Detenuti trasferiti senza controllo, virus diffuso in tutte le carceri d’Italia di Aldo Torchiaro Il Riformista, 15 aprile 2020 Tra i detenuti continua a diffondersi il contagio: la comunità carceraria conta nel suo insieme trecento positivi. Se il bollettino generale registra nelle ultime 24 ore altri 566 decessi, per un totale di 20.465 deceduti, i dati che riguardano la diffusione del virus in carcere arrivano con il contagocce. Il fatto che non si sottopongano ancora i detenuti al promesso screening massivo impedisce di conoscere le dimensioni del fenomeno. Dove le Asl si sono impegnate a moltiplicare i tamponi, ecco emergere i casi. In Veneto di test se ne fanno, e nel solo carcere di Montorio Veronese ieri si è preso atto di 25 detenuti e 17 agenti della polizia penitenziaria positivi al Covid 19. “Come nelle Rsa, anche nelle carceri venete la situazione è drammatica. Va garantita la salute di tutti. Subito, chi può deve avere il beneficio dei domiciliari; nel medio periodo va ripensato il sistema, edificando strutture nuove che garantiscano la dignità e i diritti di tutti”, dice al Riformista l’eurodeputata Alessandra Moretti, Pd, vicentina. “Vorrei sentire per una volta Bonafede rispondere del diritto alla salute dei detenuti, e vorrei sentire la voce di Zaia sul caso di Montorio Veronese”, aggiunge. Dall’Europa si guarda all’Italia con preoccupazione, oggi il governo dovrà rispondere alla Corte europea di Strasburgo di come sta gestendo l’emergenza Covid 19 in carcere. Anche in Friuli-Venezia Giulia il virus arriva in cella, portato - sembra - dal carcere bolognese della Dozza. Ci sono cinque detenuti in regime di massima sicurezza positivi. “È un tema che abbiamo sempre denunciato: non si può pensare che i detenuti siano chiusi in gruppo dentro a uno stanzone”, dice da Udine Serena Pellegrino, Sinistra Italiana, ex parlamentare. “Questa emergenza sanitaria impatta su una emergenza già preesistente, mai sanata. Bisogna costruire nuovi centri di detenzione, pensati non solo per la reclusione ma ai fini riabilitativi come prevede la Costituzione all’articolo 27”. E lancia un’idea: “A Tolmezzo è stata inaugurata una struttura da dieci milioni di euro, doveva essere il nuovo Tribunale ma è rimasta inutilizzata, vittima dei tagli lineari del governo Monti. Si potrebbe ristrutturare per dedicarla all’accoglienza dei detenuti, appunto a fine rieducativo”. La questione è che i braccialetti “rimangono una chimera”, come dice al Riformista il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Lazio e l’Umbria, Stefano Anastasia. “Il decreto Cura Italia prevede l’affidamento ai domiciliari, con il braccialetto elettronico di sorveglianza, che però non è mai arrivato. Allora mi chiedo: quando hanno fatto il decreto, lo sapevano che i braccialetti non erano in fornitura?”. Gli risponde il Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. In una nota ieri sera ha fatto sapere di aver “affidato la fornitura di ulteriori braccialetti elettronici e il relativo servizio di sorveglianza a distanza a Fastweb, la stessa società con cui il Ministero dell’Interno ha già siglato un contratto per la fornitura degli stessi dispositivi, con l’obiettivo di accelerare le misure messe in campo per il contrasto all’emergenza coronavirus e di poter contare sulla possibilità di installare 4.700 braccialetti entro la fine di maggio”. I dispositivi sarebbero destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti devono scontare una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Fastweb provvederà alla fornitura e alla manutenzione dei braccialetti elettronici aggiuntivi rispetto a quelli già previsti e ai servizi di connettività tra questi e un “Centro Elettronico di Monitoraggio”, istituito ad hoc per la sorveglianza dei dispositivi installati e l’interazione con le Forze di polizia, per comunicare in tempo reale le situazioni di allarme. Intanto il mondo associativo e del volontariato carcerario non sta a guardare. Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem ha lanciato una class action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere di Bari ed auspica che analoghe azioni siano intraprese per le carceri di altre città. Carceri, Bonafede risponde in segreto all’Europa di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 aprile 2020 Ieri è finito il tempo concesso dalla Cedu. Il ministro ha risposto alla Corte con una mail top-secret spedita 10 minuti prima della scadenza. “Cara Cedu ti scrivo”. O ti offro braccialetti elettronici? Ieri mattina alle nove e cinquanta, dieci minuti prima che scadessero i termini concessi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ministro di Giustizia italiano. Alfonso Bonafede, ha spedito la lettera di spiegazioni su come intende risolvere il problema di un detenuto di Vicenza costretto alla convivenza in una cella molto piccola che gli impedisce di mantenere la distanza che lo salvaguardi dal pericolo di contagio da Covid-19. Ma, poiché il sovraffollamento delle carceri italiane è cronico e difficilmente risolvibile se non con provvedimenti di amnistia e indulto o quanto meno con molte scarcerazioni di coloro che sono in fi ne pena, la Cedu vuol sapere come il Guardasigilli intenda affrontare il problema del distanziamento fisico tra detenuti. Oppure dell’apertura di porte e portoni in modo da ridurre drasticamente il numero dei prigionieri e di conseguenza aumentare gli spazi vitali negli istituti di pena. Non sappiamo cosa ha scritto Bonafede nella risposta alla Cedu, perché il ministro non ha voluto rendere pubblica la sua risposta. Evidentemente lui non considera il problema delle carceri un problema politico da discutere pubblicamente. Il Coronavirus abita ormai il mondo intero, e la gran parte degli Stati si è premurata di evitare che l’epidemia faccia strage all’interno delle carceri. Si sono aperti i cancelli delle prigioni in Francia e negli Stati Uniti, ma anche in Marocco piuttosto che nello Zimbabwe, con provvedimenti anche di grazia o di amnistia. Ieri persino il regime di Erdogan ha battuto in democrazia il governo Conte, e anche le nostre Camere. Il Parlamento turco ha infatti votato a larga maggioranza un disegno di legge che tra amnistia e libertà condizionata scarcera 90.000 detenuti. Solo chi è stato condannato per i reati più gravi, come quelli di terrorismo (in cui purtroppo rientrano i dissidenti politici), droga, omicidio o violenza sessuale sarà escluso dal provvedimento. Che è stato voluto dallo stesso Erdogan come misura per affrontare il Coronavirus, che in Turchia ha raggiunto 60.000 persone e ne ha uccise 1.296, e impedirne la diffusione nelle carceri, dove si contano già 17 persone infettate e tre decedute. Mi fi do di voi, ha detto il presidente nell’aprire le porte. Una preoccupazione che non pare turbare i sonni di Alfonso Bonafede. Avremo 4.700 braccialetti elettronici in più, ha annunciato serafi co e festante due giorni fa, dopo che il commissario Arcuri si era preoccupato di stipulare un contratto con Fastweb, visto che il governo Conte vuole gli uomini o prigionieri intramurari o a casa ma con la palla al piede. E si devono ringraziare soltanto i tribunali di sorveglianza se in questo momento nelle carceri italiane ci sono “solo” diecimila detenuti in eccesso rispetto alla capienza. A nulla sono valse finora le accorate e ripetute parole di papa Francesco e neanche l’appello del Procuratore generale di Roma Salvi perché si applichino le leggi che consentirebbero di dare un po’ di respiro e di spazio a tutti coloro che lavorano o che sono reclusi all’interno degli istituti di pena. Né sono stati sufficienti i quaranta contagiati né i morti, sia tra i detenuti che tra gli agenti e i medici penitenziari. Bonafede pare impassibile, mai una goccia di sudore è stata vista attraversare la sua fronte, né una ruga gliela ha fatta aggrottare per la preoccupazione delle condizioni di salute del popolo delle carceri. Persino il timido decreto Cura Italia del 17 marzo, che peraltro era solo una modesta rimasticatura di provvedimenti precedenti, ha sortito effetto alcuno. Per la questione della palla al piede. Caro detenuto, pare dire il ministro, anche se hai una condanna lieve, da scontare in pochi mesi, anche se so che (purtroppo) tra poco saresti stato completamente libero. Anche se il decreto che sono stato costretto a firmare ti consente di andare a casa, agli arresti, ti voglio anche umiliare mettendoti la palla al piede, cioè il braccialetto elettronico. Pisapia: “Ora disinnescate quella bomba sanitaria chiamata carceri” di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2020 Intervista all’europarlamentare (e avvocato) su Covid-19 e detenuti. “Negli istituti di pena la situazione è disperata, e il numero dei reclusi in carcerazione preventiva è ancora vergognosamente alto: le misure adottate finora dal governo sono insufficienti anche perché subordinate alla disponibilità dei braccialetti, si agisca sul serio, prima che sia troppo tardi” Giuliano Pisapia è parlamentare europeo da quasi un anno. È e sarà sempre un avvocato, innanzitutto, erede di una straordinaria tradizione, ed è stato sindaco di una città come Milano che è ammiraglia del Paese in tante sue sfide. Un avvocato e garantista come lui, un intellettuale e politico attento come lui, vive la distanza dall’Italia come un’attesa sfibrante. E figurarsi cosa significhi misurare da Strasburgo l’attesa trascorsa invano da quando un’altra istituzione che ha sede nella stessa città dell’Europarlamento, la Corte europea dei Diritti dell’uomo, ha condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti inflitti nelle carceri. Figurarsi cosa possa voler dire, dallo scranno europeo di Pisapia, vedere che in Italia “il numero di detenuti in carcerazione preventiva” è sempre “vergognosamente eccessivo” e che quel ritardo immodificabile del Belpaese sulla civiltà della pena è ora, con il Covid, causa d’angoscia, visto che può “implodere” e tradursi in una “bomba sanitaria”. Ecco perché, esorta Pisapia, “occorre fare di più, e non solo nell’interesse dei detenuti, per porre fine a una situazione disperata e disperante”. Assistere, in attesa di qualcosa che non avviene mai, è insopportabile, Onorevole? Da tempo il Parlamento europeo è intervenuto, nell’ambito delle sue competenze, per garantire i diritti delle persone private della libertà personale e per superare il sovraffollamento carcerario. Purtroppo anche su questo tema siamo tra gli ultimi in Europa: sono numerose le condanne che abbiamo subìto dalla Cedu per il sovraffollamento carcerario, per “trattamento disumano e degradante”, per i tempi lunghi dei processi, per la mancanza di spazio vitale nelle celle e per il numero vergognosamente eccessivo di detenuti in carcerazione preventiva. Ed è evidente che il Covid ha reso il tutto ancora più difficile, con il rischio che l’attuale situazione, già di per sé drammatica, rischi sempre di più di implodere diventando una “bomba sanitaria”. Altri Paesi con le carceri messe sotto pressione dal Covid hanno adottato misure straordinarie. Persino l’Iran. Persino la Somalia. L’Italia è tra i più timidi: facciamo gli equilibristi sull’orlo del baratro? È evidente che i provvedimenti finora messi in campo dal governo si sono rivelati totalmente insufficienti, per questo occorre fare di più e porre fine a una situazione disperata e disperante, non solo nell’interesse dei detenuti, colpevoli o innocenti, ma nell’interesse dell’intera collettività, ponendo al centro la questione sia per le carceri ordinarie, sia per quelle minorili. Ce lo dicono i dati: chi ha la possibilità di beneficiare delle misure alternative al carcere ha un tasso di recidiva di gran lunga inferiore rispetto a chi sconta la pena in carcere, e quindi garantisce maggiore sicurezza ai cittadini. Le pene diverse dal carcere, per reati non gravi e non violenti, si sono dimostrate più efficaci. Troppo spesso, ancora, il carcere è anche “scuola di criminalità”. In tale direzione si sono espressi l’avvocatura, gran parte della magistratura, i garanti dei detenuti e tanti rappresentanti di chi lavora negli istituti penitenziari oltre che presidenti emeriti della Corte costituzionale, il presidente della Repubblica e non ultimo Papa Francesco, da sempre sensibile ai temi della solidarietà e di una giustizia giusta. Appelli che si sono finora infranti contro una visione diversa, e con opposizioni che a volte bollano le scelte dell’esecutivo addirittura come lassiste... Il decreto legge del governo, attualmente all’esame del Parlamento, non tiene conto della realtà e della inderogabile necessità di interventi immediati, che non debbano subire i ritardi della burocrazia o la mancanza di braccialetti elettronici. La Francia, che ha una situazione migliore della nostra, in un sol colpo ha mandato a casa 5.000 detenuti agli arresti domiciliari senza obbligo di braccialetto, prendendo come punto di riferimento proprio le indicazioni che provenivano da operatori, magistrati, rappresentanti sindacali dei lavoratori. Non possiamo ignorare, oltre a tutto, che nelle carceri del nostro paese sono quasi diciannovemila i detenuti in attesa di giudizio o non condannati in via definitiva. La stessa opinione pubblica sembra continuare a diffidare di visioni “troppo umanizzanti” del sistema penitenziario. Possibile che neppure il dramma del coronavirus cambi l’idea che la maggioranza degli italiani ha rispetto all’umanità e al fine rieducativo della pena? Chi ha seguito in diretta o ha letto i testi della Via Crucis del Venerdì Santo in una Piazza San Pietro deserta non può non essere rimasto colpito dal cammino rieducativo avviato, dalla giustizia riparativa, dall’attenzione a chi soffre e si trova in difficoltà. Sono convinto che molti avranno avuto modo di intendere un mondo sino a oggi poco conosciuto e l’importanza del rispetto per tutti della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, del fine rieducativo della pena, principio costituzionale fortemente voluto da un grande statista e giurista come Aldo Moro. L’avvocatura, ma anche alcuni gruppi della magistratura associata, in particolare “Area”, la magistratura di sorveglianza in generale, l’Associazione professori di diritto penale, alcune forze politiche: da questo schieramento proviene la proposta di innalzare da 18 a 24 mesi il residuo di pena massimo che rende possibile commutare la pena da inframuraria a domiciliare, e di svincolare tale beneficio dalla disponibilità dei braccialetti elettronici. Condivide tali richieste? Fino ad oggi il ministro della Giustizia non ha voluto dare ascolto alle diverse componenti, avvocatura, magistratura, accademia, che hanno avanzato proposte e suggerimenti per migliorare e rafforzare i provvedimenti sin qui adottati, e che già si sono subito rivelati insufficienti. Recentemente sia il responsabile Sicurezza che il responsabile Giustizia del Partito democratico hanno fatto proposte del tutto ragionevoli ed efficaci. Molti presidenti e magistrati di sorveglianza hanno evidenziato che non è più tempo di stare a guardare, ma è indispensabile accelerare i tempi delle misure alternative al carcere per chi ha un residuo di pena non superiore ai due anni e non è detenuto per fatti gravi e violenti. Dopo settimane di silenzio assordante il presidente del Consiglio, in un’intervista all’Osservatore Romano, ha dichiarato che il problema carceri è una delle priorità di questo governo. Stiamo a vedere, sperando che agisca prima che sia troppo tardi, perché la questione sta diventando sempre più esplosiva. Teme che misure più efficaci arriverebbero solo se, malauguratamente, il contagio nelle carceri diventasse non più controllabile? Io credo innanzitutto che su questo tema, così come su altre urgenze ed emergenze, si debba cogliere l’occasione per non pensare solo al presente, ma anche al futuro. Vale per il carcere, come per il lavoro, per la burocrazia e per tante altre situazioni complesse e difficili che vengono da lontano. Ragioniamo sulla necessità che i piccoli o grandi passi in avanti che si dovranno fare per affrontare situazioni drammatiche siano anche la premessa per un cammino che porti a una vera e propria rivoluzione legislativa, normativa e di comportamento. Non si facciano solo interventi che diano risposta all’attualità senza avere una visione proiettata al futuro. Sui temi della giustizia, ad esempio, si ponga fine al “panpenalismo”. Si portino avanti sia una ragionevole depenalizzazione, sia un aumento dei riti alternativi, senza evidentemente incidere negativamente sulle garanzie individuali e collettive, ma avendo come obiettivo una giustizia più celere ed efficiente, oltre che realmente garantista. Non a caso si tratta di proposte che avvocati, innanzitutto l’Unione Camere penali, e Anm avevano condiviso nell’ambito della riforma penale... E sul tema carceri si faccia quanto urgente e necessario, ma si ragioni con prospettive più avanzate. Penso all’esperimento che già aveva dato buoni risultati nel 2003 quando si visse una situazione carceraria simile all’attuale. Con la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena residua fino a due anni, ad eccezione dei reati particolarmente gravi, è fortemente diminuita la recidiva dei detenuti scarcerati. In caso di inosservanza o violazione degli obblighi imposti si sarebbe scontata tutta l’intera pena e quella aggiuntiva. Credo che una norma simile, che ha avuto una effettiva efficacia deterrente, possa essere, con le necessarie modifiche, ancora oggi attuale ed efficace. Il presidente emerito della Consulta Flick, in un’intervista al Dubbio, ha sostenuto come l’assurda condizione di promiscuità a cui i detenuti continuano a essere costretti persino in piena epidemia dovrà per forza di cose innescare, finita l’emergenza, un epocale superamento dell’attuale sistema di esecuzione penale. Secondo Flick si dovrà per forza prevedere che la pena in carcere sia mantenuta solo per i soggetti aggressivi e pericolosi, mentre per gli altri si dovrà ricorrere alle misure alternative. Che ne pensa? Concordo totalmente con l’opinione del professor Flick, col quale ho collaborato, lui guardasigilli e io presidente della commissione Giustizia della Camera, per una riforma complessiva della nostra giustizia civile e penale. La situazione contingente ci deve portare a una riflessione sulle priorità di riforma del sistema giustizia e in particolare di quello carcerario. Dobbiamo abbandonare dogmatismi e facili schemi di vacua polemica politica. L’incentivazione rispetto all’adozione delle misure alternative al carcere e l’utilizzo dei riti alternativi costituiscono l’unica via adottabile per superare una volta per tutte non solo il sovraffollamento carcerario, ma anche l’ingolfamento e i tempi troppo lunghi dei processi che i nostri Tribunali devono affrontare. In Italia il rapporto con l’Unione europea tiene viva una tensione lancinante fra le forze politiche, che la tragedia dell’epidemia sembrava poter attenuare. Crede si tratti solo di strumentalizzazioni o del segnale che l’emergenza coronavirus sia un banco di prova decisivo per la credibilità delle istituzioni europee? In questa situazione politica così complessa è necessario attenerci alla realtà riscoprendo il valore della verità. La polarizzazione tende a imporre le sole tonalità del bianco e del nero: i cosiddetti sovranisti contro gli strenui difensori del progetto comunitario. Dobbiamo andare oltre le barricate ed essere capaci di dire la verità, anche quando è scomoda. La risposta dell’Unione è arrivata con un certo ritardo ma c’è stata e i segnali che ci arrivano dall’ultima riunione dell’Eurogruppo sono incoraggianti. Purtroppo però le decisioni di singoli Paesi si sono imposte su quella europea, la visione miope di alcuni si è sovrapposta al principio di solidarietà che anima i Trattati e il Parlamento europeo. Ed è un limite che rischia di compromettere la tenuta dell’intero progetto europeo? Vede, i luoghi comuni che da troppo tempo alimentano il dibattito politico hanno reso tossici e inaccettabili strumenti neutri come eurobond e Mes. Al di là delle etichette che abbiamo affibbiato a questi mezzi, dovremmo concentrarci sulle modalità per metterli in campo. La bontà e il valore di queste misure dipendono dalle loro specifiche realizzazioni e non dalla percezione politica a priori. Dobbiamo smentire il cliché che dipinge gli italiani come cicale e gli olandesi e i tedeschi come formiche egoiste, ma ci vuole più moderazione e contegno, come più volte richiamato dal Capo dello Stato. Non mi riferisco solo ai toni utilizzati dalle opposizioni. Ma qual è la verità che lei vorrebbe veder ripristinata? L’Italia, come gli altri Paesi, ha ottenuto molto dall’Europa: ad esempio la Bce ha messo a disposizione oltre 1.000 miliardi, la Bei ha mobilitato 200 miliardi per la liquidità delle imprese, la Commissione europea ha creato il fondo Sure con oltre 100 miliardi per la cassa integrazione europea, oltre a varie centinaia di milioni per la ricerca di vaccini, cure mediche, test di diagnosi per contrastare e prevenire la diffusione di Covid. Anche sul Mes, che ora ci viene offerto senza condizionalità, dire no per principio, facendo girare fake-news, è del tutto sbagliato anche perché sarà il nostro Paese a dire se avrà necessità o meno di utilizzare i 36 miliardi disponibili per spese sanitarie o per contrastare il coronavirus. Nessuno ce lo potrà imporre: purtroppo però la retorica dell’opposizione, ma anche di quella parte della maggioranza che aveva governato con la Lega, ha caricato il dibattito rendendo il Mes indigeribile all’opinione pubblica italiana. Lo ripeto: alle etichette e alla retorica politica dobbiamo preferire la verità e la realtà dei fatti per quanto complicati essi possano essere. La pandemia in carcere: il difficile bilanciamento tra salute e sicurezza di Sofia Belardinelli unipd.it, 15 aprile 2020 Al 30 marzo 2020, secondo i dati del ministero della Giustizia, le presenze in carcere ammontano a 57.846 individui, a fronte dei 50.754 posti di capienza regolamentare: più di 7.000 presenze di troppo, dunque. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari è, nel nostro Paese, un’annosa questione, che ha dato pensiero a generazioni di politici, magistrati e tecnici. Di fronte alla dilagante propagazione della pandemia da Covid-19, essa si ripropone con urgenza: il governo, nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria, decide di isolare, per quanto possibile, le carceri, prendendo misure precauzionali come il trasferimento dei colloqui su piattaforme telematiche e la revoca temporanea dei permessi premio e dei regimi di semi-libertà. La conflagrazione è pressoché inevitabile: il 7 marzo, prima ancora dell’approvazione del decreto legge (che entrerà in vigore il 17 marzo), molte carceri italiane sono teatro di rivolte, in alcuni casi degenerate in tragedia. I detenuti che perdono la vita sono dieci: molti di questi sembrano essere morti per overdose dopo aver rubato farmaci nelle infermerie degli istituti fuori controllo. A far esplodere la situazione è una inedita mescolanza di problemi vecchi e nuovi: ai “soliti” disagi si aggiungono, questa volta, la paura per il virus e l’incertezza delle informazioni che filtrano dall’esterno. Di fronte a notizie frammentarie e confuse, molte persone detenute hanno temuto di perdere alcuni dei diritti che, ancor più nella vita carceraria, risultano essenziali, come la possibilità di coltivare le relazioni con i familiari, ed è insorta lasciandosi trascinare dal terrore di un’esclusione ancora più completa dal mondo “di fuori”. Il precipitare degli eventi è stato sicuramente facilitato proprio dal problema del sovraffollamento, che affligge quasi tutti gli istituti di pena italiani: si pensi solo a quanto sia difficile, laddove si debbano condividere spazi angusti con tre o quattro persone, riuscire a mantenere le distanze di sicurezza consigliate. Le soluzioni alternative alla pena detentiva sono molte, in realtà, ma - come ha denunciato, ad esempio, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma - vengono adottate troppo raramente, anche laddove ce ne sarebbe la concreta possibilità. Il governo, frattanto, sembra essersi rivolto in questa direzione, puntando su un potenziamento dello strumento dell’arresto domiciliare, in modo da alleggerire il peso che grava sulle carceri in questo momento di difficoltà. La situazione è in lento miglioramento: per un concorso di cause (tra cui il drastico calo dei reati, il trasferimento dei detenuti più debilitati per tutelarne lo stato di salute, e il maggior ricorso a permessi di semilibertà e a misure di detenzione domiciliare), dall’inizio della pandemia ad oggi le presenze in carcere sono calate di circa 5.000 unità. Ma si tratta di un risultato non ancora sufficiente, che lascia numerosi nodi irrisolti. Di tutto questo ragioniamo con il prof. Marcello Daniele, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Padova. Professore, come è possibile far fronte, in questa situazione d’emergenza, alla questione del sovraffollamento carcerario? Quali sono le strade percorribili? “Il rischio di contagio, particolarmente alto nelle carceri che, come quelle italiane, si trovano in condizioni di sovraffollamento, pone una difficile sfida: bilanciare in modo equilibrato il diritto costituzionale alla salute, di cui anche i detenuti devono godere, con la tutela della sicurezza pubblica, la quale potrebbe essere messa a rischio da un numero eccessivamente alto di scarcerazioni. Al momento il governo l’ha affrontata principalmente puntando su un istituto giuridico che opera nel nostro sistema già dalla fine del 2010: l’esecuzione domiciliare, che consente alle persone condannate ad una detenzione non superiore ad un anno e mezzo di scontare la pena presso la propria abitazione. Ci sono dubbi, però, sulla reale efficacia di una soluzione del genere, e il principale di questi risiede nel sorprendente gap tecnologico che, ancora nel 2020, continua a contraddistinguere la giustizia nel sistema italiano. Il d.l. n. 18 del 2020 ha, infatti, subordinato l’applicazione dell’esecuzione domiciliare, quando la pena da eseguire non sia superiore a sei mesi, all’impiego delle cavigliere elettroniche. L’idea, di per sé, non è sbagliata, considerata l’efficacia di tale forma di controllo. Peccato, però, che nel nostro ordinamento le dotazioni delle cavigliere siano, allo stato, ampiamente insufficienti rispetto al bisogno. Tale carenza, se persisterà, impedirà la scarcerazione di non pochi detenuti, e c’è da auspicare che proprio l’epidemia sia l’occasione per rimediarvi una volta per tutte. Anche perché, se il virus prima o poi sparirà, il sovraffollamento delle carceri, senza interventi incisivi, rimarrà, con buona pace della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2013, lo aveva fortemente stigmatizzato con l’ormai storica sentenza Torreggiani. Ed è chiaro che, a fronte della incapacità endemica del sistema di fronteggiarlo con l’edilizia carceraria, la pena domiciliare con il controllo elettronico rappresenta uno strumento che, anche per il futuro, risulterà decisivo”. Le misure di contenimento adottate per arginare il virus, tuttavia, non hanno conseguenze soltanto in ambito giuridico e sanitario: uno sconvolgimento nella vita quotidiana del carcere rischia di avere conseguenze pesanti, come hanno mostrato le rivolte di marzo. È dunque necessario tutelare anche il benessere psicologico di chi sta scontando una pena detentiva: come è possibile preservare, anche in un momento di assoluta urgenza, la dignità umana di queste persone? “Anche a questo riguardo, in un momento come quello attuale non possiamo che rimetterci alla tecnologia. Il governo ha, in particolare, previsto che i colloqui dei detenuti con i propri familiari siano svolti, ove possibile, in videoconferenza e, a quanto risulta, gli istituti penitenziari si stanno attrezzando in questa direzione. Certo, si tratta di una modalità che non potrà mai adeguatamente sostituire la presenza reale delle persone. Ma la situazione delle carceri altro non fa che riflettere la più generale situazione del paese, se si considera che il lockdown sta costringendo tutti noi ad “incontrarci” sulle piattaforme digitali. In un quadro del genere, l’aumento del senso di isolamento e di alienazione è inevitabile. Ed è chiaro come esso raggiunga livelli critici in un ambiente per definizione chiuso come quello carcerario”. A tal proposito, vi è anche un altro aspetto da non sottovalutare: c’è chi evidenzia che, con l’irrigidirsi delle misure d’isolamento, si profili il pericolo di un aumento dei casi di suicidio, fenomeno di vasta portata nelle carceri già prima di questa emergenza. Crede che vi sia davvero il rischio di un consistente aumenti dei suicidi in cella? Come si potrebbe agire per evitare che ciò si realizzi? “Credo che il rischio sussista eccome, e non è facile immaginare strumenti normativi per eliminarlo. Ben di più possono fare le opportunità già da tempo offerte ai detenuti in molte carceri: le cooperative che consentono di svolgere attività lavorative, e l’incessante opera - tanto oscura quanto preziosa - del servizio sociale penitenziario, il quale, in momenti come questo, diventa ancora più indispensabile. Personalmente, ho avuto modo di constatarlo tutte le volte in cui ho accompagnato i miei studenti a visitare la casa di reclusione di Padova, in cui si svolgono attività di supporto psicologico e di recupero di importanza davvero cruciale”. Via a 4.700 nuovi braccialetti elettronici per “alleggerire” le carceri di Domenico Aliperto corrierecomunicazioni.it, 15 aprile 2020 L’accordo tra il ministro della Giustizia, il Viminale e il commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri punta ad aumentare il numero di detenzioni domiciliari per contenere i contagi da Covid19 tra i detenuti. Servizio affidato a Fastweb. L’obiettivo è quello di accelerare le misure messe in campo per il contrasto al contagio da Covid-19 tra i detenuti italiani. Per questo motivo il governo intende installare 4.700 nuovi braccialetti elettronici per la sorveglianza a distanza entro la fine di maggio. D’altra parte, le indicazioni espresse dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi in una nota indirizzata a tutti i capi delle Corti d’Appello per contenere il contagio da coronavirus negli istituti penitenziari sono chiare: “Il rischio epidemico è concreto e attuale e non lascia il tempo per sviluppare accertamenti personalizzati”: occorre applicare misure alternative ogni volta che questo è possibile ricordando che “il carcere nel nostro ordinamento è l’extrema ratio” e che, in questa situazione di grave emergenza sanitaria, devono rimanere in cella solo le persone pericolose o che hanno commesso reati da codice rosso”. Per questo Domenico Arcuri, Commissario Straordinario per l’emergenza coronavirus, ha affidato la fornitura di ulteriori braccialetti e la gestione del relativo servizio a Fastweb, la stessa società con cui il Ministero dell’Interno ha già siglato un contratto per la fornitura dei dispositivi. Secondo quanto previsto dal Decreto Cura Italia sulla facoltà per il Commissario di procedere anche all’acquisto di device finalizzati a contrastare l’emergenza coronavirus e agevolare l’adozione dei protocolli sanitari nelle carceri italiane, è stata nei giorni scorsi avviata un’interlocuzione - si legge in una nota diffusa da Fastweb - tra il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il Ministero dell’Interno e lo stesso Arcuri per garantire l’accelerazione delle installazioni dei dispositivi destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti devono scontare una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Fastweb, società aggiudicataria nel 2017 del bando emanato dal Ministero dell’Interno per la fornitura dei dispositivi, provvederà alla fornitura e alla manutenzione dei braccialetti elettronici aggiuntivi rispetto a quelli già previsti, così come ai servizi di connettività tra questi e un “Centro Elettronico di Monitoraggio”, istituito ad hoc per la sorveglianza dei dispositivi installati e l’interazione con le Forze di polizia, per comunicare in tempo reale le situazioni di allarme. A tal proposito, il procuratore generale Giovanni Salvi rimarca che proprio le misure di contenimento del contagio rendono più semplice il controllo delle forze dell’ordine su chi è ai domiciliari, perché ora l’obbligo di dimora vale per tutti i cittadini e i centri di aggregazione sono desertificati con un calo dei reati stimato in misura del 75%. Il braccialetto elettronico consentirebbe di evitare anche i provvedimenti come l’obbligo di firma o la presentazione in commissariato per arginare anche rischio di contagio tra le forze dell’ordine. Lo spirito della Pasqua accende l’universo penitenziario di Raul Leoni gnewsonline.it, 15 aprile 2020 Una Pasqua all’infuori delle consuetudini, eppure carica di umanità e voglia di guardare al dopo. L’emergenza Coronavirus cambia le usanze e rafforza la solidarietà, coinvolgendo anche il mondo penitenziario e la realtà delle carceri. A Genova, gli agenti della casa circondariale di Pontedecimo hanno scelto gli ospiti della “Casa dei Bimbi” assistiti nella Parrocchia del Sacro Cuore - 500 ragazzi abbandonati, dai 4 ai 12 anni - come destinatari di doni pasquali. Il frutto della raccolta di fondi lanciata tra tutto il personale dell’istituto penitenziario genovese ha portato ai giovani ospiti anche le uova e i tradizionali dolci delle feste. Nel carcere di Civitavecchia anche un centinaio di detenuti ha voluto interpretare lo spirito della Pasqua organizzando una raccolta fondi a favore della Protezione Civile: circa 1000 euro la somma che è stata messa a disposizione della macchina organizzativa di contenimento dell’epidemia da Covid-19. Una donazione volontaria di oltre 1600 euro, raccolti tra i detenuti dei tre reparti del carcere di Poggioreale, è stata destinata all’ospedale Cotugno di Napoli: al successo dell’iniziativa hanno contribuito anche Carlo Berdini e Gaetano Diglio, rispettivamente direttore e comandante di reparto dell’istituto partenopeo. Una colletta in favore dell’ospedale Sant’Anna è stata organizzata dai detenuti del carcere di Ferrara: “Il nostro piccolo gesto non sanerà l’enormità del problema, ma è stato fatto con il cuore da ognuno di noi”, si legge nella lettera che accompagna la donazione consegnata agli operatori sanitari a cura del direttore dell’istituto, Maria Nicoletta Toscani, e del comandante di reparto Annalisa Gadaleta. La Polizia Penitenziaria di Alessandria ha dimostrato la sua sensibilità e vicinanza all’impegno del personale sanitario raccogliendo la somma di 2000 euro nelle carceri cittadine, Cantiello e Gaeta e San Michele: i fondi - cui hanno contribuito anche il personale civile dei due istituti e quello in servizio all’Uepe - saranno devoluti alla Fondazione Uspidalet per l’acquisto di caschi per la ventilazione polmonare. A Sondrio sono stati invece i detenuti e gli operatori penitenziari a ricevere una concreta dimostrazione di solidarietà da parte della cittadinanza e in particolare dal gruppo, tutto al femminile, che sta producendo dispositivi di protezione sotto l’hashtag #lemascherinedellamore: da loro sono arrivate ai detenuti 120 mascherine, mentre una somma di denaro è stata messa a disposizione del cappellano dell’istituto, don Ferruccio Citterio per l’acquisto di generi di conforto. Un’altra iniziativa benefica, nata dalla sensibilità dei cittadini sondriesi, ha portato colombe e uova pasquali a tutto il personale penitenziario in servizio nel carcere. Salvare la giustizia dalle ferie di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 aprile 2020 Un blocco dopo l’altro. La ripresa dell’attività giudiziaria rischia di essere interrotta dal periodo di ferie dei magistrati. Come evitare il collasso trasformando la pandemia in un’opportunità per velocizzare la giustizia. A causa dell’emergenza coronavirus, da un mese la giustizia italiana è ferma, o quasi. Tutte le udienze dei procedimenti penali, civili, amministrativi, tributari e contabili, ad eccezione delle più urgenti (quelle che, ad esempio, nel penale coinvolgono detenuti), sono state rinviate d’ufficio dal governo fino all’11 maggio (ma questo termine potrà essere nuovamente prorogato) per evitare che l’affollamento nelle aule di giustizia possa alimentare la diffusione dell’epidemia di Covid-19. La paralisi giudiziaria rischia di costare molto all’Italia. Negli ultimi mesi, la giustizia penale è stata al centro dell’attenzione pubblica, anche in virtù dell’infausta riforma pentaleghista che ha abolito la prescrizione, ma è soprattutto sul fronte della giustizia civile che, oggi più che mai, l’Italia si gioca il suo futuro, per almeno due ragioni. Primo, perché è questo genere di contenziosi a chiamare in causa in via diretta il riconoscimento di crediti (cioè di risorse) che spetterebbero alle imprese, e che risultano ancor più cruciali di fronte alla crisi di liquidità determinata dall’emergenza coronavirus. Secondo, perché è proprio questo settore ad essere caratterizzato da una lentezza inesorabile, e a costituire notoriamente, e tristemente, uno dei maggiori freni alla crescita del Paese da decenni. Stavolta c’è persino il rischio di un paradosso ulteriore, e cioè che la ripresa graduale dell’attività della macchina giudiziaria, che si ipotizza possa avvenire a giugno o agli inizi di luglio, venga immediatamente e bruscamente interrotta dal periodo di ferie dei magistrati. Nel 2014 il periodo di ferie dei magistrati è stato ridotto da 45 a 30 giorni (l’intero mese di agosto). Lo scorso anno, però, il Consiglio superiore della magistratura ha stabilito con una propria delibera l’inserimento di un “periodo cuscinetto” per i dieci giorni antecedenti e i cinque giorni successivi al periodo di ferie, con lo scopo di consentire alle toghe di completare il lavoro residuo e anticipare quello necessario alla ripresa delle udienze. Il risultato è che al mese di ferie dei magistrati si sono aggiunte due settimane in più e non sono state fissate udienze ordinarie dal 15 luglio al 7 settembre (salvo gli affari urgenti). Lo stesso scenario potrebbe ripresentarsi quest’anno, con la conseguenza che il sistema giudiziario italiano, dopo una paralisi di (almeno) tre mesi, potrebbe tornare a fermarsi subito per un altro mese e mezzo, con effetti ancora più devastanti sull’economia del Paese. L’ultimo Justice Scoreboard della Commissione europea ha confermato che la giustizia italiana è la più lenta d’Europa per la durata media dei contenziosi civili e commerciali: 548 giorni (un anno e mezzo) per una sentenza di primo grado, altri 893 giorni (due anni e mezzo) per una sentenza di appello, altri 1.299 giorni (tre anni e mezzo) per una sentenza definitiva. Dati impressionanti se confrontati con quelli di altre nazioni europee, come Svezia (366 giorni, cioè un anno, per arrivare a sentenza definitiva, sette volte meno dei nostri 2.740 giorni), Germania (719) o Francia (1.274). Non va meglio se si considerano i tempi della giustizia amministrativa: in Italia occorrono 887 giorni per ottenere una sentenza al Tar e 950 giorni al Consiglio di Stato (per svolgere non due, ma tre gradi di giudizio, la Svezia impiega 338 giorni, la Francia 808 e la Germania 1.049). Gli effetti devastanti delle lungaggini della giustizia italiana sull’economia sono sotto gli occhi di tutti. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno da Censis e Associazione Italiana Banche Estere, i tempi della giustizia civile rappresentano la seconda causa di scarsa attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri, dopo il carico normativo e burocratico. Secondo uno studio realizzato nel 2017 da Cer-Eures per Confesercenti, lentezze e inefficienze della giustizia ci costano 2,5 punti di Pil, pari a circa 40 miliardi di euro. Tanto recupereremmo se la nostra giustizia civile si allineasse sui tempi di quella tedesca. E gli effetti non si limiterebbero solo al Pil: una giustizia più rapida creerebbe anche 130mila posti di lavoro in più e circa mille euro all’anno di reddito pro-capite, con effetti positivi anche sull’erogazione di credito e la sicurezza percepita di imprese e famiglie. “Meno funziona la giustizia e più peggiorano le condizioni di vita delle imprese all’interno del Paese, perché manca uno degli elementi fondamentali, cioè quello della certezza del diritto e della pena”, spiega al Foglio Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti, associazione che rappresenta più di 350mila piccole e medie imprese del commercio, del turismo, dei servizi, dell’artigianato e dell’industria. “Il cattivo funzionamento della giustizia costa tantissimo alle imprese - aggiunge Bussoni - Purtroppo spesso a preoccuparsi non è il debitore, ma il creditore, che rischia di non arrivare mai ad avere ragione rispetto alle condizioni del contenzioso”. “Adesso è tutto bloccato ed è anche normale - prosegue il segretario generale di Confesercenti - Il vero problema è un altro: in tutto questo tempo riusciremo a recuperare gli anni persi di mancata digitalizzazione nella giustizia civile? Presto saremo chiamati a ripartire, ma solo una giustizia efficiente e un fisco giusto, che diano garanzie alle imprese e a chi si comporta correttamente, consentirebbero di far ripartire il Paese veramente. Sarebbe fondamentale, ad esempio, avere un monitoraggio di tutte le cause pendenti. Ciò permetterebbe al cittadino di sapere a che punto è il proprio procedimento, quando si pensa di discuterlo, e quindi di regolarsi di conseguenza. Invece ora niente è definito. Si vive costantemente nell’incertezza”. Sul possibile paradosso delle ferie lunghe dei magistrati: “Penso che tutti quest’anno ci ritroveremo a lavorare un po’ di più ad agosto. Questo vale per tutte le imprese e credo dovrebbe valere anche per il funzionamento dei tribunali”, conclude Bussoni. D’accordo, su questo, anche Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale delle camere civili (Uncc): “Se l’attuale sospensione della giustizia dovesse essere protratta, sicuramente una riflessione circa l’opportunità di mantenere la sospensione feriale andrebbe fatta e con molta serietà”. “L’Uncc - aggiunge De Notaristefani - è stata tra i primi a chiedere di sospendere la giustizia civile nel momento dell’emergenza. È evidente che la tutela della salute nel nostro ordinamento prevale su qualsiasi altra considerazione, quindi non posso che esprimere apprezzamento sul fatto che sia stata disposta la sospensione. Detto questo, a mio parere la sospensione dovrebbe servire per ripartire in condizioni di sicurezza. Ipotizzare che si possa ripartire soltanto quando sarà stato individuato il vaccino e una parte significativa della popolazione sarà stata vaccinata significa ipotizzare di sospendere per un anno o un anno e mezzo la giustizia civile. Questo è impensabile, perché significa la paralisi totale dell’economia. L’economia si basa sul presupposto che chi non paga i suoi debiti può essere costretto a farlo coattivamente. Se questo presupposto venisse meno, non pagherebbe più nessuno”. “Una sospensione della giustizia per venti giorni non pesa molto - prosegue il presidente Uncc - Il problema è che una sospensione destinata a protrarsi crea un accumulo di arretrato, che poi impiegherà molto tempo per essere smaltito. In una situazione già di ingolfamento della giustizia civile creare un enorme sovraccarico di arretrato significa provocare la paralisi totale”. Per il presidente degli avvocati civilisti c’è un modo per far ripartire la giustizia in fretta, senza mettere in pericolo gli operatori: “Le cause vanno svolte in tribunale davanti a un giudice. Del resto, la convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che l’udienza debba essere pubblica. Non c’è dubbio, quindi, che nel regime normale bisognerà ritornare alle udienze in tribunale al cospetto di un giudice. Detto questo, ora non siamo in una situazione di normalità, ma di emergenza sanitaria, quindi va contemperata l’esigenza sanitaria con quella di far ripartire la giustizia e l’economia. C’è un sistema che consentirebbe di far ripartire larga parte (il 70-80 per cento) della giustizia civile: la trattazione scritta. Il processo civile, in via straordinaria ed eccezionale, può in larga misura essere trattato per iscritto. Questo consentirebbe di tutelare al massimo le esigenze sanitarie, perché né magistrati né avvocati dovrebbero andare in tribunale, e la presenza del personale di cancelleria sarebbe ridotta. Soprattutto ciò non richiederebbe i collaudi tecnologici necessari per le udienze da remoto. È evidente che si tratta di soluzioni emergenziali. Nessuno può ipotizzare che siano destinate a sostituire il processo civile ordinario, ma siamo in emergenza e questa va affrontata con strumenti di emergenza”. Un’ottima ricerca realizzata dal 2015 al 2018 da The European House - Ambrosetti sottolinea che “i ritardi della giustizia, e in particolare di quella civile, deprimono le capacità di fare impresa e generare ricchezza e sviluppo socio-economico, e generano un clima di sfiducia nei cittadini”. In particolare, le inefficienze del sistema della giustizia impattano negativamente su cinque fronti. Primo, sulla struttura dei costi delle imprese, “attraverso maggiori oneri collegati alla lentezza del sistema, oltre che attraverso maggiori esborsi di natura legale”. Secondo, sull’allocazione e sul costo del credito, “dal momento che i tribunali non riescono pienamente a rispettare le tempistiche stabilite per la durata dei processi, facendo venir meno la minaccia dell’applicazione di sanzioni tempestive e creando così le condizioni per comportamenti opportunistici da parte di cittadini e imprese”. I creditori, incerti della tutela del proprio credito, “tenderanno a chiedere tassi d’interesse maggiori e concedere meno credito”. Terzo, sulla natalità delle imprese, la loro capacità di entrare nel mercato e la competitività: “lo scarso rispetto per i meccanismi formali spinge i nuovi entranti a utilizzare canali informali. Ciò rappresenta una barriera all’ingresso dal momento che avvantaggia l’incumbent (ovvero l’operatore già insediato e attivo sul mercato) e diminuisce la probabilità di avere mercati competitivi, elastici ed efficienti”. Quarto, sulla dimensione delle imprese: “una giustizia meno efficiente disincentiva la crescita occupazionale delle imprese e rappresenta uno dei maggiori ostacoli alla crescita dimensionale”. Infine, sugli investimenti da parte delle imprese estere e italiane, perché “la mancata ‘certezza del diritto’ li rende più incerti, diminuendone il valore atteso e l’economicità”. Un altro fronte caldo è rappresentato dalla giustizia tributaria, se si considera che ogni anno il contenzioso tributario vale circa 40 miliardi di euro. Per Antonio Leone, ex membro laico del Csm, oggi a capo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, una volta cessata la pandemia “sarebbe opportuno il ritorno alla normalità, senza ulteriori provvedimenti emergenziali che creano molti problemi interpretativi”. “Per normalità - aggiunge Leone - mi riferisco anche alle attuali disposizioni sul processo ‘a distanza’, soprattutto in ambito penale, che devono rimanere confinate a questo periodo di eccezionalità, dovendosi salvaguardare il principio costituzionale dell’oralità e del pieno contradditorio fra le parti”. “Per la giustizia tributaria confido in un ‘riequilibrio’: il Cura Italia da un lato ha sospeso per poco più di due mesi e mezzo le attività di controllo, riscossione e contenzioso, dall’altro ha prorogato di due anni i termini per le attività di verifica da parte dell’Agenzia delle entrate, degli enti locali e altri enti impositori. L’emergenza Covid-19 non deve essere un pretesto per comprimere i diritti del cittadino contribuente”, conclude Leone. Secondo Pierantonio Zanettin, ex membro laico del Csm, oggi deputato di Forza Italia e avvocato, dopo l’emergenza “non torneremo a essere come prima”. “Questa esperienza ci cambierà, perché abbiamo imparato tutti in queste settimane a lavorare in smart working. Nella giustizia dovremo implementare sempre di più il processo telematico. La strada per il processo civile è più facile rispetto al penale, perché il processo civile è prevalentemente documentale. Il ministro Bonafede non mi è sembrato così sensibile al tema, ma sono convinto che al ministero, di fronte a questa crisi epocale, inevitabilmente inizieranno a lavorare in questa direzione”. Zanettin è originario di Vicenza, ed è proprio qui che Bonafede potrebbe dare uno sguardo: “Siamo tra gli sperimentatori più efficaci del processo telematico e delle videoconferenze - spiega il deputato - Tutta la volontaria giurisdizione, ad esempio l’amministrazione di sostegno, viene fatta a distanza, con sistemi di videochiamata attraverso cui l’assistente sociale mette in comunicazione la persona fragile con il magistrato”. Il rilancio della giustizia civile, insomma, passa attraverso la digitalizzazione. In caso contrario, a pagare sarebbe l’intera economia: “Vicenza è una delle province più industrializzate d’Italia. Per noi da sempre avere una giustizia celere ed efficiente è un fattore di competitività economica. La paralisi, quindi, crea problemi pazzeschi. Il Veneto è però tra le regioni in cui il problema del coronavirus si è manifestato in modo maggiore, quindi in questo momento il problema della tutela sanitaria è altrettanto cruciale. Bisogna bilanciare queste due esigenze. Un settore che, però, potrebbe essere sbloccato subito è quello dei decreti ingiuntivi, che oggi vengono tutti redatti, depositati e firmati attraverso il processo telematico e quindi non comportano rapporti diretti tra le persone. Un altro settore che potrebbe essere sbloccato è quello delle separazioni giudiziali, in cui si costringono alla convivenza forzata coniugi spesso in condizione di grave conflittualità (con rischi per la loro incolumità personale)”. Processo telematico, i penalisti: “Vìola privacy e Costituzione” di Simona Musco Il Dubbio, 15 aprile 2020 La lettera dell’Ucpi al garante della privacy. L’Unione delle Camere penali alza il tiro. E per denunciare le possibili violazioni dei diritti connessa alla smaterializzazione del processo penale - radicalmente “censurata in ragione della evidente compromissione dei principi costituzionali che lo regolano” - scrive all’autorità garante per la protezione dei dati personali, ponendo 21 domande cruciali per disambiguare i termini che regolano il processo da remoto. Termini, secondo i penalisti, forieri di molteplici violazioni e che rischierebbero di mettere in circolo tutta una serie di dati delicatissimi con un effetto bomba ai danni della sicurezza del processo stesso. Il sistema utilizzato attualmente per le udienze penali non ha nulla, infatti, a che vedere con quello che, da qualche anno, viene impiegato per il processo civile telematico. Un sistema messo a punto non senza fatica e che consiste non in un vero e proprio dibattimento telematico, ma in una piattaforma asincrona di deposito di atti e di documenti inerenti l’avvio e le fasi del processo civile. Una piattaforma che appartiene all’Amministrazione della Giustizia e, dunque, non ha necessità di appoggiarsi a programmi commerciali esterni alla stessa. Tutto ciò, invece, nella giustizia penale non esiste. E per far fronte all’oggettiva emergenza, che ha reso necessario svuotare i tribunali per evitare il diffondersi del virus, si è optato per strumenti esterni e, dunque, potenzialmente pericolosi. Si tratta di due programmi commerciali di una società estera, individuati dalla Direzione generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia, ovvero Skype for Business e Teams, della società Microsoft Corporation. Ma dopo un mese di udienze da casa, denunciano i penalisti, non è dato sapere se l’utilizzo di tali piattaforme “consenta di rispettare le garanzie minime di sicurezza, riservatezza e protezione dei dati personali richieste dalla normativa nazionale e sovranazionale”. Senza dimenticare che, trattandosi di una società statunitense, la stessa è soggetta al Cloud Act, “che consente la discovery dei dati contenuti nei suoi server, anche se localizzati al di fuori del territorio Usa, su semplice richiesta dell’autorità governativa”. Domande non di poco conto, considerato che la legge di conversione intende ampliare ulteriormente le ipotesi di udienze virtuali “estendendole persino agli atti di indagine e alle camere di consiglio (segrete), nel corso delle quali i giudici possono costituire la camera di consiglio da remoto, collegandosi ad una stanza virtuale ognuno da un suo terminale”. Ma non solo: il collegamento da remoto avviene attraverso la rete internet pubblica e non attraverso la Rete unica Giustizia, rendendo i dati, dunque, facilmente intercettabili. Da qui le questioni poste all’ufficio del garante Antonello Soro, a partire dalle misure di sicurezza previste nei termini di servizio intercorrenti tra Microsoft Corporation e il ministero della Giustizia e i livelli di licenza, chiedendo se le modalità di attuazione sono conformi alle norme del decreto legislativo 51/ 2018, relativo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati. I penalisti, dunque, voglio sapere se la norma che introduce il processo da remoto prevede una valutazione dell’impatto di tale meccanismo sulla protezione dei dati personali, ponendo, poi, tutta una serie di interrogativi sugli applicativi per i sistemi di partecipazione a distanza e sulla conformità dell’informativa privacy di tali programmi al loro utilizzo nei processi penali, non essendo stati pensati per tale scopo. C’è, poi, tutta una questione relativa alla fine che faranno i dati raccolti e archiviati durante le udienze: è stato valutato - si chiede l’Ucpi - l’impatto di tale raccolta? Chi viene considerato responsabile del trattamento di tali, per quanto tempo e secondo quali regole? Esistono vpn - ovvero protocolli di trasmissioni - dedicati e una cifratura con cifratura end-to-end? Ma non solo. I dubbi riguardano anche la possibilità di profilazione dei dati e la raccolta, dunque, dei metadati, che potrebbero essere utilizzati dalla società proprietaria dei programmi per finalità estranee al processo stesso, ovvero commerciali. Senza contare le questioni - mai chiarite - relative alla custodia di tali informazioni, dell’accesso alle stesse e della loro permanenza. A preoccupare gli avvocati è anche la possibilità che nel corso delle udienze virtuali e delle segrete camere di consiglio ci sia la possibilità di registrare in autonomia l’intera sessione o parte di essa, con la possibilità, poi, di renderla pubblica. Da qui la necessità di comprendere se è possibile escludere con certezza la presenza di “ospiti silenti”. Questioni che si riassumono tutte nell’ultima domanda contenuta nel documento firmato dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza e dal segretario Eriberto Rosso: “sono state adottate dal ministero della Giustizia tutte le disposizioni regolamentari e operative per tutelare la cosiddetta Cyber Security?”. Domanda per la quale i penalisti, da giorni in riunione permanente per discutere l’alternativa alla smaterializzazione del processo, attendono risposta, a tutela dei diritti e delle garanzie costituzionali. Benefici penitenziari, delitti c.d. ostativi e limiti costituzionali di Anna Larussa altalex.com, 15 aprile 2020 Legittimo il divieto di benefici per il sequestro di persona a scopo di estorsione, anche se è riconosciuta l’attenuante della lieve entità (Corte costituzionale, sentenza n. 52/2020). La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi ricompresi quello di cui all’art. 630 c.p., allorché sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n°68 del 23 marzo 2012”. La questione - La questione è stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze chiamato a pronunciarsi sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale da parte di un detenuto in possesso di tutti i requisiti prescritti dall’art. 47 ordin. penit. (disponibilità di domicilio e lavoro, pena da espiare non superiore ai quattro anni), e pur tuttavia destinato a una declaratoria di inammissibilità per via dell’inclusione del reato ascrittogli (sequestro di persona a scopo di estorsione, contestato con l’attenuante del fatto di lieve entità) tra i delitti c.d. ostativi per i quali, in assenza di collaborazione con la giustizia e in mancanza della richiesta di accertamento della collaborazione cosiddetta impossibile o inesigibile, il beneficio non è concedibile. In particolare il Tribunale di sorveglianza di Firenze ritiene che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. contrasti con l’art. 3 Cost., nella parte in cui parifica irragionevolmente un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione di “lieve entità” ai condannati per delitti di particolare allarme sociale che giustificarono l’introduzione del regime di rigore contemplato dall’art. 4-bis ordin. penit. nella sua versione originaria in quanto contraddistinti “dal necessario o almeno normale inserimento del reo in compagini criminose di gruppo o comunque collegate con organizzazioni criminali”. Tale carattere, secondo il remittente, sarebbe estraneo al reato di sequestro di persona tanto più in presenza dell’attenuante della lieve entità del fatto la quale, oltre a determinare una diminuzione di pena, implicherebbe “logicamente una valutazione di minore pericolosità degli autori o almeno un’attenuazione della presunzione di pericolosità”. La disposizione sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 27 Cost., in quanto l’impedimento frapposto all’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova ostacolerebbe il necessario e progressivo reinserimento nella società del condannato. La sentenza - La Corte ha dichiarato infondata la questione ribadendo le valutazioni espresse in materia di permessi premio con sentenza n. 188 del 2019, secondo cui “l’unica adeguata definizione della disciplina di cui all’art. 4-bis ordin. penit. consiste nel sottolinearne la natura di disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti” In altre parole, l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario troverebbe giustificazione, quanto alle restrizioni poste alla concessione dei benefici penitenziari, nella presunzione di pericolosità collegata esclusivamente al titolo di reato. In quest’ottica, il riconoscimento dell’attenuante non giustificherebbe, secondo i giudici della Consulta, l’espunzione dal catalogo dell’art. 4-bis della relativa fattispecie di reato poiché non priverebbe di validità, sul piano logico e statistico, la presunzione di pericolosità che nel tempo ha indotto il Legislatore ad ampliare il catalogo di reati con fattispecie anche tra loro eterogenee. Ed invero, la concessione dell’attenuante consente di adeguare la pena al caso concreto, ma non riguarda necessariamente l’oggettiva pericolosità del comportamento descritto dalla fattispecie astratta. Per quanto concerne, nello specifico, la concessione dell’attenuante del fatto di lieve entità, la Corte ha pertanto concluso che la stessa è rilevante ai soli fini della dosimetria della pena adeguata al caso concreto, mentre, nella logica dell’attuale art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., non risulta idonea a incidere, di per sé sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare al sequestro con finalità estorsive un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, quale che sia la misura della pena inflitta nella sentenza di condanna. Traffico d’influenze, ora non serve la semplice vanteria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2020 Corte di cassazione- Sentenza 12095/2020. Nel nuovo reato di traffico d’influenze, dopo le modifiche della legge “spazza-corrotti”, non trova più posto il riferimento esclusivo alla millanteria. Il perimetro del delitto è assai più ampio e chiaro di quanto in precedenza previsto dall’articolo 346 del Codice penale. Sulla base di questa valutazione la Cassazione - sentenza n. 12095della sesta sezione penale depositata ieri - ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva considerato parzialmente illegittima la misura degli arresti domiciliari disposta nei confronti di un professionista che puntava a ottenere vantaggi per un proprio cliente dall’intervento di un mediatore presso la presidenza di una Regione. Il tribunale aveva valorizzato soprattutto l’assenza di una vanteria da parte del mediatore e il fatto che il professionista era in grado di tenere contatti diretti con gli ambienti politici regionali, lasciando semmai spazio per un intervento cautelare sul piano della corruzione. La Cassazione ricorda innanzitutto che il reato di traffico di influenze è destinato ad assicurare copertura anticipata a tutte le forme di programmata interferenza con l’attività della pubblica amministrazione. In questa prospettiva la legge n. 3 del 2019 (la ormai proverbiale “spazza-corrotti”), al posto del riferimento alla millanteria della precedente norma del Codice penale (articolo 346), considerato in qualche modo fuorviante, ha previsto all’articolo 346 bis “sia la relazione asserita, sia quella esistente, nel contempo dando alternativamente rilievo tanto alla vanteria, quale allegazione autoreferenziale di una specifica capacità di influenza, quanto allo sfruttamento di quella capacità”, in funzione della promessa di denaro o di altre utilità come prezzo della mediazione illecita verso un soggetto qualificato o come remunerazione dell’esercizio da parte di quest’ultimo delle sue funzioni e dei suoi poteri. La nuova fattispecie di reato, cioè, non ha come necessario fondamento la millanteria o vanteria, ma può concretizzarsi nel legame causale tra la promessa o corresponsione da un lato e lo sfruttamento della capacità di influenza dall’altro. Tanto più che quest’ultima rappresenta un dato per il quale non è necessaria una specifica illustrazione, ma costituisce il presupposto dell’accordo illecito o comunque della dazione. La Cassazione sottolinea ancora che l’ipotesi del traffico di influenze è caratterizzata da una clausola di sussidiarietà per effetto della quale il reato sfuma ed è assorbito quando viene a configurarsi un vero e proprio accordo corruttivo da ricondurre alle ipotesi “classiche” del Codice, dalla corruzione semplice a quella in atti giudiziari. Va allora escluso il traffico d’influenze tutte le volte in cui il pubblico ufficiale è direttamente attratto nel patto, divenendone elemento chiave, come destinatario diretto o indiretto del denaro o di altre utilità. Crediti facili ai boss? Concorso esterno in associazione mafiosa per l’amministratore della banca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2020 Via libera alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, a carico dell’amministratore della banca che concede ai boss crediti di particolare favore, senza le necessarie garanzie. La Corte di cassazione, con la sentenza 11962, ha respinto il ricorso del manager condannato, con sentenza irrevocabile dalla Corte d’Appello, per aver messo a disposizione delle famiglie mafiose i servizi e le attività dell’istituto. La difesa aveva chiesto, senza successo, la revisione “europea” del verdetto, sulla scia della sentenza Contrada, applicabile a suo avviso ai cosiddetti “fratelli minori”. Per il ricorrente, infatti, il concorso esterno in associazione mafiosa doveva considerarsi, come affermato in quell’occasione dagli eurogiudici, un reato di creazione giurisprudenziale, riconosciuto per la prima volta nell’ordinamento italiano con la sentenza a Sezioni unite Demitry. Per la Cassazione il ricorso è inammissibile perché - al di là delle considerazioni già fatte sulla sentenza Contrada che non è una sentenza pilota - il ricorrente aveva chiesto la revisione “europea” in un caso non consentito: quando la domanda riguarda una situazione processuale esaurita e coperta da giudicato. La Suprema corte ribadisce comunque la premessa errata, dalla quale sono partiti i giudici di Strasburgo, nel considerare il concorso esterno in associazione mafiosa di origine giurisprudenziale, quando si basa invece sul rispetto del principio di legalità, riguardo alla combinazione tra la norma speciale e l’articolo 110 del Codice penale sul concorso eventuale. La Cassazione ricorda che non viola il principio di legalità, neppure convenzionale, l’interpretazione giurisprudenziale sfavorevole all’imputato della legge penale, rispetto a precedenti decisioni, purché la diversa lettura non sia il frutto di una patologica indeterminatezza della norma e sia razionalmente in linea con il tenore letterale della previsione. Nulla di tutto questo è accaduto nel caso esaminato. E il ricorso è inammissibile. Mafie atipiche: forza intimidatrice, assoggettamento e omertà hanno funzione tipizzante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2020 Per poter contestare il reato di associazione di tipo mafioso con riferimento alle cosiddette mafie “non tradizionali” (ossia diverse dalle consorterie, talvolta secolari, già presenti e qualificate da un nomen, insediamenti, articolazioni periferiche e fama criminale: mafia, camorra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita, ecc.) occorre avere riguardo al disposto nel quale il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell’associazione mafiosa. A tal riguardo, secondo la Cassazione sentenza n.10255 del 16 marzo scorso, le singole associazioni vanno analizzate nel loro concreto atteggiarsi, dovendosi verificare, in termini di “effettività”, se quello specifico sodalizio si sia manifestato in forme tali da avere offerto la dimostrazione di “possedere in concreto” la forza di intimidazione richiesta dalla norma incriminatrice e di essersene poi avvalsa. In altri termini, forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento e omertà assolvono una funzione tipizzante per riconoscere la sussistenza di una associazione di tipo mafioso anche ove si tratti di mafie “atipiche”, presenti in un determinato territorio, ma non riconducibili a quelle tradizionali, come del resto si verifica anche in caso di mafie “delocalizzate”, ossia di costituzione di una nuova struttura, operante in un’area geografica diversa dal territorio di origine dell’organizzazione “tradizionale” di derivazione (affermazione resa relativamente all’attività criminale del clan Fasciani di Ostia, dove la Corte ha ritenuta corretta la qualificazione “mafiosa” attribuita dai giudici di merito, evidenziando così che anche la città di Roma aveva conosciuto l’esistenza di una presenza “mafiosa”, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, essendo stato spiegato in modo satisfattivo il vincolo di assoggettamento omertoso e le attività di intimidazione poste in essere dalla consorteria criminale: intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, natura e forme di manifestazione degli strumenti intimidatori, specifici settori di intervento, vastità dell’area attinta dalla egemonia del sodalizio, molteplicità dei settori illeciti di interesse, caratura criminale dei soggetti coinvolti, manifestazione esterna del potere decisionale, sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali). Con riguardo alla stessa associazione criminale, si è in termini affermato che, in fattispecie di mafia “non tradizionale”, ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, e il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale. Infatti, nello schema normativo non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone; vi rientrano, quindi, anche “piccole mafie” con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone), non necessariamente armate (l’essere armati e usare materiale esplodente non è infatti un elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso, ma realizza solo un’ulteriore modalità di azione che aggrava il sodalizio). Del resto, la forza prevaricante di un’organizzazione mafiosa ha capacità di penetrazione e di diffusione inversamente proporzionali ai livelli di collegamento che la collettività sulla quale si esercita è in grado di mantenere, per cultura o per qualsiasi altra ragione, con le istituzioni statuali di possibile contrasto, potendo evidentemente la intimidazione passare da mezzi molto forti a mezzi semplici, come minacce di percosse rispetto a soggetti che non siano in grado di contrapporre valide difese; con l’ulteriore conseguenza che non è neppure necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatrice del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice (sezione II, 21 febbraio 2018, Fasciani e altri). Più in generale, con riferimento alla configurabilità del reato rispetto a una articolazione periferica di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, di recente si è puntualizzato che non è certo sufficiente la mera potenzialità di un pericolo per l’ordine pubblico, apprezzabile anche senza esteriorizzazione del potere di intimidazione. È invece necessario o il concreto esercizio “in proprio” della forza intimidatrice del vincolo associativo, e quindi l’esperimento concreto e autonomo del metodo mafioso, o la “riconoscibilità esterna” del carattere mafioso dell’associazione, per effetto di un “collegamento organico e funzionale” con la casa-madre, come proiezione di quella stessa associazione, diffusamente conosciuta e riconosciuta per la sua forza criminale. In particolare, il collegamento funzionale non può però essere identificato in qualsiasi forma di relazione con l’associazione di riferimento, ma postula che il legame sia apprezzabile sul piano, appunto, funzionale e quindi dell’esplicazione di attività tipiche di una struttura associativa, derivandone, quale naturale risultato, il carattere della “riconoscibilità esterna” della struttura delocalizzata, ovviamente incompatibile con forme di collegamento che si consumino soltanto al suo interno (nella fattispecie, in cui il reato associativo era stato ravvisato relativamente a una struttura associativa che si riteneva operante nel territorio svizzero di Frauenfeld, quale locale dell’ndrangheta, la Corte ha escluso il reato evidenziando come in sentenza non fosse stato dimostrato né l’estrinsecazione del metodo mafioso, né l’avvalimento in quel territorio di una fama criminale altrove strutturata; in particolare, la Corte ha escluso in concreto alcuna valenza finanche all’elemento costituito dall’assunzione di cariche e gradi propri dell’organizzazione ‘ndranghetista, proprio perché nello specifico era mancata la prova dell’esistenza di una vera struttura associativa sussumibile nel paradigma normativo previsto dal Cp) (sezione I, 29 novembre 2019, Albanese e altro). Carceri, la strada indicata dal Papa di Alessandro Giordano Il Messaggero, 15 aprile 2020 Sono un Magistrato di Sorveglianza che tutti i giorni, da anni, si confronta con la complessa realtà carceraria. È innegabile considerare che in questo periodo la situazione negli Istituti penitenziari si sia aggravata improvvisamente per la cronica condizione di sovraffollamento, unita al rischio determinato dalla pandemia da Covid-19 che si è diffusa nel nostro Paese. Si tratta di un pericolo per i detenuti, ma anche per il corpo di Polizia Penitenziaria e, più in generale, per gli operatori che lavorano all’interno del carcere. Di fronte a questa emergenza, Papa Francesco, nella messa del 6 aprile 2020, tenuta a Santa Marta, ha invitato a pregare per coloro che debbono prendere le decisioni, perché trovino “una strada giusta e creativa” per risolvere il problema. Il Papa ha poi previsto per la Via Crucis della Pasqua 2020, appena passata, che le meditazioni provenissero da persone legate in qualche modo all’esecuzione della pena. Ritengo che questo invito, per l’autorevolezza religiosa, ma anche morale e civile, da cui proviene, non possa e non debba essere fatto cadere nel vuoto. Nella prospettiva indicata proporrei l’introduzione nel nostro ordinamento di una nuova misura che denominerei “Libertà Riparativa”. La misura è pensata per i detenuti che ne facciano richiesta con pena, anche residua, non superiore ai due anni di detenzione, si badi bene, che non siano stati condannati per i reati gravi o che non si trovino nelle condizioni preclusive già previste dalle leggi vigenti e può essere revocata in caso di violazione. Con questo beneficio ogni giorno di pena espiata in regime di detenzione si convertirebbe in un giorno di lavoro eseguito al servizio della collettività. Al “Libero in Riparazione” verrebbe consentito di svolgere attività di volontariato presso soggetti pubblici o privati che abbiano fatto preventiva richiesta di avvalersi dello strumento. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Caritas, alla Croce Rossa, alle Comunità di recupero e di sostegno, ma anche ai Ministeri, agli Enti locali, agli stessi Uffici Giudiziari, per soddisfare esigenze di interesse collettivo, come il trasporto di generi alimentari, di medicinali, di indumenti oppure dirette alla cura del verde, dell’igiene degli spazi pubblici, della manutenzione delle strade o alle attività di ufficio, come l’archiviazione, l’accettazione, la risposta ai cali center ed altro. In sostanza, lo schema accennato della “Libertà Riparativa”, si muove nel solco di istituti giuridici già esistenti, ma si caratterizza per la celerità della procedura, anche perché subordinata ad una mera verifica sull’ammissibilità dei presupposti da parte del Magistrato, mentre gli Uffici competenti sovrintendono soltanto all’andamento della stessa. La “Libertà Riparativa” si prefigge lo scopo di coniugare le esigenze, anche costituzionalmente garantite, dello svolgimento della pena in una condizione umana e non degradante, ma anche dell’effettivo assoggettamento del reo alla sanzione penale, della funzione rieducativa della pena, unita al valore riparatorio, di emenda sociale, rispetto al vulnus arrecato alla collettività con la commissione del reato. Qualunque soluzione sia prescelta, auspico che il legislatore sia sensibile all’invito del Papa e percorra una strada “giusta”, per dare una risposta urgente al problema che da oggi si è venuto a creare per il mondo degli Istituti di pena. Umbria. Coronavirus, ci sono i fondi per i detenuti privi di domicilio in misura alternativa tuttoggi.info, 15 aprile 2020 Il Garante regionale Anastasìa, “Non perdere l’occasione”. 140mila euro da Cassa Ammende, altri 14mila dal Ministero della giustizia. Il Programma di intervento della Cassa delle Ammende per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 negli Istituti Penitenziari ha destinato alla Regione Umbria 140mila euro, che si sommano ai circa 14mila euro messi a disposizione per l’Umbria dalla Direzione generale per l’esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia nell’ambito del Progetto di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa. “Con queste risorse - dichiara il Garante delle persone private della libertà della Regione Umbria, Stefano Anastasìa - si potrà far fronte all’ultima delle preclusioni per l’esecuzione della pena al domicilio prevista dalla legge 199/2010 e dal decreto Cura Italia, la mancanza di un domicilio idoneo, e spesso proprio di un domicilio, di molti detenuti che scontano pene o residui di pena brevi o brevissimi. Si tratta, in questo caso, di una condizione che nulla ha a che fare con la pericolosità del richiedente o con la meritevolezza della sua condotta, ma esclusivamente con il suo benessere economico e le sue relazioni familiari e sociali: se sei solo e senza risorse, resti in carcere, anche se saresti potuto andare ai domiciliari. Una evidente ingiustizia. Non perdiamo, dunque, l’occasione che è offerta da queste risorse per garantire quel minimo distanziamento sociale necessario anche in carcere per la prevenzione della diffusione del virus”. “Gli uffici di sorveglianza, gli istituti penitenziari e gli uffici di esecuzione penale esterna - continua Anastasìa - stanno lavorando senza sosta per valutare le persone ammissibili a forme di esecuzione penale esterna, tutti consapevoli della necessità di ridurre le presenze in carcere in questo momento di emergenza. Certo, sarebbero servite misure più coraggiose per ridurre la popolazione detenuta e speriamo che altre ne vengano, ma nel frattempo bisogna evitare che istanze accoglibili di esecuzione di pena al domicilio siano accantonate o, peggio, rigettate per il solo fatto che i potenziali beneficiari non abbiano una casa e qualcuno disposto ad accoglierli. Faccio dunque appello agli enti di promozione sociale, alle associazioni di volontariato e a quanti altri possano intervenire in questo senso affinché manifestino la loro generosità e il loro impegno, rispondendo ai bandi che verranno fatti dalla Regione e dall’Uffici interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna”. Abruzzo. Sos carceri: emergenze ad Avezzano, Sulmona e Teramo di Pierluigi Palladini espressione24.it, 15 aprile 2020 È allarme carceri in Abruzzo. Problemi vecchi e nuovi, infatti, stanno rendendo sempre più difficili le condizioni sia per i detenuti che quelle per chi nel carcere ci lavora quotidianamente come gli agenti penitenziari. Il responsabile del settore Polizia carceraria della Cgil, Giuseppe Merola, ha scritto una lettera al Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone, e ad altre autorità carcerarie, oltre ai vertici della suddetta organizzazione, per una aggressione avvenuta a Teramo. Un agente, infatti, è stato colpito da un detenuto con problemi psichiatrici. Stefania Pezzopane, invece, ha scritto una interrogazione la Governo per sapere cosa si intenda fare per la vicenda dei contagi da Covid-19 nel penitenziario di Sulmona. Ad Avezzano, dopo la segnalazione dell’avvocato Roberto Verdecchia per un giovane marsicano ex detenuto perché dichiarato semi incapace di intendere e volere, si attende che, dopo quasi sei mesi, si trovi un posto in una Rems (Residenza per l’Espiazione Misure di Sicurezza) dove ricoverare, come ordinato dal giudice, lo stesso ragazzo marsicano. Questa la nota di Giuseppe Merola della Cgil: “Egregio Provveditore, corre il doveroso obbligo, da parte di questo Coordinamento Regionale, stigmatizzare il grave evento verificatosi, nella giornata del 13 aprile ultimo scorso, presso l’Istituto indicato in oggetto. Nella fattispecie, un detenuto (con problematiche di natura psichiatrica) ha aggredito fisicamente un poliziotto penitenziario. Detto ciò, appare indispensabile chiederLe un immediato intervento in tal senso, nell’opportuna ed improcrastinabile misura di un trasferimento, del detenuto argomentato, presso altro penitenziario, considerato l’interessamento dello stesso in pregressi ed analoghi episodi. Pertanto, onde arginare ulteriori ed eventuali compromissione dei profili di ordine e sicurezza e al fine di preservare l’incolumità psico-fisica di tutta la collettività penitenziaria, Voglia la S.V. dare giusto seguito a quanto sopra esposto e richiesto”. Sintetica Stefania Pezzopane nel suo documento, inviato al Governo e relativo alle vicende che si starebbero verificando all’interno della casa Circondariale di Sulmona: “Agenti di Polizia Penitenziaria di stanza presso la Casa di Reclusione di Sulmona sono risultati positivi al Covid-19 e sono attualmente ricoverati presso strutture ospedaliere. Sul territorio nazionale vi sono più di cento poliziotti penitenziari positivi al Covid-19 ed è necessario ed urgente che vengano valutati, nelle proprie competenze politiche-governative, interventi in tal senso, così da poter assicurare i test argomentati a tutti gli agenti penitenziari in servizio presso le strutture delle Regioni Abruzzo e Molise- scrive la Pezzopane nell’interrogazione presentata al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministero della Salute e al Ministero dell’Interno. Alla luce dei fatti sopra riportati quali misure - chiede la deputata dem - compreso i test sierologici, il Governo intenda adottare al fine di tutelare la salute del personale di Polizia Penitenziaria. La tutela di tutto il personale che opera all’interno delle carceri è essenziale per dare sicurezza a loro e alle loro famiglie, ma anche a tutti i detenuti - conclude - anch’essi da sottoporre ad ogni forma di tutela della loro salute”. Resta in attesa ancora il giovane marsicano da ricoverare in una Rems della regione, come deciso dal Gip del Tribunale di Avezzano. Il ragazzo, sotto processo per maltrattamenti in famiglia ai danni dei genitori, ad una perizia psichiatrica, è risultato semi incapace di intendere e di volere a causa di sopraggiunte psicopatologie che sarebbero state causate dal forte uso di stupefacenti. Da sei mesi l’avvocato Verdecchia di Avezzano sta battendo ogni pista per ottenere il ricovero. Una necessità sia per l’incolumità del giovane che di quella dei familiari e delle guardie carcerarie. Una vicenda scandalosa che mette fortemente in rilievo le gravissime carenze presenti in due settori vitali di uno Stato come Sanità e Giustizia. Toscana. Fanfani, ex sindaco di Arezzo, verso la nomina a Garante dei detenuti askanews.it, 15 aprile 2020 La Toscana è a un passo dalla nomina del nuovo Garante dei diritti dei detenuti. Domani, mercoledì 15 aprile in videoconferenza, il Consiglio regionale indicherà Giuseppe Fanfani “colmando un vuoto dovuto anche all’emergenza sanitaria” spiega il presidente della commissione Affari Istituzionali Giacomo Bugliani. Quella del Garante dei detenuti “è tra le principali figure di garanzia del nostro ordinamento regionale. In commissione abbiamo attentamente analizzato e approfondito le diverse autocandidature pervenute cercando sempre di arrivare ad una convergenza politica quanto più ampia possibile” ricorda Bugliani. “Fanfani è persona di competenza consolidata, necessaria a rivestire un ruolo tanto importante e strategico, ancora più necessario in questi giorni di difficili restrizioni e limitazioni anche dentro I nostri istituti di pena. Sono certo - prosegue il presidente della commissione - che il nuovo Garante saprà interpretare il sentimento dei detenuti e dare risposte concrete”. Giuseppe Fanfani, è stato deputato in Parlamento, oltre che sindaco di Arezzo per due mandati consecutivi (dal 2006 al 2014). Dal 2014 al 2018 è stato componente del Consiglio superiore della magistratura. Prenderà il posto di Franco Corleone che ha ricoperto la carica dal 2013. Milano. Tutte le domande sulla rivolta nel carcere di Opera di Giuseppe Rizzo Internazionale, 15 aprile 2020 La notte del 9 marzo, mentre buona parte del paese aspettava il discorso con cui Giuseppe Conte avrebbe messo l’Italia in quarantena, qualche decina di persone era davanti al carcere Opera di Milano. Da qualche ora, sui loro telefoni girava la voce che nell’istituto fosse scoppiata una rivolta e che fossero in corso delle violenze. Dicono che qualcuno della zona gli aveva spedito un video dove si vedeva del fumo uscire dalle sbarre delle finestre. E che qualcun altro aveva ricevuto delle telefonate dai detenuti in cui si diceva che la situazione era precipitata. Come sempre quando succede qualcosa, le prime ad arrivare sono state le donne: le mogli, le figlie e le madri dei detenuti. Quel giorno avevano fatto in tempo a vedere il sole spegnersi su Opera prima di notare che le luci dell’istituto non si accendevano. Fuori, ad aspettarle e a impedire che si avvicinassero troppo, c’erano le forze dell’ordine. Per ore si sarebbero confrontate con loro, chiedendogli cosa stava succedendo. A mezzanotte anche le ultime se ne sarebbero tornate a casa. Nessuna di loro avrebbe ottenuto delle risposte. Tra le decine di proteste e sommosse avvenute nelle carceri di tutto il paese in quei giorni per via della sospensione dei colloqui con i familiari, delle condizioni invivibili delle galere e della paura del contagio, quella di Opera è una delle meno raccontate. Di San Vittore si sono viste le foto dei detenuti sui tetti, di Poggioreale i video dei familiari davanti all’ingresso, di Modena si sono lette le notizie terribili sulle persone morte. La rivolta in una delle prigioni più grandi d’Italia - aperta nel 1987 per accogliere 900 persone, oggi ne ospita più di 1.300 - non sembra invece avere lasciato tracce. Eppure le donne che erano lì la sera del 9 marzo, e altre che ci sono andate nei giorni successivi perché preoccupate, dicono che quelle tracce ci sono e parlano di violenze. Per farsi ascoltare hanno raccontato quello che sanno al Garante nazionale dei diritti dei detenuti e all’associazione Antigone. Gli esposti - In casi del genere il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e il suo gruppo raccolgono quante più testimonianze possibili all’interno di un carcere, e cercano la collaborazione del dipartimento di amministrazione penitenziaria. Ma in un mondo in cui tutto è stato sospeso, il sistema carcerario italiano è diventato ancora più impenetrabile. Dal 7 marzo, una delle misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus ha lasciato fuori i familiari, i volontari e le associazioni. “Questo impedisce il nostro solito lavoro, è una situazione del tutto eccezionale”, dice Gonnella, “ma il numero delle persone che si sono rivolte a noi e la concordanza nei loro racconti, ci ha spinto a fare un esposto alla procura della repubblica di Milano”. Anche il garante ha scelto di farlo. Oltre alla “sostanziale omogeneità” delle denunce, a convincere Mauro Palma a rivolgersi al procuratore Francesco Greco è stato un particolare insolito. “Io ho accesso alla raccolta degli eventi critici che i singoli istituti comunicano al dipartimento di amministrazione penitenziaria”, dice Palma. “Di solito in casi del genere ci sono sempre segnalazioni che riguardano i detenuti. Spesso trovi un rapporto che magari sminuisce quello che è successo, qualcosa tipo: ‘I detenuti non volevano rientrare nelle celle e così abbiamo dovuto usare la forza’. Da Opera però sono arrivate solo segnalazioni sulle ferite degli agenti. Altro non è menzionato”. È un fatto che insospettisce, dice Palma. Gli esposti sono atti formali, hanno una loro lingua e un loro codice, si può inciampare spesso nella loro lettura. Ma in un sistema a tenuta stagna come quello della galera - e specialmente di una galera in cui è avvenuta una rivolta - aiutano a ricostruire un puzzle difficile da ricomporre. In quello presentato dall’avvocata Simona Filippi per Antigone si legge che “nel tardo pomeriggio e nella serata del 9 marzo, a seguito della protesta messa in atto da un gruppo di detenuti del primo reparto, vi sarebbero stati due differenti interventi da parte delle forze dell’ordine (polizia di stato, polizia penitenziaria e carabinieri)”. Uno tra le 18 e le 18.30 “per fermare i detenuti in rivolta e per riportarli nelle loro celle” e uno dopo le 20.30. Il secondo “sarebbe stato attuato all’interno delle diverse celle ove le forze dell’ordine sarebbero entrate per colpire i detenuti che avevano effettuato la rivolta ma anche quelli che non vi avevano preso parte”. Il testo del garante va ancora più a fondo e mette insieme una serie di testimonianze. La madre di un ragazzo di 24 anni aveva parlato con il figlio domenica 8 marzo. Sembrava tranquillo. “Lunedì 9 marzo, intorno alle ore 17, ha iniziato a ricevere chiamate dall’interno dell’istituto di persone che dicevano ‘questa sera da qui non usciamo vivi’”. La donna è corsa verso il carcere, ma invece di unirsi a chi si trovava davanti alla struttura, ha raggiunto il “campo che si trova davanti alle finestre del primo reparto ed è riuscita a comunicare direttamente con il figlio”. Il ragazzo “le avrebbe detto che gli agenti sono entrati in dieci nelle celle (…) e che a lui hanno dato un calcio fortissimo nei testicoli e lo hanno colpito con forza sulla testa”. Il garante ha sentito anche il suo avvocato, a cui “la polizia ha detto di avere dato qualche ceffone ma che poteva stare tranquillo”. Un racconto ancora più dettagliato è quello fatto a Mauro Palma e alla sua squadra da una donna che ha cinque parenti a Opera. Il 14 marzo il marito l’avrebbe chiamata intorno alle quattro del pomeriggio e le avrebbe detto: “Il lunedì sera (il 9 marzo, ndr) tutti facevano la battitura in rivolta e qualcuno dei detenuti ha dato fuoco a dei materassi. Dopo un po’ sono entrati degli agenti antisommossa, hanno spento le luci e hanno picchiato tutti senza distinzioni. Ci sono dei ragazzi messi molto male”. Le parole dei familiari - A un certo punto dell’esposto del garante c’è un passaggio su una frase che colpisce. La riferisce la madre di un ragazzo italiano detenuto nel primo reparto di Opera. La donna dice di aver sentito il figlio il 9 marzo. Durante la telefonata, il ragazzo le avrebbe detto che “se gli fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto tenere presente da subito che non si sarebbe trattato di suicidio e nemmeno di assunzione di metadone”. È una frase che mi è stata ripetuta più o meno nella stessa forma da diverse donne con cui ho parlato nelle settimane successive alla rivolta nel carcere milanese. Per capirne i riferimenti bisogna tornare a quel 9 marzo. Da un paio di giorni le galere incendiavano l’aria già satura di incertezze di inizio marzo. Le notizie sulle proteste e sulle violenze in decine di istituti aprivano i telegiornali. A Foggia erano scappati diversi detenuti. A Modena le autorità avevano dichiarato che nove persone erano morte dopo aver assaltato le infermerie e aver preso troppo metadone. “Sentire mio figlio parlare di suicidio e metadone mi ha gelato il sangue”, dice al telefono la madre del ragazzo italiano. La donna preferisce restare anonima, ma vuole aggiungere la sua storia a quella di altre. Il figlio è stato condannato a dieci anni per rapina ed estorsione ed è in cella dal 2015. “Era irrequieto, aveva smesso di studiare e ha commesso degli errori. In galera ha fatto un suo percorso, ha ricominciato a studiare e prenderà il diploma”, dice. “L’ho risentito dopo una settimana e mi ha detto che hanno provato a dargli una manganellata in faccia, ma è riuscito a pararla con il braccio. È successo mentre lo stavano riportando in cella, poi l’hanno picchiato anche lì”. La donna dice di non aver chiesto al figlio se abbia partecipato alla rivolta, “ma di sicuro non è andato a nascondersi”. Sa che ci sono state violenze anche da parte dei detenuti e che gli agenti hanno dovuto usare la forza per fermarle, quello che non capisce è “perché picchiare mio figlio anche dopo”. Anche Federica, una ragazza di Milano che ha trent’anni e il fratello a Opera, parla delle violenze che avrebbe subìto il suo familiare e aggiunge che dopo la rivolta a lui come agli altri “hanno tolto la tv, il fornello, le ciabatte, le mutande e le magliette, qualsiasi cosa fosse infiammabile”. Sia lei sia altre donne sostengono che “gli fanno comprare solo acqua, sigarette e caffè, per il resto si devono accontentare del vitto, per questo dalle finestre gridavano di avere fame”. La madre del ragazzo in carcere per rapina ed estorsione racconta che “gli stanno trattenendo i soldi perché dicono che servono per risarcire i danni che hanno causato, ma prima bisognerebbe stabilire chi ha fatto cosa, e quantificare questi danni”. Ci sono diversi audio in cui si sentono i detenuti urlare di avere fame. Alfonsina Passariello ne ha il telefono pieno. Passariello ha 27 anni, è di Caserta ma vive a Milano. Nell’aprile 2019 ha sposato il marito proprio mentre lui era a Opera. Ci era finito l’anno prima per spaccio di droga. “Ha 33 anni, è da tempo che entra ed esce, sempre per spaccio”, dice Passariello. La donna sostiene di aver parlato con il marito più o meno due settimane dopo e che “la linea cadeva in continuazione. Mi ha detto che l’hanno picchiato il 10 marzo”. Sia lei sia la madre del ragazzo condannato per rapina ed estorsione fanno poi riferimento a un’altra presunta violenza che sarebbe avvenuta giorni dopo la rivolta. È l’unico caso, finora, in cui un detenuto ha scritto nero su bianco cosa gli sarebbe successo e ha presentato una denuncia al tribunale di Milano. Per questo vale la pena osservarlo da più vicino. Una denuncia - “Il giorno 21 del mese di marzo (…) dopo aver avuto un diverbio verbale con un agente intorno alle 13 per dei miei chiarimenti in proposito sui miei diritti per fare la spesa settimanale l’agente mi risponde in modo provocatorio”, si legge nella denuncia. “Alle 14:50 lo stesso agente entra in sezione in compagnia di 5-6 agenti (…) prendendomi sottobraccio e indirizzandomi verso la mia camera, il mio concellino viene rinchiuso nel bagno ed io vengo bloccato, e allo stesso tempo mi vengono ripetutamente dati calci e pugni”. Eugenio Losco, l’avvocato dell’uomo, dice che “ci sarebbero anche dei testimoni dalle celle vicine e dei referti”. A contattarlo è stata la moglie. La donna, che preferisce rimanere anonima, racconta di aver sentito il marito la mattina del 9 marzo: “Mi aveva detto che c’era malcontento, che si vociferava di alcuni contagiati”. Le voci erano state registrate anche da un’agenzia Ansa del 7 marzo, e non è difficile immaginare che ci abbiano messo poco a rimbalzare da una cella all’altra di Opera. “Voglio essere oggettiva. Io so che mio marito ha partecipato alla rivolta e che quando il magistrato di sorveglianza è andato a visitare il carcere gli ha mostrato i segni viola delle manganellate sul corpo”. La donna l’ha poi sentito al telefono il 17 marzo: “Mi è sembrato molto provato, ma mai come dopo il 21, quando l’hanno picchiato di nuovo. A me l’ha confermato lui stesso in una telefonata”. È in occasione di quella chiamata che torna il riferimento a quello che era successo a Modena. “Se ti dicono che mi sono suicidato o che sono morto per il metadone, non gli credere”, avrebbe detto l’uomo alla moglie. “Ho paura per lui. Ha una storia legata alla tossicodipendenza, è detenuto da dieci anni per rapina. In tutto questo tempo non ha mai denunciato le botte che ha preso, ma ora non ce la fa più. Vivo con l’ansia che mi chiamino e mi dicano che è successo qualcosa di brutto. Spero che sia trasferito subito”. Contattato per email e telefonicamente attraverso la segreteria del carcere, il direttore di Opera non ha risposto alle domande che sollevano questi racconti. Le parole dei familiari dei detenuti ora sono al vaglio della magistratura milanese. Gli inquirenti dovranno pesarle a una a una e decidere se aprire un’indagine o no. “Bisognerebbe agire il prima possibile, perché in casi del genere, più passano i giorni e più è complicato ricostruire cosa è successo”, dice Patrizio Gonnella di Antigone. Il problema è che in questa emergenza globale l’etichetta di normalità che vorremmo ritrovare su ogni aspetto delle nostre esistenze svanisce. Gli ingranaggi si inceppano, i rinvii si moltiplicano, il tempo si ferma. Tutto questo vale anche per la giustizia. In Italia giudici e tribunali devono rispettare delle restrizioni per evitare la diffusione del contagio. Fino all’11 maggio vanno avanti le convalide d’arresto e i processi chiesti dai detenuti in custodia cautelare, mentre tutto il resto è ridotto all’essenziale. Bisogna capire se per la procura di Milano le domande su una vicenda come quella di Opera rientrano nel concetto di essenziale. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Ci hanno picchiati, spogliati e obbligati a fare flessioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2020 “Non ci sono stati referti medici, ma ci sono telecamere dappertutto: basta che la magistratura acquisisca i video e così potrà vedere ciò che ci hanno fatto”. Sangue sui muri delle sezioni, i detenuti più colpiti dai pestaggi sono stati messi in isolamento, alcuni ne sono rimasti traumatizzati e appena sentono i rumori dei cancelli vanno in panico. Questa sarebbe la conseguenza dei presunti pestaggi avvenuti nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere ad opera di una squadretta antisommossa composta da qualche centinaio di agenti e che non opererebbe nel penitenziario sammaritano. Una mattanza che sarebbe iniziata alle 3 del pomeriggio fino alle 8 di sera. “Mentre ci picchiavano ci dicevano: “Siete munnezza, fate schifo, noi siamo lo Stato e qui comandiamo noi!”“, così riferisce a Il Dubbio un detenuto che è uscito da quel carcere due giorni fa ed ora è ai domiciliari. Il racconto è simile a quello che ha raccontato un altro ex detenuto sempre a Il Dubbio, come riportato nell’articolo di ieri. “Noi del reparto Nilo, appena giunta la notizia di un contagio da Covid-19 avvenuto nel reparto Tamigi attiguo al nostro, abbiamo fatto delle battiture per chiedere i tamponi e pretendere le distanze sociali visto che siamo in quattro dentro una cella”, spiega l’uomo. “Avevamo messo un lenzuolo al cancello, che poi avevamo tolto perché gli operatori penitenziari ci dissero che avrebbero fatto a tutti i tamponi”, prosegue il detenuto nel racconto, sottolineando che la protesta pacifica è quindi rientrata. “Ma il giorno dopo sono giunti qualche centinaia di agenti antisommossa con caschi blu e mascherine e hanno invaso tutte le sezioni del nostro reparto”, prosegue nel racconto. “A quel punto ci hanno massacrato di botte, urlandoci “Non ci guardate in faccia” e via giù di calci e schiaffi, e dietro le spalle ci colpivano con in manganelli”. Ma non sarebbe finita qui. “A tanti di noi ci facevano spogliare - racconta sempre il detenuto - e ci obbligavano a fare le flessioni. Siamo stati trattati come persone senza dignità!”. Anche lui - come ci ha raccontato l’ex detenuto - spiega che lo hanno obbligato a farsi la barba. “Sembrava di stare in un regime fascista, ci hanno fatto di tutto utilizzando una violenza fisica e psicologica”, racconta ancora. Il giorno dopo, avrebbero fatto la conta obbligandoli a stare con le mani dietro la schiena e con tanto di divieto di fare le videochiamate. “Non ci hanno fatto nessun referto medico - sottolinea l’uomo -, ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere è di massima sicurezza e ci sono telecamere dappertutto, basterebbe che la magistratura le acquisisca e così potrà vedere con i suoi occhi ciò che ci hanno fatto”. Una mattanza che sarebbe durata cinque ore ed è improbabile che non si possa scorgere nulla attraverso i nastri della videosorveglianza. Nel frattempo da ieri la Procura di Santa Maria Capua Vetere sta indagando su quanto è avvenuto nei giorni scorsi nel carcere. L’ufficio inquirente è impegnato ad accertare se ci siano state o meno presunte violenze sia ai danni dei detenuti sia nei confronti della Polizia Penitenziaria. Il Garante regionale della Campania Samuele Ciambriello - attraverso le testimonianze raccolte dall’associazione Antigone e la lista dei nominativi dei detenuti pronti a testimoniare -, nei giorni scorsi aveva inviato una richiesta al capo della Procura sammaritana, Maria Antonietta Troncone. Le ha chiesto di accertare se siano attendibili i racconti che emergono dalle telefonate e se siano stati commessi episodi penalmente rilevanti da parte di alcuni agenti penitenziari. Nei giorni scorsi si era attivato anche Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli, rendendo pubbliche attraverso i social network le foto del detenuto (sentito ieri da Il Dubbio) che venerdì scorso era uscito dal carcere. Foto che presentano ecchimosi per tutto il corpo e abbiamo pubblicato anche su queste stesse pagine. Venezia. “La salute dei detenuti va tutelata” Il Gazzettino, 15 aprile 2020 “Svuotare il carcere in fretta: prevenire è necessario”. Lo chiede la Camera penale veneziana, esprimendo preoccupazione per la situazione vissuta all’interno dei penitenziari da quando è scoppiata l’emergenza coronavirus. “Assistiamo attoniti a uno stallo preoccupante nelle decisioni di chi - politica, pubblici amministratori, magistratura - dovrebbe farsi carico di interventi più coraggiosi a tutela della salute nel carcere quale parte della collettività - si legge in una comunicazione inviata a tutte le istituzioni - Di fronte alla pandemia, qualche decina di detenuti scarcerati nel Paese grazie al Cura Italia costituiscono un sintomo di inerzia”. I penalisti si chiedono se in carcere siano utilizzati i previsti dispositivi di protezione e si stia facendo tutto il possibile per rendere i penitenziari meno affollati e dunque più conformi alle esigenze di salute. Nel frattempo sono stati sospesi i colloqui tra i reclusi e i loro familiari (sostituiti da chiamate via Skype), la concessione di permessi premio e il regime di semilibertà, così come di fatto anche il lavoro esterno. A ciò si aggiunge che i previsti braccialetti elettronici non ci sono con il risultato che i detenuti che ne hanno i requisiti non possono ugualmente uscire. “La risposta normativa è all’evidenza del tutto insufficiente e risibile”, denuncia la Camera penale, chiedendo interventi concreti e un’applicazione nella giurisprudenza locale meno rigida e miope. “Il rischio di contagio da Covid-19 è rilevante in sé - evidenziano gli avvocati - in particolare per taluni soggetti, perché nel contesto penitenziario è impossibile una gestione sanitaria adeguata una volta che il virus sia entrato in carcere”. La Camera penale sottolinea come la tutela da garantire ai detenuti riguarda l’intera collettività, in quanto focolai interni “si riverserebbero sulla comunità esterna” ed elenca una serie di provvedimenti con cui la magistratura di sorveglianza, su scala nazionale, è stato affrontato il problema delle condizioni di salute, di particolare gravità ma anche per condannati in esecuzione pena per gravi reati, “superando la tradizionale accezione dell’incompatibilità tra condizioni di salute e stato detentivo, affermando che l’esecuzione della pena deve trovare un limite nella tutela del diritto alla salute, riconosciuto dalla nostra Costituzione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Trento. “In carcere situazione esplosiva e sei contagi” di Donatello Baldo Corriere del Trentino, 15 aprile 2020 “In carcere la situazione è esplosiva, basta una scintilla e salta tutto in aria”. Luca (nome di fantasia) era detenuto nella Casa circondariale di Spini di Gardolo, scarcerato il 9 aprile scorso. Racconta la sua esperienza da recluso durante l’emergenza da coronavirus: “Nessuna informazione, non ti dicono niente, si vive nell’ansia e nella paura. I detenuti sono al limite della sopportazione”. Non eravate al corrente della situazione in Italia e nel mondo? “Certo, sapevamo dalle notizie che arrivavano dalla tv. Sapevamo delle sommosse in altri penitenziari a livello nazionale, dell’epidemia che coinvolgeva ormai tutto il Paese. Eravamo allarmati”. La direzione, all’inizio dell’emergenza, ha messo in atto misure per il contenimento del contagio? “Hanno messo alcuni cartelli in cui veniva chiesto di mantenere il distanziamento sociale. Una presa in giro per chi è in un carcere sovraffollato. Ma fino a poche settimane fa tutto veniva sottovalutato: nessuno girava con le mascherine, né gli assistenti, né le guardie e nemmeno gli infermieri. Poi si è scoperto che due detenuti erano positivi al coronavirus”. E a quel punto cos’è successo? “A quel punto tutti hanno iniziato a indossare le maschere, assistenti, guardie e infermieri. Passavano a misurare la febbre ai detenuti. I positivi sono stati messi in isolamento, nelle celle di transito, quelle di solito riservate ai nuovi detenuti che devono sottoporsi alle visite mediche. Il giorno successivo, nelle sezioni da cui provenivano i contagiati, sono stati fatti i tamponi. Poi si è proceduto con altri tamponi e ora sono usciti altri sei positivi”. Un attimo, ufficialmente i contagiati tra i detenuti sono quattro, non sei. È sicuro di queste informazioni? “Nessuno ci diceva niente, né dei detenuti contagiati né delle guardie contagiate. Ma “radio carcere” funziona sempre: una finestra delle sezioni si affaccia sulla zona di transito, noi gridavamo e quelli in isolamento con il coronavirus ci informavano. Erano lì in sei. Questo so”. Com’era il clima in quei giorni? “Teso, tesissimo. Le informazioni venivano negate, nessuno rassicurava i detenuti sulla situazione interna, erano sospese le attività con i volontari, per noi importantissimi. Sapevamo cosa stava succedendo fuori, è ovvio che il clima era di ansia e di paura. Una situazione potenzialmente esplosiva. Ci sono state delle proteste, senza incidenti, delle proteste civili, delle richieste di chiarimenti. Ci hanno detto di non preoccuparci, tutto qui”. C’è chi pensa che il carcere sia il luogo più sicuro in questi giorni. I detenuti sono chiusi in cella, non hanno contatti con l’esterno. Ma è così? “Infatti si è visto quale sia il livello di sicurezza: anche nel carcere di Trento c’è il coronavirus. E poi, non è che i detenuti siano chiusi tutto il giorno in cella, infatti le celle sono sempre rimaste aperte ed era possibile muoversi liberamente nella propria sezione, e ognuna conta una quarantina di detenuti. Ma in carcere ci sono agenti e assistenti che entrano e escono, e tra le sezioni girano gli scopini, gli spesini, detenuti che svolgono lavoretti che li portano in contatto con tutti”. Queste mansioni sono ora sospese? “Fino al giorno in cui c’ero io no, anche se i detenuti che le svolgevano erano stati portati tutti in infermeria. Ma continuavano a muoversi. Vorrei però dire altro sulla sicurezza dello stare in carcere...”. Prego. “Ci sono persone anziane, persone molto malate, persone a rischio nel caso contraggano il virus. Hanno paura, sono terrorizzate di ammalarsi, vivono nell’ansia. Persone che potrebbero uscire per problemi di salute o perché sono ormai a fine pena. Oltre che detenuti, sono persone”. Tolmezzo (Ud). In carcere un agente positivo, negativi altri 88 tamponi Il Gazzettino, 15 aprile 2020 Sale fortunatamente soltanto di una unità il numero dei contagi all’interno del penitenziario di massima sicurezza di Tolmezzo. Si tratta di un dipendente della struttura che ora è stato posto in isolamento domiciliare. Questo l’esito dei tamponi effettuati dal Dipartimento prevenzione dell’azienda sanitaria agli agenti della polizia penitenziaria e agli operatori sanitari del carcere carnico in seguito alle 5 positività riscontrate sabato tra i detenuti. In totale - questi i dati forniti dal sindaco Francesco Brollo - sono stati effettuati 76 tamponi ai dipendenti, di cui 75 negativi e uno positivo, 13 agli operatori sanitari, tutti negativi, e uno a un detenuto anche in questo caso negativo. I cinque detenuti positivi, di cui 3 asintomatici, sono in isolamento e le loro condizioni generali non destano preoccupazione. L’agente penitenziario risultato positivo - spiega ancora il sindaco - è stato posto in isolamento domiciliare. I familiari sono stati posti in quarantena ed è stato programmato un tampone di controllo. Il fatto che la situazione non abbia dato l’esito temuto, con un solo positivo che ritengo comunque già troppo, non ci deve far abbassare l’attenzione e continuare ad esigere dalle direzioni ministeriali il rispetto per una comunità che si sta dimostrando attenta alle misure di contenimento del virus, ha aggiunto Brollo che si è confrontato con la direttrice Irene Iannucci. I 5 detenuti positivi sono in isolamento, 3 risultano asintomatici e le condizioni generali non destano preoccupazione. Il personale in contatto con loro è dotato di Dispositivi di protezione individuale (Tuta, occhiali, mascherina e guanti). Ho ribadito alla direttrice l’assoluta contrarietà a nuovi arrivi ha spiegato ancora il sindaco - ma lei medesima è già convintamente su questa linea e lo ha già reso noto agli organi competenti, così come la richiesta di procedere all’allontanamento di chi già positivo (cosa più difficile da ottenere). Restano valide per Brollo, tutte le richieste fatte nella lettera inviata al ministro Bonafede, per avere più attenzione e rispetto per il nostro territorio; ho visto con piacere che si sono associati i parlamentari della zona (dopo Tondo, Bubisutti della Lega e Rizzetto di Fratelli d’Italia) e il vice presidente del Consiglio Regionale Mazzolini. Questa è una rivendicazione trasversale di rispetto e dignità territoriale ha concluso. In mattinata sulla questione si era espresso anche il Vicegovernatore del Friuli Venezia Giulia Riccardo Riccardi: Non so se possiamo chiamarla emergenza carceri. Certo, questa situazione ha determinato una preoccupazione sulla quale siamo già intervenuti con screening. Dalla Fns Cisl regionale sono arrivati gli inviti a sette interventi urgenti per scongiurare un aggravamento della situazione, già esplosiva, registrata nelle carceri del Friuli Venezia Giulia, tra questi la sanificazione di tutti gli ambienti detentivi e non; la fornitura di termometri elettronici e mascherine FFP2 e FFP3, tamponi per tutti gli operatori degli Istituti di Pena di Trieste, Gorizia, Pordenone e Tolmezzo, fatta eccezione per Udine, la cui Direzione ha già provveduto. Verona. Tamponi a rilento nel carcere di Montorio: “Su 450 detenuti, 60 controllati” veronasera.it, 15 aprile 2020 E sui 60 sottoposti a test, 25 sono risultati positivi. A questi si aggiungono i 17 contagiati tra gli agenti della Polizia penitenziaria. Fp Cgil e il senatore Vincenzo D’Arienzo chiedono interventi immediati. Il coronavirus è entrato nel carcere di Verona. Lo avevano segnalato i sindacati alle autorità alla fine di marzo e sono tornati a farlo ieri, 13 aprile, con una lettera ancora più dettagliata inviata al dipartimento amministrazione penitenziaria di Roma, al provveditorato regionale di Padova, al prefetto di Verona, alla direzione del carcere, alla Regione Veneto, all’Ulss 9 Scaligera, alla protezione civile e per conoscenza anche alla procura di Verona. “Ben 17 agenti della polizia penitenziaria del carcere di Montorio e 25 detenuti sono risultati positivi al test a tampone - scrive Elisabetta Rossoni della Fp Cgil - Tra gli agenti positivi, uno è ancora ricoverato in ospedale, gli altri sono stati posti in quarantena domiciliare in caserma o nelle proprie abitazioni. Tra i detenuti, i 25 positivi sono stati individuati tra i 60 esaminati, ma la popolazione complessiva è di 450 tra uomini e donne. Tutti sono stati già isolati in apposite sezioni, ma il margine degli spazi interni appare insufficiente per la ottimale gestione dei casi, specie se i numeri dovessero ancora crescere”. I contagiati dal coronavirus nel carcere di Montorio sono dunque 42, tra agenti e detenuti, ma non tutti sono stati sottoposti ai test a tampone. Per gli agenti si procede a gruppi di 10 ogni giorno, ma la preoccupazione delle organizzazioni dei lavoratori è che i dispositivi di protezione individuale come le mascherine, le tute e gli occhiali non siano abbastanza per coloro che prestano servizio nelle aree del penitenziario in cui sono stati isolati i detenuti infettati dal virus. “Non vorremmo - aggiunge Rossoni - che quanto di preoccupante avvenuto in alcune residenze sanitarie per anziani si replichi nei penitenziari”. La Fp Cgil chiede dunque di agire rapidamente, creando una task force interna al carcere di Montorio per monitorare la situazione e per approvvigionare il personale della polizia penitenziaria e i detenuti dei dispositivi di protezione. Il sindacato chiede anche di completare nel più breve tempo possibile lo screening di tutti coloro che si trovano nel carcere, quindi di fare il test a tampone a tutti e subito, e di misurare la temperatura corporea a tutti coloro che fanno richiesta di accesso alla casa circondariale. Servirebbe, inoltre, anche una task force esterna al carcere, fatta di medici ed infermieri, per la gestione di chi è positivo al coronavirus. E, infine, la Fp Cgil chiede la possibilità di sfollare il penitenziario, in modo che per ogni cella ci sia un solo detenuto. “È il momento di agire - aggiunge il senatore veronese del Partito Democratico Vincenzo D’Arienzo - Nessuno abbandoni la polizia penitenziaria e gli operatori del carcere a Montorio”. Il parlamentare del PD ha nuovamente raccolto l’appello dei sindacati e chiede alle autorità competenti di completare in fretta i tamponi a coloro che sono rinchiusi o che lavorano nella casa circondariale scaligera. “La tutela della salute della popolazione carceraria e dei lavoratori penitenziari non ammette deroghe - aggiunge D’Arienzo. In quel luogo chiuso il contagio si diffonde velocissimo. Servono fatti per scongiurare ogni legittima preoccupazione”. Vicenza. Umanità reclusa e mancanza di dispositivi: la denuncia della Camera penale vicenzatoday.it, 15 aprile 2020 Arrestati che non hanno potuto assistere in video collegamento all’udienza di convalida del loro arresto piuttosto che avvocati che si sono visti rigettare una richiesta di domiciliari. Sono queste le situazioni che vengono segnalate dal Consiglio direttivo. Il carcere, forse più di ogni altro luogo, segna la misura con la quale uno Stato autenticamente democratico mette alla prova sé stesso, i propri limiti, la propria tenuta. Sono di questi giorni due notizie che riguardano il carcere di Vicenza segnalate dalla Camera penale berica. “La prima - spiega in una nota il consiglio direttivo - riguarda due avvocati, entrambi iscritti all’Unione delle Camere Penali Italiane che, dopo aver presentato un’istanza di detenzione domiciliare per un loro assistito (rigettata da parte del Tribunale di Sorveglianza), si sono rivolti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; quest’ultima ha deciso di chiedere direttamente al Governo nazionale quali siano le condizioni del carcere di Vicenza e le condizioni del richiedente, nonché quali misure di sicurezza siano state assunte dalle autorità competenti per proteggere il richiedente e gli altri detenuti dal rischio di contrarre il Covid-19”. “La seconda - continuano - è relativa all’arresto di due persone, condotte poi alla Casa circondariale di Vicenza, in attesa della celebrazione dell’udienza di convalida. Udienza che, in ragione di misure urgenti adottate a seguito dell’emergenza Covid-19, gli indagati non soltanto non hanno potuto partecipare fisicamente e personalmente, ma neppure in video- collegamento dalla stanza appositamente creata presso il carcere, perché non vi erano in dotazione sufficienti dispositivi di protezioni ad accompagnarli in sicurezza”. “Se queste sono le condizioni in cui facciamo vivere l’umanità reclusa - chiosano - allora viene davvero spontaneo chiedersi se il nostro Paese sia ancora in grado di garantire a tutti un grado minimo - ancorché ridotto, oggi, data l’emergenza - di tutele. Non possiamo neppure pensare che un detenuto non possa partecipare (neppure in video- collegamento!) ad un’udienza che riguarda la sua libertà personale, facendosi vedere e vedendo in faccia il giudice che deciderà della sua vicenda, sol perché non vi sono dispositivi di protezione sufficienti ad accompagnarlo da una stanza ad un’altra”. “Proprio per questo - ed a maggior ragione - attendiamo con grande trepidazione le risposte che il Governo fornirà alla Corte Europea sulla prima vicenda. Il carcere - sottolineano - non può e non dev’essere considerato come una sorta di “terra di nessuno”: anche oltrepassata la sua porta dev’essere garantito, con ogni misura necessaria e possibile, il diritto alla salute dei detenuti e di tutto il personale che vi opera. Così come ad ogni arrestato dev’essere garantito di poter partecipare a un’udienza, pur con le limitazioni che risultano strettamente necessarie per ragioni di tutela sanitaria”. “Se il problema è (anche) la mancanza di dispositivi di protezione in carcere - concludono - occorre intervenire immediatamente e senza ritardo fornendo mascherine e ogni altro presidio necessario a tutelare la salute del personale e dei detenuti”. Alessandria. I Garanti: “Tra i detenuti la paura del contagio è alle stelle” telecitynews24.it, 15 aprile 2020 In questi giorni le varie figure di garanzia per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà sono letteralmente subissati da segnalazioni, istanze, denunce in riferimento alla vita detentiva nelle nostre carceri nel pieno dell’emergenza Covid-19. In particolare ci è giunta - in forma anonima - una lettera che crediamo significativa dall’interno della Casa Circondariale “don Soria” di Alessandria. Il vecchio carcere collocato in centro città purtroppo può essere una perfetta cartina di tornasole del clima e delle tensioni delle 189 carceri d’Italia. I detenuti hanno scritto “Noi non vogliamo più che tutto ciò debba ripetersi”, riferendosi ai tragici episodi di rivolta violenta che sono esplosi il 7, 8 e 9 marzo scorsi e che purtroppo hanno anche riguardato le due carceri alessandrine. In particolare la Casa di Reclusione San Michele ha subito danneggiamenti alle celle che hanno ridotto la capienza dell’Istituto di 50 posti, in un contesto che già soffriva di grave sovraffollamento (393 detenuti su 237 posti disponibili). La comunità penitenziaria piemontese, infatti, conta 4.514 detenuti, ristretti nelle 13 carceri per adulti con una capienza effettiva complessiva di appena 3.783 posti: 731 detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Vi sono istituti piemontesi con un indice di sovraffollamento ben sopra la già alta media regionale (120%): Alessandria San Michele 153%, Alba e Ivrea 142%, Asti 139%, Biella 138%, Vercelli 135%. La Casa Circondariale don Soria conta 230 detenuti su 210 posti disponibili. I detenuti hanno scritto “Noi vogliano solo che la nostra voce, i nostri diritti umani, possano uscire da queste alte mura che ci dividono dal mondo esterno.” E poi “La situazione per colpa del corona virus fuori la conosciamo bene, anche noi abbiamo le nostre famiglie che lottano insieme a voi e tutto il resto del mondo contro questa tragica situazione. Quello che vogliamo che si sappia e che noi non ce l’abbiamo personalmente con la Direttrice del carcere e tutto il suo organico, che ogni giorno fanno il loro dovere, anche loro nel limite del possibile, in quanto siamo assolutamente sprovvisti di tamponi, mascherine, medicinali e cure mediche specialistiche per tantissimi detenuti che hanno gravi patologie”. E hanno rimarcato che “Ormai la paura del contagio, qui all’interno, è alle stelle, e l’ansia, l’agitazione, il nervosismo per la perdita di sonno. … L’aumento di influenzati con febbre e i tanti detenuti con pene al di sotto i 3 anni che potrebbero uscire con i domiciliari, ma nessuno esce … Tutto questo crea una tensione altissima”. E poi: “Abbiamo mogli, figli e parenti ammalati gravi fuori, e ci vengono rigettate ogni forma di richiesta … la nostra non è una protesta con la Direzione del carcere, che si fa in 4 per noi, è una protesta verso il sistema giudiziario e verso un Governo e uno Stato che se ne frega”. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha inviato un appello pubblico al Presidente della Repubblica, alle Camere, ai Presidenti di Regione, di Provincia, di Città Metropolitana ed ai Sindaci sulla crisi Covid-19 in ambito penitenziario. Si tratta di una richiesta pressante affinché si adottino misure straordinarie ed urgenti per “portare nel giro di pochi giorni la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare effettivamente disponibile”. Prima che sia troppo tardi. I detenuti del “don Soria” concludono la loro lettera con una domanda, che facciamo nostra: “voi fuori evitate gli assembramenti e noi qui sovraffollati cosa dovremmo fare per non contagiarci?” Bolzano. Carcere, al via la sanificazione di Alan Conti Corriere dell’Alto Adige, 15 aprile 2020 Dopo il primo agente contagiato in campo gli Alpini specializzati. Il carcere di via Dante ospita, al momento, circa 85 detenuti e 60 agenti di Polizia penitenziaria. Il primo contagio da coronavirus nel carcere di Bolzano aveva creato qualche apprensione tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria del capoluogo. Si tratta, infatti, di un luogo molto delicato per il rischio di formazione di un focolaio e le difficoltà che possono innescarsi nel curare pazienti gravi con restrizioni della libertà personale. Ma ieri è partita l’operazione di sanificazione. Il primo contagio, comunque, riguarda un paziente asintomatico (un agente, come riportato domenica dal Corriere dell’Alto Adige) e le contromisure sono state rapide. In particolare sono stati coinvolti i soldati dell’esercito impegnato in questi giorni nelle operazioni di supporto alle forze dell’ordine e della società civile. Ieri, dunque, le Truppe Alpine hanno avviato un progetto di igienizzazione approfondita di alcuni locali della casa circondariale di via Dante. Si tratta di un episodio unico perché è la prima volta che sul territorio provinciale le forze armate procedono. Dopo i test a tappeto, si è registrato il primo contagio da coronavirus nel carcere di Bolzano: si tratta di un agente asintomatico. Ieri è partita la sanificazione degli spazi comuni, affidata agli esperti del reggimento Julia di Merano. Venerdì atteso un carico di disinfettante e mascherine lavabili dalla Hollu Systemhygiene con un’operazione di questo tipo in supporto all’organizzazione del carcere del capoluogo e al di fuori di luoghi strettamente militari. L’intervento è stato curato da soldati esperti in questo tipo di operazioni: gli uomini del nucleo specializzato di disinfettori del reggimento logistico Julia di Merano. Professionisti che hanno maturato esperienze di sanificazione anche in scenari molto particolari ed estremi all’estero al seguito delle operazioni logistiche dell’esercito italiano. La richiesta era arrivata direttamente dalla direzione centrale della casa circondariale alle Truppe Alpine. I militari si sono concentrati nel disinfettare alcune zone promiscue che sono quelle più soggette al contatto interpersonale e quindi potenzialmente più pericolose per lo sviluppo di eventuali focolai. Le igienizzazioni, inoltre, vengono eseguite con regolarità in questi giorni nelle infrastrutture e su tutti i mezzi e materiali in dotazione delle forze armate. n particolare a supporto dei cinquanta uomini del sesto reggimento alpini che, nell’ambito dell’iniziativa “Strade Sicure”, si stanno adoperando nei controlli del rispetto delle misure di contenimento da parte dei cittadini al fianco delle forze dell’ordine. La situazione in carcere, comunque, viene seguita con attenzione anche da alcuni privati. La ditta austriaca Hollu Systemhygiene Srl, infatti, ha deciso di aiutare la casa circondariale del capoluogo altoatesino: nei prossimi giorni consegnerà alla struttura un carico di disinfettanti e protezioni facciali lavabili per i detenuti. “Intendiamo aiutarli perché immaginiamo possano vivere una situazione particolarmente difficile in questo momento - fanno sapere. Siamo vicini anche a loro e alle loro famiglie che immaginiamo in ansia”. La consegna è prevista per venerdì, rendendo tutto il materiale subito disponibile. Bari. Coronavirus, class action per il sovraffollamento del carcere La Repubblica, 15 aprile 2020 A fronte di una capienza di 299 persone, accoglie oltre 434 detenuti. Secondo i due avvocati Alessio Carlucci e Luigi Paccione “gli spazi detentivi non consentono alle persone ristrette di rispettare le misure governative. Una class action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere di Bari nell’ambito dell’emergenza coronavirus è stata promossa dagli avvocati baresi Luigi Paccione e Alessio Carlucci e patrocinata dall’associazione “Nessuno tocchi Caino - Spes contra spem”. Con l’azione di iniziativa popolare nei confronti del Governo, trasmessa sabato 11 aprile al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro della Giustizia, al procuratore della Repubblica di Bari e al sindaco del capoluogo pugliese, Antonio Decaro, i legali partono dalla constatazione che “la Casa circondariale di Bari, ubicata nel tessuto urbano della città capoluogo, è afflitta da sovraffollamento perché, a fronte di una capienza di 299 persone, accoglie oltre 434 detenuti” (dato aggiornato al 4 marzo scorso). Secondo i due avvocati “gli spazi detentivi non consentono alle persone ristrette di rispettare le misure governative in tema di ‘mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro’ e di ‘divieto di assembramento’“, ritenendo che “detta oggettiva impossibilità si traduce nell’aggravamento dei rischi per la salute dei detenuti e del personale penitenziario”. Per queste ragioni chiedono al Comune di Bari di verificare le condizioni di sicurezza nel carcere e invitano il Governo “a porre in essere con immediatezza tutti i rimedi idonei ad assicurare nella Casa circondariale di Bari le condizioni oggettive per il rispetto delle prescrizioni”. “In assenza di adempimento del dovere giuridico di assicurare l’effettività del diritto alla prevenzione dal contagio da agenti virali trasmissibili all’interno della Casa circondariale di Bari - aggiungono - potrà ritenersi ipotizzabile la fattispecie giuridica del ‘torto di massa’“. Bologna. “Liberi dentro-Eduradio”, la trasmissione radiofonica rivolta al carcere comune.bologna.it, 15 aprile 2020 Da lunedì 13 aprile va in onda su Radio Città Fujiko 103.1 FM, dalle 9 alle 9.30, un nuovo programma radiofonico, “Liberi dentro - Eduradio”, dedicato alla didattica per chi sta in carcere. A causa dell’emergenza sanitaria, il servizio culturale, educativo e di assistenza spirituale fornito dalla rete di realtà esterne che operano da anni in carcere si rimodula a distanza, scegliendo la radio come canale per far arrivare dentro la Dozza le voci degli insegnanti, le associazioni di volontariato, i Garanti comunale e regionale dei diritti delle persone private della libertà personale e i rappresentanti delle fedi religiose. Il cartellone di questa nuova trasmissione radiofonica, che andrà in onda dal lunedì al venerdì fino al 30 giugno, prevede lezioni scolastiche di italiano, storia, geografia, scienze e francese, rubriche culturali su letteratura dal mondo e cultura araba, messaggi spirituali, consigli di lettura e ascolto dal mondo del volontariato. L’obiettivo è garantire la finalità rieducativa propria del carcere e far sentire ai detenuti una presenza e un’attenzione sociale alla loro situazione. La radio è stata scelta perché è l’unico mezzo in grado di far tornare idealmente gli insegnanti e i volontari in carcere e, anche in questo momento, farli sentire quanto più prossimi ai carcerati loro studenti. I detenuti verranno forniti di radio acquistate dalla rete dei promotori e donate al carcere. Partner del progetto sono: Centro per l’istruzione adulti - Cpia metropolitano di Bologna; associazione volontari per il carcere (A.Vo.C); Il Poggeschi per il carcere; associazione Zikkaro; Cappellania della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna; il Garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello; il Garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli. Lecco. Coronavirus, i clochard autorizzati a restare all’aria aperta di Barbara Gerosa Corriere della Sera, 15 aprile 2020 “Sono senza fissa dimora e vivo in piazza Affari”. Seduto all’ingresso del teatro della Società di Lecco, Luca mostra il foglio che gli hanno consegnato le forze dell’ordine. Ha compilato l’autocertificazione con la sua firma. Accanto quella dell’operatore di polizia che ne ha preso visione durante l’ultimo controllo: la data è fine marzo. Autorizzato a restare in strada, mentre tutti gli altri devono rimanere a casa. In piena emergenza coronavirus, gli unici a cui sembra essere consentito trascorrere le giornate all’aria aperta sono le persone che un tetto non ce l’hanno. Attilio fruga nelle tasche: estrae un foglio simile. Stessa scena sotto i portici della chiesa della Vittoria, anche Marco e Franco hanno il loro permesso. “Ci hanno detto di non muoverci da qui e obbediamo”, spiega Luca, 51 anni, originario di Bergamo. Faceva l’artigiano prima di finire in carcere per problemi di droga. Ora vive nel parcheggio di piazza Affari. Le coperte, uno zaino, un cartone di vino, quel foglio stretto tra le mani come se fosse il più prezioso dei tesori. Non si sposta se non per ritirare a pranzo il cibo alla Caritas e la sera raggiunge via Mascari dove Luca Mazzucchi, libero professionista dalla finestra cala una cesta con la cena per i clochard. “Ci ha lasciato un biglietto dicendo di andare da lui”, conferma Attilio. Lui lo conosciamo, sulle pagine del Corriere aveva raccontato la sua storia quando avevano tentato di mandarlo via perché rovinava il decoro della piazza. A distanza di oltre un anno è ancora qui. Autorizzato a restare. Di chi sia quella firma sul foglio resta un mistero. Carabinieri e poliziotti dicono che non c’è alcuna direttiva. “Ne ho parlato con il comandante della polizia locale, Monica Porta - spiega il vicesindaco di Lecco, Francesca Bonacina. Non è un permesso, solo un’autocertificazione siglata da chi ne ha preso visione. Multarli non avrebbe senso. Non sono autorizzati a vivere in strada, ma in attesa di trovare una soluzione è meglio che stiano fermi dove se non altro sono rintracciabili”. “A fine marzo è stato chiuso il rifugio Caritas - dice il sindaco Virginio Brivio -. Abbiamo iniziato a lavorare per dare una risposta. Sono una ventina di persone, bisogna garantire accoglienza rispettando i principi di sicurezza che il coronavirus impone. Entro una decina di giorni anche loro avranno un tetto”. Periferie dei diritti e Covid-19. Rischi da virus di Stefano Cecconi* e Giovanna Del Giudice** Il Manifesto, 15 aprile 2020 Assicurare e rafforzare i servizi di salute mentale di comunità è tanto più necessario di fronte a segnali preoccupanti che arrivano da certi settori della psichiatria, dove si evidenziano, in nome della lotta all’epidemia, pratiche che riportano a culture e pratiche dell’era manicomiale. L’emergenza Covid-19 è prima di tutto questione sanitaria, ma per fronteggiarla l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda una “azione globale” che tenga conto di tutti gli aspetti che influiscono sulla salute e sulla vita delle persone, non limitandosi ad interventi per contenere l’infezione e tanto meno solo all’ospedalizzazione. L’OMS dedica una particolare attenzione alle persone più vulnerabili e indica tra i servizi essenziali da garantire quelli riferiti alle persone con problemi di salute mentale e più in generale alle persone non autosufficienti e con patologie croniche, e per la salute materno-infantile. In Italia questa attenzione ancora non c’è stata. Le pur importanti misure disposte dal Governo per il potenziamento delle risorse del SSN, a partire dal personale, scontano ancora un approccio “ospedalocentrico”, mentre da più parti si evidenzia come l’epidemia si previene ed affronta con misure per rafforzare i servizi del welfare territoriale, peraltro da tempo impoveriti. In questa direzione si muove L’Appello lanciato dalla Conferenza nazionale Salute Mentale che afferma l’urgenza di garantire il funzionamento della rete territoriale di prossimità dei servizi, riportando l’attenzione sulle persone più fragili: con sofferenza mentale, con problemi di dipendenza, con disabilità, anziane e con malattie croniche. Un Appello che chiede di accendere i fari sulle “periferie dei diritti”: il carcere, i CPR, le RSA (Residenze per anziani e disabili), le REMS (le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sorte dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Governo e a Regioni devono dare disposizioni chiare e uniformi su tutto il territorio nazionale, e investire parte delle risorse dedicate all’emergenza, affinché i servizi territoriali assicurino tutte le attività, rispettando le misure di prevenzione per operatori e cittadini-utenti e fornendo tutti i dispositivi di protezione necessari. Assicurare e rafforzare i servizi di salute mentale di comunità è tanto più necessario di fronte a segnali preoccupanti che arrivano da certi settori della psichiatria, dove si evidenziano, in nome della lotta all’epidemia, pratiche che riportano a culture e pratiche dell’era manicomiale. Stiamo vedendo organizzare servizi “speciali”: i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura riservati alle persone con disturbo mentale Covid positive, che riportano alla memoria i reparti di TBC e “infettivi” dei vecchi manicomi. Le persone con disturbo mentale sono cittadini titolari di diritto e se bisognose di cure ospedaliere perché Covid positive devono essere ricoverate nei reparti come tutti. Non ci è bastato l’orrore del manicomio per riproporre risposte di segregazione? E ancora, viene sdoganata da parte di società scientifiche la contenzione (parliamo della pratica del legare le persone in cura) quando una persona con problemi di salute mentale in fase di scompenso sia positivo al Covid-19. Ma, in nome di un’epidemia si può legittimare una pratica di violazione della Carta Costituzionale (art. 13), definita dalla Suprema Corte (sentenza n. 50497 del 2018) non sanitaria, non terapeutica, che può provocare lesioni anche gravi all’organismo? Le stesse società riportano al centro la cura farmacologica, e tanto più l’utilizzo dei farmaci depot (farmaci anti psicotici a rilascio prolungato, fino a tre mesi) ritenuti equivalenti ad urgenze. Ecco che così l’emergenza diventa un alibi per riproporre l’egemonia del paradigma biologico clinico e il potere di controllo della psichiatria. Questa cultura dell’emergenza che ridimensiona i diritti va respinta. Per agire invece in modo globale, su tutti i determinanti di salute e di malattia, privilegiando i servizi del welfare territoriale: questo è il modo più appropriato per un contrasto efficace dei danni da Covid-19. *Portavoce Osservatorio StopOpg **Portavoce Campagna e tu slegalo subito Facciamo emergere il lavoro nero dei braccianti di Teresa Bellanova Il Manifesto, 15 aprile 2020 L’economia italiana, per chi proprio non vuol parlare di cura della vita umana, si tutela maggiormente se questa sacca di sommerso emerge. In questi giorni complicati si è tornato a parlare di manodopera nei campi e regolarizzazione degli immigrati presenti nel nostro Paese. Temi non nuovi per chi non si è distratto nel corso degli anni. O per chi sa quanto quelle mani operose si traducano in bontà dei nostri prodotti, benessere delle nostre terre e dei nostri animali. Chi comodamente dà lezioni di vita, forse in un campo non ci ha mai messo piede. Se no, avrebbe chiara la solidarietà che si sperimenta nella fatica. Perché quello agricolo è, anche, un lavoro di fatica. A causa del Covid 19, le organizzazioni agricole registrano una pesante carenza di manodopera, mancano all’appello più di 250mila braccianti. Il rischio concreto è dover lasciare nei campi una parte cospicua dei prodotti coltivati. Uno spreco senza precedenti, una perdita rilevante che drammaticamente si va ad aggiungere ad altre perdite economiche dettate dall’emergenza. Non lo possiamo permettere. Per questo stiamo lavorando su un piano d’azione utile ad incrociare domanda e offerta di manodopera agricola. L’agricoltura, per troppo tempo da tanti considerata figlia di un dio minore, si sta confermando un settore strategico. Una filiera della vita. È necessario essere all’altezza di questa sfida. È evidente che nella disponibilità al lavoro nei campi nessuno ha mai inteso escludere la manodopera italiana. Sono la prima a dire che potranno guardare all’agricoltura i tanti italiani che non lavoreranno, come in passato, da stagionali nel turismo o nella ristorazione. Oggi in Italia gli operai agricoli sono circa 1 milione e la manodopera straniera regolare conta circa 400mila persone. Da dieci anni gli italiani calano e gli stranieri aumentano. Molti di questi, causa l’emergenza, sono rientrati nel paese di provenienza. Questo vuoto occupazionale ha creato una disfunzione profonda, va assolutamente colmato, può rappresentare una opportunità di nuova vita per molti. Per i nostri concittadini oggi senza occupazione e che vogliono lavorare. Per chi continuerà a farlo grazie alla proroga dei permessi di soggiorno che abbiamo deciso fino al 31 dicembre prossimo. Per chi in agricoltura ha a cuore la legalità, e la difesa dei diritti e delle vite umane. Per chi da tempo aspetta di essere sottratto alla spirale del nero, dello sfruttamento, della negazione di ogni forma di umanità. È tempo di assumere scelte su cui si è fin troppo tergiversato. Adoperare, tutti, un grandangolo per mettere ben a fuoco le questioni reali. E quegli invisibili, che raccolgono i nostri frutti per le nostre tavole, vivono in condizioni disumane nei ghetti, quei posti feroci organizzati dalle ombre lunghe dei caporali non abbandoneranno mai se non diamo loro uno strumento per farlo. Un lavoro e una vita regolari. A maggior ragione oggi, in piena emergenza sanitaria, a queste persone vanno garantiti salute e diritti, come a tutti i lavoratori. Consapevoli, tutti, che dove non c’è lo Stato, la mano dell’illegalità la fa da padrona. E non comanda solo la vita degli invisibili ma anche quella di imprese fragili e in difficoltà. A chi in questi giorni, sentendomi parlare di sanare la ferita delle baracche-ghetto e regolarizzare i braccianti, ha sbandierato lo spot “prima gli italiani”, rispondo: gli italiani si tutelano maggiormente così. Tagliando in radice la concorrenza sleale del lavoro nero e sottopagato che spinge le imprese oneste a chiudere lasciando spazio all’economia illegale e incrinando la reputazione del nostro Paese nello scenario internazionale. Strappando gli irregolari alla cattività dei ghetti. Censendo le persone presenti sul territorio. Sconfiggendo esclusione e marginalizzazione, madri di sentimenti mai positivi. L’economia italiana, per chi proprio non vuol parlare di cura della vita umana, si tutela maggiormente se questa sacca di sommerso emerge. La pandemia sta portando cambiamenti e domande. Quella che rivolgo a tutti è: da che parte vogliamo stare? Per me la risposta è scontata: mai con l’illegalità, mai con i caporali. Turchia. Amnistia contro il rischio coronavirus: fuori 90mila detenuti, ma non i dissidenti di Marco Ansaldo La Repubblica, 15 aprile 2020 Un terzo della popolazione carceraria verrà rilasciato nell’arco di tre mesi. Esclusi i prigionieri politici come lo scrittore Ahmet Altan, il politico curdo Selahattin Demirtas e il filantropo che finanzia la cultura Osman Kavala. Protestano le Ong e il partito repubblicano annuncia ricorso. Liberi tutti nelle prigioni in Turchia. Tutti i detenuti comuni, beninteso: 90 mila persone su 300 mila. Addirittura un terzo della popolazione carceraria. Gli altri invece, in maggior parte i prigionieri per motivi politici, e soprattutto quelli internati dopo il fallito golpe del 2016 contro Erdogan con l’accusa di “legami con il terrorismo”, rimarranno in guardina. Ogni Paese del mondo colpito dal virus reagisce come può e vuole. E la Turchia, tutt’altro che “immune dal coronavirus”, come incautamente annunciato a marzo dal ministro della Salute scelto dal presidente turco, ha ora deciso come misura ideale quella di liberare le celle. Dove, pure, la pandemia sta cominciando a diffondersi. In libertà saranno presto 90 mila detenuti. Una cifra enorme. Il Parlamento di Ankara, saldamente nelle mani del partito conservatore di ispirazione religiosa, ha approvato di notte la maxi-amnistia voluta dal capo dello Stato. Tuttavia la norma - presentata appunto dal partito Giustizia e sviluppo, d’intesa con i suoi alleati nazionalisti Lupi grigi, e che ha ricevuto il placet con 291 voti a favore e solo 51 contrari - prevede sconti di pena per colpevoli di molti reati minori, oltre alle donne incinte, a madri di figli piccoli, ad anziani e malati cronici. Non viene applicata però ai condannati per reati di terrorismo, droga, violenze su donne e minori, abusi sessuali e omicidi di primo grado. Il risultato è che restano così in cella tutti gli acerrimi oppositori di Recep Tayyip Erdogan. Tra cui diversi personaggi noti. Tre nomi su tutti: il filantropo Osman Kavala, considerato un uomo ricco e generoso, dedito alla cultura, amico del premio Nobel Orhan Pamuk, ma accusato dal governo di avere finanziato e organizzato la rivolta di Gezi Park del 2013 poi repressa nel sangue. Kavala fu messo dentro il giorno dopo il mancato colpo di Stato del 15 luglio 2016. Da Erdogan, come ha detto più volte lo stesso leader turco, è ritenuto vicino “all’ebreo ungherese George Soros”, imprenditore miliardario impegnato in diverse attività sociali. Tra gli esclusi dal provvedimento c’è poi anche lo scrittore Ahmet Altan. Autore di romanzi (molti pubblicati in Italia), già direttore di quotidiani rivelatisi niente affatto teneri sia con il partito al potere ormai da quasi vent’anni, sia con la potente classe militare. Altan era stato scarcerato lo scorso anno da un provvedimento dell’Alta Corte, e poi risbattuto in cella 8 giorni dopo per decisione di un tribunale di Istanbul. Infine il leader del partito filo curdo, Selahattin Demirtas, malato di cuore, ma probabilmente il politico più abile come rivale del Sultano, che lo teme, e quindi implacabilmente rinchiuso da anni. Anch’egli, e più di altri, detenuto con la consueta accusa di “legami con il terrorismo”. La prima ondata di detenuti comuni, circa 45 mila, verrà rilasciata entro la fine di maggio. La metà restante nei 3 mesi seguenti. Nelle carceri turche risultano oggi 17 i detenuti malati di Covid-19, e 3 di loro sono deceduti. In Turchia si registrano al momento 61 mila casi di coronavirus e 1.296 le vittime. Molte le voci che si stanno levando contro il provvedimento. A livello internazionale, diverse organizzazioni non governative come Human Rights Watch e Amnesty International. Più blanda invece l’opposizione nel Parlamento turco, dove i contrari sono risultati appena 51, con i 139 parlamentari del partito repubblicano quasi completamente assenti: erano infatti in 19 in aula, con uno di questi che ha anche votato a favore della riforma. La formazione repubblicana, da sempre vicina alla classe militare e che appoggia le guerre di Erdogan contro i curdi all’interno del Paese e pure in Siria, presenterà comunque un ricorso alla Corte costituzionale, con la motivazione di contestare soprattutto l’esclusione dal provvedimento degli oppositori politici del capo dello Stato. La Turchia è ora in preda a una bufera politica per l’espansione della pandemia. Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno, Suleyman Solyu, fedelissimo di Erdogan, si era dimesso dopo essere stato al centro di polemiche per l’annuncio di un coprifuoco totale a causa del virus. Decisione che, nel weekend, aveva colto di sorpresa milioni di persone, dando solo due ore di tempo alla gente, che si è assembrata all’improvviso nei supermercati accaparrandosi di tutto. I rischi del contagio si sono così decuplicati. Soylu si è dichiarato responsabile dell’annuncio. Ma Erdogan ha fatto ritirare le dimissioni al suo ministro, liberandolo da ogni fardello. Turchia. Se smentisci Erdogan sul Covid, finisci in galera di Mariano Giustino Il Foglio, 15 aprile 2020 Giornalisti incarcerati, sindaci dell’opposizione destituiti, una legge di controllo delle conversazioni private e il caos al Ministero dell’Interno. Il coronavirus e l’annuncio delle dimissioni del ministro dell’Interno turco, Süleyman Soylu, hanno fatto tremare il palazzo presidenziale di Ankara nelle due notti di coprifuoco del fine settimana appena trascorso, annunciato venerdì sera a meno di due ore dalla sua entrata in vigore per impedire alla popolazione di uscire di casa durante quello che si prevedeva come un fine settimana soleggiato. Ma l’annuncio lanciato in fretta e senza le rassicurazioni necessarie ha provocato nelle trenta maggiori città della Turchia un assalto ai forni di manzoniana memoria di oltre 250 mila persone che si sono riversate fuori casa per fare provviste per il fine settimana, violando tutte le regole del distanziamento sociale. Le immagini e i video delle calche nei negozi di alimentari hanno fatto il giro del web e il ministro Soylu è stato costretto alle dimissioni probabilmente per anticipare la reazione del presidente, Recep Tayyip Erdogan che, informato, non avrebbe battuto ciglio. In rete si sono scatenati i sostenitori della corrente di partito del ministro. Il suo account Twitter è stato sommerso da un milione di tweet che lo pregavano di non dimettersi, ma decisivo è stato l’intervento del leader del partito ultranazionalista (MHP), Devlet Bahçeli, indispensabile alleato del governo di Erdogan, che sostiene l’operato del ministro nella lotta al terrorismo e la politica repressiva adottata nei confronti degli oppositori e dei curdi. Il presidente turco è stato quindi costretto a fare un passo indietro e a dichiarare che non avrebbe accettato le dimissioni. Soylu le ha ritirate, ma ciò evidenzia la faida interna al Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) che si trascina da tempo e che rischia di provocare una definitiva resa dei conti. Erano già pronti i nomi di coloro che avrebbero dovuto sostituire Soylu, in attesa vi era il governatore di Ankara, Vasip Sahin e il capo della polizia di Istanbul Mustafa Çaliskan, entrambi vicini alla corrente Pelikan di Berat Albayrak, genero di Erdogan e ministro delle Finanze, e di suo fratello maggiore, acerrimi avversari di Soylu, da tempo preso di mira da giornalisti di media vicini al presidente. Era dal tempo del fallito golpe del 2016 che non accadeva che in soli dieci giorni due ministri fossero costretti alle dimissioni anche se in questo caso poi rientrate. Il 28 aprile era stato defenestrato il ministro dei Trasporti e Infrastrutture Cahit Turhan. La faida all’interno dell’Akp si sta aggravando probabilmente in vista di un post Erdogan che sembra essere sempre meno lontano. La pressione che il presidente turco incomincia ad avvertire lo costringe ad esercitare una repressione sempre maggiore e per questo gli è molto utile il ministro Soylu che gode del sostegno degli ultranazionalisti. La scorsa settimana il ministero dell’Interno aveva annunciato di aver identificato 616 sospettati di aver condiviso “messaggi falsi e provocatori sui social media sull’argomento coronavirus” e che 229 di essi erano stati arrestati. Tra gli utenti di Twitter arrestati nelle ultime settimane c’è anche il titolare di un popolare account noto come Ankara Kusu, accusato di terrorismo. Fatih Portakal, uno dei maggiori e più amati anchorman del paese, conduttore di Fox News, è l’ultimo di una lunghissima fila di giornalisti vittime della censura del governo, finito anch’egli sotto inchiesta per aver pubblicato un tweet con informazioni critiche sulla politica di Erdogan nella gestione dell’emergenza del Covid-19. E la stessa fine ha fatto anche Halk Aygun. “L’acqua dormiva, ma il nemico no”, questo è un noto adagio turco con il quale il portale indipendente Gazete Düvar il 23 marzo commentava la notizia della defenestrazione degli ultimi otto sindaci curdi dell’Hdp, che porta il totale delle rimozioni a 40 nei 59 comuni amministrati da questo partito, sostituiti da amministratori fiduciari nominati dal governo. “La continuità nella repressione è essenziale nella strategia dello stato. Il coronavirus è per questo anche una benedizione!”, scrive il giornalista Fehim Tatekin Gazete Düvar. Il rischio che la campagna di rimozione dei sindaci non sia circoscritta ai comuni curdi è diventato elevato in questa fase emergenziale per l’epidemia da Covid-19. Tale pratica rischia di estendersi, seppur surrettiziamente, anche alle amministrazioni locali nei grandi centri urbani, gestite dalla maggiore forza politica di opposizione, dal Partito repubblicano del popolo (Chp), diventate bersaglio del governo. Solo pochi giorni fa Erdogan ha deciso di affidare la gestione della pandemia ai governatori delle 81 province turche. Questa decisione è vista da molti osservatori come un tentativo di esautorare i sindaci d’opposizione del loro potere già esiguo. In Turchia il contagio da coronavirus si estende tra la popolazione, ma i giornalisti e gli oppositori devono difendersi da un altro virus, letale per la vita del diritto: dal primo marzo a oggi sono già 47 i giornalisti finiti sotto inchiesta per informazioni su Covid-19. Ora è in arrivo una legge che consentirebbe al governo di avere il pieno controllo anche delle conversazioni private e della messaggistica che avviene sulle applicazioni WhatsApp, Twitter, Facebook, Instagram e YouTube. Non è un caso se il modello tanto amato da Erdogan sia quello cinese. Grecia. Bambini migranti non accompagnati: “Basta con la detenzione nell’emergenza-virus” La Repubblica, 15 aprile 2020 La nuova campagna per proteggerli di Human Rights Watch. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis dovrebbe liberare centinaia di bambini migranti non accompagnati detenuti in celle di polizia antigieniche e centri di detenzione in Grecia. È l’appello lanciato oggi da Human Rights Watch (Hrw) dando così vita ad una campagna per liberare i bambini. Il loro rilascio da condizioni di detenzione offensive li proteggerebbe meglio dalle infezioni in caso di pandemia di coronavirus. La campagna su #FreeTheKids. Che inizia oggi, il 14 aprile 2020, per sollecitare il Primo Ministro Mitsotakis a rilasciare immediatamente i minori migranti non accompagnati in condizioni di reclusione per trasferirli in strutture sicure e adatte ai bambini. Human Rights Watch sta avviando questa campagna dopo anni di ricerca e sostegno alla pratica della Grecia di rinchiudere i bambini che si trovano in Grecia senza un genitore o un parente in celle di polizia e centri di detenzione, sollecitando i governi successivi a porre fine a queste gravi violazioni dei diritti. “Mantenere i bambini rinchiusi in celle di polizia sporche era sempre sbagliato, ma ora li espone anche al rischio di infezione da Covid-19”, ha affermato Eva Cossé, ricercatrice greca presso Human Rights Watch. “Il governo greco ha il dovere di porre fine a questa pratica offensiva e assicurarsi che questi bambini vulnerabili ricevano le cure e la protezione di cui hanno bisogno”. Sovraffollamento, bagni in comune, nessuna igiene. Secondo il National Center for Social Solidarity, un ente governativo, al 31 marzo, 331 bambini erano in custodia di polizia in attesa di essere trasferiti in un rifugio, un forte aumento rispetto a gennaio, quando 180 bambini non accompagnati erano dietro le sbarre. Malattie infettive come Covid-19 rappresentano un grave rischio per le popolazioni di istituti chiusi come carceri e centri di detenzione per immigrazione. Si è scoperto che queste istituzioni forniscono cure sanitarie inadeguate anche in circostanze normali. In molti centri di detenzione, il sovraffollamento, i bagni in comune e la scarsa igiene rendono praticamente impossibile mettere in atto misure di base per prevenire un focolaio di Covid-19. Detenzione o “regime di custodia protettiva”? Le autorità greche descrivono la detenzione di minori non accompagnati come un “regime di custodia protettiva” e affermano che si tratta di una misura di protezione temporanea nel migliore interesse del minore. In pratica, è tutt’altro che protettivo. Secondo la legge greca, i minori non accompagnati dovrebbero essere trasferiti in alloggi sicuri, ma la Grecia ha una carenza cronica di spazio in strutture adeguate come rifugi per bambini non accompagnati. La ricerca di Human Rights Watch ha documentato che, di conseguenza, i bambini affrontano detenzioni arbitrarie e prolungate e trattamenti abusivi in condizioni antigieniche e degradanti, tra cui la detenzione con gli adulti e i maltrattamenti da parte della polizia. Spesso non sono in grado di ottenere cure mediche, consulenza psicologica o assistenza legale e pochi conoscono persino i motivi della loro detenzione o per quanto tempo resteranno dietro le sbarre. La detenzione ha gravi ripercussioni a lungo termine sullo sviluppo e sulla salute mentale dei bambini, compresi livelli più elevati di ansia, depressione e stress post-traumatico. Il Piano “No child alone”. Nel 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata due volte contro la pratica abusiva della Grecia di trattenere bambini non accompagnati, scoprendo che la loro detenzione violava il loro diritto alla libertà e che le condizioni li esponevano a trattamenti degradanti. Il 24 novembre 2019, il primo ministro greco ha annunciato un piano, No Child Alone, per proteggere i minori non accompagnati, anche creando più rifugi. Ma il piano non pone fine al regime di “custodia protettiva” e lascerebbe comunque i bambini a rischio di detenzione dannosa. Per adempiere ai propri obblighi nei confronti di questi bambini durante la pandemia Covid-19, la Grecia dovrebbe creare più spazio in strutture aperte e adatte ai bambini per i bambini che sono attualmente in custodia, come hotel, affido e appartamenti nell’ambito di un programma di vita indipendente supportata per bambini non accompagnati di età compresa tra 16 e 18 anni. Siria. A Idlib i profughi cercano rifugio in un ex carcere di Édith Bouvier Internazionale, 15 aprile 2020 Davanti all’ex prigione di Idlib un uomo ha steso per terra un telo e cerca di attirare l’attenzione dei passanti in cerca di clienti. In terra ha messo una teiera di metallo, qualche libro, delle scarpe e dei giochi per bambini. La maggior parte sono rovinati o rotti. Ma è tutto quello che rimane ad Abdelrahman per cercare di sfamare la sua famiglia. Quest’uomo dal volto segnato dal sole e dalla guerra abita qui con altre 84 famiglie. “Ogni cella è divisa in tre, a volte in cinque, abbiamo messo dei lenzuoli, dei cartoni o dei sacchi per dividere gli spazi e ottenere un po’ di intimità”, spiega il vecchio facendoci visitare le quindici celle. Spolvera il suo giaccone verde di lana e si guarda intorno. “Le famiglie mi danno gli oggetti che non vogliono più e io li riparo, gli do una seconda vita. Poi con i pochi soldi che riusciamo a racimolare compriamo qualcosa da mangiare per tutti quanti”. Da quando la guerra è cominciata nel 2011 il prezzo dei prodotti di base si è moltiplicato per venti. “Il prezzo del pane è fisso e quando possiamo compriamo olio e riso, insomma ci arrangiamo. Abbiamo ricevuto alcuni cartoni di aiuti umanitari, ma non erano sufficienti e, soprattutto, è stato parecchio tempo fa”, continua Abdelrahman. Una bambina ci raggiunge correndo e si rifugia tra le sue gambe. Nasconde il volto dietro i suoi larghi pantaloni e gioca a guardarci di nascosto, poi si nasconde di nuovo ridendo. “È Rania, la mia nipotina, i suoi genitori sono morti in un bombardamento e da allora me ne occupo come posso”. Nel cuore della prigione, fra quattro alti muri, il cortile per l’ora d’aria dei detenuti è diventato lo spazio di gioco dei bambini. Le loro risate risuonano allegre. Panni di ogni dimensione e colore sono sospesi su lunghe corde e asciugano al sole. Al primo piano gli scudi delle guardie che sorvegliavano la prigione sono stati disposti gli uni contro gli altri. Un muro improvvisato per proteggere i bambini che volessero avvicinarsi troppo al muro esterno. Lasciati a se stessi, questi bambini vanno ovunque. Nella zona non c’è alcuna scuola o centro educativo, e comunque i loro genitori hanno troppa paura per mandarli lontano, fuori da questi edifici. “Gli aerei del regime hanno preso di mira le scuole. Appena non li vedo sono subito in pensiero”, ci spiega Laila, seduta sul bordo della sua cella. Dal 2014 secondo l’Unicef 478 centri scolastici sono stati obiettivo di attacchi da parte del regime o del suo alleato russo. Le Nazioni Unite ritengono che 2,8 milioni di bambini non vadano più a scuola e che 180mila insegnanti siano stati costretti a fuggire. Il sole d’inverno è basso e fa fatica a riscaldare questi vecchi muri di pietra bianca spessi e alti. La donna si scherma gli occhi dal sole con la mano e indica le altre donne sedute sulle sedie sotto un albero. “Non ci conoscevamo prima di arrivare qui, adesso siamo diventati una grande famiglia”. Laila sorride. In nove anni di guerra è la sua sesta casa. La maggior parte dei suoi parenti è stata uccisa. Dopo una serie di corridoi e di inferriate ci porta al rifugio di Khadija, la donna più anziana qui dentro. Originaria di Maaret al Numan, una città a sud di Idlib distrutta dai bombardamenti del regime e dell’alleato russo nello scorso febbraio, è dovuta scappare dalla sua casa. A 70 anni spiega di non avere più paura di morire. “Quello che mi rende triste è di non essere più a casa mia. Ci ho abitato tutta la vita e adesso morirò in un posto che non conosco. Così nonostante le condizioni ho cercato di creare un posto simile a casa mia”. Si alza e ci mostra gli oggetti che è riuscita a conservare e che ha accuratamente disposto in questo piccolo rifugio. Alcune foto, un cuscino ricamato e un po’ di stoviglie. E su uno dei muri di questa cella sempre umida, si possono leggere le scritte lasciate dagli ex detenuti ai tempi in cui il regime di Assad controllava ancora la prigione. “Omar è qui, coraggio!”. “Abu Suleyman, 45 giorni”. Accanto, in una stanza improvvisata, due bambine giocano dall’altro lato di una tenda di plastica che è stata attaccata al soffitto. Khadija le ascolta e ripete: “Non so dove sono i miei cari, sono tutti fuggiti quando la tempesta di fuoco si è abbattuta sulla città. Spero che stiano bene e al sicuro da qualche parte”. Quasi ventimila bambini sotto i cinque anni soffrono di denutrizione. Un terzo delle madri incinte o che allattano i figli sono anemiche. I due terzi dei bambini con un handicap non hanno accesso a servizi adeguati. In fondo a un corridoio dall’altro lato dell’edificio, Ahmad e la sua famiglia condividono una cella con la famiglia di suo fratello e quella di suo cugino. Qui non ci sono né arredi né souvenir, Ahmad è originario della città di Homs. Prima della guerra aveva un negozio di mobili, poi si è unito all’Esercito siriano libero per proteggere le prime manifestazioni. Ma quando il suo quartiere, Bab Amr, è caduto nelle mani del regime, è cominciato l’esodo. Un esodo senza fine, sedici case in otto anni. “Qui non ho lavoro, non faccio nulla. Non ci resta più niente. In Siria ormai la normalità non esiste più da molto tempo. Credete che per i nostri figli sia normale vivere qui, di non potere andare a scuola? Viviamo nella paura”. Arriva suo fratello con una bambina in braccio e un’altra che sta attaccata ai suoi vestiti senza lasciarlo un momento. “Le mie figlie hanno conosciuto solo la guerra. Spero che un giorno potremo tornare a Homs, ma non ci credo molto. Se il regime riprende la città di Idlib, non so dove andremo. Non ci rimane più nulla”. Sudafrica. Il Covid-19 arriva nelle carceri africarivista.it, 15 aprile 2020 La condizione dei detenuti è un dramma nel dramma dell’epidemia di coronavirus in Sudafrica. Il numero dei carcerati positivi al Covid-19 è aumentato di 49 in due giorni nel Centro correttivo di East London. Ad essi si aggiungono 23 funzionari della prigione anch’essi infettati. Il primo caso è stato segnalato il 6 aprile dopo che un funzionario che aveva partecipato a un funerale era risultato positivo. Un altro funzionario è risultato positivo due giorni dopo e sono iniziati i test di massa presso la struttura. Il portavoce del Dipartimento delle carceri ha dichiarato che il centro di correzione è stato disinfettato e che gli operatori sanitari monitorano e gestiscono coloro che sono risultati positivi. Anche il Centro correttivo di Saint Albans a Port Elizabeth ha avuto il suo primo caso confermato dopo che un funzionario è risultato positivo, mentre è stato infettato un altro funzionario della sede centrale del Dipartimento delle carceri a Tshwane. Il portavoce del Dipartimento Singabakho Nxumalo ha dichiarato a News24 che si sta effettuando una attenta ricerca dei contatti avuti dai contagiati ma che non dovrebbe esistere alcun collegamento tra Saint Albans e East London. “Con l’aumentare del numero di persone infette - ha detto Nxumalo - è stato attivato il piano di contenimento dell’epidemia e di trattamento dei malati previsto dal programma di gestione delle catastrofi del dipartimento. Stiamo esaminando i casi confermati e stiamo predisponendo l’isolamento di coloro che risultano positivi ai test. Finora solo due centri su 243 hanno riportato casi positivi. Pertanto, è fondamentale che rimangano in vigore misure di prevenzione per evitare che altri centri siano contagiati dal Covid-19”. Algeria. La protesta si sposta sui social. Anche la repressione di Beatrice Montecalvario Il Manifesto, 15 aprile 2020 In Algeria, il Paese africano che registra il più alto numero di morti legate al Covid-19, con 313 decessi a ieri (1.983 i casi positivi), gli attivisti del movimento (hirak) popolare diffondono da settimane appelli a rimanere in casa. La repressione, però, non va in quarantena. Dalla proclamazione delle prime misure di “isolamento parziale” ad Algeri, il 23 marzo, si moltiplicano i segni di una nuova stretta. Nel mirino sembrano esserci in particolare i messaggi politici diffusi sui social network, proprio mentre questi diventano la principale piazza, seppure virtuale, del movimento. Istigazione all’assembramento non armato, oltraggio a pubblico ufficiale, distribuzione e pubblicazione di materiale su Facebook che può costituire attentato all’unità nazionale sono i reati per i quali, giovedì scorso, l’attivista Ibrahim Daouadji è stato condannato a sei mesi di prigione e 50mila dinari (circa 360 euro) di ammenda. Sul suo profilo Daouadji aveva denunciato pedinamenti e persecuzioni da parte delle forze dell’ordine dopo che, a fine febbraio, aveva raccontato in un video l’arresto e il violento interrogatorio subiti a margine di una manifestazione studentesca ad Algeri. A preoccupare le ong per i diritti umani è anche la situazione del portavoce del partito di sinistra Union démocratique et sociale, Karim Tabbou. Il 23 marzo, mentre attendeva una scarcerazione considerata imminente, Tabbou è stato condannato in appello a un anno di reclusione e al pagamento di un’ammenda di 50mila dinari algerini. La sua convocazione al tribunale di Algeri è arrivata senza che i suoi avvocati venissero informati dell’udienza e lui stesso, colto da un malore, si è dovuto allontanare dall’aula prima che la sentenza venisse pronunciata. Sulla base di video pubblicati in rete, è stato condannato per “danni morali all’esercito”. Lo stesso 23 marzo, il governo annunciava la liberazione di oltre 5mila detenuti per reati comuni per evitare che la crisi sanitaria arrivasse nelle carceri. Questo, malgrado le misure per lo svuotamento delle prigioni, rimane un rischio concreto, osserva il giornale indipendente El Watan dopo il decesso del primo detenuto malato di Covid-19 nel carcere di El Harrach, periferia di Algeri. Qui è recluso da ottobre Abdelouahab Fersaoui, presidente del Rassemblement action jeunesse (Raj), ong nata nel 1992 e sostenitrice del movimento dalla prima ora. Fersaoui è stato condannato ad aprile a un anno di detenzione per contenuti divulgati attraverso pagine e profili in rete. Il giro di vite, comunque, non risparmia neanche media più tradizionali e giornalisti professionisti. Lo scorso venerdì i siti di notizie Maghreb Emergent e Radio M sono stati oscurati in tutto il paese; in un comunicato, il loro editore ha denunciato “la peggiore ondata di repressione della libertà di stampa dagli anni ‘90”. La notizia arriva dopo quella, alla fine di marzo, dell’arresto di Khaled Drareni, giornalista e membro di Reporters sans frontières. Qualche giorno più tardi è stata la volta di Sofiane Merakchi, condannato a otto mesi di carcere con accuse come “fornitura di immagini delle manifestazioni del 20 settembre alla rete Al Jazeera e ad altri media stranieri”. “Il potere vuole approfittare della pandemia per domare il movimento ed evitare che, dopo la fine dell’isolamento, la crisi del petrolio e la mala gestione dell’emergenza sociale e sanitaria portino in piazza più persone di prima”, esclama Djalal Mokrani, membro dell’ufficio nazionale del Raj, raggiunto telefonicamente dal manifesto e anche lui in attesa di processo. A parlare per l’attivista algerino è la foto che pubblica, immancabilmente, sul suo profilo Facebook. Quattro ragazzi in abiti da infermiere, uno accanto all’altra, con dei cartelli attaccati sulle spalle: “Dopo la crisi Covid-19 - c’è scritto, in francese - tutti in piazza”. Gaza. Sei attivisti in carcere per aver partecipato a videoconferenza con israeliani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 aprile 2020 Discutere su Zoom, la piattaforma usata in tutto il mondo per le video-riunioni, è un reato a Gaza soprattutto se lo fai con un Paese considerato l’avversario principe. La scorsa settimana sei attivisti per i diritti umani di Gaza sono stati arrestati dalle autorità locali di Hamas per aver partecipato ad una videoconferenza in cui erano presenti anche degli israeliani. L’accusa è di “tradimento” e di “attività di normalizzazione” con Israele. Le leggi emanate dalle autorità di Hamas a Gaza criminalizzano tutte le attività sociali, culturali, politiche, economiche, sportive o di altro tipo con “il nemico sionista”. Per Rami Aman, 38 anni, fondatore del Comitato per i giovani di Gaza, e per altri 5 attivisti palestinesi le manette sono scattate il 9 aprile, tre giorni prima l’ong aveva partecipato partecipato ad una conferenza online con alcune organizzazioni internazionali, anche israeliane, rispondendo a domande sulla vita a Gaza durante la pandemia di Coronavirus. “Stabilire una comunicazione con le forze di occupazione israeliane - ha chiarito il ministero dell’Interno di Gaza in una nota - non importa per quale motivo, è un crimine e un atto di tradimento nei confronti del nostro popolo”. Il post su Facebook - A denunciare l’attivista era stato un post su Facebook in cui lo si accusava di dedicarsi ad attività di “normalizzazione” con Israele. L’autrice è la reporter Hind Khoudary, un ex collaboratrice di Amnesty International, che ha rivendicato così la sua azione: “In quanto palestinese, prima ancora che giornalista, sono contro qualsiasi normalizzazione. Non ho fatto un errore a scrivere contro Aman e non sono contraria al suo arresto”. Amnesty International, dal canto suo, ha preso le distanze dalla donna chiarendo di averla “impiegata solo per un breve periodo” oltre un anno fa e sottolineando che l’organizzazione “condanna in modo netto l’arresto di individui per aver esercitato il loro diritto ad esprimersi e radunarsi liberamente”. L’organizzazione per i diritti umani ha anche ricordato che Khoudary si era occupata delle proteste scoppiate nel marzo 2019 nella Striscia di Gaza contro l’aumento dei prezzi. Era stata arrestata dalle forze di sicurezza di Hamas, interrogata, maltrattata, minacciata e sottoposta a intimidazioni. Il portavoce del ministro dell’Interno di Gaza, Iyad al-Bozm, ha tenuto a far sapere che i “post su Facebook o su altri social network non sono responsabili dell’arresto di Aman e di altre cinque persone”. I precedenti - Non è la prima volta che le autorità di Hamas arrestano Aman: l’uomo era stato già in carcere nel 2019 per aver organizzato una corsa ciclistica Rides for Peace in contemporanea con una simile in Israele e poi nuovamente incarcerato per tre giorni per aver criticato sui social le torture da parte delle forze di sicurezza di Hamas. Sui social network si è scatenata una violenta polemica. Moltissime persone hanno accusato Khoudary di aver contribuito all’arresto dell’attivista mentre molti altri si congratulavano con lei per la sua lotta contro la normalizzazione. Human Right Watch, che ha chiesto il rilascio immediato di Amin e degli altri attivisti, dei quali non si hanno notizie, ha denunciato che le autorità di Hamas arrestano e torturano abitualmente arbitrariamente critici e oppositori, come documentato più volte. Nel marzo 2019, hanno arrestato più di 1.000 palestinesi durante manifestazioni contro l’alto costo della vita a Gaza. Hamas ha dichiarato di aderire alle regole del diritto internazionale per i diritti umani ma, secondo l’organizzazione umanitaria internazionale, le viola continuamente e la normativa contro la normalizzazione ne è la conferma. Questo mese il Comitato per i giovani di Gaza è diventato membro dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente.