Coronavirus, 94 detenuti e 204 agenti di Polizia penitenziaria contagiati di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2020 Il ministero: “Dall’inizio dell’emergenza scarcerati i 6mila”. Nelle carceri spuntano un po’ ovunque casi di detenuti e agenti positivi. Antigone: “Ci risulta che stiano migliorando i protocolli di prevenzione ma non possiamo fare a meno di constatare che ci si poteva muovere prima, evitando che il numero di contagi aumentasse”. Intanto il Dap informa che nei penitenziari si contano 55.036 presenze a fronte delle 61.230 del 29 febbraio scorso, appena dopo le prime indicazioni fornite agli istituti per la prevenzione del contagio. Nel carcere di Montorio a Verona 17 agenti della polizia penitenziaria e 25 detenuti sono risultati positivi al tampone, anche se Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria parla già di “50 contagiati”. In quello di Bologna, invece, sono risultati infettati dieci dei venti detenuti sottoposti al test, mentre a Tolmezzo (Udine) i cinque che erano stati trasferiti proprio dal capoluogo emiliano sono risultati positivi al termine del periodo di isolamento, dopo un primo tampone negativo. Tanto che il sindaco Francesco Brollo ha inviato una lettera di protesta alle direzioni competenti del ministero della Giustizia. La verità è che spuntano casi un po’ ovunque. Quello che si temeva si sta verificando ed ora è difficile capire se la situazione sia effettivamente sotto controllo. “In questi giorni ne abbiamo sentite di tutti i colori e, in alcuni casi, i fatti hanno confermato i racconti, in altri no”, spiega a ilfattoquotidiano.it il responsabile dell’Osservatorio carcere di Antigone, Alessio Scandurra, per il quale “è impossibile fare previsioni”. “Ci risulta che stiano migliorando i protocolli di prevenzione - aggiunge - ma non possiamo fare a meno di constatare che ci si poteva muovere prima, evitando che il numero di contagi aumentasse, rendendo ancora più problematico il nodo degli spazi necessari per isolare i positivi al tampone”. I contagi in carcere - Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia sono complessivamente 94 i detenuti ad oggi positivi al virus, quasi tutti asintomatici, mentre 11 sono ricoverati in strutture sanitarie. Tra le fila del personale risultano contagiati 204 agenti di Polizia penitenziaria e cinque appartenenti al comparto funzioni centrali: 170 stanno affrontando la quarantena presso il proprio domicilio e 22 in caserma, altri 17 sono ricoverati presso strutture ospedaliere. Per quanto riguarda i guariti, sono 19 fino a oggi tra i detenuti e, di questi, 14 hanno affrontato la quarantena all’interno delle camere di isolamento sanitario appositamente predisposte, mentre gli altri cinque sono rimasti nelle strutture ospedaliere dove erano ricoverati. Restano due i detenuti deceduti, uno dei quali si trovava in detenzione domiciliare in ospedale. Sei i guariti fra il personale di Polizia Penitenziaria, che conta due decessi attribuibili al contagio. Nei giorni scorsi erano state diverse le prese di posizione affinché fossero prese misure più incisive e gli agenti fossero dotati di dispositivi adeguati. Nel frattempo, però, accade anche nel carcere di Sollicciano, a Firenze, salti fuori la storia di una grigliata di Pasquetta organizzata da una quarantina di agenti nel cortile del penitenziario, con tanto di partita di pallone. Episodio riportato da La Nazione e sul quale il direttore dell’istituto, Fabio Prestopino, ha fatto partire un’inchiesta interna. Detenzione domiciliare e licenza ai semiliberi - L’Unione delle Camere penali continua a lanciare l’allarme per il dilagare del Coronavirus nelle carceri, dove “ci sono ancora diecimila detenuti oltre la capienza regolamentare”. Il decreto legge Cura Italia ha introdotto, attraverso una procedura semplificata, una forma speciale di detenzione domiciliare che potranno ottenere, fino al 30 giugno 2020, i detenuti che devono scontare una pena detentiva tra i 7 e i 18 mesi. Parliamo di circa 4mila detenuti, forse anche di più. “Ci sembra strano - aggiunge Scandurra - che sulla detenzione domiciliare il governo abbia pensato a una misura unica per tutti, senza fare una distinzione in base all’età o alle condizioni di salute dei detenuti”. Nel frattempo, secondo i dati forniti dal Dap, sono oltre 6mila i detenuti in meno negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Oggi infatti si contano 55.036 presenze a fronte delle 61.230 del 29 febbraio scorso, appena dopo le prime indicazioni fornite dal Dap agli istituti per la prevenzione del contagio da Covid19. Un calo dovuto a diversi fattori: la detenzione domiciliare (anche quella prevista dal decreto-legge 18/2020), il numero di contagiati che sono stati trasferiti in strutture sanitarie, i permessi per chi è in semilibertà e la riduzione di nuovi ingressi, dovuta anche alla drastica diminuzione dei reati compiuti e, quindi, anche degli arresti in flagranza. “Dal 18 marzo ad oggi - spiegano dall’ufficio del Garante nazionale dei Diritti delle persone detenute - sono stati fatti uscire e affidati alla detenzione domiciliare 1900 persone. In licenza da semilibertà fino a fine giugno, invece, ci sono altri 420 detenuti”. Non per tutti c’è bisogno del braccialetto elettronico, che pure tante polemiche ha creato. Il nodo dei braccialetti - Perché sebbene la prima gara sia stata fatta nel 2001 e per questi strumenti sino stati spesi oltre 200 milioni di euro, quando sono serviti, ci si è accorti che non ce n’erano abbastanza. Così, dopo le rivolte nelle carceri (con morti, feriti e 35 milioni di danni) e dopo che è venuto fuori che su 5mila braccialetti per il controllo a distanza dei detenuti, fino al 15 maggio sarebbero stati disponibili solo 2.600 dispositivi, è toccato al commissario straordinario per l’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri, affidare la fornitura di altri braccialetti elettronici (e il relativo servizio di sorveglianza a distanza) a Fastweb. Che, tra l’altro, è la stessa società con cui il ministero dell’Interno aveva già siglato un contratto per la fornitura di questi dispositivi. Si rincorre l’obiettivo di poter contare su 4.700 braccialetti entro la fine di maggio. Sale la tensione - Sperando che, nel frattempo, la situazione non diventi ingestibile. Tra le situazioni che destano maggiore preoccupazione c’è quella che riguarda il carcere di Verona. Il segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo ha presentato una querela al procuratore Angela Barbaglio, segnalando anche di presunti “inviti verbali a non utilizzare le mascherine per non spaventare i detenuti” di cui sarebbe stato riportato al sindacato. Secondo quanto raccontato, i nuovi arrivati sarebbero stati tenuti in osservazione solo tre giorni e, in assenza di sintomatologia, condotti nei reparti senza particolari precauzioni. Altro caso è quello che riguarda il carcere di Tolmezzo (Udine), dove i detenuti stanno attuando uno sciopero pacifico, lasciando le celle aperte. Tutto nasce dal trasferimento di cinque carcerati provenienti dal carcere di Bologna, poi risultati positivi al Coronavirus. Il sindaco ha scritto al ministro della Giustizia e, in queste ore, protestano anche i parenti dei detenuti. Inchiesta e class action - Nel frattempo, la Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) sta indagando su quanto è avvenuto durante la rivolta del 6 aprile, scoppiata dopo la diffusione della notizia di alcuni casi di contagio, per capire se si siano verificati episodi di violenza sia contro i detenuti, sia nei confronti degli agenti penitenziari. Nei giorni scorsi, infatti, i garanti dei detenuti di Napoli e Campania e l’associazione Antigone avevano segnalato le storie raccontate da alcuni reclusi e mostrato la foto di uno di loro con i segni di presunte manganellate. Inevitabile la risposta, che arriva con una nota di Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, presidente e segretario regionale dell’Uspp: “Nei reparti sono stati trovati coltelli rudimentali lavorati con pezzi di ferro ricavati dai piedi dei tavoli e delle brande, bombolette di gas, olio bollente in uso sui fornelli delle camere detentive pronto ad essere utilizzato contro gli stessi agenti, pezzi di ceramica e vetro taglienti ricavati dai lavabi ridotti in frantumi e da specchi in dotazione nelle camere, tutto materiale sequestrato dagli agenti di polizia Penitenziaria”. L’inchiesta chiarirà cosa è accaduto a Caserta, mentre Nessuno tocchi Caino ha fatto partire una class action per le condizioni dei 434 detenuti reclusi nel carcere di Bari, che di posti ne ha 299. La “massima” sicurezza in carcere per la salute delle persone recluse di Leopoldo Grosso* gruppoabele.org, 16 aprile 2020 In tempi di Coronavirus la massima sicurezza di un carcere assume tutt’altro significato: si prefigge la priorità di proteggere la salute delle persone recluse. La perdita del diritto alla libertà, con cui si materializza la pena inflitta al condannato, non comporta la sottrazione di altri diritti: alla salute e alla vita, che non possono essere pregiudicati dalla mancanza e dall’insufficienza dei presidi sanitari che la garantiscono. Là dove ci sono persone ammassate in luoghi chiusi, la diffusione del virus trova l’ambiente più favorevole per il contagio. Ciò che è successo nelle strutture per l’assistenza agli anziani insegna. Una lezione di cui non avremmo dovuto avere bisogno. Affollamento. Il sovraffollamento costituisce l’handicap storico delle carceri italiane, ed è il principale ostacolo alla sicurezza. Non solo sotto il profilo sanitario. Le teorie etologiche sulla mancanza di spazi personali e di privacy, sul nesso frustrazione/aggressività sono note da tempo. Il distanziamento sociale, la regola tanto raccomandata a cui attenersi, l’unica valida per proteggersi dal contagio, è inattuabile in carcere. In celle da 12 metri quadri per 4 detenuti, con un solo water, non c’è possibilità di difesa. Bisogna de-affollare, de-agglomerare, dis-aggruppare, defluire, sfoltire, sparpagliare. Ma quanto è possibile creare reparti Covid in carcere, fare spazio a luoghi di isolamento per la protezione sanitaria, e attuare la disposizione “una persona positiva al virus per cella, con bagno riservato”, senza ammassare ulteriormente tutti gli altri in posti più esigui? Non siamo né in Svezia, né in Norvegia, purtroppo. Alleggerimento della pressione. La soluzione appare semplice: diminuire l’afflusso, aumentare il deflusso. Si tratta di selezionare e limitare gli ingressi, favorire e accelerare le uscite. Una scelta di questo tipo ha bisogno di coraggio politico. Non può essere subordinata ai timori di un’opinione pubblica già in ansia per il contagio del virus. Il decreto Cura Italia, prevede un differimento pena attuato tramite la reclusione domiciliare per chi deve scontare fino a 18 mesi. Nella realizzazione della misura si annidano tre ostacoli che restringono gli orizzonti del provvedimento e imbrigliano le maglie che si vorrebbero invece allargare: a) la preclusione all’acceso per cosiddetti reati ostativi, considerati di per sé, a prescindere dai singoli detenuti e dal decorso pregresso della pena; b) la necessità di un domicilio ritenuto idoneo, che penalizza la stragrande maggioranza dei detenuti stranieri marginali; c) l’applicazione di braccialetti elettronici obbligatori per chi ha da scontare più di 6 mesi, la cui cronica limitata disponibilità, oggi accentuata dal fermo produttivo, tratterrà in carcere anche chi è in possesso di tutti gli altri requisiti del decreto. Nei fatti, si stima che potranno fruire del provvedimento solo alcune centinaia di detenuti, molti meno di quanti già i giudici di sorveglianza e dei tribunali abbiano predisposto con il maggiore utilizzo delle misure alternative ordinarie e il minor ricorso alla detenzione preventiva. Si deve alla loro autonoma iniziativa il calo delle presenze in carcere: dai 61.235 del 28 febbraio ai 56.102 del 10 marzo. A fronte comunque di un limite di capienza ufficiale complessiva, che, è sempre doveroso ricordare, non dovrebbe superare 47.482 posti ordinari. Si valuta che se il decreto avesse comportato un tetto di pena residua di 36 anziché 18 mesi, in linea teorica i beneficiari potevano consistere in ben 22.374, quasi un terzo della popolazione carceraria, con un decisivo effetto sul sovraffollamento. Garantire la comunicazione con l’esterno. Per l’ambiente carcerario l’unico distanziamento a oggi effettivamente attuato e portato automaticamente a regime è quello dai familiari a cui vengono precluse le visite e dal volontariato carcerario a cui sono impedite le attività. Poter comunicare con l’esterno diventa vitale. È doveroso che la pena suppletiva dello stop alle visite e del divieto di accesso al volontariato penitenziario, vengano compensate, già in fase uno dell’epidemia, con un grande sforzo aggiuntivo nella comunicazione digitale e telefonica. È una delicata equazione, tra ciò che viene sottratto e ciò che bisogna aggiungere ma un comportamento istituzionale rispettoso, non prevaricatorio, richiede che la somma algebrica debba risultare zero. L’investimento richiesto in dispositivi comunicativi telematici con l’esterno, di facile fruibilità ed accessibilità, ha l’obiettivo di implementare il volume di opportunità, non solo rispetto al collegamento con i familiari, ma anche per la didattica, la conduzione di attività e il sostegno psicologico online. Lo sforzo dell’investimento richiesto costituirà un patrimonio la cui utilità andrà oltre l’emergenza, ampliando le possibilità di rapporto tra carcere e società. La protezione degli agenti di polizia penitenziaria. Infine, proteggere gli agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale del carcere dal rischio del contagio costituisce la misura preventiva preliminare. Preservarli dalla possibilità di essere infettati all’esterno, significa proteggere i detenuti dal contagio all’interno. Ciò significa la sanificazione degli ambienti collettivi in cui gli agenti dimorano, la dotazione delle necessarie mascherine, la fruibilità continua e tempestiva di tamponi, la possibilità di quarantena in luoghi attrezzati, la possibilità di supplire gli agenti che risultano positivi. Un’attenzione privilegiata nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, li mette in grado di proteggere meglio i loro detenuti. Insomma, come detto sopra, servono scelte politiche coraggiose. Anche e a maggior ragione se dirette verso coloro che il resto della società tende a dimenticare perché giudicati colpevoli. Tenendo conto che il virus e il contagio non si fermano davanti al giudizio dei tribunali. *Presidente onorario del Gruppo Abele Se il decreto Cura-Italia non cura le carceri di Antonio Mattone Il Mattino, 16 aprile 2020 Se garantire il distanziamento sociale resta ad oggi l’unica arma efficace per combattere il coronavirus, nelle carceri italiane siamo di fronte a una vera e propria resa, vista l’esiguità degli effetti delle misure messe in campo dal governo per ridurre la pressione negli istituti sovraffollati. L’articolo 123 del decreto Cura Italia, prevede la possibilità che la pena detentiva non superiore a 18 mesi possa essere eseguita presso il proprio domicilio, salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati. La mancanza dei braccialetti elettronici che devono essere applicati a coloro che devono scontare un residuo di pena superiore a sei mesi, fa sì che dopo aver imbastito migliaia di richieste accompagnate da accurate relazioni degli educatori, la stragrande maggioranza dei detenuti che potrebbe beneficiare di questa norma sia rimasta in carcere. Con l’accordo siglato tra il ministro della Giustizia, il Viminale e il commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, è stata programmata l’installazione di 4.700 nuovi dispositivi entro la fine di maggio. In questo modo viene vanificata la prerogativa d’urgenza che il decreto-legge voleva attuare. Intoppi nelle cancellerie e carichi di arretrati della magistratura di sorveglianza, hanno fatto accumulare ulteriori ritardi. Sta di fatto che nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano, a fronte di duecentodieci richieste di detenzione domiciliare sulla base del decreto Cura Italia, sono usciti meno di quindici carcerati. A questo provvedimento si aggiunge la direttiva emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che ha chiesto agli istituti di segnalare all’autorità giudiziaria i casi di ultrasettantenni o portatori di gravi patologie per il differimento della pena, indipendentemente dal tipo di reato e dagli anni che restano da scontare. Istanze che non trovano corrispondenza in nessuna norma e che quindi il più delle volte sono dichiarate inammissibili dalla magistratura. La montagna ha partorito il topolino. L’impressione è che si passi di mano in mano il cerino acceso, con il rischio che la polveriera possa esplodere da un momento all’altro. Dobbiamo riscontrare che, ogni qual volta debbano essere presi in considerazione provvedimenti che producono benefici su chi vive all’interno delle carceri, si pensa più a non perdere il consenso elettorale che alla salute dei detenuti, degli operatori penitenziari e alla fine anche al bene dei cittadini, perché se un istituto di pena diventa un focolaio del contagio, le conseguenze si propagano inevitabilmente su tutta la popolazione. Ma questa è una storia vecchia, lo abbiamo visto anche con la mancata riforma penitenziaria scaturita dagli Stati generali dell’esecuzione penale che poteva essere approvata nella scorsa legislatura da chi adesso accusa il ministro Bonafede di averla affossata. In una situazione di emergenza, si risponde con procedure e misure d’emergenza. Come si fa oggi a dormire sonni tranquilli quando in una cella convivono più di dieci persone? In un ambiente chiuso e nello stesso tempo frequentato da numerosi operatori e agenti penitenziari, è più probabile contrarre il virus, con il rischio di mettere a repentaglio la vita di persone fragili come i detenuti anziani e malati. E poi non dimentichiamo che scontare una condanna nel proprio domicilio non vuol dire aver condonata la propria pena, ma pagare il debito con la giustizia in una delle modalità previste dalla nostra Costituzione. Certezza della pena, non vuol dire certezza della galera. È stato Papa Francesco a mettere l’umanità di fronte alla drammatica situazione del mondo delle carceri durante la via Crucis. Nel silenzio di una piazza San Pietro deserta, le testimonianze di detenuti, operatori penitenziari, vittime e figli di carnefici, hanno fatto emergere tutto il dolore causato dalla violenza degli uomini. Il male non è stato nascosto o attenuato ma è stato raccontato in tutte le sue sfaccettature. Quello di cui si è stati artefici, quello subito da innocenti o perché è stata troncata la vita di propri cari. E poi lo stigma di essere figli di mafiosi e la fatica di misurarsi ogni giorno con un mestiere usurante. Il carcere non può essere una risposta al male solo comprimendo nelle celle chi ha commesso crimini. Se oggi sono diminuiti di poche migliaia i reclusi nei penitenziari italiani questo è dipeso da misure ordinarie, dalla tenacia di magistrati di sorveglianza coraggiosi e dal fatto che con il lockdown si commettono meno reati. Non sappiamo come ha risposto il Guardasigilli alle spiegazioni chieste dalla Cedu sulla condizione dei detenuti e sul rischio di contrarre il Covid-19. Ci auguriamo che non sia ancora una volta l’Europa a condannare l’Italia per comportamenti disumani e degradanti: un nuovo schiaffo ad un Paese che, non dimentichiamolo, è stata la culla del diritto. L’emergenza Covid in carcere e la battaglia comune dei penalisti di Laura Distefano livesicilia.it, 16 aprile 2020 Da una parte il pressing alla magistratura, dall’altra il dialogo con i direttori per garantire contatti dei detenuti con familiari e difensori. Ancora nelle carceri catanesi la situazione non è esplosa. Qualche protesta, la più eclatante qualche settimana fa a Piazza Lanza con le lenzuola bruciate, ma nient’altro. Ma in queste settimane si sono susseguite intense interlocuzioni - forzatamente a suon di carte bollate vista l’emergenza Covid - della Camera Penale di Catania (d’intesa con le altre tre del distretto giudiziario) con la magistratura (anche di sorveglianza), il Dap e i direttori degli istituti penitenziari. Una fitta documentazione che serve a coprire le lacune di un decreto del Ministro della Giustizia che stabilisce alcuni parametri ma lascia spazi vuoti. E, dunque, aperte interpretazioni applicative. La paura del contagio quando si è bloccati all’interno di quattro mura si sente ancora di più. Anche Franco Gabrielli, capo della polizia in un documento finito all’Interpol, scrive: “L’emergenza Covid-19 rappresenta un evento ancora più traumatico per la popolazione detenuta, non solo per gli spazi che, talvolta, non consentono il rispetto delle regole di distanziamento sociale previste per la collettività, ma per le nuove misure, più restrittive, in materia di colloqui con i familiari a tutela della salute”. Le questioni “calde” sul tema carceri sono due: una è quella della possibile applicazione di una misura alternativa e l’altra è quella di permettere i contatti con parenti e difensori attraverso telefoni e mezzi informatici. In una lettera indirizzata ai principali vertici delle carceri delle province di Catania e Siracusa, la Camera Penale Serafino Famà evidenzia la necessità di “potenziare i colloqui con i familiari anche tramite video chiamata e di far accedere ai detenuti ad alcuni servizi in maniera gratuita: servizio di lavanderia e telefonate a fissi e mobili”. Nella missiva, i penalisti denunciano casi di richieste di pagamento per una telefonata o per il servizio di lavanderia. “Ove tali circostanze siano dovute ad una cattiva comunicazione agli addetti dei vari servizi - sollecita la Camera Penale - si prega di porvi rimedio quanto prima”. Oltre a questo l’associazione forense preme affinché si avvii un percorso per rendere più accessibile la comunicazione tra detenuto e difensore. Magari - suggeriscono - “consentendo che i detenuti possano effettuare telefonate anche verso le utenze cellulari degli avvocati. E la richiesta di colloquio potrebbe essere effettuata dal difensore attraverso l’ufficio matricola” dell’istituto penitenziario. Un pressing è stato fatto anche nei confronti della magistratura. A cui le Camere Penali riconoscono un ruolo anche suppletivo alle mancanze del legislatore. “si è registrata, anche nel nostro distretto, - si legge in un documento - una iniziativa della magistratura di sorveglianza - e in alcuni casi, seppur ancor di limitato impatto, anche del tribunale del riesame - tesa a supplire alla carenza ed ai limiti della inutile iniziativa legislativa”. Ma in tutte le medaglie c’è un rovescio. “Analoga sensibilità, almeno a parere di chi scrive, non sembra particolarmente diffusa nella magistratura di merito - scrivono i penalisti catanesi - in ordine ai soggetti sottoposti a custodia cautelare”. La proposta è quella di adottare una sorta di osservatorio per permettere equità nelle decisioni. “Sul delicatissimo (e fortemente drammatico) tema della condizione dei soggetti ristretti in carcere, la Camera penale “Serafino Famà” di Catania - afferma il presidente, l’avvocato Turi Liotta - ha ritenuto opportuno promuovere un agire comune tra le 4 camere penali del distretto di Corte d’Appello: Catania, appunto, Siracusa, Ragusa/Modica e Caltagirone. Sia perché il tema è di generale interesse, sia perché le Camere Penali distrettuali operano nel medesimo territorio su cui opera la giurisdizione del Tribunale di Sorveglianza di Catania. È stato appunto il Tribunale di Sorveglianza il destinatario principale del primo documento, datato 13 marzo 2020, con il quale si sollecitava lo sguardo attento sulla condizione carceraria e sull’adozione, nel perimetro della legislazione esistente, di provvedimenti che potessero consentire la deflazione del numero della popolazione carceraria, certamente in stato di sovraffollamento. A questo - argomenta ancora il penalista - ha fatto seguito una interlocuzione con i capi degli uffici giudiziari e con poi con i direttori delle carceri del distretto per segnalare alcuni problemi concreti, legati alle limitazioni della mobilità disposte per la prevenzione del pericolo del contagio ed alle norme di precauzione imposte sia fuori che dentro le “mura”, ed alla necessità di assicurare comunque i colloqui tra difensore ed assistito”. Una lotta quella dei diritti ai detenuti che è condivisa a livello nazionale. “Da ultimo, in sintonia con quanto deliberato da Unione Camere Penali Italiane - spiega l’avvocato Liotta - uno stralcio delle riflessioni e delle proposte, sul tema delle decisioni assunte dalla magistratura in ordine alla sussistenza dei pericoli da contagio, sono state proposte in sede di video riunione tra gli organi centrali dell’Unione e del Consiglio insieme ai presidenti delle Camere penali di Sicilia e Sardegna”. Emergenza Coronavirus e carceri, proposte urgenti di Fabrizio Ventimiglia* Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2020 L’imponente emergenza sanitaria di questi giorni sta facendo emergere svariate problematiche che affliggono da molto tempo il nostro Paese, problematiche che, in un periodo di crisi come quello attuale, riemergono con drammaticità. Così come l’epidemia in atto ha svelato che il costante definanziamento statale alla sanità ha provocato un indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale oggi in grandissima difficoltà a fronte delle migliaia di ricoveri quotidiani, allo stesso modo essa ha nuovamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica la drammatica condizione di sovraffollamento delle carceri. Secondo il Garante Nazionale dei detenuti, la capienza regolamentare dei nostri istituti di reclusione è di 51.416 posti, mentre quelli effettivamente disponibili sono circa 47.000; i detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190%. Il problema non riguarda solo il sovraffollamento, ma anche le strutture che risultano essere fatiscenti e prive dei basilari presìdi igienico-sanitari: in molti istituti le celle sono senza acqua calda, in buona parte di essi manca persino la doccia; spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene personale. Uno dei padri della nostra Costituzione, Piero Calamandrei, nel 1948 chiedeva al Parlamento l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle carceri, pronunciando un discorso che sarebbe rimasto nella storia: “Nelle carceri italiane, per capirne lo stato, per rendersene conto, bisogna esserci stato”. Queste parole, a 72 anni di distanza, sembrano riecheggiare con drammatica attualità, nelle parole dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con la nota sentenza Torregiani, hanno condannato nel 2013 l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Il caso riguardava i trattamenti inumani e degradanti subìti dai ricorrenti, detenuti per molti mesi in celle triple con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione, senza acqua calda e addirittura con un’illuminazione e un’areazione degli spazi insufficiente. Ciò premesso, appaiono evidenti - considerati i numeri e le condizioni strutturali dei nostri penitenziari - gli scenari catastrofici che un’eventuale diffusione del virus negli istituti di pena comporterebbe per tutta la popolazione delle nostre carceri. Come noto, il c.d. Decreto Cura Italia ha imposto a tutti i cittadini incisive misure di distanziamento sociale, quali l’obbligo di rimanere nelle proprie abitazioni o la necessità di adottare talune precauzioni quando, per necessità, motivi di lavoro o di salute, si è costretti ad uscire. Analoghe restrizioni o presidi precauzionali non paiono essere stati, tuttavia, implementati nei penitenziari, ove la vita sembra proseguire come se nulla stesse accadendo. Unica iniziativa adottata è stata quella di aver provato a “tagliare i ponti” con l’esterno, prevedendo la sospensione di tutti i colloqui con i parenti nonché la sospensione delle attività sociali e rieducative. Le persone, però, rimangono ammassate, le condizioni igieniche delle celle precarie, le infermerie non riescono a rilevare quotidianamente la temperatura corporea dei detenuti come prescritto dai regolamenti. Da tale situazione scaturisce il serio e grave rischio di non riuscire con tempestività ad intercettare un’eventuale infezione. In totale - secondo i dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - i detenuti positivi al coronavirus sono 21, 17 dei quali si trovano in isolamento in camere singole all’interno delle stesse carceri. Molto più numerosi, invece, i positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria: sono 116, con due vittime, su quasi 38mila agenti penitenziari in totale. Questi dati vanno comunque confrontati con il dato dell’esiguità dei tamponi effettuati sui detenuti. In Lombardia, ad esempio, su 8700 detenuti sono stati effettuati poco più di 150 tamponi. A fronte di tutto ciò, non v’è chi non veda la potenziale pericolosità della situazione e, conseguentemente, la necessità impellente di trovare una soluzione immediata, prima che le carceri si trasformino in pericolosi focolai di contagio. Come Associazione Centro Studi Borgogna riteniamo importante, in questa fase storica di crisi non solo sanitaria ma anche sociale ed economica, mettere a disposizione delle Istituzioni le nostre competenze formulando proposte concrete e di facile applicazione. Il tema, a nostro avviso, è da affrontare sotto un duplice profilo. Occorre, da una parte, favorire un deflusso controllato dagli istituti penitenziari e dall’altra, per quanto possibile, contenere i nuovi ingressi in carcere. Il governo, invero, ha previsto alcune norme ad hoc, inserite nel D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, per favorire la liberazione di una parte di popolazione carceraria. In particolare, è stato previsto un ampliamento temporaneo con scadenza al 30 giugno dell’istituto della detenzione domiciliare: essa sarà accessibile se la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi (e ciò anche nel caso essa costituisca parte residua di una pena maggiore) e se il condannato abbia la disponibilità di un domicilio effettivo e per ubicazione idoneo a soddisfare le esigenze preventive. Il beneficio sarà concesso con un procedimento semplificato, la cui competenza è attribuita al Magistrato di Sorveglianza che dovrà decidere entro cinque giorni. Queste misure, a cui si aggiungono quelle previste dall’art. 124 del citato Decreto circa l’estensione del periodo di licenza concessa al detenuto semilibero oltre il limite previsto dall’art. 52 O.P., non si applicano ai soggetti condannati per uno dei delitti ostativi previsti dall’art. 4 bis O.P., al delinquente abituale o per tendenza, al detenuto sottoposto al regime di sorveglianza particolare, ai condannati per maltrattamenti in famiglia e stalking e ai detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per alcune delle infrazioni disciplinari previste dall’art. 77 comma 1 del Dpr 230/2000 e a quelli coinvolti nelle violente sommosse avvenute dal 7 al 9 marzo in diverse città italiane. Nei casi in cui la pena sia superiore a sei mesi, il controllo sarà effettuato mediante l’uso dei braccialetti elettronici. I dispositivi elettronici messi a disposizione dal Ministro Buonafede sono cinquemila, ma quelli immediatamente utilizzabili meno di mille. Per l’attivazione degli altri sono necessari fondi (e nel decreto è inserita una clausola di invarianza finanziaria) ma soprattutto tempistiche stimate in almeno tre mesi. Come Associazione CSB riteniamo che questo tempo, purtroppo, non ci sia dato: il virus si diffonde molto velocemente e le misure da adottare devono essere urgenti e di facile e veloce applicazione. In particolare, per quanto riguarda le misure deflazionistiche, si ritiene necessario provvedere alla scarcerazione immediata e a prescindere dall’utilizzo dei braccialetti elettronici di tutti i detenuti che abbiano pene (o residui di pena) non superiori a due anni e che non siano stati condannati per i reati già previsti quale causa di esclusione del beneficio dal Decreto. Per quanto riguarda, invece, la riduzione dei flussi in entrata, è necessario evidentemente dilatare - se possibile - ancor di più il concetto di custodia cautelare in carcere quale extrema ratio, prediligendo misure meno afflittive ma comunque idonee ad assicurare le esigenze cautelari cui esse sono finalizzate. Si propone, a tal proposito, che l’emergenza sanitaria venga presa in considerazione dagli organi giudicanti - tanto in fase applicativa quanto in fase di modifica della misura - quale criterio applicativo della misura cautelare prevedendo, altresì, su di esso un onere motivazionale rafforzato. Per quanto riguarda, inoltre l’eventuale adozione di una misura cautelare nei confronti di soggetti di età pari o superiore a sessanta anni o di soggetti affetti da patologie croniche pregresse si propone che sia disposta sempre - in sostituzione della custodia cautelare in carcere - la misura cautelare degli arresti domiciliari, ad esclusione dei casi di grave e comprovata pericolosità sociale. Si propone, infine, che l’emissione di tutti gli ordini di esecuzione per pene fino a quattro anni divenute definitive sia sospesa sino al termine dell’emergenza sanitaria, ovvero fino a quando sarà necessario mantenere le misure di distanziamento sociale. Le proposte individuate sono finalizzate ad uno svuotamento immediato delle carceri per arrivare ad avere un numero di detenuti che sia almeno pari a quella che sarebbe la capienza massima consentita dalla normativa italiana ed europea ma soprattutto la quantità di persone idonea a garantire il distanziamento sociale imposto dalla pandemia in atto. misura cautelare nei confronti di soggetti di età pari o superiore a sessanta anni o di soggetti affetti da patologie croniche pregresse si propone che sia disposta sempre - in sostituzione della custodia cautelare in carcere - la misura cautelare degli arresti domiciliari, ad esclusione dei casi di grave e comprovata pericolosità sociale. Si propone, infine, che l’emissione di tutti gli ordini di esecuzione per pene fino a quattro anni divenute definitive sia sospesa sino al termine dell’emergenza sanitaria, ovvero fino a quando sarà necessario mantenere le misure di distanziamento sociale. Le proposte individuate sono finalizzate ad uno svuotamento immediato delle carceri per arrivare ad avere un numero di detenuti che sia almeno pari a quella che sarebbe la capienza massima consentita dalla normativa italiana ed europea ma soprattutto la quantità di persone idonea a garantire il distanziamento sociale imposto dalla pandemia in atto. Come Centro Studi Borgogna riteniamo comunque che sia indispensabile continuare a ragionare sul tema carceri con proposte che, superata la fase emergenziale, siano in grado di risolvere il problema strutturale ed endemico del sovraffollamento degli istituti di pena. *Presidente del Centro Studi Borgogna Che cosa avrà risposto il ministro Bonafede alla Corte di Strasburgo? di Maurizio Tortorella Panorama, 16 aprile 2020 Martedì 14 aprile è scaduto il tempo della risposta per il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Sette giorni prima la Corte europea dei diritti dell’uomo (la Cedu) ha chiesto al governo italiano e in particolare al ministro guardasigilli di spiegare con urgenza quali “misure preventive specifiche intenda adottare” per proteggere dal pericolo di contagio di Covid-19 B. C, un condannato per droga attualmente detenuto a Vicenza, e tutti i carcerati italiani. La sollecitazione era stata inviata a Strasburgo da due avvocati emiliani, Roberto Ghini e Pina di Credico, i quali chiedevano una misura urgente (e provvisoria) per un loro assistito, per l’appunto il recluso a Vicenza, dove deve scontare un residuo di pena di 16 mesi ed è costretto a convivere con un altro detenuto in una cella di sette/otto metri quadrati. La preoccupazione e l’urgenza, secondo i due legali, hanno un senso estremamente concreto: nelle prigioni italiane fin qui si sono contati già sei detenuti morti di coronavirus, oltre a due agenti di polizia penitenziaria e a due medici. E se un leggero sfollamento degli istituti di pena nelle ultime settimane ha fatto scendere i prigionieri dai 61mila di fine febbraio a 57mila (ma sono sempre diecimila in più rispetto all’effettiva capienza regolamentare) questo non è certo merito del decreto governativo “Cura Italia” del 17 marzo, che si è bloccato sulla carenza di braccialetti elettronici. Il governo Conte, infatti, aveva previsto nel decreto che i condannati non pericolosamente sociali - e cui restasse da scontare una pena fino a 18 mesi - potessero scontarli agli arresti domiciliari. Ma con il vincolo dei braccialetti da applicare alla caviglia. Il problema è che quei dispositivi, per i quali sono stati già spesi 200 milioni di euro in 19 anni, scandalosamente non sono disponibili in misura sufficiente. Così i 12mila che avrebbero diritto a terminare di scontare al domicilio gli ultimi mesi di pena restano in carcere, esposti al rischio del contagio. Tant’è che il Commissario straordinario Domenico Arcuri ha appena affidato a Fastweb la fornitura urgente di 4.700 braccialetti, che dovrebbero esser consegnati entro la fine di maggio. Il coronavirus alla Cedu: oggi la replica dei difensori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2020 Dopo le osservazioni del nostro governo sollecitate dalla Corte. Entro mezzogiorno di oggi, gli avvocati Roberto Ghini del Foro di Modena e Pina Di Credico, referente osservatorio Europa della Camera penale di Reggio Emilia, replicheranno alla risposta del governo nei confronti dei quesiti posti dalla Cedu in merito alla gestione dell’emergenza Covid-19 nelle carceri. Ancora non sono pubbliche le risposte del ministero della Giustizia, ma gli avvocati hanno anticipato dicendo che “le osservazioni del governo risultano sostanzialmente generiche e, verrebbe da dire, in larghissima parte prevedibili”. Ricordiamo che entrambi gli avvocati sono difensori di fiducia di B.M., recluso presso la casa circondariale di Vicenza, per il quale è stata rigettata l’istanza di detenzione domiciliare da parte del magistrato di sorveglianza di Verona. Un rigetto che non ha preso in considerazione l’emergenza coronavirus, nonostante l’istanza sia stata fatta a seguito dell’introduzione dell’istituto della detenzione domiciliare di “emergenza” ex art. 123 del Decreto Legge n. 18/ 2020 “Cura Italia”. Motivo per il quale gli avvocati Ghini e Di Credico, lunedì scorso, hanno presentato una richiesta urgente alla Cedu. La procedura 39 (questo è il tipo di richiesta prevista dal regolamento Cedu) è straordinaria e viene infatti attivata al fine di ottenere una misura provvisoria ed urgente in casi particolari ove è a rischio la vita delle persone. Mercoledì scorso la Corte ha accolto la richiesta, ma sospendendo la decisione in attesa che il governo italiano relazioni su taluni aspetti relativi, tra l’altro, anche alla gestione dell’emergenza covid19 negli istituti di pena. Oggi quindi la difesa depositerà presso la Cedu la replica alle osservazioni poste dal governo, quindi la partita non è ancora chiusa e si potrebbero aprire nuovi scenari. I penalisti contro il processo da remoto. “Caro Bonafede, ecco le nostre proposte” di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2020 La lettera dell’Ucpi al Ministro della Giustizia. “L’Avvocatura penale è radicalmente contraria ad ogni ipotesi di smaterializzazione dell’udienza penale e della camera di consiglio dei giudici”. L’incipit della lettera inviata dall’Unione camere penali al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è chiaro: il processo da remoto mina i principi costituzionali di garanzia, violando, al contempo, “le vigenti regole di protezione dei dati e di sicurezza informatica”. La richiesta al Governo è quella di sospendere l’entrata in vigore della disciplina del processo da remoto, a fronte dell’indisponibilità dei penalisti italiani a celebrare i processi secondo tali modalità. Ma quella dei penalisti non è un’opposizione senza alternative. La proposta è quella di prevedere inizialmente la celebrazione di un numero limitato di cause, “con criteri di priorità e anche casi di non necessaria partecipazione quando, nel bilanciamento degli interessi in evidenza, le parti o il giudice lo riterranno”. Le proposte dei penalisti sono riassunte in tre punti, a partire dal riconoscimento del valore legale delle comunicazioni tra il difensore e gli uffici giudiziari tramite l’uso della pec. Al secondo punto, i penalisti chiedono di garantire, nel periodo di emergenza, che l’attività processuale rispetti al più alto standard possibile le disposizioni prevenzionali atte ad evitare assembramenti ed a garantire la distanza di sicurezza tra le persone. Ovvero processi a porte chiuse, con ruoli di udienza articolati secondo citazioni ad orari differenti e congruamente distanziati, per tutto il corso della giornata. Ma non solo: è necessario anche che tutte le persone che partecipano all’udienza siano dotate dei dispositivi di protezione individuale, con una ridotta partecipazione di persone in modo che l’aula di udienza mantenga ampi spazi liberi. Tali regole potrebbero valere per i patteggiamenti, per i riti abbreviati non condizionati ad assunzioni testimoniali, per prime udienze dibattimentali di cosiddetto smistamento (costituzione delle parti, questioni preliminari, richieste di prova) per processi con numero ridotto di parti. Ma possono essere previste anche norme relative agli atti preliminari che consentano la presentazione via pec della lista testimoniale e di documenti. Tra le possibilità, anche quella della costituzione di parte civile fuori udienza, le discussioni finali per processi con numero ridotto di parti e processi di appello con numero ridotto di parti e concordati. Ma tali regole potrebbero anche valere per udienze preliminari per processi con ridotto numero di parti, riesami ed appelli cautelari, udienze conseguenti a richieste di archiviazione non accolte o opposte e incidenti di esecuzione. Ieri, intanto, è stato incardinato in commissione Giustizia alla Camera il decreto Cura Italia. E sulla Giustizia, Forza Italia ha annunciato vari emendamenti, tra i quali la cancellazione della norma che introduce il processo da remoto. Ad annunciarlo, il deputato Enrico Costa. “Proporremo inoltre di allineare la norma per la detenzione domiciliare per i condannati definitivi alle norme sulla custodia cautelare che sono state oggetto di trattamento diverso, come se il sovraffollamento carcerario non fosse determinato anche da una moltitudine di detenuti “presunti innocenti”. Un emendamento verrà poi riservato al tema delle norme sulle intercettazioni, prevedendo uno slittamento al 1 settembre dell’entrata in vigore della nuova legge. Udienze on line? Roba da regime di Vincenzo Maiello Il Riformista, 16 aprile 2020 I populisti hanno abolito il diritto. Addio giusto processo, ma tutti zitti: il trionfo dei pm. Al peggio non c’è mai fine. E tuttavia, quando il peggio investe lo stadio avanzato della decomposizione vitale delle garanzie costituzionali, che cancella i sedimenti della progressione identitaria della nostra civiltà, l’inesorabilità del vecchio adagio non può indurre alcuna forma di rassegnazione. Pensavamo che l’impasto di cinismo demagogico e arcaico retribuzionismo punitivo, responsabile delle ipocrite soluzioni di facciata all’immane problema carcerario, costituisse la frontiera estrema della curvatura giustizialista sotto la quale si è sviluppata la produzione normativa della legislatura in corso. Ci sbagliavamo. Quel limite è stato superato senza alcun ritegno dall’inedito monstrum del processo penale telematico. Strumentalizzando in chiave retorico/opportunistica la drammatica emergenza in atto, l’ultima e più preziosa perla della politica giudiziaria nazionale ha deciso di contendere alla pandemia il connotato di vicenda biblica, interrompendo d’emblée le “magnifiche sorti e progressive” dell’emancipazione del diritto e delle sue forme da logiche ed assetti di disciplina autoritari. Col piglio interventista caratteristico di scelte percorse da arroganza corriva e per certi versi sfrontata, il governo in carica ha inteso, così, buttare alle ortiche l’ontologica dimensione del funzionamento conformativo del più delicato e gravoso fra i congegni secolarizzati di teologia politica e istituzionale: quello che ambisce a ricostruire - in nome del popolo e in conformità a criteri di giudizio predicabili di condivisione assiologica e razionale - la verità dei fatti e delle condizioni per i quali un individuo può essere privato di libertà e patrimonio, con effetti stigmatizzanti e inabilitativi che spesso si proiettano nella cerchia dei familiari e finanche di terzi, “colpevoli” di condividere col condannato affari ed interessi economici. Com’è noto, infatti, il governo intende sospendere fi no alla data del 30 giugno, termine che tuttavia rischia di essere spostato in avanti a causa della non pronosticabile evoluzione della pandemia - le condizioni di agibilità del giusto processo penale di matrice costituzionale. D’un colpo, questo viene a perdere le sembianze di luogo fisico di una comunicazione dialettica contestuale, smarrendo, con esse, la funzione di liturgia alla quale la democrazia costituzionale dei diritti affida il compito di celebrare - anche sul piano simbolico - il primato della “ragione discorsiva”. In altri termini, la materialità e la separatezza topografica dell’udienza è la metafora della sacertà laica dell’amministrazione della giustizia che, come nei “misteri” delle religioni ellenistiche ha bisogno di impedire confusioni contaminanti con l’ambiente profano (Cordero). In pratica, a svanire è la conformazione materiale del giudizio e con essa, perciò, non solo la dimensione che ne ha fatto un paradigma epicentro di svariati registri narrativi, bensì - soprattutto - quel clima d’aula che integra la pre-condizione delle potenzialità performative della contesa dialettica. Costruire un processo nel quale ciascuno dei protagonisti partecipa “da remoto” significa virtualizzare un contesto comunicativo che proprio alla simultanea presenza fisica degli attori del contraddittorio deve la sua specifica capacità epistemica di strumento privilegiato ai fini di un’affidabile ricostruzione dei fatti e di un proficuo confronto di tesi antagoniste. I rituali del contraddittorio nella formazione della prova - spina dorsale del processo accusatorio - hanno bisogno del “teatro” dell’aula di udienza, perché, come ha scritto Franco Cordero, essi “esigono acustica e ottica perfette”: da un lato, per consentire che l’esaminato sieda nel posto dove sia agevolmente visibile dalle parti e dal giudice; dall’altro, ma affinché venga garantita ai soggetti che vi prendono parte (testimoni, imputati, accusatore, difensore e giudice) di osservare e valutare le circostanze extralinguistiche che danno corpo alle forme non verbali della comunicazione. Il tono della voce, l’espressione del volto, il disagio o l’imbarazzo nella (e della) risposta costituiscono, di norma, formidabili indici di apprezzamento della genuinità della fonte, cosi come una sequenza incalzante di domande accompagnata dagli occhi puntati sul testimone può accrescere il carisma del contro-esaminatore e indurre un maggiore coefficiente di veridicità della risposta. Si tratta, dunque, di aspetti niente affatto marginali, relegabili fra gli orpelli estetico-simbolici dell’agire giudiziario, ma, anzi, di configurazioni che intrecciano questioni di fondo del giudizio penale. Siamo, in sostanza, innanzi a una rottura della legalità costituzionale, traumatica poiché ne ribalta il significato di punto di arrivo della lunga tradizione che, a partire dal congedo della mentalità e delle istituzioni inquisitorie, ha traghettato il processo sulla scena pubblica, facendone punto di confluenza tra la dimensione antropologica di “mistero” e l’esposizione a pratiche di controllo dell’opinione pubblica. Una rottura che segna il passaggio ad un ordinamento processuale dell’eccezione priva di base legale, dal momento che la sua disciplina risulta consegnata al potere regolamentare di un organo (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) interno al Ministero della giustizia. L’opposto, pertanto, di quanto prescrive l’art. 111 Cost. che assoggetta alla sola legge la conformazione normativa del processo. Un simile scempio ci pare sia stato denunciato con forza dalla sola voce dell’avvocatura, questa volta anche istituzionale, e, da ultimo, dagli studiosi del processo penale. Amareggia che all’appello manchi - con l’eccezione della corrente di Magistratura democratica - una presa di posizione della magistratura associata cui sarebbe stato doverosa l’intransigente rivendicazione del carattere intangibile (dei fondamenti) del modello di processo di cui è anzitutto essa custode. Peccato. L’abbandono del nomos della modernità ai marosi delle pulsioni populistiche e di malintese esigenze di efficienza burocratico-aziendaliste delle pratiche di giustizia, che le frustrazioni dell’emergenza e del suo governo rischiano di rendere ancor più aggressive, potrebbe far divenire inesorabile il declino della civiltà occidentale se a prevalere dovessero essere l’indifferenza etica e il silenzio connivente. Incostituzionale il processo penale via internet? Che assurdità di Ione Ferranti* agendadigitale.eu, 16 aprile 2020 L’Unione delle Camere penali italiane solleva problemi di cybersecurity relativi allo svolgimento a distanza delle udienze tramite Skype for Business e Teams. Alcune preoccupazioni sono condivisibili. Ma mai arrivare al punto da opporsi per principio al processo via internet. Alcuni principi vanno ammodernati: ecco quali. Con la nota indirizzata al Garante per la protezione dei dati personali, l’Unione delle Camere penali italiane solleva problemi di cybersecurity relativi allo svolgimento a distanza delle udienze tramite Skype for Business e Teams. Sotto questo profilo, alcune preoccupazioni possono essere condivise. Ma non in senso assoluto. Urgente inoltre aggiornare alcuni principi alla base del processo, per assicurarne una dematerializzazione. Cyber security e processi penali - Personalmente, non ho ancora approfondito il tema della cybersecurity relativa allo svolgimento delle udienze tramite Skype for Business e Teams. Va da sé che problemi di cybersecurity si pongono solo per le udienze che non sono pubbliche. Tuttavia, immagino che la Direzione generale dei sistemi informativi e automatizzati (Dgsia) del Ministero della Giustizia abbia indicato tali modalità in via provvisoria, in attesa della predisposizione di infrastrutture informatiche ad hoc, interne al sistema giudiziario italiano. Immagino anche che la Dgsia abbia già stipulato degli accordi ad hoc con Microsoft Corporation proprio per la soluzione dei predetti problemi di cybersecurity, in vista dello svolgimento delle udienze tramite Skype for Business e Teams. A mio avviso, quando si parla di processi telematici o di giustizia telematica, va sempre considerato il problema della cybersecurity, a prescindere dalla rete informatica utilizzata. Nessuna rete è sicura al 100%. A riprova di ciò va ricordato l’attacco hacker del 2019 alla p.e.c. degli Avvocati (gestita da una delle società italiane private che collaborano stabilmente con il Nostro Ministero della Giustizia). Processo penale incostituzionale da remoto? Non scherziamo - Invece, a mio avviso, non può essere condivisa la dichiarata “ferma contrarietà dell’Unione al processo penale svolto da remoto per la sua evidente incompatibilità con i princìpi costituzionali”. Anche fra i miei Colleghi civilisti ci sono tanti contrari “a prescindere” alla completa smaterializzazione del processo civile (che, secondo loro, svilirebbe il ruolo dell’avvocato nel processo civile). A mio parere, alcuni principii del processo civile italiano vanno “modernizzati” e segnatamente: - il principio del contraddittorio, che oggi può essere attuato a distanza grazie ai recenti sviluppi tecnologici; - la pubblicità dei processi (per consentire il controllo dell’opinione pubblica sull’esercizio della giurisdizione ex art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed ex art. 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, salva la possibilità di esclusione del pubblico dalle udienze per varie ragioni; - il processo deve compiersi in un tempo ragionevole (art. 111 comma 2 Costituzione italiana, art. ex art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed ex art. 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966; - il principio dell’oralità (il processo regolato dal codice del 1865 era un processo scritto). Peraltro, problemi di “sicurezza” (non informatica) si sono posti in passato a causa dello stato penoso in cui versano gli Uffici giudiziari e le Cancellerie (soprattutto nei grandi centri come Roma, dove può entrare chiunque indisturbato e sottrarre documenti dai fascicoli, come accaduto in passato e documentato dal quotidiano La Repubblica), senza contare tutte le volte in cui mancano documenti dai fascicoli cartacei e non è dato sapere come è potuto accadere. Insomma, problemi di sicurezza e di segretezza ci sono sempre stati. Vanno affrontati e risolti come sempre, senza strumentalizzazioni. *Avvocato Ripresa con sigillo “antimafia” rappresenta un rischio grave di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 aprile 2020 Che la criminalità organizzata possa tentare di far soldi insinuandosi nelle attività della ripresa economica è un rischio effettivo: ma una ripresa con sigillo “antimafia” rappresenta un rischio anche più grave. Un conto è infatti impostare politiche di sviluppo senza rinunciare al dovuto controllo pubblico sulle attività illegali: tutt’altro conto è che quelle politiche pretendano di trovare fondamento in una specie di presupposto anti-mafioso. L’andazzo del dibattito pubblico, puntualmente orientato dai romanzieri anticamorra e dalla magistratura in militanza telegiornalistica, è ormai apertamente questo: la criminalità è in agguato, e dobbiamo innanzitutto attrezzarci per impedire che faccia profitto. La ripresa del Paese subordinata alle esigenze di contrasto della criminalità. È una concezione insieme forsennata e ottusa dell’intervento pubblico, che assume a criterio strategico ed esecutivo la risultanza da mattinale, l’elenco da carico pendente, e trasforma l’indagine burocratico-giudiziaria nella linea-guida del governo in campo economico. L’altro giorno, sul Corriere della Sera, il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, in doppio con il giornalista ‘ndranghetologo Antonio Nicaso, ha spiegato quel che dovrebbe fare “un Paese serio” per gestire nel modo giusto l’iniziativa pubblica nella situazione di crisi determinata dall’emergenza sanitaria: monitorare “i passaggi di proprietà delle aziende, ma anche le acquisizioni sospette di quote azionarie”, che è un modo, appunto, per dire che lo Stato è “serio” nella misura in cui disciplina i movimenti dell’economia osservandoli con l’occhio inquirente della magistratura o, più direttamente, sottoponendoli alla direttiva delle forze dell’ordine. Non è un caso, e fa rabbrividire, che la specie di programma di governo proposto dal duo Gratteri/Nicaso faccia largo appello alla “nota” inviata ai questori da parte del capo della Polizia, quello che l’altro giorno prometteva mano dura contro i “furbi che vogliono disattendere la legge” (le cronache ci dicono che la categoria malefica è significativamente rappresentata da chi si avventura nella corsetta vietata o da chi si rende responsabile dell’ignominia di comprare tre bottiglie di vino anziché una). Le mafie, avvisa il dottor Gratteri, “cercheranno sicuramente di mettere le mani sulle risorse comunitarie”, e “ci sarà anche chi cercherà di condizionare gli elenchi dei cittadini bisognosi che i sindaci sono chiamati a compilare”. Bene, e allora che cosa facciamo? Affidiamo alle procure la gestione delle risorse comunitarie? E gli elenchi dei cittadini bisognosi? Affinché non siano “condizionati” li facciamo compilare ai carabinieri? Non solo la gestione dell’emergenza sanitaria è principalmente connotata da questo approccio di tipo punitivo, come se il dilagare del virus fosse l’effetto dell’irresponsabilità di quei “furbi” che attentano alla perfezione delle politiche di contenimento. Anche le prospettive verso il “dopo”, infatti, si dipartono dal medesimo punto di vista sanzionatorio: la ripresa aziendale come indizio di mafiosità, che ovviamente non è la convinzione del dottor Gratteri ma è l’inevitabile effetto di quell’impostazione se si lascia che diventi una formula di governo. Il pericolo dell’interposizione della criminalità in una transazione non si combatte interponendo polizia e magistratura in tutte le transazioni, così come non si chiudono le pizzerie solo perché in alcune investe la camorra né si fermano le compravendite immobiliari solo perché qualche mafioso ottiene un appezzamento a prezzo di favore. Al Governo piace il carcere per i giornalisti di Giuseppe F. Mennella ossigeno.info, 16 aprile 2020 Lo fa pensare la memoria dell’Avvocatura dello Stato depositata alla Corte Costituzionale che deve giudicare due eccezioni di costituzionalità all’applicazione di questa pena ai colpevoli di diffamazione a mezzo stampa. Adesso sappiamo che il governo italiano non disdegna l’idea di veder finire qualche giornalista nelle patrie galere. Lo sappiamo, o meglio lo deduciamo poiché l’Avvocatura dello Stato, chiamata a rappresentare la posizione dello Stato davanti alla Corte Costituzionale, ha sostenuto questa posizione, nero su bianco, nella “memoria difensiva” che ha depositato il 31 marzo 2020 presso la Consulta. In quella memoria, l’Avvocatura dello Stato sostiene la legittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena detentiva per i giornalisti condannati per diffamazione con l’aggravante del mezzo della stampa e dell’attribuzione di fatto determinato. È questa, dunque, la posizione del Governo Conte su una questione di grande delicatezza? Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, lo ha chiesto senza ottenere risposta. Vedremo più avanti se questo silenzio esprime imbarazzo o consenso. È necessario conoscere l’orientamento del presidente del Consiglio dei Ministri su una materia così rilevante per uno Stato democratico. Il procedimento presso la Corte Costituzionale, quando si svolgerà, fornirà un’ulteriore occasione per cambiare o confermare la posizione e ci dirà qual è la fondatezza dell’obiezione di costituzionalità in termini di diritto e di coerenza con i Trattati firmati dall’Italia. Il governo è stato costretto a venire allo scoperto (assumendo questa posizione in contraddizione con quanto sostenuto da altri governi nelle passate legislature) perché davanti agli Ermellini pendono due giudizi incidentali di legittimità costituzionale sollevati dai giudici di Salerno e di Modugno-Bari. Le norme sulle quali si chiede il giudizio della Corte sono l’articolo 595 del codice penale del 1930, che al terzo comma prevede una pena massima di tre anni (o la multa fino a 50mila euro) per il reato di diffamazione a mezzo stampa e l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che prevede il carcere fino a sei anni (più la multa fino a 50mila euro) se lo stesso reato è aggravato dall’attribuzione di fatto determinato. Norme vecchie di 90 e 72 anni ma ancora vigenti. E che il Parlamento tenta (o finge) di abrogare a ogni legislatura, a partire dal 2001. Le udienze pubbliche erano in calendario per il 21 e 22 aprile. Il 21 sarebbe stata discussa la questione di legittimità costituzionale sollevata - su istanza della difesa degli imputati - dal giudice del tribunale di Salerno, davanti al quale pendeva una causa intentata contro i giornalisti Pasquale Napolitano (diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato) e Antonio Sasso (omesso controllo). La presidenza della Corte Costituzionale - considerata l’emergenza sanitaria - aveva prospettato l’ipotesi di discutere la causa in camera di consiglio, senza intervento delle parti. Ciò è possibile se tutte le parti in causa sono d’accordo. Il sindacato dei giornalisti di Napoli e la presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata dall’Avvocatura dello Stato, erano favorevoli. Invece, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti si è opposto e il suo presidente ha motivato questa scelta con l’esigenza di una trattazione pubblica alla presenza delle parti in considerazione della rilevanza della materia. La posizione dell’Ordine ha determinato un rinvio a data da destinarsi. Il rinvio e la legittima diversità di posizioni hanno generato forti polemiche nel mondo giornalistico, ma la notizia non è arrivata sui giornali che - tranne rare eccezioni - non dedicano alcuna attenzione a questi problemi che influiscono sulla libertà di informazione. Quando la Corte costituzionale tornerà a discutere la questione sollevata dal giudice di Salerno potremo ascoltare - e anche vedere in streaming. Carcere sì o no? Ora il Governo deve chiarire - con quali argomenti il governo italiano sosterrà pubblicamente la tesi che i giornalisti possono/devono finire in carcere. E quando il Senato deciderà di tornare a occuparsi del disegno di legge che, tra l’altro, abolisce il carcere per i giornalisti, sarà interessante osservare quale posizione assumerà pubblicamente il governo (presidenza del Consiglio, ministro della Giustizia, sottosegretario all’editoria). Il rischio di contagio giustifica la detenzione domiciliare del detenuto con gravi patologie di Lorena Puccetti* cfnews.it, 16 aprile 2020 L’attuale emergenza ha imposto specifiche misure, volte ad evitare la diffusione dell’epidemia di coronavirus, le quali sono del tutto inattuabili all’interno del carcere. Infatti, il sovraffollamento, le difficoltà di procedere alla completa sanificazione degli ambienti, e le carenze igieniche possono favorire il dilagare del contagio fra la popolazione carceraria. Per arginare tale drammatica situazione, che espone ad un pericolo mortale i detenuti specie se in già precarie condizioni di salute, è stato invocato da più fronti un provvedimento legislativo emergenziale diretto a diminuire il numero dei reclusi in carcere. Risponde a tale obiettivo l’art. 123 del d.l. 17 marzo 2020 il quale prevede che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, previa richiesta possa essere eseguita presso il domicilio del detenuto. Tuttavia, tale norma non appare risolutiva in chiave di deflazione della comunità carceraria per molte ragioni. In primo luogo, il decreto legge esclude dalla detenzione domiciliare i detenuti condannati per una serie di reati fra i quali i reati ostativi di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. Inoltre, in base alla previsione normativa, la detenzione domiciliare richiede l’applicazione dei braccialetti elettronici, mezzi che non sempre sono a disposizione dei singoli istituti penitenziari. A ciò si aggiunga che il decreto si rivolge ai soli detenuti con condanna definitiva, trascurando completamente la carcerazione derivante da misure cautelari. Infine, ed è il profilo critico più rilevante, il meccanismo individuato dalla manovra lungi dall’essere automatico, presuppone la decisione del giudice con conseguente allungamento dei tempi di scarcerazione. Supplendo a tale deludente intervento normativo, la Magistratura di sorveglianza ha assunto un ruolo attivo nella gestione dell’emergenza facendo ricorso per quanto possibile alle misure alternative al carcere previste dalla legislazione penitenziaria. In tale panorama, si inserisce una recente pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha preso posizione sul rischio di contagio nell’ambiente carcerario. Al riguardo, il magistrato di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare sostenendo da un lato che il detenuto scontava una pena per reati ostativi di cui all’art. 4bis ord. pen. e al contempo che le sue precarie condizioni di salute non apparivano incompatibili con il regime carcerario. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, riformando tale decisione, ha accolto l’istanza di detenzione domiciliare in applicazione degli artt. 147 comma 1 n. 2 c.p. e 47-ter comma 1ter ord. pen. Limitandoci ad un mero accenno, l’art. 147 c.p. consente di disporre il rinvio dell’esecuzione della pena ovvero la sua sospensione allorché il detenuto versi in condizioni di “grave infermità fisica” e purché vi sia una prognosi negativa in merito al rischio di recidiva. Qualora, pur ricorrendo il predetto stato di infermità, residui un margine anche ridotto di pericolosità sociale e quindi di necessità rieducativa del condannato, in luogo del differimento della pena l’art. 47-ter comma 1ter ord. pen. prevede la c.d. detenzione domiciliare “surrogatoria” per la quale si ritiene non operino le preclusioni ex art. 4bis. È evidente che attraverso tali norme l’ordinamento persegue il raggiungimento del difficile equilibrio tra le funzioni affidate alla pena detentiva, fra le quali l’indefettibilità della pena a la sicurezza sociale, e l’esigenza che il condannato riceva un trattamento ispirato a criteri di umanità. In applicazione di questi principi, rilevando le problematiche cardiache e respiratorie aggravate dall’età del detenuto, e ritenendo che “tali patologie possano considerarsi gravi ai sensi dell’art. 147 c.p. con specifico riguardo al correlato rischio di contagio in corso per Covid 19 che appare più elevato in ambiente carcerario che non consente l’isolamento preventivo”, il Tribunale ha disposto la detenzione domiciliare. Con tale decisione il Tribunale di sorveglianza, nella discrezionalità che le norme richiamate assegnano al giudice nell’accertamento in particolare del problematico requisito della grave infermità, ha dato concreta attuazione ai diritti fondamentali di cui ciascun individuo rimane titolare, anche se detenuto in carcere. È certamente apprezzabile lo sforzo della Magistratura di sorveglianza chiamata, mediante un’interpretazione di buon senso delle norme di riferimento, a farsi garante della vita e della salute dei condannati. Tuttavia, resta la necessità di un rapido intervento normativo che disponga de plano la scarcerazione per determinate categorie di soggetti al fine di ridurre il sovrannumero dei detenuti rispetto alla capienza degli ambienti penitenziari. Come è noto, la popolazione carceraria è costretta a vivere in spazi ristretti e fatiscenti, in situazioni di promiscuità e in condizioni che impediscono il rispetto delle più elementari norme igieniche. Ma mentre ai detenuti risulta difficile anche solo lavarsi le mani, parte del mondo politico se ne sta invece lavando le mani. *Avvocato, Foro di Vicenza L’indagine epidemiologica non certifica il nesso causale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2020 Non basta una rilevazione epidemiologica a stabilire il nesso di causalità tra una condotta - o un’omissione - e l’evento reato. Con una motivazione destinata verosimilmente a sollevare acceso dibattito nei successivi gradi di giudizio, il Gup di Taranto Rita Romano ha respinto la richiesta di rinvio a giudizio per dieci ex direttori e dirigenti e per due medici del lavoro delle acciaierie ex Ilva. Ma mentre nei confronti dei sanitari si è trattato di un’assoluzione determinata dall’impossibilità di configurare a loro carico una posizione di garanzia nell’organizzazione aziendale (avendo di fatto solo funzioni generiche di consiglieri dell’imprenditore e prive di ogni potere dispositivo), in relazione alle figure apicali succedutesi nel tempo nel polo industriale il giudice dell’udienza preliminare invece ha stigmatizzato i criteri di imputazione contraddittori suggeriti dai consulenti tecnici della procura, rimarcando tra l’altro che non basta un’incidenza epidemiologica anomala a soddisfare i requisiti dl nesso eziologico. I casi di cooperazione colposa del processo che determinarono la morte di quattro dipendenti per mesotelioma erano distribuiti su un lungo arco temporale - dai primi anni Settanta, data di inizio del lavoro, fino ai decessi avvenuti nel 2011 - lasso che aveva inevitabilmente coinvolto una decina di posizioni dirigenziali/direttoriali succedutesi nel tempo. Proprio questo è uno dei problemi focalizzati dal Gup, secondo cui la pluralità di posizioni soggettive impone di individuare i profili di colpa proprio in relazione all’insorgenza o all’aggravamento (cioè all’accorciamento delle aspettative di vita) delle patologie. Ma sul punto il Gup di Taranto, distanziandosi dalle conclusioni dei consulenti del pubblico ministero, rileva la mancanza di un chiaro consenso scientifico sulla tesi della “dose-risposta” (cioè: tanto più respiri amianto tanto più rischi di ammalarti e/o di aggravare la malattia), mentre più accettata è la teoria della “dose-killer” che una volta inalata determinerà l’insorgenza della patologia oncologica in un periodo compreso tra 5 e 70 anni successivi. Nella prima ipotesi, nulla osterebbe a sommare temporalmente le responsabilità dei dirigenti avvicendatisi alla guida dell’acciaieria, nel secondo caso invece bisognerebbe “fotografare” il momento dell’evento respiratorio lesivo. In questo contesto per arrivare a un’imputazione penale è perciò necessario individuare il momento di innesco del nesso causale, mentre non può soccorrere allo scopo né una constatazione epidemiologica (che secondo il Gup è priva di ogni significato causale, a differenza anche di una rilevazione statistica) né tantomeno una “regola di esperienza” dell’id quod plerumque accidit, che non può mai essere posta a fondamento di un messo causale, di cui è anzi la negazione ontologica. Sul mesotelioma giudizio individuale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2020 Corte di cassazione - Sentenza 12151/2020. Quando è impossibile stabilire il momento di innesco irreversibile del mesotelioma - ed essendo irrilevante ogni esposizione successiva all’asbesto - ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’imputato è necessaria l’integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell’attività della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall’imputato nei confronti della stessa. La Cassazione (Quarta penale, sentenza 12151 /20 depositata ieri)?torna a ribadire la caratteristica del nesso eziologico in tema di responsabilità colposa per le morti provocate dall’amianto sui posti di lavoro. La Corte, ribadendo il principio di legittimità anche recentemente riaffermato (Quarta sezione, 25532/19), esclude ogni valenza della teoria cosiddetta dell’effetto acceleratore - secondo cui l’esposizione successiva alla dose-killer da cui origina l’infezione contribuisce ad avvicinare l’esito infausto - e riconduce il collegamento causale a un giudizio sostanzialmente individuale, in quanto verificato in relazione alla singola vicenda. Nel caso specifico però la Quarta ha respinto il ricorso dei due imputati contro la condanna per omicidio colposo aggravato, ma solo perché la posizione di garanzia da loro rivestita - non modificata dai pur ripetuti cambi di ragione sociale e/o di forma societaria - di fatto coincideva con l’intero periodo del rapporto di lavoro della dipendente deceduta per mesotelioma. I fatti ripercorsi dai giudici di legittimità erano avvenuti nei primi anni 80 nel reparto di decoibentazione di un’azienda che lavorava per conto delle ferrovie. La dipendente, stando alle risultanze di causa, aveva respirato per un lungo periodo ingenti dosi di polveri di amianto che, a quell’epoca, non venivano neppure aspirate dai luoghi di lavorazione e infestavano ubiquitariamente tutti gli ambienti aziendali. Anche l’usucapione se fittizio fa scattare il reato di lottizzazione abusiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2020 Tribunale del Riesame di Lecce - Ordinanza 24 gennaio 2020. Anche l’usucapione è suscettibile di integrare gli estremi del reato di lottizzazione abusiva. “Tra gli “atti equivalenti” alla “vendita”, cui fa riferimento il primo comma dell’articolo 30 del Dpr 380/2001, rientra infatti anche l’acquisto della proprietà dei singoli lotti parcellizzati mediante “usucapione”, nell’ipotesi in cui la stessa risulti fittizia, in quanto tesa a dissimulare il reale accordo traslativo sottostante, a titolo oneroso o a titolo gratuito, senza che a ciò osti l’eventuale sentenza del Giudice civile passata in giudicato che abbia dichiarato l’usucapione. A questo inedito approdo arriva una articolatissima ordinanza del Tribunale di Lecce, Sezione Riesame (Presidente, Carlo Cazzella; Giudice, Pia Verderosa; Giudice relatore, Antonio Gatto), confermando il sequestro probatorio di alcuni terreni fronte mare nella rinomata località turistica di Porto Cesareo, disposto dalla Polizia giudiziaria e convalidato dalla Procura, a seguito della trasformazione urbanistica ed edilizia di una zona a vocazione agricola “a mezzo del frazionamento di fatto del terreno in lotti, con conseguente realizzazione di immobili ad uso residenziale”. Il terreno, passato in successione, era stato prima parcellizzato in numerosi lotti di modestissime dimensioni (alcuni addirittura di mq. 250-350), e poi interessato sia da opere di urbanizzazione (strada centrale, impianto idrico e impianto elettrico di uso comune), sia dalla costruzione di manufatti di varia natura (villette per civile abitazione, bungalows, roulottes stabili, tettoie, WC e varie altre opere destinate a finalità turistico-residenziali). Nel caso di specie, dunque, argomenta la decisione, si versa in un’ipotesi di lottizzazione abusiva “mista”, essendo state poste in essere, sia attività giuridiche finalizzate al frazionamento e alla vendita del terreno lasciato in eredità, sia attività strettamente materiali, come la realizzazione dei manufatti edilizi abusivi. Inoltre, prosegue il Collegio, se è vero che la lottizzazione “negoziale” è esclusa “laddove il frazionamento del terreno è stato effettuato al fine di procedere ad una divisione ereditaria”, ciò vale “solo nell’ipotesi in cui il frazionamento si riveli indispensabile ai fini divisori e comunque scevro da qualsiasi surrettizio intento di trasformazione urbanistica o edilizia dell’area”. Mentre nel caso concreto a fronte di 4 eredi erano state costituite 15 particelle. La difesa ha poi sostenuto la palese insussistenza del reato di lottizzazione abusiva, “atteso che svariati lotti hanno mutato proprietario, non sulla base di un “atto negoziale di trasferimento”, così come richiesto per il reato oggetto di imputazione provvisoria, bensì in virtù di sentenze dichiarative di usucapione ventennale”. Per il Collegio, tuttavia - e qui inizia l’argomentazione che conduce ad un esito fino ad ora privo di precedenti giurisprudenziali - non si può trascurare che “uno strumento di agevole “aggiramento” dei divieti di alienazione normativamente previsti può essere rappresentato proprio da una “fittizia usucapione”, (finto) vestito esteriore di un accordo (reale) precedentemente intervenuto tra “alienante” (originario proprietario che perde il suo diritto per usucapione) e “acquirente” (colui che, correlativamente, ma apparentemente a titolo originario, acquista il medesimo diritto)”. In tal modo, il titolo di proprietà, a differenza dell’utilizzo dello strumento della compravendita, non è più un contratto nullo, bensì una sentenza pienamente valida, che accerta, con efficacia dichiarativa, la già intervenuta usucapione, suscettibile di trascrizione presso i pubblici registri immobiliari. Toscana. Giuseppe Fanfani è il nuovo Garante regionale dei detenuti nove.firenze.it, 16 aprile 2020 Nominato dal Consiglio regionale a maggioranza. Avvocato, è stato deputato, sindaco di Arezzo e componente laico del Consiglio superiore della Magistratura. È Giuseppe Fanfani il nuovo Garante dei diritti dei detenuti della Toscana. È stato nominato dal Consiglio regionale a maggioranza, dopo un lungo dibattito, con ventuno voti favorevoli, nove contrari e sette astensioni. Nato nel 1947, avvocato, è stato deputato, sindaco di Arezzo e componente laico del Consiglio superiore della Magistratura. Perplesso sul percorso seguito per procedere alla nomina, alla luce di una mozione approvata dal Consiglio, si è detto Marco Casucci (Lega), che ha dichiarato il voto contrario: “Basta con due pesi e due misure. La situazione delle carceri è esplosiva e va affrontata nel suo complesso - ha affermato - Bisogna spostare lo sguardo anche sulle condizioni della polizia penitenziaria”. Di parere opposto Tommaso Fattori (Sì-Toscana a sinistra): “C’è assoluto bisogno invece di una figura come questa - ha affermato - Specie in una situazione di emergenza come l’attuale”. Sulla stessa lunghezza d’onda Gabriele Bianchi (Gruppo misto), che ha ringraziato il predecessore Franco Corleone, in carica dal 2013, “che ha portato avanti questa missione”. “Diamo corso ad una nomina di questo livello - ha sottolineato Leonardo Marras (Pd) - in un ruolo di coordinamento, da tutti ritenuto necessario”. “Nominiamo una figura di garanzia - ha affermato Serena Spinelli (Gruppo misto), annunciando voto di astensione - Abbiamo perso fin troppo tempo. Se ci fosse stata maggiore condivisione, sarebbe stato meglio”. Per queste stesse ragioni Monica Pecori (Gruppo misto) ha dichiarato voto di astensione. Voto contrario invece per Paolo Marcheschi (FdI): “Si è persa un’occasione, proprio perché non si è cercato una condivisione - ha detto - che avrebbe rafforzato il lavoro che il Garante è chiamato a svolgere”. Lo stesso motivo che ha spinto Andrea Quartini (M5S) ad annunciare il voto di astensione: “È un segnale su una modalità di agire che ci lascia perplessi”. “Tutte le candidature erano di ottimo livello - ha osservato Maurizio Marchetti (Fi), annunciando il suo voto di astensione - Non abbiamo avuto modo di confrontarci per giungere ad una larga condivisione”. Il Garante dei diritti dei detenuti svolge, in collaborazione con le competenti amministrazioni dello Stato e della Regione, numerose funzioni tra cui assumere ogni iniziativa volta a verificare che ai soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale siano erogate le prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all’istruzione e alla formazione professionale e ogni altra prestazione finalizzata al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro. Segnala agli organi regionali eventuali fattori di rischio o di danno dei quali venga a conoscenza su indicazione dei soggetti interessati o di associazioni e organizzazioni. Interviene nei confronti delle strutture e degli enti regionali in caso di accertate omissioni o inosservanze. La Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Toscana Bianchi plaude alla nomina. “Sono rilevanti i temi che dovrà affrontare e sono certa che saprà interpretare al meglio sentimenti e necessità”. Tra queste ricorda l’esigenza di “garantire ai figli di genitori reclusi il diritto alla continuità del legame affettivo” e di “allargare le possibilità di comunicazione per evitare la crescita della solitudine”. Attenzione anche per le mamme in carcere con i figli: “Ora più che mai servono misure per evitare i danni della detenzione su bambine e bambini”. Roma. Rebibbia e Regina Coeli “sotto controllo”, ma in carcere ci si ammala di Alessandro Luna Il Foglio, 16 aprile 2020 Forte impegno della magistratura di sorveglianza: 300 ingressi in meno. ma il sovraffollamento preoccupa. I numeri del Lazio, come d’altra parte quelli nazionali, segnerebbero un trend decisamente positivo se non fosse per le Rsa, i centri anziani o gli ospizi che, di giorno in giorno, si stanno trasformando in piccoli focolai che sporcano i numeri e mantengono alta la curva dei contagi. Sono strutture che hanno in comune il fatto di ospitare in spazi abbastanza ristretti e comunitari le persone che ci vivono. Ed è per questo che si comincia a guardare con un po’ di preoccupazione ed apprensione un altro tipo di strutture che, pur molto diverse, hanno alcune caratteristiche comuni alle Rsa: le carceri. È diffuso il timore, tra le associazioni e i famigliari dei detenuti, che la storica condizione di sovraffollamento di queste strutture possa diventare la scintilla di focolai simili a quelli delle Rsa. Come ci ha spiegato Stefano Anastasia, uno dei fondatori dell’associazione Antigone, da sempre impegnato nelle condizioni delle carceri e in costante contatto con le direttrici del carcere romano di Rebibbia: “Si tratta di strutture, per promiscuità, molto simili e quindi non bisogna abbassare la guardia, per evitare che diventino i nuovi focolai. A Rebibbia si è scoperto qualche settimana fa che due operatori sanitari della sezione femminile del carcere erano risultati positivi. Uno di loro non faceva visite a Rebibbia da tempo, mentre l’altro era stato nella sezione femminile proprio il giorno prima di essere risultato positivo. Così la direttrice ha isolato tutte e sei le donne che lo avevano incontrato per sottoporle a tampone. La situazione sembrava quindi essere rientrata, ma altri nove operatori sono risultati positivi e si è quindi dovuto procedere a uno screening a tappeto che ha coinvolto quasi un centinaio di persone, tra cui una detenuta è risultata positiva ed è stata trasferita allo Spallanzani. La buona notizia è che queste strutture non hanno visto ancora un’esplosione simile a quella delle Rsa perché si è agito con estrema tempestività nell’isolarle rispetto al mondo esterno, sospendendo visite e limitando gli ingressi già a febbraio, mentre nei centri anziani e negli ospizi si è agito a inizio marzo. Ma il problema è che le carceri potrebbero essere, per una ragione storica e strutturale, un terreno estremamente fertile per questo virus. Infatti, mentre nel paese il trend è in discesa e i casi giornalieri diminuiscono, tra le celle la progressione è più sostenuta rispetto al mondo esterno. I casi sono raddoppiati in sole due settimane, sia per via del problema del sovraffollamento delle nostre carceri, che per il fatto che molti detenuti presentano storie di vulnerabilità sanitaria pregressa. Spesso si parla di quadri clinici già complicati e questo è un altro punto in comune con le strutture sanitarie come Rsa, ospizi e centri anziani”. Affidandoci a una similitudine, si potrebbe dire che un caso di coronavirus viaggia nel mondo civile come una fiamma in una casa di mattoni, mentre in un ospizio o in un carcere divampa come il fuoco in una casa di paglia. Ma quali sono quindi le precauzioni che si possono prendere? Ci dice la sua Riccardo Magi, deputato di +Europa e leader radicale, che avverte: “Nelle carceri stiamo scherzando col fuoco. Sono strutture in cui non si può applicare la norma di distanziamento sociale e, quando si trovano dei positivi, individuare la catena di contatti da isolare è praticamente impossibile, visto che i detenuti condividono spazi e ambienti comuni ed entrano in contatto gli uni con gli altri continuamente. Andrebbero fatte uscire almeno 10.000 persone, con depenalizzazioni o conversioni in isolamento domiciliare di alcune sentenze. E si dovrebbe cercare di non affollare ulteriormente le carceri già piene”. A che punto siamo su questo fronte lo abbiamo chiesto ad Anastasia: “Nel Lazio so che la magistratura di sorveglianza sta lavorando per evitare in tutti i casi possibili il carcere e per fortuna in Italia ci sono stati, nell’ultimo mese, 5000 ingressi in meno, di cui 3-400 solo nel Lazio, il che dà un po’ di respiro a strutture come Rebibbia o Regina Coeli. Ma le misure del governo ancora sono insufficienti. L’articolo 123 del decreto Cura Italia prevede l’utilizzo del braccialetto elettronico per pene superiori ai sei mesi, mentre l’isolamento domiciliare ordinario no. Arcuri si è impegnato, in un accordo con Fastweb, a comprare i braccialetti necessari per mandare quante più persone possibile ai domiciliari, ma nel frattempo ci sono giudici che procedono per isolamento ordinario e altri che non lo fanno. Nel frattempo, non ci resta che sperare e pregare che in carceri come Rebibbia non scoppino altri casi o che quelli che emergono vengano gestiti in tempo e con tempestività”. Un mese di tempo prima che le condizioni delle carceri possano cominciare ad avvicinarsi agli standard cui già dovrebbero rispondere. Nel frattempo a Roma, come spiega Riccardo Magi, “non ci sono state grandi emergenze perché in generale nel Lazio la situazione è sotto controllo. Ma non bisogna abbassare la guardia e serve agire subito per evitare che le carceri diventino le prossime Rsa. Sono proprio le strutture in cui le persone vivono in poco spazio e condividendo ambienti comuni che i focolai possono trasformarsi in nuove emergenze”. Bologna. La zona Covid della Dozza è satura: “Subito test per tutti” di Ambra Notari Redattore Sociale, 16 aprile 2020 La Casa circondariale bolognese registra 10 nuovi casi di contagio da coronavirus: con 15 accolti, la zona riservata ai detenuti positivi è piena. Nicola D’Amore (Sinappe): “Si provveda a screening a tappeto”. E i detenuti del giudiziario da un mese non godono dell’ora d’aria. Nel carcere di via del Gomito ci sono i detenuti del reparto giudiziario che da un mese non godono dell’ora d’aria, chiusi h24 nelle loro camere detentive. Ci sono dieci nuovi detenuti positivi al coronavirus, che vanno ad aggiungersi ad altrettanti detenuti - tra cui il 76enne morto lo scorso 2 aprile: era ai domiciliari all’ospedale Sant’Orsola -, a venti professionisti del personale sanitario e a due agenti penitenziari contagiati dal Covid-19 nelle scorse settimane. E poi ci sono le misure alternative, concesse dalla magistratura a un cospicuo numero di persone: “È un momento difficile e molto complicato - riassume Nicola D’Amore, agente della Dozza di Bologna ed esponente del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. I contagi aumentano quotidianamente, da settimane chiediamo tamponi e test a tappeto. Al momento ha eseguito il tampone solo il 20 per cento del totale, tra detenuti e agenti. Troppo pochi, e intanto la zona Covid del carcere, l’ex infermeria predisposta per accogliere i detenuti positivi, è satura: accoglie 15 detenuti. I numeri sono fortemente sottostimati: come si può pensare che siano solo due gli agenti contagiati? Noi siamo gli untori, lo sappiamo bene: chissà quanti asintomatici ci sono. Ma continuiamo a lavorare qui, e poi a uscire, per tornare a casa o fare la spesa: dobbiamo essere controllati”. Come altri istituti penitenziari italiani, anche la casa circondariale Rocco D’Amato è stata teatro di una rivolta: era il 9 marzo, piena emergenza sanitaria. Tra le cause scatenanti, il blocco dei colloqui e la richiesta di tamponi per tutti. Molti detenuti del giudiziario coinvolti, numerosi intossicati e alcuni ricoverati. Nel bilancio, anche una vittima, morta forse per avere assunto un mix letale di medicinali recuperati in infermeria durante gli scontri. Da allora, parte della popolazione detenuta è stata trasferita - a partire dai protagonisti dei tragici eventi - mentre chi resta si trova a fare i conti con spazi tuttora inagibili, a partire da quelli comuni (in questi giorni dovrebbero riaprire i passeggi a sezioni alterne, compatibilmente con la gestione dell’emergenza sanitaria, ndr). “I detenuti della sezione giudiziaria da oltre un mese non possono usufruire né dell’ora d’aria, né degli spazi comuni. La situazione è insostenibile: nei corridoi vedo fantasmi, volti pallidi ed emaciati. Lo stesso garante nazionale Mauro Palma ha inviato una lettera per denunciare la situazione - continua D’Amore. Sì, si sta procedendo con le sanificazioni e la ristrutturazione, ma in presenza delle persone, costrette dunque a respirare le sostanze tossiche dei trattamenti. Dramma nel dramma, alcuni dei detenuti protagonisti della rivolta dopo il trasferimento sono risultati positivi - continua D’Amore. Questo però non è bastato a convincere l’amministrazione sulla necessità di controllare tutti. E pochi giorni dopo sono stati registrati una ventina di casi positivi tra il personale sanitario”. Come rispondere, allora, a questa emergenza? “C’è chi, addirittura, ha parlato di costruire nuove carceri. Certo questo potrebbe rispondere al problema del sovraffollamento, ma credo che, sul breve periodo, non possa essere questa la strada da intraprendere: meglio pensare a un adeguamento di quelle esistenti. Tanto per cominciare, sarebbe utile avere le docce nelle camere detentive, per evitare gli assembramenti nei locali comuni. In alcuni bracci questa misura è già prevista, e le cose, lì, vanno meglio. Sì anche alla promozione di misure alternative: da questo punto di vista, va detto che l’impegno della magistratura è stato subito convinto e produttivo. Fortunatamente anche gli ingressi oggigiorno sono limitatissimi. E poi servono test per tutti, subito. Per adesso ci hanno detto che sì, saranno fatti, ma non si sa quando. Purtroppo, però, le carceri non sono ai primi posti dell’agenda politica: non lo sono dal 1986, anno della legge Gozzini. È ora che la politica faccia la sua parte, anche correndo il rischio di fare scelte impopolari: perché, per esempio, non pensare a uno sconto speciale di pena? Perché non realizzare spazi fuori dal carcere dove accogliere i detenuti positivi, oppure coloro che possono godere di misure alternative ma non sanno dove andare? Le ex caserme, per esempio. È assurdo che nessuno dei governi che si sono succeduti abbiamo pensato a opzioni simili. Ma adesso, piaccia o no, tutti i nodi sono venuti al pettine”. Venezia. Coronavirus: la Camera penale preme per trasferire detenuti nelle case Ater veneziatoday.it, 16 aprile 2020 La proposta del segretario Luca Mandro. Martini: “Occasione per misurare la politica”. Lihard: “Tutelare la polizia penitenziaria”. Speranzon: “Pronti a collaborare, ma prima ci sono i meritevoli”. Detenuti trasferiti nelle case di proprietà dell’Ater. La proposta viene ancora una volta dalla Camera Penale di Venezia, attraverso un nuovo comunicato. “Abbiamo contattato il presidente (Raffaele Speranzon) - si legge nel comunicato del segretario dell’organo di diritto penale, l’avvocato Luca Mandro - e l’assessore alla Coesione sociale (Simone Venturini) del Comune di Venezia, proponendo anche un tavolo di lavoro operativo per definire gli interventi più idonei e urgenti per arginare il rischio di trasmissione della malattia, Covid-19, all’interno delle carceri. Per la Regione Veneto è previsto uno stanziamento pari a 475.000 euro, rivolto a interventi quali la collocazione in unità abitative indipendenti o di accoglienza. Sul tema - viene precisato - intendiamo sollecitare, anche tramite gli amministratori locali, i privati e il mondo delle imprese, come Federalberghi. C’è la conferma della disponibilità “ad avviare una collaborazione con il Comune per affrontare il tema”, dice il presidente dell’Ater Venezia, Raffaele Speranzon. Un’altra cosa è disporre materialmente degli alloggi. L’aver messo a disposizione, temporaneamente e per l’emergenza coronavirus, alcune abitazioni, “in via del tutto eccezionale per i sanitari”, afferma Speranzon, costituisce già una “deroga”. Man a mano che verrà meno la ragione della concessione degli appartamenti, cioè dare un tetto temporaneo ai sanitari arrivati da fuori provincia, se non da fuori regione, per svolgere il loro lavoro nelle Terapie intensive, la situazione tornerà alla normalità. “Ater non può sottrarre alloggi destinati ad altre categorie di persone fragili e meritevoli di tutela secondo i criteri stabiliti dalla legge 39 del 2017. Per il resto, ben comprendiamo la situazione emergenziale dei detenuti”, conclude. L’iniziativa della Camera penale veneziana “apre una sfida alle istituzioni che richiede coraggio e grande capacità di coinvolgimento dei vari soggetti sociali che dovrebbero diventare protagonisti di questo processo - scrive Giovanni Andrea Martini, presidente della Municipalità di Venezia Murano Burano - La Magistratura di sorveglianza già oggi possiede la capacità di applicare varie misure alternative alla carcerazione, ma deboli e timide sono le risposte, in questo caso del Comune di Venezia - scrive Martini - come del resto gli stanziamenti messi a disposizione a favore delle attività carcerarie. Questa, come dice la Camera penale di Venezia, potrebbe essere l’occasione per misurare le volontà politiche in relazione all’umanizzazione della pena e per l’affermazione dei diritti costituzionali”. Bari. Class action di due legali: “Le istituzioni tutelino la salute dentro il carcere” di Fulvio Colucci Gazzetta del Mezzogiorno, 16 aprile 2020 “Con l’epidemia da Coronavirus il sovraffollamento del carcere di Bari è un dramma. Il rischio di trasmissione della malattia è altissimo”. L’avvocato Luigi Paccione, insieme al collega Alessio Carlucci, ha presentato una class action procedimentale coinvolgendo governo, procura della Repubblica e Comune. I legali chiedono il rispetto delle misure igienico-sanitarie nell’istituto penitenziale sulla base dei due articoli della Costituzione che garantiscono la salute e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. “Tutela uguale per tutti, va garantita anche agli invisibili” ha spiegato Paccione. In assenza degli adempimenti si configurerebbe un “torto di massa” addebitabile alle istituzioni con la promozione di ricorsi anche in sede internazionale. “È fondamentale rispettare le misure igienico-sanitarie nel carcere di Bari”. A chiederlo gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, con una class action procedimentale, patrocinata dall’associazione “Nessuno tocchi Caino- Spes contra spem”. Avvocato Paccione a chi vi rivolgete? “I nostri interlocutori sono il presidente del Consiglio dei ministri, il ministro della Giustizia, la procura della repubblica di Bari, il sindaco Decaro come rappresentante della città e dell’Area metropolitana”. Cosa chiedete? “Con l’epidemia da Coronavirus il sovraffollamento del carcere pone un problema drammatico. La struttura può accogliere 299 detenuti, ma ce ne sono 434 stando alle ultime stime del ministero della Giustizia. Il rischio di trasmissione della malattia è altissimo. La salute di operatori penitenziari e detenuti è in pericolo. Abbiamo messo a punto, insieme al collega Carlucci, questa class action procedimentale rivolgendoci a governo, procura e Comune. Non è la prima volta che lo facciamo. Il nostro ragionamento è semplice: se, in base alla Costituzione, lo Stato tutela un bene supremo come la salute pubblica anche con provvedimenti restrittivi come il blocco di tutte le attività e della circolazione nel Paese, il principio sancito dall’articolo 3 della stessa Carta costituzionale impone che la tutela sia uguale per tutti. Va garantita anche agli ultimi, agli “invisibili”, agli anelli deboli della catena sociale come i detenuti e, ovviamente, deve essere estesa al personale degli istituti carcerari. Altrimenti ci troviamo di fronte a una grave frattura dei principi stabiliti dalla Costituzione e da Carte internazionali come la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”. Quali risultati vi attendete? “Il governo deve consentire il rispetto delle prescrizioni in materia di mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro; di divieto di assembramento e di effettiva applicazione delle misure igienico-sanitarie a protezione del personale del carcere e dei detenuti. Al sindaco Decaro chiediamo di vigilare, attraverso gli uffici tecnici e di concerto col ministero della Giustizia, sull’applicazione delle norme. In assenza di questi adempimenti si prefigurerebbe la fattispecie giuridica del “torto di massa” e potremmo, anche in sostituzione degli Enti locali cui è rivolta la class action procedimentale, promuovere ogni rimedio giuridico, a livello nazionale e sovranazionale, per assicurare il ripristino della legalità”. Diceva di aver già fatto ricorso allo strumento della class action procedimentale. Quando? “Ci sono due precedenti durante i quali ho agito con l’avvocato Carlucci: nel 2009 e nel 2011. Lanciammo la prima class action procedimentale per l’accertamento della proprietà pubblica del teatro Petruzzelli. L’iniziativa sfociò in una delibera del Consiglio comunale che aderì alla nostra visione. La seconda volta ci rivolgemmo alla magistratura perché fosse dichiarato illegale e chiuso il Cie di Bari, Centro di identificazione ed espulsione. In questo caso il ministero dell’Interno è stato condannato per il danno d’immagine arrecato alla città. Ora siamo in Appello dove abbiamo riproposto la domanda di chiusura per ingiusta detenzione, in contrasto con i principi costituzionali. Perché questo è la class action procedimentale: un esercizio di cittadinanza attiva attraverso il quale si chiede ai poteri pubblici la fedeltà ai valori costituzionali, primo tra tutti il valore della non discriminazione delle persone socialmente più deboli e vulnerabili. La base logica della nostra azione è la funzione sociale dell’avvocatura. Siamo presidio di legalità; siamo sentinelle della legalità costituzionale”. Trento. Domiciliari per pene sotto i diciotto mesi, al vaglio le pratiche di cento detenuti Corriere del Trentino, 16 aprile 2020 Sono un centinaio i detenuti del carcere di Spini di Gardolo che potenzialmente potrebbero essere trasferiti nel proprio domicilio. A tanto ammontano infatti le pratiche che stanno analizzando in questi giorni il procuratore Sandro Raimondi e la presidente del Tribunale di sorveglianza, Lorenza Omarchi. Il passaggio è tutt’altro che scontato, “bisognerà analizzare ogni singola pratica e soprattutto verificare chi ha un domicilio presso il quale poter scontare la pena”, chiarisce il procuratore. Molto detenuti della casa circondariale di Spini sono immigrati, senza residenza, per questi la detenzione domiciliare sarà esclusa, salvo che non vengano individuate strutture idonee che possano ospitarli. È chiaro, quindi, che solo tra qualche giorno si potrà avere contezza degli effetti del Decreto Cura Italia del 17 marzo 2020, numero 18, che ha introdotto misure di sostegno economico per famiglie, lavoratori ed imprese per contrastare gli effetti provocati dall’emergenza epidemiologica da Covid19, e ha dato il via libera alla detenzione domiciliare per chi ha meno di 18 mesi di pena da scontare. Il decreto, adottato dopo le rivolte scoppiate all’interno di numerose carceri italiane a causa dell’emergenza sanitaria, prevede gli arresti domiciliari anche per gravi motivi di salute. “Ma non vale per tutti i reati”, precisa ancora il procuratore. Non è previsto, ad esempio, per reati di violenza domestica e stalking. Sono 10 i positivi al Covid nel carcere di Trento, tra cui 6 agenti, ora in isolamento. I detenuti potranno chiedere e ottenere la detenzione domiciliare fino al 30 giugno 2020. La misura sarà applicata dal magistrato di sorveglianza, non solo su istanza del detenuto, ma anche per iniziativa del pubblico ministero o della direzione del carcere. Per chi deve scontare una pena tra i 7 e i 18 mesi è possibile ricorrere anche al braccialetto elettronico. Verona. Contagi in carcere, i penalisti: “Tamponi e sfoltire le celle” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 16 aprile 2020 Trenta detenuti risultati positivi all’interno del carcere di Montorio, 25 dei quali sono ancora presenti all’interno della struttura. Secondo la Camera penale di Verona, che interviene con il presidente Claudio Avesani e il componente dell’Osservatorio nazionale carceri Simone Bergamini, “la situazione è molto preoccupante, stante l’elevata probabilità di una repentina e violenta diffusione del contagio, in una struttura carceraria dove, come in tutte le carceri italiane è assai difficile, a causa del generale sovraffollamento, mantenere efficaci condizioni di isolamento sociale”. Per i penalisti, “a fronte dell’accertata positività di un numero rilevante di soggetti, appare indispensabile effettuare i tamponi su tutti i detenuti e su tutto il personale in servizio; occorre inoltre sfoltire rapidamente le presenze di detenuti a Verona, ampiamente sopra il numero regolamentare, come da ultimo autorevolmente segnalato, per tutti gli istituti di pena, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale ha affermato che “nel nostro sistema processuale il carcere costituisce l’extrema ratio”. Per raggiungere questo obiettivo intensificheremo nei prossimi giorni le nostre interlocuzioni con le istituzioni penitenziarie, con la magistratura di sorveglianza e con quella di merito”. Tolmezzo (Ud). È diabetico, ha avuto un tumore e ora ha il Covid: gli negano i domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2020 Rigettate tutte le istanze per chiedere gli arresti domiciliari. La moglie: “Me lo vogliono far morire”. È in attesa di giudizio, presenta due noduli proprio dove era stato operato di tumore, soffre di diabete mellito e di altre gravi patologie. Ma, come se non bastasse, ha contratto il coronavirus. Nonostante tutto questo, il giudice ha sentenziato che può rimanere in carcere. Parliamo di M.P., uno dei cinque detenuti attualmente reclusi al carcere di Tolmezzo che hanno avuto esito positivo al tampone. Sono proprio coloro che provengono dal carcere di Bologna dove c’è un focolaio (contagiati diversi detenuti, agenti e personale sanitario) e dove si è verificato il primo decesso di un recluso per Covid-19. La vicenda personale di questo uomo è tragica e si aggiunge al problema dei trasferimenti da un carcere all’altro con il rischio di veicolare il virus ovunque. Sua moglie, Giusy, è disperata. “Me lo vogliono far morire!”, denuncia a Il Dubbio. Il marito, come detto, ha gravi patologie che di fatto lo rendono incompatibile con l’ambiente carcerario. Eppure le istanze per chiedere gli arresti domiciliari sono state tutte rigettate. Compresa l’ultima, quando l’avvocato difensore, Giuseppe Napoli del foro di Catania, ha scritto nero su bianco che M. P. è risultato positivo al tampone. Come oramai è consolidato dalla comunità scientifica, il virus può essere letale quando colpisce le persone con altre patologie pregresse. Ma è anche vero, se accuditi in un ambiente sano, che si può essere monitorati meglio. Ora l’uomo, con gravi patologie tumorali, condivide la cella con un altro detenuto positivo. “È buttato lì come le bestie - denuncia Giusy, la moglie -, nella sporcizia perché non gli fanno lavare le lenzuola, gli operatori sanitari aprono appena appena la porta per fargli la puntura per la trombosi e via, lasciati lì”. Giusy è disperata, ha paura di perdere suo marito e il pensiero è andato proprio al suo ex compagno della stessa sezione del carcere di Bologna. Parliamo di Vincenzo Sucato che, già fiaccato da altre patologie, è morto in ospedale. Ma non solo. A Giusy è già morto un figlio e il pensiero di perdere suo marito, tratto in arresto per reato associativo e condannato in primo grado a nove anni di carcere, le crea un dolore enorme. “Mio marito è innocente, era capitato in un giro strano proprio per salvare nostro figlio!”, ci tiene a sottolineare Giusy. Diverse sono state le istanze, poi prontamente rigettate dal giudice nonostante il parere favorevole del Pm. C’è anche una analogia con il caso Sucato, il detenuto di Bologna morto in ospedale per coronavirus. L’avvocato aveva chiesto il referto medico alla direzione del penitenziario bolognese, ma la richiesta è rimasta inevasa. Lo ha evidenziato il difensore in una delle istanze urgenti per chiedere i domiciliari. Una risale al 4 aprile scorso, quando il detenuto era stato appena trasferito al carcere di Tolmezzo. “Chiedo - si legge nell’istanza rivolta al Gup di Milano - un sollecito della S.V. affinché la direzione sanitaria del carcere di Bologna provveda a redigere la relazione medica circa le condizioni di salute del detenuto, previa acquisizione della cartella clinica presso la direzione sanitaria del carcere”. L’avvocato ha sottolineato che il 19 marzo aveva presentato istanza per i domiciliari e che il Gup, il 23 marzo, ha chiesto “con urgenza” la relazione medica dal carcere di Bologna. Ma “nessuna risposta ad oggi”, ha precisato l’avvocato nell’istanza. Il difensore ha sottolineato che il carcere di Tolmezzo, dove nel frattempo il suo assistito è stato trasferito, non aveva ancora ricevuto la cartella clinica dal carcere bolognese. Nel frattempo, sabato scorso il Gip ha risposto all’istanza. A sorpresa -, dopo aver potuto finalmente leggere la cartella clinica del carcere bolognese -, nonostante abbia sottolineato che le patologie del detenuto sarebbero compatibili con il carcere, scrive nero su bianco che c’è “l’elevato rischio di sviluppare complicanze severe e fatali in caso di contagio Covid-19”. Ma non accoglie l’istanza. Perché? “Non risulta indicato né il luogo ove M.P. vorrebbe rimanere in stato di arresto, né se presso tale luogo convivano familiari e se questi siano disponibili ad accoglierlo”, si legge nell’ordinanza. L’avvocato Napoli prontamente ha mandato una istanza urgente al Gup di Milano, soprattutto dopo aver appreso che il suo assistito ha contratto il Covid-19. Quindi - come il giudice ha sottolineato qualora dovesse contrarlo - in pericolo di vita. “Meraviglia - scrive l’avvocato - il fatto che il giudice non abbia avuto l’amabilità di attenzionare l’istanza primaria del 19.03.2020, nella quale era riportato l’indirizzo presso il quale il detenuto avrebbe scontato gli arresti domiciliari, che, peraltro, è la residenza anagrafica della moglie (che ovviamente sin da subito si era resa disponibile ad accoglierlo) ed esattamente lo stesso luogo dove è stato tratto in arresto per il procedimento de quo”. L’istanza è tutta concentrata per l’immediata scarcerazione visto che l’uomo ha contratto il coronavirus. Martedì è arrivata la risposta e Giusy, la moglie di M. P., si è vista crollare il mondo addosso. “Il giudice - si legge scritto a penna - rilevato che nessun elemento nuovo o fatto diverso viene addotto in merito alle esigenze cautelari; che la compatibilità delle condizioni di salute col regime carcerario viene estratta dalla relazione sanitaria; valutata la gravità dei fatti commessi; rigetta tutte le istanze di revoca e sostituzione della misura”. Nulla da fare. Nonostante le sue gravi patologie e l’esito positivo al Covid-19, l’uomo in attesa di un giudizio definitivo può rimanere in carcere. Il caso è stato sottoposto all’attenzione dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che ha promesso che farà di tutto per chiedere un sindacato ispettivo nelle carceri di Bologna e Tolmezzo. Evidenziando la questione dei trasferimenti da un carcere all’altro quando, ai tempi del Covid-19, dovrebbero essere limitatissimi. Napoli. Le lacrime di papà Pino: “Mio figlio obeso rischia la morte in carcere” di Rossella Grasso Il Riformista, 16 aprile 2020 “Mio figlio ha sbagliato ed è giusto che paghi tutto quello che deve, ma io non voglio un giorno andare a prenderlo in carcere, cadavere”. Pino Verderosa è il papà di Francesco, 34enne da due anni detenuto nel carcere di Poggioreale in uno stato di salute davvero molto critico. Pesa 210 chili, ha gravi problemi respiratori che gli impongono l’uso di un respiratore notturno, per non rischiare la vita durante le apnee notturne. A questo si aggiungono problemi cardiaci e vascolari e l’impossibilità a dormire sulle piccole brandine del carcere. “Sono davvero preoccupato per lui - dice Pino - se dovesse verificarsi un solo caso di Coronavirus in carcere mio figlio Francesco sarebbe il primo ad ammalarsi e potrebbe succedere l’irrimediabile”. Pino e sua moglie da mesi chiedono, inascoltati, con forza che Francesco possa continuare a scontare la pena a casa per i suoi problemi di salute. “Non chiediamo uno sconto di pena, solo che possa essere curato e tutelato, che possa sottoporsi all’intervento allo stomaco di cui ha bisogno e vivere in una condizione più umana, solo per la sua salute”. Due volte a settimana la famiglia incontra Francesco su Skype per i colloqui. “È molto depresso - racconta il padre - a stento riesce a parlare. Non riesce nemmeno ad andare in bagno per la sua dimensione fisica. Come può sopravvivere così? È umano?”. Intanto la loro richiesta è rimasta inascoltata e pregano le autorità affinché prendano in considerazione la serietà della situazione clinica del loro figlio. Sono 15 gli anni di pena che Francesco deve scontare. Due sono già passati ma ce ne sono ancora tanti davanti. “Oggi è molto depresso e avvilito per la battaglia che in primis sta combattendo lui stesso - continua Pino - Mio figlio è un soggetto a rischio, e questo lo dico con il cuore in mano. Le lacrime che avevo le ho piante tutte, ma chiedo, con l’amore di un genitore, di lasciare che mio figlio sconti il resto della pena agli arresti domiciliari. Non voglio andare a tirare fuori mio figlio quando sarà troppo tardi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Che è successo in quel carcere? “Hanno torturato i detenuti” di Claudio Paterniti Martello* Il Riformista, 16 aprile 2020 All’associazione Antigone sono arrivate testimonianze drammaticissime su un pestaggio di massa avvenuto nella prigione di Santa Maria Capua Vetere. Se i racconti sono veri. Tra il 7 e l’8 aprile l’Associazione Antigone ha ricevuto numerose segnalazioni su violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Dalle verifiche effettuate dai nostri legali è venuto fuori un quadro che ci parla di una vera e propria mattanza. Questa la cronologia degli eventi. Il 5 aprile, tra i detenuti del reparto “Nilo”, si diffonde la notizia di un detenuto in isolamento con febbre alta, affetto da Covid-19. Si tratta di uno dei detenuti addetti alla distribuzione della spesa - uno spesino, nell’infantilizzante gergo carcerario. La notizia genera paura e ansia, e queste generano una protesta. Circa 150 detenuti su 400 danno vita alla tradizionale battitura delle sbarre. Nella terza sezione del reparto Nilo arrivano a barricarsi dietro una barriera di brande, chiedendo che vengano distribuiti igienizzanti, maschere e guanti. La protesta sarebbe stata pacifica e si sarebbe spenta alla sera, con la promessa di un colloquio con il Magistrato di Sorveglianza. Il giorno successivo questo colloquio ha luogo. Una volta andato via il Magistrato, però, tra le 15 e le 16, circa 400 agenti di Polizia penitenziaria sarebbero entrati nel reparto in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, e lì, in gruppi da sette, sarebbero entrati nelle celle prendendo i detenuti a schiaffi, calci, pugni e colpi di manganello. Dopo un primo pestaggio li avrebbero trascinati in corridoio, continuando lì e costringendoli alla fuga verso le scale e fino all’area dedicata al passeggio. Alcuni caduti per strada sarebbero stati dati altri colpi. Ad altri invece sarebbe stato chiesto di uscire dalle celle per una perquisizione. Una volta denudati sarebbero stati insultati e pestati. Vari detenuti, dopo il pestaggio, sarebbero stati costretti a radersi barba e capelli. A operazione finita alcuni sarebbero stati messi in isolamento, altri trasferiti in altri istituti. Nei giorni seguenti molte telefonate non sarebbero state consentite. A chi invece era consentito chiamare sarebbero state rivolte minacce nel caso in cui avessero raccontato gli eventi. Ciò non avrebbe impedito a dei detenuti di mostrare ai familiari o agli avvocati i segni delle violenze. Infine, diversi medici avrebbero omesso dai referti i segni delle violenze. Nella ricostruzione di Antigone si trovano persone massacrate di botte, svenute nel sangue o che il sangue lo urinano, traumi cranici, costole e denti rotti. Ovviamente è stato presentato un esposto in Procura. Antigone ha chiesto che i fatti in questione, laddove fossero confermati, vengano qualificati come tortura commessa da pubblici ufficiali, così come previsto dall’art. 613 bis. Capita che di fronte alle violenze in carcere si invochi l’art. 41 dell’ordinamento penitenziario, che consente l’uso della forza quando è “indispensabile” “per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Ma è chiaro, sempre se questa ricostruzione dovesse essere confermata, che non ci troveremmo in questa eventualità. La protesta dei detenuti, oltre a essere stata pacifica, è avvenuta il 5 aprile. L’intervento degli agenti il 6. Si tratterebbe dunque di una ritorsione, non di un’azione di ordine pubblico. Antigone ha chiesto che le autorità competenti facciano luce su quanto accaduto in maniera tempestiva. *Associazione Antigone Roma. Donna detenuta uccise i figli, carcere di Rebibbia sotto inchiesta di Giulio De Santis Corriere della Sera, 16 aprile 2020 Gli omicidi in carcere, verifiche sui controlli. La casa circondariale di Rebibbia finisce sotto inchiesta nel procedimento sull’omicidio commesso dalla detenuta Alice Sebesta, responsabile di aver ammazzato i figli di sei mesi e due anni in carcere i118 settembre del 2018. A disporre approfondimenti sui controlli cui è stata sottoposta la Sebesta nei giorni precedenti la tragedia, è stato il Gup Anna Maria Gavoni con l’invio degli atti in procura. La decisione è contenuta nella sentenza di assoluzione della detenuta dall’accusa di omicidio volontario motivata dall’incapacità di intendere e volere della donna. Proprio le ragioni dell’assoluzione sono alla base del provvedimento. Come scrive il Gup, la Sebesta, 35 anni, manifesta “una fragilità psicologica” fin dall’ingresso in carcere il 28 agosto di due anni fa, poche ore dopo essere stata arrestata durante il trasporto di dieci chili di marijuana. Ecco la catena di episodi, segnalati dai responsabili del reparto nido, che avrebbero dovuto far scattare l’allarme: il 29 agosto, le detenute, preoccupate per i propri figli, segnalano i comportamenti della donna, dalle continue urla contro i due piccoli alle “fughe” sul pavimento bagnato con in braccio i figli fino alle reazioni scomposte di fronte ai rimproveri delle sorveglianti. Il 3 settembre è segnalata alla psicologa perché svolga colloqui di sostegno. Il 4 settembre è proposto il regime di grande sorveglianza per monitorarne il comportamento - difesa dall’avvocato Andrea Palmiero - con l’obiettivo di tutelare i figli: non sarà mai concretizzato. Il 17 settembre, alle 18,30, la donna è invitata a pulire la cella, ma si rifiuta e inizia a urlare sempre con i figli in braccio: una situazione che innesca il caos nel reparto. La mattina del 18 settembre, i timori diventano tragica realtà: la Sebesta - ora in una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali (Rems) dove resterà 15 anni, come ha deciso il Gup - lancia i figli da una scala, uccidendoli entrambi. Ora toccherà al pm individuare chi avrebbe dovuto evitare la tragedia, prestando più attenzione alle fragilità della donna. Prato. Gli avvocati penalisti donano mille mascherine alla Dogaia notiziediprato.it, 16 aprile 2020 “Dal Governo poca attenzione alle carceri”. La donazione per manifestare la vicinanza ai detenuti e al personale in servizio. “La condizione carceraria non consente il distanziamento sociale e la tutela individuale, il nostro è un piccolo gesto di solidarietà”, il commento della Camera penale di Prato. Mille mascherine donate al carcere della Dogaia dagli avvocati penalisti pratesi. “Con questo piccolo gesto - le parole di Gabriele Terranova, presidente della Camera penale di Prato - intendiamo testimoniare la nostra vicinanza ai detenuti e al personale della casa circondariale in un momento di grande sofferenza e apprensione per tutti. Un momento che sappiamo essere particolarmente impegnativo per chi, per vicissitudini esistenziali o per condizione lavorativa, si trova a trascorrerlo nel contesto del carcere in cui la convivenza forzata e la natura dei luoghi ostacolano l’adozione delle necessarie misure di distanziamento sociale e di tutela individuale”. Le mascherine sono state consegnate nel fine settimana e il direttore della Dogaia ha inviato una lettera di ringraziamento agli avvocati per “l’ingente quantitativo di dispositivi destinati a tutto il personale in servizio”. “Sappiamo che si tratta di un gesto poco più che simbolico - continua Terranova - e che la questione carceraria al tempo del coronavirus meriterebbe ben altra attenzione, fino ad oggi, a giudizio non solo nostro, colpevolmente negata da chi riveste responsabilità di Governo. Ci auguriamo che almeno l’accorato appello lanciato dal Papa a Pasqua induca ad un ripensamento delle pertinenti scelte politiche”. Roma. Coronavirus, detenuti al lavoro per produrre mascherine dire.it, 16 aprile 2020 “Progetto partirà a breve da carcere Rebibbia”. “Partirà a breve il progetto, realizzato in partnership fra il Ministero della Giustizia e il commissariato per l’emergenza Covid-19, che vedrà 320 detenuti di 3 città italiane (Roma, Milano e Salerno) realizzare mascherine da impiegare soprattutto per il personale degli istituti penitenziari di tutta Italia. Ciascuna delle sei macchine per la produzione, acquistate dalla struttura del Commissario Straordinario e concesse a titolo gratuito all’Amministrazione Penitenziaria, permetterà la realizzazione di 50 mila mascherine al giorno per 40 detenuti distribuiti su 4 turni da 6 ore l’uno, 400mila pezzi in totale in Italia”. Lo scrive su Facebook l’assessore allo Sport di Roma Capitale, Daniele Frongia. “I detenuti saranno opportunamente selezionati, formati, contrattualizzati e retribuiti dalla stessa Amministrazione penitenziaria. Ringrazio il ministero della Giustizia e il commissariato per l’emergenza per l’ottima iniziativa - spiega Frongia - che non poteva che partire dalla Capitale d’Italia, con il carcere di Rebibbia sempre all’avanguardia sotto questo profilo. Grazie anche alla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Gabriella Stramaccioni, sempre in prima fila per le opportunità di riscatto, impiego e impegno sociale della popolazione carceraria. Massa Marittima (Gr). Lezioni per trenta detenuti oltre le pareti del carcere di Lina Senserini Il Tirreno, 16 aprile 2020 Casa circondariale e Cpia hanno promosso il progetto di educazione a distanza con offerta fino al biennio delle scuole superiori. L’educazione a distanza non si ferma alle pareti del carcere, nemmeno in tempi di coronavirus. Alla Casa circondariale di Massa Marittima, 30 detenuti stanno continuando a seguire regolarmente le lezioni grazie a un progetto innovativo, tra i pochi a livello nazionale. La novità, non è tanto nel mezzo - Skype, usato anche per i colloqui con i familiari - quanto nella possibilità che l’amministrazione carceraria offre ai detenuti iscritti ai percorsi formativi di prima alfabetizzazione, scuola media e primo biennio delle superiori, di non perdere questa opportunità formativa. Considerando, anche la complessità dell’organizzazione all’interno di una struttura di detenzione, in termini di sicurezza. Non meno di una settimana fa Il Tirreno aveva indicato questa esperienza, insieme ad altre che coinvolgono i migranti, come esempio di continuità della scuola pubblica in un momento così peculiare. L’idea è della direttrice della Casa circondariale, Cristina Morrone, e del dirigente del Centro per l’istruzione degli adulti (Cpia) di Grosseto, Giovanni Raimondi, accolta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha autorizzato la prosecuzione dei corsi in videoconferenza, il 12 marzo. “Tutto questo senza rischi - spiega la direzione del carcere - nel rispetto delle regole per contenere il rischio di contagio. Quindi piccoli gruppi di studenti, spazi idonei e distanze di sicurezza, con l’obiettivo di aprire una porta al futuro e all’innovazione, garantendo ai detenuti una quotidianità più serena e attiva. Come un filo che si riannoda”. Tra l’altro il Cpia si è impegnato a far arrivare all’istituto penitenziario nuovi computer e tablet, insieme a dispense e materiali per lo svolgimento delle lezioni. Il programma prevede video-lezioni sincrone su Skype due volte alla settimana, il martedì e il venerdì dalle 9.30 alle 11, con gli insegnanti della sede di Follonica del Cpia che incontrano gli studenti nello spazio virtuale di internet. Dagli schermi del computer non si parla solo di didattica, ma ci sono momenti per il dialogo per riprendere i progetti per il futuro a fine pena. Il primo collegamento, il 31 marzo, è stato accolto con entusiasmo da detenuti che hanno subito chiesto notizie e rassicurazioni su quello che succede fuori. Nelle prossime settimane, i percorsi scolastici si affiancheranno alla formazione professionale, con il laboratorio per la trasformazione dei prodotti agroalimentari del territorio, già attivo e sostenuto dall’associazione “Pulmino contadino” in collaborazione con Slow Food Monteregio. “Certo le difficoltà ci sono - spiegano Morrone e Raimondi - ma, grazie all’ottima collaborazione tra staff del carcere e insegnanti, alle solide relazioni con la città, la Casa circondariale di Massa Marittima è un esempio e un laboratorio per tutto il Paese”. Siena. La Casa circondariale dona al policlinico 100 volumi di “17 storie per 17 Contrade” sienafree.it, 16 aprile 2020 L’emergenza Covid-19 si combatte anche con la cultura, unita alla solidarietà. Grazie al bel gesto della Casa Circondariale “Santo Spirito” di Siena, i professionisti dell’area Covid dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese riceveranno in dono 100 copie del libro “17 storie per 17 Contrade”, un volume di storie fantastiche ispirate ai simboli delle Contrade, realizzato con il coordinamento di Michele Campanini, illustrazioni di Monica Minucci, copertina di Emilio Giannelli, edizioni Betti. Il libro contiene fiabe che prendono spunto dagli animali e dai simboli delle diciassette consorelle, con un’ambientazione fantastica e richiami a Siena e alle sue tradizioni. “Un bel gesto di solidarietà e di speranza - afferma Valtere Giovannini, direttore generale. Ringrazio il direttore della Casa Circondariale, Sergio La Montagna, per aver pensato ai nostri professionisti, che potranno leggere il libro a casa con i loro cari e magari con i loro bambini. Leggere aiuta gli adulti a distrarsi e abitua i bambini a pensare a realtà possibili e diverse dalla propria, a stimolare la fantasia e a provare a pensare come affrontare le difficoltà, proprio come quelle imposte dall’emergenza del coronavirus, che ha cambiato anche la vita di tanti bambini e delle loro famiglie. È proprio attraverso la lettura che si può parlare ai bambini di emozioni difficili, sia da comprendere che da accettare, e credo sia un ottimo modo anche per spiegare loro il significato del dono ricevuto e del lavoro che lo ha ispirato”. Bologna. Liberi dentro: la radio che trasmette speranza alla Dozza di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 16 aprile 2020 Quando è arrivato lo tsunami Covid-19 che non ha guardato in faccia niente e nessuno, che non ha incontrato muri a ostacolarlo ma che solo la lontananza fra gli esseri umani ha potuto arginarlo, anche nelle carceri il mondo è cambiato. E quanto si è via via costruito negli anni con impegno e dedizione, grazie alle persone che ogni mattina entravano per portare ai detenuti conoscenza e lavoro, conforto e speranza, e agli insegnanti che facevano lezione, ha dovuto percorrere strade diverse, così da preservare la salute dei detenuti dalla diffusione del contagio. Massimo Ziccone, responsabile dell’Area educativa della casa circondariale Dozza, e Roberto Lolli, presidente dell’Associazione volontari per il carcere, allora sono andati in commissione “Parità e pari opportunità” a Palazzo D’Accursio, sede del Comune di Bologna, a spiegare che c’era una possibilità per “rimodulare a distanza” i servizi interrotti. Il progetto, hanno spiegato, prevede il coinvolgimento di una radio attraverso la quale far arrivare in carcere le voci di insegnanti e volontari, Garanti comunale e regionale dei diritti dei detenuti, rappresentanti delle fedi religiose. Il progetto, grazie a Radio Città Fujiko, da lunedì 13 aprile è diventato realtà: l’emittente ha iniziato a trasmettere dalle 9 del mattino, per mezz’ora, dal lunedì al venerdì, “Liberi dentro - Eduradio per il carcere”, un programma che prende il nome dal blog attorno al quale sono organizzate le voci e le energie di coloro che si dedicano ai detenuti. “Il programma - spiega il comunicato del Comune di Bologna - sarà così in grado di raggiungere quanti più detenuti possibile e di colmare il vuoto creatosi, almeno in via provvisoria, finché non sarà possibile ripristinare le varie attività dentro il carcere. Proprio a questo scopo, i detenuti verranno forniti di radio acquistate dalla rete dei promotori e donate al carcere”. Le trasmissioni potranno essere riascoltate anche in podcast sul blog Liberi dentro. Le prime due puntate sono andate in onda e, con Francesca Candioli e Caterina Bombarda a condurre da studio, la parola d’ordine è già stata lanciata: “Ripresa”. Riprendere in mano le attività sospese a causa del Coronavirus e riprendere in mano la propria vita. La seconda puntata ha registrato la gradita presenza del costituzionalista Valerio Onida che, nella rubrica “Constitution on air”, curata dai ragazzi del centro Poggeschi, ha parlato dei diritti in carcere. Viaggio all’inferno per cercare la giustizia che “ripara” l’uomo di Luca Doninelli Il Giornale, 16 aprile 2020 Il criminologo Adolfo Ceretti racconta il lungo e difficile percorso per provare a riabilitare i colpevoli. Lo incontrai per caso, una sera, a una riunione alla quale non dovevo prendere parte, e dopo averlo ascoltato per cinque minuti desiderai ardentemente diventare suo amico. Per me fu come avere scoperto un fratello sconosciuto. Scommetto che è anche interista, dissi tra me. Lo era. Goethe le chiamò affinità elettive. Non so per lui (non gliel’ho mai chiesto e non lo voglio sapere) ma per me si trattò di questo. Adolfo Ceretti è una delle non moltissime persone che illuminano e danno prestigio al nostro Paese. Sono felice di essere italiano anche perché c’è lui. Per chi non lo conosce, dirò che Adolfo Ceretti è un criminologo di fama mondiale, professore ordinario all’Università Bicocca di Milano e visiting professor all’Università Federale di Rio de Janeiro. A lui dobbiamo, tra le altre cose, l’introduzione in Italia - con diversi contributi originali - dell’idea di giustizia riparativa. La sera in cui lo conobbi era appunto di questo che si parlava. La sua vicenda umana, intellettuale e professionale si dispiega in uno dei libri più belli e importanti di questi anni, “Il diavolo mi accarezza i capelli”, scritto con l’aiuto redazionale, sempre umile e intelligente, di Niccolò Nisivoccia e edito da Il Saggiatore (pagg. 336, euro 25). Per giustizia riparativa s’intende l’istituzione di percorsi volti a leggere il reato non secondo le azioni commesse (che sono l’oggetto della giustizia ordinaria, che accerta e commisura delitti e pene) ma secondo le persone che le hanno commesse e subite. Un buco nero nella giustizia ordinaria è sempre stato quello relativo alle vittime: la sola giustizia in cui chi ha subito un torto può sperare è di vedere punito il colpevole. Per lui non c’è altro. Ma gli anni del terrorismo maturarono in Ceretti la persuasione che questo non bastasse: era necessario offrire a chi aveva ucciso e ai familiari di chi era stato ucciso - gli uni come gli altri entrati poi in un tunnel di ira, di rancore, di risentimento, di depressione, di esclusione sociale da cui era quasi impossibile uscire - la possibilità di rimettersi in cammino. La giustizia riparativa non condanna, non assolve, non giudica. Cerca, attraverso un difficile lavoro di mediazione, sempre in stretto rapporto con la legge, di offrire a vitime e colpevoli la possibilità di un cammino, di un avvicinamento, di una lettura nuova delle proprie azioni e delle proprie posizioni, di uno spostamento dello sguardo su di sé. Le azioni possono edificare un uomo oppure spezzarlo, e un uomo spezzato rimane spezzato anche dopo anni di carcere, se non interviene per lui una possibilità nuova. Se solo un dio può rifare veramente un uomo da capo, la giustizia umana può almeno oltrepassare l’aspetto punitivo e cercare di riparare le sue azioni, aiutandolo a spostarsi dalla catena di effetti che il crimine (per chi l’ha commesso) e il rancore (per chi l’ha subito) hanno stretto intorno a lui. Chiamato a condurre questo lavoro di mediazione in alcuni dei casi più celebri della nostra storia recente (da Garlasco a Omar e Erika), Adolfo Ceretti ha messo in gioco questa idea rischiando tutto sé stesso. Mi è capitato un paio di volte di vederlo, reduce da una seduta di mediazione: appariva non solo sfinito, ma distrutto interiormente, perché mantenere l’equidistanza in casi di rapporto tra vittima e carnefice richiede la capacità di rischiare sé stessi in toto, mente e cuore. “Il diavolo mi accarezza i capelli” è un libro eccezionale per tante ragioni, compresa la grazia e la discrezione con la quale l’autore ci introduce a una scommessa che fu, alla fine, la stessa di Dante: attraversare l’inferno lasciandosene toccare in profondità ma poi uscirne con qualcosa di prezioso per tutti: un frammento di libertà in più. È un libro eccezionale per la densità dell’esperienza umana che racconta, per la tenacia con la quale l’autore non separa la vita professionale da quella personale, e per la tensione di cui è testimone: quella di far sì che tutto ciò di cui siamo fatti - incluse tutte le nostre fragilità - possa essere fattore di costruzione per noi stessi e di utilità per il mondo (che è, poi, la definizione più puntuale della parola etica, la quale non consiste certo in un sistema di regole). Consiglio poi questo libro a tutti gli scrittori. Non solo e non tanto per la puntuale descrizione delle complessità procedurali ma perché mette a tema la complessità vera, quella delle azioni umane, la loro non-riducibilità a un solo criterio di lettura (giuridico, psicologico, psicanalitico, sociologico, politico, religioso ecc.). È importante che uno scrittore giunga alla semplicità, ma è anche bene ricordarsi che raccontare è un’azione matematica, e che la matematica è difficile fin dai suoi fondamenti. Infine, consiglio questo libro perché è, fin dalle prime pagine, un libro pieno di incontri. Il destino non è l’opera di un dio-ingegnere o di un dio-orologiaio, ma si realizza attraverso incontri spesso causali, che possono generare amicizie, fascino ma anche devastazioni. La quantità e la ricchezza degli incontri di una vita danno una buona misura dell’uomo. E gli incontri si vedono in filigrana sulla faccia, nelle parole, nello sguardo di quell’uomo. Che ne parli o no, è secondario. Stati Uniti. Il coronavirus nelle prigioni di New York di Arianna Farinelli* La Repubblica, 16 aprile 2020 Gli Usa hanno la popolazione carceraria più grande del mondo, due milioni e mezzo di persone. L’emergenza ha convinto le autorità a liberare parzialmente il carcere di Rikers Island. Qui il numero di positivi è sette volte superiore a quello registrato in città. I positivi vengono isolati. Gli altri condividono spazi angusti. La pandemia non è democratica e non colpisce tutti allo stesso modo. Soprattutto in una città come New York il virus distingue per età, sesso, occupazione, colore della pelle, codice di avviamento postale, reddito e fedina penale. I quartieri con più decessi sono anche i più multietnici, quelli più densamente popolati e con il maggior numero di persone sotto la soglia di povertà. Il distanziamento sociale non è un privilegio per tutti e oggi le persone più a rischio sono i detenuti. Il Board of Correction di New York ha raccomandato la liberazione di circa duemila reclusi per rallentare la diffusione del contagio. Micheal Tyson è morto per il coronavirus il 6 aprile scorso. Aveva 53 anni e diverse patologie. Era tornato in carcere a Rikers Island per aver violato la libertà vigilata. Di Micheal mi racconta Gabriella Ferrara, una giovane avvocatessa di 30 anni di origini italiane che lavora per la Legal Aid Society, una organizzazione non governativa che difende gli indigenti. Le chiedo anzitutto perché una laureata alla Georgetown University decida di dedicarsi agli indigenti invece di lavorare in un ricco studio legale di Manhattan. Gabriella mi risponde che ha deciso di studiare legge anni prima per tentare di rendere il sistema giudiziario americano più giusto. Gli Stati Uniti hanno la popolazione carceraria più grande del mondo con due milioni e mezzo di persone. La maggioranza dei detenuti è di origini afroamericane e ispaniche, malgrado questi gruppi etnici rappresentino solo il 12 e il 18 percento rispettivamente della popolazione totale. Delle prigioni americane mi sono occupata a lungo mentre lavoravo alla stesura del mio primo romanzo. Dai miei studi ho imparato che l’alta concentrazione di minoranze etniche ha radici storiche profonde. È il risultato di un sistema giudiziario che per anni ha permesso la pratica dello stop and frisk, letteralmente ferma e perquisisci, soprattutto nei confronti di afroamericani e ispanici e ha inasprito le pene per reati più comunemente commessi dai meno abbienti. Nel 1986, il Congresso americano approvò una legge che puniva i possessori di una dose di crack da cinque grammi (del valore di due dollari e mezzo) con una pena minima di cinque anni di carcere, la stessa di chi veniva trovato in possesso di mezzo chilo di cocaina, la droga dei ricchi. In questo modo finirono in carcere decine di migliaia di persone. La chiamarono incarcerazione di massa. Una volta fuori dal carcere queste persone persero tutto: il diritto al voto, alla casa, al lavoro, all’assistenza. “È questo il nuovo razzismo, le nuove leggi Jim Crow,” scriveva l’attivista americana Michelle Alexander. Rikers Island è una delle prigioni più dure del Paese. In linea d’aria è a pochi chilometri di distanza da casa mia a Manhattan, forse per questo ho deciso di ambientare lì un capitolo del mio romanzo. Rikers si trova in un’isola al centro dell’East River, tra il Bronx e il Queens. In passato è stata la sede di una discarica, poi di un allevamento di maiali e a partire dagli anni Trenta del Novecento è divenuta una delle prigioni più grandi del mondo (fino a ventimila detenuti negli anni Novanta). Le carceri in America sono quasi sempre lontane dai centri abitati. Sono nascoste, protette dagli sguardi, separate dalle vite degli altri. In questo modo è più facile dimenticarsi di chi sta dentro. I detenuti diventato come l’uomo nero del quadro di Kerry James Marshall: visibili eppure invisibili, presenti eppure assenti. Negli ultimi dieci anni Rikers è diventata famosa per le violenze subite dai detenuti, spesso adolescenti, rinchiusi per settimane in celle di isolamento di pochissimi metri quadri, senza aria condizionata né carta igienica. Sono anni che gli attivisti di New York si battono per la chiusura di Rikers Island. Il sindaco, Bill de Blasio, sta lavorando da tempo a un progetto per chiudere il carcere e ridistribuire i detenuti negli altri istituti di pena della città. Ma finora ben poco è stato fatto. Doveva giungere una pandemia per convincere le autorità a liberare anche solo parzialmente il carcere. Oggi a Rikers il numero di positivi è sette volte superiore a quello registrato in città. Sono 287 i detenuti ammalati ancora in prigione e ci sono già 441 casi tra il personale carcerario. Nel carcere i positivi vengono isolati. Gli altri si trovano a condividere spazi angusti, con 50 detenuti per dormitorio. L’igiene era precaria anche prima. Manca il sapone e molti bagni sono fuori servizio. Nelle ultime settimane, il sindaco ha finalmente accettato di rimettere in libertà i detenuti con più di 50 anni d’età, quelli con patologie o con pene minime. Ma molti lasciano il carcere senza ricevere il test e senza alcun obbligo di rimanere in quarantena una volta tornati a casa. In questo modo il contagio non si arresta. Nel frattempo, gruppi di attivisti come la Legal Aid Society per cui lavora Gabriella raccolgono fondi per pagare la cauzione a chi a Rikers è in attesa di processo e non ha risorse proprie. Gabriella mi racconta che Legal Aid fornisce ai detenuti che escono dal carcere una casa dove passare la quarantena, i medicinali di cui hanno bisogno e la spesa settimanale. Solo nelle ultime due settimane hanno già aiutato 26 persone. Doveva arrivare la pandemia perché le cose cominciassero a cambiare a New York. A fronte di una politica lenta e ottusa, la città deve sperare in Gabriella e negli avvocati come lei per avere un sistema giudiziario finalmente più giusto. Come scriveva James Baldwin “nel momento in cui credevo che tutto fosse perduto, la mia prigione tremò e caddero le mie catene... noi non saremo mai liberi finché loro non saranno liberi”. *L’autrice ha pubblicato il romanzo “Gotico americano”, 288 pag Editore: Bompiani; Collana: Munizioni. Anno edizione: 2020 La Francia ha liberato 10mila detenuti (e noi?) DI Francesco Maselli linkiesta.it, 16 aprile 2020 Le carceri francesi erano sovraffollate come quelle italiane, ma il coronavirus ha spinto il governo a intervenire prima che la situazione diventasse insostenibile. Grazie a questa politica e a una serie di attenzioni nei confronti dei carcerati Parigi ha evitato rivolte. Mercoledì mattina il direttore dell’Amministrazione penitenziari francese, Stéphane Bredin, ha annunciato in un’audizione all’Assemblea nazionale che nell’ultimo mese il numero di detenuti è diminuito di 9.923 unità: “L’impatto della crisi sui numeri delle detenzioni è stato molto elevato, la densità di popolazione è ormai vicina al 103%, il tasso di sovrappopolazione è diminuito del 22 % dall’inizio della crisi”. Il sistema penitenziario francese beneficia del rallentamento dell’attività giudiziaria, che diminuisce l’afflusso in carcere dei cosiddetti “nuovi giunti” e delle liberazioni anticipate decise dal governo per evitare che le prigioni diventino dei luoghi ideali per la propagazione del contagio. In condizioni normali, la Francia contava 72.400 detenuti, con un tasso di occupazione rispetto ai posti disponibili 60 del 119%, numeri che hanno portato a una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo lo scorso gennaio. La situazione italiana, seppur in miglioramento, continua a essere preoccupante: il 31 marzo il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha reso noto che le carceri italiane ospitano 57.846 detenuti rispetto a una capienza di 50.754. Dall’inizio della crisi l’Italia ha liberato circa 4mila persone, un numero troppo basso rispetto al sovraffollamento cronico di cui soffrono gli istituti penitenziari. Poco dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza sanitaria il governo francese ha emanato un’ordinanza per rendere più semplici le scarcerazioni anticipate per chi ha un residuo di pena inferiore a due mesi, per ragioni sanitarie, o per i detenuti che sono in carcere a seguito di una misura cautelare. È stata inoltre inviata una circolare ai tribunali per chiedere di differire le detenzioni per i condannati a pene brevi, e di disporre la carcerazione preventiva soltanto ai casi più gravi. Lo scorso 25 marzo la ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, ha spiegato che le scarcerazioni non si applicano ai “terroristi, ai criminali più pericolosi, e ai condannati per dei fatti di violenza avvenuti in un contesto familiare”. Belloubet ha anche chiarito che i 25 detenuti radicalizzati usciti dal carcere in questo periodo non hanno usufruito delle agevolazioni introdotte dal governo, ma hanno semplicemente finito di scontare la loro pena in modo naturale. All’inizio dell’epidemia in alcune carceri, come in quella di Grasse, c’erano state proteste da parte dei detenuti, privati dei colloqui come in Italia e potenzialmente senza difese di fronte al contagio. Per evitare rivolte vere e proprie l’amministrazione francese ha predisposto una serie di misure: televisione via cavo gratuita, passeggiate fuori dalle celle più frequenti, permesso di utilizzare i cellulari, un sostegno di 40 euro al mese per poter comprare sigarette e generi alimentari. Le attenzioni, unite alla diminuzione della popolazione carceraria, hanno evitato finora situazioni di tensione e limitato i casi di contagio. Dal primo marzo circa 70 detenuti e 272 agenti di polizia penitenziaria sono risultati positivi al coronavirus; 900 agenti sono invece in isolamento domiciliare. In teoria, ogni nuovo detenuto deve essere posto in isolamento, in pratica soltanto 700 persone hanno passato un periodo senza avere contatti con altri detenuti, a fronte di circa 60 nuovi giunti al giorno. Belgio. Tenta il suicidio per le condizioni di detenzione e nessuna indagine viene svolta di Alessio Scarcella* quotidianogiuridico.it, 16 aprile 2020 Violata la Cedu. Pronunciandosi su un caso “belga” in cui si discuteva della legittimità del comportamento assunto dalle autorità giudiziarie che, chiamate ad investigare sui ripetuti tentativi di suicidio di un detenuto in carcere, avevano archiviato i procedimenti senza approfondire le ragioni del disagio dell’uomo che più volte aveva tentato di togliersi la vita in carcere, la Corte europea dei diritti dell’uomo, pur escludendo, a maggioranza (sentenza 31 marzo 2020, n. 82284/17), che vi fosse stata una violazione dell’art. 2, ha invece, all’unanimità, ritenuto violata la norma convenzionale di cui all’art. 3 della Cedu. Il caso riguardava un uomo che soffriva di un disturbo psicologico che aveva posto in essere plurimi tentativi di suicidio durante il periodo in cui si trovava in stato di custodia cautelare nel carcere di Arlon. La Corte Edu ha ritenuto che l’articolo 2 fosse applicabile nel caso di specie in quanto la natura stessa delle sue azioni (ripetuti tentativi di suicidio) ne avevano messo a rischio la vita, in maniera concreta ed imminente. La Corte ha tuttavia ritenuto che le misure adottate dalle autorità belghe erano state effettivamente idonee ad impedire al detenuto il suicidio. La Corte ha, tuttavia, accertato che l’uomo aveva patito un sentimento di angoscia e, comunque, si era trovato in una situazione di difficoltà di intensità superiore a quel livello di sofferenza evitabile inerente alle condizioni di detenzione, in particolare a causa della mancanza di cure mediche, di vigilanza e trattamento sanitario durante i suoi due periodi di detenzione, cui si aggiungeva il fatto di essere stato collocato in un cella di isolamento per tre giorni quale sanzione disciplinare, nonostante i suoi ripetuti tentativi di suicidio. L’inchiesta successiva che ne era seguita al riguardo era stata inoltre inefficace. *Consigliere della Corte Suprema di Cassazione Georgia. Operazione antisommossa in carcere: due detenuti morti, molti feriti di Alessio Scarcella* quotidianogiuridico.it, 16 aprile 2020 Violata la Cedu. Pronunciandosi su un caso “georgiano” in cui si discuteva della legittimità dei provvedimenti adottati dalle autorità investigative e giudiziarie nei confronti dei pubblici ufficiali che avevano causato la morte dei parenti dei ricorrenti, mentre gli stessi si trovavano detenuti in carcere, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha, all’unanimità, ritenuto violata la norma convenzionale di cui all’art. 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in entrambi i suoi aspetti, procedurali e sostanziali. Il caso riguardava la morte dei parenti dei ricorrenti durante un’operazione di polizia per reprimere una rivolta nella prigione in cui erano detenuti. Innanzitutto, la Corte (sentenza 2 aprile 2020, nn. 8938/07 e 41891/07) ha riscontrato varie carenze nelle indagini delle autorità in merito ai fatti scaturiti dalle azioni antisommossa che avevano reagito a disordini nella prigione, e che poi avevano portato all’uccisione dei parenti dei ricorrenti, in quel momento ivi detenuti. A titolo esemplificativo, le prime attività di indagine erano state svolte dalla stessa istituzione, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che aveva disposto ed eseguito le misure anti sommossa. La Corte ha anche riscontrato che, mentre l’azione delle forze dell’ordine avrebbe potuto essere giustificata nel decidere di usare la forza per reprimere una sommossa causata dai detenuti durante la rivolta, il livello di forza utilizzato non era stato tuttavia assolutamente necessario. Ciò era stato dimostrato, tra le altre cose, dalla mancanza di una appropriata pianificazione della risposta delle forze dell’ordine, dal fatto che l’uso della forza era stato indiscriminato ed eccessivo e, infine, dal fatto che le autorità non fossero riuscite a fornire successivamente un’adeguata assistenza medica ai detenuti. *Consigliere della Corte Suprema di Cassazione Medio Oriente. Il Golfo si libera dei migranti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 16 aprile 2020 Deportati, detenuti o costretti in quarantene forzose: i lavoratori stranieri pilastro delle economie delle petromonarchie sono i capri espiatori del Covid-19. Senza salario né aiuti. Deportati, detenuti o costretti in quarantena in campi lavoro sovraffollati: accade ai lavoratori migranti nei paesi del Golfo, lussuose e inique petromonarchie che hanno fatto del lavoro migrante sottopagato e in condizioni di semi schiavitù un pilastro delle proprie economie. E che ora, con l’epidemia di Covid-19 li cacciano o li sottopongono a misure di contenimento speciali, nella comoda presunzione che siano loro i veicoli del virus. Etiopi, egiziani, indiani, filippini, pachistani, muratori, lavoratrici domestiche, autisti, infermieri, il destino è lo stesso. Nelle ultime settimane Arabia saudita ed Emirati arabi hanno deportato ad Addis Abeba migliaia di etiopi, lavoratori senza documenti che hanno impiegato mesi se non anni per raggiungere il Golfo, dopo aver attraversato il Mar Rosso e poi lo Yemen in guerra. Per ritrovarsi con i passaporti sequestrati dai datori di lavoro - l’odioso sistema della kafala - e con impieghi pagati pochissimo e senza diritti. Conferma la ministra della salute etiope, Lia Tadesse: “I lavoratori etiopi sono stati costretti a tornare, una situazione che diventa per noi una sfida per contenere il virus”. Identico appello dall’Onu: “I movimenti migratori di larga scala - dice Catherine Sozi, coordinatrice umanitaria delle Nazioni unite in Etiopia - rendono la continuazione della trasmissione del virus molto più probabile. Chiediamo la sospensione delle deportazioni”. A marzo ne sono stati rimandati indietro 2.870, altri 3mila sono in procinto di essere espulsi. Degli 82 casi positivi in Etiopia, oltre la metà sono di rientro dal Golfo. Perché, in attesa della deportazione, i migranti vengono chiusi in centri di detenzione - denunciava a inizio aprile Human Rights Watch - dove la velocità del contagio si moltiplica. E chi non è deportato o detenuto, è costretto a quarantene forzose, a misure di contenimento ben diverse da quelle a cui sono sottoposti i cittadini dei regni del Golfo. Negli Emirati, in Arabia saudita, Qatar, Oman e Kuwait intere aree dove risiedono poveri e migranti sono state chiuse, non si entra e non si esce, mentre i campi di lavoro (città-dormitorio dove sono reclusi in centinaia di migliaia, in stanze piccole e sovraffollate) sono stati parzialmente sanificati ma privati di ogni sostegno esterno. È proprio qui, dicono medici emiratini alla Reuters, che si registrano i focolai: in troppi e troppo vicini, in condizioni igieniche precarie e ora senza stipendio. Non si tratta di porzioni piccole di popolazione ma della maggioranza: secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro, nel 2019 i migranti nei sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo erano 35 milioni, in media il 70,4% della popolazione dei singoli Stati, con il record del Qatar dove solo il 10% dei residenti è cittadino qatariota. Eppure gli aiuti previsti dai vari regimi (spiccano i 2,4 miliardi messi sul piatto dalla corona saudita) andranno ai soli cittadini, non ai lavoratori stranieri. Una follia etica, ma anche economica: società che vivono del lavoro straniero collasserebbero senza le braccia dei migranti. A sostenere gli stranieri chiusi in edifici abbandonati o stanze sovraffollate negli Emirati arabi e in Bahrain, riporta la Reuters, sono volontari e associazioni di beneficenza che arrivano dove lo Stato non ha interesse ad arrivare. Obbligati a lasciare il lavoro dal lockdown, senza risparmi a causa di bassi salari e rimesse verso casa, moltissimi non possono permettersi un pasto e sopravvivono delle donazioni di organizzazioni locali. Non hanno paura di morire di Covid, hanno paura di morire di fame. E montano i primi screzi diplomatici: Abu Dhabi ha minacciato India, Bangladesh e Pakistan - che di veder tornare indietro migliaia di lavoratori non hanno alcuna intenzione - di bloccare memorandum d’intesa ancora pendenti e di ridurre in futuro le quote di ingressi per motivi di lavoro. Risponde Islamabad per bocca dello special assistant del primo ministro: “Stiamo aspettando per creare il giusto meccanismo, così da non appesantire il sistema riportando qui le persone”. Altri, come Bangladesh e Filippine, invieranno denaro agli uffici locali per assistere i propri cittadini. La guerra in Siria per le donne, dopo nove anni non è terminata di Luca Geronico Avvenire, 16 aprile 2020 Caritas Italiana, alla vigilia dell’anniversario, analizza la figura femminile: sono due volte vittime, subendo spesso discriminazioni e violenze di genere, fino allo stupro utilizzato come arma Una donna siriana con la figlia tra il fango del campo profughi di Moria sull’isola greca di Moria. È come “calce viva sulla pelle delle donne” questa guerra in Siria. Barili bomba, raid dal cielo di jet militari, attacchi di eserciti e rappresaglie di milizie, città rase al suolo come Idlib in questi ultimi mesi - Aleppo Est, Homs, Hama, Damasco e la Goutha, negli anni passati - e soprattutto una vita senza più una dimora: calce viva, appunto, che scava piaghe sanguinanti nella carne e “buchi neri” nell’anima. Eppure sono “donne che resistono”; questo il titolo del rapporto di Caritas Italiana presentato oggi per rompere il silenzio sulla sofferenza, ma anche sulla resilienza al femminile. “Non solo vittime della guerra, ma parti attive del Paese che verrà”, afferma Caritas che - dopo aver inquadrato il conflitto siriano giunto ormai a una magnitudine da guerra mondiale, tratteggia il volto femminile di queste vittime: 28.076 le donne morte dal marzo 2011 al novembre 2019 secondo il Syrian network for human right, 10.363 le donne detenute e di cui - sempre dal 2011 - non si è saputo più nulla. Cifre da considerare evidentemente per difetto, se stime concordi di vari istituti scientifici, attestano ad oltre 570mila le vittime in questi nove anni di guerra. E ora tra i 960mila profughi di Idlib - la peggiore catastrofe umanitaria in corso della Terra, confrontabile solo con lo Yemen - l’81% sono donne. Tutte “vittime violentate da una guerra che non hanno scelto, perché sono gli uomini a pianificare la guerra”; e anche, come le donne curde del Ypg, nel Rojava, “combattenti con il kalashnikov in spalla”; e anche, “attiviste armate di parole” e che in un contesto maschilista e clanico, pagano la loro emancipazione fino alla morte come la curda Hevrin Khalaf, ex leader politica del Future Syrian Party. Ma soprattutto, lontane da qualsiasi ribalta mediatica, queste donne che ora fuggono da Idlib e provincia e si ammassano verso il confine siriano, sono quasi sempre “mater familias”, perché i mariti e i padri sono scomparsi o impegnati al fronte. E così queste donne, percepite nell’immaginario dell’Occidente come le “eternamente succubi”, ora si trovano a dover garantire una ciotola di riso, una tenda e se mai fosse possibile un quaderno, una penna e un libro di testo ai loro figli. Queste “mater familias” devono sopportare sulla loro pelle tutto questo: l’essere vedove o donne sole le rende, in un contesto che si può definire di guerriglia urbana diffusa, ancora più vulnerabili: di fatto sono in aumento quelle che gli psicologi chiamano le “negative coping strategies”, vale a dire l’abbandono scolastico, il subire molestie per avere l’accesso agli aiuti. In aumento, sempre in questo contesto, pure le spose bambine come il “nikak al-mutah” - i matrimoni temporanei delle ragazze - per garantirsi, anche solo per poco, vitto e alloggio. Nel Rojava, affermano gli analisti di Caritas Italiana, le recenti vicende belliche hanno aumentato gli stupri di guerra, spesso intesi come forme di ritorsione verso esperimenti sociali di emancipazione e governo al femminile, di cui il villaggio di Jinwar - “luogo delle donne” - è un modello da combattere. Così, afferma il rapporto Caritas, in tutta la Siria “le donne continuano a essere le vittime della violenza dei vari attori in campo - dal regime di Damasco, alle Syrian Democratic Forces, alla composita galassia jihadista, fino alle forze americane e sovietiche presenti sul territorio che impiegano l’uso di stupri, violenze, uccisioni come strumento funzionale alla causa delle rispettive propagande”. Un paragrafo del dossier Caritas è dedicato pure alle donne del jihad, in gran parte “foreign fighter” reduci da Raqqa, ora detenute nel campo di al-Hol, nel Rojava, che in un contesto di “radicalizzazione in cattività”, ora crescono i loro figli come “bombe a orologeria”. Entrando domani nel decimo anno di guerra in Siria, il dossier afferma che dalle ferite di queste donne può nascere una capacità di riscatto e di riconciliazione da intendersi non come semplice assenza di conflitti. Per questo Caritas, rifacendosi alla risoluzione 1.325 dell’Onu, auspica che le donne siriane siano effettivamente coinvolte nei negoziati, come pure nelle forme di intervento umanitario sul campo “assicurando la loro effettiva partecipazione ai processi di ricostruzione”. Gli aiuti umanitari devono essere organizzati privilegiando le categorie più vulnerabili e la distribuzione sia organizzata in modo da ridurre il rischio delle donne di subire violenza. Nel post conflitto - la cosiddetta “guerra dopo la guerra” - va garantita l’educazione sia in condizioni di emergenza sia in condizioni ordinarie. Infine, fra i crimini di guerra che andranno perseguiti non appena possibile, lo stupro e altre forme di violenza e discriminazione femminile. Donne che resistono, per generare la nuova Siria.