Nelle carceri Il Foglio, 13 aprile 2020 C’è un posto più di altri in cui le prescrizioni a rispettare le distanze interpersonali, adottate per arginare la diffusione del coronavirus, hanno una scarsa aderenza alla realtà dei fatti: le carceri, in particolare quelle italiane. Soltanto la scorsa settimana il Consiglio d’Europa ha pubblicato un rapporto sul loro stato di salute, allargando lo sguardo al contesto europeo. Un po’ di dati comparativi nei numeri di Luca Roberto. 119 - È il totale di detenuti ospitati nella media delle carceri italiane ogni 100 posti disponibili. Peggio, tra i paesi aderenti al Consiglio d’Europa, fanno solo Turchia (123) e Belgio (121). La media a livello continentale è ben più contenuta: 89,5 detenuti ogni 100 posti. 160 per cento - Il tasso di sovraffollamento nelle carceri pugliesi, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, il più alto del paese. Seguono Molise (155,2 per cento), e Lombardia (138,9 per cento). Nelle carceri di Taranto e di Como è rispettivamente del 199 e 197 per cento. Le sole regioni che ospitano un numero di detenuti inferiore rispetto alla capienza delle strutture sono Sardegna (79 detenuti ogni 100 posti) e Marche (98 per cento). 4° - Il posto dell’Italia, nel novero dei paesi dell’area geografica europea, per numerosità dei detenuti over 65: sono 2.247. Prima ci sono Turchia (3.521), Regno Unito (2.995) e Russia (2.895). 18,8 per cento - La quota di carceri visitate nel 2018 dall’associazione Antigone che non garantivano il rispetto dei 3 metri quadrati per detenuto, considerato uno standard minimo di vivibilità dopo il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. 58 - I detenuti affetti da Covid-19 nelle carceri italiane, 19 dei quali nella sola casa circondariale di Torino. Tra il personale della polizia penitenziaria si sono ammalati in 178. 57.131 - Il totale di detenuti presenti attualmente nelle carceri del paese. Al 29 febbraio erano 61.230. Per molti dei fuoriusciti hanno inciso misure di detenzione domiciliare, motivi sanitari e permessi ai semiliberi. 12 - I detenuti morti nelle carceri durante le rivolte scoppiate lo scorso marzo, 9 a Modena e 3 a Rieti. In quell’occasione una trentina evasero dal carcere di Foggia: un paio sono tutt’ora latitanti. Coronavirus: è rischio focolaio nelle carceri italiane di Annibale Pietro Napolitano 081news.it, 13 aprile 2020 La situazione delle carceri italiane non è mai stata facile, caratterizzata com’è da alti numeri di sovraffollamento. Il 9 aprile scorso la popolazione carceraria italiana ammontava a 56.102 persone e il 29 febbraio, prima del lockdown italiano per l’emergenza coronavirus, si contavano 61.230 persone nelle carceri italiane (numeri del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). La capienza effettiva delle carceri italiane rimane però di appena 47.482 posti. La difficoltà principale, oltre alle norme di distanziamento sociale, consiste nell’oggettiva difficoltà nel mettere in condizioni di isolamento sia i detenuti positivi sia il personale venuto a contatto con loro o tra loro stessi. Al 10 aprile sono positivi al Covid-19 58 detenuti e 107 agenti di polizia penitenziaria. Una vera e propria epidemia è esplosa silenziosamente nelle carceri italiane con numeri molto preoccupanti. Una vittima tra i detenuti già accertata, un uomo agli arresti domiciliari morto nell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Al detenuto si aggiungono altri 2 agenti e 2 medici penitenziari, senza contare le 14 vittime tra i detenuti durante le rivolte avvenute nelle carceri nella prima metà di marzo per circostanze attribuite ufficialmente dalle autorità ad overdose da metadone e da farmaci. Nell’iter di conversione del decreto legge del 17 marzo, inoltre, non erano state inserite misure che allargavano l’applicabilità delle tante condizioni (reati ostativi, necessità di un domicilio idoneo, disponibilità di braccialetti elettronici) alle quali è subordinata questa chance di detenzione domiciliare per chi debba scontare un resto di pena sino a 18 mesi. In questo mese sono stati i singoli giudici di sorveglianza e Gip (sia prima sia dopo un apposito documento della Procura Generale della Cassazione) ad assumersi la responsabilità di adottare norme già esistenti nell’ordinamento e di decidere misure alternative, differimenti pena per motivi di salute e minor ricorso alla custodia cautelare in carcere: la conseguenza è stata che le presenze in carcere sono passate dai 61.230 detenuti di fine febbraio ai 56.102 di ieri. Ad oggi la difficoltà maggiore secondo il Ministero della Giustizia è la disponibilità di braccialetti elettronici per i detenuti che devono scontare dai sei ai diciotto mesi di pena. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire. La condizione delle nostre carceri è allarmante da tempo, ma ai tempi del coronavirus diventa intollerabile. Pasqua nelle carceri, gli avvocati a Bonafede: “Attenzione, aumentano i positivi al virus” primapaginanews.it, 13 aprile 2020 La delibera inviata al Governo: “Subito misure per arginare sovraffollamento”. Il Consiglio nazionale forense ha inviato all’attenzione del governo una delibera approvata dal plenum sull’emergenza carceri e il “preoccupante aumento di positivi al virus Covid-19”, per chiedere l’”immediata adozione di tutti i provvedimenti normativi necessari a ridurre il sovraffollamento delle carceri e rendere effettiva la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente garantito, dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”. “Negli istituti penitenziari - si legge nella delibera approvata dal Cnf - le misure adottate dal governo, tra le quali la concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare, sono del tutto inidonee”. La delibera del Cnf, inviata al premier Giuseppe Conte, al Guardasigilli Alfonso Bonafede, al capo del Dap Francesco Basentini e al Garante nazionale dei detenuti Palma, rileva che il coronavirus ha “già provocato la morte di un detenuto, mentre aumentano ogni giorno i casi accertati di positività di detenuti e agenti di polizia penitenziaria”, e evidenzia che “l’emergenza sanitaria in atto per la pandemia da Covid-19 impone soluzioni non più procrastinabili per ridurre la cronica situazione di grave sovraffollamento delle nostre carceri”. L’istituzione forense sottolinea inoltre, nella documentazione indirizzata al governo, che l’Italia in passato “è stata condannata già due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”, e che l’attuale situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane “non rende possibile il rispetto delle misure prescritte dalle autorità sanitarie finalizzate a contenere la diffusione della pandemia ed attuare il distanziamento sociale”. In 10 anni lo svuota carceri ha liberato 27mila detenuti (un terzo stranieri) di Roberto Galullo ilsole24ore.com, 13 aprile 2020 Esattamente dieci anni fa il Parlamento approvò la legge 199: “Disposizioni relative all’esecuzione penale presso il domicilio delle pene detentive non superiori a 18 mesi”. Dopo la prima condanna della Corte europea per il sovraffollamento era stato dichiarato lo stato di emergenza penitenziario. Immaginate che, gradualmente ma inesorabilmente e senza clamore, in meno di 10 anni una città grande come Triggiano (Bari), San Giovanni Rotondo (Foggia), Tortona (Alessandria), Buccinasco (Milano), Fidenza (Parma), Enna, Mirano (Venezia) o Garbagnate Milanese (Milano), si svuoti. Avete letto bene. Immaginate, ad esempio, che una città come San Giovanni Rotondo - che prima dell’emergenza coronavirus ospitava centinaia di migliaia di turisti devoti di Padre Pio da tutto il mondo - veda allontanarsi nel corso di un decennio, uno dopo l’altro, tutti i sui 27mila residenti. Dal sindaco all’ultimo nato. E immaginate adesso che queste 27mila persone decidano di sparpagliarsi e diffondersi a macchia d’olio. In Italia o fuori dai confini patri. Se avete fatto navigare la fantasia, è bene che ripiantate i piedi a terra. Oltre 27mila sono i detenuti e le detenute che dal 2010 a fine febbraio hanno lasciato la propria cella, ovunque essa fosse in Italia, nella quale erano reclusi. Lo svuota carceri del 2010 - Esattamente dieci anni fa, infatti, il Parlamento approvò la legge 199: “Disposizioni relative all’esecuzione penale presso il domicilio delle pene detentive non superiori a 18 mesi”. Era in carica il Governo Berlusconi e dopo la prima condanna della Corte europea per il sovraffollamento era stato dichiarato lo stato di emergenza penitenziario. Questa volta non è un provvedimento causato dal colpevole sovraffollamento (che però resta sempre sullo sfondo) che torna a incentivare l’uscita anticipata dagli istituti di pena. No, questa volta, è l’emergenza coronavirus che, con il provvedimento “Cura Italia” varato dal Governo, consente sulla carta a migliaia di detenuti di tornare a casa con un braccialetto elettronico o essere messi ai domiciliari se devono scontare una pena o un residuo di pena fino a 18 mesi. Il nodo dei braccialetti - Il Governo prevede, fino al 30 giugno 2020, una procedura alleggerita che, se da un lato toglie alcuni vincoli che richiedevano una valutazione del magistrato di sorveglianza, dall’altro lato ne introduce altri di natura disciplinare. Non solo: lo scaglionamento temporale è in funzione della reperibilità di braccialetti elettronici. I braccialetti saranno resi disponibili secondo un programma di distribuzione adottato dal capo dell’amministrazione penitenziaria, tenuto conto della capienza dei singoli istituti, del numero dei reclusi e delle concrete emergenze sanitarie. Chi c’è e chi no - Con il provvedimento “svuota carceri bis” potrebbero uscire migliaia di detenuti. Nessuno sa con esattezza quanti e, come del resto è accaduto con la legge 199/2010, gli effetti si perpetreranno e si valuteranno negli anni. Le prime stime oscillano tra 3 e 5 mila detenuti, anche se non manca chi arriva a calcolare 10mila o addirittura più uscite. Ripetiamo: nel corso degli anni la cifra può crescere ma nessuno è in grado ora di dire con esattezza come. Dai benefici sono esclusi mafiosi, omicidi, rapinatori, maltrattamenti in famiglia, stalking, abusi e violenze sessuali, oltre ai detenuti che hanno partecipato alle rivolte dei giorni scorsi (e che nessuno ancora sa quanti siano). Un flusso costante - Per effetto della legge 199/2010 sono usciti per la precisione 27.152 detenuti, un terzo circa dei quali stranieri. Le donne, complessivamente sono 1.911, di cui 787 donne (più o meno la stessa proporzione). È pleonastico ribadire che il maggior numero di reclusi è uscito dagli istituti penitenziari delle regioni con un numero elevato di strutture e persone che scontano la pena. In testa si trova dunque la Lombardia (che ha scarcerato quasi 4.500 persone di cui praticamente la metà stranieri, in massima parte extracomunitari), poi Lazio, Campania e Sicilia. Un passo indietro nel tempo - Nel 2010 le carceri “scoppiavano”, visto che ospitavano quasi 68mila persone - ora ce ne sono circa 7mila in meno rispetto ad allora - di cui circa un terzo stranieri. I 208 istituti contemplati dalle statistiche del ministero della Giustizia avrebbero potuto contenere al massimo, secondo capienza regolamentare, 45.022 persone. In attesa di primo giudizio erano complessivamente 14.112, gli appellanti erano 8.005, i ricorrenti 48.555 e i condannati in via definitiva 28.692. L’esubero era dunque, a somme fatte, di 22.939 unità, con una situazione di particolare delicatezza in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Lazio e Sicilia. Via libera - Le prime statistiche diffuse a febbraio 2011 dal ministero della Giustizia, dopo l’entrata in vigore del provvedimento del 2010, dimostrano che non c’è stato alcun svuotamento immediato anche se il numero riportato di detenuti usciti - complessivamente 1.368 - è considerevole. Le donne erano 74 e gli stranieri 278 (di cui 23 donne). Negli anni a seguire il flusso maggiore, fino a raggiungere la quota complessiva a febbraio 2020 di 27.152 detenuti tornati in libertà (seppur con diversi tipi di restrizioni). Va sottolineato che molti sono quelli per i quali, nel corso di questo decennio, si sono spalancati di nuovo i cancelli delle patrie galere e magari sono lì che attendono il “bis”. Gratteri: “Rafforzare i controlli bancari per evitare la strapotenza mafiosa” di Roberto Galullo ilsole24ore.com, 13 aprile 2020 Il mondo non può permettersi due pandemie. Quella da Covid-19 e quella della strapotenza sociale ed economica mafiosa. Per questo, più che all’oggi, il mondo deve concentrarsi sul “post” coronavirus, quando, stremato, dovrà fare i conti con mafie pandemiche che rischiano di diventare ancora più forti, cartelli messicani e ‘ndrangheta in testa. Da questo punto di partenza, ruotano le riflessioni di Nicola Gratteri, 62 anni, a capo della Procura di Catanzaro, dalla quale prosegue una lotta che lo vede da sempre nel mirino delle cosche calabresi cementate, in quella cupola invisibile che lo stesso magistrato denuncia, con entità diverse ma sempre più agguerrite. Finita l’emergenza come sarà cambiato il rapporto di forza tra Stato e mafie? Se si eviteranno gli errori del passato, sarà più facile affrontare le mafie nell’immediato futuro. Bisogna, per esempio, partire dagli elenchi dei bisognosi. Bisogna utilizzare gli inquirenti che operano sul territorio per evitare che le risorse messe a disposizione dallo Stato finiscano nelle mani sbagliate. Questo è il primo e più importante passo da fare. E poi… Poi bisogna essere consequenziali su tutto, per evitare gli errori e le valutazioni che hanno consentito alle mafie di rafforzarsi durante la crisi del 2007-2009, quando hanno avuto la possibilità di depositare i loro soldi - senza eccessivi controlli - nelle banche di mezzo mondo. La ‘ndrangheta anticipa sempre le mosse delle Istituzioni. Dunque, come approfitterà del post-emergenza? Le mafie possono essere declinate in vari modi: ci sono livelli di mafia che cercano di arraffare risorse, senza soluzione di continuità e a maggior ragione in momenti come questi, ad esempio da vendita di prodotti contraffatti, mascherine e via di questo passo. Ci sono altri livelli di mafia che invece cercheranno di trasformare la crisi in opportunità e quindi, nella fase 2 di questo delicato momento, investire nell’economia della ricostruzione i soldi accumulati con il traffico di droga. Bisogna tenere conto che le mafie, come la ‘ndrangheta per esempio, sono rapaci. In passato, hanno sempre tratto vantaggi delle grandi emergenze. Cercheranno di farlo anche adesso. Ogni mafia per conto proprio o con una scientifica divisione di spazi e settori? Dal contrabbando di sigarette in poi, le principali organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno imparato a coesistere, soprattutto quando gli interessi esulano dagli ambiti prettamente territoriali. Eviteranno come sempre di pestarsi i piedi. Europol e Interpol hanno già le prime evidenze? Ci sono avvisaglie sull’aumento di reati legati al cybercrime. Ci sono organizzazioni criminali, ma anche semplici avventurieri dei sistemi digitali. C’è un aumento di truffe online. Finite le scorte di cocaina e narcotici vari come si muoveranno cosche e organizzazioni? I cartelli messicani e colombiani mostrano un grande nervosismo per frontiere blindate e mobilità ferma. Questo è il periodo migliore per trasferire scorte di droga dai depositi dei narcos ai paesi di consumo. I container viaggiano anche in questa delicata fase e non bisogna certamente abbassare la guardia. Certo, sono diminuiti i reati, ma questo non significa che sia anche diminuita la richiesta dei tanti tossicodipendenti. Magari si staranno utilizzando meccanismi diversi di consegna. Magari è il momento di dare una svolta al narcomercato mondiale Il Covid-19 potrebbe contribuire a creare nuovi scenari, in cui le droghe sintetiche avranno più mercato, dal momento che la loro produzione non dipende da principi attivi reperibili solo in determinate aree geografiche. Bisogna comunque evitare le valutazioni grottesche di chi pensa che le mafie siano in grado di leggere nella sfera di cristallo. Sono forti, ma non bisogna contribuire a renderne esagerata la narrazione. A che punto è, oggi, il motto ‘ndranghetista secondo il quale “il mondo si divide tra la Calabria e ciò che lo sarà”? In molte parti del mondo, le mafie si confermano purtroppo come fenomeni “a sviluppo indisturbato”. È una sorta di inazione ottimale, il far nulla continua ad essere la più usata delle opzioni possibili. Se non si comincia a mettere in discussione questa strategia, la ‘ndrangheta avrà sempre più terreno fertile. La ‘ndrangheta è una società di servizi e affari pronta a cogliere l’attimo. Oggi qual è l’attimo che viene colto? Abbiamo la percezione che la ‘ndrangheta stia diversificando raggio e natura degli investimenti. Va sempre più alla ricerca dei paradisi normativi, dove è molto più facile delinquere. Già, i paradisi fiscali, che abbiamo anche in Europa. Non ho nessuna intenzione di criminalizzare interi settori, ma per individuare la presenza della ‘ndrangheta bisogna tenere conto dei paesi offshore, di quelli che alzano più gru per costruire palazzi, di quelli che offrono sponde al necessario riciclaggio del denaro. La ‘ndrangheta investe anche in settori che fino a qualche anno fa sembravano impensabili, come le criptovalute. C’è un altro aspetto interessante, le mafie usano sempre meno la violenza e molto più la corruzione. Che cosa non hanno capito le istituzioni internazionali della lotta corale che deve essere condotta contro la ‘ndrangheta? Le mafie non potrebbero esistere se non fossero intrecciate a poteri più visibili, come la politica, l’economia e le istituzioni. Per sciogliere un nodo così serrato non possono bastare né la magistratura né le polizie, ma serve un costante alimento etico-politico, un adeguato sostegno dello spirito pubblico e il coinvolgimento di persone e gruppi, élite e popolo per rendere concreta la convenienza della legalità e perdente quella dell’illegalità. Oggi purtroppo a Singapore, Panama e New York e in mille altri posti ancora che fanno meno notizia, le mafie più che come pericolo vengono viste come opportunità. Investono soldi e i soldi non puzzano. Laddove ci sono soldi sporchi ci sono anche faccendieri e uomini poco puliti. Cosa vuol dire la Brexit oggi in ottica riciclaggio e penetrazione delle mafie? Fu lei il primo a dire che Londra è la capitale mondiale del riciclaggio. La ‘ndrangheta da tempo guarda con interesse al Regno Unito e alla rete che si snoda attorno al Commonwealth, sfruttando territori come la City of London che sfuggono al controllo delle leggi ordinarie sul riciclaggio. Con la Brexit, prevedo qualche problema in più. Ma vorrei sbagliarmi. Immaginiamo un effetto domino: la Ue, ora a 27 Paesi, lentamente perde pezzi come certa politica sovranista vorrebbe, fino a cancellare l’Unione europea. Che scenario ci si parerebbe davanti nella lotta alle mafie? Si fa fatica a globalizzare o europeizzare l’azione di contrasto, nonostante gli sforzi di Eurojust. Ci sono troppe differenze culturali e pochi interessi politici a combattere un fenomeno che è sempre meno violento e che ha imparato la lezione legata alla strage di Duisburg. Oggi, per esempio, la ‘ndrangheta strizza l’occhio ai Paesi dell’Est con l’obiettivo di intercettare i fondi strutturali dell’Unione Europea e crea reti sempre più invisibili, in cui il confine tra legalità e illegalità evapora. Quale scenario? Se non si comincia a fare sul serio e riprendere in mano le tematiche più volte sollecitate a Bruxelles, l’Europa sarà sempre più una prateria in cui le mafie scorrazzeranno indisturbate. Quali sono i settori fino a poco tempo fa inimmaginabili nei quali in Europa la ‘ndrangheta investe? Non mi piace parlare di cose che non posso dimostrare ma le mafie non sono prive di immaginazione. Hanno broker e consulenti che lavorano a tempo pieno e fanno di tutto per individuare settori capaci di eludere l’attenzione degli investigatori. In Olanda non è possibile ritardare l’arresto o il sequestro, quindi è molto difficile fare indagini internazionali. La stessa cosa accade in Belgio, Germania Spagna e Portogallo. Dal punto di vista della sicurezza e della repressione noi siamo in Europa per cosa? “Per discutere due mesi delle quote latte e per discutere dieci giorni della lunghezza delle banane da importare?”, come ebbe a dire in Commissione antimafia il 14 aprile 2014. Non penso che si siano fatti molti passi avanti. Vedo comunque di buon occhio l’iniziativa di Interpol e della nostra Polizia che hanno annunciato un attacco globale alla ‘ndrangheta. Speriamo solo che questa iniziativa incontri la collaborazione dei paesi in cui la ‘ndrangheta è maggiormente presente, come il Canada, l’Australia, la Germania, la Svizzera. A livello politico, soprattutto in Europa, però, vedo tanta gente di buona volontà e tanti marpioni che non sembrano avere interesse a combattere delle mafie che si limitano a investire e non a uccidere e a terrorizzare la popolazione. Se le polizie giudiziarie europee non indagano, se non esiste il reato omologo di associazionismo di stampo mafioso, come si fa a dire che esistono le mafie fuori dall’Italia? Manca purtroppo il principio di reciprocità, ma non sarebbe un dramma se ci fosse realmente la volontà di sedersi allo stesso tavolo per rendere difficile la vita alle mafie con misure stringenti dal punto di vista degli accertamenti personali e patrimoniali e con una legge anti riciclaggio più efficace nella lotta ai patrimoni criminali. Parliamo di controlli. L’Europa, in sostanza, è una grande prateria, dove chiunque può andare a pascolare. “Fatevi un giro in Europa per tre giorni con la macchina e vedrete che nessuno vi ferma”, disse nella stessa occasione ai commissari antimafia. Non c’è la cultura del controllo del territorio, perché si continua a pensare che la mafia esiste se c’è il morto a terra, se ci sono segni di bossoli alle serrande. Di cosa stiamo parlando, se questa è l’Europa? Purtroppo le mafie vengono percepite nella loro pericolosità, solo quando fanno uso della violenza. Quando si muovono sotto traccia e avvelenano l’economia non danno fastidio. Oggi c’è un problema rifiuti che rischia di creare nell’Europa dell’Est gli stessi problemi che da tempo si vivono nella Terra dei Fuochi. Procura federale europea per la macro criminalità: che senso ha farla e come e dove andrebbe fatta? Sono tante le cose che si potrebbero fare. Bisogna solo capire con quali norme si andrà ad affrontare il problema. Il coordinamento è certamente necessario e l’inchiesta Pollino ha fatto capire che ci sono margini di collaborazione per attaccare le mafie in Europa. I soldi Ue alle cosche? Un pregiudizio creato da noi di Alberto Cisterna Il Riformista, 13 aprile 2020 “Non deve vincere la narrazione della paura e della diffidenza”. Le parole del cardinale Bassetti, presidente della Cei, suggeriscono compostezza e misura nei giorni bui della sofferenza e del dolore. In ogni settore della vita pubblica del Paese quanti prendono la parola avrebbero il dovere della prudenza e della verità. Non accade. Non accade sempre. Questo non vuol dire che ci si debba o ci si possa rassegnare al velo dell’enfasi, al mantra della paura o alla mistica dell’esaltazione. Anche nel variegato e pittoresco pianeta dell’antimafia non mancano in questi giorni i dispensatori di analisi inquietanti e di scenari apocalittici. Qui e là i dioscuri dell’antimafia - quelli delle pagine patinate e dei convegni, sia chiaro, non i tanti seri e composti che operano in silenzio - non perdono occasione per alimentare nella popolazione e nelle fragili istituzioni del Paese il terrore di programmi scellerati con le cosche pronte a elargire denaro ai bisognosi e fare shopping di tutte le imprese in crisi. La scenografia mediatica si arricchisce di supposizioni, predizioni, calcoli che nessuno ha mai controllato e che nessuno, invero, ha mai avuto voglia di controllare e confutare. Perché l’industria della paura ha i suoi vati, ma ha anche a disposizione chi vende la merce senza tanto stare a sottilizzare sulla bontà dell’articolo, e contrastarla può essere, come dire, sconsigliabile. Nella vastità delle supposizioni proviamo a mettere in fila almeno alcuni dati. La produzione mondiale della cocaina secondo il rapporto dell’Agenzia Onu di Vienna (Unodoc 2019) è di circa 2.000 tonnellate l’anno. Il prezzo all’ingrosso di questo stupefacente varia tra i 1.200 e i 1.500 dollari al chilo. Complessivamente la cocaina prodotta nel mondo vale all’ingrosso 3 miliardi di dollari all’anno che finiscono direttamente nelle tasche dei narcos colombiani, peruviani e boliviani che la producono. Poi ci sono i broker americani, messicani, olandesi, spagnoli e italiani che acquistano la roba e la rivendono in blocchi. I boss della ‘ndrangheta, insieme a quelli campani, hanno un ruolo importante in quest’attività di brokeraggio, qualche tonnellata di cocaina passa sicuramente tra le loro mani con destinazione verso le reti dello spaccio in gran parte in mano a extracomunitari. La spesa per il consumo di tutte le sostanze psicoattive illegali in Italia è stimata in 15,3 miliardi di euro (fonte: Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le politiche antidroga, relazione 2019). Per tutte le droghe si intende ovviamente tutte nessuna esclusa e, infatti, in questa imponente massa di denaro, “poco più del 42% è attribuibile alla spesa per il consumo di cocaina” (stessa fonte). Il che equivale a 6,5 miliardi circa ogni anno. Naturalmente l’importo si riferisce a quanto finisce nelle mani di migliaia e migliaia di pusher in tutte le città e i borghi d’Italia. I broker calabresi, siciliani, campani intascano una buona frazione di questa, pur imponente, massa di denaro che si gonfia per il taglio a valle della roba venduta a monte quasi pura dai boss. A spanne, ma con una sufficiente precisione, questo è lo scenario. Noioso mettersi a far di conto, ma l’alternativa sono le chiacchiere in libertà. Ora chi afferma che la sola ‘ndrangheta realizzi incassi per 30 miliardi di euro l’anno si prende una bella responsabilità che è quella di dare del bugiardo alle Agenzie internazionali e nazionali più accreditate e meglio informate al mondo o di bisticciare con la matematica. Un vecchio e indimenticato cronista giudiziario a chi gli chiedeva conto di qualche articolo in cui si narrava di spettacolari progetti della ndrangheta senza che vi fossero evidenze investigative, rispondeva sornione “finché le cosche non avranno messo in piedi un ufficio stampa per smentire…”. Certo se non smentiscono loro perché mai imporsi l’ingrato compito di mettere in discussione le tanto condivise esagerazioni che circolano da anni. Perché, come recita l’Ecclesiaste, c’è “un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci” (3, 5) anche quelli avvolgenti e protettivi dell’agora antimafiosa che da anni mantiene un rigoroso silenzio su questa contabilità almeno sospetta. Questo, come sappiamo purtroppo, non è il tempo degli abbracci e non è il tempo per gettare sassi nella palude della paura. Ingigantire numeri e cifre nella certezza di non essere smentiti, prefigurare apocalittiche scalate sociali ed economiche non rende alcun servizio al Paese. Sarebbe un dovere imprescindibile tentare un’altra narrazione e cercare - per come si può - di dar tregua alle ansie e alle paure della gente almeno su questo versante, almeno oggi. Non ci si deve troppo meravigliare, poi, che una pur marginale stampa tedesca a caccia di pretesti per affossare la Nazione evochi lo spettro dei denari europei nelle tasche dei mafiosi. Dopo la strage di Duisburg (13 anni or sono) sono state dozzine le delegazioni di inquirenti italiani che sono stati invitate in Germania per dare ausilio e chiarimenti sulla mafia. A fronte di chi ha usato temperanza e controllo v’è stato chi ha tracciato innanzi alla pubblica opinione e alle autorità tedesche orizzonti catastrofici, sia chiaro praticamente senza dare mai dati o notizie precise o elementi concreti su cui indagare. Con il risultato che i tedeschi, non avendo mai trovato in Germania nulla di cui gli italiani narravano in termini così apocalittici, hanno abbassato ancor più la guardia e messo da parte la strage come una questione tra calabresi in trasferta. Lasciando, tuttavia, i grumi di pregiudizio che oggi ci vengono brutalmente rinfacciati. Sarebbe giusto dire che molte organizzazioni mafiose sono state letteralmente sbriciolate dallo Stato, che non esistono più (con una sola eccezione) latitanti che meritino davvero l’impiego massiccio di uomini e risorse per la loro pur sacrosanta cattura, che le condanne ogni anno di colletti bianchi per collusioni mafiose stanno tutte nelle dita di una mano, che la prestigiosa Agenzia nazionale per le confische ha un pubblico elenco in cui si può facilmente verificare quali siano i beni e quali le aziende sottratti ai clan. Nulla che rimandi a decine e decine di miliardi di euro ogni anno, nulla che evochi la scalata di società e imprese di primario rilievo, una scalata per giunta mai accertata in decenni di indagini. Certo, nelle marginali ed emarginate banlieue di Napoli e di Palermo i clan incassano, dispensando quattro spiccioli, una credibilità e un consenso che lo Stato non ha mai saputo conquistare o anche solo contendere. Ma di qui a dire che i boss siano pronti a espugnare la fortezza finanziaria ed economica di una nazione come l’Italia ne corre. I clan hanno oggi la necessità di rimpinguare di denaro le loro attività di riciclaggio, esauste come tutte le altre nel nostro Paese malato. Per farlo dovranno mobilitare risorse illecite e immettere liquidità nascosta nelle proprie aziende. Ecco, invece che terrorizzare la pubblica opinione con stentorei interventi e ancor più sterili allarmi, chi ha il dovere del contrasto alle mafie pensi ad adempierlo. Rafforzando l’asfittica e burocratica filiera dell’antiriciclaggio, addestrando agenti sotto copertura pronti a infiltrarsi, guadagnando la collaborazione delle imprese ora che lo Stato si rende garante per loro con centinaia di miliardi di euro e deve pretenderne la lealtà. Nulla di troppo complicato. Adempiere il proprio silenzioso dovere, come fanno in tanti in queste settimane. Veneto. Coronavirus, studio sugli asintomatici in Veneto e tamponi nelle carceri di Michela Nicolussi Moro Corriere Veneto, 13 aprile 2020 L’ospedale di Verona a capo di un trial Oms sull’efficacia delle terapie. Allarme nelle prigioni: “Reclusi e agenti infetti”. Ormai la testa della gente è alle riaperture e al ritorno alla normalità, complice il continuo declino della curva del contagio da coronavirus Covid-19. Anche ieri si sono registrati 20 ricoveri in meno nelle Malattie infettive e nelle Pneumologie e nessuno nelle Terapie intensive, scese a 251 pazienti. Salgono invece a 13.891 i casi confermati, con un +432, così come continuano ad aumentare le vittime, benché anche questa voce abbia subìto un rallentamento: sono 852, 28 in più rispetto a venerdì, contro i 34-37 dei giorni scorsi. Ma i morti nelle residenze per anziani sono già 97. “E infatti non dobbiamo abbassare la guardia, i cittadini sanno che l’indicatore è quello dei decessi - avverte il governatore Luca Zaia - e se le misure di contenimento del contagio non vengono rispettate, salirà sempre di più. Se qualcuno pensa che riapertura voglia dire fare baldoria, sbaglia”. Intanto negli ospedali continua il lavoro febbrile per curare i malati più gravi, anche sperimentando nuove terapie. L’ultima novità è lo studio “Solidarity”, promosso dall’Oms e autorizzato dall’Agenzia italiana del farmaco in Azienda ospedaliero-universitaria di Verona. Il reparto di Malattie infettive diretto dalla professoressa Evelina Tacconelli è stato scelto come centro coordinatore per l’Italia, che vede coinvolti 32 centri clinici. Il trial, internazionale, coinvolgerà migliaia di pazienti e consiste nella valutazione delle diverse strategie terapeutiche adottate, tra cui gli antivirali (Remdesivir e Lopinavir/Ritonavir), clorochina e idrossiclorochina. Sarà possibile modificare il protocollo in relazione alle evidenze via via disponibili: una commissione di esperti indipendenti valuterà, a intervalli prestabiliti, i risultati intermedi, stabilendo se siano emersi indicatori tali da decidere se continuare a utilizzare o meno un determinato trattamento. Non solo. Uno studio epidemiologico, il primo realizzato in una grande città sulla prevalenza nella popolazione di asintomatici, partirà nei prossimi giorni a cura dell’Ircss “Sacro Cuore” di Negrar, in collaborazione con il Comune di Verona, l’Usl e l’Azienda ospedaliera del capoluogo. “Su 2500 veronesi - spiega il dottor Carlo Pomari, responsabile della Pneumologia del “Sacro Cuore” - saremo in grado di identificare con un margine di errore dell’1,5% la percentuale di soggetti potenzialmente contagiosi. In più conosceremo la percentuale di residenti che, avendo già sviluppato gli anticorpi del Covid-19, in autunno correranno un rischio molto basso di riammalarsi. E individueremo la fetta di popolazione mai venuta a contatto con il virus, così saremo in grado di prepararci al meglio a una possibile recrudescenza dell’infezione e, per quanto possibile, di prevenirla”. I soggetti da esaminare, a partire dai 10 anni di età, saranno estratti con criterio casuale dall’elenco dell’anagrafe, invitati con una lettera del sindaco e sottoposti al tampone e al prelievo di sangue per la ricerca degli anticorpi. A proposito di tamponi, a breve verranno effettuati nelle carceri, nuovi potenziali focolai. Sono già stati contagiati 27 agenti della polizia penitenziaria e 17 detenuti a Verona, più 23 poliziotti al lavoro negli altri istituti di pena del Veneto. Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil Penitenziari, ha scritto una lettera a Zaia per chiedere “lo screening tramite tampone di operatori e detenuti, con l’obiettivo di identificare gli asintomatici, veicolo di infezione, e garantire a loro, alle famiglie e alla comunità interna una maggior sicurezza”. “C’è un clima di paura - scrive Pegoraro - detenuti, agenti, educatori, amministrativi contabili e direttori degli istituti di pena temono il contagio, anche a causa del sovraffollamento delle celle”. “È uno dei temi che stiamo affrontando - ammette il governatore - una volta conclusi i tamponi a operatori sanitari, ospiti e dipendenti delle case di riposo, partiamo nelle carceri. Se ancora non ci siamo riusciti, è per la mancanza sul mercato dei reagenti”. Sul fronte delle donazioni, infine, ieri Damiano, un bambino di 11 anni di Villa del Conte che alleva galline, ha regalato 25 uova. E tre pagine di istruzioni su come fecondarle. Bologna. Alla Dozza l’ora d’aria con le mascherine per tutti i detenuti di Ilaria Venturi La Repubblica, 13 aprile 2020 L’ora d’aria ora i detenuti del carcere della Dozza la fanno con la mascherina. Dopo la rivolta del 9 e 10 marzo scorso e i contagi dei sanitari dell’infermeria e di alcune guardie penitenziarie, e dopo la morte di uno dei reclusi, il clima sembra essersi molto rasserenato. Il merito è del minore sovraffollamento e dei presidi sanitari messi a disposizione sia del personale che dei carcerati. Da 72 ore la direzione della Dozza ha nuovamente concesso la possibilità di uscire per l’ora d’aria sia alla mattina che al pomeriggio. E questo anche grazie all’arrivo delle mascherine che aumentano la sicurezza e riducono il rischio contagi. Un ruolo determinante lo ha giocato anche il calo dei detenuti passati da una media di 900 a meno di 700 (l’istituto è dimensionato per 500 ospiti). Dopo la rivolta i trasferimenti in altre strutture sono stati quasi 100. A questi vanno aggiunte le concessioni di arresti domiciliari decise dal Tribunale della libertà in applicazione ai decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Verona. La Garante dei detenuti: “La direttrice ha fatto tutto il possibile” borgotrentoverona.org, 13 aprile 2020 Margherita Forestan da anni si occupa dei diritti dei carcerati e difende l’operato di Maria Grazia Bregoli. Sospesi i colloqui in accordo con i familiari. Aumentate le telefonate e distribuite le mascherine. “I tamponi sono ancora in corso non so se questo numero sia destinato a salire. Io parlo soltanto per i detenuti perché di quelli mi occupo”. Così Margherita Forestan, la garante per i diritti dei detenuti, commenta la notizia delle positività in carcere. E aggiunge: “Da giorni non entro nella struttura quindi ho notizie indirette. Ma ogni sera verso le 23 sento la direttrice Maria Grazia Bregoli, che sta veramente facendo tutto il possibile, sia per il personale che per i detenuti. So di certo che la prima persona contagiata era un detenuto nella sezione isolati (quelli cioè che hanno commesso violenza sulle donne o sui bambini) e che gli altri contagiati erano della stessa sezione. Adesso le persone con tampone negativo sono state divise dai detenuti positivi, cercando di sistemarli in altre aree del carcere cosa peraltro non semplice perché gli stessi detenuti mal sopportano la convivenza con chi si è macchiato di reati contro donne e bambini. La situazione in carcere direi che è stata gestita nel miglior modo possibile”, aggiunge Forestan, che ha passato la vita ad occuparsi di detenuti. “La direttrice Bregoli fa da mediatrice, ascolta tutti e parla con tutti recandosi spesso nelle sezioni. È chiaro che la situazione in generale è pesante perché tutti i lavori sono stati sospesi, comprese le lezioni e i laboratori. Vanno avanti quelle che dipendono direttamente dall’amministrazione, come le pulizie piuttosto che il confezionamento dei pasti e la loro somministrazione. L’unico lavoro esterno che ancora viene fatto è quello dell’impacchettamento di prodotti agricoli perché tutto il resto come per esempio l’assemblaggio, visto che veniva effettuato con prodotti che arrivano dalla Cina è stato sospeso”. Segnali di attenzione nei confronti dei detenuti sono arrivati da Cariverona che ha donato degli I-phone per le video chiamate e da Bauli che ha donato colombe, e per tutti ci sono le mascherine. “Fin dall’inizio dell’epidemia erano state sospese anche le visite dei familiari e questo grazie proprio alla grande mediazione della Bregoli non ha provocato le rivolte che sono state fatte in altre carceri perché immediatamente sono state aumentate le telefonate è stata data la possibilità di collegarsi via Skype e i familiari che sono sempre stati tenuti in altissima considerazione dalla direttrice hanno concordato che questo era il modo migliore per tutelare le persone che erano all’interno. Noi stiamo lavorando molto con il magistrato di sorveglianza perché è chiaro che in una situazione come questa, la pena alternativa darebbe respiro sia ai detenuti che alla struttura stessa. A volte però, proprio per il tipo di reato commesso, non si può far tornare il detenuto nella propria abitazione. Servirebbero strutture destinate ai detenuti positivi o in quarantena”. Come è stato fatto in Piemonte, Liguria e Lombardia. E sul piano sanitario Forestan conclude: “Per quanto riguarda i medici c’è un virologo in pensione disponibile ad andare a lavorare come volontario in carcere nel caso ci fosse la necessità di somministrare farmaci come questi che si stanno sperimentando per la cura. Va detto che le persone trovate positive al tampone sono tutte asintomatiche. Quindi per ora la situazione è assolutamente sotto controllo. È chiaro che se ci fosse un luogo dove portare le persone infettate per farle stare in quarantena sarebbe la soluzione ideale. La direttrice più volte ha chiesto in questo senso lumi alla sua amministrazione”. Purtroppo nessuno a livello governativo aveva messo in conto i contagi in carcere e nessuno ha previsto un piano di emergenza per questi possibili contagiati. Ora è tardi. Brescia. Lettera dal carcere: “Noi, in cella, non siamo cittadini di serie B” di Mario Pari bresciaoggi.it, 13 aprile 2020 “Eccellentissimo Presidente Mattarella, ci affidiamo a Lei perché in una simile situazione di emergenza, indirizzi verso scelte mature e coraggiose la politica, affinché la finalità rieducativa della pena (che passa anche attraverso la tutela dei diritti fondamentali quali quello della salute) prevalga, ora più che mai, su quella retributiva ad ogni costo”. Poi, la citazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Siamo tutti sulla stessa barca, nessuno sarà lasciato solo, nessuno si senta abbandonato a sé stesso”. Si conclude in questo modo la lettera, firmata da tutti i detenuti della casa circondariale di Brescia Nerio Fischione, rivolta al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio dei Ministri. Una lettera aperta in cui spiega Francesca Paola Lucrezi, direttore della casa circondariale bresciana, i detenuti “auspicano che il loro grido di aiuto sia accolto dalle autorità competenti, nell’adozione di provvedimenti emergenziali in grado di attenuare il sovraffollamento dei penitenziari italiani ed il relativo impatto nel caso di contagio all’interno degli stessi”. Nelle prime righe della lettera aperta si legge: “Attesa la drammatica situazione in cui versa il Paese e la conseguente crisi sanitaria ed economica, risulta incomprensibile dover constatare che la nostra classe politica sembra dare ascolto ai suoi più logori pregiudizi e rimanga inerte, nonostante il lutto sia entrato non solo nelle nostre famiglie, ma in modo silente anche nei nostri istituti penitenziari”. Quindi, il documento prosegue: “In questa triste pagina della nostra storia, in cui occorre unità e coesione tra gli esseri umani, posti su un livello paritetico e non quali cittadini di serie B, ruolo in cui ormai da sempre noi detenuti siamo relegati, chiediamo un nuovo relazionismo sociale atto ad una partecipazione collettiva come effetto della socializzazione”. Dopo aver invocato “un progetto di modifica culturale”, i detenuti del “Nerio Fischione” evidenziano come “arrivino notizie, più o meno celate, di nuovi casi di contagio in alcuni istituti penitenziari, dove vengono colpiti agenti e detenuti”. Non manca, nella lettera, la gratitudine per tutti coloro che, a partire dal direttore Francesca Paola Lucrezi, sono stati impegnati con il proprio lavoro e i propri sforzi, facendo in modo che “sino ad oggi la situazione non sia precipitata e sfociata in tragedia come in altri istituti”. Infine, nel documento, i punti propositivi, dal “distinguo tra i reati più gravi e quelli meno gravi (...), sino alla permanenza dell’emergenza sanitaria”, nell’applicazione dell’articolo 4 bis O.P., all’”automatismo delle misure alternative alla detenzione coerenti con le attuali circostanze di pandemia” fino alla “concessione delle misure alternative ove ne ricorrano i requisiti”, gli “arresti domiciliari o detenzione domiciliare”. Tolmezzo. Il sindaco di infuriato per i contagi nel carcere “importati” da Bologna friulioggi.it, 13 aprile 2020 Cinque casi di positività al Covid-19 nel penitenziario di Tolmezzo. L’azienda sanitaria numero 3 lo ha comunicato al sindaco del capoluogo carnico, Francesco Brollo. Sono persone arrivate da un’altra struttura di detenzione, circostanza che ha fatto infuriare - e non poco - il primo cittadino. “Si tratta di detenuti provenienti da Bologna, risultati positivi al termine del periodo di isolamento, e mi dicono fossero dichiarati negativi al loro arrivo - svela Brollo. Mi chiedo, ci chiediamo: come è possibile che noi cittadini stiamo attenti a non muovere un passo in più, utilizziamo mille attenzioni allo scopo di contenere il virus, e il morbo ce lo ritroviamo consegnato a domicilio?”. Sono ora necessarie contromisure nella casa circondariale di via Paluzza. “L’azienda sanitaria ci ha comunicato che provvederà (da oggi, ndr) a sottoporre a tampone i lavoratori del carcere. Ci auguriamo davvero che il virus non si sia diffuso, sarebbe una beffa per un sistema che avevamo contribuito, con l’apporto del vicesindaco, a rendere più sicuro, spingendo affinché fosse rafforzato il pre triage in ingresso alla struttura”. Di sicuro, per la comunità del capoluogo carnico un pensiero in più, in giornate già difficili a causa della pandemia da coronavirus. Foggia. Coronavirus, agente penitenziario positivo: il commento dell’avv. Sodrio foggiatoday.it, 13 aprile 2020 “C’è il pericolo di nuovi focolai”. È quanto dichiara l’avv. Michele Sodrio della Camera Penale, dopo la notizia dell’agente risultato positivo al Covid: “Il ministro Bonafede è sordo a ogni nostra richiesta”. Nonostante la rivolta del 9 marzo, nonostante le proteste e le denunce dei sindacati di polizia penitenziaria, la situazione sanitaria al carcere di Foggia è ancora allarmante. Ai detenuti non sono mai arrivate le mascherine protettive e anche per il personale vale la regola del “fai da te, fai per tre”. Infatti l’Amministrazione non fornisce nulla, nemmeno alla polizia penitenziaria, e così sono gli stessi poliziotti (di tasca loro) a doversi arrangiare, ma molti non riescono a procurarsi le mascherine adatte (le oramai famose FFP2 o FFP3) e si vede gente in servizio con semplici straccetti, adattati alla meno peggio per coprire la bocca e il naso. I detenuti hanno dovuto accettare la sospensione di qualsiasi colloquio con i parenti, si è detto per tutelare la loro salute. Resta alto il livello di allerta dopo la notizia dell’agente penitenziario risultato positivo al Covid: “Queste notizie sono giunte anche a noi dall’interno del carcere. Io stesso in questi giorni ho ricevuto molte lettere, telefonate dai detenuti e sono stato personalmente in istituto questa settimana. Ho visto il solito encomiabile impegno del personale, il loro sacrificio giornaliero in una situazione assurda. Nessun detenuto tra i tanti che ho visto indossava la mascherina e ovviamente del famoso distanziamento sociale nemmeno a parlarne. Ma anche molti poliziotti avevano delle mascherine del tutto inutili, che si erano dovuti procurare da soli, perché dal Ministero non arriva nulla”, ha commentato l’avvocato Michele Sodrio del direttivo della Camera Penale di Foggia. Benevento. Disumano sovraffollamento delle carceri e concreto rischio di una sciagura gazzettabenevento.it, 13 aprile 2020 La Casa Circondariale di Benevento mostra per ora numeri e gestione sotto controllo. È quanto afferma Domenico Russo, avvocato, presidente della Camera Penale di Benevento. Domenico Russo, avvocato, presidente della Camera Penale di Benevento, interviene sulla questione del sovraffollamento delle carceri. “Premesso che - scrive - ciascuna pena giusta deve essere eseguita interamente e con certezza, così come previsto dalla nostra Carta costituzionale, va sottolineato come la situazione carceraria italiana, in questi tempi di quarantena, abbia mostrato ancora una volta le sue croniche carenze. Tutti i soggetti coinvolti, subiscono le “non scelte” di una classe politica inadeguata e impreparata sul tema e così accade che detenuti, Polizia Penitenziaria e direzioni degli istituti detentivi vengano lasciati in balia degli eventi, che sono senza precedenti e per questo meriterebbero una risposta seria, responsabile e coraggiosa. Restiamo ancora, nonostante tutto, in fiduciosa attesa. Grazie all’attività instancabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane e alla collaborazione dei Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, si assume notizia di quanto facilmente prevedibile: i provvedimenti emergenziali adottati in tema di carcere, sovraffollamento e misure alternative finalizzate alla prevenzione della diffusione del contagio da Sars-Cov2 nelle strutture detentive sono assolutamente inidonei, insufficienti e restano, nella gran parte dei casi, ancora inapplicati. In Campania, sono solo 4 i detenuti che, allo scorso 6 aprile, hanno goduto della detenzione domiciliare con braccialetto elettronico, 25 i soggetti, con pena residua sotto i sei mesi, ai domiciliari senza braccialetto, e 22 in attesa dello strumento elettronico... questo “noto sconosciuto”! Permane, dunque, in generale, un disumano sovraffollamento e il tragico e concreto rischio di una sciagura. Deve anche dirsi che la situazione in alcune strutture appare maggiormente stabile: la Casa circondariale di Benevento, ad esempio, mostra per ora numeri e gestione sotto controllo. Alcuni detenuti mandati ai domiciliari per ragioni cliniche di gravi comorbilità (potenzialmente letali in caso di contagio da Sars-Cov2) su segnalazione della stessa direzione sanitaria dell’Istituto e, finora, alcun contagio rilevato. Si segnalano, invece, più in generale, condizioni e situazioni molto critiche, con strascichi preoccupanti, come nel caso della tristemente nota vicenda del Carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove più di qualcuno negli ultimi giorni sta facendo riferimento ad una presunta rappresaglia contro i detenuti allarmati da una verosimile fonte di contagio. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha sollecitato reiteratamente l’Esecutivo a mettere in campo strumenti deflativi seri e cogenti, altresì sollecitando, per il tramite del proprio Osservatorio carcere, espressamente il Ministero affinché, in questo periodo di sospensione delle udienze ordinarie, i giudici del dibattimento possano essere applicati presso i Tribunali di Sorveglianza distrettuali e gli Uffici di Sorveglianza, al fine di smaltire le numerosissime istanze di misura alternativa alla detenzione inframuraria rimaste indecise per gravi inadempienze organizzative e carenza di personale. Ma l’interlocuzione, seppur costante, è complessa e molto spesso sterile. Il Governo italiano, intanto, dovrà rendere conto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale, nell’ambito di un ricorso in via d’urgenza relativo alla mancata concessione dei domiciliari ha chiesto di relazionare, tra l’altro, sulla esatta gestione della emergenza Covid-19 negli istituti di pena. Vorremmo e dovremmo non averne bisogno in uno Stato di diritto e laico, ma non possiamo rimanere indifferenti al monito del Papa, che, attraverso una straziante Via Crucis dedicata al mondo carcerario, ci ricorda che in fondo non siamo ancora a tutti gli effetti un Paese civile, né una democrazia compiuta”. Torino. Coronavirus, il pg: “No all’immunità, altrimenti salviamo anche i cattivi” di Ottavia Giustetti La Repubblica, 13 aprile 2020 Saluzzo boccia lo scudo penale e per la ripartenza ipotizza aule aperte ad agosto se serve. Per riavviare la macchina della giustizia è necessario riaprire le aule. Ma con ogni misura di sicurezza per garantire la salute a chi le vive. “E sì, se necessario, ripensare anche alla sospensione dei processi ad agosto. Considerando il fatto che di vere vacanze, quest’anno, non si potrà parlare. So che mi farò qualche nemico, ma se si discutesse di una legge a riguardo, credo che sarei favorevole”. Francesco Saluzzo, procuratore generale di Torino, dalla webcam del suo computer spiega perché è “preoccupato” per la tenuta della macchina giudiziaria durante, e dopo la fine dell’emergenza Coronavirus. “Non è che prima la situazione fosse tanto rosea, ma abbiamo dovuto pensare prima di tutto alla salute. Certo, la ripresa sarà molto dura”. Nei suoi uffici le misure di prevenzione hanno funzionato bene? “Sì, a parte due casi positivi tra gli ufficiali giudiziari, che però hanno molti contatti con l’esterno, il coronaviurs qui è stato clemente. A Torino è stata fatta una scelta di estrema prudenza che ha dato i suoi risultati, adesso è il momento di pensare a una fase due, e la mia idea è di percorrere una via intermedia tra chi vorrebbe tenere tutto chiuso come ora, e chi invece vorrebbe ripartire come prima”. A Roma, nelle delibere del governo, non è mai emerso il problema dell’amministrazione della giustizia. Perché? “Il legislatore è stato saggio e improvvido al tempo stesso: ha dato una delega in bianco ai capi degli uffici e ha detto, in sostanza, sono affari vostri”. Come si imbocca la via moderata allora? “Penso ricominciando ad aprire il Palazzo non appena i dati saranno rassicuranti, e far ripartire i processi. Nel frattempo, è già ora di riprogrammare l’attività dei prossimi mesi che arriverà come la piena di un fiume. Io dico riapriamo, ma facciamolo in modo da poter osservare il distanziamento sociale che ci protegge dalla diffusione incontrollata del virus. Questo significa ripensare radicalmente le attività del settore giudicante per tutelare la salute di tutti”. Fino a oggi è stato per tenere tutto chiuso o per mantenere in vita qualche attività? Come ha organizzato il suo ufficio? “Qui abbiamo risposto alla necessità di desertificare il più possibile il palazzo organizzando il lavoro agile per il personale amministrativo di cui non era indispensabile la presenza. I magistrati hanno continuato a lavorare, soprattutto da casa, ma su moltissimi fronti, non ultimo quello di valutare ogni singola esecuzione alla luce della cosiddetta svuota-carceri. Si sta lavorando molto anche se il risultato non è visibile all’esterno. Però bisogna distinguere tra uffici requirenti e giudicanti, per i primi si è trasformato in un tempo per smaltire l’arretrato, diminuire l’affanno da qui in avanti. Per i giudici, invece, era impossibile andare avanti”. Gli avvocati però si sono lamentati di questa paralisi totale. “Gli avvocati hanno un po’ di ragione e un po’ di torto. In Italia gli avvocati sono numerosissimi e vivono soprattutto di quella moltitudine di piccoli processi e cause che animano il Palazzo ogni giorno. Il rischio per loro, se tutto si ferma, è di essere travolti dalla crisi”. Su cosa non è d’accordo? “Sulla preoccupazione che hanno espresso sul fatto che il processo possa cambiare per sempre. Noi magistrati, come loro, non vediamo l’ora di tornare in un’aula reale, a nessuno piace il processo da remoto. Quello che si sta sperimentando in queste settimane deve rispondere ai bisogni dell’emergenza ma non è definitivo e va maneggiato con cautela. Il contatto fisico tra il difensore e l’imputato deve essere difeso. Anche io amo la tecnologia ma pongo il limite dei principi al suo sviluppo incondizionato”. Quando è nata l’unità di crisi regionale, ha scelto di nominare un magistrato del suo ufficio in un ruolo di raccordo tra l’autorità sanitaria e la procura generale. Perché? “L’ho fatto per due motivi: il primo è perché mi è stato chiesto direttamente dall’unità di crisi che voleva avere un punto di riferimento, non vincolante, per le scelte che richiedono anche una valutazione giuridica. Ed era corretto scegliere tra i magistrati della procura generale per lasciare mano libera ai pubblici ministeri che esercitano l’azione penale. La seconda è che la figura di un magistrato come anello di collegamento tra autorità sanitaria e Palazzo di giustizia può favorire un passaggio di informazioni più agile, anche per le misure di sicurezza che abbiamo dovuto assumere qui nei nostri uffici”. La politica e alcuni opinionisti esperti di giustizia stanno proponendo di istituire qualche forma di scudo penale per chi si è trovato in queste settimane ad affrontare direttamente la crisi. Dai medici agli amministratori. Sarebbe favorevole a una sospensione delle responsabilità penali data l’eccezionalità della situazione? “Sono contrario a ogni scudo. Anche se oggi abbiamo un grande debito di riconoscenza umana e sociale verso chi sta combattendo in prima linea per salvare vite umane, gli scudi sono come trappole: tra tanti buoni che puoi salvare ti obbligano anche a salvare qualche cattivissimo. E io non sono d’accordo”. Palermo. L’arcivescovo va davanti all’Ucciardone: “Prego per voi detenuti” di Giorgio Ruta La Repubblica, 13 aprile 2020 L’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice è andato, ieri mattina, a pregare al carcere Ucciardone. Ha pregato davanti a una rappresentanza di detenuti, mentre gli altoparlanti diffondevano la sua voce. Il presule ha letto la lettera che aveva scritto ai carcerati qualche giorno fa. Sono stati attimi di commozione, per i detenuti e per don Corrado. È andato per “farvi giungere come dono il profumo della zagara che esplode a primavera nei giardini della nostra meravigliosa isola. Così da sentire insieme - quasi come un’unica e ininterrotta effusione - il profumo di quella primavera di quasi 2000 anni fa quando nel giardino del Golgota, dove era stato scavato il sepolcro che aveva rinchiuso il corpo spento di Gesù, è esploso l’Amore crocifisso che ancor oggi vivifica e profuma il mondo”. Don Corrado ricorda che “Gesù è colui che ha voluto bene tutti, orfani e vedove, ciechi e lebbrosi, bambini e poveri”, che si commuoveva per gli affamati e piangeva con chi soffriva, che raggiungeva tutti, buoni e cattivi”. Proprio da qui, dall’Ucciardone, Lorefice aveva iniziato il suo cammino a Palermo, officiando la prima messa dopo l’insediamento. Ieri mattina l’arcivescovo ha celebrato la messa della Santa Pasqua a porte chiuse in cattedrale. Niente fedeli, come prescritto per l’emergenza coronavirus, e diretta streaming sui canali dell’arcidiocesi per consentire la partecipazione da casa. La politica che serve per tornare a vivere di Tommaso Nannicini* Il Foglio, 13 aprile 2020 Immaginare bisogni, prevedere strumenti, liberare soluzioni: le task force non bastano. Occorre un piano d’uscita dall’emergenza. Idee per il lavoro e le imprese, la tutela dei più deboli, il benessere e la sicurezza di tutti nella fase della transizione. La pandemia ci ha colti impreparati. È comprensibile. Ma non sarebbe comprensibile (e neanche giustificabile) se la transizione per uscire dall’emergenza legata alla pandemia ci cogliesse impreparati. Sarà una transizione lunga, necessariamente graduale. Il mondo nuovo che si aprirà dopo sarà diverso da quello di prima: navigare a vista “durante” questa transizione in attesa del “dopo”, senza pianificare con cura come arrivarci, senza prepararci a quello che ci servirà quando raggiungeremo una nuova normalità, sarebbe un crimine. Questo intervento, un po’ lungo vi avverto, è un appello a tutti noi, ognuno per il suo carico di responsabilità, perché nessuno si macchi di questo crimine. A costo di rovinare il finale, anticipo che le task force non bastano, serve la politica. Pianificare la transizione - Il punto di partenza deve essere un messaggio di verità: la transizione sarà lunga. Durerà almeno dodici mesi, durante i quali torneremo a vivere (e a lavorare) ma non torneremo alla normalità. Non si riavvia un sistema economico e sociale pigiando un bottone. E per un po’ dovremo convivere con il virus, finché non ci sarà un vaccino approvato e dato a tutti, o una massa sufficiente di immunizzati. Non c’è nessun derby tra salute ed economia, perché un nuovo picco del contagio in autunno significherebbe assestare un colpo mortale a lavoro e produzione. Come prima cosa c’è da realizzare un sistema per testare e tracciare contagiati e immunizzati. Stabilendo un protocollo di interventi decisi dall’alto, ma decentrati e precisi nella capacità di esecuzione. La seconda cosa da dire con chiarezza è che nella fase di transizione lo stato dovrà fare molte cose. Dovrà prendere per noi - e, ricordiamoglielo, con noi - cinque decisioni fondamentali: (1) chi lavora; (2) come si lavora; (3) dove si vive; (4) come ci si muove; (5) come tutti arrivano alla fine del mese, anche se non possono lavorare o lo possono fare solo in parte. Ci piaccia o no, l’intervento dello stato sarà invasivo. Anche se per un economista dire quello che sto per dire è tanto faticoso quanto per Fonzie dire “ho sbagliato”, il punto cruciale è che i prezzi e gli altri segnali di mercato non garantiranno un’efficiente allocazione delle risorse, finché non torneremo a una nuova normalità. Ma proprio perché l’intervento dello stato sarà invasivo, dobbiamo avere un’ossessione: che sia semplice, trasparente e innovativo. Le ricette del passato buttiamole nel cestino. Non serviranno. Dobbiamo individuare ricette nuove, dividendole chiaramente in due gruppi: quelle “emergenziali”, che spariranno un minuto dopo finita la transizione, e quelle “strutturali”, che ci renderanno più forti per affrontare il dopo. Non solo: affidarsi all’intervento pubblico non vuol dire piombare nel dirigismo. Il governo coinvolga Parlamento e parti sociali, attivi energie e competenze esterne. La sussidiarietà sia un mantra. Meno regioni, più comuni. Meno burocrazia, più patronati e terzo settore. Ripeto: non possiamo navigare a vista, con un Dpcm alla settimana e un decreto al mese. Non basta dire che faremo “tutto quello che servirà”, dobbiamo spiegare “cosa” e soprattutto “quanto” servirà. Non dobbiamo annunciare solo numeri, ma immaginare bisogni, prevedere strumenti, liberare soluzioni. Dobbiamo, in una parola, pianificare la transizione. In maniera flessibile, per carità. La situazione è così eccezionale che ci saranno tentativi, e ci saranno errori. Ma per fare i tentativi utili e riconoscere gli errori giusti, serve un piano. Serve una bussola. Quale metodo, quali competenze - La politica e la macchina pubblica del nostro paese sono pronte a un compito così enorme? È inutile girarci intorno: la risposta è “no”. La politica è debole, bloccata da equilibri precari, depauperata di esperienze e competenze, avviluppata in giochi di ruolo per affermare leadership o piccoli potentati. I nostri limiti strutturali, però, non sono un motivo per non far niente. Anzi. Dobbiamo cogliere al balzo l’occasione per superarli con un doppio salto mortale. Nell’emergenza tutti ci siamo accorti dell’importanza di affidarci agli esperti, soprattutto epidemiologi, medici e Protezione civile. Servono anche altre competenze: economisti, scienziati sociali, costituzionalisti, esperti di management, organizzazione del lavoro, logistica, amministrazioni pubbliche. Ma gli esperti devono aiutare la politica, non possono sostituirla, e perché questo avvenga la politica deve saperli scegliere e inserire in un processo che preveda tempi, obiettivi e responsabilità. Propongo un metodo fatto di tre passaggi. Primo. Il governo individua un “piano per la transizione” anche grazie a un confronto con parti sociali e terzo settore (ascoltando tutti senza assegnare poteri di veto). Secondo. Il governo presenta e discute il piano in Parlamento, ricevendo da quest’ultimo un mandato politico a realizzarlo (tra parentesi, il governo dovrebbe smetterla di venire in Parlamento solo per “informare” su cosa ha già fatto, quello si può scoprire da Facebook, il Parlamento deve votare atti di indirizzo precisi, così funziona una democrazia liberale). Terzo. È solo a questo punto, a valle e non a monte, che si attivano competenze esterne e si co-progettano gli interventi con enti decentrati, parti sociali e società civile (esperti, rappresentanti delle imprese, sindacati dei lavoratori, terzo settore, scuola e università, regioni, comuni). All’interno di un percorso definito dove si attivano non una ma tante cabine di regia, ognuna delle quali è chiamata a liberare soluzioni per realizzare i tasselli del piano. Qualcuno obietterà: non c’è tempo, dobbiamo andare veloci. È il contrario, senza un metodo si procede a tastoni e si rallenta. E dire che non c’è tempo per procedere con ordine implica quattro cose, tutte pericolose: i) accentrare il potere, privando cittadini e politica del confronto e dell’informazione; ii) disperdere energie su misure di dettaglio, perdendo di vista il disegno; iii) non selezionare correttamente le persone di cui si ha bisogno; iv) ritardare il momento del confronto con la responsabilità e alimentare la conflittualità con parti sociali, enti territoriali e cittadini. Le scelte da fare “durante” - Ma in che cosa dovrebbe consistere il piano di cui parlo? Faccio qualche esempio, così ci capiamo. Il governo deve pensare a “come” riaprire, non “quando”, in modo da pianificare le cinque decisioni fondamentali elencate sopra per la fase di transizione. Sciogliendo i nodi di fondo e affidando i dettagli operativi ad altrettante task force. (1) Chi lavora. Chi torna per primo a lavorare? Giovanni Cagnoli sul Corsera e Andrea Ichino e altri su Vox.eu hanno proposto di far ripartire i giovani su base volontaria, perché sono quelli meno esposti al rischio (anche se l’esposizione non è nulla), e alcuni settori strategici individuati con dati intelligenti (non con una lista di codici Ateco, ormai obsoleti da decenni). I giovani economisti di Tortuga hanno proposto di usare i sistemi locali del lavoro Istat e i dati sulla mobilità telefonica per individuare aree da aprire e chiudere a fasi scaglionate. La scelta finale non potrà che usare un mix di questi criteri: età anagrafica; filiera produttiva; collocazione geografica; stato immunologico. Chi tornerà a lavorare per primo dovrà farlo in sicurezza. Servono protocolli aggiornati e crediti d’imposta per tutte le spese che permettano di ripensare spazi e organizzazione dei processi produttivi. Non ci si può affidare allo spontaneismo dal basso senza un forte indirizzo e coordinamento dall’alto, altrimenti la conflittualità tra aziende e lavoratori potrebbe inceppare la transizione. Per farlo, servono controlli. E servono soldi: gli ispettori del lavoro e le Asl non hanno le risorse umane necessarie per un compito così imponente, (2) Come si lavora. Se in un nucleo familiare alcune persone tornano a lavorare prima di altre, dobbiamo fare in modo che abbiano a disposizione soluzioni abitative a carico dello stato per non esporre al rischio di contagio i propri familiari. Serviranno, di nuovo, risorse e un protocollo con alberghi e piattaforme digitali per intermediare velocemente domanda e offerta. E serviranno soldi per testare e tracciare le persone che riprendono a muoversi. (3) Dove si vive. (4) Come ci si muove. Il settore dei trasporti e della logistica acquisteranno un ruolo ancor più cruciale del solito nella transizione. Dovranno adattarsi non solo agli standard di sicurezza, ma all’esigenza di rispondere in maniera rapida e flessibile ai cambiamenti di rotta che saranno presi strada facendo. La mobilità sarà fondamentale per consentire a chi prima usava servizi pubblici e non possiede mezzi privati di tornare a lavorare in sicurezza. Non è solo una questione di contagi, ma di giustizia sociale. E alle forze dell’ordine sarà richiesto di continuare un compito importante di presidio del territorio, ma sarà importante formarle perché sia esercitato in maniera informata e rispettosa dei diritti e delle sensibilità di tutti. Nessun eccesso di presidio può essere tollerato di fronte al perdurare dei controlli. Attenzione, anche qui: siamo una democrazia liberale, le libertà si possono limitare temporaneamente per una giusta causa, mai calpestare. (5) Come tutti arrivano a fine mese. Sulla garanzia del reddito dobbiamo uscire dalla fase emergenziale degli interventi tampone, lasciandoci alle spalle misure che non sono né semplici né innovative. Dobbiamo cambiare passo: con una strategia chiara, semplice e innovativa per tutta la fase di transizione. Abbiamo due opzioni davanti. Opzione uno: un “reddito di base per l’emergenza”, una vera imposta negativa usa-e-getta che, integrando dati e funzionalità di Inps e Agenzia delle entrate su prestazioni e sostituti d’imposta, permetta di integrare il reddito mensile fino a una soglia minima. Se non lo si ritiene fattibile, perché per disegnarlo dovremmo mobilitare molte competenze esterne e creare nuove infrastrutture, resta l’opzione due: rafforzare e semplificare le forme attuali di garanzia del reddito, ma sul serio. Con un unico strumento destinato a ognuna di queste quattro platee: i) dipendenti in costanza di rapporto, ii) disoccupati, iii) lavoratori autonomi, iv) poveri. Per i primi c’è la cassa integrazione da estendere per tutta la transizione e semplificare nelle procedure, anche con una garanzia statale per gli anticipi delle banche, facendo in modo che siano immediati e disciplinati per legge. Ai cassintegrati si dovrebbe concedere la possibilità di accettare anche un altro lavoro, come hanno proposto Ciani, Del Conte e Garnero su Lavoce.info e come ha fatto il Regno Unito. Loro manterrebbero il lavoro originario e potrebbero acquisire nuove competenze ed esperienze, senza perdere il beneficio (o vedendoselo ridurre solo in parte). Le imprese intercetterebbero manodopera difficile da trovare nella fase di graduale riapertura. Per i disoccupati, i veri dimenticati di questi primi interventi, ci sono Naspi e Dis-coll da potenziare, facendole confluire in un unico “salario di disoccupazione” che, nella fase di transizione, allunghi i periodi durante i quali si può beneficiare di tali indennità e rimuova ogni forma di décalage, in modo che la garanzia del reddito sia costante per tutta la durata. Per gli autonomi, le indennità emergenziali di marzo vanno estese a tutto il periodo della transizione, ma rendendole progressive per non disperdere risorse e raggiungere solo chi ha davvero bisogno. Liberando allo stesso tempo le risorse delle casse di previdenza private, ora bloccate da assurdi paletti burocratici, per permettere loro di disegnare un nuovo welfare allargato per tutti i professionisti. Per i poveri, c’è il reddito di cittadinanza, da semplificare con due priorità: rafforzare l’aiuto alle famiglie con minori; potenziare il ruolo di comuni e terzo settore in un’ottica di attivazione sociale. C’è un altro tema, poi: nel periodo dell’economia della separazione dovrà esserci anche un “welfare della separazione”, che non si preoccupi solo di garantire il reddito ma si prenda cura dei bisogni. La solitudine di bambini e anziani. La fragilità di malati cronici e persone con disabilità. I diritti di lavoratori irregolari e sfruttati. Il 12 per cento dei ragazzi tra 6 e 17 anni non ha un computer o un tablet a casa (il 25 per cento nel Mezzogiorno, 470 mila ragazzi). Più del 25 per cento degli italiani vive in condizioni di sovraffollamento abitativo, e la quota sale al 50 per cento nelle famiglie con minori. Servono interventi straordinari contro la povertà educativa per non cristallizzare le disuguaglianze sociali su intere generazioni. E se non vogliamo uscire da questa crisi più deboli di prima, dobbiamo investire sulla telemedicina e fare interventi per rafforzare l’assistenza domiciliare ai malati cronici e alle persone non autosufficienti. Poi c’è il tema dei lavoratori irregolari. Adesso, tutti ci accorgiamo dell’importanza della manodopera straniera in alcune filiere come quella agro-alimentare, anche se ieri ci giravamo da un’altra parte rispetto alle condizioni in cui lavorava e viveva. Se i porti sono chiusi per la pandemia, intanto apriamo subito i diritti: regolarizzando i lavoratori stranieri che sono sul nostro territorio e aspettano di veder riconosciuto il loro contributo all’Italia. Tutte queste scelte costano, e non poco. Che serva fare più debito lo sappiamo. Ce lo ha ricordato Mario Draghi con la sua autorevolezza: adesso, il debito è “buono”. Anche se noi italiani in passato siamo stati maestri di debito “cattivo” e dovremmo avere l’onestà di ammettere che arriviamo fragili a questa crisi anche per questo. Non basterà lo scostamento del deficit, serviranno Eurobond e l’emissione di titoli a lunga scadenza o irredimibili finalizzati all’emergenza. Le ultime due leggi di bilancio (approvate da maggioranze diverse) appartengono ormai alla preistoria: sono piene di misure che non servono o non sono mai partite. Perché non fare un’altra bella task force, allora, che le rivolti come un calzino recuperando risorse? Servono ancora i miliardi del bonus facciate? Perché non togliere subito quota 100 a chi ha un lavoro a tempo indeterminato non gravoso? Rendere più giusti e selettivi gli interventi del passato libererebbe risorse per tornare a vivere. Una postilla: le scelte per il “dopo” - Non è vero che, dopo, niente sarà come prima. Molte cose lo saranno, molte altre no. È difficile prevedere con esattezza quali. L’unica cosa sicura è che a tutti sarà richiesto lo sforzo di cambiare. Mutamenti che automazione e globalizzazione avrebbero indotto nell’arco di anni, avverranno nell’arco di mesi. Lo stato dovrà fare molte cose. Dovrà prendere per noi cinque decisioni fondamentali: chi lavora; come si lavora; dove si vive; come ci si muove; come tutti arrivano alla fine del mese. L’intervento dello stato sarà invasivo, dobbiamo avere un’ossessione: che sia semplice, trasparente e innovativo. Nel periodo dell’economia della separazione dovrà esserci anche un “welfare della separazione”, che non si preoccupi solo di garantire il reddito ma si prenda cura dei bisogni. La solitudine di bambini e anziani. La fragilità di malati cronici e persone con disabilità. I diritti di lavoratori irregolari e sfruttati. non è morta. Dalla scienza al digitale, soluzioni che oggi sono così importanti - e che domani lo saranno ancor di più - si nutrono di secoli di apertura e condivisione. E dovranno continuare a farlo. Serviranno politiche pubbliche da centometristi, non da maratoneti: rispetto allo stato sociale, alle politiche (attive) del lavoro, al sostegno per le famiglie con figli, al contrasto alla povertà educativa, alla connessione digitale come diritto di cittadinanza, alla transizione ecologica e tecnologica della nostra economia. L’Europa dovrà dotarsi di una vera unione fiscale e sociale. E ci sarà da ripensare il rapporto tra città e provincia. Salute, ambiente e digitale sono sfide che ci offriranno l’opportunità di invertire il declino delle aree interne. Insomma, ci sarà tanto da innovare: la creatività sarà fondamentale per non perdere l’opportunità di uscire dalla crisi più forti di prima, risolvendo alcune debolezze che l’Italia si porta dietro da decenni. *Professore di Economia politica all’Università Bocconi e senatore del Pd Il coronavirus fa esplodere le disuguaglianze sociali in Italia di Alberto Magnani ilsole24ore.com, 13 aprile 2020 La crisi del Covid-19 dovrebbe “colpire tutti”. In realtà si farà sentire soprattutto sulle fasce più deboli, esacerbando le fratture sociali in Italia. Magda Baietta dirige da oltre 20 anni la Ronda della carità, un’organizzazione milanese di volontariato che assiste i più deboli con centri di accoglienza, “pacchi viveri” e soccorso ai senza tetto. Pochi possono dire di aver conosciuto la povertà più da vicino. “Ma una cosa simile - confessa - non l’avevo mai vista in vita mia”. Quella “cosa” è la crisi innescata dal coronavirus, l’epidemia che sta travolgendo da settimane la Lombardia, l’Italia e il resto del mondo. Per lei, le statistiche su disoccupazione e calo dei redditi si traducono in un conteggio più immediato:? “Qualche settimana fa consegnavamo pacchi viveri a 35 famiglie, ora sono già diventate 45 - racconta - E per la maggioranza si parla di italiani nelle case popolari della città, dal Giambellino al Gallaratese”. Si è detto che l’epidemia di Covid-19 colpirà trasversalmente, con impatti economici che vanno dalle multinazionali ai piccoli commercianti di periferia. Ma gli effetti di lungo termine non saranno uguali per tutti, anzi. L’emergenza Covid-19 sta accentuando le disuguaglianze già radicate nel sistema italiano, in tutte le loro declinazioni:?centro e periferie, tutelati e precari, oltre al dualismo originario tra fasce di reddito elevate e minime. “Non è più una povertà generica, è una povertà di sopravvivenza” spiega Baietta. Perché le disuguaglianze stanno esplodendo - L’Italia era un paese “disuguale” anche prima che esplodesse il virus. L’indice di Gini, una misura sulla disuguaglianza calcolata su una scala da 0 a 1, arrivava nel 2018 allo 0,33,?uno dei valori più alti su scala Ue (la Francia è a 0,29, la Danimarca a 0,26). Secondo i dati di Oxfam, una organizzazione no-profit, il 20% della popolazione deteneva nel 2020 l’equivalente del 70% di una ricchezza complessiva di 9.297 miliardi di euro, contro il 13,3% nelle mani del 60% più povero della popolazione. Le cose non vanno meglio in termini di mobilità sociale, se si considera che in Italia occorrono cinque generazioni per migliorare il proprio status socio-economico e il 31% dei figli di genitori a basso reddito è “condannato” allo stesso livello di entrate della sua famiglia. La crisi economica del covid-19, annunciata da tracolli del Pil fino al -10%, potrebbe divaricare ancora di più la polarizzazione tra chi sta bene e chi sta male, esacerbando le sue cause profonde:?dal dualismo lavorativo tra tutelati e precari al blocco dell’emancipazione sociali tra classi e generazioni. “In Italia esiste un chiaro divario generazionale e un mercato del lavoro duale - spiega Enrico Bergamini di Bruegel, un think tank - In presenza di uno shock generalizzato i posti di lavoro più a rischio saranno quelli meno tutelati, e la dualità sarà ancora più evidente”. A farne le spese potrebbero essere, tanto per cambiare, le nuove generazioni. Un report del Center for Economic and Policy Research, un centro studi di Washington, ha evidenziato che i lavoratori più giovani saranno i più esposti alla crisi per la maggiore diffusione di contratti a termine, impieghi saltuari o la proliferazione dei “lavoretti” della gig economy. Negli Usa si è assistito al boom senza precedenti di sussidi di disoccupazione, esplosi dai 650mila del 2009 ai 6 milioni toccati nell’aprile 2020. In Italia, con le dovute proporzioni, l’effetto rischia di essere altrettanto (o forse più) critico grazie alla crescita di sotto-occupazione, part-time involontario e lavoro full-time mascherato da tirocinio. Il Forum disuguaglianze e diversità, ricorda Bergamini, stima un totale di 2-3 milioni di precari in aziende resilienti e 4 milioni alle prese con lavoro saltuario o irregolare. Ovviamente non ci sono “solo” giovani e precari. La crisi potrebbe affossare tutte le fasce più vulnerabili della popolazione:?anziani con basso livello di reddito, immigrati, lavoratori in nero esclusi da qualsiasi meccanismo di cassa integrazione, i rider della gig economy obbligati a ritmi folli di consegna senza aumenti di tutela. E poi il mondo degli “invisibili” del mercato del lavoro, come gli indipendenti. Rosario Curia, 34 anni, ha lavorato come ingegnere in uno studio (con “contratti di tirocinio e nero”) prima di reinventarsi come fotografo. Ora la crisi ha azzerato le sue commesse almeno fino a maggio, ma non può nemmeno accedere al bonus dei 600 euro perché?già percettore del reddito di cittadinanza. “Certo è che magari rappresento una minoranza, un caso raro - dice - ma così mi sento veramente messo da parte.” Quel divario tra centro e periferia - Il danno può essere anche a livello sanitario, visto che le categorie più deboli finiscono anche per esserele più esposte a situazioni insalubri. Da un lato c’è l’esercito di lavoratori “essenziali” e impossibilitati a lavorare da remoto, ad esempio nelle fabbriche rimaste aperte anche durante i picchi della crisi. Dall’altro c’è un fattore legato alle abitazioni:?le fasce più povere tendono a concentrarsi in quartieri più densamente popolati e quindi meno “salutari” nell’ottica di un contagio (o più alienanti per una convivenza forzata fra le mura domestiche). Un nuovo capitolo del divario fra centro e periferia che si esprime, in questo caso, nel confronto tra metri quadri disponibili. Un’ulteriore analisi del Bruegel ha rilevato che, in Italia, i cittadini che rientrano nel 10% delle famiglie con redditi più elevati hanno a disposizione una media di quasi 76 metri quadri pro capite. Quelli che rientrano nel 10% più basso si fermano all’esatta metà, 33 metri circa pro capite. Le abitazioni più ampie, e quindi più costose, sono occupate da inquilini con un grado di istruzione superiore e impiegati in lavori ad alto reddito, in larga parte convertibili in forme di smart-working. Gli appartamenti più ridotti, registra l’indagine, sono popolati da una fascia di inquilini con un grado di istruzione inferiore, associati a “lavori a termine e più difficili da eseguire da remoto”. Negli Stati Uniti la dinamica della “disuguaglianza abitativa” si è già manifestata nel più alto caso di decessi da Covid-19 nella popolazione afro-americana. I numeri sono da allarme. A Chicago, a quanto riporta il quotidiano britannico Guardian, i cittadini afro-americani incidono sul 70% dei contagi pur rappresentando appena l 30% della cittadinanza. Radicalizzazione o coesione? - Se lo shock è certo, le conseguenze della frattura sociale non lo sono ancora. Giampaolo Nuvolati, ordinario di Sociologia dell’ambiente alla Bicocca di Milano, pensa che le disuguaglianze esasperate dalla crisi conducano a due reazioni opposte:?la radicalizzazione politica o, viceversa, uno spirito di coesione figlio della crisi. Nel primo caso, si sono già registrati focolai di tensione nelle aree più povere del Paese, mentre l’insoddisfazione per la crisi potrebbe dare la spinta alle forze “anti-establishment” che orbitano soprattutto all’estrema destra. Nel secondo, quello più ottimistico, si potrebbe pensare (o sperare) in un a clima di ricostruzione simile a quello del dopo-guerra. Un parallelismo, non a caso, evocato a ripetizione quando si immagina il risveglio dalla pandemia: “Guardiamo a I e II guerra mondiale - dice Nuvolati. Nel primo caso i vari Paesi mostravano forme di risentimento, di rivalsa, di rabbia che diede vita a forme di radicalizzazione politica, in particolare alla nascita del fascismo e del nazismo”. Nel secondo dopoguerra però, aggiunge, “pur con tutte le contrapposizioni tra i vari schieramenti a prevalere fu un sentimento di collaborazione e unità che ha portato a 70 anni di crescita e di benessere in Europa”. I tempi della ripresa, comunque, sono ancora lontani. E prima del rimbalzo del 2021 ci sarà un tracollo nel 2020. Il fronte è comune, ma il “nemico invisibile” non colpisce tutti allo stesso modo. Giuseppe, Luigi, Francesco, Anna, Cosimo: la disperazione dell’Italia che vive alla giornata di Vera Viola ilsole24ore.com, 13 aprile 2020 Da Palermo a Napoli, da Bari a Taranto: le voci di un popolo che senza i piccoli lavori quotidiani, spesso a nero, oggi non ha i soldi per comprare il cibo. E fa la fila in Comune o alle parrocchie per chiedere aiuto. Ma anche le donazioni sono in calo per i limiti agli spostamenti. Giuseppe non ha più merce da vendere: per l’ingresso al?Mercato ortofrutticolo serve la partita iva. E lui la partita Iva non ce l’ha. Anzi, per la verità, non l’ha mai avuta. Così, quando l’altra settimana la polizia municipale ha bloccato l’ingresso del?Mercato ortofrutticolo non ha potuto che tornarsene indietro. Disperato. Ci ha provato di nuovo il giorno dopo a tornarci per acquistare frutta e verdura da rivendere a Ballarò.?Ma senza successo. Adesso non ha più cibo da vendere nel rione. Non ha più cibo per sé e la sua famiglia: la moglie e i tre figli. Il verduraio di Ballarò - Nel cuore di Palermo sono un autentico popolo quelli che vivono alla giornata, con lavoretti di vario genere. Che dell’abusivismo avevano fatto il modo di vita. Un popolo di venditori di frutta, di pane, di cianfrusaglie. Racconta Giovanni Basile, editore e direttore (oltre che redattore) del mensile popolare “Babbaluci” (lumaca in palermitano) che distribuisce gratuitamente nel centro storico: “Sono di sicuro in grande difficoltà i fruttivendoli del mercato di?Ballarò e poi tutti i venditori di cianfrusaglie varie, quelli che raccolgono i resti dei traslochi. Una difficoltà enorme”. I nuovi poveri al tempo del Coronavirus da Palermo a Napoli, da Bari a Taranto, sono l’espressione di un’Italia che vive di lavoro alla giornata. Lavoro precario. Lavoro nero. Che oggi con il lockdown non riesce più a mettere insieme neanche quanto serve alla sopravvivenza. Una difficoltà estrema, assoluta che può spingere alla rivolta sociale. Agli assalti ai supermercati, come ad altre forme estreme di ribellione. Tanto da spingere il governo a intervenire con più fondi ai Comuni proprio per sostenere le famiglie in difficoltà. L’emergenza di chi è in quarantena - Le facce dei nuovi poveri sono quelle di chi non ha chiesto il reddito di cittadinanza, pur avendo fin qui un lavoro in nero, troppo orgogliosi per mostrarsi in difficoltà. Resistenti da sempre ma oggi stremati dal distanziamento sociale, dal blocco di tutte le attività. Molti di loro sono già nel lungo elenco del Comune di Palermo, altri ci saranno nelle prossime settimane, altri ancora sperano di rientrarci. Le domande per la distribuzione di generi alimentari sono già 14.000. “Dopo la scrematura che sarà fatta - dice don?Sergio?Ciresi vicedirettore della Caritas diocesana - ne rimarranno circa 10mila: ci sono infatti domande di componenti dello stesso nucleo familiare e persino di cittadini che non abitano a Palermo”. Senza contare il popolo degli invisibili: i senza dimora, per esempio, e poi chi invece ha occupato abusivamente un immobile e i migranti irregolari. “A?Palermo - spiega ancora don?Ciresi - è stato costituito un coordinamento tra associazioni. Noi ci occupiamo degli invisibili. Nelle nostre strutture facciamo 400 pasti al giorno. Poi, in collaborazione con la Croce Rossa, portiamo il cibo a chi è in quarantena perché positivo o familiare di un soggetto positivo al Covid-19 e non può in alcun modo procurarsi da mangiare”. Il subacqueo senza più allievi: la stagione è perduta - Lavoro nero. Invisibili. Ma la crisi sta travolgendo anche chi fa piccoli lavori, legati alla stagione, al turismo in particolare. Come Luigi, istruttore subacqueo, che aveva costruito una piccola attività partendo da una passione, da uno svago e ora si ritrova a non avere né il lavoro né lo svago. Mentre ha moglie (che lavorava con lui) e due figli in età di scuola media da mantenere. “Cominciavo a lavorare ad aprile - racconta Luigi - con la fase teorica dei corsi, poi a fine maggio cominciavo con le immersioni. Un lavoro che durava fino a ottobre; poi vivevamo con i soldi guadagnati nella stagione estiva”. Adesso l’orizzonte è un incubo, un muro oltre il quale non si vede un futuro. Perché questa stagione turistica è ormai azzerata, se ne riparlerà l’anno prossimo. Così, Luigi si è già messo in fila al Comune per accedere alla distribuzione degli aiuti alimentari. Francesco, l’idraulico del Vesuviano, bloccato perché in nero - Abita a Boscoreale, in provincia di Napoli, e ha 39 anni. Francesco vive con sua madre che di anni ne ha 75. È un artigiano a nero, come racconta. “Lavoro a nero poiché la mia è una attività discontinua. Da più di quindici giorni non posso uscire da casa e quindi niente lavoro e niente entrate. In casa ci arrangiamo con la pensione minima di mia madre: 500 euro, che ci bastano per mangiare e aiutare mia sorella incinta e con il marito disoccupato”. Insomma, i piccoli soldi che entrano in casa servono per mangiare. E altri pagamenti? “Ce ne sarebbero da fare - dice Francesco - ma per ora non possiamo”. Ma in questo quadro dall’orizzonte buio, Francesco guarda alla sua famiglia con ancora più allarme. “Sono più preoccupato per mio fratello, Simone, che lavora con me. Lui vive a Torre del Greco e ha due bambini. Per fortuna sua moglie sta lavorando in un salumificio e assicura un’entrata”. Francesco e Simone fanno manutenzione nelle case: idraulica, pitturazione, piccole riparazioni. “A volte io e Simone riusciamo a guadagnare anche mille euro al mese, ma ci sono giornate in cui siamo fermi, oppure torniamo a casa con non più di trenta euro”. Il lockdown in verità non avrebbe fermato le richieste, la domanda di interventi in casa ci sarebbe. “Anche questa mattina mi hanno contattato per riparare un rubinetto rotto. Il problema è che non posso uscire da casa: come giustifico la mia uscita se lavoro a nero? Meglio allora aspettare tempi migliori. Ma resisto altri quindici giorni al massimo. Dopo dovrò reagire”. Nessuno mi chiama più per i lavori in casa - Anna vive a Bari. Ha 29 anni, è sposata e ha una bambina di 5 anni e un bimbo di 10. Domestica a ore, “ma da un mese non sto lavorando più. Vado a fare le pulizie nelle case di tre famiglie diverse, lavoro dal lunedì al venerdì, ma da settimane non sto facendo nulla. Sono famiglie dove lavoro da tre-quattro anni in alcuni casi, da due in altri. Ma anche se hai un rapporto quasi stretto e ti conoscono da tempo, non ti chiamano più. Hanno paura”. Ti dicono: vediamo la prossima settimana, poi la settimana arriva e niente ancora, ti rimandano alla prossima, e così i giorni passano, racconta, “e io vivo nel limbo. Anche mio marito sta senza far nulla. Come me, pure lui vive alla giornata con una cooperativa che trasporta mobili. Ma è tutto fermo, bloccato. Abbiamo due bambini e la situazione sta diventando pesante”. Così Anna ha letto degli aiuti pubblici e il 30 marzo ha provato a chiamare il Comune ma senza risultato. “Squilla, squilla e non risponde nessuno. Oppure è sempre occupato. E io, che sono giovane, ho la resistenza di stare attaccata al telefono e di provare e riprovare. Ma gli anziani come fanno? Chi gli aiuta? Chi ci aiuta? Se stanziano questi soldi per favore metteteci in condizioni di averli subito”. Barca a secco, osservo il mare - “Le mie giornate trascorrono nel nulla, sto fermo, non si sta più uscendo in mare”. Cosimo, 35 anni, fa il pescatore a Taranto. Come lui, molti altri per una categoria che pure, negli anni, ha visto tante crisi: dal colera del ‘70 alle cozze del Mar Piccolo mandate al macero in tempi più recenti perché inquinate. Ma adesso è davvero dura. “Dove dobbiamo vendere il pesce? Nei mercati, la gente viene, fa la spesa di corsa e scappa. I ristoranti sono tutti chiusi. Le pescherie prendono il minimo perché dicono che non vendono. Non ci possiamo muovere per andare nelle pescherie della provincia e quindi è saltata un’altra possibilità di smercio. Chi si arrangiava vedendo per strada una cassetta di pesce, non può farlo più e adesso sta peggio di noi. Mestiere amaro il nostro. E le famiglie ne pagano il conto”. Nelle mense gente mai vista prima - Così in pochi giorni il Comune ha preso in carico 1.500 famiglie in più e nelle mense della Caritas si affacciano nuovi volti. “I nostri volontari ce lo stanno dicendo: nelle mense si vedono persone che da noi non erano mai venute”. Don Vito Piccinonna, responsabile della Caritas Bari e parroco dei Santi Medici di Bitonto, apre lo spaccato di una crisi che assedia precari, gente che ha perso il lavoro, persone che prima si arrangiavano in nero, con lavoretti, e adesso non possono più farlo. “Vengono da noi perché angosciati, impauriti” spiega il sacerdote. “È aumentato il numero dei pasti che serviamo, siamo adesso a 120-130 ogni turno, ai quali si aggiungono quelli serviti nei dormitori ai senza fissa dimora, un altro centinaio. Le 12 mense Caritas di Bari e che funzionano in modo alternato, stanno lavorando intensamente”. Non solo pasti caldi ma anche pacchi alimentari distribuiti attraverso la rete delle parrocchie. Mancano i prodotti freschi, non si può neanche donare - “Ogni 15 giorni, come Cattedrale di San Cataldo, diamo un pacco alle famiglie bisognose, ma il pacco contiene prodotti a lunga conservazione, qui, invece, stanno mancando olio, frutta, biscotti. Non ci sono gli alimenti freschi. Pensiamo ai bambini, perché nelle famiglie rimaste ce ne sono ancora e ne nascono”. Elena Modio, volontaria di Taranto, descrive la realtà della città vecchia di Taranto dove il parroco, don Emanuele Ferro, si sta dando da fare. “Assistiamo 150 famiglie - afferma - e il loro stato di precarietà, di sopravvivenza, ora si è trasformato in crisi nera. Chi prima si arrangiava, adesso non riesce a farlo più. E le restrizioni alla mobilità hanno anche una ripercussione sulle donazioni che si sono ridotte. Chi vuole donare, non sa come far arrivare i prodotti e per noi le difficoltà aumentano”. Giuseppe, Luigi, Francesco, Anna, Cosimo finora si erano arrangiati. Ora aspettano una risposta pubblica. Veloce ed efficiente. Coronavirus, migranti in quarantena su apposite navi: l’ipotesi di Borrelli di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 13 aprile 2020 Il capo della Protezione Civile firma un’ordinanza. Ieri a Pozzallo arrivati in maniera autonoma 100 straniera, altri 156 salvati dalla Alan Kurdi ma le Ong denunciano altri dispersi in mare. Navi su cui trattenere i migranti che sbarcano in Italia per il canonico periodo di quarantena previsto per il coronavirus. L’ipotesi è stata avanzata dal capo della Protezione Civile Angelo Borrelli nel orso della quotidiana conferenza stampa e proprio mentre in queste ore si registra un risveglio degli sbarchi (un centinaio di stranieri sono approdati a Pozzallo) e delle partenze dalla costa libica. Le organizzazioni umanitarie proprio oggi hanno lanciato un allarme temendo che un barcone si sia rovesciato a sud di Malta e che le persone che erano a bordo (un numero non ancora precisato) siano morte annegate. Le parole di Borrelli - “C’è l’esigenza di garantire anche per i migranti che sbarcano, la sorveglianza sanitaria cioè la quarantena e l’isolamento. Per questo il dipartimento creerà strutture o aree sulla terraferma oppure navi dove poter ricoverare i migranti”. ha detto Borrelli. Che poi ha aggiunto: “Dopo, saranno gestiti secondo le procedure ordinarie”, ricordando che la Croce rossa darà supporto insieme al suo personale sanitario, così come ci sarà il rispetto dell’uso dei Dpi. Il capo della Protezione Civile ha detto di aver già firmato un’ordinanza per regolare l’accoglienza di quanti sbarcano in maniera autonoma. Nei giorni scorsi l’Italia aveva invece dichiarato l’intenzione di rifiutare l’arrivo di navi Ong in quanto quelli italiani a causa dell’epidemia non sarebbero più “porti sicuri”. Musumeci: “trovata la nave” - Dal canto suo il governatore della Sicilia Nello Musumeci, ha subito fatto sapere che la nave sarebbe già stata trovata: “È la Motonave Azzurra della compagnia Gnv, capace di ospitare fino a 448 persone, dotata di protocollo sanitario per l’assistenza a bordo di casi di Covid-19 positivi, idonea quindi a garantire le condizioni sanitarie necessarie alla quarantena di sospetti contagi ed attrezzata anche per preparare i pasti giornalieri Sbarchi a Pozzallo e gommoni in mare - Le emergenze, nella giornata di Pasqua, sono tre: come detto un centinaio di migranti - provenienti da Eritrea, Somalia, Sudan e Ciad - è riuscito ad arrivare a Pozzallo in maniera autonoma e dovranno essere trasferiti in un centro di accoglienza nei pressi di Ragusa; dove però dovranno essere osservate le restrizioni sanitarie. In secondo luogo la nave Ong Alan Kurdi ha salvato 156 persone alla deriva: per loro si profila la permanenza a bordo della nave per il periodo di quarantena. Infine c’è l’allarme lanciato da Sea Watch, secondo la quale almeno quattro gommoni nelle ultime ore hanno preso il largo dalla Libia e necessitano di essere soccorsi. In tutto si tratterebbe di 250 naufraghi: uno dei barconi come detto sarebbe affondato trascinando alla morte quanti erano a bordo. Sea Watch ricorda che la situazione era già stata segnalata da Alarm Phone e che aveva chiesto l’intervento del Commissario europeo per i diritti umani “per chiarire che i diritti delle persone salvate in mare devono essere garantiti a prescindere da quale sia la nave che li soccorre”. Nel mese di aprile fino a oggi sono arrivati in Italia 352 migranti. Così il coronavirus può distruggere la crescita dell’Africa di Alberto Magnani ilsole24ore.com, 13 aprile 2020 L’Oms ha invitato il Continente a “prepararsi per il peggio” con la diffusione del virus. La pandemia rischia di azzerare le speranze di crescita nel 2020, con colpi letali su petrolio, turismo e aviazione Servizio. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha detto che l’Africa deve “prepararsi al peggio” per l’esplosione del coronavirus. Adhanom, etiope, si riferiva all’emergenza sanitaria che sta covando nel Continente, dopo che il virus ha toccato oltre 40 paesi e raggiunto il migliaio di casi. Ma il bilancio sarà drastico anche, e soprattutto, per le ambizioni di crescita polverizzate dalla crisi globale in arrivo con la pandemia. La Commissione economica per l’Africa delle Nazioni unite ha parlato esplicitamente di “perdite miliardarie”, tagliando le stime di crescita del Pil dell’Africa sub-sahariana dal 3,2% al 2% circa nel 2020. Nulla esclude che il rallentamento possa essere anche più brusco, intralciando le aspettative sull’espansione - già altalenante - delle economie africane. A rischio almeno 30 miliardi di export - L’impatto si sta scaricando su un ventaglio eterogeno di settori, dalle attività estrattive al turismo, dall’aviazione ai servizi finanziari. I numeri non lasciano spiragli di ottimismo. Il tonfo dei prezzi del petrolio, spinti al ribasso a colpi del 20-30% prima dal calo della domanda cinese e poi dalla crisi dell’Opec, il cartello dei produttori, sta mettendo a rischio economie dipendenti dall’oro nero come Nigeria e Angola. Se il greggio dovesse mantenersi sui prezzi attuali, stima il think tank Overseas development institute, l’export continentale subirebbe una perdita di almeno 30 miliardi di dollari (anche se la Commissione economica per l’Africa dell’Onu alza l’asticella a 65 miliardi di dollari). Non va meglio su altri fronti. Le compagnie aeree africane hanno già bruciato 4,4 miliardi di dollari in entrate, secondo dati Iata, dopo la raffica di cancellazioni e blocchi aerei imposti per franare la diffusione del virus. Il turismo, filone quantificato dalla World Bank a un giro d’affari da 35 miliardi di dollari, rischia di “congelarsi” per mesi, colpendo al cuore una fonte d’entrate decisiva per per paesi come Sudafrica, Tanzania, Kenya e Seychelles. Il clima di panico sulle Borse ha fatto schizzare all’insù i rendimenti dei bond in dollari dei paesi africani, stimati ora da Bloomberg a una media dell’11,68%. L’effetto-domino della recessione globale - L’effetto-domino è innescato soprattutto da un fattore, l’interdipendenza sempre più fitta delle economie africane con il cuore dell’emergenza sanitaria: la Cina. Se uno dei principali partner del Continente viene colpito così a fondo, si legge in una nota della Commissione, “è inevitabile che venga colpito anche il commercio africano”. Il meccanismo si ripete, su scala diversa, anche nel caso dei rapporti commerciali dell’Africa con la Ue o gli Stati Uniti: maggiore sarà l’impatto della recessione, maggiore la caduta complessiva dell’economia continentale. “Un calo del 2,5% del Pil mondiale porterebbe a un declino dell’1,5% della crescita africana: 25 miliardi di dollari - spiega al Sole 24 Ore Dirk Willem te Velde, capo rircercatore dell’Overseas development institute - Ma c’è il rischio che la crisi combinata di Asia, Europa e Stati Uniti avrà un effetto anche maggiore di questo”. Le risposte politiche (ed economiche) alla pandemia - Adhanom ha aggiunto che la “sua Africa” deve “svegliarsi”, criticando l’assenza di strategie coordinate per arginare la diffusione del virus. Il timore, fondato, è che i sistemi sanitari locali siano inadatti a fronteggiare un’emergenza che sta portando allo stremo la più sviluppata sanità europea e rischia di travolgere quella africana. Eppure le risposte non sono state ovunque lente, o inefficaci, come quelle viste tra Ue e Stati Uniti. Il vantaggio del Continente, se così si può definire, è di aver già affrontato crisi sanitarie di vasta portata, dall’epidemia di Ebola nella Repubblica democratica del Congo a disagi persistenti come l’Hiv o la malaria. Il Sudafrica sta imponendo restrizioni simili a quelle che sigillano le città europee e diversi paesi iniziano a limitare gli accessi, tagliare collegamenti aerei e ordinare restrizioni ai viaggiatori in arrivo dall’estero. Le banche centrali di Ghana e Nigeria hanno, rispettivamente, tagliato i tassi di interesse e avviato politiche di sostegno all’economia. L’Africa Centres for Disease Control and Prevention, l’organismo di controllo legato all’Unione africana, ha annunciato che invierà 100 “esperti” e migliaia di test diagnostici in 43 paesi del Continente, per intensificare gli sforzi di contenimento e analisi del virus. A rischio l’accordo di libero scambio - La chiusura delle frontiere non può comunque che tradursi, per sua natura, in un ostacolo ai tentativi di integrazione economica del Continente. Nel luglio 2020 avrebbe dovuto debuttare il Trattato di libero commercio continentale africano, l’African continental free trade agreement, una maxi-unione doganale destinata a coprire 55 paesi. I vertici dell’Unione africana, l’organizzazione sovranazionale tra i paesi del Continente, sostengono che non ci sarà alcun ritardo sulla tabella di marcia. In pochi sono disposti a crederlo. “Molte economie africane correranno a proteggere i loro cittadini dal Covid-19 e adotteranno un approccio più isolazionista - dice Ronak Gopaldas, direttore della società di risk management Signal risk -Gli obiettivi dell’accordo di libero scambio sono ampiamente in contrato con le misure necessarie a contrastare il coronavirus. La data di inizio sembra estremamente ambiziosa”. La buona notizia è che dovrebbe trattarsi “solo” di un rinvio, in attesa che i tempi si stabilizzino. Il colpo sarà pesante, ma non è il primo e non sarà l’ultimo sul “miracolo africano” che cerca ancora di compiersi. “Anche se le turbolenze globali dovrebbero rallentare l’integrazione - spiega Gopaldas - È improbabile che la facciano saltare per intero”. Spagna. La Corte Suprema spagnola lascia in carcere i prigionieri politici catalani infoaut.org, 13 aprile 2020 Escluso il confinamento a casa per il Covid-19. Le commissioni per il trattamento nelle carceri dei detenuti in Spagna hanno escluso che i prigionieri politici catalani favorevoli all’indipendenza possano spendere il blocco del coronavirus in isolamento a casa, piuttosto che in prigione. La decisione arriva dopo che il ministero della giustizia del governo catalano ha chiesto una valutazione sull’opzione di rilasciare i prigionieri nelle loro case e ridurre così le popolazioni carcerarie durante il periodo di confinamento. E segue anche l’avvertimento della Corte Suprema di Madrid sulla questione, dicendo chiaramente alla magistratura di Barcellona che lasciare che i politici catalani condannati fossero in isolamento a casa, si aggiungerebbe a un crimine di abuso di potere da parte dei togati catalani. In effetti, l’alta corte spagnola si è spinta adesso fino a chiedere di essere informata su quali siano, specificatamente, quei funzionari della prigione e i magistrati che hanno preso le decisioni in merito per la scarcerazione. Le commissioni di trattamento hanno, tuttavia, approvato che a 15 detenuti nella stessa categoria dei leader indipendentisti incarcerati sia permesso di trascorrere l’isolamento del Covid-19 nelle proprie case durante l’emergenza. Questi 15 detenuti, come i nove prigionieri politici, stanno scontando un regime di sicurezza standard di secondo livello, pur avendo il permesso di lasciare il penitenziario nei giorni feriali per lavorare (ai sensi dell’articolo 100.2 delle norme penitenziarie). I 15 a cui è stato concesso questo diritto costituiscono il 15% di tutti i prigionieri in queste circostanze. È la prima volta che le carceri del governo catalano propongono una misura del genere, secondo un’interpretazione non restrittiva del regolamento carcerario. È senza precedenti, ma la giustificazione fornita è l’attuale crisi della salute pubblica. Dei quindici a cui è stato permesso di tornare a casa, quattro stanno scontando la pena nel carcere femminile di Wad Ras nella città di Barcellona e sono già a casa. Gli altri 11 sono detenuti nel carcere di Quatre Camins a La Roca, sempre vicino alla capitale catalana. In quanto iniziativa senza precedenti, la commissione per il trattamento di Quatre Camins deve trasmettere la decisione al tribunale penitenziario per l’approvazione definitiva senza eseguirla immediatamente, come avrebbero diritto. Il resto delle prigioni ha invece escluso tutti i casi che hanno valutato, compresi i consigli delle tre prigioni in cui i prigionieri politici scontano le loro condanne: Lledoners, Puig de les Basses ed El Catllar. Il tribunale penitenziario deve informare i pubblici ministeri affinché possano prendere una posizione in merito. Quindi deciderà se ratificare o respingere la proposta da parte delle commissioni penitenziarie. Sono anche possibili ricorsi dinanzi a un tribunale superiore. L’obiettivo fissato dal ministero della giustizia catalano in materia è ridurre al minimo la popolazione carceraria per ridurre il rischio di contagio nelle prigioni. Questa iniziativa del governo catalano è stata anche sollecitata dalle Nazioni Unite e dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Martedì, il ministero della giustizia ha chiesto alle autorità penitenziarie di studiare, caso per caso, la possibilità di confinamento domiciliare per i detenuti con regimi penitenziari di secondo livello che erano stati resi più flessibili ai sensi dell’articolo 100.2 relativo alle disposizioni sul lavoro, che si avvicina allo status di un regime di prigione aperta (terzo livello) diviso tra detenzione e lavoro. Le commissioni di trattamento sono composte da oltre 10 professionisti, tra cui giuristi, psicologi, assistenti sociali, educatori, medici e insegnanti. Per prendere le loro decisioni, queste squadre studiano e valutano i rapporti prodotti dai team carcerari che sono in contatto quotidiano con i detenuti. Prima dell’emergenza sanitaria, in Catalogna c’erano 325 detenuti che tornavano quotidianamente in casa, il 19% dei 1.700 privati ??della libertà e classificato in un regime aperto di terzo livello. Dal 13 marzo, questo è stato applicato a 848 prigionieri in più, quindi a un totale di 1.174 prigionieri che sono raggruppati nel regime sulla sicurezza di basso livello. In Catalogna stanno spendendo il blocco sanitario nelle loro case il 69% di tutti i prigionieri di questa categoria nelle carceri catalane. Russia. Rivolta in un carcere siberiano: un morto e 300 feriti Il Dubbio, 13 aprile 2020 I detenuti sono riusciti a uscire dalle loro celle, dopo essersi procurati ferite, e hanno dato inizio alla rivolta per protestare contro i maltrattamenti sistematici da parte delle guardie. Un detenuto è morto e altre 300 persone sono rimaste ferite in una violenta rivolta scoppiata nella prigione di Angarsk, vicino al Lago Baikal, in Russia. Solo l’intervento delle forze speciali russe ha consentito alle guardie di riprendere il controllo del carcere e di spegnere le fiamme questa mattina. L’esatta dinamica degli eventi non è stata ancora chiarita. Secondo una prima ricostruzione, fra i dieci e i venti detenuti sono riusciti a uscire dalle loro celle, dopo essersi procurati ferite, e hanno dato inizio alla rivolta per protestare contro i maltrattamenti sistematici da parte delle guardie. Diversi reparti della Colonia penale numero 15 sono stati dati alle fiamme. L’incendio era visibile nella notte di ieri anche da molto lontano. Un detenuto è morto e altre 300 persone sono rimaste ferite in una violenta rivolta scoppiata giovedì nella prigione di Angarsk, vicino al Lago Baikal, in Russia. Solo l’intervento delle forze speciali russe ha consentito alle guardie di riprendere il controllo del carcere e di spegnere le fiamme questa mattina. L’esatta dinamica degli eventi non è stata ancora chiarita. Secondo una prima ricostruzione, fra i dieci e i venti detenuti sono riusciti a uscire dalle loro celle, dopo essersi procurati ferite, e hanno dato inizio alla rivolta per protestare contro i maltrattamenti sistematici da parte delle guardie. Diversi reparti della Colonia penale numero 15 sono stati dati alle fiamme. L’incendio era visibile nella notte di ieri anche da molto lontano. Myanmar. Il dissenso finisce in carcere sotto gli occhi di Aung San Suu Kyi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 aprile 2020 In un nuovo rapporto sulla violazione dei diritti umani in Myanmar, Amnesty International ha ancora una volta sollecitato le autorità militari e civili - Aung San Suu Kyi in primo luogo - dello stato asiatico a rilasciare tutte le persone condannate al carcere solo per aver espresso le loro opinioni. L’elenco è lungo: poeti, studenti, attivisti politici, ambientalisti, giornalisti, sindacalisti e monaci buddisti. Secondo il gruppo della società civile Athan, solo nel 2019 331 persone sono state processate per reati di opinione. La storia più emblematica riguarda la “Generazione del pavone”, una compagnia di giovani artisti che gira il paese mettendo in scena spettacoli di “thangyat”, una forma d’arte popolare che unisce poesia, commedia, satira e musica. L’anno scorso, durante gli spettacoli, alcuni attori della compagna sono comparsi in scena vestiti da militari criticando le forze armate dello stato. Sono subito scattati gli arresti. Sei attori sono stati condannati, chi a due e chi a tre anni di carcere. Rischia di fare la stessa fine l’ambientalista Saw Tha Phoe (nella foto tratta da Facebook), che mentre scrivo si nasconde da qualche parte del paese per evitare l’arresto. Contro di lui è stato emesso un mandato di cattura per “istigazione”, dopo che aveva aiutato gli abitanti di una zona dello stato di Kayin a denunciare l’impatto sociale e ambientale di un cementificio entrato in produzione. Nella stessa situazione si trova Aung Marm Oo, direttore del Development Media Group. La sua “colpa” è di aver raccontato, attraverso la sua agenzia di stampa, i crimini di guerra commessi nello stato di Rakhine a partire dall’agosto 2017. Accusato di aver violato la Legge sulle associazioni illegali, è stato condannato a cinque anni in contumacia. Si nasconde da oltre 10 mesi. La repressione è proseguita anche quest’anno. A febbraio altri tre attori della “Generazione del pavone” sono stati condannati a sei mesi di carcere. A marzo, cinque studenti sono stati arrestati per aver protestato contro il blocco di Internet imposto dalle autorità negli stati di Rakhine e Chin. Il blocco rimane tuttora in vigore, negando tra l’altro alle persone di ricevere o procurarsi informazioni fondamentali per difendersi dalla pandemia da Covid-19.