Carceri, oggi la marcia “Amnistia per la Repubblica” su Radio Radicale Il Manifesto, 12 aprile 2020 Con due agenti penitenziari e due detenuti morti e decine di malati di Covid19 sia tra i lavoratori che tra i reclusi, la curva del contagio nelle carceri inizia a salire. Lo confermano anche i sindacati di polizia. “Sono molti gli istituti in Italia che sono oramai in enorme difficoltà per il propagarsi del virus tra i detenuti e i poliziotti - afferma Aldo Di Giacomo, segretario generale del Spp - Bologna, Verona, Voghera e Pisa sono solo alcuni delle carceri in cui i contagi si contano a decine da una parte e dall’altra; solo a Verona ci sono 50 contagiati tra poliziotti e detenuti”. E mentre il ministro Bonafede perde tempo, dai detenuti di Poggioreale arrivano 1.607 raccolti all’interno delle celle e donati all’ospedale per le malattie infettive napoletano Cotugno. Oggi su Radio Radicale dalle 11 alle 19 la VI Marcia Amnistia per la Repubblica alla quale hanno aderito decine di partiti (anche Rifondazione comunista), personalità, esperti, politici, amministratori. Perché la questione delle carceri ci riguarda. Tutti. Coronavirus, la bomba epidemica nelle carceri è un fatto concreto di Vanessa Seffer affaritaliani.it, 12 aprile 2020 Nessuno si assume la responsabilità di dire “non sono in grado” oppure “non ce la facciamo”, nessuno manifesterà mai i propri umani limiti. Pur di nascondere le proprie incapacità si rischia la vita delle persone. Questo quanto accaduto in alcune RSA del Paese, dal più grosso polo geriatrico d’Europa alla provincia di Palermo alla stessa Civitavecchia. Questo può accadere anche nelle carceri italiane dove gli elementi per diventare moltiplicatori di contagio ci sono tutti, a cominciare dal fatto che i 58.810 detenuti di oggi, che fino al 29 febbraio erano 61.230, vivono ammassati fra loro, anche se il tasso di affollamento non è omogeneo su tutto il territorio nazionale. I detenuti sono una parte vulnerabile del Paese, secondo il loro Garante nazionale ci sono 22.734 persone che hanno una pena residua inferiore a tre anni e si potrebbe provvedere di finirla a casa. E qualora una casa dove tornare non ci fosse, che siano i Comuni a provvedere a trovarla, al fine di contrastare la diffusione ulteriore del virus e per il bene della salute pubblica. Ma l’emergenza sanitaria non riesce a superare le contrapposizioni politiche e non ci sono mezzi adeguati per sopperire all’esigenza. Neanche in questo caso, oltre due mesi dopo l’inizio dell’epidemia, si è saputo provvedere ad una soluzione efficace perché questa bomba non esploda. Carenza di congegni elettronici e carenza di idee, forse più una mancanza di coraggio di aumentare il numero dei domiciliari. Chiediamo all’avvocato Fabio Frattini, membro della Giunta della Camera Penale Italiana, cosa ne pensa. Nei penitenziari il virus potrebbe avere un suo sviluppo e una sua ascesa. Abbiamo 21 contagiati fra i detenuti e una vittima e 116 positivi nella Polizia penitenziaria con due vittime. Cosa potrebbe accadere se il Covid19 diventasse un’emergenza incontrollata? È un’eventualità alla quale non vorrei neppure lontanamente pensare. Ci sarebbe infatti una vera e propria catastrofe non solo all’interno degli istituti penitenziari ma, inesorabilmente, anche all’esterno. Pensi agli sforzi che sono stati fatti nelle ultime settimane per cercare di realizzare nel minore tempo possibile il maggior numero di posti di terapia intensiva; pensi ad esempio a tutto ciò che si è fatto per realizzare un nuovo ospedale alla Fiera di Milano. Ebbene, se dovesse scoppiare l’epidemia all’interno di uno dei tre carceri presenti a Milano (Bollate, Opera e San Vittore) quei 200 posti appena realizzati potrebbero dover essere occupati in men che si possa pensare dalla popolazione carceraria andando quindi a incidere inesorabilmente sulla sorte della nostra popolazione. Ventidue carceri in rivolta a metà marzo a causa della sospensione dei colloqui con i familiari per evitare forme di contagio con il Covid-19. Risultato: 19 detenuti evasi e ancora non rintracciati, fra cui persone vicine alla mafia pugliese e un condannato per omicidio, 12 vittime, 9 persone prese in ostaggio, 5 agenti di polizia penitenziaria e 4 operatori sanitari. I disordini sono continuati per un po’ e si sta prevedendo lo sfollamento di diversi Istituti di pena. Lo Stato si sta arrendendo? Fatta una doverosa premessa con la quale non si può che biasimare ogni forma di violenza, mi lasci aggiungere che lo Stato non si è arreso quando sono scoppiati i disordini, che peraltro sono durati soltanto poche ore. Lo Stato mostra tutta la sua debolezza ogniqualvolta decide di non garantire quel minimo di rispetto delle regole cui, ormai, anche a livello internazionale viene spesso richiamato. Ammassare circa 62.000 detenuti in istituti penitenziari che ne possono accogliere al massimo 50.000 è indice di uno Stato debole, incivile, che non rispetta le regole. C’è una regìa occulta dietro queste rivolte? Non è strano che nello stesso giorno, intorno alla stessa ora, in 22 carceri si scateni una rivolta? Non penso ci sia stata alcuna regia occulta dietro queste rivolte ma piuttosto la paura e l’esasperazione che ha contestualmente riguardato tutta la popolazione carceraria. Impedire ai detenuti di incontrare i propri familiari; comunicare urbi et orbi che è scoppiata una pandemia e imporre a tutti i cittadini il famoso “distanziamento sociale” avrebbe fatto innervosire anche un pacifista gandhiano. Riemerge il problema del sovraffollamento. Si pensa ad arresti domiciliari per quei detenuti che hanno un residuo di pena o all’evacuamento come a San Vittore, che non è chiaro se significhi rilascio o spostamento dei detenuti quindi in altre carceri? Come le ho già detto il sovraffollamento carcerario è una vergogna nazionale per la quale l’Italia è già stata richiamata/condannata a livello internazionale. Altra peculiarità del nostro paese (in)civile sta nel fatto che larga parte dei detenuti (intorno a un terzo dell’intera popolazione carceraria) è in attesa di giudizio con buona pace di tutte le “regole” che indicherebbero il carcere come extrema ratio. L’uso indiscriminato della custodia cautelare in carcere è una delle maggiori cause del sovraffollamento carcerario. Mi piace sottolineare che, proprio negli ultimi giorni, il Procuratore Generale Salvi, ha sollecitato i magistrati requirenti a contenere al massimo le richieste di misure custodiali in carcere. Non si possono proporre delle alternative, per esempio utilizzare Skype per parlare con i propri congiunti, allungare il tempo delle telefonate ogni settimana? Con quale criterio si può pensare di far uscire prima del tempo o mandare agli arresti domiciliari un certo numero di detenuti? Le alternative cui lei fa riferimento sono state poste in essere subito e se le proteste all’interno degli istituti penitenziari sono rientrate è proprio grazie a queste soluzioni adottate. Per quanto riguarda gli arresti domiciliari dipende dalla sensibilità dei singoli magistrati giudicanti nelle cui mani si trova la vita dei detenuti in attesa di giudizio o di una sentenza definitiva. Perché in città come NY c’è un carcere di 18 mila posti, a Miami ce n’è uno da 7.500 e in Italia, dove abbiamo avuto terrorismo, mafie con nomi diversi in base alla regione di provenienza oltre a quelle che abbiamo importato da Paesi africani e dal mondo orientale, non si è pensato per tempo di provvedere ad Istituti di pena con oltre 1200 posti, quanti sono alcuni dei nostri, dove tra l’altro i detenuti potrebbero vivere in condizioni più civili, in spazi più adeguati e circostanze meno pericolose? Perché i nostri politici, sebbene a volte si dichiarino pronti a realizzare nuove carceri, sanno bene che i costi di realizzazione e di gestione di nuovi istituti penitenziari sono pressoché insostenibili. Il contagio in un carcere potrebbe portare ad una situazione a dir poco catastrofica. Come si può coniugare il diritto alla salute con tutti gli altri diritti fondamentali? L’unica strada percorribile sarebbe un grande, coraggioso, trasversale atto politico attraverso il quale ridurre drasticamente il numero dei detenuti, ma dubito fortemente che l’attuale classe politica, così fortemente intrisa di un bieco giustizialismo carcerocentrico, troverà mai la forza e il coraggio di intervenire per evitare che la bomba epidemiologica che è stata innescata possa essere disinnescata. Il lavoro rende liberi, ma tra i detenuti è un lusso per pochi di Roberta Lancellotti futura.news, 12 aprile 2020 Sugli scaffali ci sono borse fatte a mano a Padova, i biscotti vengono da Verbania e la birra da Roma. Tutto made in Italy, ma soprattutto made in carcere. Freedhome è un negozio di economia carceraria, come recita l’insegna all’ingresso. Dal 2016 ha aperto a pochi passi da piazza Palazzo di città, nel centro di Torino, in uno spazio di proprietà del Comune dato al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. A gestirlo è la cooperativa Extraliberi, che da anni lavora nella casa circondariale Lorusso e Cutugno. “Il nostro obiettivo è far conoscere al grande pubblico la cultura del lavoro in carcere” spiega il presidente Gianluca Boccia, “consentire alle persone di scoprire un mondo che spesso teniamo lontano”. Sulla porta per entrare nel negozio c’è un invito: “Vieni a scoprire il bello e il buono del carcere”. Sono prodotti di qualità, equo e solidali, a chilometro zero e spesso a basso impatto ambientale. Sono il frutto di circa quaranta realtà sparse sul territorio italiano. Frutto del lavoro di uomini e donne che stanno scontando la propria pena e hanno la rara opportunità di impiegare quel tempo, che altrimenti sarebbe vuoto, per crearsi competenze nuove. Ma soprattutto per costruire una propria rete di salvataggio per quando la pena finirà. Come sta facendo Kamal (nome di fantasia), detenuto nel penitenziario torinese che lavora con la cooperativa Extraliberi. Ha 30 anni e tutta la famiglia vive in Marocco, qui non ha nessuno. “Ha imparato un mestiere” racconta Boccia. “Ha rinnovato la patente e si è trovato una macchina che ogni giorno lascia fuori dal carcere. I soldi che guadagna li spende per andare dal dentista e riesce a mandarne in Marocco”. Certo, non sono sempre storie di successo, spesso si fanno i conti con il fallimento, che in questi casi ha un nome specifico: recidiva. Per la legge 354 del 1975 il lavoro è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Ed è la verità, perché riduce drasticamente la probabilità di tornare a commettere un altro reato una volta fuori. D’altra parte solo una piccola minoranza della popolazione detenuta riesce ad accedere a reali percorsi lavorativi. Nel 2019 infatti di circa 60 mila detenuti presenti nelle strutture italiane, 18070 sono stati i lavoranti. Sì, lavoranti. È così che vengono chiamati i detenuti che svolgono un mestiere e percepiscono una retribuzione, perché il carcere spesso cambia anche i nomi alle cose, così un ‘lavoratorè diventa un ‘lavorantè. Di questi ultimi però solo 2381 hanno imparato un vero mestiere nello scorso anno. Molti di più sono coloro che hanno lavorato ai servizi dell’Amministrazione penitenziaria. Mansioni semplici per un tempo molto breve e un compenso molto basso, tendenzialmente dentro l’istituto stesso. In gergo vengono chiamati “scopini”, “spesini”, “scrivani”. Nomignoli per indicare chi pulisce la struttura, va a fare la spesa o scrive le lettere per conto degli altri detenuti. “Posti di lavoro più qualificanti hanno un impatto molto positivo per le persone, ma sono molto pochi”, spiega Boccia. “Quando si è dentro, il lavoro consente di spendere in maniera virtuosa il periodo di detenzione, perché si smette di non far nulla, e si imparano un mestiere, delle regole e i tempi di lavoro. Consente poi di avere un reddito e una dignità”. È questo la vera sfida delle realtà che creano lavoro in carcere. “Dolci evasioni”, “Banda biscotti”, “Fuga di sapori”. Le etichette sugli scaffali di Freedhome fanno sorridere, ma parlano chiaro. Come parla chiaro la birra prodotta nell’istituto romano di Rebibbia: si chiama “Ne vale la pena”. Ed è veramente buona. Caro Ministro ti scrivo, così mi distraggo un po’ di Stela Xhunga Il Manifesto, 12 aprile 2020 I detenuti del carcere di Bari scrivono al ministero della Giustizia. “Bonafede si deve dimettere”. Si scrivono un sacco di lettere in periodi di isolamento e reclusione, solo che non tutte hanno la stessa priorità. C’è la lettera della Cedu, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, cui il Governo italiano, per la prima volta, è tenuto a rispondere sulla gestione dell’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane, a partire da un caso di domiciliari negati a Vicenza, e dovrà farlo entro le 10 del 14 aprile. C’è la lettera del Sappe, l’Organo Ufficiale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, indirizzata al Presidente Conte, in cui si chiede il commissariamento del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e addirittura ci si appella al Papa, il cui interesse per i detenuti è stato espresso durante la Via Crucis. Il crocifisso portato da un ergastolano, le meditazioni scritte da cinque detenuti (tra cui ergastolani e condannati per omicidio), dalla famiglia di una ragazza uccisa, dalla figlia di un detenuto, dall’educatrice di un carcere, da un magistrato di sorveglianza, dalla madre di un detenuto, e da un agente di polizia penitenziaria: un Cristianesimo delle origini, quello delle Maddalene e dei Barabba, di una potenza civile folgorante, anche per i non credenti. E poi ci sono le lettere dei carcerati. Scritte magari in stampatello, su fogli di quaderno. Il tono solenne, per nulla compromesso da eventuali errori grammaticali, anzi, lì, tutto lo sforzo di chi tenta di farsi ascoltare, a dispetto delle distanze, nonostante tutto. Tanto lette e rilette dai parenti, queste lettere, quanto ignorate dalle istituzioni. Tutt’al più se ne cita qualche passo, opportunamente corretto, come a scuola, su qualche giornale. Il resto finisce sulle scrivanie della burocrazia. Riportiamo per intero una lettera manoscritta dei detenuti della Casa Circondariale di Bari, dove le proteste sono rientrate senza ricorrere alla forza e senza nessun ferito. Merito di Valeria Pirè, la direttrice, Francesca De Musso, comandante della polizia penitenziaria, e Pietro Rossi, Garante della regione Puglia, che, all’indomani della crisi sanitaria, ha preso a recarsi con più frequenza dai detenuti, parlandoci di persona. La lettera è datata 12 marzo e a oggi è senza risposta. La riportiamo per intero, com’è stata scritta. Lo sforzo, stavolta, lo compia chi legge. Alla cortese attenzione dell’ill.mo Presidente della Repubblica, del ministero della Giustizia e dell’ill.mo Garante dei detenuti Nazionali e Regionali Oggetto: Protesta Pacifica scritta inerente al disagio carcerario vigente nella casa circondariale di Bari e in tutti gli istituti carcerari del territorio italiano. Noi sottoscritta popolazione detenuta ristretta presso la casa circondariale di Bari, esponiamo quanto segue: Nonostante i vari disagi che da anni viviamo, ci discostiamo totalmente dalla partecipazione e dalla promozione di qualsiasi forma di protesta violenta; Siamo consapevoli che attualmente la prerogativa principale della popolazione Italiana e Mondiale è quella di limitare e debellare la diffusione del “Virus Covid-19” pertanto con le richieste che successivamente formuleremo non intendiamo sottrarre forze alla lotta contro il virus, ma semplicemente una volta superata questa situazione di crisi concentrare l’attenzione e la successiva risoluzione di problematiche esistenti da decenni che gravano sul sistema carcerario. La fragilità e l’inefficacia del sistema carcerario italiano è noto da diverso tempo, e in momenti critici come l’emergenza Corona Virus che stiamo attraversando, si manifesta e si evidenzia ancor di più l’incapacità organizzativa e gestionale all’interno degli istituti. Difatti le rivolte e le proteste scoppiate nelle carceri italiani in questi giorni, scaturite dalla paura e dall’onda mediatica dei mass-media se non che dalla scarsa informazione ricevuta dai detenuti prima dell’applicazione delle restrizioni, non sono altro che l’epilogo finale di un disagio enorme vissuto da noi detenuti ormai da molti anni. Disagio umanamente inaccettabile causato da un’esponenziale sovraffollamento della ripetuta inadempienza del sistema sanitario penitenziario e quindi dalla moltitudine di casi di malasanità, e dalla inagibilità di molti istituti, il tutto decretando veri e propri casi di tortura in contrasto all’art. 3 Cedu e ovviamente l’inefficacia del percorso rieducativo finalizzato al nostro rientro in società. Non riconosciamo adatta e competente la figura del Ministro Buonafede come ministro della giustizia, in quanto oltre a non fornire le corrette informazioni prima dell’applicazione delle restrizioni (soprattutto riguardo la soppressione dei colloqui visivi con i famigliari) in momenti così critici come questi giorni anziché invitare al ragionare coloro i quali hanno intrapreso la strada errata e controproducente della rivolta, ha letteralmente sfidato e provocato con discorsi populisti anche coloro che nonostante la paura e l’incertezza di questi giorni, ha sempre assunto un comportamento ragionevole e pacifista. Il sig. Buonafede ha quindi intrapreso la campagna politica a suo favore che ha però commentato nuove rivolte e proteste in altri carceri del territorio italiano, dimenticando il suo vero ruolo in casi d’emergenza come questo, e cioè il corretto funzionamento del ministero di giustizia che prevede le corrette misure di risposta e attenzione alle rivolte e di prevenzione e non divulgazioni di atti violenti negli istituti ove i detenuti hanno pacificamente protestato o accettato le limitazioni imposte. I discorsi del ministro Buonafede quindi oltre a diffondere nuove rivolte e proteste ad una velocità di contagio superiore a quella del “corona virus” hanno completamente omesso i veri problemi del sistema carcerario italiano che sono legati appunto al sovraffollamento, alla malasanità nelle carceri e al congestionamento dei tribunali. Problematiche di cui il ministro è a conoscenza dall’inizio del suo mandato, ma a cui non ha mai prestato la giusta attenzione ed interessi, a differenza del precedente Ministro Orlando. Tutto ciò premesso chiediamo, successivamente alla fuoriuscita del periodo d’emergenza dovuto al “corona virus” di focalizzare l’attenzione e conseguente risoluzione delle problematiche: Sovraffollamento, Sanità penitenziaria, Agibilità istituti carcerari. Chiediamo invece subito l’applicazione di leggi già esistenti per l’accesso ai benefici a coloro che rientrano nei termini e nei requisiti, escludendo la discrezione dei giudici non creando così discrepanze nei vari tribunali di sorveglianza del territorio italiano e le dimissioni immediate del sig. Ministro Buonafede. Fiduciosi di ricevere la giusta attenzione alla nostra protesta pacifica e uniti a tutta la popolazione italiana e mondiale alla lotta contro il “Corona Virus” cogliamo l’occasione per porgere i nostri più distinti ossequi. In fede e con osservanza. I Detenuti della C.C. di Bari Dal buio alla luce (o quasi): la Pasqua nelle carceri di Chiara Babetto societadellaragione.it, 12 aprile 2020 Viene spesso sottolineato come le festività rappresentino momenti in cui la segregazione e la separazione dai propri cari si fanno più vivide e insopportabili, per coloro che sono costretti a viverle in condizione di detenzione. Se mai come in questi giorni la popolazione “libera” può tristemente comprendere cosa possa significare la lontananza dai propri familiari e amici, l’impossibilità di raggiungerli e abbracciarli, la paura per la propria salute e per le persone vicine, in carcere gli strumenti per arginare la consapevolezza della propria vulnerabilità rispetto al morbo, sono di gran lunga minori. Gli istituti penitenziari del nostro Paese, infatti, non permettono condizioni sanitarie sicure rispetto ai rischi della pandemia, il sovraffollamento non rende possibile separare adeguatamente coloro che presentano sintomi, ma nemmeno le persone che giungono dall’esterno. Questo, nonostante la popolazione penitenziaria sia scesa di ben 5000 unità rispetto alla fine di febbraio. E tuttavia, con poco meno di 56.000 persone attualmente detenute, siamo ancora al di sopra della capienza regolamentare di ben 6000 unità: 6000 persone in più che i nostri istituti non potrebbero contenere. Tale condizione di pericolo è condivisa con gli operatori (personale sanitario, membri della polizia penitenziaria, personale educativo, direttori, …) che continuano a svolgere il proprio lavoro nelle strutture detentive, accumunati dagli stessi rischi e dalle medesime paure di coloro che vi sono reclusi. In un momento in cui le attività trattamentali sono per la maggior parte sospese, non potendo consentire gli ingressi ai volontari e agli operatori esterni che normalmente le portano avanti, la vita delle persone recluse rischia di essere ancora più difficile e di sfociare in disperazione o rabbia. Per questo è sicuramente importante guardare a quegli istituti che in questo momento drammatico stanno cercando di trovare soluzioni nuove per valicare quelle mura apparentemente ancora più alte, riscoprendosi comunità solidale, responsabile della salute interna ed esterna. Anche dalla Toscana ci giungono esempi di grande capacità di adattamento, di valorizzazione delle risorse, di coesione, che possono essere da stimolo per altre realtà; nella speranza che quanto messo in campo di fronte all’emergenza possa continuare anche con l’attenuarsi della stessa, apportando innovazione e buone pratiche integrabili con le attività quotidiane delle strutture. Buone pratiche, per valicare le mura - Nella Casa di Reclusione di Volterra, ad esempio, il contatto con le organizzazioni che ne animavano la quotidianità prima delle misure di contenimento del Coronavirus, viene coltivato e rinnovato attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Il coordinamento e il confronto quotidiano non sono stati, infatti, interrotti e la Direzione ci riporta come le diverse realtà proseguano nel sostenere la vita interna dell’istituto, anche senza poterci entrare fisicamente. Se la prosecuzione delle attività scolastiche, soprattutto per coloro che si trovano in procinto di sostenere esami importanti come la maturità, viene garantita attraverso Skype, l’istituto ne sta estendendo l’utilizzo anche ad un’attività significativa come quella della Compagnia della Fortezza, che da più di trent’anni realizza produzioni teatrali famose in Italia e all’estero. Sempre utilizzando Skype, nella Casa Circondariale di Livorno e nella sezione distaccata di Gorgona, è stato possibile organizzare la rassegna “Per un’ora d’autore”, promossa da Dire Fare Cambiare in collaborazione con Earth Day Italia, che prevede un incontro a settimana tra artisti e detenuti dove vengono sollecitati dialogo e riflessioni congiunte sul valore della scrittura, della lettura e della recitazione. Tale iniziativa trova ispirazione nel Manifesto per la Cultura Bene Comune e Sostenibile promosso dall’Associazione Chiave di Svolta e consolida la volontà degli istituti di continuare ad essere parte attiva di un movimento più ampio di promozione e diffusione della cultura che si spinge ben oltre le limitazioni spaziali. Appare, infatti, fondamentale contrastare l’ulteriore isolamento in cui gli istituti penali, con le persone che vi vivono e lavorano, rischiano di subire in questo momento, in cui anche chi lavorava all’esterno in articolo 21 è costretto a rimanere in istituto e le attività e le persone che le animavano rischiano di rimanerne fuori. Per questo le numerose iniziative portate avanti dalle direzioni e dalle persone detenute per offrire il proprio contributo alla collettività sono da valorizzare proprio perché rinnovano l’appartenenza alla medesima comunità e garantiscono lo scambio tra dentro fuori. Tra questi ricordiamo le raccolte fondi organizzate dai detenuti di Volterra a favore della Protezione Civile, e dalle persone recluse nella casa circondariale di Livorno per l’Ospedale della città, nonché la raccolta di generi alimentari prodotti sull’Isola di Gorgona dalle persone lì detenute e donati a Caritas e comunità di Sant’Egidio, affinché vengano utilizzati nelle mense e consegnati alle persone in difficoltà del territorio. Sempre ribadendo il ruolo che le persone detenute possono e desiderano svolgere a supporto della comunità, nasce la collaborazione tra Aziende Sanitarie e Istituti penitenziari che ha portato alla produzione di mascherine chirurgiche nella sartoria industriale del carcere di Massa (che ne ha donate 5000 all’Ospedale di Livorno) e che sta allestendo lo stesso tipo di produzione anche all’interno della casa di reclusione di Volterra. Rimanendo l’emergenza grave e la necessità di interventi deflattivi urgenti per garantire la sicurezza sanitaria negli istituti penali, è però fondamentale continuare ad individuare strategie che possano aiutare nel valicare le mura degli istituti, rinnovando la collaborazione con l’esterno attraverso l’utilizzo delle tecnologie e alimentando lo scambio tra il dentro e il fuori. Tali innovazioni potranno, infatti, accompagnare gli istituti anche nella fase successiva, quella della progressiva riapertura del Paese, che non potrà lasciarli indietro nel loro isolamento, ma dovrà progressivamente riattivare quell’offerta formativa e trattamentale che dovrebbe essere alla base dei percorsi delle persone recluse. Se il momento è buio e difficile, ciò rappresenta anche uno stimolo per convogliare le energie e superare le criticità, guardando ad un futuro in cui ogni conquista potrà essere a beneficio anche dei giorni in cui questa emergenza sarà passata. Questo potrebbe essere lo spirito con cui affrontare la Pasqua. Liberi di potervi aiutare di Davide Dionisi l’Osservatore Romano, 12 aprile 2020 Le testimonianze dei detenuti di Roma e Viterbo ai microfoni di Radio Vaticana Italia. Gianni, Massimo, Orlando, Massimiliano, Daniele, Mouhcine, Paolo, Goffredo, Alessandro, Danilo, Silvio e Francesco. Dietro a ciascun nome un percorso diverso, drammatico per certi versi, che li ha condotti in carcere a pagare il loro debito con la società. Alcuni a Roma, nella Casa di reclusione di Rebibbia, altri a Viterbo, nella Casa circondariale Mammagialla. La pandemia li ha colti di sorpresa ma, paradossalmente, preparati perché da ristretti loro ci vivono da anni. E proprio perché la situazione la conoscono molto bene, hanno deciso di lanciare un messaggio a quello che sono soliti chiamare “mondo libero”. Un messaggio di solidarietà, di speranza e, non ultimo, di disponibilità ad aiutare chi sta soffrendo. Per farlo hanno scelto “I Cellanti”, il programma settimanale di Radio Vaticana Italia che si occupa di pastorale carceraria. “Così siamo sicuri che ci ascolterà Papa Francesco. Ci vuole bene e parla sempre bene di noi. Anche noi gli vogliamo bene e preghiamo sempre per lui”, hanno detto. Attualmente la reggente dei due istituti di pena è Nadia Cersosimo che già ebbe modo di incontrare il Santo Padre in occasione della Messa “in cena Domini” il 13 aprile 2017 a Paliano, in provincia di Frosinone. Nell’occasione il Papa lavò i piedi agli ospiti (tutti collaboratori di giustizia) nella struttura da lei diretta. È stata la stessa Cersosimo a chiedere che la voce dei ragazzi arrivasse il più lontano possibile: “Vorremmo che queste parole giungano al cuore di tutti perché anche noi oggi, a causa del virus, viviamo per certi versi la loro stessa situazione. Ma il loro non è un messaggio di detenuti, ma quello di uomini che vogliono condividere la sofferenza dei loro familiari, di chi è stato colpito dal covid-19, dei poveri, dei senzatetto, degli anziani e dei bambini”. Secondo la direttrice “questi ragazzi avrebbero potuto assumere altri atteggiamenti: lamentarsi, denunciare, protestare. Invece hanno scelto la via della partecipazione e del coinvolgimento”. Cersosimo infatti ha rivelato che, sia a Roma che a Viterbo, si sono messe in moto le sartorie interne per il confezionamento delle mascherine. Altri hanno organizzato collette il cui ricavato è finito agli ospedali locali. “Nonostante i ragazzi siano giustamente destinatari di un dispositivo dell’autorità giudiziaria e sono limitati nella loro libertà, hanno voluto comunque essere parte attiva nella filiera di aiuti”. Danilo, il primo del gruppo, si trova a Rebibbia e ha esordito ringraziando Papa Francesco “per le sue continue carezze” e l’amministrazione che continua ad infondere “tranquillità e serenità grazie ai costanti aggiornamenti”. Danilo è grato anche agli agenti di Polizia penitenziaria perché “hanno i nostri stessi problemi e rischiano tutti i giorni. Per noi - ha confidato - sarà una Pasqua molto triste”. Anche Silvio si è detto soddisfatto del potenziamento del sistema comunicativo: “Continuiamo a parlare con i cari attraverso WhatsApp e possiamo farlo anche nell’area verde”. Per Francesco il coronavirus “non è un problema del carcere, ma della società intera. Immaginate se ci infettassimo tutti - ha detto - faremmo saltare il sistema sanitario nazionale”. E la segnalazione di Francesco appare sensata se pensiamo che nelle nostre patrie galere ci sono oltre sessantamila ospiti. Gianni è a Viterbo e ha tenuto a sottolineare che da persona “normale” quale è “prova paura, disagio, angoscia. Per sé e per la propria famiglia”. Massimo, invece, ha spiegato che il grande risultato ottenuto è stato quello di “mantenere la calma, nonostante tutti i detenuti siano molto preoccupati. Anche perché l’infermeria del carcere è piccola e non potrebbe far fronte ad una emergenza di questa levatura”. Orlando ha auspicato che “tutto vada bene”, mentre Massimiliano ha lanciato un vero e proprio appello: “Fate in modo che il nostro contributo sia costante, possiamo e vogliamo fare di più per aiutarvi”. Daniele ha manifestato la sua profonda preoccupazione per le famiglie dei detenuti: “Hanno bisogno della nostra presenza. Nessuno può amare e tutelarle come possiamo fare noi”. Tra la rappresentanza di stranieri, Mouhcine ha espresso la sua gratitudine perché prima era consentita una chiamata a settimana, mentre oggi una al giorno ma ha precisato: “Stiamo perdendo una generazione e ora abbiamo cominciato a sentire che muoiono anche tanti giovani”. Le mura alte e grigie, per Paolo, dividono ancora più di prima a causa di questo nemico invisibile. E poi c’è Goffredo che si è distinto perché, nel raccontare la sua detenzione al tempo della pandemia, ha espresso la sua emozione in modo diverso: “Dopo anni di reclusione, grazie alle videochiamate, ho rivisto casa mia, le pareti delle mie stanze e, soprattutto, i volti dei cari che non ho più incrociato. È stata per me una immensa gioia, indescrivibile. La stessa gioia hanno provato anche i miei compagni nel rivisitare i luoghi dove sono cresciuti e hanno vissuto, anche se da remoto. Me ne sono accorto fin da subito perché i loro occhi sono cambiati”. Alessandro, infine, ha chiesto di poter riabbracciare presto i propri cari e per questo si è rivolto direttamente alle istituzioni. Anche se con diverse sfumature, tutti sono stati concordi nel ribadire che il carcere non è, e non deve essere, un luogo che custodisce, ma che educa, un valore e non una misura estrema, un luogo dove il pensiero deve essere tenuto sempre vivo, presente, e dove le persone devono poter esprimere la propria individualità, le proprie preoccupazioni e le proprie speranze. “Sa cosa mi hanno detto? - ha ripreso Nadia Cersosimo - Che non avevano mai maturato un’esperienza del genere, perché nessuno li ha mai ascoltati. E questo è fondamentale proprio perché ha consentito a ciascuno di sentirsi individuo. Il carcere, purtroppo, tende a massificare questo senso di appiattimento dell’individualità: invece, proprio attraverso l’espressione del pensiero c’è un’opportunità per cui il soggetto viene considerato come tale e quindi come persona” ha aggiunto. La vicenda del coronavirus, pur nella sua drammaticità, ci conferma che il carcere può essere un luogo educativo (o meglio rieducativo) dove poter esprimere continuamente una personalità attiva sia verso l’universale (lo Stato) che verso il particolare (le persone e i gruppi sociali). Un territorio di frontiera che oggi più che nel passato esige un surplus di progettualità per poter operare in favore della comunità. Non solo quella carceraria. Umanizzare gli istituti, pertanto, deve essere l’obiettivo principale e per renderlo effettivo è necessario un impegno a tutto campo che sviluppi quell’inventiva pedagogica che è nella struttura e nei programmi di chi ogni giorno si prodiga affinché il detenuto non venga mai identificato con la pena che ha commesso. “L’udienza virtuale riduce i diritti”: Md alza un argine di Errico Novi Il Dubbio, 12 aprile 2020 Le perplessità delle toghe dem analoghe a quelle dell’Unione Camere penali, anche sulle comunicazioni fra difensori e reclusi. Si fa quasi fatica a credere che il documento diffuso ieri da Magistratura democratica provenga da una componente associativa delle toghe anziché dall’avvocatura. Soprattutto quando ci si imbatte in un passaggio, solo in apparenza marginale, della nota intitolata “I rischi dell’udienza telematica”, relativo a un aspetto sollevato finora solo dalle Camere penali: l’impossibilità di una serena comunicazione fra il difensore e l’assistito in stato di detenzione qualora si trovino collegati da due postazioni virtuali diverse: “Nel nostro ordinamento, le ipotesi di processo a distanza sono disciplinate come eccezioni, in ragione sia del diverso valore assunto dalle dichiarazioni rese da testi e imputati in un esame a distanza, sia del valore del contatto continuo con il difensore. La presenza fisica, dunque, è garanzia”, ricorda l’esecutivo di Md, “non solo del diritto di difesa, ma anche del risultato epistemologico”. Un simile argomento è solo uno dei numerosi citati nell’invito a “rifuggire dalla tentazione di credere che tutte le facilitazioni permesse dalla crisi possano costituire un buon lascito per il futuro. Questo pensiero, infatti, potrebbe divenire il pretesto perché, terminata la fase critica, si introducano o stabilizzino deroghe a quelle norme che la nostra legislazione ha introdotto per tutelare e garantire al massimo i diritti e le libertà”, è l’allarme sollevato da Magistratura democratica. Ora, il valore politico della nota è notevole, per molti motivi. Primo fra tutti, evidentemente, perché si tratta di un manifesto a cui potrebbe tranquillamente aderire l’Unione Camere penali. In secondo luogo perché la componente guidata dal presidente Riccardo De Vito e dalla segretaria Mariarosaria Guglielmi fa parte di un gruppo più ampio, Area, che oggi è maggioritario nell’associazionismo giudiziario, e il cui segretario Eugenio Albamonte è intervenuto nei giorni scorsi proprio dalle colonne di questo giornale per introdurre quanto meno un invito alla non preclusione su quegli strumenti tecnologici che, a emergenza superata, potrebbero a suo giudizio essere comunque funzionali. Le pur caute aperture di Albamonte sono state “contro-dedotte” sul Dubbio di ieri da Eriberto Rosso. Adesso è Md ad avanzare forti remore per l’uso improprio che altri potrebbero fare della giustizia virtuale. Si tratta di una dialettica preziosissima per l’avvocatura, non tanto perché nelle divisioni sia agevole infilarsi, ma perché un confronto fra magistrati su temi che interferiscono col diritto di difesa conferma come la giurisdizione non sia una trincea, e che proprio per questo può essere un terreno fruttuoso di idee per la politica. L’esecutivo di Md ricorda la sospensione dei termini nel penale e nel civile, con contestuale rinvio di tutte le udienze tranne quelle “connesse allo stato di restrizione della libertà personale, nel processo penale, e alla vulnerabilità del destinatario della tutela, nel processo civile”. Ed è per tali “attività non sospese” che si fa ricorso a collegamenti da remoto. Pur consapevole di come tale sistema consenta di “non mandare in quarantena” la giustizia, e che “la formazione e comunicazione, anche nel penale, di atti e documenti - a condizioni di reciprocità con l’avvocatura - è certamente un dato positivo” da valorizzare, Magistratura democratica sostiene che, cessata l’emergenza coronavirus, “occorrerà tornare alla “normalità”“. Non solo nel penale ma anche nel civile, dove “l’udienza da remoto e la trattazione scritta rischiano di vanificare i positivi risultati della trattazione effettiva dei processi in udienza, a partire da un tasso di definizione conciliativa molto elevato”. Ma è chiaro che le lesioni più gravi potrebbero configurarsi nel penale, scrivono le toghe di Md, in particolare “nelle udienze di convalida dell’arresto e del fermo”. In quelle circostanze, “in cui si deve valutare la legittimità dell’operato della Pg”, è necessario che “l’arrestato sia a contatto fisico con il giudice chiamato a decidere, in una posizione anche soggettiva di non condizionamento, che gli consenta un esercizio pieno del diritto di difesa; una posizione, questa, oggettivamente non garantita”, ricorda la nota di Md, “dalla condizione di stretto contatto con chi ha effettuato l’arresto o il fermo”. Splendido esempio di illustrazione del diritto penale vivente. Che riecheggia pure nel passaggio in cui si esprime “perplessità” per “tutte le ipotesi che decontestualizzano la decisione, ipotizzando camere di consiglio delocalizzate, con gravi dubbi su riservatezza, ponderazione e valore delle decisioni assunte in tali modi”. È presto, visto il lento evolversi del quadro epidemiologico, immaginare cosa accadrà. Ma è certo che l’avvocatura troverà nella magistratura interlocutori preziosi per preservare ancora la tutela dei diritti. L’errore di non decidere che apre spazi alle mafie di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso Corriere della Sera, 12 aprile 2020 La malavita organizzata approfitterebbe di ritardi nei tempi di intervento contro disagi sociali e difficoltà economiche. Caro direttore, non si riesce ancora a comprendere che problemi globali richiedono risposte altrettanto globali. Fare polemica in questo momento è inutile. Anzi è dannoso. Bisognerebbe trascendere la differenza reciproca o le diversità culturali e politiche per concentrarsi sulle cose da fare. Invece, si continua a ironizzare sulle “eccellenze” napoletane o a discutere sugli eurobond che potrebbero finire nelle mani delle mafie, come teme il quotidiano Die Welt. Le mafie sono un fenomeno con cui bisogna fare i conti. Ma non possono diventare un alibi, quando si tratta di intervenire per fronteggiare una crisi che sembra rievocare quella della Grande Depressione, come osserva il Fondo Monetario Internazionale. Oltre 170 Paesi registreranno quasi sicuramente una riduzione del reddito pro-capite e i settori più colpiti dalla sospensione dell’attività economica e sociale imposta dagli sforzi per contenere il contagio saranno principalmente il commercio al dettaglio, il settore turistico-alberghiero, i trasporti, ma soprattutto la piccola e media impresa. Le mafie si ritaglieranno spazi solo se si continuerà a discutere, ritardando i tempi di intervento nell’affrontare disagi sociali e difficoltà economiche. In questo momento, servirebbe una riflessione sulla necessità di trattenere nel presente qualcosa di significativo del passato. E il passato ci insegna molte cose, che forse è il caso di ricordare a chi ha la memoria corta o a chi non ha letto i libri di storia. Dopo il terremoto del 1908, le leggi sulla ricostruzione di Reggio Calabria e Messina hanno finito per incattivire gli scontri “intorno alla distribuzione e all’uso del denaro pubblico” vivacizzati da una nuova presenza: quella degli ‘ndranghetisti che avevano fatto i soldi negli Stati Uniti e che, approfittando dei ritardi e delle incertezze dei provvedimenti governativi, si erano messi a prestare soldi a usura. Il desiderio di scalare la piramide sociale, in quell’occasione, ha infoltito i ranghi di una organizzazione che, come nel caso della mafia in Sicilia e della camorra in Campania, non si è sviluppata nel vuoto delle istituzioni, ma al loro interno, grazie a collusioni, corruzione e sperpero di denaro pubblico. Le stesse dinamiche che hanno consentito l’espansione delle mafie al Nord e che hanno riprodotto le stesse dinamiche affaristiche e speculative in occasione di altre calamità, come i terremoti in Campania, Abruzzo, Umbria ed Emilia Romagna. Non è possibile comprendere la forza delle mafie, al di fuori della loro capacità relazionale che da sempre costituisce l’ossatura del potere mafioso. Dalla fine degli anni Sessanta in poi le mafie hanno sempre dialogato e cercato accordi con tutti quei soggetti dai quali hanno potuto ricavare utilità, senza mai assumere posizioni subalterne. C’è molta ipocrisia nell’atteggiamento di Paesi come la Germania o l’Olanda che temono il saccheggio delle risorse comunitarie da parte delle mafie ma non hanno mai fatto abbastanza per frenarne gli investimenti nei loro territori. Dalla caduta del muro di Berlino in poi, le mafie in molti Paesi d’Europa non sono state viste come minaccia, ma come opportunità. Oggi, più che mai, i soldi del narcotraffico sono diventati ossigeno dell’economia legale. Come è successo al tempo della crisi del subprime in cui molte banche sono riuscite a far fronte ai problemi di liquidità finanziaria grazie ai soldi del narcotraffico, come ha denunciato coraggiosamente l’allora direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite per la lotta contro droga e crimine, Antonio Costa. Le mafie sono rapaci, opportunistiche. Seguono la logica del “path of least resistance”, vanno dove trovano meno resistenza, dove è più facile delinquere, dove le leggi sono meno affliggenti. Cercheranno sicuramente di mettere le mani sulle risorse comunitarie, come faranno d’altronde i faccendieri e i criminali di mezza Europa. Ci sarà anche chi cercherà di “condizionare” gli elenchi dei cittadini bisognosi che i sindaci sono chiamati a compilare; cercheranno di sfruttare i ritardi della burocrazia che regola il settore bancario, ma anche quello della pubblica amministrazione. Ecco quello che un Paese serio deve cercare di impedire, monitorando i passaggi di proprietà delle aziende, ma anche le acquisizioni sospette di quote azionarie, in un periodo in cui molti fanno fatica a quadrare i conti. La vicenda Blue Call in Lombardia resta paradigmatica. In quell’occasione a un clan della ‘ndrangheta è stato offerto il 30% delle azioni per recuperare dei crediti vantati da quella società che operava nel settore dei call center. È fondamentale, in questo momento, e vale la pena di ripeterlo, prevenire e limitare gli spazi di agibilità delle mafie, cercando di intuire quelle aree, ma anche quei settori che sono o che potrebbero essere più esposti alle infiltrazioni mafiose. Bisogna fare attenzione, come suggeriscono il capo della Polizia, Franco Gabrielli, e il dirigente della Direzione centrale anticrimine, Messina, ai reati spia, come per esempio l’usura, che spesso consentono ai boss di mettere le mani su immobili e imprese. Come si legge in una nota inviata ai questori, “occorre [...] focalizzare adeguatamente l’attenzione degli organismi investigativi in ordine a ogni possibile evoluzione delle strategie criminali, anche internazionali, che andranno a svilupparsi nei prossimi mesi, atteso che l’economia potrebbe subire un notevole impatto strutturale derivante dall’attuale emergenza sanitaria”. Secondo i vertici della Direzione centrale anticrimine, “tale scenario potrà evidenziare ampi margini di inserimento per la criminalità organizzata nella fase di riavvio di molteplici attività economiche, tenuto conto della circostanza che la crisi attuale si configurerà come portatrice di un deficit di liquidità, di una rimodulazione del mercato del lavoro, del conseguente afflusso di ingenti finanziamenti sia nazionali che comunitari, tesi a sostenere cospicuamente l’attuale momento critico e la conseguente riapre se economica”. Insomma, per queste ragioni, il tempo delle parole è finito. È tempo di agire, fare sistema, mettendo assieme tutte quelle forze che hanno a cuore il benessere del Paese. Se continueremo a cedere il passo a quella lunga e pericolosa convivenza tra faccendieri e mafiosi, tra corrotti e corruttori, faremo fatica a riprenderci. Troppe persone, purtroppo, continuano a girarsi dall’altra parte avviluppati dall’indifferenza, la cui forza, come ricordava Cesare Pavese, “ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni di anni”. Oggi, più che mai, è tempo di fare. Umbria. Coronavirus, il Garante: “Adottate misure di prevenzione per le carceri” orvietonews.it, 12 aprile 2020 Il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Stefano Anastasìa, conferma la sua attenzione e vigilanza alla situazione negli istituti penitenziari umbri. Pur potendo continuare ad accedere in carcere, per garantire un più costante contatto con i detenuti dei quattro Istituti di pena e non appesantire ulteriormente il faticoso lavoro del personale penitenziario in servizio, da questa settimana, interloquendo direttamente con 9 detenuti di Spoleto, il Garante ha iniziato ad assicurare colloqui in videoconferenza con i detenuti che lo richiedano. Ad oggi non risultano nelle carceri umbre casi di detenuti positivi al virus e sono messe in atto le misure essenziali per la prevenzione della diffusione del virus. In particolare, in tutti gli istituti penitenziari sono stati attivati e sono regolarmente funzionanti gli spazi di pre-triage per i detenuti nuovi giunti. Sono stati individuati spazi di isolamento precauzionale e per l’isolamento sanitario di eventuali casi sospetti o pazienti positivi, per un totale di circa 40 stanze dedicate nei quattro Istituti. Tutti gli operatori penitenziari e sanitari a diretto contatto con i detenuti indossano i dispositivi di protezione individuale. Inoltre, la Direzione Salute e Welfare della Regione ha dato disposizioni di sottoporre a tampone tutti i nuovi giunti, i detenuti presenti in Istituto, il personale sanitario e il personale penitenziario. Il percorso sarà portato a completamento nei prossimi giorni, compatibilmente con la disponibilità dei tamponi e dei reattivi necessari ad eseguire il test. La rilevazione riguarderà circa 840 Agenti di Polizia penitenziaria e 1500 detenuti, oltre al personale sanitario. Infine, è stato predisposto un modello operativo di prevenzione del contagio basato sull’individuazione di alcuni “Referenti per la sicurezza Covid” all’interno di ogni struttura penitenziaria a cui verrà erogata una formazione specifica in videoconferenza. I Referenti avranno la funzione di trasmette al personale penitenziario i comportamenti necessari per la prevenzione del contagio e di svolgere sistematica attività di sorveglianza sulla loro applicazione. Quanto alle misure di comunicazione con i familiari, dovute a seguito della sospensione dei colloqui presso gli Istituti, le persone detenute usufruiscono fino ad un massimo di tre ulteriori telefonate aggiuntive mensili rispetto a quelle ordinariamente concesse. Inoltre, presso gli istituti penitenziari umbri risultano attivate nr. 35 postazioni di videochiamata (nr. 13 fisse e nr. 22 mobili) utilizzabili per otto ore al giorno o, in alcuni casi, fino al termine dell’esigenza. Purtroppo finora di questa opportunità non è stata utilizzata per i colloqui con i docenti dei detenuti iscritti alle scuole o all’università, così come previsto dalla circolare ministeriale del 12 marzo scorso, ma il Garante auspica che ciò possa avvenire in tempi brevi, in modo prioritario per quei detenuti che hanno in programma di sostenere l’esame di maturità e che rischierebbero di perdere un anno di studio e di percorso. Infine, considerata la necessità di contenere i numeri della popolazione detenuta ai fini di prevenire la diffusione del virus in carcere, nonché di garantire la migliore assistenza possibile a quanti dovessero esserne contagiati, in base ai dati pervenuti all’Ufficio del Garante, sono state presentate nr. 201 istanze di esecuzione di pena al domicilio ai sensi dell’art. 123, DL 18/2020 (cd. “Cura Italia”), nonché nr. 15 istanze di alternative relative a persone detenute con vulnerabilità sanitarie sensibili alla diffusione del virus (over 65, immunodepressi, affetti da patologie croniche respiratorie o cardiologiche) e 29 istanze di ulteriori alternative al carcere. I primi dati, disomogenei per data di rilevamento, dicono che sono state concesse 5 esecuzioni di pena al domicilio e altre 5 sono subordinate alla fornitura del braccialetto elettronico prevista dalla legge, 17 sono i detenuti che hanno avuto l’attenuazione della misura cautelare in arresti domiciliari e 2 quelli che hanno avuto accesso alla semilibertà con licenza sino al 30 giugno (ex art. 124 del D.L. 18/2020). “Ancora troppo pochi - rileva il Garante - nonostante gli sforzi profusi dalle direzioni e dagli operatori penitenziari e sanitari. Speriamo che la magistratura competente riesca a sopperire con gli strumenti ordinari alla limitatezza dei provvedimenti governativi in materia”. Verona. Carcere di Montorio, 44 positivi al virus tra detenuti e agenti Corriere di Verona, 12 aprile 2020 Il virus Sars-Cov-2 è entrato anche nel carcere di Montorio: 27 detenuti positivi, 17 agenti della polizia penitenziaria. “Ci sono, però, rassicurazioni sulle condizioni di salute di tutte le persone coinvolte”. La voce girava da quasi una settimana, ieri, con i risultati dei tamponi, è diventata ufficiale: il virus Sars-Cov-2 è entrato anche nel carcere di Montorio. Non è il primo caso in Italia, ma è certamente, dati alla mano, uno dei contagi più estesi: 27 detenuti positivi, 17 agenti della polizia penitenziaria. Solo qualche giorno fa i dati parlavano di 58 detenuti (il caso di Verona non era conteggiato) in tutta Italia, di cui 23 al carcere Le Molinette di Torino. I dubbi sulla possibilità che ci fossero casi di Covid 19 risalgono alla settimana scorsa: l’Usl Scaligera ha provveduto a effettuare una campagna di tamponi. Il problema era stato preso subito sul serio, tant’è che sabato 4 aprile, l’esercito aveva provveduto a sanificare gli ambienti della casa circondariale. Nonostante i numeri, in pochissimi avrebbero manifestato sintomi, nessuno tra i detenuti: è questa la ragione per cui, inizialmente, nessuno si è accorto del contagio. La direzione del carcere ha provveduto a isolare tutte le persone positive (si trovano tutti nella sezione maschile), in modo da evitare ulteriori casi. La situazione era stata in un primo momento denunciata dal sindacato SPP. Il segretario generale, Aldo Di Giacomo, aveva parlato di “situazione grave, che mette in serio pericolo la salute di operatori e detenuti”. Ieri sono arrivate anche le reazioni dalla politica. Particolarmente dura quella del senatore del Partito democratico, Vincenzo D’Arienzo: “Ho saputo - afferma - che ancora dieci giorni fa i sindacati avevano rappresentato i fatti e, sinceramente, non è accettabile che ancora oggi non si sia vista l’ombra di nessuno. Le scelte prese finora, in particolare quella di riservare un’area dell’istituto per i detenuti malati, è stata buona cosa, ma il rischio che non sia sufficiente è nelle cose, visti i numeri così elevati. È inimmaginabile che gli operatori penitenziari possano prestare servizio solo con mascherine e guanti nelle aree in cui è stato circoscritto la presenza del virus. Alla pari dei medici e infermieri dei reparti ospedalieri Covid, anche i poliziotti essere forniti di occhiali e camici adeguati”. Sul tema è intervenuta anche Francesca Businarolo, deputata del Movimento 5 Stelle: “Ho chiesto informazioni al ministero della Giustizia e al dipartimento di amministrazione penitenziaria - fa sapere - mi hanno detto che la situazione è monitorata e che verranno svolti a breve altri tamponi. I numeri non sono da sottovalutare in una struttura come una casa circondariale. Ci sono, però, rassicurazioni sulle condizioni di salute di tutte le persone coinvolte. Ora è fondamentale garantire a tutti il diritto alla salute e far sì che gli agenti siano messi in condizione di lavorare in assoluta sicurezza. Anche davanti a questa emergenza, lo Stato ha l’obbligo di garantire le cure e assicurarsi che la funzione rieducativa della pena prosegua senza rischi per nessuno”. Come in tutte le carceri italiani, da inizio marzo sono vietate ogni tipo di visite, proprio per ridurre i rischi. Il divieto aveva provocato, inizialmente, rivolte in alcune case circondariali. Bologna. “Un centro per i detenuti malati” di Gianluca Rotondi Corriere di Bologna, 12 aprile 2020 Intervista a Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza: “I domiciliari in deroga del Cura Italia sono poco applicabili, chi è dentro con pene brevi non ha domicilio né risorse”. “È mancato finora un vero piano sanitario contro il virus”. Non c’è stato un piano sanitario per il virus in carcere, lo dice la presidente della Sorveglianza Fiorillo, che chiede alla Regione un hub per detenuti contagiati. “Alla Dozza serve un piano sanitario per fronteggiare eventuali contagi massicci. Pensare di risolvere la situazione solo con le misure alternative o con la detenzione domiciliare in deroga del Cura Italia, che peraltro è poco applicabile, è illusorio oltre che pericoloso”. Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e magistrato di lunga esperienza, chiede uno scatto in avanti per il pianeta carcere. La Dozza, ancora alle prese con i danni provocati dalla rivolta di marzo, ha contato il primo detenuto morto per Covid-19, mentre aumentano i contagi tra reclusi, agenti e sanitari. Ora sono finalmente arrivate le mascherine per i detenuti ma la tensione resta alta. Presidente, qual è la situazione della Dozza? “Abbiamo due donne ricoverate e il reparto femminile in isolamento precauzionale. Ci sono 800 detenuti e la rivolta ha creato problemi che si stanno cercando di risolvere. Dopo il decesso del detenuto si è accelerato sui tamponi ma certo non si fanno a tappeto mentre credo siano fondamentali, insieme ai test sierologi, per isolare i positivi e ridurre la possibilità di contagio che in una struttura come il carcere si può diffondere velocemente”. La risposta all’emergenza è stata demandata alla cosiddetta detenzione domiciliare in deroga e al maggiore utilizzo di misure alternative... “Nell’intero distretto dai primi di marzo, sulle varie misure, anche quelle disposte dal Tribunale, sono stati liberati 500 detenuti. Le misure del Tribunale si affiancano al Cura Italia, stiamo privilegiando l’attività monocratica perché più agile: abbiamo accelerato sulle misure provvisorie anche perché quelle in deroga hanno presupposti di applicazione limitati. Su 123 domande arrivate giovedì solo una trentina rispettavano i requisiti, le altre non avevano speranze: tanti non avevano il domicilio e altri nemmeno i parametri della pena”. Mancano anche i braccialetti elettronici... “Mai visti, ma il limite è un altro. Nove detenuti su dieci con pene brevi sono dentro perché non hanno domicilio e non troviamo accoglienza con i servizi. La scarsa applicabilità è dovuta anche a questo: chi è che va in carcere con un anno da fare? Chi non ha risorse. Non se n’è tenuto conto. Ci stiamo sforzando di applicarla al meglio, la verità però è un’altra”. Quale? “Non è con il Cura Italia che si risolve un’emergenza simile. Parliamo sempre di misure alternative ma anche se potessimo applicarle al massimo non potremmo liberare il carcere. Serve un vero piano sanitario per l’emergenza”. Che non c’è stato o non è stato adeguato? “Le indicazioni dell’Ausl sono state di predisporre posti per l’isolamento sanitario ma questo va bene con pochi contagi, se il virus si diffondesse in maniera seria, cosa che nessuno si augura, come facciamo? La salute va tutelata, non è interesse solo dei detenuti ma anche degli agenti e dei medici che, loro malgrado, hanno portato la positività alla Dozza”. Perché non si è approntato un piano per tempo? “Ho l’impressione, non solo riferita all’Ausl, che in questo momento così difficile il carcere sia tornato all’angolo, rimosso. Ma il carcere è città. Che le cose funzionino è interesse della collettività. Ora serve altro”. Cosa? “Con il Provveditore abbiamo proposto all’assessorato alla Sanità di trovare una struttura, un albergo o un’ex caserma, e usarla per il periodo dell’emergenza per l’isolamento sanitario. Un modo per alleggerire la pressione dentro. Le Ausl devono erogare le prestazioni che ci sono fuori, la salute è un diritto. Dobbiamo pensare a fare uscire i detenuti ma soprattutto a curare chi è lì”. Il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di arginare la richiesta di misure cautelari. Che ne pensa? “La posizione è molto chiara e mi trova d’accordo. Ora sta alla riflessione dei pm”. Se il virus si diffonde come si fa? L’Ausl deve erogare le stesse prestazioni di fuori, ma temo che il carcere sia stato rimosso. Trento. Virus dentro il carcere, una vera bomba epidemiologica di Andrea de Bertolini* Corriere del Trentino, 12 aprile 2020 Distanziamento sociale come nuova parola d’ordine. L’arma, dalla comunità scientifica mondiale, considerata più efficace per contrastare e sconfiggere Covid-19. Una pandemia che senza distinzioni di censo o di gerarchie, infettando il mondo umano globalizzato, sta ferendo profondamente anche il nostro Paese lasciando morte, dolore e una probabile crisi economica i cui effetti drammatici condizioneranno l’intera società civile. Un nuovo mantra, impostoci, divenuto per ciascuno di noi paradigma sul quale misurare ogni momento del nostro agire. E ciò per la tutela dei due beni più preziosi. La vita e la salute del singolo; quindi la vita e la salute della società. In questo incedere emergenziale nessuno è diverso. Ogni individuo è uguale agli altri. Né i valori della vita e della salute, comprensibilmente, possono esser intesi in modo differenziato, a seconda del fatto che ci si riferisca ad una o ad altra parte della popolazione. Lo ricorda - per chi, nell’emergenza, lo avesse dimenticato - la Costituzione repubblicana all’articolo 3: siamo tutti uguali. Ma, soprattutto, lo ricorda un’etica condivisa. Dalla quale discende quel fondamentale principio di solidarietà per cui, in specie in momenti drammatici per la collettività, tutti dovrebbero - nessuno escluso - esser messi nella condizione di proteggersi; anche dalla paura. Né, peraltro, potrà alcuno dubitare del fatto che i detenuti siano parte della nostra società. Qualcuno potrà indignarsi, scandalizzarsi per questa affermazione, ma così è. Ogni convinzione diversa sarebbe un peccato di arrogante superbia. Intesa nel suo esatto significato come “radicata convinzione della propria superiorità (reale o presunta) che si traduce in atteggiamenti di orgoglioso distacco o anche di ostentato disprezzo verso gli altri”. Dunque, fra le molte questioni che quest’emergenza ha posto ve n’è una che non può più esser ignorata. Il quesito è drammaticamente semplice. Come può conciliarsi il sovraffollamento cronicizzato delle prigioni italiane con il nuovo mantra del distanziamento sociale? Un quesito sentito da molti: dal Presidente della Repubblica, da larga parte della Magistratura, da insigni giuristi, dall’Accademia, dal terzo settore, dalla parte sana della società civile. Un quesito posto con fermezza e rigore, ancora una volta, dall’Avvocatura italiana. Un quesito che ha una sola risposta, esiziale. Il sovraffollamento delle carceri, per definizione logica, nega il distanziamento sociale. Un dato, in queste dolorose settimane, sconcerta e lascia indignati. Mentre la società impaurita dei “liberi” si distanzia ricorrendo anche all’esercito per il rispetto delle nuove prescrizioni, in carcere si continua a vivere uno sull’altro, in condizioni igienico sanitarie spesso precarie e, nonostante quanto dichiarato dal ministro, sostanzialmente senza presidi di protezione. Quell’immanente condizione di sovraffollamento (autentica vergogna nazionale censurata dalla Corte Europea già nel 2013) che priva della dignità e umilia in modo sistemico il principio costituzionale di rieducazione della pena, oggi rende le carceri dei luoghi in cui Covid-19 può, in una ferale logica ossimorica, propalarsi senza limiti, oltre le celle, passando fra le mura, in modo “libero”. Al 31 marzo, secondo i dati offerti dal Garante Nazionale, i detenuti italiani erano 57.590. A fronte di una capienza teorica di 51.416 posti e di un’effettiva non superiore a 48.000. Per semplificare: un sovraffollamento di circa 10.000 detenuti. Le misure adottate, ancora una volta, sono macroscopicamente insufficienti. Rispetto a un mese fa, dal varo della misura “tampone”, pare solo 1.361 abbiano fruito delle detenzioni domiciliari. Mentre 405 sarebbero le licenze a persone in semilibertà. Cui si aggiunge l’ulteriore meritorio sforzo di alcuni magistrati di sorveglianza che hanno applicato in modo più deciso misure alternative già previste. Il Garante nazionale dichiara: “Non si può tacere la preoccupazione per il più lento ritmo di adozione di provvedimenti conseguenti agli articoli 123 e 124 del recente decreto n. 18” In parallelo, con sempre maggior evidenza, pare esser calata una sorta di inaccettabile censura governativa che impedisce di disporre di informazioni reali su ciò che accade all’interno di quei luoghi di oblio. In un momento in cui l’isolamento, per la sospensione dei colloqui con i familiari e la riduzione al minimo dei contatti con i Difensori, si è acuito a dismisura. Due giorni fa il ministro ha comunicato: a livello nazionale 58 detenuti positivi, 11 ricoveri. Un decesso. Ma notizie dell’ultima ora direbbero ulteriori 30 casi solo a Verona e probabilmente due nuovi morti. I dati paiono francamente non credibili (irreali) se confrontati con il numero totale della popolazione carceraria, con le condizioni igienico sanitarie di molti istituti, con l’età avanzata di parte significativa della popolazione carceraria e con le informazioni ufficiose che vorrebbero, solo nella Casa Circondariale di Spini di Gardolo esservi stati già 6 casi. La legittima sensazione è che per le istituzioni, per il governo, per il ministro ancora una volta, i detenuti non siano una priorità, non valgano quanto le persone “libere” e si accetti il rischio della propalazione della pandemia all’interno delle carceri. Con una scelta irresponsabile che, nel violare i diritti inviolabili dell’uomo, mette a rischio non solo detenuti ma anche donne e uomini della polizia penitenziaria che in quei luoghi lavorano quotidianamente e che pare, a ieri, vedessero nelle loro fila già oltre 200 casi di positività. Qui non si tratta di amnistie o indulti mascherati, non si tratta di legittimare impunità. Né, tutto ciò può esser usato (ancora) in modo cinico e strumentale per manifesti di propaganda su “certezza della pena” o sul “costruire nuove prigioni”, nuovi contenitori di dolente umanità. Si tratta di tutelare vita e salute. Riconoscere l’esser tutti uguali di fronte a Covid-19 e allo specchio delle nostre coscienze. Riconoscere come un’astratta, autoritaria, esigenze di difesa sociale non possa e non debba, in modo mortifero, prevalere su vita e salute del singolo. La responsabilità politica di questa potenziale bomba epidemiologica che non si vuole disinnescare è grave. È indispensabile, prima che sia troppo tardi, riferire della reale situazione e, con coraggio, senso di responsabilità e rispetto per la vita di chiunque, cambiare rotta per metter in sicurezza le carceri italiane riducendo drasticamente il numero dei detenuti dando così sostanza al distanziamento sociale. Infine, è necessario, terminata quest’emergenza, giungano le dimissioni di un ministro non solo dimostratosi inadeguato ma anche appiattito, con un silenzio irricevibile, alle esternazioni di chi, ai tempi di Covid-19, come Nicola Gratteri, sostiene tesi eufemisticamente prive di senso come quella del “Mi pare si possa dire che oggi San Vittore o il carcere di Opera a Milano sono più sicuri di piazza Duomo”. *Già presidente dell’Ordine avvocati del Trentino Tolmezzo (Ud): Cinque detenuti positivi al virus, tamponi anche al personale di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 12 aprile 2020 Avevano protestato alla notizia dell’arrivo di un gruppo di detenuti dalla casa circondariale di Bologna - quella dove si trovava il 76enne siciliano con coronavirus morto il 2 aprile dopo un ricovero di una settimana in ospedale - e ieri quel timore ha trovato riscontro nell’esito del tampone: cinque delle sette persone trasferite al carcere di massima sicurezza di Tolmezzo a fine marzo, per quanto asintomatiche, sono risultate positive al Covid-19. “Li avevamo messi in isolamento precauzionale per quattordici giorni e nessuno di loro presentava segni tali da destare preoccupazione, tanto più essendo risultati negativi al tampone alla partenza da Bologna - riferisce il direttore del penitenziario, Irene Iannucci. Questa mattina (ieri, ndr), però, l’Azienda sanitaria ci ha comunicato la positività per cinque di loro. Dal loro arrivo, si trovano in una sezione creata ad hoc per l’isolamento sanitario”. Difficile sbilanciarsi sul resto, ovviamente. “Al momento, non abbiamo notizie di altri casi, neppure tra gli agenti della Polizia penitenziaria - aggiunge Iannucci. Ma a brevissimo sottoporremo ad accertamento tutte le persone che sono state a più stretto contatto con loro”. Il tampone sul personale sarà eseguito il giorno di Pasquetta. “In maniera coscienziosa e professionale, la direzione tolmezzina ha agito nella massima trasparenza, informando dei contagiati sia i detenuti sia gli operatori - il commento di Massimo Russo, delegato nazionale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria. E questo, contrariamente a quanto avvenuto a Udinese (dove il 26 marzo era stato ricoverato il medico incaricato e c’è un contagiato anche tra gli agenti, ndr), dove hanno tenuto il massimo riserbo permettendo l’eventuale diffondersi del virus e mettendo a rischio la salute del personale e degli stessi detenuti”. Perplessità, intanto, è stata manifestata anche dalla Cgil Fp. “Non si capisce perché l’amministrazione penitenziaria abbia deciso di spostare quei detenuti - dice il segretario provinciale Andrea Traunero. Ora ci auguriamo vengano messi a disposizione del personale i dispositivi più adeguati e non i guanti e le mascherine abitualmente adoperati in servizio”. Foggia. Poliziotto penitenziario positivo al virus, il sindacato: “Tamponi a tutti” Gazzetta del Mezzogiorno, 12 aprile 2020 L’agente è impiegato in servizi esterni all’istituto, ma il segretario generale del sindacato chiede tamponi per tutti. C’è un primo poliziotto penitenziario con Covid-19 nel carcere di Foggia. Ne dà notizia in una nota il sindacato di polizia penitenziaria S.PP., con le parole del segretario generale Aldo Di Giacomo: “Il collega ha superato la fase critica ed ora è in perfetta salute, ma deve aspettare un ulteriore periodo di quarantena e due tamponi negativi prima di poter rientrare a lavoro. Mi sono accertato personalmente delle sue condizioni. Lavora nel carcere di Foggia, è impiegato in servizi esterni al carcere, pertanto non può aver infettato i detenuti, ma occorre la massima attenzione facendo valere il principio della massima prudenza e dunque facendo i tamponi a tutti i poliziotti penitenziari ed ai detenuti. Particolarmente importante è far sì che il virus non arrivi dentro il carcere per evitare la propagazione dello stesso tra i reclusi. Non meno importante è evitare che i colleghi infettino le proprie famiglie causando vere e proprie pandemie familiari” Firenze. Covid-19: a Sollicciano in attesa del contagio? nove.firenze.it, 12 aprile 2020 L’allarme lo lancia la Segreteria Regionale della Uil Pubblica Amministrazione. Appello dei volontari: “Mandate a casa tutti quelli con residuo pena inferiore a tre anni, in modo da salvare la vita agli altri” La possibilità del contagio potrebbe diventare un problema davvero difficile nel carcere di Sollicciano il più grande della regione. “Abbiamo chiesto una serie di dati all’amministrazione penitenziaria regionale nonché un confronto costante e continuo sul problema... ebbene ad oggi solo silenzio - interviene il Segretario Generale Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Eleuterio Grieco - Siamo davvero preoccupati della salute di tutti poiché si continua a sottovalutare il problema del contagio all’interno e registriamo una diffusa leggerezza. Proprio oggi sembrerebbe che vi sia un caso positivo dentro Sollicciano, se verrà confermata la notizia davvero qualcuno dovrà trarne le conseguenze - aggiunge Grieco. Nonostante l’emergenza in atto manca davvero una prospettica, scarseggiano Kit, gel antisettico, guanti sterili, sapone, una seri di strumenti previsti dall’osservatorio sulla sanità penitenziaria della regione, i familiari dei ristretti continuano a portare pacchi in carcere nonostante il divieto alla mobilità, nessuna azione si è fatta sulla salubrità delle caserme e delle mense. Lo screening va a rilento solo pochi test al giorno insomma crediamo che davvero si stia sottovalutando un virus che ha fatto più di 18.000 morti - precisa Grieco - il personale è a forte rischio di contaminazione specialmente quello che è costretto a permanere nel pronto soccorso degli ospedali per la gestione dei pazienti/detenuti e l’amministrazione in tal senso sembra non comprendere appieno il pericolo di rischio che è elevatissimo e che gli stessi devono essere dotati dei DPI previsti come il personale DEA - conclude Grieco - chiediamo misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da covid-19 all’interno delle carceri poiché quelle messe in campo non sono sufficienti, chiediamo all’ASL che effettui solerti test per tutti entro una settimana e la predisposizione urgente di un reparto attrezzato per ricoveri di pazienti detenuti a Firenze; In tal senso facciamo appello anche al Sig. Prefetto di Firenze”. “Ciò che sicuramente, non solo non è ragionevole, ma ha contribuito al pericolo di una diffusione colposa del virus nelle celle, è il fatto che tutto il personale, fin dal primo momento e fino a poco fa, è entrato in carcere ogni giorno ed in contatto coi detenuti senza alcuna protezione -scrivono Salvatore Tassinari, Beppe Battaglia del gruppo carcere Ass. Il muretto e Alessandro Santoro, il prete delle Piagge- Il ministro di giustizia e il capo del Dap, così solerti a vietare l’ingresso in carcere ai volontari e soprattutto ai familiari, sono responsabili di questi ritardi, che hanno messo il personale penitenziario nelle condizioni di poter far da vettore della diffusione del virus all’interno degli istituti. Ma c’è di più e dell’altro in materia d’irresponsabilità da parte del ministro e del capo del DAP. Fin dal momento dell’entrata in vigore del primo dpcm, è stato imposto a tutto il corpo sociale il distanziamento fra una persona e l’altra di un metro. Questo dispositivo, insieme a quello di non uscire di casa, è stato ed è perseguito utilizzando i corpi di polizia, l’esercito e persino i droni declinando la trasgressione come reato. In carcere questi dispositivi sono validi, o siamo nel territorio di nessuno? Come si fa a garantire un metro di distanza in celle super affollate? L’accatastamento dei corpi in tempi di pandemia da coronavirus è un reato, di cui sono responsabili ministro della giustizia e capo del DAP. Chi ci fa sicuri che non siano molti di più di quanto è stato detto i detenuti infettati e pure i poliziotti penitenziari? o qualcuno vuole farci credere che nelle città di Bergamo o di Brescia il carcere è un’isola felice? Si deve ricordare che stiamo parlando più di centomila persone che affollano le carceri italiane, tra personale di custodia, personale amministrativo e sanitario, oltre ai più di sessantamila detenuti. Il destino di queste persone è tutto da ricondurre alla responsabilità del ministro di giustizia, che ha il dovere civile, morale e giuridico di tutelare la salute e di impedire la propagazione dell’epidemia; propagazione che, vogliamo ricordarlo, costituisce un reato quando non siano state prese misure adeguate per arginarlo. Nella nostra qualità di cittadini volontari vogliamo unirci a quanti si sono già espressi, come, ad esempio, i garanti dei diritti dei detenuti di tutti i comuni e di tutte le regioni, che hanno chiesto misure urgenti, al fine di evitare catastrofi come quella di una pandemia nelle carceri del nostro paese. Deflazionare il carcere, ridurre di almeno un terzo la popolazione detenuta qui ed ora! A situazioni estreme, estremi rimedi: un indulto che mandi a casa tutti quelli con residuo pena inferiore a tre anni, in modo da consentire a quelli che restano il metro di distanza che può salvar loro la vita”. Crotone. Nel carcere condizioni inumane, i detenuti temono il contagio del Covid-19 di Benedetta Parretta thedailycases.com, 12 aprile 2020 Il garante dei diritti dei detenuti, Avv. Francesco Ferraro, ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in accordo con le famiglie di chi sta scontando una pena nel carcere calabrese che da tempo è in sovraffollamento. A Crotone in questo momento c’è confusione e allarmismo nelle famiglie dei detenuti che da venerdì avevano cominciato lo sciopero della fame per il rischio di contagio Covid-19, oggi sospeso per l’arrivo di mascherine. Mancano infatti nel carcere crotonese le misure di sicurezza e le regole di distanziamento nelle celle, che non si possono applicare per il sovraffollamento esistente da tempo. Insieme al garante dei diritti dei detenuti, Avv. Francesco Ferraro, le mogli dei detenuti, hanno inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La missiva spiega che in una cella al posto di 5 persone ne vivono 9, i detenuti sono in totale 146 nell’Istituto di Pena e in realtà dovrebbero essere 90. Insieme alle limitazioni dei pacchi e al blocco delle visite dei familiari, si aggiunge il disagio di una comunicazione su skype, inadeguata e troppo breve, che non dà la possibilità di parlare con i propri cari oltre le sbarre. I detenuti che svolgono un lavoro all’interno del carcere devono continuare a prestare servizio anche nei casi in cui un altro detenuto risulta positivo al Covid-19, nessuna misura di sicurezza tra chi è positivo e chi no. Le famiglie sono preoccupate e stanno provando a chiedere il carcere domiciliare per questo periodo, per chi non ha pene superiori ai due anni. “Il carcere ce lo siamo meritati. Ma meritiamo una pena non una tortura” Così si esprimono alcuni detenuti ormai sull’orlo della disperazione. E il fatto che proprio ieri gli stessi detenuti siano stati forniti di mascherine anti-contagio, non risolve il fatto che siano ammassati l’uno sull’altro. Napoli. Coronavirus, i detenuti donano 1.600 euro all’ospedale Cotugno Il Mattino, 12 aprile 2020 I detenuti del carcere di Napoli Poggioreale hanno donato 1607 euro all’ospedale per le malattie infettive Cotugno, eccellenza sanitaria partenopea. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Osapp. La raccolta fondi è stata avviata tra coloro che sono detenuti in tre reparti della casa circondariale partenopea. “Un gesto lodevole - secondo il segretario dell’Osapp Campania Vincenzo Palmieri - che dimostra sensibilità verso chi affronta in prima linea l’emergenza da Covid-19”. L’iniziativa è stata possibile anche grazie alla mediazione del direttore Carlo Berdini e del comandante della polizia penitenziaria Gaetano Diglio. Per Palmieri, “generalizzare sull’opinione della popolazione detenuta è un grave errore: molti si sono ravveduti e dissociati dalle rivolte del mese scorso. Altri invece si lasciati andare anche a offese ai danni degli agenti, non comprendendo la gravità dell’emergenza storica”. “Lo Stato deve tutelare tutti a prescindere - aggiunge il vice segretario regionale dell’Osapp Luigi Castaldo - e per fortuna i rivoltosi, o certe rappresentanze di persone che in questi giorni hanno manifestato inveendo contro le istituzioni, hanno avuto anche modo, interloquendo con i dirigenti, che i motivi dei tumulti erano basati su false dicerie propagandate per vere anche sui social”. Inoltre, ricorda Castaldo, sono oltre 12mila test i sierologici cautelativi disposti dal provveditore delle carceri della Campania Antonio Fullone. L’Osapp auspica, quanto prima, “un’azione dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria affinché sia incrementato il personale di Polizia Penitenziaria in molti istituti campani, ulteriormente messi in ginocchio a causa degli eventi”. Lanciano (Aq): I detenuti donano fondi al Campus bio-medico Covid Center di Antonio Maria Mira Avvenire, 12 aprile 2020 Un gesto di solidarietà dai 300 carcerati, anche ergastolani. “Queste vostre mani le stringiamo oggi ancora più forte”, si legge nella lettera di ringraziamento. Dal carcere un regalo di Pasqua per i malati di Covid-19. Una bella storia di solidarietà tra chi soffre, anche da chi è in “fine pena mai”. Mani che si stendono, mani che si stringono, anche da dietro le sbarre. I 300 detenuti, in parte ergastolani, del carcere di Lanciano in Abruzzo hanno fatto una donazione per il Covid Center del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico a Roma. I fondi raccolti tra le celle aiuteranno a sostenere il funzionamento del centro di cura specializzato nel trattamento di pazienti affetti da Covid-19. I detenuti avevano chiesto nei giorni scorsi alla loro direttrice Lucia Avantaggiato la possibilità di mostrare la propria vicinanza al Campus Bio-Medico con cui avevano già collaborato nel passato attraverso progetti di reinserimento. Ora è arrivata la donazione, un gesto di speranza dal mondo carcerario che, come ha ricordato più volte Papa Francesco in questi giorni, sta vivendo con preoccupazione e tensione l’emergenza coronavirus. Un mondo che è stato al centro della Via Crucis guidata dal Papa, con le meditazioni preparate dalla parrocchia della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Un mondo che un mese fa è stato attraversato da violente proteste proprio legate all’emergenza, oltre che al ritornato sovraffollamento. Ma dalle celle ora arriva la concreta solidarietà. Il Rettore dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, Raffaele Calabrò ha espresso la sua gratitudine e vicinanza ai detenuti di Lanciano: “Il vostro è un gesto di profonda umanità che vi fa esempio per tutti in questo periodo di incertezze nel quale non è retorico richiamarci con forza agli autentici valori di unità e umanità. Vi sono grato a nome dell’Università che guido e rappresento”. Molto intensa la lettera di ringraziamento alla direttrice e a tutti i detenuti, “per il vostro altruistico e toccante gesto”, firmata dal direttore del Campus Covid Center Felice Eugenio Agrò e da Rossella Perricone presidente dell’Associazione Amici dell’Università Campus Bio-Medico. “Sentire che ci siete vicino - scrivono - è per noi una grandissima dimostrazione di stima e di solidarietà e sono queste cose, nel difficile momento storico che stiamo vivendo a farci sentire davvero il senso di unità, di compattezza, di umanità. Tendere la mano verso gli altri. Ed è questa l’umanità e la società a cui ambire; persone che si tengono per mano. E noi - conclude la lettera - queste vostre mani le stringiamo oggi ancora più forte”. Roma. Millesettecento motivi per non sentirci poi tanto migliori di Marco Belli vaticannews.va, 12 aprile 2020 A Regina Coeli, fra collette per la Protezione civile e laboratori per capirsi e capire gli altri. Millesettecento euro. Per la Protezione civile, per proteggere, o curare, dal virus quelli che stanno fuori. Come se dentro invece, loro, fossero protetti. La Pasqua l’hanno celebrata così, i detenuti di Regina Coeli. Sarà un modo per sentirsi parte della società, magari. O per sentirsi meno “brutti”, meno “colpevoli”. Ammesso che chi sta fuori non lo sia. Fatto sta che il gesto, se si considera che la generosità la si misura anche con il metro del sacrificio che comporta, è di valore incommensurabile. La direttrice del carcere di Regina Coeli, Silvana Sergi, giustamente, ne va orgogliosa: “Abbiamo fatto subito il versamento - racconta. I detenuti hanno fatto tutto da soli. E in questo momento posso assicurare che non è un segnale da poco”. La realtà dell’istituto di pena di via della Lungara, nel centro della capitale, presenta tratti particolari. Il carcere fa da sempre parte della città, non è, come può accadere per altri istituti, la parte oscura da non vedere, il luogo dello scarto. Si affaccia sul lungotevere, lo si scruta con curiosità dalla terrazza del Gianicolo. Quando, nel secondo dopoguerra, la povertà a Roma era ancora molto diffusa, così come la disoccupazione, salire quello “scalino”, subito dopo il portone del carcere, era per molti quasi un rito d’iniziazione, la presa d’atto della dura realtà della vita. Però i tempi cambiano. E anche qui la situazione è delicata: a via della Lungara arrivano gli arrestati, presi in flagranza di reato, e i fermati, i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare. Certe volte è come girare con un fiammifero in una pozzanghera di benzina, se non si usano le giuste parole. Se non si sa accogliere e accompagnare, anche in carcere. Nei giorni scorsi, quando il vento della rivolta soffiava veicolando segnali di tamburi lontani da un istituto all’altro della penisola, anche qui la tensione era palpabile. A causa dell’emergenza virus i contatti con l’esterno erano diventati sempre più difficoltosi, a fronte di una paradossale promiscuità tale da rendere semplicemente ridicola la nostra quotidiana psicosi del contagio. Poche protezioni, nessuna garanzia per la salute, notizie dei famigliari poche e saltuarie. Una bomba pronta ad esplodere. Però, come si dice, anche nel buio più scuro si può trovare una luce: basta saperla accendere. “Ci sono stati diversi detenuti che invece di cedere allo scontento, alla paura, si sono dimostrati comprensivi, hanno capito le difficoltà che stavamo vivendo tutti, hanno pazientato”. Si sono messi dei panni di chi li tiene in custodia. Non è stato un evento casuale però. I dirigenti del carcere hanno osservato come i più tolleranti si sono dimostrati i detenuti che da qualche tempo a questa parte partecipano a un’iniziativa già avviata con successo a Rebibbia e introdotta da qualche mese anche a Regina Coeli. Nella iv sezione, quella dei tossicodipendenti, e parzialmente nella ii, il “repartino” degli “psichiatrici”, i carcerati prendono parte a una sorta di laboratorio educativo che attraverso le tecniche teatrali favorisce il lavoro su stessi, sul confronto con gli altri, sulla relazione. Spiega Sergi: “Avevo sentito parlare di questo “Metodo teatrico” e ho voluto incontrare il gruppo che lo propone, il Gruppo Eleusis. Devo dire, a distanza di qualche tempo, che è piaciuto a tutti, tanto che anche il personale della struttura mi ha chiesto di potervi partecipare. Ed è significativo, perché per gli agenti c’è già la fatica quotidiana del lavorare, che non è poca”. Al termine del laboratorio è previsto anche uno spettacolo teatrale, a suggello del percorso, sebbene l’obiettivo primario sia naturalmente quello della promozione umana. E l’esperienza è diventata tanto essenziale che, racconta la direttrice Sergi, i detenuti hanno espressamente richiesto di poter continuare a usufruirne attraverso internet, essendo le visite dall’esterno vietate a seguito dell’emergenza coronavirus. Una fame di relazione che dovrebbe far riflettere. Racconta Arianna Donati, che coordina i volontari di Eleusis a Regina Coeli: “Devo dire la verità: la prima volta che sono entrata in carcere per la nostra attività mi sono detta con qualche apprensione: “Vabbè, ora qui ci sono i cattivi”. Invece ho trovato un rispetto, una dedizione tali che sinceramente mi sono dimenticata che mi stavo rapportando a dei carcerati. Per loro è molto importante il nostro puntare sulla valutazione della persona al di là della storia e delle scelte sbagliate che si sono fatte. Attraverso le improvvisazioni che sperimentiamo riescono a mettere in scena a volte le loro storie personali, a volte, semplicemente danno sfogo alla loro creatività”. Il lavoro viene fatto con la collaborazione costante di medici, psicologi ed educatori. E i risultati si vedono: si riacquista rispetto di sé, si rientra in contatto con l’umanità, quella che sta fuori. Spiega Emanuele Faina, fondatore di Eleusis, ideatore del “Metodo teatrico” e consultore familiare presso il centro La famiglia degli Oblati di Maria Immacolata: “Si può immaginare quanto possa fare all’interno del carcere, di una cella, un metodo che usa lo strumento teatrale in ambito relazionale. Il lavoro è un po’ quello dell’attore su sé stesso, ma naturalmente non è orientato in questo caso alla formazione artistica quanto a stabilire un dialogo con sé stessi. Invece di passare ore e ore magari a fare palestra, i detenuti si ritrovano a cercare la loro profondità, a ristabilire un rapporto più autentico con il loro corpo, con i loro pensieri, con la loro anima”. Il metodo ricalca quello usato per la formazione professionale di attori ed educatori. Sebbene il gruppo Eleusis lavori nelle carceri a titolo gratuito (“un servizio di accoglienza in carcere del resto non avrebbe prezzo”, sottolinea Sergi) si tratta di uno dei 49 enti riconosciuti a livello nazionale dal ministero dell’Istruzione per la formazione fra l’altro di docenti e dirigenti scolastici, conta al momento oltre 5.000 utenti, ed è presente in 70 scuole in tutta Italia. A dimostrazione che anche le realtà professionali sono disposte a mettersi in gioco a titolo volontario, quando e dove serve. Lo ha fatto anche l’azienda Cisco, che fornisce la piattaforma tecnologica per il laboratorio a distanza a Regina Coeli e un addetto, Lorenzo Lento, per dare assistenza alle necessità che si presentano. Insomma, l’esperimento è destinato a durare. Lo conferma il provveditore per le Carceri di Lazio e Molise, Carmelo Cantone: “Lo stiamo estendendo - spiega - a diversi altri istituti di pena. Ora vogliono prenderne parte anche i dirigenti. Credo del resto che qualunque persona abbia responsabilità apicali abbia bisogno di riflettere sulle sue capacità relazionali, di gestione del conflitto”. Soprattutto, rimane l’elemento fondamentale del “superamento” delle pareti carcerarie anche attraverso l’uso della tecnologia. Nell’ottica del principio della pena a fini rieducativi e non vendicativi, è venuto il tempo anche di affrontare senza timore il tema della comunicazione fra cella e mondo esterno. “Ci stiamo rendendo conto del fatto che il mondo digitale è un valore aggiunto - afferma Cantone. Possiamo portare “dentro” alla realtà del carcere anche persone che sono lontane, aprirci al mondo dell’arte, della cultura. Per chi è abituato alla tecnologia questo può sembrare scontato, ma qui non lo è. Dare poi la possibilità ai detenuti di entrare in contatto costante con i famigliari è un valore. Certo, dobbiamo essere bravi a conciliare tutto questo con le esigenze proprie del regime carcerario”. Intanto però, lì dentro, qualcosa si muove. “Ci sono alcuni che una certa umanità la guardano dal buco della serratura”, ha scritto un detenuto in una lettera destinata ai volontari di Eleusis. Altri la guardano in faccia e si sporcano le mani, come Arianna Donati, che quando ha bisogno “di ritrovare un po’ di umanità” corre a Regina Coeli. Per tutti, comunque, è arrivata una lezione: 1700 euro. Millesettecento motivi per non sentirci poi tanto migliori. Livorno. Anche i detenuti si frugano in tasca e donano all’Ospedale San Donato di Salvatore Mannino La Nazione, 12 aprile 2020 Quasi una metafora: reclusi noi e loro. Piccola somma (300 euro, mille con gli agenti) ma grande gesto. Intanto siamo a 10 mila buoni spesa in provincia: la Pasqua in salita. Sono la metafora della nostra esistenza rattrappita pure in questa Pasqua con le sbarre: niente negozi, niente supermercati (ringraziano almeno i dipendenti che si potranno godere la festa in famiglia), niente passeggiate, niente gite al mare (seconde case proibite), niente scampagnate fuori porta di Pasquetta, persino niente sigarette dai distributori automatici, sigillati anche quelli per ordinanza del sindaco, cui la parte del Grande Pedagogo che impartisce lezioni giornaliere calza a pennello. Loro i reclusi veri, quelli dietro le porte del carcere, noi i reclusi virtuali, agli arresti domiciliari fra le mura di casa. Ed ecco allora che i carcerati in senso proprio vengono in aiuto di noi carcerati metaforici, o meglio della parte migliore di noi: i medici, gli infermieri, gli Oss e tutto il personale che stanno combattendo la battaglia di prima linea contro il Covid. Sì, è un po’ la notizia del giorno: la donazione che parte dagli ospiti di San Benedetto (la casa circondariale di via Garibaldi, non proprio un hotel a cinque stelle) verso l’ospedale, consegnata venerdì alle autorità sanitarie, insieme a una letterina dei detenuti, dal direttore Giuseppe Renna. Dentro la busta 300 euro, frutto di una raccolta fra chi sta in cella, 25, soprattutto stranieri, a San Benedetto. La media è di 10 euro a testa, ma, fanno sapere, qualcuno non aveva nulla e non ha dato nulla, almeno materialmente, altri ci hanno messo tutto quello che potevano. Non conta però la cifra, necessariamente modesta, anche se arrotondata dai 700 euro offerti dagli agenti di custodia con una loro autonoma colletta, quanto il gesto: un piccolo passo per degli uomini, viene da parafrasare Neil Armstrong, primo astronauta sulla luna, ma un grande passo per l’umanità. Loro, questi nostri predecessori nella reclusione (volontaria la nostra, obbligata la loro) dicono che è come quel caffè che in carcere funziona da ringraziamento per una cortesia ricevuta. Ora le tazzine sono vietate, ma i 25 vogliono lo stesso rendere merito agli ospedali in cui sono curati anche i loro familiari contagiati. Una storiella da Libro Cuore, da Garrone, che non ti aspetteresti da chi in galera ci sta perché in qualche modo ha mancato e ora vuole riparare, anche con questa donazione che forse è la prima da una prigione, specie dopo l’ondata di rivolta che nelle carceri aveva contrassegnato i primi giorni di emergenza, quando sembrava che i falò di San Vittore fossero il simbolo dell’Italia che bruciava. Li avremo nel cuore in questa Pasqua in cui nemmeno noi potremo uscire. A proposito di Pasqua. Sarà un giorno di festa particolare anche per i 3296 che hanno fatto domanda in Comune per i buoni spesa. Dati che rapportati su scala provinciale dovrebbero portare il totale intorno alle 10 mila richieste di aiuto alimentare. I soldi (525 mila euro nel capoluogo, 1,5 milioni in totale) non sono stati ancora erogati e chissà dunque se i protagonisti hanno potuto partecipare alle gigantesche code nei supermercati in cui è stata persino distribuita l’acqua (all’Esselunga) come se fosse un evento di protezione civile. Per qualcuno, forse per molti, Pasqua è un po’ meno Pasqua. Ricordiamolo nelle nostre tavole di prigionieri, tutti impoveriti ma ancora opulenti. Covid, c’è un’altra emergenza: quella psico-sociale di Angelo Zaccone Teodosi Il Riformista, 12 aprile 2020 Gutta cavat lapidem?! Potenza dei media tradizionali o dei meme nell’era del web?! Quale che sia la causa o la fonte, siamo soddisfatti che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia accolto alcune nostre proposte, in particolare quella di non delegare completamente ad un “Comitato Tecnico-Scientifico” composto esclusivamente da medici e virologi e epidemiologi un processo decisionale che è complesso e multidimensionale. Un delicatissimo decision making che riguarda la vita quotidiana ed il futuro di oltre 60 milioni di persone. Da alcune settimane, abbiamo il “privilegio” di assistere alla rituale conferenza stampa quotidiana del Capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli e possiamo porre domande, anche impertinenti. Ne abbiamo già scritto su queste colonne (vedi Il Riformista del 23 marzo, Gestione maldestra e comunicazione in confusione, il Coronavirus e i limiti del governo Conte): abbiamo denunciato il policentrismo dei flussi informativi dell’Esecutivo, e la inevitabile confusione prodotta nell’immaginario collettivo degli italiani. Venerdì 3 aprile, abbiamo posto a Borrelli una questione altra, forse più radicale, e ed “a monte”: se è vero che “la politica” ha deciso di affidarsi “ai tecnici” (così ci viene ripetuto, da più fonti, Conte in primis, in una ormai noiosa litania), naturale sorge il quesito sulla composizione dell’eletta schiera di coloro che sono stati chiamati a far parte del celeste “Comitato”. Abbiamo sostenuto che processi decisionali così importanti per il futuro (ed il presente!) del Paese non possano essere assunti da tecnici specializzati “monodimensionalmente” sul versante sanitario: le finora sottovalutate conseguenze psico-sociali della “chiusura” del Paese possono essere infatti più gravi di quelle dell’epidemia sanitaria. Peraltro, se qualcuno si azzarda a mettere in dubbio la santità delle scelte del Comitato “fatte proprie” dal Governo, corre il rischio di essere accusato di disfattismo e ribellismo se non di anarchismo, di remare contro il Bene della Nazione e di voler irresponsabilmente sabotare il lockdown… È innegabile il diritto di conoscere esattamente “cosa” questo benedetto “Comitato Tecnico Scientifico” suggerisce al Presidente del Consiglio ed al Ministro della Salute. I verbali delle riunioni del Comitato non sono però pubblici, e non vi è trasparenza nemmeno sulla composizione esatta dell’organo consultivo che dipende dalla Presidenza del Consiglio. Il Comitato è stato istituito con un decreto firmato da Borrelli il 5 febbraio, ma deve essere stato integrato in itinere, senza che vi sia alcuna pubblica evidenza. Sono peraltro emerse varie indiscrezioni sulla “asintonia” di alcuni pareri del Comitato e le correlate decisioni del Governo: basti ricordare che il professor Walter Ricciardi, consulente del Ministro Roberto Speranza, ha proposto una “chiusura totale” ma della Lombardia soltanto, e molti giorni prima della decisione poi assunta dal Governo per l’intero territorio nazionale. Mercoledì 8, Giuseppe Conte, in un’intervista ai media vaticani, ha sostenuto: “abbiamo preso decisioni difficili sulla base delle indicazioni del comitato tecnico-scientifico… Ogni decisione è stata presa in scienza e coscienza”. Citazione del giuramento di Ippocrate a parte, si tratta di decisioni la cui gestazione “tecnica” (tecnocratica?!) permane in verità avvolta nel mistero. Martedì 7, si è tenuta una riunione tra il premier, una pluralità di ministri ed i rappresentanti dell’ormai mitico Comitato. Cosa si saranno detti in due ore di videoconferenza, esperti e politici? Non è dato sapere. Non è stato diramato nemmeno un comunicato stampa. Top secret. Le sempre anonime “fonti governative” riferiscono però che il Presidente del Consiglio avrebbe chiesto al Comitato di elaborare un “programma della fase 2” - e questo è ovvio - ma coinvolgendo anche esperti come “sociologi, psicologi, statistici”, e finanche “esperti di modelli organizzativi del lavoro”. Questo coinvolgimento di “sociologi, psicologi, statistici” corrisponde esattamente (proprio nella stessa sequenza terminologica) a quel che chi redige quest’articolo ha proposto a Borrelli il 3 aprile. Che sia dipeso da una tardiva illuminazione del premier o dal recepimento di un suggerimento di buon senso, non si può che essere lieti di questa decisione. Se gli esperti in “psicologia” e “sociologia” sono indispensabili per affrontare le dimensioni (enormi) delle conseguenze dei draconiani provvedimenti del Governo, l’esperto in “statistica” è altrettanto importante, perché, nella produzione dei numeri della Protezione Civile, il “dataset” che viene proposto quotidianamente appare deficitario. Basti ricordare che non ci sono dati sui contagi e decessi nelle residenze assistenziali per anziani (rsa), nelle case per anziani, e nemmeno sul numero dei deceduti presso la propria abitazione… Ci si augura che questo novello mix tra saperi, questa dialettica non più monodimensionale (l’emergenza sanitaria) possa stimolare un dibattito scientifico e tecnico, e quindi culturale e politico, più plurale, interdisciplinare e finalmente transdisciplinare. Un approccio in fondo… olistico. Alla drammatica emergenza specificamente “sanitaria”, si affianca una non meno grave e profonda emergenza “psico-sociale” (qui accantonando quella economica). E la salute psico-sociale dell’intera popolazione deve essere presa in considerazione con la stessa attenzione, cura, prudenza, tecnicalità, che il Governo dichiara star dedicando all’emergenza specificamente sanitaria. Trasparenza inclusa. La tentazione del Governo: regolarizzare l’esercito di lavoratori stranieri invisibili di Vladimiro Polchi La Repubblica, 12 aprile 2020 Un esercito di persone che aumenta, sfugge alle statistiche, alla sanità, ai contributi pubblici, rischia la fame, abbandona i campi e mette in crisi la filiera agroalimentare. C’è un esercito invisibile, che ingrossa ogni anno le sue fila. Oltre mezzo milione di lavoratori fantasma che, in piena emergenza coronavirus, sfugge a ogni statistica, controllo sanitario, contributo pubblico. Un popolo che rischia di fare la fame, abbandonare i campi e le serre dove lavora, e finire tra le mani della criminalità. Sono gli immigrati irregolari. Gli ultimi degli ultimi. Per questo, in epoca Covid-19, da più parti - associazioni, sindacati, pezzi di governo - si chiede di avviare una grande regolarizzazione. Anche perché si tratta di un esercito essenziale alla nostra economia - dall’agricoltura con i raccolti sempre più a rischio, al lavoro domestico - e alla futura ripartenza del Paese. L’appello del terzo settore. La stima sul territorio italiano, di cui dispone la fondazione Ismu, parla di 533mila irregolari al 1° gennaio 2018. A loro si rivolgono le associazioni della campagna “Ero straniero” (dall’Arci a Legambiente, dall’Asgi alle Acli, dai Radicali italiani al Centro Astalli), chiedendo “un provvedimento straordinario di regolarizzazione per i cittadini stranieri non comunitari già presenti in Italia, con il rilascio di un permesso di soggiorno a fronte della stipula di un contratto di lavoro. Vista infatti l’impossibilità di raggiungere l’Italia per decine di migliaia di lavoratori stagionali, il rischio è lo stop del settore agricolo e di conseguenza della fornitura di generi alimentari nei negozi e supermercati”. La richiesta dei sindacati. Di regolarizzare i lavoratori invisibili parlano anche i sindacati. “È urgente regolarizzare i migranti in attesa del permesso di soggiorno - afferma il segretario confederale della Cgil, Giuseppe Massafra - affinché anche loro possano accedere ai sostegni previsti per far fronte all’emergenza Covid-19”. Un provvedimento contro il lavoro nero, insomma, sarebbe urgente anche per ridurre il rischio di esposizione al contagio e garantire l’accesso alle tutele sociali previste dal governo. “Mai come oggi - sostiene Massafra - un provvedimento di emersione dall’irregolarità rappresenterebbe un vantaggio economico e sociale per tutta la collettività”. La “tentazione” del Governo. A livello governativo il 15 gennaio scorso, prima dell’esplodere dell’emergenza coronavirus, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha dichiarato che il governo potrebbe considerare l’opportunità di un provvedimento che, in presenza di un contratto di lavoro, permetta la regolarizzazione dei migranti irregolari. Ma allo stato non c’è ancora nulla. Più recentemente altri si sono però espressi in tal senso. Alcune aperture sono arrivate da parte della ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, e del sottosegretario Di Piazza. “C’è un grido d’allarme a cui non possiamo non dare una risposta immediata e risolutiva. L’allarme della filiera agroalimentare. È un grido d’allarme che arriva dalla filiera agroalimentare, settore produttivo strategico per il nostro Paese, che oggi ha difficoltà a trovare la manodopera necessaria per garantire i prodotti alimentari necessari al fabbisogno degli italiani - sostiene il sottosegretario alle Politiche sociali e al Lavoro, Steni Di Piazza - per questo bisogna provvedere, in tempi rapidissimi, a regolarizzare quelle centinaia di migliaia di cittadini stranieri, presenti nel nostro territorio, disponibili a rispondere subito a quelle offerte di lavoro in quei settori in cui abbiamo carenza di mano d’opera”. Migranti. Il Papa scrive a Mediterranea: grazie per quello che fate di Luca Kocci Il Manifesto, 12 aprile 2020 Il pontefice risponde a una lettera di Luca Casarini, capomissione della ong dei centri sociali. Che replica: sono commosso e affascinato. “Luca, caro fratello, sono vicino a te e ai tuoi compagni. Grazie per tutto quello che fate”. Sono le parole che papa Francesco ha scritto di suo pugno e inviato a Luca Casarini, già leader delle Tute bianche e dei Disobbedienti, oggi capomissione di Mediterranea, la piattaforma di realtà della società civile che, attraverso la nave “Mare Jonio”, soccorre i migranti nel mar Mediterraneo. Giovedì scorso lo stesso Casarini aveva scritto una lunga lettera al pontefice. “Era una lettera molto personale, volevo ringraziarlo perché la sua preghiera solitaria in mezzo a piazza San Pietro vuota ha smosso in me diverse riflessioni”, spiega Casarini al manifesto. “In particolare quelle parole “nessuno si salva da solo”, che è anche uno degli slogan di Mediterranea quando ci troviamo in mezzo al mare. Non immaginavo che mi rispondesse. Penso di essere stato un tramite, credo che volesse dare un segnale a Mediterranea e a tutti quelli che soccorrono i migranti in mare. Alcuni compagni e compagne storcono il naso perché c’è di mezzo la Chiesa. Ma io sono affascinato dalla figura rivoluzionaria, umanissima e trascendente, di Gesù. Mi pare che Bergoglio voglia ricordarci questo, e non sempre nella Chiesa è stato così”. Ieri è arrivata la breve risposta di Francesco: “Luca, caro fratello, grazie tante per la tua lettera. Grazie per la pietà umana che hai davanti a tanti dolori. Grazie per la tua testimonianza, che a me fa tanto bene. Sono vicino a te a ai tuoi compagni. Grazie per tutto quello che fate. Vorrei dirvi che sono a disposizione per dare una mano sempre. Contate su di me”. Non è la prima volta che il pontefice ha dei contatti con Mediterranea che, pur essendo un’organizzazione laica, è sostenuta anche da parrocchie e comunità di base. Nel luglio dello scorso anno, alla messa in Vaticano per ricordare il sesto anniversario del suo viaggio a Lampedusa - il primo viaggio di Francesco da poco eletto papa - c’era anche una delegazione dell’organizzazione umanitaria, con don Mattia Ferrari, il viceparroco di Nonantola (Mo) che ha partecipato ad alcune missioni della “Mare Ionio”. E a dicembre, incontrando in Vaticano 33 profughi arrivati da Lesbo attraverso un corridoio umanitario e accolti dalla Santa sede in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, Bergoglio ha fatto installare davanti al Palazzo apostolico una croce che “indossa” un giubbotto di salvataggio di un naufrago, recuperato in mare e donato al papa proprio da Mediterranea. “Sono grato a Francesco perché ci sostiene - prosegue Casarini -. Ed è scomodo mettersi dalla parte dei migranti. Attraverso i migranti, che non sono persone che stanno ai margini ma alla frontiera, e sono sempre in procinto di essere respinti e riportati indietro, noi vediamo l’umano. Attraverso la loro storia, la loro sofferenza, i loro desideri e i loro sogni, noi vediamo la vera potenza dell’umano, che non è quella dei banchieri, ma di chi si mette in viaggio e affronta il deserto e il mare. Oggi, con la pandemia, ci troviamo in un territorio incerto, che apre tutte le possibilità, positive e negative: non è scontato quello che accadrà, non è scontata la risposta che diamo o l’idea che abbiamo del mondo che verrà”. Se la “Mare Jonio” è ancorata a Licata in attesa di poter ripartire quando cesserà il lockdown, c’è un’altra nave, la “Alan Kurdi”, della ong tedesca Sea-Eye, che vaga nel Mediterraneo con 149 naufraghi a bordo e punta verso la Sicilia, dove le è stato vietato l’attracco perché, a causa dell’epidemia di Covid-19, i porti italiani, per decreto del governo, non sono più “porti sicuri”. “Rimango sbigottito da tale decisione”, dice il missionario comboniano Alex Zanotelli. “È criminale rifiutarsi di accogliere rifugiati che fuggono dalla Libia dove sono imprigionati in lager e torturati. Hanno diritto di essere accolti come rifugiati. Questo decreto è contro le leggi e le convenzioni internazionali. Siamo tornati alla politica di Salvini? È questa la nostra umanità? È possibile che il coronavirus non ci abbia insegnato che siamo sulla stessa barca?”. Intanto, dal Vaticano, arriva un’altra notizia. L’elemosiniere pontificio cardinale Konrad Krajewski, quello che riattaccò “abusivamente” l’energia elettrica allo Spin Time occupato di Roma, ha inviato un bonifico di ventimila euro a don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro (Pt) che accoglie in chiesa oltre duecento giovani migranti africani, in passato pesantemente attaccato da Salvini e dai fascisti di Forza Nuova. Qualche settimana fa il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi (Fratelli d’Italia) aveva minacciato di “svuotare Vicofaro” per prevenire la diffusione del coronavirus a Pistoia. Quanti positivi ci sono fra i migranti di Vicofaro? Zero. Chi raccoglierà la frutta di Saluzzo? di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 12 aprile 2020 Migranti, braccianti “storici” e italiani neo disoccupati in competizione dopo il crack da Coronavirus. “La precarietà del lavoro stagionale esige un sistema di collocamento”. “Dobbiamo cogliere l’opportunità per trovare soluzioni ad antichi problemi”. C’è stato un momento in cui nel mondo dell’agricoltura il sistema è crollato sotto la spinta del panico: pochi giorni, quando la pandemia del Coronavirus imperversava. Ma facciamo un passo indietro, partiamo dal tempo in cui si prospettava la stagione più ricca di sempre. Era febbraio, gli alberi in fiore celebravano l’inverno più mite della storia recente. Saluzzo, cittadina del cuneese posta al centro del più grande frutteto d’Italia, guardava con ansia il meteo, incredula di fronte a tanta manna. Intorno al Pas, il centro di accoglienza per i braccianti che non trovano ospitalità nelle cascine - la legislazione non prevede obblighi in tal senso per gli imprenditori - in quei giorni il Comune organizzava la terza stagione, gettando le fondamenta dei nuovi bagni più confortevoli. I sommersi dei decreti sicurezza nel 2019 si sono riversati nelle campagne del saluzzese per unirsi ai braccianti storici: è il popolo delle biciclette che vaga di cascina in cascina alle cinque del mattino e chiede “Capo, mi fai lavorare?”. In un recente convegno l’Osservatorio regionale Piemonte portava dati interessanti: nel 2018 i contratti registrati furono 12063, 18496 nel 2019, mentre i contratti degli africani sono cresciuti da 4697 a 6797. Dieci anni fa in migliaia dormivano per strada. La chiave di volta dell’emersione della legalità ruotava intorno alla caserma trasformata in dormitorio rifugio nella quale senza contratto, cioè l’unica cosa che interessa ai braccianti africani, non si entrava, e quindi o si rimaneva per strada a bivaccare - ma si veniva immediatamente presi dalle forze dell’ordine - oppure si premeva sull’imprenditore che ha bisogno di braccia e si otteneva il contratto. Il quale, ovviamente, non significava “legalità” tout court, perché zone d’ombra che prendono il nome di contributi e straordinari non retribuiti erano ben presenti. Intorno a quel rifugio posto ai margini della cittadina una feroce lotta politica non si è mai arrestata tra chi voleva chiuderlo, perché simbolo di “degrado”, la Lega e la destra estrema, e chi voleva implementarlo e migliorarlo: il Comune di Saluzzo, i sindacati, la Caritas, Coldiretti, nonché gli enti finanziatori, prevalentemente fondazioni bancarie. Di quel tempo e quegli scontri, dei nuovi bagni in muratura, degli sforzi e degli errori non rimane nulla, spazzato via dall’epidemia. E le divisioni di allora appaiono piccola cosa di fronte alle divisioni di domani. Impossibile per ovvie ragioni la riapertura del Pas, prevista per fine maggio. I flussi esterni, che coprono appena il 5% del fabbisogno nazionale oggi sono un enigma: cosa sarà di coloro che già stanno telefonando ai proprietari delle aziende per chiedere un contratto e aspettano la riapertura dei collegamenti per correre a recuperare il loro lavoro? Sul cammino degli africani in bicicletta che chiedono il lavoro presto giungerà una “competizione” tra ultimi e penultimi; fuggiti polacchi e rumeni, in attesa di un decreto flussi che ne riporti migliaia in Italia - a Saluzzo, ma vale per tutta Italia - gli imprenditori agricoli ricevono centinaia di domande di lavoro al giorno da parte degli stagionali del turismo, italiani, che si pongono così sullo stesso percorso dei braccianti africani. “Lavoravo come cameriere stagionale, mi può prendere come bracciante della frutta?”: questo il tenore dei messaggi. Il sindaco di Saluzzo, Mauro Calderoni, prova a tracciare un percorso politico per salvare la situazione: “Questo è il momento per riconoscere la particolarità del lavoro stagionale la cui estrema precarietà non può prescindere da un sistema di collocamento nazionale obbligatorio. E poi affrontare il tema dell’ospitalità diffusa per queste forme contrattuali super-temporali e quindi fragili”. La linea del Piave ha un valore unico dato dal contratto collettivo: 6,67 euro lordi all’ora. Sotto non si scende, ma sopra, e di quanto, si potrà salire? Un vasto mondo, non solo imprenditoriale, quando tutto sembrava perduto, tra la metà e la fine di marzo quindi, ipotizzava paghe fino a 15 euro all’ora pur di recuperare lavoratori disposti ad andare nei campi dai territori adiacenti. Voci in libertà che rientreranno di fronte all’ondata di nuovi italiani poveri in competizione con flussi interni ed esterni, nonché all’avanzare dei voucher in agricoltura? Il terzo scenario, fanta-economico, lo racconta un imprenditore che chiede l’anonimato: “La grande distribuzione tedesca rischia di perdere il suo dominio perché il prezzo ora è fatto dal timore che i loro scaffali possano rimanere vuoti”. Virginia Sabbatini, coordinatrice dell’équipe del presidio Saluzzo Migrante per la Caritas, analizza così la situazione: “Siamo pronti a supportare chiunque verrà a lavorare qui. Ma questa situazione ci porta l’opportunità di trovare una soluzione a problemi ancora irrisolti sulla tutela delle situazioni più fragili. Una maggiore accoglienza in cascina, idea che apprezziamo per lo spirito, da sola non è la soluzione a tutte le problematiche che oggi comporta il lavoro agricolo stagionale. La difficoltà del reperimento di spazi adeguati e di garantire dispositivi di sicurezza sono difficoltà oggettive. Auspichiamo una stretta osservanza dei contratti di lavoro, che non si interrompa del tutto l’accoglienza diffusa sul territorio coordinata da enti pubblici e sociali, nonché la centralizzazione tra domanda e offerta di lavoro gestita tramite i Centri per l’Impiego”. Michele Ponso è il presidente della omonima Cooperativa: “Dovremo alloggiare in azienda i lavoratori, correndo rischi: un solo contagio porterebbe alla sospensione della produzione. Ci dovrà essere una soluzione territoriale diffusa su tutti i comuni della zona. Ed è necessario un aumento delle retribuzioni attraverso la defiscalizzazione, proprio per premiare chiunque verrà a lavorare nei campi. Come imprenditori ci troviamo davanti a dilemmi pesanti, su chi scegliere: in questi giorni sto ricevendo telefonate da italiani che hanno perso il lavoro, e di africani che da me hanno lavorato per anni, tornati a casa o trasferitisi per altre raccolte. Storie di uomini, qualunque colore della pelle abbiano, dietro cui ci sono famiglie, figli, vecchi”. Russia. Rivolta con vittime in un carcere della Siberia di Giuseppe Agliastro La Stampa, 12 aprile 2020 Si è conclusa con una tragedia la rivolta scoppiata giovedì sera in un penitenziario della Siberia, forse scatenata dalle violenze di un ufficiale su un carcerato. Dopo gli scontri tra guardie e detenuti, un terribile incendio ha devastato alcuni edifici della colonia penale numero 15 di Angarsk, a circa quattromila chilometri da Mosca, e le autorità russe hanno inviato le forze speciali per riprenderne il controllo. Ieri, sedati i disordini e domato l’incendio, nel territorio del carcere è stato scoperto il corpo senza vita di un detenuto. “È stata una morte violenta”, ha spiegato il commissario per i diritti umani Viktor Ignatenko. Non è chiaro se ci siano o meno altre vittime e quanti siano i feriti. “I carcerati dicono che ci sono dei cadaveri”, ha affermato l’attivista per la difesa dei diritti umani Pavel Glushenko in un video. Secondo il servizio penitenziario russo, “uno dei carcerati non ha obbedito agli ordini delle guardie e ha cominciato a imprecare. Contemporaneamente, altri detenuti si sono inflitti delle ferite”. I carcerati avrebbero rotto le telecamere di sorveglianza delle loro celle e si sarebbero tagliati le vene con le schegge di vetro, poi avrebbero aggredito un funzionario di polizia penitenziaria, finito in ospedale. Una fonte interpellata dall’agenzia giornalistica russa Interfax sostiene che alcuni detenuti hanno inscenato dei tentativi di suicidio e quando sono stati soccorsi hanno assalito gli agenti dando inizio alla rivolta. I difensori dei diritti umani sottolineano però un aspetto ignorato dalle autorità e danno una versione diversa dell’accaduto: a scatenare la rabbia dei detenuti sarebbero state le percosse inflitte a uno di loro da un funzionario di polizia. L’attivista Pavel Glushenko racconta alla testata online Meduza che, dopo essere stato picchiato, l’uomo si è tagliato le vene per protesta e ha registrato un video in cui chiedeva di mettere fine ai soprusi delle guardie. Gli agenti avrebbero però reagito picchiandolo una seconda volta. A quel punto altri 17 carcerati si sarebbero tagliati le vene e avrebbero sfruttato la confusione per uscire dalle celle e far scoppiare la sommossa. Sarebbero stati loro a incendiare poi le aree di lavoro del penitenziario. Nelle carceri russe si registrano spesso abusi e torture contro i detenuti. Due anni fa provocò un’ondata di indignazione un video in cui un gruppo di guardie in uniforme picchiavano un carcerato ammanettato a un tavolo. Iran. Amnesty denuncia: “36 detenuti uccisi dalle forze di sicurezza nelle carceri” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 aprile 2020 Almeno 36 detenuti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza all’interno delle carceri iraniane. Lo ha denunciato, ieri, Amnesty International. Migliaia di prigionieri, infatti, avevano organizzato proteste in almeno otto carceri del paese per il timore che potessero contrarre il virus Covid-19. Secondo fonti giudicate credibili dall’Ong, il 30 e il 31 marzo le forze di sicurezza hanno reagito usando gas lacrimogeni e proiettili veri, uccidendo in questo modo 35 detenuti e ferendone altre centinaia. In una prigione, un altro detenuto sarebbe morto dopo essere stato picchiato. “Invece di occuparsi delle legittime richieste dei detenuti di essere protetti dalla pandemia, le autorità iraniane hanno ancora una volta ucciso persone per ridurre al silenzio le loro proteste. Ora più che mai è necessaria un’indagine indipendente per portare di fronte alla giustizia i responsabili”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Amnesty International chiede da tempo alle autorità iraniane a mettere immediatamente in libertà e senza condizioni tutti i prigionieri detenuti solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti. “Nonostante alcuni iniziali rilasci, centinaia di prigionieri di coscienza restano ancora in prigione. Le autorità di Teheran dovrebbero prendere in considerazione anche il rilascio dei prigionieri in attesa di giudizio e di quelli che, a causa delle loro condizioni di salute, potrebbero essere più esposti al rischio di contagio”, afferma l’organizzazione. Il caso Djalali - Resta in Iran, condannato a morte, anche Ahmadreza Djalali, il ricercatore universitario esperto di Medicina dei disastri, collaboratore dell’Università del Piemonte Orientale., che è stato condannato in via definitiva a morte da un tribunale iraniano con l’accusa di “spionaggio”. Djalali è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta. Le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava” di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi. L’origine e la repressione delle proteste - Amnesty ricorda che nelle scorse settimane molti detenuti e i loro familiari hanno denunciato che le autorità iraniane non stavano prendendo misure sufficienti per proteggere la popolazione carceraria dalla pandemia da Covid-19. Organi di stampa indipendenti e organizzazioni per i diritti umani hanno segnalato diversi casi di positività al tampone. Di conseguenza, molti prigionieri hanno iniziato scioperi della fame per chiedere rilasci, tamponi, fornitura di prodotti per la sanificazione degli ambienti e la messa in isolamento dei detenuti con sospetto contagio. “Il 30 e il 31 marzo le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i detenuti che protestavano nelle prigioni di Sepidar e Sheiban, situate nella città di Ahvaz, provincia del Khuzestan. Il capo della polizia della provincia ha ammesso che le Guardie rivoluzionarie e i paramilitari basiji hanno represso le proteste subito dopo che i detenuti avevano dato alle fiamme dei contenitori per la spazzatura. In numerosi video girati dentro e fuori dalle due prigioni si vede il fumo uscire dagli edifici e si sentono urla e colpi d’arma da fuoco. Secondo familiari dei detenuti, giornalisti ed attivisti per i diritti umani della comunità degli arabi ahvazi, l’uso dei gas lacrimogeni e dei proiettili veri nella prigione di Sepidar ha causato almeno 15 morti”. “Nella prigione di Sheiban, dove i detenuti uccisi sarebbero una ventina, quelli che avevano preso parte alla protesta sono stati denudati e picchiati nel cortile interno. Alcuni prigionieri, tra cui l’attivista per i diritti della minoranza ahvazi Mohammad Ali Amouri, sono stati trasferiti dal carcere di Sheiban verso destinazioni sconosciute” ha spiegato l’Ong. Amnesty International teme che possano essere sottoposti a torture - “Un altro prigioniero morto in circostanze da chiarire si chiamava Danial Zeinolabedini. Condannato alla pena capitale per un reato commesso da minorenne, era nel braccio della morte del carcere di Mahabad, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale. Dopo aver preso parte alle proteste, il 30 marzo è stato trasferito nel carcere di Mianboad, nella stessa provincia. Il giorno dopo ha telefonato disperato ai suoi familiari, denunciando di essere stato sottoposto a un pestaggio e chiedendo aiuto. Il 3 aprile le autorità hanno avvertito i suoi familiari che il detenuto si era suicidato e hanno ordinato di andare a ritirare la sua salma” ha dichiarato Amnesty. Dopo aver visionato una fotografia del corpo, pieno di ematomi e ferite da coltello, Amnesty International ha concluso che si trattasse di segni compatibili con un caso di tortura. Yemen. Tribunale Houthi condanna a morte 4 giornalisti a Sana’a agenzianova.com, 12 aprile 2020 Il tribunale dei ribelli sciiti yemeniti Houthi ha condannato oggi a morte 4 giornalisti della capitale, Sana’a. Lo ha annunciato uno degli avvocati dei cronisti da 5 anni nelle carceri della formazione armata filo-iraniana, Abdel Majid Sabro, all’agenzia di stampa locale “Mareb Press”. Il tribunale, presieduto dal giudice Mohammed Moflah, legato al gruppo Houthi, ha tenuto oggi una seduta in assenza degli imputati e dei legali ed ha emesso una sentenza di condanna a morte nei confronti dei cronisti Abdel Khaleq Ahmed Omran, Akram al Walid, Hareth Hamid e Tawfiq al Mansuri. Sono stati condannati invece a tre anni di carcere i giornalisti Hisham Tarmum, Hisham al Yousefi, Haitham Rawah, Isam Belaghit, Hasan Anab e Salah al Qaidi. Questi 10 giornalisti sono stati catturati dai ribelli Houthi nel giugno del 2015 dopo che avevano cercato rifugio in un hotel della capitale yemenita, nel tentativo di fuggire dopo il golpe del gruppo sciita che dava la caccia ai suoi oppositori. La sentenza emessa oggi dal tribunale degli Houthi, non riconosciuto dalla Corte centrale che ha spostato momentaneamente la sua sede ad Aden, è stata condannata dal governo legittimo yemenita del presidente Abdel Rabbo Mansur Hadi.