Dietro le sbarre, dentro l’epidemia di Patrizia Pallara rassegna.it, 14 aprile 2020 Dopo le rivolte iniziali si è allentata la tensione tra i detenuti ma i problemi sono ancora tanti, a cominciare dal sovraffollamento. E per i lavoratori la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari resta un’utopia. Diminuisce il numero dei detenuti in Italia dopo le rivolte nelle carceri agli inizi dell’emergenza Coronavirus, e si allenta la pressione causata dal sovraffollamento. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le presenze sono passate da 61.230 del 29 febbraio ai 57.137 del 6 aprile. Un calo di oltre 4 mila carcerati, che sono usciti dagli istituti di pena nel giro di un mese, da quando è scoppiata la crisi sanitaria. Ma ancora non basta. “Per creare condizioni di tranquillità rispetto ai rischi di contagio e quindi spazio e distanziamento fisico, si dovrebbe scendere al di sotto dei 46 mila detenuti - sostiene Patrizio Gonnella presidente dell’associazione Antigone, che insieme ad Arci, Anpi, Gruppo Abele e Cgil ha presentato una serie di proposte per superare l’isolamento, deflazionare il sistema penitenziario senza ripercussioni per la sicurezza, proteggere i lavoratori. Altrimenti non c’è la possibilità di disporre di celle singole se ci sono persone contagiate. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190 percento. E mentre ogni giorno i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, si ritrovano in tre persone in celle da 12 metri quadrati. Senza parlare delle condizioni igienico-sanitarie, che sono spesso precarie”. Le proteste di marzo che hanno coinvolto 50 istituti in tutta la Penisola, hanno visto tra le conseguenze più tragiche 14 morti e diverse persone in ospedale. “Le rivolte hanno dimostrato la fragilità del nostro sistema, che abbiamo sempre denunciato - dichiara Massimiliano Prestini, responsabile nazionale per il sistema penitenziario di Fp Cgil. Strutture inadeguate perché molto vecchie e carenze di personale: durante le rivolte si è riusciti a riportare la situazione alla normalità solo richiamando in servizio poliziotti e facendo intervenire altre forze di polizia. Come abbiamo visto, il sovraffollamento detentivo e le preoccupazioni causate dall’emergenza sanitaria possono creare un clima teso e difficile da gestire”. “La paura, la solitudine, la disperazione, il sovraffollamento e i rischi di contagio anche per lo staff impongono risposte urgenti ed efficaci”, rincara Gonnella. Le ha chieste anche Papa Francesco scrivendo in un tweet che “dove c’è sovraffollamento nelle carceri c’è pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave”. Le ha chieste lo stesso Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: servono “interventi ben più decisi”, occorre “rimuovere il più possibile gli ostacoli che non rendono agevole la concessione della detenzione domiciliare”. Cosa che i giudici stanno facendo. La magistratura di sorveglianza, sollecitata dagli operatori penitenziari, ha iniziato ad applicare norme “sonnolenti” come l’esecuzione della pena nel domicilio, appunto, dove possibile, quando per esempio mancano due anni alla fine, o per motivi sanitari nel caso di detenuti oncologici, cardiopatici, immunodepressi, e il maggior ricorso a permessi ai semiliberi, che in questo modo possono evitare di rientrare la sera in istituto. Ad allentare la tensione ha aiutato l’improvvisa diminuzione dei reati, che ha causato una riduzione degli arresti in flagranza. Infine, le persone che escono dal carcere non vengono sostituite anche perché le procure hanno sospeso gli ordini di esecuzione delle sentenze per i condannati a piede libero. Nel frattempo però nelle carceri si ci si ammala di Covid-19: attualmente risultano positivi 58 detenuti, 178 poliziotti penitenziari e 5 amministrativi. Dove sono dislocati i casi non si sa con certezza, di certo è che sono a macchia di leopardo e sono concentrati nelle regioni a più alto contagio, Emilia Romagna e Lombardia. Quando si verificano, oltre a fare ricorso ai ricoveri in ospedale quando le condizioni del malato lo richiedono, si prendono i provvedimenti che le strutture e la situazione consentono: celle che da doppie o triple diventano singole nel caso di detenuti, quarantena in caserma e isolamento al domicilio per i poliziotti e gli operatori. Un’occasione per risolvere il problema era rappresentato dal decreto Cura Italia. Un’occasione persa. “Le modifiche introdotte e approvate in via definitiva non sono incisive, si tratta di un errore gravissimo, sulla pelle di operatori penitenziari, dei poliziotti, dei detenuti - prosegue Gonnella -. C’è bisogno di liberare 10 mila persone almeno, anche perché sono sempre più numerosi gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c’è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi per evitare che le carceri diventino le nuove Rsa. C’è chi sostiene che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, come tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia”. Il fatto è che gli articoli 123 e 124 del Cura Italia non modificano granché le normative esistenti. E nella pratica anche quando viene concessa la detenzione domiciliare si richiede come vincolo la sorveglianza con braccialetti elettronici, nel caso di pene da scontare superiori ai sei mesi. Peccato che la disponibilità di questi strumenti sia limitata e, con ogni probabilità, insufficiente per ridurre il sovraffollamento. L’allarme contagi riguarda naturalmente anche il personale che lavora nelle carceri, poliziotti e civili. C’è una carenza dei dispositivi di protezione individuale: le mascherine arrivano in quantità non sufficiente, e comunque non quelle “regolamentari” (Ffp2 e Ffp3), nel migliore dei casi vengono fornite quelle chirurgiche. C’è difficoltà nel reperire materiale igienizzante, e anche la sanificazione dei locali, dei luoghi comuni, uffici, celle, mense, è scarsa. “Abbiamo chiesto di effettuare i tamponi o i test rapidi a tutti coloro che entrano nelle carceri, poliziotti, educatori, amministrativi, e invece vengono fatti solo in caso di presenza di sintomi - spiega Prestini del sindacato Fp Cgil. Secondo gli studi, coloro che manifestano sintomi rappresentano un quinto di quelli che sono realmente contagiati: quindi questi 183 si potrebbero moltiplicare. Il problema delle carenze di organico si accentuerebbe in modo drammatico. Abbiamo chiesto strumenti per misurare la febbre, in alcuni istituti sono disponibili, in altri no. Abbiamo chiesto più volte, mandando anche diffide all’amministrazione, che sia applicato il protocollo che riguarda il pubblico impiego con norme e regole da adottare per prevenire contagio e favorire forme di lavoro sicuro: il capitolo carceri non è stato neppure aperto, molte delle direttive impartite a livello centrale non sono state recepite dall’amministrazione penitenziaria. Prima fra tutte, quella che favorisce lo smart working. Il sovraffollamento, lo stato in cui versa l’edilizia carceraria, la condizione dei lavoratori insieme a quella dei detenuti sono un insieme di elementi che espone a rischi non solo di contagio da virus ma anche di tensioni, come quelle registrate nelle scorse settimane”. Insomma, una bomba a orologeria a cui manca poco per esplodere, che l’amministrazione dovrebbe disinnescare quanto prima. Chi se ne importa se i detenuti sono 57.590 e i posti sono 48.000? di Beniamino Migliucci Il Riformista, 14 aprile 2020 Una minoranza, considerata per lo più fastidiosa, si è occupata in questo periodo drammatico della situazione nelle carceri italiane. Fastidiosa perché, quando soffrono tutti, parlare delle condizioni dei detenuti viene reputato, da molti, quasi come un insulto per chi si è ben comportato nella società e ora si trova in difficoltà, si ammala, muore, fa fatica a sopravvivere economicamente. La mente riesce facilmente a giustificare il disinteresse, ci si dice: “Se quelli sono in carcere, una ragione ci sarà… hanno fatto del male e, dunque, non vengano ora a disturbare il mondo dei buoni, già così provato”. Questa semplificazione consente di dimenticare che un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e, pertanto, non può ancora essere considerata colpevole di nulla e svanisce d’incanto il ricordo dei 640 milioni di euro pagati dallo Stato, dal 1992 ad oggi, per ingiusta detenzione. Le poche trasmissioni televisive che hanno dedicato spazio all’argomento, lo hanno fatto, generalmente, criticando ogni ipotesi di riduzione della popolazione carceraria per il coronavirus: in fin dei conti, già tutti noi siamo agli arresti domiciliari e perché mai chi ha sbagliato dovrebbe trovarsi in una situazione analoga alla nostra? Questo sentire, condiviso purtroppo dai più, non è isolato e trova un riferimento in altri momenti della storia. L’indimenticato Massimo Pavarini, tra l’altro in un bellissimo libello degli anni 70 dal titolo Carcere e Fabbrica, rammentava che quando il tempo riserva difficoltà e sofferenza ci si dimentica degli ultimi. Il rischio è di diventare egoisti e manichei. Da una parte il bene, dall’altra il male e il male va punito senza farsi troppi interrogativi. In situazioni come questa, la richiesta accorata del Papa, delle associazioni che si occupano di carcere, di qualche intellettuale, di qualche autorevole magistrato, rimangono totalmente inascoltate. Le ragionevoli proposte dell’Unione delle Camere Penali, condivise da gran parte della Magistratura di Sorveglianza, non trovano risposta. Anzi, una risposta c’è ed è esilarante: “Caro detenuto se manca ancora un po’ di pena sono disposto a liberarti, ma con il braccialetto”. Peccato che il braccialetto non ci sia. Si gioca con la vita e le speranze delle persone. Sembra di assistere ad un film comico, ma di comico non c’è nulla. Che importa se i detenuti che affollano le carceri sono 57.590 e i posti effettivi sono 48.000? Che importa se altri paesi come la Francia e persino la Turchia hanno previsto massicce scarcerazioni? Per il Ministro della Giustizia, con un passato più proficuo da dj, nelle carceri non esiste il rischio di epidemia e il parere viene confortato da qualche magistrato come Gratteri, habitué di salotti televisivi, il quale sostiene, addirittura, che nelle carceri c’è ancora spazio e, semmai, se ne possono costruire delle altre. Come se il virus aspettasse educatamente l’edificazione proposta con piglio e pari genialità dal noto pubblico ministero. Il sovraffollamento nelle carceri, dunque, non esiste è una invenzione di alcuni perditempo buonisti; i detenuti non devono attenersi al distanziamento sociale imposto per gli altri, le celle sono diventate improvvisamente ampie e sicure; i contagiati secondo le fonti ufficiali sono pochissimi e, quindi, suvvia, perché agitarsi tanto. Fanno bene il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia a voltarsi dall’altra parte: non è affar loro e, così, evitano anche di litigare con parte dell’opposizione che, ancora una volta, cavalcando paure e difficoltà delle persone, aveva criticato persino la farsa immaginata dal Governo. Non c’è da meravigliarsi di tutto questo. La spinta che nel 2013, grazie alla sentenza Torreggiani, aveva fatto aprire gli occhi sulla vergognosa situazione delle carceri italiane è esaurita da tempo. Eppure, il numero dei detenuti era persino inferiore rispetto all’attuale; un movimento di opinione trasversale ritenne scandalosa la situazione degli istituti di pena e vennero avviati, con meritoria intuizione dell’allora ministro della giustizia Orlando, gli Stati generali dell’esecuzione penale, per rendere la pena più vicina al modello costituzionale. I risultati di tale iniziativa vennero, peraltro, traditi e abbandonati dallo stesso guardasigilli, dal suo partito e dalla maggioranza dell’epoca per mere convenienze elettorali. Da quel momento l’argomento carcere per la politica è stato un tabù, un buco nero dal quale occorreva stare lontani per evitare di perdere consensi. Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per verificare come l’Italia stia gestendo l’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane. La Corte, accogliendo la richiesta di due avvocati delle Camere penali nell’interesse di un detenuto presso la casa circondariale di Vicenza, ha chiesto al Governo quali misure preventive siano state poste dalle autorità competenti nel carcere di Vicenza e se sia stata considerata l’eccezionale crisi sanitaria legata al contagio. La Corte inoltre vuole sapere se siano state previste per il richiedente misure alternative al carcere, tenendo conto anche della circostanza che non risulterebbe possibile osservare il distanziamento sociale. Il provvedimento della Cedu, anche se riguarda un singolo detenuto, appare all’evidenza di portata generale e il richiamo dovrebbe ancora una volta farci arrossire. Vedremo se tale monito riuscirà a risvegliare le coscienze sopite e a determinare una svolta. D’altro canto il vaccino per curare l’indifferenza si potrebbe trovare e sarebbe semplice da somministrare. Si tratterebbe di una miscela composta da precetti e valori costituzionali, una porzione di buon senso, associata a un pizzico di umanità e calorosa solidarietà. Il virus, però, non si è fermato alle porte delle carceri, ma ha avuto anche altri effetti dirompenti. Governo e ministero della Giustizia, con l’avallo di parte della magistratura, sono impegnati nel tentativo di stravolgere, o meglio distruggere, una volta per tutte il processo penale. Con la giustificazione dell’emergenza si vogliono, infatti, introdurre definitivamente modalità che porteranno ad un processo destrutturato, informe e smaterializzato, lontanissimo da ogni principio costituzionale, dalle regole del processo liberale e dal buon senso. Il tutto giocando sulle preoccupazioni e sulle paure del momento. Tutti staranno davanti al proprio computer, avvocati, magistrati inquirenti e giudici. Questi ultimi potranno persino decidere dalle loro abitazioni ricorrendo magari, come nei migliori quiz televisivi, all’aiuto da casa o dell’esperto per decidere. Insomma, verrà definitivamente recepito il processo a distanza che il nostro codice prevedeva solo per casi eccezionali, perché chiaramente confliggente con principi costituzionali. Anche in questo caso il vaccino ci sarebbe, ma è difficile da reperire: si tratta della ragionevolezza. Non c’è di che essere ottimisti, ma esserlo non costa nulla. Europa, oggi scade il tempo per Bonafede di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 aprile 2020 Entro le 14 deve rispondere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che gli ha chiesto quali misure specifiche intenda adottare per proteggere le carceri dal Covid. Lo farà? Che dirà? Oggi, martedì 14 aprile, ore 10, tempo scaduto per il ministro Bonafede. Esattamente sette giorni fa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha bussato alla porta del governo italiano e ha dato al ministro guardasigilli una settimana di tempo per spiegare con urgenza quali “misure preventive specifiche intenda adottare per proteggere non solo un certo detenuto di Vicenza, ma tutti i carcerati italiani dal pericolo di contagio di Covid-19. La sollecitazione era arrivata a Strasburgo da due avvocati emiliani, Roberto Ghini e Pina di Credico, i quali chiedevano una misura urgente e provvisoria in favore di un loro assistito recluso a Vicenza costretto a convivere con un’altra persona in una cella molto piccola. La preoccupazione, e anche l’urgenza, hanno un senso, anche se i numeri dei contagi nelle carceri possono sembrare piccola cosa rispetto a quel che succede “fuori”, per esempio in Lombardia. Ma sei detenuti morti di coronavirus, oltre a due agenti di polizia penitenziaria e altrettanti medici, sono un vero allarme, perché l’effetto detonazione del Covid-19 in un luogo chiuso e di rinchiusi è molto di più che un semplice rischio. E se un leggero sfollamento degli istituti di pena ha portato nelle ultime settimane i prigionieri a 57.000 (sempre comunque diecimila in più rispetto all’effettiva capienza) è merito di illuminati giudici di sorveglianza come quelli lombardi e laziali, e non certo del decreto governativo “Cura Italia” del 17 marzo, che si è arenato subito sulla mancanza dei braccialetti elettronici. E sì, perché un governo abulico e distratto, di fronte a una pandemia che potrebbe trasformarsi in strage se penetrasse seriamente nelle carceri, non ha saputo far niente di meglio che limitare la concessione degli arresti domiciliari solo a chi debba scontare meno di diciotto mesi e con il vincolo dei discutibili braccialetti da apporre alla caviglia. Ma lo strumento elettronico, per il quale sono stati già spesi, nel corso dei decenni, duecento milioni di euro, è come l’araba fenice, non c’è. Così i 12.000 che avrebbero diritto a terminare di scontare al domicilio gli ultimi mesi di pena, restano in carcere. Anche se, un po’ fuori tempo massimo, si apprende che il Commissario straordinario Domenico Arcuri ha affidato a Fastweb la fornitura di 4.700 braccialetti, che dovrebbero esser consegnati entro la fine di maggio. Poca cosa e in ritardo. Qualcuno pensa che questa iniziativa sia la risposta per la Cedu? Ma intanto il governo Conte è sorpassato in umanità e dignità, non solo dalle democrazie dell’occidente, ma anche, come ci informa l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, da Paesi come il Marocco, dove il re ha concesso la grazia a 5.654 detenuti, lo Zimbabwe, dove ne sono stati liberati 1.680, la Libia con 1.347 scarcerati e la Tunisia con 1.420. Stiamo parlando di Paesi dove l’epidemia non ha ancora colpito con numeri simili a quello dell’Italia, ma dove evidentemente non sono ancora arrivati Grillo e il Movimento cinque stelle. E neanche magistrati come Di Matteo e Gratteri, i quali preferiscono affidarsi alla sorte, o a un futuro in cui saranno direttamente al governo, e costruiranno nuove carceri in modo da consentire spazi agevoli e così ampi da poter contenere tutta quella popolazione fatta da innocenti non ancora scoperti ma già individuati dal dottor Davigo. C’è molto malumore nei confronti del ministro Bonafede anche all’interno della stessa magistratura. Non solo da parte dei tribunali di sorveglianza, sulle cui spalle pesa il carico della decisione su migliaia di vite tra mille difficoltà. In particolare a Milano, dove il coronavirus è particolarmente feroce, la situazione è resa difficile perché gli spazi a san Vittore si sono ristretti dopo la protesta dei detenuti e il palazzo di giustizia ha subìto un incendio gravato proprio sugli spazi del tribunale di sorveglianza. Ma proprio da Milano, e da un magistrato in genere molto prudente, arriva la critica più bruciante nei confronti di Bonafede. Fabio Roia, presidente della Sezione misure di prevenzione, ex membro del Csm, contagiato insieme alla moglie (pure lei magistrato), da poco dimesso dopo un lungo ricovero all’ospedale Sacco, in un’intervista al Corriere della sera ha puntato il dito contro il ministero e “ciò che non è stato fatto per impedire il diffondersi del contagio in un Palazzo di giustizia dove ogni giorno circolano settemila persone. I capi dei nostri uffici - dice il magistrato - avevano sollecitato fin da subito un intervento del ministro della giustizia Bonafede, ma la richiesta è rimasta inascoltata. “Una grave lacuna, viene definito il mancato intervento in tempo utile sul tribunale di Milano, che è un luogo affollato ma non chiuso come un carcere. Ma le lacune ci sono, e questa è una delle tante di cui dovrà rispondere il Guardasigilli. Prima di tutto, e con urgenza, entro oggi, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Emergenza coronavirus e detenuti: 4.700 braccialetti entro la fine di maggio ansa.it, 14 aprile 2020 La nota diffusa da Domenico Arcuri, Commissario Straordinario per l’emergenza Coronavirus, in riferimento ai braccialetti elettronici per i detenuti. Domenico Arcuri, Commissario Straordinario per l’emergenza Coronavirus, ha affidato la fornitura di ulteriori braccialetti elettronici e il relativo servizio di sorveglianza a distanza a Fastweb S.p.A., la stessa società con cui il Ministero dell’Interno ha già siglato un contratto per la fornitura degli stessi dispositivi, con l’obiettivo di accelerare le misure messe in campo per il contrasto all’emergenza coronavirus e di poter contare sulla possibilità di installare 4.700 braccialetti entro la fine di maggio. Secondo quanto previsto dal Dl Cura Italia sulla facoltà per il Commissario di procedere anche all’acquisto di dispositivi finalizzati a contrastare l’emergenza Coronavirus e agevolare l’adozione dei protocolli sanitari nelle carceri italiane, è stata nei giorni scorsi avviata un’interlocuzione tra il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il Commissario Straordinario, Domenico Arcuri e il ministero dell’Interno, per garantire l’accelerazione delle installazioni dei dispositivi destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti devono scontare una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Fastweb, società aggiudicataria nel 2017 del bando emanato dal Ministero dell’Interno per la fornitura dei dispositivi, provvederà alla fornitura e alla manutenzione dei braccialetti elettronici aggiuntivi rispetto a quelli già previsti, così come ai servizi di connettività tra questi e un “Centro Elettronico di Monitoraggio”, istituito ad hoc per la sorveglianza dei dispositivi installati e l’interazione con le Forze di Polizia, per comunicare in tempo reale le situazioni di allarme. Yairaiha Onlus: “Sospensione della pena per i più vulnerabili. Il governo cambi rotta” di Giorgia Rizzo La Nuova Calabria, 14 aprile 2020 Che misure prendere nelle carceri in un momento di emergenza sanitaria come questa affinché i luoghi di detenzione non diventino dei veri e propri focolai e lazzaretti in cui il virus si espande senza argini? È una questione che sta facendo discutere. Davanti alle rivolte dei detenuti avvenute in tutta Italia nello scorso mese c’è chi ha invocato misure repressive e chi ha proposto, in maniera analoga ad altre nazioni, l’allentamento delle misure restrittive per i soggetti più deboli, al fine di tutelarne il diritto alla salute. Intanto i contagi nei luoghi di detenzione sfatano il mito del carcere come luogo sicuro, mentre si fanno evidenti episodi di malagestione che mostrano come non possa essere garantita la prevenzione considerate proprio le modalità carcerarie che non permettono il distanziamento sociale. In Italia sono circa 50 i casi accertati. Uno di questi è quello di Antonio Ribecco, detenuto calabrese morto per Coronaviurs lo scorso 9 aprile all’Ospedale San Carlo di Milano, le cui esequie si sono tenute oggi a San Leonardo di Cutro. L’uomo aveva contratto il virus nel carcere di Voghera. In una lettera inviata ai familiari, mai recapitata, scritta dalla cella condivisa con altre tre persone, Ribecco dava testimonianza della modalità di gestione dell’emergenza nella casa circondariale. Lo stesso in cui - come si legge in una nota - gli altri detenuti, dopo essere venuti a conoscenza della presenza di un infetto, hanno richiesto guanti, mascherine e tamponi, ottenendo dieci trasferimenti in chiave punitiva verso altri penitenziari e presunti pestaggi. Il figlio di Ribecco ha quindi denunciato la vicenda per il tramite dell’associazione Yairaiha Onlus. “Nessuno ci ha informati del fatto che nostro padre fosse positivo al coronavirus, eppure abbiamo chiesto sue notizie di continuo - ha dichiarato - Neanche il Gip ed il Gup di Catanzaro ne erano a conoscenza, siamo riusciti a parlare con uno dei sanitari che lo aveva in cura dopo settimane, quando era ormai in Terapia Intensiva. Ci hanno detto che era molto grave, ma essendo sano la possibilità di guarigione era reale, anche se compromessa dal fatto che il virus era da diverso tempo che faceva il suo corso. Preciso che mio padre non aveva nessuna patologia, fino a dicembre correva ed andava più forte di me che ho 28 anni. I primi di marzo ci ha comunicato che aveva tosse e febbre alta da giorni, che il medico del carcere di Voghera non aveva voluto visitarlo e che per questo motivo la guardia penitenziaria gli aveva fatto una lettera di richiamo al dottore. Mi ha poi spiegato di averci inviato un riassunto di tutto quello che stava succedendo. Questa lettera non è mai arrivata”. “Avere detenuti infetti in carcere è pericolosissimo, ho per questo lanciato un appello ancora rimasto inascoltato. Lo Stato, è evidente, non si è attivato per garantire il diritto alla salute del nostro assistito - hanno dichiarato i legali della famiglia Antonio Ribecco, Giuseppe Alfi e Gaetano Figoli, che stanno valutando di sporgere denuncia per gettare luce sull’accaduto - Vorremmo capire perché il medico si è rifiutato di visitarlo, perché non sia stata avvisata la famiglia, perché non è ancora pervenuta una relazione di cosa sia successo nel penitenziario di Voghera né l’ultima lettera inviata dal detenuto. Nella morte di Antonio Ribecco, che era ancora in attesa di giudizio, esiste una responsabilità politica ed una tecnica che riguardano la gestione della pandemia nelle carceri. Il Consiglio d’Europa - come ricorda l’avvocato Alfi - aveva già sollecitato l’Italia ad aumentare le scarcerazioni concedendo gli arresti domiciliari per limitare il sovraffollamento al fine di evitare che i penitenziari diventassero enormi focolai di Covid-19. Le Camere penali italiane hanno a loro volta richiesto di seguire tali indicazioni. Il Ministero della Giustizia le ha ignorate e a sua volta anche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. È oggi prevista la detenzione domiciliare solo per chi ha già una pena definitiva inferiore a 18 mesi con il vincolo di usare i braccialetti elettronici, dispositivi di cui l’Italia dispone in numero irrisorio. Il tutto è quindi ora demandato alla discrezionalità del singolo magistrato. Si sta ponendo a serio rischio la vita di molte persone”. “La morte di Antonio Ribecco non può essere imputata solo all’emergenza Covid-19, sarebbe troppo facile - così l’associazione Yairaiha Onlus commenta il caso, denunciando la gestione dell’emergenza sanitaria in ambito detentivo, menzionando altre vicende in cui, anche in passato, il diritto alla cura degli ospiti del carcere è stato colpevolmente negato - Ci sono stati ritardi ed omissioni che, purtroppo, sono stranamente ricorrenti nel penitenziario di Voghera. Ricordiamo il caso di Salvatore Giordano - continua la nota - deceduto il 2 gennaio di quest’anno. Per l’area sanitaria aveva solo un leggero ingrossamento del fegato, ma si trattava di tumore. Venne ricoverato in ospedale il 24 dicembre 2019 grazie all’ intervento dei familiari che si presentarono ai cancelli del carcere chiedendo di conoscere le condizioni del proprio caro che ormai non riusciva neanche a parlare al telefono. Ricordiamo la storia di Pino Gregoraci, con una storia di grave depressione che chiedeva di incontrare uno psicologo ma non vide mai nessuno: si è impiccato il pomeriggio del 23 gennaio nella sua cella. E potremmo tornare indietro nel tempo, alla storia di Franco M. che stava male e chiedeva di capire cosa avesse ma i medici gli rispondevano “vai in saletta a giocare a carte che ti passa”! Anche in questo caso l’indignazione dei compagni e degli agenti permisero il ricovero in ospedale con ormai tutti gli organi in metastasi e la previsione di 6 mesi di vita. Non arrivò a 3. Oggi la famiglia e gli amici piangono la morte di Antonio Ribecco - prosegue l’associazione - e si chiedono se la sua vita poteva essere salvata in tanti, presi in tempo, ce l’hanno fatta. Ma per Antonio, detenuto in attesa di giudizio, gli interventi sono arrivati tardi: 4 giorni di febbre alta, chiaro sintomo di Covid-19, senza che il personale sanitario intervenisse. Ci sono volute la relazione di un agente nei confronti del medico e la battitura di tutta la sezione affinché venisse portato in ospedale. A seguito del suo ricovero vennero messi in isolamento i compagni di cella e, a questo punto, tutta la sezione VII iniziò a chiedere, pacificamente, di poter effettuare il tampone anche a spese proprie. Alle richieste legittime è seguita la risposta violenta con pestaggi e minacce, raccontatati dai detenuti ai familiari durante le telefonate. Abbiamo raccolto diverse testimonianze che trasmetteremo alla procura competente. In seguito, - continua - alcuni detenuti (principalmente quelli che hanno denunciato ai familiari quanto avvenuto) sono stati trasferiti in altre carceri, aumentando esponenzialmente la propagazione del rischio contagio. Sono tanti gli aspetti inquietanti della gestione dell’emergenza Coronavirus nelle carceri: a partire dalla mancanza di dispositivi di protezione in un luogo dove la distanza sociale è impensabile, alla mancanza di provvedimenti reali di alleggerimento dei numeri, alla predisposizione tardiva di aree per l’isolamento sanitario, a finire alla movimentazione dei detenuti da carceri, dove già si registravano casi positivi, ad altri istituti, per punizione. Una gestione scellerata che sta mettendo a rischio la vita di migliaia di persone tra detenuti e personale, ed è proprio tra il personale che si registrano, fino ad ora, i numeri più alti di contagiati e deceduti. Le responsabilità non possono essere imputate solo al virus: ci sono precise responsabilità politiche e amministrative. Sbaglia chi considera il carcere come “il luogo più sicuro” perché accanto alla sospensione dei colloqui avrebbero dovuto impedire al personale penitenziario di uscire se non intendevano intervenire con un provvedimento di amnistia e indulto o sospensione della pena e della custodia cautelare (che riguarda oltre 20.000 persone) fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Qualsiasi provvedimento adottato avrebbe dovuto agire in base all’art. 32 della Costituzione senza preclusioni che non rispondono all’emergenza in atto. Ci auguriamo che il governo voglia invertire la rotta in tempi rapidi, - conclude Yairaiha - facendo propri gli appelli e le raccomandazioni che, dalla più piccola associazione al Consiglio di Europa, passando per Papa Francesco e il Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, indicano la strada da seguire: sospensione della pena per i soggetti più vulnerabili (ammalati e anziani) invitando i magistrati di sorveglianza ad andare in deroga all’inutile decreto governativo per emergenza sanitaria in atto”. Carceri, sovraffollamento, sanità precaria: emergenze permanenti di Erica Gigante* linkabile.it, 14 aprile 2020 Il carcere da sempre ha rappresentato uno dei luoghi più a rischio per la propagazione di agenti patogeni facilitata dalla promiscuità e dalle scarse condizioni igieniche. Tale circostanza, se si pensa alla questione carceri ai tempi del coronavirus, sembrerebbe che essa passi addirittura in secondo piano! Eppure, il totale dei detenuti nelle carceri italiane, si aggira intorno al 130% ciò significa che il sovrannumero dei reclusi nelle carceri italiane varia dal 150% al 160% che tradotte in numeri significa che in Italia c’è un sovraffollamento carcerario di almeno 15 mila detenuti, per cui con la pandemia da coronavirus attuale, si potrebbero prospettare scenari davvero catastrofici sia per i detenuti che per gli stessi operatori se teniamo conto che ogni giorno entrano nelle carceri oltre 30 mila tra agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, sanitari e personale dei servizi di trasporto. Appare, quindi, di tutta evidenza che le misure per contenere l’emergenza Covid-19 di fronte a un sistema carcerario ormai al collasso, sembrerebbero del tutto impraticabili! Basti pensare come l’OMS si sia pronunciata su 2 aspetti specifici rispetto al problema. Le misure di protezione individuale (igiene dei locali, lavaggio delle mani, distanza di sicurezza di almeno un metro) e i dispositivi e le precauzioni da adottare in caso di contagio. Tra queste ultime la collocazione del detenuto contagiato da Covid19 per il periodo della quarantena, in uno spazio individuale o in mancanza in un ambiente multiplo ma adeguatamente ventilato e con letti posizionati ad almeno 1 metro di distanza l’uno dall’altro (si tenga conto che la normativa carceraria prevede per ogni detenuto uno spazio vitale di 3 metri quadrati di solo suolo di calpestio ad esclusione del letto, l’armadio e il lavabo). A tale proposito è chiaro che il problema del sovraffollamento carcerario, che affligge il nostro Paese da tempo, non assicura ad ogni detenuto, la corretta distanza in uno spazio troppo ristretto, scaturendo un trattamento inumano e degradante!! Non è un caso che la Corte Edu, già precedentemente, si espresse nell’importante sentenza-pilota Torreggiani che rilevò problematiche strutturali nell’organizzazione delle carceri italiane condannandola! Ed ecco che, a fronte di un quadro così tanto complesso, in un momento di piena emergenza, il nostro sistema carcerario per quanto la Costituzione all’art. 27 espressamente prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla funzione rieducativa, vive in una realtà ancora più complessa e preoccupante. Già oggi il Dap ci ha comunicato che tra i detenuti ci sono 37 positivi al Covid-19, di questi 9 sono ricoverati presso strutture ospedaliere mentre 8 sono quelli dichiarati guariti. Invece dei 30 mila operatori di polizia penitenziaria, 158 risultano positivi al tampone e 16 sono ricoverati, infine fra il personale dell’Amministrazione Penitenziaria 5 risultano contagiati. Sempre secondo quanto ci comunica il Dap, 2 sono i deceduti. Allora ci si chiede che cosa si sta facendo per prevenire eventuali ulteriori contagi? Molte sono state le proposte venute dal mondo della politica, del volontariato e dalla magistratura stessa. Tra i politici c’è chi ha parlato di mini-indulto svuota carceri, proposta che si è scontrata con buona parte della politica stessa o dell’applicazione del braccialetto elettronico (per poi rendersi conto che non ce ne sono disponibili nel numero necessario!). Le associazioni di volontariato (Antigone) suggeriscono per chi ha un residuo di pena inferiore ai 3 anni ed abbia fatto un percorso penitenziario positivo l’affidamento ai Servizi Sociali. I garanti regionali dei diritti della persona hanno più volte richiamato il senso di responsabilità non solo del Governo ma anche dei magistrati di sorveglianza a cui è stato chiesto di applicare in misura maggiore, le misure alternative alla detenzione previste dalla legge, in particolare la detenzione domiciliare a chi ha un residuo di pena di 18 mesi tenendo anche conto di tutte quelle persone detenute vulnerabili come gli anziani, i cardiopatici, gli immunodepressi, i diabetici, i pazienti oncologici (salvo eccezione per alcune categorie di reati o di condannati). Anche positivo è stato attribuire alle singole amministrazioni carcerarie il potere di decidere su alcune misure come sospendere il rientro serale presso gli Istituti di detenzione dei semiliberi o rendere quotidiani i colloqui telefonici attraverso anche videochiamate della durata di 15 minuti, con l’ingresso di telefonini già programmati e predisposti. Tuttavia anche con questi provvedimenti all’interno delle carceri non rimarrebbero spazi sufficienti per affrontare un eventuale focolaio epidemico. Voglio sottolineare che i Comitati Tecnici Scientifici che stanno lavorando in sintonia con il Governo, ci dicono che non bisogna abbassare il livello di guardia per i prossimi 12/18 mesi in attesa della realizzazione di un vaccino. Ciò significa che in questo arco di tempo il pericolo di riaccensione di focolai epidemici è reale. E allora perché, mi chiedo, non attrezzare anche per le carceri, così come si sta attuando per l’emergenza sanitaria sul territorio, l’edilizia industrializzata in acciaio? Ricordo che il Procuratore Capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, oltre un anno fa lanciò l’idea di costruire addirittura nuovi penitenziari utilizzando moduli prefabbricati a basso costo rispetto alle tradizionali opere murarie. In una fase di emergenza che stiamo attraversando, una tale soluzione per l’isolamento degli eventuali contagiati e per garantire loro un efficace monitoraggio sanitario, potrebbe risultare una scelta quasi obbligata e risolverebbe i complessi problemi legati allo spazio e al contagio epidemico, infatti, anche in mancanza di grandi spazi basterebbero i cortili o altre aree all’aperto di cui sono dotati molti istituti penitenziari sul territorio nazionale. Ci sono industrie in grado di offrire varie tipologie di metrature anche di più piani, che si possono sovrapporre ed assemblare con bagni e docce, completamente automatizzate con la tecnologia più avanzata e funzionale esistente e persino con arredamenti inamovibili e quindi sicuri e dove potrebbero essere collocati quei detenuti che risultassero positivi al tampone o che fossero poco sintomatici in modo da garantire l’incolumità della rimanente comunità carceraria. A mio avviso questo potrebbe essere anche un modo per tenere sotto controllo eventuali focolai epidemici all’interno delle carceri. *Avvocato e criminologa Coronavirus e carceri, due emergenze che non possono convivere insieme di Antonio Lomonaco* zoom24.it, 14 aprile 2020 Il problema sicurezza della comunità carceraria è un tema, non più differibile, che deve stare a cuore soprattutto al Legislatore. Apprezzo molto quanto recentemente deliberato dall’Onorevole Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro, che nel denunciare l’assoluta carenza di misure idonee di contenimento e di prevenzione del Covid-19 negli istituti penitenziari, ha invitato le Autorità competenti ad intervenire tempestivamente in aderenza a quanto prescritto dal Ministero della Salute. Detto deliberato, evidentemente, stride con il contenuto di una recente uscita pubblica di un autorevole rappresentante del parlamento italiano, che nella sua qualità di segretario della Commissione parlamentare antimafia, stigmatizza la decisione dell’Autorità Giudiziaria che recentemente ha posto ai domiciliari un soggetto ritenuto “mafioso”. Strumentalizzare una “scarcerazione” di un essere umano è inaccettabile, qualunque sia il fine perseguito. L’illustre Onorevole evidentemente non sa, o fa finta di non sapere, che tali decisioni dovrebbero essere incentivate, giacché occorre scongiurare il serio e concreto rischio di un contagio da Covid-19, che avrebbe senz’altro un impatto letale in soggetti “deboli”. Come segnalato da stimati esperti del settore, le malattie infettive sono infatti un problema rilevante in tutte le comunità chiuse, soprattutto nelle comunità penitenziarie in cui si verificano situazioni abitative, alimentari e comportamentali che ne facilitano la diffusione e l’acquisizione. L’analisi delle patologie infettive più frequentemente segnalate in carcere, indicano che queste sono prevalentemente acquisite per trasmissione persona-persona a seguito dell’ingresso nel sistema di un soggetto infetto. Inoltre, le probabilità di trasmissione di microrganismi potenzialmente patogeni aumentano con l’affollamento, con i ritardi nella valutazione medica e del trattamento, con l’accesso razionato al sapone, all’acqua e alla biancheria pulita, con l’insufficiente competenza del controllo delle infezioni. Il trasferimento brusco di detenuti da un luogo all’altro complica ulteriormente la diagnosi di un’infezione, l’interruzione della trasmissione, il riconoscimento di un focolaio e l’eradicazione della malattia. A titolo di esempio, si segnala come la maggior parte della preparazione dei cibi viene eseguita dai detenuti, così come i detenuti comunemente lavano i propri vestiti con acqua e sapone in un lavandino, in un secchiello o in un sacchetto di plastica e sono sempre i detenuti a svolgere la maggior parte dei tagli di capelli nelle carceri. È dato di fatto che molte sopracitate azioni avvengano in condizioni igieniche quanto meno “discutibili”. Dopo tutto questo, si può, quindi, affermare che il carcere è un rischio per la salute del detenuto e della comunità, giacché la salute di quest’ultimi è meno buona rispetto a quella della popolazione generale. Ed allora, attendiamo fiduciosi la decisione che verrà presto assunta dalla Corte Europea di Strasburgo, sollecitata, sul punto, dai difensori di un detenuto che si è visto inspiegabilmente negare la concessione degli arresti domiciliari. Nel frattempo, si metta da parte ogni sterile polemica dall’amaro sapore propagandistico, e si impegni il Legislatore ad individuare soluzioni efficaci e tempestive, per il bene delle comunità carcerarie, magari riflettendo sull’opportunità di concedere, in questo periodo emergenziale, ed entro rigorosi parametri connessi allo stato di salute del richiedente, una misura meno afflittiva in via temporanea, senza preclusioni vincolate dal titolo di reato. Alla luce di quanto recentemente accaduto in un istituto di pena, dove un cittadino ristretto da pochi mesi ha perso la vita a causa del contagio da Covid-19, l’auspicata soluzione non è più procrastinabile. *Avvocato Covid-19. Il pianeta carcere è un universo fragile, una polveriera che sta per esplodere di Marco Cafiero* progettouomo.net, 14 aprile 2020 Ci troviamo in una situazione davvero difficile, una situazione che il nostro mondo occidentale non ha mai provato. Fino a questo momento ci siamo sentiti immuni perché convinti di aver raggiunto un grado di progresso tale da consentirci di debellare le epidemie. L’Aids, che ha afflitto l’ultima parte del secolo scorso, è stato contenuto grazie all’informazione e alla ricerca. Ora ci troviamo di fronte ad una realtà che sta distruggendo i rapporti economici e sociali. I mezzi di informazione sono concentrati sul fenomeno e tralasciano qualunque altro tipo di notizia, tuttavia la criminalità ha subito una decisa flessione. Resta sospeso il pianeta carcere quello che racchiude un universo fragile ancora più separato dal resto della collettività. I contatti tra detenuti e familiari sono soltanto virtuali, il personale che agisce all’interno degli istituti penitenziari opera nel disagio e nella paura. I Magistrati di Sorveglianza sono costretti a concedere benefici che non rispondono alla logica della riabilitazione sociale bensì alla tutela della salute pubblica. Se la detenzione rappresenta una risposta alla sicurezza sociale, ora rischia di esprimere una polveriera ancora silente. È venuto il momento di riflettere anche su questo problema. Da anni predichiamo che il carcere debba rappresentare l’ultima e più grave risposta alla commissione di un delitto; non ritengo utile ribadire come la misura alternativa offra opportunità più efficaci di riduzione del fenomeno criminale se gestita con attenzione e competenza. I provvedimenti di clemenza, fino a questo momento, esprimevano la difficoltà del mondo giudiziario a rispondere adeguatamente attraverso la sanzione. Difficoltà che emerge anche legge sulla prescrizione, sintomo dell’inadeguatezza del sistema a reagire in modo rapido assicurando la certezza della pena. Ora di fronte alla crisi globale della società, investita dallo tsunami virale, è utile che il governo, sia pure oberato da decreti e provvedimenti a tutela della salute pubblica, pensi ai detenuti come parte di questa società, ed ipotizzi di varare un provvedimento di clemenza che fronteggi sia il virus che il sistema giudiziario il quale, tra pochi mesi, esploderà a causa della paralisi degli uffici per i continui ed estenuanti rinvii dei processi. Questi si accumuleranno e le risorse economiche per fare fronte al fenomeno si ridurranno sensibilmente. Per questo motivo un provvedimento di clemenza, pur rispondendo ancora una volta ad esigenze organizzative, potrebbe introdurre il valore aggiunto della pacificazione sociale e vanificare l’aggravamento della componente afflittiva della pena, a favore della parte educativa che tutti auspichiamo da tempo. Gli italiani hanno dimostrato di sapersi adattare, di stringersi, pur mantenendo le dovute distanze, e combattere. Proviamo a capire e sperare che anche la parte più fragile della nostra società sia in grado di lottare per un domani migliore anche se questo domani sembra lontanissimo. Manteniamo le distanze fisiche ed accorciamo quelle sociali attraverso un’amnistia che non viene varata da trent’anni o un indulto che latita da quattordici. In questo modo potremmo aiutare anche gli operatori della giustizia a rivalutare la propria funzione sociale e a fornire risposte che coniughino sicurezza ed efficienza. *Avvocato penalista Coronavirus in carcere, le Camere Penali scrivono a Conte e Bonafede di Pino Nano primapaginanews.it, 14 aprile 2020 “I silenzi sono indegni di un Paese democratico”. Le 10 domande dei penalisti italiani al Presidente del Consiglio, al Ministro della Giustizia, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Ci voleva la Via Crucis del Papa, in diretta in tutto il mondo, per riaprire la domenica di Pasqua il problema cruciale delle carceri in Italia, e della situazione esplosiva che si registra negli istituti di pena di tutto il Paese dopo l’esplosione della pandemia da coronavirus. Ma appena il giorno prima che il Papa si caricasse sulle spalle la croce del grande e tristissimo pianeta-carcere, la Giunta e l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, di fronte alle notizie sempre più allarmanti provenienti dal pianeta carcere in ordine al rischio di diffusione dell’epidemia negli istituti penitenziari italiani, registravano e denunciavano “la ostinata cortina di silenzi, reticenze e disinformazione che continua ad essere mantenuta in ordine alle seguenti 10 questioni, il cui chiarimento non è più oltre rinviabile”. Oggi domenica di Pasqua, giorno in cui la Chiesa tradizionalmente perdona tutti, e prega per i più soli e per gli emarginati del mondo, noi vogliamo fare nostre le domande e gli interrogativi che i penalisti italiani hanno rivolto qualche giorno al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, perché dentro queste dieci domande, a cui nessuno però ha ancora mai risposto, c’è per intero il dramma smisurato e incontenibile di migliaia e migliaia di uomini e donne che oggi trascorreranno la Pasqua rinchiusi in carcere. 1. È mai stato fatto un calcolo probabilistico del numero dei detenuti che dovrebbero lasciare le carceri in forza dei provvedimenti adottati con il Decreto Cura Italia, e dei tempi in cui ciò dovrebbe avvenire, al netto delle scarcerazioni alle quali stanno provvedendo da settimane -indipendentemente dal Decreto - numerosi Tribunali di Sorveglianza in applicazione delle leggi già vigenti? 2. Quanti sono, alla data di oggi e poi in date successive e precisamente individuate, i braccialetti elettronici materialmente e certamente disponibili, al netto dei 2.600 già da anni in dotazione ma tutti già impegnati per le custodie cautelari domiciliari? 3. Oltre al numero dei contagiati, quanti sono i detenuti certamente entrati in contatto con questi, e quali misure conseguenti sono state adottate per la loro quarantena? 4. Quanti sono i detenuti entrati in contatto con gli agenti di polizia penitenziaria ad oggi risultati contagiati, e quali misure conseguenti sono state adottate per la loro quarantena? 5. Il numero dei detenuti contagiati, ad oggi indicati in 21, è calcolato sui sintomatici? Ed in tal caso, vi è una ragione per la quale si sia ritenuto di non procedere ad uno screening dell’intera popolazione carceraria, date le condizioni sanitarie e materiali di potenzialità epidemica? 6. Gli agenti di Polizia penitenziaria ed il personale amministrativo sono stati tutti sottoposti a tampone? 7. È possibile sapere, senza reticenze o vuoti giri di parole indegni di un Paese democratico, se i reparti di isolamento per i contagiati o sospetti di contagio siano tecnicamente e sanitariamente tali, vale a dire celle singole con bagni e docce riservati? Quanti sono - visto che ci si ostina a non comunicarne il dettaglio - tra i 21 detenuti contagiati, quelli posti in stanze di isolamento singole, e quanti in stanze di due o tre letti, ed in quali carceri? 8. Quante mascherine e sistemi di protezione sono stati distribuiti tra i detenuti, e quanti tra gli agenti di Polizia penitenziaria ed il personale amministrativo delle carceri? 9. In caso di trasferimento del detenuto, viene effettuato il tampone all’interessato ed alla scorta? 10. La vigilanza sanitaria ed il governo medico sui rischi di contagio nelle e dalle carceri sono affidati ad una equipe di epidemiologi, o sono affidati alle singole direzioni sanitarie di ciascun penitenziario, ed in tal caso con quale livello di specializzazione? Ma oggi che è domenica di Pasqua vogliamo fare nostro anche l’appello finale che le Camere Penali d’Italia hanno rivolto, ma senza nessun risultato, al Presidente Conte e al Ministro Alfonso Bonafede: “Lo ripetiamo: il rischio di epidemia nelle carceri riguarda i detenuti, la polizia penitenziaria ed il personale amministrativo e civile che in esse opera, ma riguarda ovviamente anche la intera comunità sociale, per la ovvia, catastrofica ricaduta sulle strutture sanitarie pubbliche di un eventuale contagio di massa. Rispondano a questi dieci quesiti, ciascuno per le proprie responsabilità, il Presidente del Consiglio, il Ministro della Giustizia, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Non vi è più spazio per silenzi e reticenze”. E a quanti oggi sono in carcere, sperando che il coronavirus resti fuori dalle celle di ognuno, diciamo soltanto e semplicemente “Buona Pasqua fratelli”. “L’emergenza non sia una scusa per ridurre il diritto alla difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 14 aprile 2020 L’Ucpi contro la smaterializzazione del processo. Il rischio - già denunciato - è che in nome dell’emergenza i diritti siano minati una volta e per sempre. Con la compressione, in particolare, del diritto di difesa. Ed è per questo motivo che la giunta dell’Unione delle Camere penali italiane ha deciso di riunirsi in assemblea permanente, per un’analisi costante dei rischi legati alla smaterializzazione del processo. A preoccupare i penalisti sono le previsioni relative alle udienze da remoto, così come previsto dal decreto “Cura Italia”. Una disciplina, affermano i componenti della giunta, “incompatibile con i principi di oralità e immediatezza” del processo, al punto da impedire l’instaurarsi di un vero contraddittorio davanti ad un giudice terzo, base fondamentale del rito accusatorio. “Sul piano delle fonti - denunciano i penalisti - è addirittura incredibile che si sia inteso riservare - con norma processuale sostanzialmente in bianco - le modalità di gestione delle tecniche di esame e controesame ad un’autorità amministrativa inserita nel Ministero della Giustizia”. Le udienze da remoto nascondono, per gli avvocati, diverse insidie, a partire dalla possibilità di gestire l’intervento delle parti e le opposizioni alle domande suggestive o nocive. E per il presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, nascondono un fatto ben più grave: “un’idea autoritaria del processo, perché sistematicamente orientata a marginalizzare tutto ciò che è invece irrinunciabile per il concreto esercizio del diritto di difesa”. Vengono meno, per Caiazza, la pubblicità dell’udienza, il controllo emotivo della testimonianza, l’inviolabile segretezza delle conversazioni tra difensore ed assistito durante l’udienza nonché la forza e l’efficacia del controesame difensivo. Il sospetto è che superata l’emergenza “questa farsa grottesca e francamente anche un po’ miserabile del processo dentro i quadratini di un computer, con la linea che va e che viene e tutti in mutande a casa nostra, non passerà”. Un modo, secondo i penalisti, per ridurre le garanzie passando quasi inosservati, ammantando tutto dietro una comprensibile ed evidente emergenza sanitaria. Un’emergenza che, oltretutto, riguarderebbe, per legge, l’incolumità della sola magistratura. L’Ucpi, infatti, pone l’accento sugli “obblighi impropri che nascerebbero intorno alla figura del difensore, obblighi che nulla hanno a che vedere con la declinazione professionale delle garanzie ma che anzi, sul piano delle previsioni astratte, pongono il difensore e l’imputato nella condizione di non poter rispettare le regole di distanziamento sociale”. Mentre verrebbe meno anche la segretezza “quasi sacra” della camera di consiglio: la norma appena approvata dal Senato, infatti, non garantisce il principio di collegialità, in quanto i giudici partecipano alla stessa ognuno da casa propria e “le piattaforme indicate per lo svolgimento dell’udienza da remoto sono fuori da ogni controllo di giurisdizione e non garantiscono la regolarità del trattamento dei dati sensibili”. Sono queste, dunque, le prime obiezioni possibili, da tradurre, nel corso di un qualsiasi processo, in eccezioni di legittimità costituzionale e che rappresentano le osservazioni formulate dalle Camere penali al governo. Al quale i penalisti hanno intenzione di sottoporre una serie di regole alternative per quanto riguarda la gestione della cosiddetta “fase 2” dell’emergenza, dall’11 maggio fino al prossimo 30 giugno. “La premessa è che i costi sociali e di impegno che richiede il processo democratico non possono cedere a semplificazioni giustizialiste, oggi in nome del rischio di contagio, domani in nome di una delle tante gridate emergenze sollevate dai populisti e dai propugnatori dell’odio sociale”, sottolinea l’Ucpi. Secondo cui “la straordinarietà della situazione non può giustificare l’oscuramento del rito accusatorio - si legge in una nota - le soluzioni dunque non debbono implicare la contrazione dei diritti, ma possono innanzitutto riguardare i criteri per l’individuazione dei processi da trattare e le modalità di chiamata delle cause, che dovrà avvenire ad orari predefiniti (prioritariamente potrebbero svolgersi i processi per i quali è già stata conclusa l’attività istruttoria)”. Fondamentale è l’accesso telematico del difensore agli sportelli di segreteria e alle cancellerie per il deposito di istanze, liste testi, memorie e impugnazioni e con la possibilità di procedere con lo stesso mezzo alla richiesta e al ritiro delle copie degli atti processuali. E tra le proposte c’è anche quella di individuare criteri per la selezione di processi già fissati in unica udienza, “per stabilire quale parte possa essere effettivamente trattata e quale possa essere invece oggetto di rinvio a data successiva all’emergenza”. Proposte che hanno lo scopo di individuare “possibili meccanismi di semplificazione di alcuni passaggi processuali, sempre governati dal difensore, unico soggetto legittimato alla valutazione e al bilanciamento delle garanzie e delle concrete modalità di esercizio delle prerogative della difesa”. Tutti i cittadini sono uguali, ma i magistrati sono più uguali degli altri di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 aprile 2020 Il giornalismo che offre tanto spazio agli influencer della magistratura militante è doppiamente responsabile del clima di svacco che ha contaminato ormai irrimediabilmente il dibattito pubblico italiano: perché non solo lascia che quegli apostoli della giustizia piombata si abbandonino alla loro ciarla nella rigorosa assenza di qualsiasi contraddittorio, ma ancora consente che facciano lezione sopra ogni argomento del vivere civile e della vicenda politica. Non gli offrono la scena affinché spieghino qualcosa che vagamente appartenga alle loro improbabili competenze: tipo cos’è una prova, come funziona un processo, o magari per cimentarsi nel coraggioso tentativo di chiarire al Dj in parentesi ministeriale la differenza tra colpa e dolo. Macché. Li piazzano davanti alle telecamere o gli riservano ettari di interviste e quelli giù a far dottrina sulla legge elettorale, sulla politica dei redditi, sulle tossicodipendenze, sul sistema tributario e via di questo passo, naturalmente con puntuale siparietto sulla necessità di impreziosire il territorio trasformandolo in una fungaia di nuove carceri visto che quelle esistenti non bastano a contenere tutti gli innocenti in attesa di giudizio. Dice: ma anche i magistrati sono cittadini, e hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero. No, bello mio. Innanzitutto perché i magistrati non sono cittadini come gli altri, visto che hanno il potere di ficcarti in galera, e poi perché se tu li metti in quel modo sulla tribuna non lo fai per far sapere quel che loro pensano (che tra parentesi chissenefrega), ma per insegnare quel che bisogna pensare: che fuor di parentesi vorremmo deciderlo per conto nostro. Perché fino a prova contraria un funzionario incaricato di fare indagini e processi non ha titoli speciali per impartire insegnamenti su come si dovrebbe gestire la faccenda pubblica: nemmeno in campo giudiziario e anzi tanto meno in quel campo, salvo credere che sia importante uniformarsi al parere del boia quando si discute di pena di morte. Questa pratica è più violentemente disinibita presso certi organi dell’informazione italianona, tipo Telecinquestelle (ovvero La7), o prevedibilmente sul giornale di Marco Travaglio, dove gli amici magistrati del direttore si affrettano a illustrare all’uditorio più reazionario del Paese la magnificenza delle riforme del ministro Bonafede sotto la lungimirante guida dell’avvocato del popolo, l’unico che non considerano un mascalzone colluso coi delinquenti che la fanno franca grazie ai suoi trucchetti. Ma è una pratica ben insinuata anche altrove, e di fatto non c’è sede della stampa cartacea o televisiva in cui non trovi spazio l’intemerata magistratesca su qualsiasi questione dell’attualità politica, coi giornalisti professionalissimi nella consegna del silenzio davanti ai più discutibili spropositi sgranati dal togato di turno. A esser clementi bisognerebbe dire che questi poveretti non si accorgono di legittimare in tal modo il movimento in direzione decisamente autoritaria di questo andazzo balordo. Non sospettano nemmeno vagamente che una ragione di cautela pubblica, di saggezza comunitaria, di ordine democratico vuole che chi rappresenta un potere sia pur legittimamente repressivo (un militare, un giudice) se ne spogli prima di prendere parte attiva nella vicenda civile: perché se non lo fa le sue idee tendono ad accreditarsi in forza della capacità intimidatrice di quel potere. E non sanno dunque che dare ai rappresentanti di quel potere la panca del comizio significa lasciare che il loro ruolo si perverta nel tentativo di fare stato sulla società che quel potere ha sì attribuito, ma a condizione che fosse subordinato alla legge. La società dell’ordinamento democratico, almeno. Ma sono appunto cavillose minuzie, comprensibilmente estranee al panorama di cognizione civile del giornalismo procuratorio. Misure cautelari, detenuto in udienza solo se la domanda è fatta con la richiesta di riesame di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezioni unite -Sentenza 9 aprile 2020 n. 11803. Il detenuto o la persona sottoposta a misure che limitano la sua libertà di partecipare all’udienza camerale ha diritto di essere presente solo se lo chiede, anche attraverso il difensore, con l’istanza di riesame. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 11803) mettono fine ai dubbi sulla tempestività della domanda, che aveva spaccato la giurisprudenza, tra i sostenitori della necessità fare l’istanza nella richiesta di riesame, o se fosse sufficiente arrivare in tempo per consentire la tempestiva traduzione del detenuto per il regolare svolgimento del procedimento. Le Sezioni unite, scelgono la via più restrittiva, dimostrando come sia in realtà quella più “garantista” anche per la parte e in linea con la giurisprudenza della Consulta e con quella di Strasburgo. La questione si è posta dopo le modifiche apportate dalla legge 47/2015 all’articolo 309 del Codice di rito penale - sul riesame delle ordinanze che dispongono misure cautelari personali - che ha affermato il diritto a comparire del detenuto a prescindere dal luogo in cui si trova. Per i giudici la scelta, adottata nel rispetto del tenore letterale della norma, si impone per consentire ai giudici del riesame di programmare il proprio lavoro - al riparo da variabili rimesse all’amministrazione penitenziaria o da eventuali tecniche dilatorie delle parti - oltre che nel rispetto dei rigidi termini che connotano l’iter del riesame. Una soluzione che non va letta come adesione ad una prospettiva di semplice efficienza organizzativa a scapito dei diritti della difesa. Il bilanciamento dei diritti non è, infatti, più rimesso al giudice, ma alla legge. A garanzia dell’imputato c’è la celerità del procedimento con tempi certi per la decisione. La richiesta di comparizione è poi fissata in un momento in cui la difesa è al corrente degli atti a sostegno della misura e in grado di confrontarsi con l’accusa. Aggiotaggio, sequestro conservativo anche senza rischio di dispersione da parte del debitore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2020 Via libera al sequestro conservativo se c’è il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per adempiere alle sue obbligazioni. Mentre non serve che sia, al tempo stesso, configurabile un futuro depauperamento da parte del debitore. La Corte di cassazione, con la sentenza 11945 respinge il ricorso di uno dei dirigenti della Banca popolare di Vicenza contro la richiesta di riesame relativa al sequestro conservativo disposto dal Gup. La misura era stata adottata nell’ambito del processo a carico del manager e di altri dirigenti per i reati di aggiotaggio, falso in prospetto ed ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della banca centrale europea, in relazione all’operato della BpV negli anni 2012/2015. La difesa del ricorrente aveva sollevato in Cassazione dubbi di legittimità costituzionale sulla possibilità di applicare la misura cautelare in assenza del rischio di dispersione del patrimonio. Un contrasto con la Carta che la Suprema corte nega, considerando sufficiente l’incapienza dei beni a soddisfare il debito. Per i giudici, infatti, le due ipotesi possono essere considerate rilevanti autonomamente. L’applicazione del sequestro conservativo presuppone, infatti, un giudizio prognostico che faccia fondatamente ritenere che le garanzie possano venire a mancare o essere disperse, sia per fatti indipendenti dalla volontà e quindi dal comportamento del debitore (garanzie che manchino) sia per comportamenti addebitabili a quest’ultimo (garanzie che si disperdano). Il legislatore, precisano i giudici di legittimità, ha così voluto coprire tutta la possibile gamma delle ipotesi che, in astratto, potrebbero portare alla perdita delle garanzie. Una scelta in linea con l’obiettivo prevalente di proteggere comunque il credito dell’erario o dei privati. Appropriazione indebita per il dipendente che si impossessa dei file con i dati informatici di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2020 Scatta l’appropriazione indebita per il dipendente che sottrae dal computer aziendale i files contenenti dati informatici, provvedendo alla successiva cancellazione e alla restituzione del Pc formattato. La Corte di cassazione, con la sentenza 11959, respinge il ricorso contro la condanna per il reato, previsto dall’articolo 646 del Codice penale, a carico dell’imputato. Il ricorrente, dipendente di una società, aveva dato le sue dimissioni ed era stato assunto da una compagine, costituita di recente, che operava nello stesso settore del precedente datore di lavoro. Prima del congedo l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, che gli era stato affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici che erano presenti in origine, che venivano poi ritrovati su compiute da lui utilizzati. La difesa contestava il verdetto perché la Corte d’Appello aveva considerato, sbagliando, i dati informatici suscettibili di appropriazione indebita, mentre questi non potevano essere qualificati come cose mobili. La Cassazione, pur consapevole di orientamenti differenti, non è d’accordo con la lettura della difesa. La Suprema corte valorizza, infatti, la capacità dei file di essere trasferiti da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete di internet per essere inviato da un sistema dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti. In più il file può essere custodito in ambienti virtuali, corrispondenti ai luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici. Caratteristiche che confermano, precisano i giudici, il presupposto logico della possibilità di sottrarre o appropriarsi dei dati informatici. Per questo, anche in assenza, della apprensione materialmente percepibile del file in sé, questo va considerato una cosa mobile. Bancarotta documentale, non sempre configurabile reato per scritture contabili molto vecchie di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2020 Se il distacco temporale tra la redazione delle scritture contabili e la dichiarazione di fallimento è molto elevato non sempre è configurabile il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Lo afferma la corte di cassazione con la sentenza n.8429/2020 depositata il giorno 2/3/2020. Il caso di specie trae origine dalla condanna di un imputato da parte della corte di appello dell’Aquila per il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Il procedimento penale era partito dal mancato reperimento delle scritture contabili relative ad una persona giuridica soggetta a procedura concorsuale conseguente alla dichiarazione di fallimento della stessa. Il processo si concludeva come abbiamo visto con la condanna del fallito al quale era stata imputata la mancanza della documentazione contabile e la conseguente responsabilità di carattere penale per il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Il processo, proseguiva il proprio corso in sede di cassazione. La tesi del difensore - In tale fase di giudizio veniva dedotto in apposito motivo di ricorso l’evidente mancanza di responsabilità conseguente al difetto dei presupposti previsti dalla normativa per l’applicazione del reato di bancarotta fraudolenta. Osservava sul punto il legale dell’imputato come tra la redazione delle scritture contabili delle quali era stata accertata la sparizione e la dichiarazione di fallimento, sussistente un notevole lasso temporale che portava a ritenere che la mancanza della documentazione dalla quale aveva avuto origine il procedimento penale avrebbe dovuto essere ascritta a cause indipendenti dalla condotta dell’imputato, al quale pertanto nessuna responsabilità poteva essere ascritta. La tesi difensiva veniva ulteriormente rafforzata sulla base di una considerazione inerente la struttura della norma, diretta a sanzionare nell’ ordinamento il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Tale illecito osserva il legale del ricorrente è configurabile nel solo caso in cui divenga impossibile il reperimento della documentazione contabile della persona giuridica oggetto di fallimento, fatto da imputarsi ad una condotta volontaria del reo. Tuttavia l’illecito per potersi ritenere configurabile necessita altresì di un altro elemento di carattere questa volta psicologico. Infatti il mancato reperimento delle scritture contabili, che come abbiamo visto costituisce l’elemento materiale del reato, deve conseguire ad una condotta volontaria della persona fisica che agisce al fine di arrecare danno ai creditori sociali privandoli dei mezzi per la ricostruzione del movimento di affari dell’impresa, divenuto impossibile a seguito della sottrazione della documentazione contabile. Concludeva pertanto il legale del ricorrente nei suoi atti difensivi, come l’ esame della situazione di fatto portasse ad escludere in maniera inequivocabile una tale condotta a carico dell’ imputato, dovendosi al contrario ascrivere il mancato reperimento della documentazione contabile al notevole lasso temporale decorso tra la redazione delle scritture contabili e la dichiarazione di fallimento che portava a ritenere possibile l’ esistenza di altra causa non ascrivibile in questo caso all’ imputato ed idonea di per sé a determinare la scomparsa delle scritture contabili. Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici della corte suprema con la sentenza qui in commento. La tesi difensiva viene ritenuta fondata da parte degli ermellini. Friuli Venezia Giulia. Il Covid19 arriva nelle celle di Aldo Torchiaro Il Riformista, 14 aprile 2020 L’allarme per detenuti trasferiti senza alcun controllo. I positivi arrivano dalla Dozza di Bologna. Nelle carceri crescono i contagi ma i numeri sono incerti perché mancano le informazioni e i tamponi. Tra i detenuti continua a diffondersi il contagio: la comunità carceraria conta nel suo insieme trecento positivi. Se il bollettino generale registra nelle ultime 24 ore altri 566 decessi, per un totale di 20.465 deceduti, i dati che riguardano la diffusione del virus in carcere arrivano con il contagocce. Il fatto che non si sottopongano ancora i detenuti al promesso screening massivo impedisce di conoscere le dimensioni del fenomeno. Dove le Asl si sono impegnate a moltiplicare i tamponi, ecco emergere i casi. In Veneto di test se ne fanno, e nel solo carcere di Montorio Veronese ieri si è preso atto di 25 detenuti e 17 agenti della polizia penitenziaria positivi al Covid-19. “Come nelle Rsa, anche nelle carceri venete la situazione è drammatica. Va garantita la salute di tutti. Subito, chi può deve avere il beneficio dei domiciliari; nel medio periodo va ripensato il sistema, edificando strutture nuove che garantiscano la dignità e i diritti di tutti, dice al Riformista l’eurodeputata Alessandra Moretti, Pd, vicentina. “Vorrei sentire per una volta Bonafede rispondere del diritto alla salute dei detenuti, e vorrei sentire la voce di Zaia sul caso di Montorio Veronese, aggiunge. Dall’Europa si guarda all’Italia con preoccupazione, oggi il governo dovrà rispondere alla Corte europea di Strasburgo di come sta gestendo l’emergenza Covid-19 in carcere. Anche in Friuli-Venezia Giulia il virus arriva in cella, portato - sembra - dal carcere bolognese della Dozza. Ci sono cinque detenuti in regime di massima sicurezza positivi. “È un tema che abbiamo sempre denunciato: non si può pensare che i detenuti siano chiusi in gruppo dentro a uno stanzone, dice da Udine Serena Pellegrino, Sinistra Italiana, ex parlamentare. “Questa emergenza sanitaria impatta su una emergenza già preesistente, mai sanata. Bisogna costruire nuovi centri di detenzione, pensati non solo per la reclusione ma ai fi ni riabilitativi come prevede la Costituzione all’articolo 27. E lancia un’idea: “A Tolmezzo è stata inaugurata una struttura da dieci milioni di euro, doveva essere il nuovo Tribunale ma è rimasta inutilizzata, vittima dei tagli lineari del governo Monti. Si potrebbe ristrutturare per dedicarla all’accoglienza dei detenuti, appunto a fine rieducativo. La questione è che i braccialetti “rimangono una chimera”, come dice al Riformista il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Lazio e l’Umbria, Stefano Anastasia. “Il decreto Cura Italia prevede l’affidamento ai domiciliari, con il braccialetto elettronico di sorveglianza, che però non è mai arrivato. Allora mi chiedo: quando hanno fatto il decreto, lo sapevano che i braccialetti non erano in fornitura? Gli risponde il Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. In una nota ieri sera ha fatto sapere di aver affidato la fornitura di ulteriori braccialetti elettronici e il relativo servizio di sorveglianza a distanza a Fastweb, la stessa società con cui il Ministero dell’Interno ha già siglato un contratto per la fornitura degli stessi dispositivi, con l’obiettivo di accelerare le misure messe in campo per il contrasto all’emergenza coronavirus e di poter contare sulla possibilità di installare 4.700 braccialetti entro la fine di maggio. I dispositivi sarebbero destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti devono scontare una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Fastweb provvederà alla fornitura e alla manutenzione dei braccialetti elettronici aggiuntivi rispetto a quelli già previsti e ai servizi di connettività tra questi e un “Centro Elettronico di Monitoraggio”, istituito ad hoc per la sorveglianza dei dispositivi installati e l’interazione con le Forze di polizia, per comunicare in tempo reale le situazioni di allarme. Intanto il mondo associativo e del volontariato carcerario non sta a guardare. Nessuno tocchi Caino- Spes contra spem ha lanciato una class action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere di Bari ed auspica che analoghe azioni siano intraprese per le carceri di altre città. Campania. Il Garante regionale: “Coronavirus, carceri nel caos” di Luigi Nicolosi stylo24.it, 14 aprile 2020 Il vaso di Pandora è scoperto, nubi dense e cupe si addensano sempre più sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. A pochi giorni dalla notizia della rivolta dei detenuti soffocata con un pestaggio da parte della polizia penitenziaria, l’indagine “conoscitiva” condotta dai garanti sembra essere già entrata nel vivo. Poco rassicuranti, fin qui, le ricostruzioni rese dai testimoni nel corso dei colloqui: quasi tutti hanno infatti confermato le violenze e i soprusi. I dettagli delle loro versioni restano però al momento ancora top secret e, soprattutto, in attesa di riscontro. L’escalation di tensioni è divampata nel giro di pochissimi giorni. La sera successiva alla scoperta del primo contagiato dal Coronavirus nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’ex deputato siciliano Paolo Ruggirello, i detenuti hanno organizzato una protesta dai toni e dai contenuti durissimi. Nel reparto “Nilo” la manifestazione ha rischiato di degenerare in rivolta: i detenuti hanno infatti bloccato l’accesso al padiglione dall’esterno e soltanto dopo una delicata trattativa con la direzione del penitenziario l’emergenza è rientrata. Ma poche ore dopo sarebbe accaduto l’inverosimile. Stando a quanto riferito dai detenuti, uno dei quali ha pubblicato anche delle foto piuttosto eloquenti dopo la propria scarcerazione, gli agenti penitenziari avrebbero messo in atto un vero e proprio pestaggio al tappeto. In attesa che la magistratura inquirente faccia i propri accertamenti, il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha chiesto e ottenuto di avere colloqui telefonici giornalieri con gruppi di tre-quattro ristretti per capire cosa sia successo realmente nel carcere sammaritano. Secondo quanto fin qui emerso, quasi tutti avrebbero sostenuto di aver subito violenze in quella giornata da parte dei baschi azzurri. Al Garante è stata inoltre inviata una lettera nella quale l’autore ha messo nero su bianco una serie di circostanziate ricostruzioni e, pare, un primo elenco di presunti responsabili. Intanto, proprio stasera il garante regionale Ciambriello ha diffuso una nota dai contenuti a prova di equivoco: “Per il sovraffollamento nelle carceri solo Turchia e Belgio sono peggio di noi nel report di Strasburgo. Non passa giorno che le organizzazioni internazionali non intervengano per richiamare gli Stati alla tutela dei diritti di chi è privato della libertà personale. Ma lei non vuole fare niente, nessun provvedimento, il Covid-19 può aspettare. La farsa dei braccialetti elettronici è diventata tragedia visto che non si trovano. Il grillismo è divenuto il braccio armato del giustizialismo e, al pari di questo, rappresenta una minaccia mortale per la civiltà liberale, che è civiltà di forme e non di contenuti. I diritti delle persone arrestate e incarcerate sono violati, i processi fatti su un quotidiano e sui social, le loro scelte politiche securitarie in contraddizione con gli articoli della Costituzione, portano a rivolte nelle carceri ed appelli. I richiami del presidente della Repubblica, del Papa, dell’Associazione nazionale dei magistrati, delle camere penali, dei garanti, delle associazioni che operano nelle carceri sono disattesi, sbeffeggiati. Ma nessuno nel Movimento 5 stelle, nel Pd, negli altri partiti è capace di alzare la voce e ribellarsi? Tutti appiattiti sul giustizialismo? Mi dichiaro prigioniero politico”. Bologna. Ancora contagi in carcere: 10 nuovi casi alla Dozza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2020 Sono oltre duecento gli operatori della Polizia penitenziari affetti da Covid-19 su tutto il territorio nazionale. Aumentano casi Covid 19 nel carcere bolognese de la Dozza. Oggi pomeriggio è pervenuto l’esito dei tamponi, a cui erano stati sottoposti una ventina di detenuti, con esito positivo per dieci di loro. “Il dato assoluto è di per sé molto preoccupante, ma ciò che più allarma è la media di circa il 50% di positivi sugli ultimi tamponi effettuati”, denuncia Gennarino De Fazio, per la Uil-Pa Polizia Penitenziaria nazionale che ha reso pubblica la notizia del dato relativo alla Casa Circondariale di Bologna. “Dal carcere di Bologna proveniva il primo detenuto deceduto per Covid - ha aggiunto - e sono attualmente almeno dodici i ristretti ivi affetti da coronavirus, mentre altri ancora sono risultati positivi dopo essere stati trasferiti presso altri istituti. Non sappiamo se le proteste che hanno interessato il penitenziario il 9 e il 10 marzo scorsi possano aver avuto incidenza su quanto sta avvenendo, tuttavia, considerato anche che è passato oltre un mese, a noi pure questo sembra indicativo della sostanziale inefficacia con cui l’emergenza sanitaria viene affrontata dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. I focolai nelle carceri oramai non sembrano essere episodici, ma vengono registrati in differenti zone geografiche, da Bologna a Verona a Torino a Voghera, solo per citare alcuni istituti e non considerando i penitenziari dove il numero dei detenuti contagiati rimane relativamente contenuto. Il sindacalista della Uil pol pen sottolinea che sono ben oltre duecento, secondo le sue stime, gli operatori della Polizia penitenziari affetti da coronavirus su tutto il territorio nazionale. Il carcere di Bologna ha visto un primo detenuto morto per coronavirus, già debilitato da numerose patologie e che si era visto - inizialmente - rigettare l’istanza per incompatibilità ambientale. Un carcere dove gli stessi agenti penitenziari hanno denunciato la mancata protezione individuale e si è scoperto che ci fu un ordine ben preciso - da parte dell’azienda sanitaria - per non indossare le mascherine per non spaventare i detenuti. Nel frattempo il leader sindacale De Fazio denuncia: “Continuiamo a pensare che sia indispensabile una svolta sistemica nella gestione carceraria e che questa non possa realizzarsi sotto l’attuale conduzione, per questo auspichiamo ancora che la responsabilità venga pro-tempore assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri”. Udine. Coronavirus: medico del carcere si ammala, positivo anche un poliziotto di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 14 aprile 2020 Le condizioni cliniche del medico incaricato per i detenuti di via Spalato sono migliorate: superata la fase critica, la professionista è stata dimessa e mandata a continuare la degenza a casa. Questa settimana un secondo giro di tamponi sul resto degli operatori sanitari, gli agenti della Polizia penitenziaria, il personale amministrativo e, naturalmente, i detenuti. Per un totale di circa 250 test. Il coronavirus ha messo in quarantena anche il responsabile sanitario della casa circondariale di Udine. Il ricovero in ospedale risale al 26 marzo scorso e, da allora, le condizioni cliniche del medico incaricato per i detenuti di via Spalato sono migliorate: superata la fase critica, la professionista è stata dimessa e mandata a continuare la degenza a casa. I controlli seguiti alla sua malattia e comunque legati anche ai nuovi ingressi, invece, proseguiranno la settimana prossima, con un secondo giro di tamponi sul resto degli operatori sanitari, gli agenti della Polizia penitenziaria, il personale amministrativo e, naturalmente, i detenuti. Per un totale di circa 250 test. Dopo la prima tornata, soltanto un poliziotto, per quanto asintomatico, era risultato a sua volta positivo a Covid-19 e lasciato quindi in isolamento domiciliare. Seguito dal Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale, anche lui sta per completare il periodo di osservazione e rientrare in servizio. E se da un lato la notizia ha creato un po’ di maretta tra gli agenti della Penitenziaria, che lamentano di essere stati informati con ritardo della positività del medico incaricato, dall’altro i garanti dei diritti dei detenuti plaudono alla prontezza con cui i rischi di contagio sono stati arginati. “Per ora non si sono registrati problemi e questo è merito anche delle ottimali misure adottate dal distretto sanitario di Udine”, afferma l’avvocato Natascia Marzinotto, Garante per il carcere di Udine. “È tutto sotto controllo - continua - e da oltre una settimana sono state distribuite le mascherine anche ai detenuti, che sono complessivamente tranquilli, nonostante la sospensione delle attività ricreative. Misura necessaria e comunque compensata da un ampliamento delle ore d’aria e il posizionamento di tavoli da ping pong”. Alcune settimane fa, a preoccupare erano stati i sintomi sospetti manifestati proprio da un paio di detenuti: prontamente isolati e sottoposti a tampone, erano risultati alla fine entrambi negativi. In carcere, insomma, ci si è mossi per tempo. D’accordo con il direttore della Casa circondariale, Tiziana Paolini, era stato il direttore del Distretto sanitario di Udine, Luigi Canciani, a disporre già a partire dal 25 febbraio l’utilizzo da parte del personale sanitario di mascherine chirurgiche e guanti. Una tempestività precauzionale che ha finito per pagare, visto il risultato dei successivi tamponi sui due medici di continuità assistenziale, i cinque infermieri e l’operatore socio sanitario in servizio in via Spalato, cioè a coloro che erano stati a più stretto contatto con il medico incaricato, oltre che sul centinaio di agenti e sui 130 detenuti. Risultati che ora si conta, naturalmente, di replicare. “Ragioni per essere preoccupati, al momento, non ce ne sono”, conferma anche il procuratore di Udine, Antonio De Nicolo, ricordando come nella casa circondariale, “ora che si è anche un po’ svuotata”, ci siano stanze libere per eventuali quarantene. Gli effetti del decreto “Cura Italia” del 17 marzo scorso - nella parte che prevede la detenzione domiciliare ai detenuti che devono scontare una pena o un residuo pena fino a 18 mesi - tuttavia, si vedono appena in Friuli così come nel resto del Paese. “I detenuti usciti, nella nostra regione, si contano si contano su due mani - afferma il garante dei diritti dei detenuti del Fvg, Paolo Pittaro. Molte delle istanze presentate al magistrato di sorveglianza risultano sospese, per la necessità di verificare l’effettiva idoneità del domicilio indicato. L’altro grosso problema di questo provvedimento risiede nel fatto di avere condizionato la detenzione domiciliare per i detenuti con pene comprese tra i 6 e i 18 mesi all’utilizzo del braccialetto elettronico. Ma sappiamo bene - continua - che questi dispositivi scarseggiano da sempre. Il risultato è che si esce con il contagocce: dai poco più di 60 mila detenuti di fine febbraio, a fronte di una capienza per circa 48 mila, siamo finora scesi soltanto a 56 mila”. A Udine, fino a sabato scorso, risultavano passati ai domiciliari un solo detenuto con braccialetto e altri nove senza (quelli con pene al di sotto dei 6 mesi). Un’altra decina di cosiddetti “semiliberi” ha ottenuto invece di non fare rientro in carcere la notte. Verona. Bisogna fermare il contagio nel carcere di Montorio cronacadiverona.com, 14 aprile 2020 Nel carcere di Montorio ci sono 17 poliziotti penitenziari e 25 detenuti risultati positivi al coronavirus. “Ho saputo” dice il senatore del Pd Vincenzo D’Arienzo, “che ancora dieci giorni fa i sindacati avevano rappresentato i fatti e, sinceramente, non è accettabile che ancora oggi non si sia vista l’ombra di nessuno. Le scelte prese finora, in particolare quella di riservare un’area dell’istituto per i detenuti malati, è stata buona cosa, ma il rischio che non sia sufficiente è nelle cose, visti i numeri così elevati. Poliziotti e detenuti non sono cittadini di serie B. Sinceramente, e lo dico senza polemica, pensavo che non arrivassimo fino a questo punto. Adesso, però, serve intervenire con urgenza. Innanzitutto, va rassicurata la popolazione carceraria che si farà di tutto per impedire la diffusione del contagio. E va fatto con atti concreti e immediati, unici fatti che possono consentire uno sviluppo ordinato delle legittime preoccupazioni di tanti.” Tolmezzo (Ud). Positivi al virus in carcere, la protesta di Brollo e Mazzolini Il Gazzettino, 14 aprile 2020 “Con una mano ci hanno tolto il tribunale, con l’altra ci portano il coronavirus”. Parole dure quelle pronunciate dal sindaco di Tolmezzo Francesco Brollo, che ha inviato una formale lettera di protesta al ministero della Giustizia per i cinque casi di positività riscontrati nella casa circondariale del capoluogo carnico tra una parte dei detenuti trasferiti da Bologna. “Inoltro formale protesta per il trasferimento dei detenuti che ovviamente loro malgrado hanno causato un focolaio all’interno della casa circondariale. In tempi normali l’unica possibilità ragionevole per un sindaco sarebbe esigere l’immediato trasferimento; ora pur comprendendo le criticità che tale operazione richiederebbe, chiediamo comunque in via principale che si valuti l’allontanamento in altra zona, in subordine ci aspettiamo senza indugio dalla sua amministrazione che venga messo in campo ogni mezzo atto impedire il diffondersi del contagio all’interno del carcere tra detenuti e operatori che lavorano nonché a impedire che il medesimo si possa diffondere tra le famiglie dei lavoratori e, in seconda istanza, tra la popolazione extra carceraria. Infine faccio formale richiesta affinché non vengano più effettuati trasferimenti di detenuti in pendenza della fase emergenziale da Covid-19”, ha scritto Brollo, che si è espresso anche come presidente dell’Uti Carnia. La missiva è stata spedita alla Direzione generale detenuti e trattamento del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ai dipartimenti competenti, nonché per conoscenza al ministro Bonafede, a Fedriga e Riccardi. Secondo Brollo “di tutto c’era bisogno tranne che di dare una mano alla diffusione del virus che è già molto virale di per sé, in un territorio che si sta dimostrando attento nelle misure di contenimento”. Il sindaco ha ribadito la fiducia in medici e operatori dell’AsuFc e la vicinanza “ai lavoratori del carcere ai loro familiari, ai detenuti medesimi”. Brollo teme che un’azione esterna possa mettere “a rischio la salute della comunità che rappresento e innesta in un contesto cittadino dove la popolazione sta adottando comportamenti tra i più virtuosi d’Italia, un focolaio potenzialmente in grado di impattare sulla salute di una comunità che sta facendo con successo fronte comune nei confronti del morbo e che se lo vede recapitato da un’istituzione tra le proprie linee”. Ma Brollo evidenzia anche che “ciò è avvenuto in un luogo che, nel dare e avere tra Stato e comunità locale in tema di giustizia e della sua amministrazione, Tolmezzo e la Carnia hanno già dato. Il riferimento è infatti ai provvedimenti di revisione della geografia giudiziaria che hanno portato alla chiusura del Tribunale e della Procura di Tolmezzo nel 2013”. “Per una decisione scellerata dello Stato rischiamo che il carcere di Tolmezzo diventi una seconda Paluzza”, dice invece il vicepresidente del consiglio regionale Stefano Mazzolini. Mazzolini fa notare come siano stati gli stessi detenuti a far presente agli agenti di Polizia penitenziaria di essere venuti a contatto con un contagiato da coronavirus, poi morto. “Hanno portato a Tolmezzo queste persone senza dire nulla alle autorità regionali e all’amministrazione comunale. Come è possibile mantenere la distanza fisica tra un agente e un detenuto? Il contatto fisico ci deve essere per forza. Bisognava prendere delle precauzioni. Complice questa decisione rischiamo che il carcere di Tolmezzo diventi una seconda Paluzza”. Mazzolini ha chiesto al presidente Massimiliano Fedriga, di contattare il ministero. “Stop ai trasferimenti di detenuti nel carcere di Tolmezzo”, chiede anche Renzo Tondo di Noi con l’Italia. Santa Maria Capua Vetere. Coronavirus nel carcere, i detenuti: “Massacrati in cella” di Mary Liguori e Fabio Mencocco Il Mattino, 14 aprile 2020 È un detenuto scarcerato venerdì l’uomo comparso, in questi giorni, in una foto pubblicata sui social network con la schiena striata da lividi e graffi. Quello stesso detenuto compare in un video inviato a Il Mattino in cui racconta ciò che, secondo lui, è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere tra le 15 e la mezzanotte di lunedì. Quando, secondo il recluso napoletano che ha denunciato il tutto alle autorità preposte, una volta andati via dal carcere i magistrati di sorveglianza, nel reparto Nilo ci sarebbe stata una rappresaglia della polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti che avevano preso parte alla protesta del giorno precedente. “Quando abbiamo saputo che c’era un detenuto contagiato ci siamo spaventati, noi chiedevamo le distanze e che le guardie non entrassero più nella sezione senza mascherine. Abbiamo chiesto i tamponi e ci hanno promesso che li avrebbero fatti il lunedì. Sono uscito oggi (ieri, ndr) e di tamponi non ne ho visti. L’unica cosa che ho visto, per la prima volta in vita mia nonostante sono stato quindici anni in carcere, è un abuso di potere senza precedenti”: parla un detenuto ai domiciliari da ieri mattina. “Abbiamo protestato, è vero, ma abbiamo fatto solo lo sciopero della fame e la battitura, non abbiamo mai alzato le mani. Abbiamo manifestato la nostra paura di morire come topi in carcere. Lì al Nilo ci sono cardiopatici e diabetici, ormai il virus arriverà anche lì e se non si prendono provvedimenti sarà una tragedia. Dicevano che ci avrebbero fatto i tamponi, lunedì aspettavamo le telefonate normali alle 14.30 e ci hanno detto che non c’era linea. Al quarto piano, io stavo all’ottava sezione, abbiamo iniziato a sentire grida d’aiuto. La gente del padiglione Tevere ci urlava che stavano venendo pure da noi. Ci hanno detto: “Togliti le lenti e mettiti faccia a muro”. Sono arrivate 100 guardie e ci hanno presi a colpi di manganelli nelle spalle e sulle gambe. Urlavano “Noi siamo lo Stato! Noi comandiamo, voi siete la munnezza”. Mi creda, in quel momento anche il più grande delinquente ha avuto paura di morire. Quelli che hanno fatto i promotori della rivolta sono stati picchiati molto più duramente, c’era sangue nelle celle. Io ho preso solo calci perché non ho reagito. Mai in vita mia ho visto una cosa simile, denuncerò tutto”. Il detenuto, 50 anni, si è rivolto al suo avvocato per informare la Procura. E non è il solo. “Ci hanno presi a anni di manganellate su tutto il corpo, pensavo che saremmo morti. Ci hanno tirato fuori dalle celle, picchiandoci anche mentre eravamo sulle scale, sto soffrendo per quello che ho subito, ci hanno danneggiato fisicamente e psicologicamente. Chiedo un aiuto per i miei amici che sono rimasti ancora lì”. È il racconto di un secondo detenuto, liberato venerdì, colui che ha inviato un video a Il Mattino. Ha grossi bernoccoli sulla testa oltre ai segni rossi sulle spalle. “Dovevano scarcerarmi lunedì sera, ma la misura firmata dal giudice è stata eseguita cinque giorni dopo nella speranza che si attenuassero sul mio corpo i lividi e gli altri segni di percosse. Altri sono messi peggio di me: ho denunciato tutto per tutelare chi è ancora dentro il carcere”. Santa Maria Capua Vetere. “Detenuti pestati dopo la protesta”, indaga la procura di Viviana Lanza Il Riformista, 14 aprile 2020 Alla Procura di Santa Maria Capua Vetere è arrivata ben più di una segnalazione. Non ci sono soltanto quelle dei familiari di alcuni detenuti del carcere casertano. Sulla scrivania del procuratore Maria Antonietta Troncone c’è anche la relazione del garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello, che chiede verifiche sui racconti dei pestaggi testimoniati da alcuni familiari dei reclusi e da qualche detenuto uscito proprio in questi giorni dall’istituto di pena finito nell’occhio del ciclone. E c’è la segnalazione di Antigone, l’associazione impegnata per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Cosa è accaduto nelle celle della sezione tre dopo le rivolte di domenica e lunedì scorsi quando nel carcere di Santa Maria Capua Vetere alcuni detenuti cominciarono a protestare temendo per la loro salute dopo la notizia dei primi contagi all’interno della struttura carceraria? Davvero ci sono state squadre di agenti della penitenziaria che hanno fatto irruzione nelle celle e con il pretesto di controlli e perquisizioni hanno preso a pugni, calci e manganellate alcuni detenuti? Sarà la Procura a dover dare risposta alle domande che gettano un velo nero sulla vita in quel carcere negli ultimi giorni. Le denunce di percosse e violenze, definite “inaudite”, corrono anche sui social, con tanto di foto della schiena di una delle presunte vittime con i segni evidenti dei pestaggi. La dinamica delle violenze l’ha confermata al garante anche un detenuto che da pochi giorni è uscito dal carcere ed è ai arresti domiciliari. Il suo racconto è la sequenza di un incubo. E ora c’è bisogno che la Procura si attivi per fare luce. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere era finito sotto i riflettori una settimana fa dopo la notizia dei primi contagi. Attualmente si contano 4 detenuti positivi al Coronavirus, due dei quali sono in isolamento e due (è di ieri la notizia del secondo trasferito in ospedale) ricoverati al Cotugno in condizioni che al momento non risultano gravi. La tensione tuttavia è alta quanto la preoccupazione che le carceri possano diventare focolaio di nuovi contagi. E ad appesantire la situazione si aggiungono le centinaia di scarcerazioni che il decreto firmato dal Governo ha autorizzato, ma solo sulla carta. “Dalla farsa si è passati alla tragedia” ha commentato il garante Samuele Ciambriello. Farsa e tragedia per quei detenuti - e sono centinaia - che, avendo un residuo di diciotto mesi da scontare, potrebbero essere già ai domiciliari e invece si ritrovano ancora in cella, in carcere. E tutto questo perché? Perché non ci sono braccialetti elettronici a sufficienza. Possibile? Si chiedono tutti quelli che credono ancora nei diritti. Santa Maria Capua Vetere. “Detenuti picchiati in carcere agenti a volto coperto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2020 A scatenare la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sarebbe stata la protesta pacifica dei reclusi per i contagi da coronavirus, come confermato dal Sindacato di Polizia penitenziaria. L’ultima telefonata l’aveva ricevuta nella tarda mattinata del 6 aprile scorso, poi più nulla. Solo dopo alcuni giorni, la moglie di un altro detenuto l’aveva avvisata che suo marito non avrebbe effettuato nessuna chiamata perché non era in condizioni fisiche a causa delle numerose percosse subite. Ma non è un caso isolato. A seguito di una protesta avvenuta al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero stati presunti pestaggi perpetrati nei confronti dei detenuti e, secondo alcune testimonianze, ne avrebbero fatto le spese anche coloro che non sarebbero stati parte attiva della protesta. Da ricordare che tale protesta (secondo i detenuti sarebbe consistita nelle battiture) è scaturita dalla circostanza che alcuni detenuti erano risultati positivi al Covid-19. Ma non solo. La preoccupazione era rivolta al fatto che risultavano assenti le dotazioni di sicurezza anti contagio. La prima denuncia presentata alla stazione dei carabinieri è stata fatta proprio dalla donna che non ha potuto più sentire telefonicamente suo marito. Alla querela ha allegato tre file audio WhatsApp dove diversi familiari denunciano presunte violenze subite dai detenuti ad opera del personale penitenziario del carcere. Diverse sono le testimonianze. La più emblematica consiste nel fatto che, in maniera singolare, il giorno dopo la rivolta e il presunto pestaggio, diversi detenuti non hanno avuto la possibilità di effettuare le videochiamate. Perché? Secondo i familiari sarebbero state evitate per non far vedere loro i segni delle presunte percosse. Diverse testimonianze coincidono perfettamente e ricostruiscono ciò che sarebbe avvenuto nella sezione coinvolta. Quasi trecento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero fatto irruzione nel padiglione Nilo, sarebbero entrati nelle celle e avrebbero cominciato i pestaggi. Avrebbero picchiato chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana. Tra di loro anche un detenuto che dopo pochi giorni ha finito di scontare la pena. A raccogliere subito la sua testimonianza è Pietro Ioia, il garante delle persone private della libertà del comune di Napoli. Per corroborare la sua testimonianza ha reso pubbliche le sue foto che mostrano ecchimosi su tutto il corpo, addirittura alla sua schiena sembra che ci sia il segno di uno scarpone. L’uomo ha prima fatto denuncia alla stazione dei carabinieri, ma tramite l’avvocato oggi presenterà un esposto direttamente in Procura. L’ex detenuto che è uscito dal carcere venerdì scorso, raggiunto da Il Dubbio, ammette che hanno inscenato delle proteste per i contagi da coronavirus, ma poi sembrava che tutto fosse stato chiarito. Infatti dopo le proteste è giunto il magistrato di sorveglianza che ha parlato con tutti loro. Hanno potuto raccontare i fatti, smentendo le ricostruzioni trapelate da alcuni sindacati di polizia che parlavano di una violenta rivolta. Ma sarebbe stata la quiete dopo la tempesta. “Nel pomeriggio circa 300 agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione nelle celle - racconta a Il Dubbio l’ex detenuto -, costringendoci ad uscire, dopo di che ci hanno denudati e colpiti a calci e manganellate”. Ma non solo. “Per dimostrare la loro superiorità e durezza - racconta sempre l’ex detenuto - dopo le mazzate hanno preso i nostri rasoi dagli armadietti e ci hanno rasato la barba”. L’uomo ha anche confermato che dopo i presunti pestaggi, erano state proibite di fare le videochiamate. Come se non bastasse - prosegue sempre l’ex detenuto - “gli agenti facevano la conta obbligandoci tutti a stare in piedi davanti alle brande e con le mani all’indietro, come se fossimo in una caserma”. Il garante regionale Samuele Ciambriello ha raccolto varie testimonianze, comprese quelle ottenute dall’associazione Antigone, e le ha portate all’attenzione non solo della Procura ma anche della magistratura di sorveglianza. Bari. Carceri sovraffollate, class action promossa da Nessuno Tocchi Caino di Luca Liverani Avvenire, 14 aprile 2020 La pandemia di coronavirus rischia di rendere ancora più drammatico il sovraffollamento carcerario. Mentre Nessuno Tocchi Caino fa partire una class action per le condizioni dei 434 detenuti stipati a Bari in un istituto da 299 posti, il commissario straordinario Domenico Arcuri ha ordinato 4.700 braccialetti elettronici entro maggio per alleggerire le celle assicurando il controllo sui detenuti scarcerati. La class action procedimentale, per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel carcere di Bari, è stata promossa dall’associazione Nessuno Tocchi Caino - Spes contra spem, contro Governo, Guardasigilli e Procura e Comune di Bari. L’iniziativa, seguita dagli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, si propone come azione-pilota per altre analoghe situazioni in altre città. Il sovraffollamento carcerario, sostengono i legali, non consente l’applicazione delle norme di sicurezza igienico-sanitaria imposte sull’intero territorio della Repubblica e mette a grave rischio la salute degli operatori penitenziari e dei detenuti, vanificando “il principio di uguaglianza dei diritti e di non discriminazione”. Intanto Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza Coronavirus, ha affidato la fornitura di ulteriori braccialetti elettronici e del relativo servizio di sorveglianza a distanza a Fastweb, la stessa società con cui il ministero dell’Interno ha già siglato un analogo contratto, con l’obiettivo di installare 4.700 braccialetti entro maggio. Il commissario Arcuri, d’intesa coi ministri della Giustizia, Alfonso Bonafede e dell’Interno Luciana Lamorgese, ha accelerato l’installazione dei dispositivi per il controllo della detenzione domiciliare di chi ha una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Treviso. Pre-triage ancora non attivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2020 La denuncia della Uil Pol Pen: “a rischio l’incolumità di tutti”. Il pre-riage per le carceri è una delle misure prioritarie per fronteggiare il rischio di diffusione del contagio da Covid-19 e garantire sicurezza e salute ai detenuti e agli operatori penitenziari. Eppure accade che nel carcere di Treviso ancora non è funzionante nonostante sia stato messo a disposizione un apposito “box esterno”. La direzione del carcere, però, è ancora in attesa di riscontro in merito, già richiesto all’azienda Ulss competente. A porre il problema della mancata prevenzione nel carcere di Treviso è il portavoce del coordinamento regionale Uil Pol Pen Innocenzo Bonelli. Il sindacalista della polizia penitenziaria si è rivolto direttamente al provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del triveneto. “Egregio Provveditore - si legge nella nota urgente - in riferimento all’emergenza sanitaria che stiamo fronteggiando in questi ultimi mesi ed in considerazione delle molteplici situazioni di contagio verificatesi, preme per la scrivente organizzazione sindacale trovare soluzioni di prevenzione a beneficio degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, i quali, diligentemente, svolgono i propri compiti Istituzionali nonostante le scarse condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro che, non di rado, tendono a minare l’incolumità personale”. Il sindacalista chiede di ricevere notizie in merito alla realizzazione delle postazioni di controllo, il cosiddetto “Pre-Triage”, negli Istituti Penitenziari, sottolineando che presso la casa circondariale di Treviso, a tutt’oggi, non viene realizzato controllo alcuno nei confronti del Personale che accede in Istituto. “Altresì - continua la nota - riteniamo opportuno chiedere alla S. V. di valutare l’opportunità di sottoporre il Personale di Polizia Penitenziaria all’esame diagnostico del tampone, al solo fine di scongiurare il pericolo che vi siano dipendenti positivi al Covid-19”. Viene sottolineato che tale esigenza assume carattere d’urgenza poiché la positività al virus, non sempre è seguita da talune sintomatologie ma, come già noto, possono verificarsi casi di positività asintomatici. “Ed è di questi ultimi casi - prosegue Bonelli della Uil - che nutriamo particolare preoccupazione e sentiamo la necessità di voler tutelare il Personale di Polizia Penitenziaria e di conseguenza le rispettive famiglie”. La preoccupazione è tanta. Qualora vi sia anche solo un caso positivo asintomatico, lo stesso potrebbe contagiare altro personale e contagiare, di conseguenza, anche parte della popolazione detenuta. Il provveditorato ha risposto alla comunicazione urgente, confermando che le operazioni di triage non sono ancora potute iniziare in quanto la Direzione è in attesa di riscontro in merito, già richiesto all’Aulss competente. Il provveditorato ha aggiunto che ha già sollecitato tutte le Direzioni che non abbiano ancora provveduto, ad inviare richieste di collaborazione al personale della Croce Rossa o di altre associazioni di volontariato, per lo svolgimento delle operazioni di triage. Ma per il momento ancora nulla. Eppure il triage è fondamentale non solo per gli operatori penitenziari, ma anche per permettere lo svolgimento dei controlli previsti dalla legge sui detenuti cosiddetti ‘nuovi giunti’, sugli arrestati e su quelli provenienti da altri istituti, come previsto dalla circolare emanata dal Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Da ricordare che nel Veneto, mentre comincia a scendere la curva dei contagi nel “mondo libero”, alle carceri invece comincia a salire. Sono già stati contagiati 27 agenti della polizia penitenziaria e 17 detenuti a Verona, più 23 poliziotti al lavoro negli altri istituti di pena della regione. Per questo il governatore Luca Zaia ha fatto sapere che, una volta conclusi i tamponi a operatori sanitari, ospiti e dipendenti delle case di riposo, partiranno nelle carceri. Crotone. Coronavirus, avviata la raccolta di indumenti per i detenuti di Angela De Lorenzo ilcrotonese.it, 14 aprile 2020 In questo momento difficile per tutti, c’è una categoria che soffre ancora di più. È quella dei detenuti. Sono persone che hanno commesso errori e che li stanno pagando. Persone che, in virtù dei provvedimenti del governo per limitare la diffusione del coronavirus, non hanno difficoltà ad incontrare i parenti e vivere quel momento di ‘libertà’ che era loro concesso. Nel carcere di Crotone, sulle cui condizioni di sovraffollamento abbiamo scritto nella scorsa settimana, ci sono situazioni complesse derivate anche dalla mancanza delle visite dei parenti. Tra queste anche la difficoltà ad avere abbigliamento. Per questo don Stefano Cava, cappellano della casa circondariale di Crotone, ha lanciato una iniziativa che prevede la raccolta di indumenti per i detenuti. C’è bisogno di tute, t-shirt, calze, biancheria intima, scarpe e ciabatte oltre che asciugamani e teli da bagno scrive don Stefano nel suo appello. Gli indumenti vanno portati a don Stefano presso il carcere di Crotone, presso la chiesa del Carmine oppure chiamando direttamente il sacerdote al numero 3389199841 Livorno. Videochiamata a casa in “premio” ai detenuti che leggono un libro di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 aprile 2020 Il direttore del carcere “Le Sughere” ha avviato un progetto per incentivare la lettura che proseguirà anche dopo l’emergenza Covid. Contenti i reclusi che poi compilano una scheda. Libri in cambio di videochiamate a casa. Succede al carcere livornese “Le Sughere”, dove in un periodo in cui i colloqui avvengono attraverso telefonate video, il direttore Carlo Mazzerbo ha avuto un’idea originale: “Per ogni libro letto, una videochiamata in più con i propri familiari”. Potrebbe sembrare un ricatto, ma non lo è: “È invece un incentivo alla scoperta della lettura e un modo educativo per trascorrere il tempo”. La procedura funziona così: il bibliotecario individua i testi da proporre corredati ognuno da una scheda che, al termine della lettura, i detenuti devono compilare per dare prova di aver letto realmente il libro e ottenere così una video telefonata in più. L’idea di scambiare libri con premi arriva dal Brasile, dal progetto “Reembolso através da leitura”, piano di recupero che permette ai reclusi uno sconto di pena per ogni libro letto. Il progetto di lettura non è nuovo nel carcere livornese, dove da tempo è attivo un programma di lettura ad alta voce che prevede un incontro di detenuti, ogni quindici giorni, per leggere e commentare un libro insieme ad alcuni volontari. “Ma si tratta di incontri che purtroppo sono poco frequentati - ha spiegato il direttore - E così ho pensato di stimolare i detenuti alla lettura con questo modo originale”. E i risultati si vedono: sono già otto i reclusi che hanno preso un libro in biblioteca e l’hanno terminato, compilando al meglio la scheda finale con le domande per verificare l’effettiva lettura. Un recluso ha letto “Uomini e topi” di Steinbeck, un altro “Garibaldi o la conquista delle due Sicilie”. E poi “I nipotini di Stalin” e “Alice: i giorni della droga”. Li hanno letti dall’inizio alla fine, e gli sono pure piaciuti. Adesso questi detenuti, oltre a richiedere il diritto della videochiamata a casa, sono rimasti talmente appassionati dalla lettura che hanno ordinato un altro libro da leggere. “È stata una bella sorpresa - ha commentato il direttore Mazzerbo - e sicuramente continueremo a replicare questa iniziativa anche quando sarà superata l’emergenza Coronavirus”. Papa Francesco e quel ponte tra giusti e ingiusti di Alberto Cisterna* Il Riformista, 14 aprile 2020 Sono due mondi solitamente divisi, contrapposti, che si odiano, spinti da una parte dai boss mafiosi, dall’altra da uno Stato che non perdona. Il Papa ha creato un collegamento nel dolore, nella speranza. La via Crucis e al centro l’universo carcerario. Non i detenuti, non solo i detenuti, ma tutti i protagonisti di quel mondo dolente e sofferente che circoscrive e definisce la dimensione più severa della punizione. Anzi la dimensione più severa dell’umanità. Carcerieri e carcerati insieme in processione, dietro una croce. Una scelta che ha spiazzato e ha lasciato attoniti all’inizio. Tuttavia, man mano che le 14 stazioni si dipanavano e le voci dei carnefici e delle vittime, degli perseguitati e dei giudici, dei custodi e dei cappellani risuonavano in una piazza San Pietro non vuota, ma nuda, si coglieva l’impatto emotivo, riflessivo, spirituale che stava dietro la scelta del Papa anche questa volta Pontefice, costruttore di ponti tra pezzi della società che vivono segregati dalle mura e segnati dalle stimmate della colpevolezza. Si badi bene, in quella piazza sono stati mostrati mondi che di solito vivono scissi gli uni dagli altri, indifferenti, insofferenti, insensibili gli uni verso gli altri. Uomini e donne che sono accomunati, oltre il colonnato del Bernini, dal rancore vittorioso dei giusti e dalla rabbia inerme degli ingiusti. Un odio reciproco che qualcuno vorrebbe coltivare per sempre. Una separatezza che troppi desiderano sia incolmabile e si sforzano ogni giorno di consolidare da ultimo - in questi tempi della peste - aggiungendovi la beffarda provocazione delle celle come luogo sicuro. Questo vogliono i cultori del carcere concepito come vendetta, della segregazione muraria intesa come marchio indelebile di infamia. Questo vogliono i boss mafiosi che non tollerano alcun dialogo, che impongono nei bracci dell’alta sicurezza l’odio verso lo Stato, che coltivano la separazione come scelta di supremazia elitaria, che incitano al disprezzo verso gli sbirri. Così un altro patto tra Stato e mafia si consolida tutti i giorni, si rafforza in quest’odio reciproco che tiene distinti e distanti, senza alcuna possibilità di contatto. Con lo Stato, anzi, che in nome di un’aberrante egemonia pedagogica, per giunta negata dalla Costituzione, immagina persino di poter strappare i figli da quelle famiglie indegne, quasi che non fossero più pericolosi e insidiosi i modelli educativi dispensati ai propri pargoli dall’élite dei corrotti o degli evasori. Ecco che il Pontefice, con quella via Crucis nuda e scandalosa, ha rotto quel patto scellerato, ne ha disvelato l’aberrazione, ha mostrato al mondo che giusti e ingiusti condividono una dimensione etica e spirituale che resta insopprimibile e incoercibile, perché tutti rivelano la propria esistenza servendosi delle stesse parole, anche se distillate dalla fragilità di vite diverse. Il rito più doloroso della Chiesa, quello che piega lo sguardo sconfitto innanzi alla vittoria della morte, mette in comunicazione mondi che qualcuno, con ostinata determinazione, vuole siano sordi e ostili. Sono mossi i distruttori di pace dall’angosciosa paura che la comune umanità disvelata da carcerieri e carcerati possa intaccare il proprio potere e il proprio privilegio, possa rompere le recinzioni etiche e antropologiche che devono dividere i buoni dai cattivi. In piazza San Pietro, in un venerdì Santo ai tempi dell’unzione virale, la Chiesa cattolica ha consumato il più dirompente atto d’accusa verso l’ingiustizia di quella separazione e inesorabile ha puntato l’indice contro gli strateghi dell’odio reciproco. Non c’erano pentiti di mafia in quell’agorà, né vittime che hanno perdonato i propri carnefici ossia gli epigoni degli unici varchi che la mistica della vendetta concepisce nel muro eretto tra giusti e ingiusti. Chi era in processione ha, invece, rivelato cosa significhi vivere con il dolore del male procurato e con il dolore del male subito, lo hanno fatto senza alcun cedimento che potesse compiacere la retorica mediatica del perdono lacrimoso e lacrimevole. “Hombre vertical” disse il presidente messicano Lopez Portillo rivolgendosi a Sandro Pertini in visita. Venerdì sera in piazza San Pietro c’erano donne e uomini che non si piegano e che accettano, nella fede che li sorregge, di vivere la propria condizione di sofferenza senza invocare sconti e senza pietire commiserazioni. Solo un Ponte avrebbe potuto tenerli insieme, perché loro sono donne e uomini verticali, non si genuflettono innanzi ai flutti fragorosi della violenza delinquenziale che li ha colpiti o di fronte alla minacciosa invalicabilità delle mura che li cingono. La crocifissione di un giusto, la condanna dell’innocente erano la cornice possente che ricordava a tutti, credenti o meno, nel buio fitto di quella piazza, che nessuno ha in mano e per sempre le chiavi della verità e della giustizia. Un messaggio intra ed extra moenia, destinato a raggiungere gli uomini dentro e fuori i propri recinti per ricordare loro - nel giorno che celebra il più iniquo dei processi iniqui - che la giustizia degli uomini è imperfetta e che Dio si è schierato per sempre dalla parte dei condannati, assaporando il dolore della morte tra due di essi. *Magistrato Quei demagoghi e imbonitori da quattro soldi diventati antagonisti del Papa di Adriano Sofri Il Foglio, 14 aprile 2020 La marcia di Pasqua indetta dal Partito radicale sulla condizione delle carceri (“Per l’amnistia e la Repubblica”) si è svolta anche quest’anno. Disincarnata, niente corpi in cammino - era il bello - solo una catena radiofonica di voci. Sento un’usura delle parole, e me la figuro nei tanti che, come me, benché per vie diverse, hanno fatto della galera un impegno costante e ormai antico. Succede inevitabilmente che parole (e gesti, del resto) pronunciate con la passione della scoperta e dello scandalo, a tanto lungo andare, pur non perdendo niente della loro buona ragione, anzi, si ripetano però come snervate ed estenuate. Soprattutto quando si avverta attorno una retrocessione nel riconoscimento delle buone ragioni e quasi un compiacimento del loro ripudio. Un (provvisorio?) fallimento collettivo e personale. In apparenza, le cose non stanno così, o almeno sono più contraddittorie. La rivendicazione della dignità umana e della coerenza costituzionale nella concezione e nella pratica della pena coinvolge personalità e istituzioni delle più autorevoli, compresi coloro che la studiano e la amministrano professionalmente, magistrati, avvocati, giuristi, educatori, sociologi, psicologi. La valutazione fredda, per così dire, degli effetti della pena carceraria e dei modi in cui viene inflitta si affianca largamente alla compassione per una pratica che umilia terribilmente chi la soffre, ma abbassa anche coloro in nome dei quali viene inflitta. Tuttavia questo scenario non è nuovo, e caso mai accentua oggi una tendenza che agisce da tempo. I carcerati, il sottoscala infimo della società costituita, ricevono l’attenzione aperta, più o meno discreta, più o meno franca, di papi e cardinali e vescovi e cappellani, di presidenti di Repubblica e di Cassazione, di emeriti giudici costituzionali, di procuratori generali e di bei nomi dell’arte e della cultura. Un gran Papa andò già nel Parlamento italiano a impetrare un provvedimento di clemenza, un presidente indirizzò solennemente alle Camere un messaggio nello stesso spirito. A tutto questo non corrisponde una disposizione più simpatica del senso comune, ma il contrario, un esacerbato rigetto del buon senso: ecco il caso più singolare della rivolta contro l’élite, divampata (e attizzata) molto più rapidamente della divulgazione del significato della parola. L’élite sono gli altri. Il bisogno di un nemico precede l’adeguatezza del nemico stesso, se lo trova a piacere. Così la dedizione cosiddetta forcaiola dello spirito pubblico trova nella saggezza o nel realismo di tante “autorità” sul punto delle carceri, una riprova dell’alleanza fra il privilegio e gli ultimi, a scapito di penultimi e mediani e insomma del popolo. Ora mi pare che questo cortocircuito si sia concentrato attorno alla questione cristiana, chiamiamola così. La carità verso i carcerati è un pilastro antico, ma Francesco, il Papa vigente, ne ha fatto una passione peculiare e così irriguardosa della diplomazia e del rispetto umano, e così sensibile all’affinità di fatto fra condizione dei prigionieri e condizione dei migranti, da diventare il bersaglio primo dell’indignazione, dell’irrisione e della sensazione di tradimento dei bravi cristiani e dei cattivi pastori. Prima che nei dissensi teologici e nelle trame cortigiane, è qui che si consuma uno scisma profondo nella chiesa cattolica e nel sentimento cristiano. Il fatto è che le persone libere, che non hanno conti con la giustizia e se ne ritengono, o se ne illudono, immuni, sono offese contro l’élite e contro questo Papa scalmanato esattamente come è offeso il figlio perbene, quello che è sempre restato a casa, dall’ingiusto, incomprensibile favore che il padre riserva al figlio prodigo, quello tornato all’ovile dopo la dilapidazione. Il pensiero cristiano, e a suo modo anche la laica Costituzione, dà inevitabilmente l’impressione di riservare un occhio di riguardo al peccatore, perfino a quello che l’abbia fatta grossa, rispetto a chi non ha sbagliato strada. La miserabilità di questo tempo, di una almeno delle correnti che gli soffiano attraverso, sta in ciò, che si lasci credere, sentire, alle persone che si pensano normali, che sono la maggioranza, il popolo, che a loro venga anteposto, preferito, il detenuto, o il migrante - il delinquente. Che arrivino a provare una specie di invidia, al punto di non vedere quale abisso di disgrazia li separi da un fondo di cella. Oggi una reclusione domestica inaudita, quasi universale, fa pensare a un’esperienza quasi carceraria, e si può augurarsi che ne venga una comprensione vissuta e intima di che cos’è il vero carcere. Temo piuttosto che prevalga un senso più acuto e irritato di ripudio, uno sdegno di innocenti sottoposti a una prova dura e ingiusta, immeritata, che rischia di assimilarli a quelli che l’hanno meritata. Questa offesa da bravo figlio contro la snobistica, esibita predilezione per il figliol prodigo, è insieme l’effetto e la causa di una degradazione civile che tramuta imbonitori da quattro soldi, a rate, negli inauditi antagonisti del capo della cristianità cattolica, Cristo in terra: Salvini dei rosari, dell’Immacolata, della rivendicazione dell’apertura pasquale delle chiese, un Martin Lutero di suburra, avrebbe detto Marco Pannella. Una simile contraffazione della galera e della vita (e della morte) che vi regna è una incresciosa vittoria della demagogia e della malevolenza. Peccato, che non si riesca a mostrare che cos’è davvero la galera, e chi ci stia, “per lo più”, e come. Eppure noi umani dovremmo esser capaci di riconoscere le cose anche senza finirci dentro. Di immaginarle. Di immaginare un letto di rianimazione anche senza beccare la polmonite e il febbrone, dopo aver scherzato su un raffreddore. Di immaginare quel giorno, del ritorno del figlio prodigo, e gli anni che erano venuti prima, e quelli che sarebbero venuti poi. Di immaginarlo anche se ci sia capitato di essere il figlio fedele, quello che non si è mai allontanato, quello che ora si sente tradito, e orfano di padre e di madre. Cassese: “La pandemia non è una guerra. I pieni poteri al governo non sono legittimi” di Paolo Armaroli Il Dubbio, 14 aprile 2020 Intervista al giudice emerito della Corte costituzionale: “Da palazzo Chigi continuano ad arrivare norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme” Caro Sabino, se siamo in guerra, sia pure anomala, allora vale quanto meno per analogia l’articolo 78 della Costituzione: le Camere conferiscono al governo i poteri necessari. E non, si badi, i pieni poteri. È così? Nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato (art. 117, II comma, lettera q). Lo Stato agisce con leggi, che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza “contingibile e urgente”, cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà. Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza. Bene. Il Parlamento ha conferito quei poteri al governo con un decreto legge. Ma è sufficiente quel tipo di provvedimento? Senza contare che quel decreto legge è andato oltre. Ha consentito che le predette autorità possano adottare misure ulteriori rispetto a quelle dell’articolo 1. Ma, in punto di diritto, è legittimo tutto questo? Non si tratta di una sorta di delega in bianco? Il primo decreto legge era illegittimo: non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri. A palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo. Poi si è rimediato. Ma continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento, tutto imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa. Andiamo avanti. Sui Dpcm il capo dello Stato non ha voce in capitolo. A suo avviso, quell’oggetto misterioso che è il Consiglio supremo di difesa potrebbe avere una qualche voce in capitolo? O questo vale solo per il caso di guerra? Mi chiedo: perché evocare il Consiglio supremo di difesa, se non c’è un evento bellico, e specialmente se c’è lo strumento per far intervenire uno dei tre organi di garanzia, il presidente della repubblica? Bastava, invece di abusare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ricorrere, almeno per quelli più importanti, a decreti presidenziali. Aggiungo che, per la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente a emanare più della metà di quegli atti era il ministro della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è avvicinati. Sabino, si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura rappresentano un correttivo della forma di governo parlamentare per i poteri che acquista il presidente del Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non parlare del presidente della Repubblica e, soprattutto, del Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo e di controllo è andata a farsi benedire. Gli organi di garanzia più diretti sono il presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. Quest’ultima, salvo casi eccezionali, interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente della Repubblica, invece, collaborano nella funzione normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie preferenziali o di emergenza. Tu non sei pregiudizialmente contrario a che per qualche tempo limitato il Parlamento lavori da remoto. Ma ci sono attività informali che solo a Montecitorio e a Palazzo Madama funzionano a dovere. Come i contatti tra leader di partito, tra capigruppo, tra parlamentari dei vari partiti eccetera. Senza dubbio. Tanto che ho ritenuto errata l’espressione votazione telematica. Infatti, il lavoro a distanza è possibile a due condizioni. La prima che le Camere siano attrezzate (e pare che non lo fossero). La seconda che in via telematica si possa ascoltare, intervenire, discutere, dibattere, replicare, e solo alla fine votare. Perdonami. Con qualche esagerazione, premesso che da noi non c’è nulla di più definitivo del transitorio, ho personalmente sottolineato il rischio che le sedi istituzionali delle Camere cambino destinazione e diventino musei per la gioia dei visitatori. È solo una battuta? Quando si parlò dello Sdo, Sistema direzione orientale, l’idea venne presa in considerazione. Sollevarla in questo momento mi pare sbagliato. Poi, c’è da valutare l’interesse storico artistico rispetto alla funzionalità materiale dei luoghi. Per finire. Si può capire che i Costituenti ebbero orrore a parlare di stato di emergenza. Ma con il senno di poi, alla luce della guerra contro il virus, non fu un errore questa omissione? E come colmare, a tuo avviso, questa lacuna? Non la ritengo una lacuna. E chi abbia letto gli articoli 48 e seguenti della Costituzione ungherese sa quali pericoli si annidino in norme costituzionali di quel tipo. C’è poi l’esperienza negativa della Costituzione di Weimar. L’unica positiva mi pare quella dell’articolo 16 della Costituzione della V Repubblica francese. La Costituzione non ha peraltro ignorato la questione, solo che ha considerato la possibilità di disporre limiti dettati dalla urgenza e dal pericolo caso per caso, per singole libertà. Migranti. È ora di regolarizzarli di Teresa Bellanova* Il Foglio, 14 aprile 2020 I 600mila clandestini da regolarizzare per far ripartire l’economia sono un tema serio e il governo può intervenire. Sono d’accordo: basta ipocrisia. E testa sotto la sabbia. È la mia risposta alla domanda di Carlo Stagnaro e Luciano Capone nella riflessione su quei “600mila clandestini da regolarizzare per far ripartire l’economia italiana”. Gli autori parlano di “invisibili”, parola ormai entrata nel gergo comune. Piuttosto direi “invisibili ai più” e soprattutto a quelli cui l’invisibilità ha fatto e continua a fare gioco. Nessun insediamento informale, nessun lavoratore in nero, sono mai completamente invisibili. Lo diventano perché ci si ostina a non volerli vedere per ricordarsene solo quando l’irreparabile costringe a prenderne atto. È anche per questo che dico: o siamo noi, la politica, chi governa, a farci carico fino in fondo delle contraddizioni che il reale ci impone sotto gli occhi, o se ne farà carico qualcun altro: la criminalità. Le infinite zone grigie che alimentano la lunga serie di malfunzionamenti in questo paese nascono da qui. Alimentarle è gioco perverso a cui mettere fine. Ed è esattamente questo che una politica riformista ha il compito di fare. Affrontare la complessità per governarla invece che subirla, dare risposte al presente per mettere a dimora il futuro, quello prossimo e quello che inauguriamo. Sappiamo come fare. È accaduto quando abbiamo sconfitto con la riforma del Lavoro la vergognosa pratica delle dimissioni in bianco che aveva costretto per anni migliaia di lavoratrici a mettere il proprio destino di donne nelle mani dei loro datori di lavoro. O quando nel 2016 abbiamo approvato la legge contro il caporalato considerata esemplare dovunque e indicando, tra le altre, nella rete del lavoro agricolo di qualità una risposta alle criticità del settore. Dunque, possiamo farlo. Evitando, mi auguro, di banalizzare termini forti e necessari come umanità, giustizia sociale, economia sana e legale, lavoro regolare, riducendoli a buonismo. Oggi abbiamo da rispondere, scrivono gli autori, a due urgenze. Prevenire l’emergenza umanitaria che può determinarsi negli insediamenti informali affollati di persone che in questo momento non lavorano o lo fanno nella più totale invisibilità, sono a rischio fame, abbandonati a se stessi e in balìa della minaccia da virus. Fronteggiare l’urgenza, determinata dall’assenza di manodopera, che sta investendo in modo pesantissimo l’agricoltura del nostro paese e che mette a repentaglio prodotti, lavoro, investimenti, cibo. Che rischia di mandare in enorme sofferenza le nostre aziende agricole e che nelle prossime settimane, quando saranno arrivati a maturazione molti raccolti, può determinare l’irreparabile. Mentre la filiera alimentare è impegnata con enormi sforzi a garantire cibo al paese, non si può, allo stesso tempo, lasciare marcire i prodotti nei campi e fare i conti con l’emergenza alimentare che sta investendo parti sempre più ampie della popolazione. Se una contraddizione è possibile, tre sono insopportabili. La via maestra l’abbiamo già tracciata e stiamo lavorando per metterla in atto: incrociare, in modo legale e trasparente, domanda e offerta di manodopera agricola. Vale per tutti, lavoratori italiani e stranieri. Sia ben chiaro. Non esistono filiere sporche. E nessuno, tantomeno la sottoscritta, pensa di escludere la manodopera italiana. Sono stata la prima a dire che gli stagionali del turismo o della ristorazione, i tanti che purtroppo non lavoreranno come negli anni passati, potranno, mi auguro vorranno, guardare all’agricoltura come a un’opportunità. Eppure, i numeri parlano chiaro: in Italia, la manodopera straniera regolare in agricoltura conta circa 400 mila unità; da dieci anni gli italiani calano e gli stranieri aumentano; moltissimi proprio a causa dell’emergenza sono tornati nei paesi di origine; oggi siamo alle prese con un vuoto che si aggira intorno alle 350 mila unità e con la necessità di competenze. La qualità delle risposte lega fortemente presente e futuro. L’agricoltura e la filiera alimentare costituiscono due straordinari driver di sviluppo per il sistema-paese, caratterizzati da potenzialità che dobbiamo saper mettere a valore. Questo chiama a scelte chiare. A chi mi accusa di dare troppa attenzione ai lavoratori nei ghetti e all’emersione del lavoro nero, rispondo: se non è lo Stato a garantire incrocio regolare tra domanda, offerta di lavoro, rete integrata dei servizi necessari, è la criminalità. A questo era ed è chiamata Anpal, i cui ritardi sono evidenti e così l’incapacità di fornire risposte adeguate a un tema così complesso. Un fallimento di cui prendere atto, a cui porre rimedio, e che conferma esattamente l’assunto di questa riflessione: o l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è garantito dallo stato o si apre lo spazio dell’informale e dell’illegale. Il caporalato non è un modo alternativo di erogare servizi necessari, è mafia. Che anche attraverso la fornitura di manodopera a condizioni inumane tenta di entrare nel controllo delle aziende ricattandole, a maggior ragione se sono meno solide e se la risposta pubblica non è chiara e veloce. Senza soluzioni legali si espongono le imprese al ricatto di chi fornisce braccia e servizi. Mettere fine ai ghetti, alla clandestinità, all’illegalità, alla concorrenza sleale che incrina la nostra reputazione nello scenario internazionale, significa attestarsi su una risposta di civiltà e su soluzioni strutturali, quelle necessarie al paese e alla sua economia. Il primato della politica è il nostro compito. *Ministro dell’Agricoltura Se la crisi è umanitaria a prescindere dal virus di Giuliano Battiston Il Manifesto, 14 aprile 2020 Preoccupa la situazione in Siria, Yemen tra gli sfollati nelle regioni saheliane. E nel Corno d’Africa è cocktail letale con le locuste. A rischio almeno 30 programmi delle Nazioni unite. Il 10 aprile l’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli Affari umanitari (Ocha) ha ricordato che, se è essenziale finanziare un Global Humanitarian Response Plan per l’emergenza Covid-19, le risorse non vanno sottratte a quelle impiegate per le crisi umanitarie in corso. Che in molti casi rischiano di aggravarsi, a causa della pandemia. Oltre a quella afghana, viene ricordata la crisi siriana, entrata nel suo decimo anno, “con più di 11 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, e altri 5.6 milioni che hanno lasciato il Paese”, e con alcune aree - come quella di Idlib - particolarmente a rischio per i rifugiati interni. Nel grande Corno d’Africa, invece, il coronavirus arriva contestualmente con gli sciami migratori delle locuste, che minacciano la sicurezza alimentare di Etiopia, Kenya, Somalia, Tanzania, Uganda, Sudan e Sud Sudan, dove “più di 25 milioni di persone sono già gravemente insicure dal punto di vista alimentare”. Nel Sahel centrale, l’area che comprende le aree di confine di Burkina Faso, Mali e Niger occidentale e che registra il sistema sanitario più vulnerabile del pianeta, l’anno scorso sono morte 43 mila persone per i conflitti, 1 milione gli sfollati. Il piano di risposta umanitaria pre-Covid è stato finanziato soltanto al 10%: con l’arrivo del coronavirus, si rischia “una crisi su un’altra crisi”, denuncia il World Food Programme. Nel bacino del Lago Ciad, da anni colpito dalla violenza di Boko Haram e non solo, dagli effetti del cambiamento climatico e della povertà, più di 4 milioni di persone quest’anno saranno vittime di insicurezza alimentare e 400 mila bambini rischiano di morire per malnutrizione. Infine lo Yemen, dove solo una tregua condivisa e permanente potrebbe evitare il peggio, denunciano le organizzazioni non governative: l’80% dei 24 milioni di abitanti già richiede assistenza o protezione, e ogni mese le agenzie umanitarie aiutano più di 13 milioni di persone. Ma i fondi sono pochi: 30 programmi delle Nazioni Unite potrebbero chiudere a breve, se non arrivano altri finanziamenti. Sempre più incerti. Marocco. Oltre 5.600 amnistiati: ma attivisti, blogger e rapper restano in carcere di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2020 Mentre crescono le preoccupazioni per la diffusione della pandemia da Covid-19 nei centri di detenzione del paese, Amnesty International ha sollecitato il governo del Marocco a rilasciare urgentemente e senza condizioni tutti i prigionieri che stanno scontando condanne per aver preso parte a manifestazioni pacifiche o aver espresso le loro opinioni: tra questi, gli esponenti del movimento Hirak el-Rif, rapper, blogger e giornalisti. L’organizzazione per i diritti umani ha anche chiesto che i detenuti anziani e quelli che manifestano problemi di salute siano sottoposti a misure alternative e che viga la presunzione d’innocenza per quelli sospettati di aver commesso un reato e ancora in attesa di giudizio. Negli ultimi sei mesi le autorità marocchine hanno mostrato una crescente intolleranza nei confronti di coloro che esprimono opinioni critiche: tra novembre 2019 e gennaio 2020, almeno 10 persone - tra cui un giornalista e due rapper - sono state arrestate per “offesa a pubblico ufficiale o alle istituzioni” e sette di loro stanno scontando condanne a pene detentive. Per questi reati, oltre che per quello di “incitamento all’odio”, i blogger Moul El Hanout e Youssef Moujahid sono stati condannati a quattro anni dopo che avevano espresso le loro opinioni in una serie di video pubblicati online. Abdelali Bahmad (alias Ghassan Bouda) è stato condannato a due anni, dimezzati in appello, per “offesa alla monarchia” dopo che aveva manifestato appoggio alle proteste di Hirak el-Rif sui suoi profili social. Ci sono poi i 43 militanti di Hirak el-Rif, giudicati colpevoli di una serie di reati a seguito di processi irregolari segnati da denunce di tortura e le cui condanne sono state confermate in appello alla fine del 2018. Il 22 febbraio due di loro, Nabil Ahamjik e Nasser Zefzafi, hanno intrapreso uno sciopero della fame per chiedere il rispetto del diritto di visita e migliori cure mediche. Lo hanno sospeso solo il 17 marzo, per il timore che le loro critiche condizioni di salute li esponessero al rischio di contrarre il coronavirus. Secondo l’Associazione marocchina per i diritti umani, alla fine di marzo i prigionieri in carcere per aver espresso le loro opinioni erano 110. Le prigioni del paese sono sovraffollate, anche a causa dell’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio, circa il 40 per cento del totale. Lo scorso novembre il ministro per i Diritti umani e per i rapporti col Parlamento, Mustapha Ramid, aveva riferito che alla fine del 2018 la popolazione carceraria era di 83.747 persone, con un tasso di sovraffollamento del 138 per cento. Il 5 aprile, per decongestionare le carceri come misura di contrasto al Covid-19, re Mohammed VI ha amnistiato 5654 detenuti. Tra loro però non vi è alcun prigioniero di opinione. Nel frattempo, ai sensi dello stato d’emergenza, sono state arrestate almeno 450 persone per aver violato le norme sul confinamento e la quarantena. Rischiano da uno a tre anni. *Portavoce di Amnesty International Italia