, anche in questo caso negativo ma per precauzione posti ugualmente in isolamento. Un secondo test compiuto al termine della quarantena ha rivelato, invece, la positività dei cinque. “Purtroppo lui ha già delle patologie - prosegue il figlio - è asmatico e fin da piccolo ha avuto problemi ai bronchi”, condizioni che fanno temere per la sua salute. Anche perché, già alcuni giorni fa, era stato il detenuto stesso a informare il avvocato e parenti di avere febbre, tosse e dolori articolari. “Non abbiamo molta chiarezza sulle sue condizioni, facciamo fatica ad avere notizie certe. Prima il medico del carcere che è in contatto con il nostro avvocato, ci ha fatto sapere che mio papà risultava essere positivo ma asintomatico. Poi questa mattina (ieri ndr) ci ha dato la conferma che invece ha tutti i sintomi del virus”. Le informazioni contrastanti tra ciò che dichiarava il medico e ciò che affermava il detenuto, hanno contribuito a far aumentare le preoccupazioni dei familiari. A impensierire è anche il fatto che, sempre da quanto viene riferito dalla famiglia, l’uomo sia rinchiuso in compagnia di un altro detenuto, anche lui positivo “con il rischio che entrambi possano aggravarsi. A ciò va aggiunto che condividono l’area esterna con altri due ragazzi”. L’11 aprile scorso l’avvocato dell’uomo ha presentato un’istanza urgente alla Corte di appello di Catanzaro per chiedere la detenzione domiciliare o in ospedale. “Dal carcere - racconta ancora il figlio - ci dicono che il suo trasferimento in ospedale non è necessario, ma io non mi fido più. Per una settimana ci hanno detto che era asintomatico anche se mio papà diceva il contrario. Ora chi mi assicura che, viste le patologie di cui soffre, sia sottoposto alle giuste cure? Per questo chiediamo possa essere trasferito più vicino a casa dove potremmo controllare meglio le sue condizioni”. “Gli avvocati hanno tutti gli strumenti per chiedere notizie - fa sapere Irene Iannucci, direttrice della Casa Circondariale di Tolmezzo - li invito a scrivere, o anche a telefonare, alla direzione del carcere che sicuramente risponderà”. Nei giorni scorsi, intanto, un’altra istanza di revoca della misura cautelare in carcere sarebbe stata inoltrata per un detenuto, affetto da patologie tumorali, risultato positivo al Covid-19 e anch’esso trasferito da Bologna a Tolmezzo. Martedì è giunta la risposta negativa alla richiesta, con il giudice che ha stabilito come l’uomo possa rimanere in cella in attesa del giudizio definitivo. Reggio Calabria. Nursid sul carcere di Arghillà: “l’Asp disinteressata a detenuti e sanitari” ilreggino.it, 17 aprile 2020 Ad oggi è stata assegnata solo un’infermiera e due unità a tempo determinato sono in scadenza il 30 aprile e non esiste alcuna ipotesi di rinnovo. “Nonostante le numerose sollecitazioni pervenute da questo sindacato, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria mostra totale disinteresse nei confronti dei sanitari del carcere di Arghillà e dei tanti detenuti”. Ad affermarlo in una nota, il coordinamento regionale Nursid Calabria. “Ad oggi è stata assegnata solo un’infermiera e due unità a tempo determinato sono in scadenza il 30 aprile e non esiste alcuna ipotesi di rinnovo” afferma il segretario regionale del NurSind, Dott. Vincenzo Marrari. Finora si è assistito solo a chiacchiere e proclami, ma non è avvenuta nessuna reale svolta programmatica. “Di questo passo, non solo non sarà possibile attivare il turno infermieristico notturno, ma si dovrà riconsiderare l’intera gestione dei turni di assistenza infermieristica alla luce della riduzione del personale”, afferma Filippo Errante, rappresentante Nursind presso gli Istituti Penitenziari. Tutto questo si inserisce in un ampio sistema di criticità nel quale si deve considerare come da alcuni mesi non ricevano lo stipendio i medici che operano nell’Istituto di Arghillà e come, fatto di enorme gravità, non siano stati effettuati i tamponi per diagnosi Covid al personale sanitario, nonostante ripetute richieste e nonostante le chiare indicazioni fornite dalla Regione Calabria. “Ci auguriamo - conclude Marrari - che l’emergenza Covid non arrivi ad interessare il penitenziario di Arghillà, altrimenti oltre ai gravi risvolti sanitari e sociali dovranno essere valutate le ripercussioni in ambito giudiziario”. Oristano. Coronavirus, i vigili del fuoco sanificano il carcere di Massama La Nuova Sardegna, 17 aprile 2020 Il comandante Manselli e il direttore dell’istituto Farci: “Aiutare le persone vulnerabili è un obiettivo che sta a cuore a tutti noi”. Il carcere di Massama è stato sanificato con l’intervento dei vigili del fuoco. L’operazione è stata resa nota con un comunicato firmato dal direttore del carcere Pier Luigi Farci e dal comandante dei vigili del fuoco di Oristano Luca Manselli. “La Direzione dell’istituto - si legge nella nota - ha elaborato tutte le soluzioni possibili, per prevenire ed evitare ogni possibile ipotesi di contagio, tra cui quella di sanificare gli ambienti esterni ed interni della struttura utilizzando il Nucleo Batteriologico Chimico e Radiologico (Nbcr) dei Vigili del Fuoco. “Il Nucleo - prosegue la nota - è utilizzato ordinariamente per intervenire in caso di incidenti o attacchi terroristici in cui sono utilizzate sostanze chimiche, nucleari o biologiche, ma considerata l’emergenza del secolo si è messo a disposizione della Direzione penitenziaria per effettuare questo intervento straordinario. Aiutare tutti ed in particolar modo le persone che in questo momento possono essere vulnerabili è un obiettivo che sta a cuore ad entrambe le Amministrazioni che cercano di perseguire sempre, anche nei momenti più difficili. I Vigili del Fuoco assicurando interventi altamente professionali, l’Amministrazione penitenziaria ed il Presidio Assl interno, coordinato da Daniela Faa, facendo da barriera e garanzia tra i rischi esterni e i detenuti ospitati”. Le sanificazioni sono state effettuate grazie ad un accordo a carattere regionale tra il Provveditorato Regionale della Polizia penitenziaria la Direzione regionale dei vigili del fuoco. Massa. Luis, il detenuto che produce mascherine per carceri e ospedali di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 17 aprile 2020 Rinchiuso a Massa, ogni giorno produce quasi 170 mascherine. Come lui, altri carcerati fabbricano protezioni per agenti penitenziari, medici e infermieri. Al carcere di Massa i detenuti fabbricano mascherine per agenti penitenziari, medici e infermieri. Le loro mascherine finiscono in altri penitenziari, nelle Asl e negli ospedali. Loro non possono uscire, restano reclusi, ma i loro prodotti escono all’esterno e costituiscono una specie di salva vita per chi sta fuori. “E per noi questa è davvero una bellissima soddisfazione - dice Luis, uno dei detenuti del carcere di Massa - e questo lavoro quotidiano nella produzione di mascherine è per me un motivo di grande entusiasmo. Ogni giorno produco quasi 170 mascherine. Mi fa stare bene pensare che stiamo facendo qualcosa per la comunità, per tutte quelle persone che si devono proteggere da questo virus che sta mettendo a dura prova la nostra umanità che si credeva invincibile”. È felice Luis di questa opportunità: “Così trascorriamo le giornate e ci rendiamo utili, diamo senso alle nostre vite, il carcere non è soltanto punizione ma anche opportunità lavorativa, possiamo coltivare una professione e magari portarla avanti quando usciremo da qui”. Complessivamente sono circa 8mila alla settimana le mascherine chirurgiche prodotte nel carcere di Massa, circa 1.200 al giorno al giorno. Nel carcere massese i reclusi erano già abituati a lavorare in questo ambito vista la presenza di uno strutturato laboratorio che produceva lenzuola per l’amministrazione penitenziaria. “Di fronte a questa pandemia che sta colpendo il nostro mondo - ha detto la direttrice del carcere Maria Cristina Bigi - ci è sembrato assolutamente necessario fare qualcosa anche noi perché il carcere non è una cosa a sé stante, ma un’istituzione che fa parte della collettività”. Nel laboratorio di tessitura delle mascherine, in questi giorni, si accede soltanto previa misurazione della febbre e soltanto ricoperti con la tuta bianca protettiva, le mascherine e i guanti anti contagio. La produzione di mascherine è il frutto di un accordo tra ministero della Sanità, Asl territoriali e assessorato alla salute della Toscana. “Ancora una volta dal penitenziario di Massa - ha detto l’assessore regionale alla salute Stefania Saccardi - arriva un segnale forte e chiaro di come il carcere non debba essere un luogo esclusivamente di pena, ma anche di rieducazione attraverso l’impegno sociale e il lavoro al fine di evitare recidive che purtroppo sono molto diffuse. Un progetto del genere, in un momento così delicato per il nostro Paese e per la nostra Regione, assume aspetti ancora più virtuosi e moralmente importanti”. Cagliari. Altre 260 mascherine e 700 guanti per i detenuti, ma serve aiuto dal Ministero vistanet.it, 17 aprile 2020 Salgono così a 860 le mascherine messe a disposizione dell’Istituto dall’associazione di volontariato sociale che si aggiungono a quelle del Dap e del Ssn a protezione degli agenti della Polizia Penitenziaria e dei Sanitari che svolgono il servizio nel carcere. Altre 260 mascherine chirurgiche e 700 guanti sono stati recapitati nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. L’iniziativa, che si aggiunge alla precedente donazione di 600 dispositivi individuali di protezione per cercare di rendere più sicura la convivenza nelle celle, è stata dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che si è avvalsa della collaborazione del Rotary Club di Quartu Sant’Elena, presieduto da Tullio Conti, per il reperimento dei dispositivi e per la loro consegna nel carcere. Salgono così a 860 le mascherine messe a disposizione dell’Istituto dall’associazione di volontariato sociale che si aggiungono a quelle del Dap e del SSN a protezione degli Agenti della Polizia Penitenziaria e dei Sanitari che svolgono il servizio nel carcere. “L’associazione - ha detto Marco Porcu, direttore della struttura penitenziaria - ha dimostrato ancora una volta una pregevole sensibilità contribuendo concretamente a rendere più agevole il nostro impegno di garantire sempre maggiore serenità alle persone detenute e ai loro familiari. L’Istituto, infatti, ha messo a disposizione di ciascun ristretto le protezioni, ha attivato da subito le videochiamate e favorisce i rapporti con i familiari anche se solo con le telefonate. Stiamo seguendo un rigido protocollo proprio per preservare la salute di tutti e l’aiuto del volontariato è in questo momento ancora più importante”. “In una realtà complessa e fragile come quella del carcere - afferma Elisa Montanari, presidente di SDR - dove la convivenza non consente di mantenere le distanze, abbiamo pensato di contribuire concretamente con dispositivi di protezione. Il Rotary di Quartu ci ha aiutato a reperire le mascherine in un momento in cui è ancora molto difficile trovarle in numero adeguato ai bisogni. Confidiamo nella professionalità di tutti gli operatori penitenziari a cui è richiesta ora più che mai una notevole dose di abnegazione. Il nostro auspicio è che al più presto si adottino ulteriori misure per favorire il ritorno in famiglia di chi sta finendo di scontare la pena. Il Ministero della Giustizia deve fare un atto di coraggio anche perché i rischi sono sempre altissimi. Le parole di Papa Francesco, quelle del Presidente Mattarella, dei Magistrati e degli Ordini forensi non possono essere lasciate cadere nel vuoto. Per quanto ci riguarda chiediamo ancora una volta un provvedimento di amnistia che risponda seriamente a una emergenza epocale”. Crotone. Consegnate 150 mascherine ai detenuti crotoneinforma.it, 17 aprile 2020 Si monitora la situazione in modo continuativo e si lavoro per garantire sicurezza e tranquillità ai tutti i detenuti. Questa mattina sono state consegnate le mascherine di prevenzione per la Pandemeia globale da Covid-19. Insieme al Garante comunale dei diritti dei detenuti di Crotone Federico Ferraro era presente anche una delle otto cittadine crotonesi che hanno realizzato gli strumenti di profilassi interamente a mano. Le signore che desiderano rimanere anonime. La consegna è stata effettuata al Comandante di reparto della Polizia Penitenziaria Manon Giannelli ed al Vicecomandante l’Ispettore Francesco Tisci. È stato accolto l’appello dei detenuti di Crotone che non si sentivano perfettamente sicuri nel far fronte all’emergenza Coronavirus in corso. Rinnovo il ringraziamento a queste cittadine esemplari per il loro gesto di grande attenzione per la popolazione detenuta: sono già a al lavoro per realizzare anche altre mascherine che saranno consegnato agli agenti di Polizia penitenziaria, per garantire anche a loro maggiore protezione sul posto di lavoro, a beneficio di tutti, evitando problemi di contagio. In totale sono state consegnate 150 mascherine, un numero quindi superiore al totale dei detenuti crotonesi, che attualmente non superano le 146 unità. L’attenzione deve comunque rimanere alta sulla problematica: per maggior tutela di tutti coloro che gravitano nel mondo carcere servono ancora guanti protettivi, gel igienizzante, amuchina. Si monitora la situazione in modo continuativo e si lavoro per garantire sicurezza e tranquillità ai tutti i detenuti. Sepúlveda. Dalle carceri del Cile alla Gabbianella, l’amicizia fa restare umani di Gianfranco Lauretano ilsussidiario.net, 17 aprile 2020 Ieri si è spento Luis Sepúlveda (1949-2020), scrittore cileno letto in tutto il mondo. Ha raccontato la frontiera, il viaggio, storie di ribellione e di amicizia. Il 16 aprile 2020, in mezzo alla quarantena che ha chiuso il mondo in casa per difendersi dalla pandemia di coronavirus, si è spento lo scrittore cileno Luis Sepulveda. Era ricoverato a Oviedo, capoluogo del principato delle Asturie, in Spagna, ed è stato raggiunto e colpito tragicamente dal virus stesso che sta cambiando la vita a miliardi di persone, facendola perdere a troppe. Viveva nelle Asturie dopo essere passato per Amburgo e per Parigi, e aver vissuto a lungo e intensamente in molte parti del mondo, persino tra gli indios dell’Amazzonia, i diseredati della Bolivia o della Patagonia. Era partito dalla sua patria, il Cile, dopo che per la sua attività politica aveva subito l’arresto da parte del regime di Pinochet. Era stato imprigionato e torturato. Per tutta la vita il suo impegno in favore della democrazia e del riscatto delle classi più povere non verrà mai meno. “Ribellione” era una delle sue parole d’ordine, tramutato in un vero e proprio essere politico della persona. Meraviglioso come lui la declinò: scrivendo storie, tra le quali le più memorabili sono quelle per bambini. D’altronde nelle innumerevoli interviste che gli chiedevano di fare affermava che il suo impegno non era a favore di questa o quella linea politica, ma in difesa della dignità originaria di ogni cittadino del mondo. Ammirava Che Guevara ed era contrario alla globalizzazione liberista del pianeta e alla distruzione della natura. Affermò profeticamente: “Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi multinazionali e gli stati. Questi subiscono gravi interferenze nelle loro fondamentali decisioni politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato, non rispondono delle loro attività a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta”. Sono prese di posizione e affermazioni che, messe in bocca a qualsiasi intellettualino nostrano da salotto, apparirebbero solo come ridicole pose radical-chic. In Sepulveda suonano invece vere e drammatiche: lui era stato torturato e perseguitato da un regime, lui aveva vissuto coi poveri del Sudamerica, lui aveva toccato con mano, in giro per il mondo, il devastante impoverimento umano (spirituale e materiale) e politico portato dalla vittoria della finanza e del mercato sovranazionale rispetto alle storie e alle civiltà delle società di tutto il mondo, ricco e povero. Di tutto questo aveva fatto, in un certo senso, la sua poetica. I suoi racconti attraversano il mondo e sono racconti di ribelli che, per il solo fatto di vivere liberi e poveri, mettono in scacco le anonime ricorrenze del potere. È il caso di Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, il primo romanzo, ambientato in un paesino al margine della foresta amazzonica, che lo rivelò come scrittore; ma anche del personaggio di Juan Belmonte, forse il vero alter-ego dello scrittore, che torna in una delle ultime opere di Sepúlveda, dal titolo significativo La fine della storia, che forse è la fine dell’epoca del capitalismo ruggente e sfinito; un personaggio che si muove tra la Russia di Trockij e il Cile di Pinochet, dalla Germania di Hitler alla Patagonia di oggi e che era già apparso in un altro romanzo di successo, Un nome da torero. Anche raccontare una storia era un atto umano perché politico, per Sepúlveda. Ricorderà spesso un episodio, accadutogli durante la visita a un campo di concentramento nazista: “A un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”. Il pubblico italiano l’ha amato moltissimo. Si stima in otto milioni il numero dei suoi libri venduti nel nostro paese. L’opera che gli ha dato celebrità universale è Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, grazie anche al cartone animato realizzato da Enzo D’Alò che rimane il film d’animazione italiano che ha incassato di più nella storia della nostra cinematografia. La Gabbianella fa in realtà parte di una trilogia, assieme a Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà e Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza chiamata significativamente “Trilogia dell’amicizia”. E forse sta proprio qui il segreto di queste storie, deliziose e intriganti: nel racconto della Gabbianella, in realtà, Sepúlveda evidenzia, attraverso la storia di un bislacco e colorito gruppo di gatti-amici, che è l’amicizia ad educare, ad insegnare alla Gabbianella il volo: “Volare mi fa paura - stridette Fortunata alzandosi. - Quando succederà, io sarò accanto a te - miagolò Zorba leccandole la testa”. Sepulveda ebbe innumerevoli amici, anche in Italia (parlava assai bene la nostra lingua); affabulatore straordinario, il suo stile semplice e accogliente per il lettore risente anche della grande tradizione orale dei narratori popolari dell’America Latina, alcuni dei quali deve aver ascoltato personalmente e avere avuto come amici. Che sia questo il suo segreto? Il segreto affettuoso, che diventa norma poetica nei suoi libri, persino del suo impegno politico? “Un amico si prende sempre cura della libertà dell’altro” diceva questo amico dei lettori, che ha regalato storie di amicizia all’umanità. Sepulveda: scrittore e combattente a favore degli oppressi di Andrea Toscano tecnicadellascuola.it, 17 aprile 2020 È sopravvissuto al regime dittatoriale di Pinochet, alla detenzione e alle torture nelle carceri cilene in quegli anni tetri nel Paese sudamericano, ma non ce l’ha fatta contro il Covid-19. Vittima del terribile virus e forse “metaforicamente” di quel neoliberismo che combatteva. È morto a 70 anni Luis Sepulveda, lo scrittore cileno che ha avuto una vita avventurosa e piena di impegno sociale, culturale, politico, sempre contro l’oppressione e a favore dei più deboli e dell’ambiente. Nato in Cile il 4 ottobre 1949, in una città che si chiama Ovalle, era cresciuto nella città portuale di Valparaiso accanto al nonno, anarchico andaluso, scappato dall’Europa (i genitori di Luis infatti erano stati costretti a loro volta a fuggire a seguito di una denuncia, sempre per motivi politici, contro suo padre). Da giovane andò in Bolivia e divenne membro dell’Esercito di liberazione nazionale (forse “ispirato” da Ernesto Guevara? Del quale in un suo racconto Luis Sepulveda ripercorre le ultime ore che precedettero la morte del “Che” in Bolivia). L’esperienza del Cile democratico socialista di Allende e poi il golpe di Pinochet Ritornato in Cile gli viene assegnato un ruolo di scorta del Presidente della repubblica Salvador Allende (in effetti questo era stato l’incarico affidato ad un gruppo di militanti della “Gioventù socialista”, di cui Luis faceva parte) ma lo stesso Sepulveda dirà che il presidente considerava questi giovani prima di tutto dei “consiglieri”. Guidava un governo di coalizione (formato da socialisti, comunisti, radicali e cattolici di sinistra, che si erano presentati nelle elezioni del 1970 come “Unidad Popular”, appoggiati da gran parte del popolo e da intellettuali come il grande poeta cileno Pablo Neruda) Salvador Allende, presidente socialista (che aveva una visione critica del comunismo sovietico applicato anche agli Stati del Patto di Varsavia, mentre dimostrava - lo affermò lo stesso Sepulveda in una intervista a Elena Torre sul sito “Mangialibri” - un atteggiamento favorevole e buoni rapporti con Cuba, sapendo in ogni caso che si trattava di un contesto differente) eletto democraticamente e morto nel golpe militare del settembre 1973, che portò a capo del governo dittatoriale Augusto Pinochet (autonominatosi presidente), che era un ammiratore del dittatore filo-fascista spagnolo Francisco Franco. Dopo il colpo di stato militare Sepulveda fu condannato ad una durissima prigionia e subì torture. Quando intervenne Amnesty International venne scarcerato e ricominciò a fare teatro non rinunciando al suo impegno per la libertà ed ispirato dalle sue convinzioni politiche. Pertanto, fu nuovamente arrestato e data la notorietà del personaggio, anziché ucciderlo e magari farne sparire il corpo come avvenne per tantissimi desaparecidos cileni (fenomeno analogo ci fu negli anni successivi durante l’altrettanto criminale dittatura argentina), la giunta militare lo processò ufficialmente infliggendogli una condanna all’ergastolo, che sempre su pressione di Amnesty International fu poi commutata nella pena di otto anni d’esilio. In tutto Luis Sepulveda trascorse due anni e mezzo nelle carceri cilene, dove si praticava la tortura e l’annientamento degli oppositori (o magari solo di coloro che si sospettava potessero essere di intralcio alle nefandezze di quel regime). E purtroppo Sepulveda ha dovuto pure sentire l’elogio fatto recentemente al “golpe” di Pinochet dall’attuale discusso presidente brasiliano Bolsonaro, leader di un governo autoritario che tra l’altro si è distinto nell’opera di deforestazione dell’Amazzonia (in America Latina in questi anni è nuovamente diventato allarmante il pericolo di una “restaurazione”, di governi di destra - ovviamente e per fortuna non certo paragonabili alle dittature degli Anni ‘70 - che fanno gli interessi delle classi sociali privilegiate, a discapito delle esperienze, quasi sempre positive per la parte più povera della popolazione, del socialismo bolivariano). A proposito di Pinochet (e delle amarezze che hanno dovuto subire Sepulveda e tutti i cileni che, ripristinata la democrazia nel loro Paese, speravano in un atto di giustizia dopo i soprusi e i lutti patiti durante il regime criminale) va infine ricordato il mandato di arresto che era stato emesso nel 1998 dal giudice spagnolo Garzòn (mentre il generale golpista si trovava a Londra) per crimini contro l’umanità (le accuse includevano anche 94 casi di tortura contro cittadini spagnoli). Ebbene, in quell’occasione Margaret Thatcher, già in precedenza premier britannico (quando introdusse una deregolamentazione del settore finanziario, del mercato del lavoro flessibile, della privatizzazione delle aziende statali e una riduzione dell’influenza dei sindacati) lanciò numerosi appelli all’allora governo britannico affinché a Pinochet, cui già in passato non aveva lesinato attestazioni di amicizia, fosse permesso un immediato ritorno in Cile. E alla fine così fu… Ma ritorniamo alla vita avventurosa di Luis Sepulveda: uscito dalle carceri cilene, si reca in alcuni Paesi sudamericani. In Amazzonia, dove alla fine degli Anni ‘70 - come leggiamo in una pagina di “adnkronos” - visse per sette mesi in contatto con gli indios Shuar, scoprendone le abitudini e i ritmi di vita improntati al profondo rispetto per la natura (da lì sviluppò un’etica ecologista che lo portò successivamente a combattere diverse battaglie ambientaliste condotte anche con Greenpeace, etica ecologista abbinata alla lotta contro il modello economico neoliberista). A questa esperienza, peraltro, è ispirato “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, suo primo romanzo nel 1989. Dieci anni prima, nel 1979, Sepulveda si era unito alle Brigate Internazionali Simon Bolivar, appoggiando il Movimento sandinista che combatteva in Nicaragua. Poi si trasferì in Europa e dal 1996 viveva in Spagna a Gijon. Ma sono stati sempre molto stretti i suoi rapporti con l’Italia, che lo scrittore latinoamericano amava molto; tra l’altro ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università di Urbino (e in Francia da quella di Tolone). Sepulveda ha pubblicato una trentina di libri tra romanzi, raccolte di racconti e narrazioni di viaggio, scrivendo con una sorta di “delicatezza” e “leggerezza” anche quando si sofferma su cose dolorose o fa riflessioni dure su alcuni aspetti del mondo in relazione a comportamenti profondamente sbagliati, esprimendo un’intensa vena favolistica, unita a una intelligente ironia. Abbiamo accennato al libro “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” e chiaramente va anche ricordato il racconto pubblicato nel 1996 che ha dato tanta notorietà a Luis Sepulveda, “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (che ispirò Enzo D’Alò, il quale due anni dopo diresse un cartone animato che bambini e adulti hanno apprezzato). Il grande scrittore cileno credeva nella forza che la scrittura era in grado di sprigionare, nel messaggio che ne poteva scaturire. Scrittore, esule, guerrigliero in nome dell’idea socialista bolivariana, in difesa della libertà e dei diritti umani e civili. Riaprire il Paese? Prima riapriamo la democrazia di Marco Cappato* Il Riformista, 17 aprile 2020 Con la scusa dell’urgenza sono state prese decisioni senza un dibattito parlamentare. Ma a programmare la ripartenza deve essere la politica, attraverso un processo democratico e trasparente. Per “riaprire tutto” bisogna anche riaprire la democrazia, prendendo decisioni a seguito di un dibattito pubblico basato su informazioni accessibili e dati misurabili. Purtroppo, la strada sulla quale il Governo pare si sta incamminando rischia di essere la stessa del Decreto “Cura Italia”: prima, anticipazioni sui media; poi, annunci via Facebook; molti giorni dopo, e dopo altre indiscrezioni mediatiche e trattative varie, approvazione e pubblicazione dei definitivi testi dei provvedimenti; infine, il passaggio parlamentare, senza vero dibattito e con voto di fiducia che svuota la funzione del Parlamento. Come surrogato del ruolo delle assemblee elettive pubbliche, sono istituite fantomatiche “cabine di regia” per riunire a porte chiuse le opposizioni, le Regioni, i Sindaci. In parallelo, c’è la consultazione di un Comitato tecnico scientifico, il quale è totalmente sottratto a forme di scrutinio pubblico, sia sui pareri che esprime che sugli esperti di volta in volta coinvolti che sull’informazione sulle quali si basa. Il Governo se ne avvale a discrezione nella più totale opacità. A giustificazione di ciò, c’era il carattere urgente delle decisioni da prendere. Ammesso che tale giustificazione rappresenti una motivazione solida - ma non “concesso”, perché lavorare in modo trasparente non fa di per sé perdere tempo - tale giustificazione non sarebbe in alcun modo ammissibile per le decisioni future. La “riapertura”, infatti, non è un fatto emergenziale imprevisto, ma una necessità che deve essere programmata sulla base di informazioni reali e obiettivi precisi e misurabili. Esiste, ovviamente, un ampio margine di imprevedibilità, che riguarda la diffusione del virus. Su questo, così come sull’efficacia di mascherine, test, tamponi, il parere e le previsioni degli epidemiologi e dei medici devono prevalere su qualsiasi considerazione politica, incluso il paternalismo consolatorio e allarmistico. Su tutto il resto però, no: non sono gli epidemiologi a dover decidere. Sul come e quando sarà messo in sicurezza il personale sanitario, con dispositivi e test. Su quali settori produttivi riaprire per primi, quali tipologie di posti di lavoro sbloccare, quali misure di sicurezza e di controllo saranno da applicare, quali indicatori saranno da utilizzare per verificare i risultati dei provvedimenti presi: su tutto questo, deve decidere la politica. Quello che noi come Associazione Luca Coscioni chiediamo è che queste decisioni siano prese attraverso un processo pienamente democratico, ribaltando l’ordine seguito sul “Cura Italia”: prima un dibattito parlamentare sugli indirizzi politici generali per la “riapertura”, poi l’approvazione di un Decreto e la sua pubblicazione, poi la presentazione pubblica ai media dei contenuti del decreto, infine un grande dibattito parlamentare sui testo definitivo e sulle proposte di emendamento, senza che ciò sia d’intralcio o faccia perdere tempo rispetto alle misure eventualmente già operative. Proprio perché siamo in una situazione straordinaria ed emergenziale, è nello stesso interesse del Governo (e dei Governi regionali) applicare con rigore un processo decisionale basato sui fatti e sul metodo scientifico, con piena e pubblica assunzione di responsabilità da parte dei rappresentanti istituzionali nel pieno rispetto delle procedure democratiche. Solo così la scienza può essere alleato di una buona politica, invece di diventarne uno strumento utilizzato a discrezione. *Tesoriere Associazione Luca Coscioni Siria. Le famiglie dei detenuti siriani continuano a lottare di Fadwa Mahmoud* Internazionale, 17 aprile 2020 Osserviamo con orrore il regime siriano e i suoi alleati scatenare la loro immensa potenza di fuoco nella provincia di Idlib, ultimo bastione dell’opposizione armata. Quasi un milione di civili - uomini, donne e bambini - è ormai in fuga. I negoziati internazionali sono bloccati, mentre la Russia continua a intromettersi per regalare una vittoria totale a Damasco. Ma per me e per milioni di altri siriani la guerra non finisce qui, a prescindere dall’esisto di questa battaglia. Nel 1992, molto prima dello scoppio della rivoluzione, il regime di Hafez, padre di Bashar al Assad, mi ha incarcerata a causa delle mie opinioni dissidenti. All’epoca mio marito Abdel Aziz al Khayyer, medico, militante e pacifista di sinistra, era già in prigione. Io sono stata scarcerata nel 1994, mentre Abdel Aziz, che per tutta la vita ha combattuto per la democrazia e la libertà, ha dovuto attendere il 2005, dopo quattordici anni passati in prigione. Ma questa esperienza non lo ha fermato. Senza notizie dal 2012 - Con l’avvento della rivoluzione, nel 2011, mio marito si è unito ai giovani militanti che osavano sognare un futuro migliore per il nostro paese. Abdel Aziz credeva in una rivolta pacifica e nella democrazia in Siria. Con questo obiettivo aveva organizzato una conferenza che avrebbe dovuto riunire a Damasco gli oppositori che volevano una soluzione politica in Siria senza un intervento straniero. Ma il 20 settembre 2012 è stato nuovamente arrestato, stavolta insieme a Maher, uno dei nostri figli, poco prima della conferenza. Abdel Aziz era appena rientrato da un breve soggiorno all’estero, e io avevo mandato Maher a prenderlo all’aeroporto internazionale di Damasco. Non ho più avuto notizie di nessuno dei due. Le autorità hanno negato più volte di essere responsabili della scomparsa di mio figlio e mio marito, ma io sapevo che il regime non aveva alcuna intenzione di permettere ad Abdel Aziz di continuare a lavorare per una soluzione pacifica. Bashar al Assad era perfettamente consapevole che l’unico modo che aveva di vincere era trasformare la ribellione in guerra. Il regime siriano ha fatto sparire più di centomila persone nel corso degli ultimi nove anni - Da allora la mia vita è stata una battaglia permanente. I miei amici mi dicono che sono una donna forte, che la mia resistenza e la mia volontà sono impressionanti. Mi piace ridere e invitare le persone a casa. Dico a tutti che non ho scelta: non rinuncerò mai alla mia vita, alla mia famiglia e alla lotta per la libertà di tutti i detenuti siriani. Insieme ad Abdel Aziz e Maher (che ha da poco compiuto 39 anni) il regime siriano ha fatto sparire più di centomila persone nel corso degli ultimi nove anni. Gli arresti non sono mai cessati. Nelle regioni tornate sotto il controllo di Damasco grazie alla strategia della terra bruciata, il numero delle persone scomparse è aumentato di centinaia di unità ogni mese. Hanno portato via anche persone che avevano firmato accordi prima di consegnarsi alle autorità e non avevano mai toccato un’arma in vita loro. L’immobilismo della comunità internazionale - Il regime e i suoi alleati hanno infranto tutte le regole della guerra pur di distruggere il movimento rivoluzionario che si oppone alla dittatura di Bashar al Assad. Fatta eccezione per i rari barlumi di speranza dovuti all’intervento dei tribunali europei, la comunità internazionale è rimasta immobile, o peggio è stata complice di queste violazioni. Eppure, come il mio amato Abdel Aziz, ho ancora fede in un mondo senza impunità, dove sarà possibile avere giustizia per tutti. Sono convinta che un giorno il sistema di detenzioni di massa, torture ed esecuzioni sommarie che caratterizza il regime di Assad sarà smantellato. Gli specialisti della Siria sanno che pochissimi detenuti sono usciti dalle prigioni del paese senza essere stati brutalmente picchiati, torturati e affamati. Molti, sia uomini sia donne, sono stati violentati nelle prigioni del regime e in quelle dei suoi sinistri servizi di sicurezza. La detenzione, in Siria, non ha solo l’obiettivo di strappare informazioni, ma vuole soprattutto punire le vittime e terrorizzare le loro famiglie per mettere tutti a tacere. Ma è qui che il regime si sbaglia. Assad pensa che distruggendo i ribelli a Idlib metterà fine alla guerra, e i siriani che ancora vivono nel loro paese si arrenderanno. Ma una madre può mai dimenticare suo figlio incarcerato? Un fratello può dimenticare la sorella? Le famiglie siriane possono vivere in pace con questa disperazione addosso? La nostra lotta per le persone che ci sono care è comune, a prescindere da chi sia responsabile della loro scomparsa - Non sono sola nella mia battaglia, ed è per questo che nel mese di febbraio del 2017 ho contribuito alla creazione di Families for freedom, un movimento gestito da donne siriane che si battono per la giustizia e la libertà dei loro cari. Siamo le madri, le mogli e le sorelle degli uomini e delle donne rinchiusi in carcere dal regime. Alcune esponenti del movimento hanno visto i loro parenti portati via dal gruppo Stato islamico. Quando l’organizzazione jihadista è stata sconfitta militarmente, nessuno si è sforzato di portare alla sbarra i suoi ex combattenti o di scoprire cosa è capitato alle migliaia di persone che hanno ucciso o fatto sparire. Tra di noi ci sono anche donne che si sono unite al movimento dopo il rapimento dei loro familiari da parte di altri gruppi armati. Lavoriamo insieme, perché la nostra lotta per le persone che ci sono care è comune, a prescindere da chi sia responsabile per la loro scomparsa. In questi anni di oppressione il regime ha inculcato in Siria una cultura del potere assoluto, imitato dai suoi rivali. Non permetteremo mai al regime né a qualunque altro gruppo armato di impedirci di agire, perché il nostro amore per le persone scomparse è troppo forte. Non possiamo rinunciare. Per la Siria non ci sarà un ritorno allo statu quo ante, non importa a quale livello di bassezza scenderanno il regime e il suo alleato russo sul piano militare e politico. Le ferite di molti siriani sono troppo profonde perché possano tacere. Per me e per milioni di altre persone come me, non ci sarà tregua fino a quando Abdel Aziz, Maher e tutti gli altri non saranno liberati. *Traduzione di Andrea Sparacino Libia. Nessun negoziato all’orizzonte di Marco Magnano riforma.it, 17 aprile 2020 Il governo di Tripoli, in guerra contro Khalifa Haftar, esclude di sedersi al tavolo in tempi brevi, mentre la chiusura dei porti europei aggrava la crisi umanitaria di chi è detenuto nei centri per migranti. La pace in Libia, o almeno una tregua, è sempre più distante, e a farne le spese sono soprattutto gli ultimi, che siano civili libici o persone che dalla Libia vorrebbero soltanto transitare. Il mese scorso era stata alimentata qualche timida speranza per una riduzione del conflitto, soprattutto perché le due principali fazioni coinvolte nella guerra avevano accolto l’invito delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ad attuare una tregua umanitaria per poter contrastare anche nel Paese la crisi sanitaria globale. In particolare, l’intenzione era permettere all’Oms di accedere al territorio libico per effettuare test e analisi in condizioni di sicurezza. Oggi in Libia si segnala un numero molto basso di casi, meno di 50, ma le condizioni del sistema sanitario sono così compromesse da non consentire particolare ottimismo sulla capacità del Paese di contenere i focolai. Eppure, quella tregua non è mai diventata realtà, al punto che già nella serata del 22 marzo, giorno dell’annuncio, erano stati registrati colpi di mortaio nella periferia meridionale di Tripoli, di cui si ritiene sia responsabile l’Esercito Nazionale Libico, guidato da Khalifa Haftar, che negli ultimi mesi ha stretto sempre di più le proprie posizioni intorno alla capitale libica. Ma cercare le responsabilità soltanto in seno alle forze di Haftar non restituisce la generale indifferenza verso la diplomazia e il diritto internazionale, che risiede invece in tutte le parti in conflitto. Ancora il 22 marzo, le forze del Governo di Unità Nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj, avevano infatti sequestrato una petroliera al largo delle coste di Misurata, città alleata di Tripoli e luogo strategico nel conflitto. La nave cisterna è accusata di aver scaricato nel porto di Bengasi, nell’est del Paese, il carburante per caccia militari destinato invece a Tripoli. Due episodi tra i tanti che fanno capire quanto la tregua umanitaria sia stata largamente ignorata e violata sin dalle origini. Allo stesso modo, anche il cessate il fuoco stabilito lo scorso 19 gennaio nell’ambito della Conferenza di Berlino non è mai stato realmente rispettato. Durante quella conferenza, accolta con scetticismo da molti osservatori, era stato raggiunto un obiettivo non scontato, quello di riunire attorno allo stesso tavolo i principali attori della guerra libica, ma lo spazio per un’azione diplomatica è sempre stato troppo stretto e impossibile da percorrere. A complicare le cose, gli ultimi mesi hanno visto Haftar guadagnare sempre più terreno sul piano della forza militare, con azioni sempre più forti e sempre più vicine al cuore di Tripoli, segno di una capacità bellica crescente e di un sostegno internazionale che non è mai venuto meno. Anzi, l’ultimo anno - e la conferenza di Berlino non fa differenza - ha mostrato come Haftar sia considerato un interlocutore indispensabile per una soluzione politica alla crisi. Inoltre, il supporto russo ed egiziano, oltre a quello di Emirati Arabi Uniti e Giordania, è costante, al punto da non aver mai realmente interrotto le forniture militari, nonostante le intenzioni dell’Unione europea. Allo stesso modo, anche il sostegno turco a Tripoli è forte e presente, come dimostrano l’invio di attrezzature militari e di mercenari siriani, il cui compito è di rafforzare le difese dell’asse Tripoli-Misurata. Mercoledì 15 aprile, le deboli speranze di nuovi negoziati sono state cancellate con le dichiarazioni del capo del governo di Tripoli, Fayez Sl-sarraj, che ha tolto l’opzione dal tavolo, accusando Khalifa Haftar di sfruttare la pandemia per lanciare, nel silenzio generale, una nuova offensiva contro la capitale del Paese. Sarraj ha accusato Haftar di aver bombardato indiscriminatamente le zone residenziali e le strutture di Tripoli, oltre ad aver colpito l’ospedale pubblico di al-Khadra, nel centro della capitale. “Noi abbiamo sempre cercato di risolvere le nostre dispute attraverso un processo politico - ha dichiarato lo stesso Sarraj mercoledì 15 a Repubblica - ma ogni accordo è stato subito rinnegato da Haftar”. In effetti, oggi per Haftar non c’è nessuna buona ragione per sospendere il conflitto, perché una ripresa delle trattative diplomatiche non farebbe altro che congelare lo sforzo bellico condotto negli ultimi mesi. Perciò, non soltanto si sta ignorando la potenziale emergenza sanitaria, ma si sta rilanciando proprio per sfruttare l’inerzia del conflitto in un momento in cui la comunità internazionale, già estremamente debole e divisa intorno alla questione libica, è tutta concentrata su questioni differenti. Tuttavia, la Libia vive una crisi totale, sempre più profonda: da un lato il crollo del prezzo del petrolio si inserisce su un blocco produttivo che ha messo in ginocchio l’economia del Paese, ormai del tutto dipendente dal sostegno esterno, e dall’altra la costante violazione dei diritti umani nei centri di detenzione per migranti, su cui l’emergenza sanitaria rischia di abbattersi con violenza. Oggi, inoltre, la Libia è sempre di più un luogo senza via d’uscita: proprio mentre il presidente libico tuonava contro Haftar, 51 persone migranti provenienti dall’Eritrea e dal Sudan venivano state fatte sbarcare a Tripoli dalla cosiddetta “guardia costiera libica” per rientrare nei centri di detenzione locali, il tutto mentre gli scontri nella capitale continuano. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), queste 51 persone erano state consegnate alle autorità libiche dopo essere state salvate martedì sera da una nave commerciale nelle acque territoriali maltesi. In quell’occasione erano stati anche recuperati cinque corpi. Il punto è che in molti erano a conoscenza del naufragio, segnalato da Alarm Phone, un servizio telefonico e di segnalazione per le persone che hanno bisogno di essere soccorsi in mare. Allo stesso modo, il governo maltese ha affermato che l’Unione europea era stata avvertita, ma aveva deciso di non intervenire, lasciando la gestione del salvataggio a una nave commerciale maltese, che successivamente aveva trasbordato i naufraghi su un peschereccio libico. Per loro, come per altre centinaia di persone in questa nuova stagione di porti ufficialmente chiusi, si riaprono le porte dei centri di detenzione, in cui i trafficanti di esseri umani, investiti di potere dalle autorità locali o nazionali, li trattengono spesso con metodi violenti, torture e ricatti. Secondo l’Oim, “le persone soccorse in mare non dovrebbero essere rimandate in porti non sicuri”, e “un’alternativa allo sbarco in Libia va trovata con urgenza”. Inoltre, i centri di detenzione in Libia sono strutture sovraffollate, che hanno il potenziale per diventare un terreno fertile per la diffusione del Covid-19 e di molte altre malattie, rendendo ancora più grave una condizione da cui troppo spesso distogliamo lo sguardo. Colombia. Detenzione domiciliare per i soggetti a rischio coronavirus di Italo Cosentino sicurezzainternazionale.luiss.it, 17 aprile 2020 Quasi un mese dopo una sanguinosa rivolta che ha rivelato il drammatico sovraffollamento nelle carceri della Colombia, e pochi giorni dopo la morte di due detenuti positivi al Covid-19, il governo di Iván Duque ha deciso di mandare 4.000 persone private della libertà a scontare la pena a casa per contenere la pandemia. Il decreto 546, emanato martedì 14 aprile verso la mezzanotte nel quadro dello stato di emergenza dichiarato dall’esecutivo, “ha un grande senso umanitario in modo che le persone che potrebbero essere esposte a una maggiore vulnerabilità al virus, possano essere in grado di lasciare il confinamento carcerario intramurale e trasferimento in isolamento, migliorando le loro condizioni di protezione in termini di salute” - ha affermato il presidente. La misura copre, con alcune eccezioni, le persone di età superiore ai 60 anni, le persone che scontano pene inferiori a 5 anni, le donne in gravidanza o i bambini di età inferiore ai tre anni e i pazienti con cancro e malattie che sono difficili da gestire. Il narcotraffico, lo sfollamento forzato di popolazione e il rapimento sono reati gravi ai quali non si applicano tali benefici. Il decreto prevede anche che i detenuti a cui è stato diagnosticato il covid-19 siano trasferiti in luoghi più idonei a loro cura, anche se “la misura degli arresti domiciliari o della detenzione transitoria non sarà concessa fino a quando le autorità sanitarie non lo autorizzeranno”. La detenzione domiciliare è prevista, in linea di principio, per un periodo di sei mesi. “In questo primo decreto potranno beneficiare le persone che sono sul punto di uscire dal carcere” - ha spiegato il ministro della Giustizia Margarita Cabello Blanco, in una conferenza stampa on-line in cui ha ammesso che “il decreto di per sé non è sufficiente per affrontare l’emergenza, ma è un primo passo importante”. Il ministro ha spiegato che hanno ridotto il numero di possibili beneficiari da 10.000 a quasi 4.000 per accelerare le operazioni e che aspirano a raggiungere un numero maggiore con nuove misure. Il sovraffollamento è un problema cronico nel sistema carcerario colombiano, che ha una capacità di 80.000 prigionieri, ma ne ospita circa 124.000 nelle 132 carceri del Paese. Sabato 21 marzo, i detenuti in varie carceri del paese si erano ribellati per chiedere misure sanitarie che li proteggessero dalla pandemia. Il bilancio peggiore si è registrato al Carcere Modelo di Bogotá, dove il Ministero della Giustizia ha riportato 23 morti e 83 feriti, sebbene abbia attribuito gli eventi a un “massiccio e criminale tentativo di evasione e rivolte”. Più tardi, la Procura generale ha individuato i responsabili delle sommosse nei leader del dissenso delle Farc, che hanno preso le distanze dal processo di pace, e i membri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, ultima guerriglia attiva nel paese. Iraq. 16.045 i detenuti rilasciati per contenere diffusione coronavirus agenzianova.com, 17 aprile 2020 Sono 16.045 i detenuti finora rilasciati dalle carceri irachene al fine di contenere la diffusione del coronavirus all’interno degli istituti di pena del paese. Lo ha annunciato il Consiglio giudiziario supremo di Baghdad, citando dati aggiornati al 15 aprile. Il totale dei casi di contagio da coronavirus in Iraq è salito a 1.400, mentre il numero dei decessi si attesta a 78. Il primo caso confermato di contagio da coronavirus nel paese è stato registrato nel governatorato di Najaf lo scorso 24 febbraio.