Coronavirus e carcere: servono case per i detenuti che possono uscire Redattore Sociale, 11 aprile 2020 L’Area penale esterna chiama a raccolta il terzo settore con un bando per individuare gli enti pubblici e privati pronti ad accogliere i ristretti. 450 mila euro i fondi stanziati che si aggiungono ai 5 milioni arrivati da Cassa Ammende. Prima i 5 milioni di euro stanziati dal consiglio di amministrazione di Cassa Ammende, ora i 450 mila euro che arrivano dall’Area penale esterna del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (Dgcm). Si rafforza la prima linea delle istituzioni impegnate a fronteggiare l’emergenza coronavirus nelle carceri facilitando l’accesso alle misure alternative per i detenuti che hanno i requisiti per uscire ma non possono farlo per mancanza di un domicilio idoneo. Affiancandosi al progetto lanciato qualche giorno fa da Cassa Ammende, il sistema dell’esecuzione penale esterna chiama a raccolta tutto il mondo del terzo settore e del privato sociale attraverso un bando pubblico rivolto alle comunità di accoglienza e alle case famiglia. In quest’ottica, i Direttori degli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uiepe) hanno indetto sul territorio di competenza una istruttoria pubblica di coprogettazione per individuare gli enti disponibili all’accoglienza dei detenuti con poche risorse ma in possesso dei requisiti per l’accesso alle misure deflattive: per favorirne il graduale reinserimento all’interno del tessuto sociale attraverso azioni concrete e mirate che, oltre a contrastare il rischio della recidiva, rafforzino la sicurezza sociale e contribuiscano alla prevenzione del contagio da coronavirus nelle carceri. “Il bando - spiega una nota dal Dipartimento - è stato realizzato in condivisione tra la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento e la Direzione generale detenuti e trattamento del Dap, in linea con quanto già avviato con la Cassa delle Ammende e le Regioni e in raccordo con gli interventi di inclusione sociale già programmati e da realizzare nell’esercizio finanziario corrente. Lo scopo è l’avvio di un lavoro corale volto a costruire una rete di interventi, tra gli Uffici Interdistrettuali di esecuzione penale esterna, i Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria e tutte le agenzie pubbliche e private implicate nel reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale, attraverso lo strumento della coprogettazione”. Agli enti o alle associazioni che vinceranno il bando, gli Uffici interdistrettuali corrisponderanno un contributo finanziario di venti euro giornalieri (circa 600 euro al mese) per ciascuna persona accolta “fino alla concorrenza del finanziamento, concorrente con quello, più cospicuo, erogato da Cassa Ammende, per l’identico importo”. “Rispetto all’intervento di Cassa Ammende - spiega Lucia Castellano, direttore generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dgmc - si tratta di un contributo diverso ma per un progetto che ha le stesse finalità. Lo stanziamento è diverso nell’ammontare delle risorse stanziate e nei responsabili: gli Uepe per noi e le Regioni per il progetto di Cassa Ammende. Sarà interessante verificare l’andamento in corso d’opera, la rete è la stessa e con questo contributo diamo ulteriore energia per farla funzionare”. La somma stanziata da Cassa Ammende favorisce il passaggio alle misure non detentive sia per i detenuti che hanno i requisiti giuridici per accedervi, sia per chi si trova in condizioni di incompatibilità con il regime carcerario per motivi sanitari. Gli interventi si concentrano sulla ricerca di alloggi pubblici o privati di cura, di assistenza o accoglienza delle persone in stato di detenzione o sottoposte a provvedimenti giudiziari che limitano la libertà personale e riguardano in particolare i detenuti maggiorenni privi di risorse economiche e comunque in stato di difficoltà per l’indisponibilità di un alloggio o senza prospettive di attività lavorativa. Esecuzione penale esterna, interventi di supporto all’inclusione dei detenuti di Raul Leoni gnewsonline.it, 11 aprile 2020 Ricognizione degli enti disponibili all’accoglienza dei detenuti con poche risorse, ma in possesso dei requisiti per l’accesso alle misure deflattive previste dalle regole di contenimento del contagio da Covid-19: questo l’obiettivo che stanno attualmente perseguendo sul territorio nazionale gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna. Il progetto, che tende a favorire il graduale reinserimento sociale dei soggetti interessati e a prevenire il rischio di recidiva, viene realizzato in sinergia tra la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Gli interventi di supporto sono in continuità con il contributo finanziario deliberato dalla Cassa delle Ammende e con la partecipazione delle Regioni, nel comune obiettivo della realizzazione di misure di supporto abitativo e di sostegno all’inclusione nel tessuto sociale per i detenuti privi di risorse economiche e affettive. Alle associazioni e agli enti individuati come idonei all’esito dell’istruttoria, gli Uffici Interdistrettuali corrisponderanno un contributo economico di 20 euro giornalieri per ciascuna persona accolta, fino alla concorrenza con quello erogato dalla Cassa delle Ammende. Da Verona a Rebibbia aumentano i focolai di Covid-19. E c’è un altro morto a Voghera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2020 La seconda vittima era in attesa di giudizio. Anche a Santa Maria Capua Vetere è stata ufficializzata la positività di altri 3 reclusi. Aumentano in maniera esponenziale i numeri dei contagiati da Covid 19 in carcere. Nella giornata di ieri è giunta notizia che vi sarebbero circa trenta detenuti e circa venti appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria risultati positivi al tampone. La notizia del focolaio è stata confermata da Gennarino De Fazio, il leader della Uilpa polizia penitenziaria, raggiunto da Il Dubbio. Ma non solo, il rappresentante sindacale denuncia che, sempre in relazione al penitenziario veronese, è stato riferito nelle scorse settimane dell’emanazione di inviti - verbali, ma in occasioni formali quali le conferenze di servizio - rivolti dalla Direzione al personale con l’intento di dissuadere dall’utilizzo delle mascherine. Come se non bastasse, il sindacalista ha appreso che nei giorni passati i detenuti “nuovi giunti” sarebbero stati sottoposti a triage e tenuti in osservazione per soli tre giorni, a seguito dei quali in assenza di sintomatologia specifica sarebbero stati associati ai reparti detentivi in comune senza particolari, ulteriori, precauzioni. Di tutto questo Gennarino De Fazio ne chiede contezza, con una nota urgente indirizzata al Dap, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al ministro della Salute Roberto Speranza e ovviamente alla direzione del carcere veronese. Non solo ha chiesto di sapere l’esatto numero dei contagiati, ma anche quale protocollo operativo e sanitario si sta adottando e si intende attuare anche per salvaguardare compiutamente dai rischi di contagio il personale dipendente e, soprattutto, quello del Corpo di polizia penitenziaria impiegato nella sezione detentiva nella quale sarebbero allocati i circa trenta detenuti affetti da Covid-19. A questo si aggiunge la notizia data dal garante regionale della Campania Samuele Ciambriello sulla situazione dei contagi al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo il caso del detenuto risultato contagiato da Covid19 sabato scorso, è stata ufficializzata la positività di altri tre reclusi del penitenziario casertano. “Tutti i detenuti dell’intera sezione di oltre 130 persone, compresi i tre positivi presenti nel carcere, non presentano alcun sintomo di malattia, non necessitano di alcuna terapia e sono monitorati dai sanitari - hanno scritto Ciambriello e il provveditore regionale Antonio Fullone in una nota congiunta - Abbiamo potuto rilevare come tutti i detenuti presenti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere siano attentamente valutati e seguiti sin dall’inizio dell’emergenza e ringraziamo il personale sanitario, ai vari livelli, che è intervenuto in questi giorni con immediatezza e professionalità. A partire dalla notizia del primo caso positivo, nella notte di sabato, sono stati effettuati 200 test sierologici rapidi domenica e 200 tamponi naso- faringei lunedì, per tutti i detenuti della stessa sezione e per tutto il personale, sanitario e penitenziario, che vi lavora”. Sempre per quanto riguarda il carcere sammaritano, il Garante Ciambriello ha chiesto un intervento della Procura dopo che ha raccolto varie testimonianze di diversi familiari circa presunti pestaggi avvenuti nei confronti dei detenuti reclusi nella sezione Nilo. Pestaggi che si sarebbero verificati dopo una violenta rivolta scoppiata quando è stato confermato il primo caso di Covid 19 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Scatta l’allerta focolaio anche al carcere romano di Rebibbia. È risultata positiva al tampone una detenuta di 35 anni. Era in carcere da pochi giorni, è finita in infermeria per dei problemi dovuti a una patologia, ma poi è stata trasferita allo Spallanzani perché aveva febbre alta e affanno. Il tampone poi ha dato esito positivo. Lo Spallanzani ha chiesto alla direzione del penitenziario la sanificazione dell’infermeria e la quarantena per le altre 25 detenute che si trovavano nel presidio sanitario. A tutto ciò si aggiunge il secondo detenuto morto per coronavirus. Dopo Vincenzo Sucato, recluso a Bologna, è stata la volta di Antonio Ribecco, recluso in attesa di giudizio a Voghera. Era da ormai due settimane all’ospedale perché il virus ha aggravato il suo stato di salute. Alla fine non ce l’ha fatta. Nel frattempo, come anticipato in esclusiva da Il Dubbio, per la prima volta il governo italiano dovrà rendere conto - entro le 10 di martedì prossimo - alla Corte europea di Strasburgo della gestione dell’emergenza Covid 19 nelle carceri. La questione è seria, i numeri del contagio all’interno degli istituti penitenziari sono in continua ascesa. Se dovessero essere confermati i contagi nel carcere di Verona, i numeri dei positivi ospitati nelle nostre sovraffollate patrie galere risulterebbero raddoppiati nel giro di un solo giorno. Coronavirus. Morto secondo recluso e prima vittima tra gli internati Il Riformista, 11 aprile 2020 Si tratta di un detenuto del carcere di Voghera e un ristretto nella Rems di S. Maurizio Canavese, ricoverati in ospedale. Seconda vittima del Covid-19 tra i detenuti. È accaduto a Voghera, in Lombardia: l’uomo è morto in ospedale, dove era ricoverato da settimane e sottoposto alla detenzione domiciliare. arrestato lo scorso 12 dicembre con l’accusa di ingerenze mafiose nelle elezioni amministrative di Perugia del 2014. La prima morte di un detenuto per coronavirus si era verificata la scorsa settimana all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. E sempre nella giornata di ieri si è registrata la prima morte per Covid di un internato in una Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. L’uomo era stato trasferito alcuni giorni fa in ospedale dalla Rems di San Maurizio Canavese, in provincia Torino, dove ci sarebbe anche un secondo caso positivo. A riferirlo al Riformista il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano che commenta: “c’è stata l’illusione che i luoghi chiusi come le carceri, le Rems, le case di riposo fossero più protetti. Finché non diventano trappole”. Drammatica la denuncia del segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo. “Si apprende della morte in ospedale a Voghera del secondo detenuto e nel contempo sale il numero dei positivi al Covid-19 tra poliziotti e detenuti”. “Sono molti gli istituti in Italia che sono oramai in enorme difficoltà per il propagarsi del virus tra i detenuti e i poliziotti”, continua. “Bologna, Verona, Voghera e Pisa sono solo alcune delle carceri in cui i contagi si contano a decine da una parte e dall’altra. Siamo molto preoccupati vista l’incapacità dell’amministrazione penitenziaria e del Ministero della Giustizia di gestire le criticità che ogni giorno si presentano”, conclude Di Giacomo. Una emergenza su cui regna il silenzio. A romperlo sarà ancora una volta il Partito radicale domani con la VI Marcia di Pasqua dalle frequenze di Radio Radicale a partire dalle 11. La Cedu chiama l’Italia a rapporto di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 aprile 2020 Bonafede dovrà rispondere entro martedì. Le domande sono le stesse poste quasi un mese fa dalle Camere Penali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto spiegazioni urgentissime all’Italia sulla condizione dei detenuti. Vuole una risposta chiara e dettagliata entro martedì prossimo. Ha rivolto al governo un bel numero di domande sulle condizioni delle nostre prigioni, sul sovraffollamento, sulle misure che l’Italia ha preso per fronteggiare il virus e sul perché non vengono utilizzati massicciamente i domiciliari. La Cedu si è riunita per rispondere al ricorso urgente di un prigioniero al quale è stata negata la scarcerazione. L’avvocato Caiazza, che è il Presidente della Camere Penali, ha fatto notare che le domande della Cedu sono praticamente identiche alle dieci domande che le Camere Penali hanno rivolto quasi un mese fa al ministro e al governo, ottenendo il silenzio, o al massimo il solito mezzo sorriso abituale del ministro Bonafede davanti alle telecamere. Per l’Italia e per il suo governo è uno schiaffo in pieno viso. Non è bello essere indicati da un organismo serio e solenne quale è la Cedu come violatori di diritti essenziali dell’uomo. Siamo l’Italia, non siamo un Paese disperso del terzo mondo e non siamo un Paese guidato da qualche spietata dittatura. Eppure, sul tema carceri siamo il fanalino di coda della civiltà occidentale. Insieme al Belgio. Come è possibile? È presto detto: nel nostro Paese la ventata populista, che sta accarezzando tutta l’Europa e l’Occidente, ha preso un sapore giustizialista che negli altri Paesi è meno forte. Il populismo nel resto d’Europa, e anche in America, è più un fenomeno simile a tutti i fenomeni classici di radicalizzazione della destra. Ha un aspetto più tradizionale, anti-establishment, anti-sinistra, xenofobo. Ma non trova, in genere, motivazioni particolarmente radicate nel giustizialismo. Il giustizialismo non manca mai, certo, ma è una componente aggiuntiva. Da noi è diverso. Il populismo parte da molto lontano, gode di un sostegno generalizzato dei mass-media, è costruito quasi interamente - in tutte le sue sfaccettature - sull’idea del giustizialismo come ideologia di salvazione della società e di contrasto alla modernità e ai suoi peccati. Nasce addirittura 25 anni fa, non oggi, coi movimenti - solo in parte spontanei - a favore dei magistrati milanesi che stavano smantellando la Prima Repubblica e lo spirito della Costituzione; e poi cresce con la Tv di Santoro, con i Girotondi di Flores, con le campagne del Corriere della Sera contro la Casta, col popolo viola, e infine con i 5 Stelle e con la crescita velocissima della Lega di Salvini. Questo giustizialismo - anche così variegato, che va da un pezzo del vecchio Pci fino alla Lega - ha bisogno di simboli. Non gli basta più il ricordo di Mani Pulite. E il simbolo allora diventa il carcere. È il carcere lo strumento principale del giustizialismo, è il carcere il cuore della sua idea, e il carcere deve essere difeso con le unghie e coi denti. Da tutti. Persino dagli amici magistrati, se dissentono. L’Europa, il Papa, il Presidente della Repubblica, l’Onu, e poi gli avvocati, gli operatori del carcere, persino un bel pezzo di magistratura chiedono un intervento di riduzione del numero dei detenuti. Ma c’è il nucleo duro del giustizialismo che regge impavido, e si trascina dietro un bel pezzo di opinione pubblica e del sistema dei mass media. È guidato ormai da due o tre leader riconosciuti: Travaglio, Gratteri, Di Matteo. E non molla neppure un centimetro. Costringendo gli stessi 5 Stelle - che sono al governo e quindi in una posizione delicata - a non cedere, a mantenere il punto. Il Pd gli va dietro. Il fronte giustizialista, anche sul piano della comunicazione, usa tutti i mezzi. Chi vuole decongestionare le carceri, chi considera il sovraffollamento un problema, è evidentemente amico della ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra. Gli avvocati, soprattutto, i radicali, e quei pochissimi e isolatissimi giornalisti che si occupano di questo problema. Chissà se ora useranno lo stesso schema col Papa e con la Cedu. Vaticano uguale mafia, Europa uguale mafia. Non ci sarebbe niente di cui stupirsi. L’Europa vuole sapere da Bonafede come protegge i detenuti dal morbo di Maurizio Tortorella La Verità, 11 aprile 2020 Mancano i braccialetti elettronici, negati i domiciliari a un recluso. Lui ricorre alla Cedu. Dalle carceri arrivano nuovi guai per il governo, e in particolare per il guardasigilli Alfonso Bonafede. Grazie al ricorso di un detenuto vicentino, nei giorni scorsi la Corte europea dei diritti dell’uomo (la Cedu) ha chiesto al ministro della Giustizia di “fornire urgentemente informazioni e chiarimenti” sulle “misure preventive specifiche” adottate per proteggere “il richiedente e tutti gli altri detenuti dal pericolo di contagio di Covid-19”. Per la risposta, la Cedu ha concesso sette giorni al nostro governo: Bonafede, insomma, dovrà farlo tassativamente entro le io di martedì 14 aprile. E non potrà sottrarsi, perché il suo silenzio ammetterebbe che i diritti umani dei detenuti italiani subiscono una grave violazione. È questo il primo risultato ottenuto dagli avvocati Roberto Ghini di Modena e Pina Di Credico di Reggio Emilia. I due sono i difensori di B.M., un condannato per reati di droga che ha ancora 16 mesi da scontare e oggi è recluso a Vicenza. B. M. dovrebbe essere fra i 12.000 condannati per reati di non particolare gravità, e la cui pena residua è inferiore ai 18 mesi, che il decreto Cura Italia del 17marzo ha stabilito possano lasciare la prigione per andare agli arresti domiciliari. La norma punta a ridurre il sovraffollamento nelle prigioni e soprattutto a evitare che il contagio vi si diffonda. Il terrore del coronavirus, ai primi di marzo, aveva già scatenato rivolte in una ventina di istituti. Secondo il ministero, i reclusi al 6 aprile erano 57.137: diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare. Tra loro il Covid-19 ha finora fatto una vittima, a Bologna, e i contagiati sono almeno una quarantina. Sono morti anche due agenti di custodia: uno a Locri, in Calabria, l’altro a Opera, vicino a Milano. Gli avvocati Ghini e Di Credico hanno deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo quando il Tribunale di sorveglianza di Verona ha respinto la loro istanza per la detenzione domiciliare di B.M.: il giudice, sostengono i due legali, avrebbe addotto “ragioni relative alla personalità del detenuto”, malgrado questo tipo di valutazione non sia richiesta dal decreto. B.M. ha quindi fatto opposizione al Tribunale di sorveglianza di Venezia, ma intanto i suoi legali si sono rivolti alla Cedu per chiedere una misura “urgente e provvisoria”, ovverosia che a B.M. sia concesso di passare subito agli arresti a casa, anche senza il “braccialetto elettronico” previsto dal decreto Cura Italia. Purtroppo i dispositivi per il controllo a distanza mancano ovunque, in Italia, malgrado lo Stato abbia scandalosamente speso per loro 20o milioni di euro negli ultimi 19 anni. È uno scandalo che oggi si aggrava, se è vero che Bonafede ha chiesto al Commissario straordinario Domenico Arcuri di trovare urgentemente altri braccialetti: ovviamente a pagamento. Se poi B. M. non potrà passare ai domiciliari, gli avvocati Ghiri e Di Credico hanno chiesto ai giudici di Strasburgo di ordinare che almeno venga posto “in condizioni di sicurezza”, cioè in una cella singola con adeguate protezioni sanitarie. A Vicenza oggi il detenuto divide 7-8 metri quadrati con un compagno, non è dotato di alcun presidio sanitario e anzi “è tenuto ad acquistare il disinfettante necessario per sanificare la sua cella”. È evidente che l’istanza di B. M. a Strasburgo potrebbe aprire la strada a migliaia di ricorsi simili. La Cedu ha chiesto al governo italiano di indicare anche quale sia il tempo che occorre in media al Tribunale di sorveglianza di Venezia per decidere su reclami simili a quello presentato da B. M. Ha chiesto anche se il magistrato che gli ha negato gli arresti domiciliari, nella sua decisione, abbia preso in considerazione “l’eccezionale crisi sanitaria in corso” in Italia. Si vedrà ora che cosa risponderà il ministro Bonafede, e che cosa poi deciderà la Corte di Strasburgo. Ghini e Di Credico sostengono che il tema del rischio di un grave contagio in carcere non è mai stato affrontato prima dalla Corte di Strasburgo: “Si tratta di una questione che riguarda la tutela dei detenuti”, sostengono i due avvocati “cioè soggetti tra i più fragili e vulnerabili, e affidati allo Stato: proprio per questo il governo deve disporre una tutela adeguata”. Sovraffollamento rischioso? Per Bonafede bugia buonista di Beniamino Migliucci Il Riformista, 11 aprile 2020 Nel 2013, grazie alla sentenza Torreggiani, si aprirono gli occhi sulla vergognosa situazione delle nostre carceri. Eppure il numero di detenuti era inferiore a quello di oggi. Allora si protestava, oggi siamo rimasti una minoranza. Una minoranza, considerata per lo più fastidiosa, si è occupata in questo periodo drammatico della situazione nelle carceri italiane. Fastidiosa perché, quando soffrono tutti, parlare delle condizioni dei detenuti viene reputato, da molti, quasi come un insulto per chi si è ben comportato nella società e ora si trova in difficoltà, si ammala, muore, fa fatica a sopravvivere economicamente. La mente riesce facilmente a giustificare il disinteresse, ci si dice: “Se quelli sono in carcere, una ragione ci sarà... hanno fatto del male e, dunque, non vengano ora a disturbare il mondo dei buoni, già così provato”. Questa semplificazione consente di dimenticare che un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e, pertanto, non può ancora essere considerata colpevole di nulla e svanisce d’incanto il ricordo dei 640 milioni di euro pagati dallo Stato, dal 1992 ad oggi, per ingiusta detenzione. Le poche trasmissioni televisive che hanno dedicato spazio all’argomento, lo hanno fatto, generalmente, criticando ogni ipotesi di riduzione della popolazione carceraria per il coronavirus: in fin dei conti, già tutti noi siamo agli arresti domiciliari e perché mai chi ha sbagliato dovrebbe trovarsi in una situazione analoga alla nostra? Questo sentire, condiviso purtroppo dai più, non è isolato e trova un riferimento in altri momenti della storia. L’indimenticato Massimo Pavarini, tra l’altro in un bellissimo libello degli anni 70 dal titolo Carcere e Fabbrica, rammentava che quando il tempo riserva difficoltà e sofferenza ci si dimentica degli ultimi. Il rischio è di diventare egoisti e manichei. Da una parte il bene, dall’altra il male e il male va punito senza farsi troppi interrogativi. In situazioni come questa, la richiesta accorata del Papa, delle associazioni che si occupano di carcere, di qualche intellettuale, di qualche autorevole magistrato, rimangono totalmente inascoltate. Le ragionevoli proposte dell’Unione delle Camere Penali, condivise da gran parte della Magistratura di Sorveglianza, non trovano risposta. Anzi, una risposta c’è ed è esilarante: “Caro detenuto se manca ancora un po’ di pena sono disposto a liberarti, ma con il braccialetto”. Peccato che il braccialetto non ci sia. Si gioca con la vita e le speranze delle persone. Sembra di assistere ad un film comico, ma di comico non c’è nulla. Che importa se i detenuti che affollano le carceri sono 57.590 e i posti effettivi sono 48.000? Che importa se altri paesi come la Francia e persino la Turchia hanno previsto massicce scarcerazioni? Per il Ministro della Giustizia, con un passato più proficuo da dj, nelle carceri non esiste il rischio di epidemia e il parere viene confortato da qualche magistrato come Gratteri, habitué di salotti televisivi, il quale sostiene, addirittura, che nelle carceri c’è ancora spazio e, semmai, se ne possono costruire delle altre. Come se il virus aspettasse educatamente l’edificazione proposta con piglio e pari genialità dal noto pubblico ministero. Il sovraffollamento nelle carceri, dunque, non esiste è una invenzione di alcuni perditempo buonisti; i detenuti non devono attenersi al distanziamento sociale imposto per gli altri, le celle sono diventate improvvisamente ampie e sicure; i contagiati secondo le fonti ufficiali sono pochissimi e, quindi, suvvia, perché agitarsi tanto. Fanno bene il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia a voltarsi dall’altra parte: non è affare loro e, così, evitano anche di litigare con parte dell’opposizione che, ancora una volta, cavalcando paure e difficoltà delle persone, aveva criticato persino la farsa immaginata dal Governo. Non c’è da meravigliarsi di tutto questo. La spinta che nel 2013, grazie alla sentenza Torreggiani, aveva fatto aprire gli occhi sulla vergognosa situazione delle carceri italiane è esaurita da tempo. Eppure, il numero dei detenuti era persino inferiore rispetto all’attuale; un movimento di opinione trasversale ritenne scandalosa la situazione degli istituti di pena e vennero avviati, con meritoria intuizione dell’allora ministro della giustizia Orlando, gli Stati generali dell’esecuzione penale, per rendere la pena più vicina al modello costituzionale. I risultati di tale iniziativa vennero, peraltro, traditi e abbandonati dallo stesso guardasigilli, dal suo partito e dalla maggioranza dell’epoca per mere convenienze elettorali. Da quel momento l’argomento carcere per la politica è stato un tabù, un buco nero dal quale occorreva stare lontani per evitare di perdere consensi. Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per verificare come l’Italia stia gestendo l’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane. La Corte, accogliendo la richiesta di due avvocati delle Camere penali nell’interesse di un detenuto presso la casa circondariale di Vicenza, ha chiesto al Governo quali misure preventive siano state poste dalle autorità competenti nel carcere di Vicenza e se sia stata considerata l’eccezionale crisi sanitaria legata al contagio. La Corte inoltre vuole sapere se siano state previste per il richiedente misure alternative al carcere, tenendo conto anche della circostanza che non risulterebbe possibile osservare il distanziamento sociale. Il provvedimento della Cedu, anche se riguarda un singolo detenuto, appare all’evidenza di portata generale e il richiamo dovrebbe ancora una volta farci arrossire. Vedremo se tale monito riuscirà a risvegliare le coscienze sopite e a determinare una svolta. D’altro canto il vaccino per curare l’indifferenza si potrebbe trovare e sarebbe semplice da somministrare. Si tratterebbe di una miscela composta da precetti e valori costituzionali, una porzione di buon senso, associata a un pizzico di umanità e calorosa solidarietà. Il virus, però, non si è fermato alle porte delle carceri, ma ha avuto anche altri effetti dirompenti. Governo e ministero della Giustizia, con l’avallo di parte della magistratura, sono impegnati nel tentativo di stravolgere, o meglio distruggere, una volta per tutte il processo penale. Con la giustificazione dell’emergenza si vogliono, infatti, introdurre definitivamente modalità che porteranno ad un processo destrutturato, informe e smaterializzato, lontanissimo da ogni principio costituzionale, dalle regole del processo liberale e dal buon senso. Il tutto giocando sulle preoccupazioni e sulle paure del momento. Tutti staranno davanti al proprio computer, avvocati, magistrati inquirenti e giudici. Questi ultimi potranno persino decidere dalle loro abitazioni ricorrendo magari, come nei migliori quiz televisivi, all’aiuto da casa o dell’esperto per decidere. Insomma, verrà definitivamente recepito il processo a distanza che il nostro codice prevedeva solo per casi eccezionali, perché chiaramente confliggente con principi costituzionali. Anche in questo caso il vaccino ci sarebbe, ma è difficile da reperire: si tratta della ragionevolezza. Non c’è di che essere ottimisti, ma esserlo non costa nulla. Walter Verini (Pd). “Siamo pronti con automatismi per 8mila detenuti ai domiciliari” di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 aprile 2020 “Monitoriamo la situazione con attenzione e, se la soluzione braccialetti nei prossimi giorni non funzionasse, si dovrà intervenire con nuove misure per ridurre il sovraffollamento”. Walter Verini, deputato e responsabile giustizia del Partito Democratico, chiarisce così la posizione dei dem in materia di carceri e conferma la volontà di marcare stretto il ministro Bonafede su una questione tra le più cruciali in questa emergenza sanitaria. La situazione delle carceri italiane rimane esplosiva. Da ultimo, anche la Cedu ha chiesto conto al nostro paese di come la sta affrontando, accogliendo il ricorso di un detenuto nel carcere di Vicenza... Il fatto che la Cedu abbia ritenuto di non archiviare il ricorso significa che il tema, purtroppo, ha una sua legittimità. Anche volendo allargare la questione a tutte le carceri italiane e non solo a quella di Vicenza, sono convinto che il tema della garanzia di trattamenti umani nelle strutture carcerarie esista e che, drammaticamente, non sempre le garanzie di vivibilità prescritte dalla Cedu e dalla nostra Costituzione siano rispettate. Questo pone tutti noi davanti a grandi interrogativi ineludibili, soprattutto ora che viviamo una fase di emergenza sanitaria. Eppure le misure, per ora, sono state timide. Addirittura un ex governatore della Lega come Roberto Cota, pur nella sua veste di avvocato, ha sostenuto che siano necessari sconti di pena per evitare una strage nelle carceri... E io sono d’accordo con lui e il fatto che lo dica anche un esponente della Lega, sia pur in veste di avvocato, dimostra che il tema è - o meglio, dovrebbe essere - trasversale. Mi differenzio dalla sua riflessione sulle conclusioni, però. Cota sostiene che la ricerca del consenso politico bloccherà qualsiasi iniziativa in tal senso. Io dico che se una questione politica è giusta e civile essa va affrontata a prescindere dal presunto consenso elettorale. L’obiettivo, dunque, è diminuire il sovraffollamento carcerario. Cosa sta facendo il governo? Le riporto alcuni dati. Al 18 marzo, nelle carceri italiane erano detenute 61mila persone. Oggi, invece, circa 57mila. La liberazione di circa 4mila detenuti, però, è data solo in parte dal decreto approvato in marzo ma soprattutto dall’applicazione della cosiddetta legge Alfano, che in questa fase molti magistrati di sorveglianza hanno applicato con realismo e lucidità, concedendo i domiciliari. Eppure, è evidente che si debba andare oltre: la capienza formale delle nostre carceri è di 51mila persone, ma dopo le rivolte e le devastazioni delle scorse settimane oggi il numero realistico è di 47mila. E dunque che si può fare? In questi giorni è in corso una sorta di consultazione permanente con il ministro Bonafede, forze parlamentari e gli operatori delle carceri e le garantisco che il confronto è vero e serrato. Come noto, il ministro ha investito molto sul reperimento dei braccialetti elettronici e gli diamo atto di essersi mosso anche con l’aiuto del Viminale per ottenerli. Noi, tuttavia, abbiamo avanzato perplessità perché, ad oggi, non c’è sicurezza che tutti i braccialetti arrivino in tempo e - una volta arrivati - vengano messi in uso nei temi rapidi imposti dall’urgenza. L’emergenza non aspetta, dunque la posizione del Pd è di verificare nel lasso di tempo di pochissimi giorni sia l’emergenza che lo stato dell’arte coi braccialetti. Se i risultati di diminuzione della popolazione carceraria non saranno raggiunti, dovremo subito intervenire con nuovi strumenti, oltre quelli già adottati come il decreto, i permessi, i differimenti della esecuzione della pena.... Quali potrebbero essere i nuovi strumenti? Probabilmente dovremo immaginare automatismi, che superino la farraginosità del sistema dei braccialetti elettronici. Si riferisce al collocamento ai domiciliari di alcune categorie di detenuti? Esatto. Ottomila detenuti hanno un residuo di pena inferiore a 1 anno, 3500 fino a 18 mesi: se nei prossimi giorni i braccialetti non daranno i risultati che tutti vorremmo, dovremo interrogarci in Parlamento e in sede di conversione del decreto se modificare qualcosa. Questa platea può essere interessata da una misura che metta ai domiciliari chi ha quasi finito di scontare la pena, non è considerato socialmente pericoloso e ha avuto una buona condotta. L’emergenza sanitaria può deflagrare in modo devastante in comunità chiuse come le carceri e non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando di persone. Del resto, parole in questa direzione sono arrivate dal Papa, dal presidente Mattarella, dal Csm, dal PG di Cassazione Giovanni Salvi, dall’Unione Camere Penali, dal Cnf, dai garanti dei detenuti e dai magistrati di sorveglianza. Insomma, tutti coloro che si occupano di giustizia e ordinamento penitenziario ci chiedono di intervenire presto e bene. Bisognerà superare le perplessità del ministro Bonafede… Noi auspichiamo che i braccialetti elettronici funzionino, ma temiamo di no. Per questo siamo pronti come maggioranza a lavorare per nuove soluzioni e lo vorremmo fare ovviamente insieme al Ministro. C’è in gioco la tutela della salute dei detenuti, della polizia penitenziaria e di chi sta fuori dal carcere. È evidente che è impossibile garantire le misure di prevenzione e il distanziamento necessario in spazi angusti come quelli delle nostre strutture carcerarie. La soluzione è una sola e non c’è bisogno di fantasia per capire quale. E ci sono poi misure che dovrebbero essere subito adottate, come quella che riguarda le donne detenute con bambini. Di che tempi parliamo? Il monitoraggio della task force è continuo, ma dovremo tirare le somme nei prossimi giorni e capire se è necessario intervenire in modo tempestivo a stretto giro. Davanti all’evidenza che l’attuale situazione non funzioni, siamo pronti ad affrontare i problemi. Insieme con tutti i soggetti della maggioranza, dobbiamo essere capaci di scegliere insieme nuove strade, come ci sta chiedendo tutta la comunità giuridica e la coscienza civile del Paese. Ma mi auguro che anche chi ha sempre bisogno di agitare le paure e di provocarle (ieri i migranti, oggi i detenuti), capisca che è in ballo una emergenza sanitaria che potrebbe deflagrare, con gravissime conseguenze per la salute delle persone detenute, per la salute e la sicurezza degli agenti di custodia e dei lavoratori degli istituti di pena, tutte cose che potrebbero provocare tensioni dalle conseguenze non calcolabili. Coronavirus nelle carceri e come i media raccontano i fatti di Murat Cinar pressenza.com, 11 aprile 2020 La pandemia coronavirus mette a rischio anche le persone che vivono e lavorano nei centri penitenziari. “Il contagio si estende nelle carceri italiane: positivi 58 detenuti e 178 agenti di custodia” era il titolo del quotidiano Corriere della Sera del 9 aprile. Questa situazione preoccupante si fa sentire anche dentro la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno della città di Torino. Quindi ho deciso di sentire alcune voci importanti per capire come, sin dall’inizio, è stata gestita la pandemia dentro il carcere e per scoprire se ci fossero delle iniziative nella società civile per attirare l’attenzione su questa situazione e creare una rete di solidarietà con tutte quelle persone in difficoltà. Ad accogliere il mio appello sono state due mamme che hanno due giovani figli in carcere. Entrambe mi hanno raccontato che all’inizio c’era poca trasparenza in merito alle misure prese dentro il carcere e soprattutto i famigliari non sono stati coinvolti in questa fase critica. “Nella cella dove viveva mio figlio, 3 settimane fa un detenuto si è sentito male, quindi immediatamente la cella è stata blindata ma senza fare il tampone a nessuno. Pochi giorni dopo a un detenuto è stato fatto il test e risultava positivo. Questo ragazzo è stato scarcerato e pochi giorni dopo ha iniziato a sentirsi meglio. Tuttavia in quel periodo la loro cella non era stata disinfettata, i detenuti non sono stati spostati in un’altra cella e non è stato fatto loro il test”. La cella in cui si trova suo figlio è angusta quindi è difficile mantenere le distanze oppure arearla adeguatamente. La mamma preoccupata per la salute di suo figlio ha avanzato una richiesta di scarcerazione ma le è stata rigettata perché “non aveva abbastanza sintomi”. In questi giorni al figlio è stato, alla fine, eseguito il tampone al quale è risultato positivo e la famiglia aspetta la scarcerazione, dato che forse la richiesta è stata accolta. Questa signora mi comunica che le mamme hanno dovuto raccogliere denaro per l’acquisto di mascherine e guanti perché questi non venivano forniti ai detenuti. La seconda mamma che ho intervistato invece inizia la nostra telefonata dicendo che è stanca e sconvolta. Suo figlio dopo i primi sintomi evidenti è stato spostato nel Padiglione D del carcere e sistemato in una cella da solo con scarse condizioni igieniche, avendo a disposizione la stessa mascherina per 14 giorni. La signora ha scoperto una settimana fa che suo figlio era positivo al coronavirus e sarebbe stato scarcerato. Tuttavia essendo impossibilitata ad avere un domicilio idoneo, in pochi giorni ha dovuto trovare un’abitazione adatta che purtroppo è molto piccola e ha dovuto sistemare tutto da sola. La mamma sottolinea che la richiesta di detenzione domiciliare sia stata avanzata direttamente dal carcere che una volta avuto il provvedimento dal magistrato di sorveglianza le ha chiesto di andare a prendere suo figlio, direttamente in carcere mettendo in questo modo a repentaglio la salute dei familiari del detenuto. “Solo a fronte della mia protesta il carcere ha predisposto un accompagnamento di mio figlio presso il luogo di detenzione domiciliare con una autoambulanza della protezione civile”. In entrambi i casi richiamano l’attenzione gli stessi argomenti al di là delle singole esperienze. Prima di tutto sin dall’inizio la prevenzione in carcere non risulta gestita bene. Secondo la testimonianza delle mamme, sia i detenuti sia le guardie non sono stati tutelati sufficientemente. “Le carceri sono sovraffollate, si sa da tempo. Inoltre, in questo periodo, il numero degli agenti è stato ridotto. Ci dovrebbero essere circa 500 richieste di scarcerazione in attesa di una risposta. Questo sarebbe il momento giusto per una decisione importante”; sono le parole della prima mamma. Un altro punto comune citato da entrambi le donne riguarda la trasparenza delle informazioni. “Diverse volte abbiamo sentito delle dichiarazioni contraddittorie tra i medici del carcere ed alcuni esponenti del governo centrale. A noi pare che ci sia un numero maggiore di detenuti e agenti in condizioni di salute precarie di quelli che vengono comunicati”. La scarcerazione di un detenuto ovviamente comporta una serie di questioni. Oltre a quelle burocratiche c’è un problema grande e vitale ossia quello del domicilio. “Ci sono diversi detenuti privi di una rete sociale, ma anche con una condizione economica estremamente precaria” dice Valentina Noya, Project Manager dell’Associazione Museo del Cinema e direttrice del festival LiberAzioni. Insieme a una serie di persone, pochi giorni fa, hanno avviato una raccolta fondi proprio con quest’obiettivo. “In pochi giorni siamo riusciti a racimolare la somma sufficiente per garantire a un detenuto appena scarcerato l’affitto di una stanza fino alla fine del mese di luglio”. In questi giorni sono stati scarcerati alcuni detenuti, oltre quelli che sono stati citati sopra. Secondo la relazione dei medici del carcere, questi non avevano una condizione di salute idonea per poter restare dentro. In particolare la scarcerazione di alcuni detenuti condannati a diversi anni e con gravi reati a carico è diventata una notizia flash nei media locali. Purtroppo come sono state date queste notizie ci ha fatto capire che ci sono, tuttora, diversi professionisti che non esitano a calpestare la deontologia del loro lavoro. Ecco alcuni titoli dei media piemontesi e nazionali: “Scarcerato il killer”, “L’assassino è fuori dal carcere”, “Così anche gli assassini posso andare a casa” e “Marocchino è stato portato in un’abitazione di pertinenza della sua famiglia”. Al di là dei reati commessi o della provenienza, queste persone sono degli esseri umani. È il sistema giuridico che si occupa dei loro casi e solo grazie a un giusto ed equo processo un essere umano può essere assolto o condannato per il reato che ha commesso. Il giornalista, invece, non è tenuto a creare dei “mostri” o “pericoli/minacce in circolazione”. I media devono interessarsi della tutela di ogni singolo essere vivente presente su questo Paese raccontando i fatti in modo chiaro, trasparente e senza elementi che creino delle occasioni di linciaggio. Infatti si può immaginare quanto siano impressionanti i commenti sotto le notizie pubblicate in questi giorni su internet. Esattamente come una delle due mamme mi ha detto durante la sua intervista: “Dentro ci sono tanti casi seri e vanno aiutati, in questo momento, a prescindere dalla condanna, devono essere trattati nella stessa maniera. I media devono richiamare l’attenzione sulle condizioni di salute delle persone che si trovano, oggi, in un momento molto difficile dentro il carcere”. Ps. su loro richiesta, non sono stati citati i nomi di alcune delle persone intervistate Coronavirus: le videochiamate portano pace nelle carceri italiane, strutture chiuse al contagio agenzianova.com, 11 aprile 2020 Con la Pasqua segnalata almeno sul calendario, e l’introduzione delle videochiamate, sembra essersi rasserenato anche il clima nelle carceri italiane. Clima che, a causa del coronavirus, appena un mese fa, era da guerriglia urbana sia fuori dalle mura dei penitenziari per la protesta dei parenti dei detenuti, che all’interno con quella dei detenuti stessi. A farla detonare sono stati i provvedimenti restrittivi che vietavano ai parenti di entrare in visita nelle carceri e sospendevano i permessi premio, ma anche il timore di un contagio da coronavirus interno ai perimetri carcerari e la falsa convinzione che lo stesso contagio fosse mantenuto nascosto per evitare di dover rimettere in liberà i detenuti. Per alcune ore le carceri di Rebibbia, Modena, Foggia, Rieti, e di un’altra dozzina di istituti sparsi su tutto il territorio nazionale, sono stati sotto il controllo dei detenuti. Gli agenti della penitenziaria, supportati dai reparti mobili della polizia, sono stati impegnati in vere battaglie per ripristinare l’ordine; durante il caos 12 detenuti sono morti, secondo le versioni ufficiali delle forze dell’ordine, per overdose da farmaci reperiti nelle medicherie, 80 evasi dal carcere di Foggia (numero che poi si è ridotto a 16) e una quarantina di agenti feriti oltre a milioni di euro di danni. Un innalzamento della tensione per chiedere sconti di pena se non addirittura l’indulto, sotto la regia, secondo alcuni, di associazioni criminali. A Napoli, dal carcere di Poggioreale, con una lettera aperta un boss degli Scissionisti, tale Antonio Bastone, ha vestito i panni del “capopopolo” maturo e saggio, capace di mantenere “sotto controllo” il braccio carcerario nel quale si trova, sostenendo di non partecipare alle proteste data la gravità della situazione in cui versava, e versa, il paese. Per questo dice nella lettera che nel “Padiglione Avellino, nel quale mi trovo detenuto, del resto si è subito dissociato da quella rivolta”. Quella rivolta che, lascia intendere, altrove è mantenuta viva da familiari e detenuti di altri clan, ma non il suo. Alla fine, però, le proteste sono rientrate e, in ogni carcere italiano, si è tornati alle emergenze quotidiane: quello del sovraffollamento da detenuti e del sottodimensionamento del personale carcerario che deve gestirlo, ma con un problema in più: il coronavirus. La situazione nel Lazio, dopo le sanguinose rivolte nel carcere di Rieti, e quelle concitate di Rebibbia a Roma, sembrano essersi rasserenate. “I detenuti hanno capito che quel provvedimento era necessario per salvaguardare la loro sicurezza, quella dei loro parenti ed anche quella del personale del carcere - dichiara ad “Agenzia Nova” Massimo Costantino, rappresentante sindacale della polizia penitenziaria della Cisl Lazio riferendosi al decreto che impediva le visite in carcere - e non era, invece, un provvedimento restrittivo finalizzato ad un inasprimento della misura carceraria”. Del resto, alcune prima e alcune dopo, ogni carcere ha adottato la videochiamata su Skype o Whatsapp tra detenuto e parente, per compensare la mancanza dell’incontro. Ovviamente nessuno di loro è dotato di cellulare o computer, al momento stabilito, il detenuto viene condotto in una stanza, dotato di un apparecchio con cui si collega con il parente alla presenza di un agente che sovrintende all’incontro “digitale”. “Al momento non ci risultano condizioni di crisi dovute al coronavirus nelle carceri laziali. Solamente a Rebibbia una detenuta è risultata positiva. Ogni struttura, però, ha dovuto individuare un’area in cui allocare in sicurezza eventuali detenuti positivi e in condizioni compatibili con il regime carcerario. Resta il problema della mancanza di mascherine. Il personale penitenziario deve accompagnare detenuti in ospedali, anche in reparti Covid, senza poter disporre delle necessarie dotazioni di sicurezza. Inoltre abbiamo più volte chiesto alla regione Lazio di effettuare tamponi nelle carceri, non solo ai detenuti ma anche a tutto il personale carcerario”. Se il principale alleato del coronavirus è l’assembramento, allora le carceri pugliesi sono quelle che rischiano di più dato che sono le strutture carcerarie più affollate d’Italia. “Abbiamo una popolazione carceraria del 180 per cento in più rispetto al massimo dell’accoglienza” dichiara Crescenzio Lumieri segretario Fns Cisl Puglia. Proprio un carcere pugliese, quello di Foggia, ha fatto registrare durante le proteste dello scorso 9 marzo, l’evasione di circa 80 detenuti, molti dei quali sono stati poi catturati. “Il pericolo che ciò potesse accadere lo avevamo più volte denunciato al prefetto - dichiara il sindacalista dei penitenziari. Nel foggiano era stato aumentato il numero delle forze dell’ordine per contrastare la criminalità e avevamo chiesto un maggior numero anche di agenti della penitenziaria ma ciò non è accaduto. Poi, purtroppo, i fatti ci hanno dato ragione. Foggia resta la struttura peggiore della regione ma, ad eccezione di Lecce che ha una struttura recente, le altre non sono di molto migliori. Quello di Bari risale al 1900; da una capienza iniziale di mille detenuti, dopo le continue ristrutturazioni e adeguamenti, siamo arrivati ad una capienza di 250 detenuti sulla carta, ma che invece ne accoglie non meno di 450. Inoltre il territorio metropolitano di Bari, molto vasto e complesso, porta tra i 10 e i 50 arresti al giorno e nella struttura sono costretti a continue movimentazioni verso altri carceri, per poter rispondere alla necessità dell’accoglienza”. In questo quadro c’è l’emergenza coronavirus e il rischio contagi. “Il ramo femminile del carcere del capoluogo è chiuso per ristrutturazione - dice ancora Lumieri - quindi è stato utilizzato per ricavare, seppur non a norma, un’area di quarantena per eventuali casi di contagiati che al momento non ci sono”. A Brindisi, invece, il problema esiste. “È di questi giorni la notizia di un detenuto tornato dalla libertà, una volta in carcere ha mostrato sintomi del virus ed è risultato positivo. Quindi in quarantena sono stati messi, oltre a nove agenti della penitenziaria con cui è stato a contatto, anche con 40 detenuti”. Per quanto può esserlo un carcere, quello di Bergamo, considerando le devastazioni causate dal coronavirus su tutto il territorio provinciale, è rimasta “un’isola felice”. Il virus ha bussato diverse volte all’istituto di pena ma senza entrare, ad eccezione di una sola volta. “Un solo caso di positività al coronavirus tra i detenuti - dichiara Francesco Trovè della Fns Cisl di Bergamo - La struttura si è immediatamente isolata già ai primi segnali bloccando gli accessi dei parenti e interrompendo ogni attività di collegamento con l’esterno. Anche le manifestazioni iniziali, quelle che si sono verificate in altri carceri, da noi non sono state possibili anche per via di una buona organizzazione interna. Abbiamo registrato, però, un amento di casi di malattia tra gli agenti della penitenziaria ma non c’è un numero preciso che indichi le positività al Covid. Abbiamo ottenuto, però, che chiunque rientri in servizio dopo la malattia deve sottoporsi a tampone”. Pochi dati sui contagiati, sia tra gli agenti della penitenziaria che tra i detenuti dei restanti 16 istituti lombardi, sono in possesso al sindacato. “Li abbiamo chiesti più volte - dichiara Celeste Gentile segretario regionale Fns Cisl Lombardia - ma non ne abbiamo. Sappiamo che ci sono agenti in quarantena ma non sappiamo quanti sono. Ci stiamo adoperando per rispondere alle emergenze e alle richieste di dispositivi di sicurezza che ancora oggi ad alcuni mancano e abbiamo chiesto di fare tamponi a tutti gli agenti perché, a nostro avviso, sarebbe anche un sistema per ridurre al minimo il rischio di portare la malattia nelle carceri. Sappiamo che questa richiesta sembra sia stata accettata per il personale del carcere di Cremona, quello di Mantova e forse anche quello di Como”. Anche nelle carceri della Campania il coronavirus fa paura ma non più dei problemi già tristemente noti agli ambienti carcerari che sono “il sovraffollamento, l’organico della polizia penitenziaria ridotta all’osso, la vetustà delle strutture e dei mezzi”, dice il segretario regionale della Fns Cisl Lorenza Sorrentino. “La pandemia ha acutizzato anche questi problemi in un ambiente, quello carcerario, in cui la popolazione detenuta tende a strumentalizzare ogni cosa per chiedere o per porre in essere atteggiamenti anche aggressivi contro servitori dello Stato a cui, in genere, non viene riconosciuto il giusto merito. Spesso ci si dimentica - continua la rappresentante dei penitenziari - che mentre altre forze di polizia assicurano alla giustizia il malvivente, la penitenziaria lo gestisce per impedirgli di continuare a delinquere, ma non solo, con il tempo ha acquisito anche competenze tra cui quelle di indagine e di polizia stradale”. A proposito del contagio i numeri in Campania sembrano contenuti e limitati a tre agenti e ad un solo detenuto. “Le attenzioni ci sono ovunque, ma in particolare per gli istituti più affollati di Poggioreale e di Secondigliano”. Anche in Campania si presta attenzione ai nuovi ingressi per i quali “le Asl competenti hanno allestito tende all’ingresso degli istituti, con personale sanitario addetto alle visite di triage”. Inoltre all’ingresso del carcere di Poggioreale è stato installato un termo-scanner dello stesso tipo di quelli installati negli aeroporti. Skype in cella, l’allarme del pm Maresca: “Un favore ai clan, così mafie più forti” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 11 aprile 2020 Ogni giorno una quarantina di richieste di scarcerazione. Sono le istanze di libertà targate Covid-19. Casi diversi, che - ridotti all’osso - battono su un punto in particolare: in carcere il mio assistito non può stare - si legge nella richiesta spedita al giudice - perché ha problemi respiratori, ha difese immunitarie basse, rischia il contagio da corona virus. Scenario ordinario, a leggere le carte che vengono trasmesse in Procura per il parere del pm, che raccontano vicende drammatiche nei giorni della grande paura del contagio. Lockdown da un mese, italiani rintanati in casa, stop ai colloqui detenuti-parenti, le carceri sono il grande assente nel dibattito pubblico. Ma anche il grande punto interrogativo: cosa accadrebbe se scoppiasse un focolaio in cella? Domande che fanno i conti con le soluzioni adottate a marzo dal Dap, per calmare momenti di nervosismo e rigurgiti di violenza nei padiglioni italiani. Da qualche giorno, anche a Poggioreale e Secondigliano, sono entrati alcuni esemplari di tablet per il collegamento via Skype, per assicurare colloqui tra detenuti e parenti. Aule dedicate alla connessione, possono usare skype anche i detenuti in regime di alta sicurezza. Un provvedimento per niente condiviso dal sostituto procuratore generale Catello Maresca, per il quale non ci sono dubbi: “Con Skype in carcere abbiamo vanificato trent’anni di lotta alla mafia. Così vengono favoriti i clan, e solo oggi comprendiamo perché si sono placati i tumulti scoppiati un mese fa. I boss hanno ottenuto quello che volevano: un ponte sicuro e difficile da controllare con il mondo esterno, così possono continuare ad esercitare la propria sovranità criminale. È una frontiera pericolosa, sarà difficile tornare indietro, quando l’emergenza sanitaria sarà rientrata, sarà impossibile togliere ipad e cellulari”. Forti perplessità rivolte al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede e al direttore del Dap Francesco Basentini, da parte di Giuseppe Moretti, presidente del sindacato di polpen Uspp, che fa un distinguo sui nuovi strumenti: “Mentre l’utilizzo dell’applicazione skype era regolamentata, l’uso degli smartphone non garantisce la limitazione dei colloqui ai soli autorizzati, senza pensare al fatto che non ci risulta che l’amministrazione abbia stipulato un contratto con un gestore telefonico affinché sia garantita la non divulgazione dei contenuti della video telefonata e/o la riservatezza dei colloqui”. Per Moretti, “con la scusa del rischio epidemia si sono indubbiamente allargate le maglie dei controlli e dei filtri che impedivano alla criminalità organizzata e le mafie, già molto attive all’interno delle mura penitenziarie, come anche testimoniato dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo, di agire in modo indisturbato mettendo in difficoltà l’operatività degli agenti di polizia penitenziaria e la credibilità del sistema carcere”. Ma sull’emergenza carceri fanno sentire la propria voce anche la camera penale di Napoli e la Onlus Il carcere possibile: “È necessario un immediato intervento legislativo che disponga la detenzione domiciliare, senza strumenti di controllo a distanza, per tutti i detenuti con pena da scontare inferiore ai quattro anni, che possano beneficiare di misure alternative. Ed è perfino intuitivo che, un’eventuale diffusione del contagio negli istituti penitenziari, imporrebbe l’adozione di misure alternative ben più estese ed indifferenziate di quelle che oggi la Politica si rifiuta di adottare. È assolutamente indispensabile scongiurare tale pericolo, anche per poter ripristinare al più presto quei presidi di costituzionalità e di umanità della pena, quali la conservazione dei rapporti familiari e l’accesso alle attività rieducative e trattamentali, attualmente sospesi”. Resta inoltre aperto il dibattito su indulto e amnistia. Per molti magistrati e avvocati sono l’unico modo per ridare slancio al processo e alleggerire le condizioni detentive in cella. Non ne è convinto il penalista Luigi Ferrandino, per il quale “amnistia e ad un indulto sono una vera follia, che consiste nel mettere in circolazione criminali affamati accanto ad altri cittadini in difficoltà economica. La giustizia non si salva con amnistia e indulto, ma con una maggiore spesa in tema di giustizia e maggiore impegno di magistrati, cancellieri ed ausiliari”. Il calvario dei detenuti. È la Via Crucis secondo Bergoglio di Luca Kocci Il Manifesto, 11 aprile 2020 Per le quattordici meditazioni del Venerdì santo il papa sceglie le testimonianze dalla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. “Il carcere continua a seppellire uomini vivi” ma “tutti, anche da condannati, siamo figli della stessa umanità”. Sono due frasi lette ieri sera, durante la Via Crucis del venerdì santo presieduta da papa Francesco a San Pietro. Si parla di persone detenute e di carcere, perché quest’anno le meditazioni per le quattordici stazioni della Via Crucis - rito cattolico che ripercorre gli ultimi momenti della vita di Gesù raccontata dai Vangeli, dalla condanna a morte alla sepoltura dopo la crocefissione - sono state affidate a detenuti e loro famigliari, volontari e personale della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova, in cui sono recluse circa seicento persone: cinque detenuti, la figlia di un ergastolano, la madre di un carcerato, un’educatrice, una catechista e un frate volontari in carcere, un magistrato di sorveglianza, un agente di polizia penitenziaria, i genitori di una ragazza uccisa e anche un prete accusato di pedofilia e poi assolto. Quello del carcere e delle condizioni di vita dei detenuti, del resto, è un tema più volte affrontato da Francesco durante il pontificato: dalla messa del giovedì santo con la lavanda dei piedi a dodici giovani detenuti nel carcere minorile romano di Casal del Marmo il 28 marzo 2013, due settimane dopo l’elezione al soglio pontificio; a diversi interventi pubblici, l’ultimo durante la messa mattutina a Santa Marta, pochi giorni fa, nel quale ha denunciato “il problema del sovraffollamento nelle carceri”, soprattutto in questi tempi di pandemia, con il rischio “che finisca in una calamità grave”. Lo scenario della Via Crucis di ieri sera è quello già visto la scorsa settimana, durante la preghiera solitaria del papa: non la tradizione scenografia del Colosseo piena di fedeli stipati dietro le transenne di via dei Fori imperiali; ma piazza San Pietro illuminata dalle fiaccole e vuota, tranne le dieci persone (cinque del “Due Palazzi” e cinque della Direzione sanità e igiene del Vaticano) che si avvicendano a portare la croce; e il pontefice che presiede il rito, il cui punto forte è costituito proprio dalle meditazioni dei detenuti e dalle preghiere che le accompagnano. A cominciare dalla prima, in cui - ed è già accaduto altre volte - è implicitamente ribadito il no all’ergastolo, giudicato una pena di morte differita. La meditazione è di un ergastolano, in carcere da 29 anni, che ha scontato anche diversi anni al 41-bis per reati di mafia, insieme al padre, morto in carcere. “Tante volte, nei tribunali e nei giornali, rimbomba quel “Crocifiggilo, crocifiggilo!”“ gridato dalla folla a Pilato, ma “io somiglio più a Barabba che a Cristo”, scrive il detenuto. “In quella non-vita ho sempre cercato qualcosa che fosse vita”. Segue una preghiera: per “coloro che sono condannati a morte e per quanti ancora vogliono sostituirsi al tuo supremo giudizio”. Tocca ad un altro detenuto, alla quinta stazione: “Sono entrato in carcere” e “da allora sono diventato un randagio per la città: ho perso il mio nome, mi chiamano con quello del reato di cui la giustizia mi accusa, non sono più io il padrone della mia vita. Sto invecchiando in carcere: sogno di tornare un giorno a fidarmi dell’uomo”. “Vedo entrare in carcere l’uomo privato di tutto”, risuona la meditazione per la decima stazione di un’educatrice del “Due Palazzi. “Viene spogliato di ogni dignità a causa delle colpe commesse, di ogni rispetto nei confronti di sé e degli altri. Ogni giorno mi accorgo che la sua autonomia viene meno dietro le sbarre: ha bisogno di me anche per scrivere una lettera. Sono queste le creature sospese che mi vengono affidate”. “Passando da una cella all’altra vedo la morte che vi abita dentro. Il carcere continua a seppellire uomini vivi: sono storie che non vuole più nessuno”, scrive un frate volontario in carcere. E nella meditazione di un magistrato di sorveglianza risuona un’autocritica, personale ma soprattutto del sistema: “Una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce”. Altri dubbi su quel “fine pena mai” pronunciato in tante aule giudiziarie. Prosegue la meditazione del magistrato: “È necessario imparare a riconoscere la persona nascosta dietro la colpa commessa. Così facendo, a volte si riesce a intravedere un orizzonte che può infondere speranza alle persone condannate e, una volta espiata la pena, riconsegnarle alla società, invitando gli uomini a riaccoglierli dopo averli un tempo, magari, respinti. Perché tutti, anche da condannati, siamo figli della stessa umanità”. Oggi giornata di “silenzio liturgico” in Vaticano e nella Chiesa. Domani messa di Pasqua e benedizione Urbi et Orbi in una piazza San Pietro che resterà vuota. Amnistia: per il Consiglio d’Europa non è più un tabù di Elisabetta Zamparutti* Il Riformista, 11 aprile 2020 La Commissaria per i diritti umani la elenca tra le misure adottate dagli Stati per far fronte alla pandemia in carcere. E l’Italia? “Per il sovraffollamento ha fatto... zero” dice il report. Non passa giorno che le organizzazioni internazionali non intervengano per richiamare gli Stati alla tutela dei diritti di chi è privato della libertà personale. Ed è sempre un buon esercizio ampliare la propria visuale perché facilita la messa a fuoco dei problemi da risolvere. Se guardiamo dalla prospettiva del Consiglio d’Europa vediamo che la sua Segretaria generale, Marija Pejéinovié Burié, che è la depositaria della Convenzione europea per i diritti umani, ha pubblicato un documento destinato ai Governi sul rispetto dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto durante la crisi del Covid-19. “Il virus sta distruggendo un gran numero di vite umane... non dobbiamo permettere che distrugga i nostri valori fondamentali e le nostre società libere”, ha dichiarato. Secondo la Burle “la principale sfida sociale, politica e giuridica che devono affrontare i nostri Stati membri sarà quella di dimostrare la loro capacità di reagire efficacemente a questa crisi, garantendo al contempo che le misure adottate non pregiudichino la nostra reale attenzione, sul lungo periodo, alla salvaguardia dei valori fondanti dell’Europa: rispetto dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto”. La Segretaria Generale del Consiglio d’Europa si sofferma su quelle che sono le norme fondamentali in materia di diritti umani per dire che il diritto alla vita ed il divieto di tortura e trattamenti o punizioni inumane o degradanti non ammettono deroghe, neppure in casi di emergenza come questo del Covid-19. Anzi, sono tali da richiedere un positivo obbligo di cura contro la mortale malattia e le sue sofferenze. La Convenzione obbliga cioè gli Stati ad assicurare costantemente un adeguato livello di cura delle persone private della libertà. La Burié richiama il documento adottato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura sul trattamento delle persone private della libertà personale e la dichiarazione della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovié, che si è voluta soffermare in particolare sui reclusi in carcere. È preoccupata per i detenuti che sono tra i più esposti al contagio poiché, in generale, le carceri non sono idonee a fronteggiare epidemie su larga scala, non potendo le misure minime di prevenzione, come la distanza e l’igiene, essere rispettate come fuori dal carcere. Incidono anche il sovraffollamento così come le carenze materiali. E allora, nel passare in rassegna le misure adottate dai singoli Stati per far fronte alla pandemia in carcere, Dunja Mijatovié menziona, insieme al rilascio anticipato o temporaneo, ai domiciliari, alle commutazioni e alla sospensione delle indagini o dell’esecuzione della sentenza, anche l’amnistia. Finalmente! Perché questa parola ha bisogno di essere rimessa in circolazione. D’altro canto, questa parola si riaffaccia in un altro importante documento del Consiglio d’Europa pubblicato questa settimana. Nel Rapporto Space del Consiglio d’Europa sulle carceri europee si legge infatti che tra il 2018 e 2019, in tempi certamente diversi da quelli attuali, ben 6 Paesi hanno adottato provvedimenti di amnistia, seppur di diversa portata (Armenia, Lituania, Moldavia, Nord Macedonia, Russia e Serbia). Può servire notare anche che 14 Paesi hanno adottato clemenze individuali o collettive (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Moldova, Nord Macedonia, Russia, Slovacchia e Svezia). Si resta con l’amaro in bocca quando, leggendo la parte relativa all’Italia, si vede che alle domande sulle misure adottate per governare il numero dei detenuti le risposte sono: O “modifiche alla legge penale”; O “nuove norme per certe categorie di detenuti”; O amnistie; O commutazioni individuali; O commutazioni collettive; infine, O eventuali altre misure deflattive. Oggi è la Corte Europea per i diritti umani dove pendono ricorsi in merito al rispetto dei diritti umani nelle carceri (e non solo) in tempo di rischio epidemia a porci una domanda. Lo ha fatto a partire dal caso promosso dagli avvocati Roberto Chini e Pina Di Credico per conto di un detenuto nel carcere di Vicenza. Ci ha chiesto di esporre quali siano le misure preventive specifiche adottate per proteggere il richiedente e gli altri detenuti di questo istituto volte a ridurre il pericolo di contagio. E questa domanda può estendersi ulteriormente perché è immaginabile che un’onda di altri ricorsi provenienti dall’Italia sommergano la Corte di Strasburgo. Marco Pannella diceva che la peste italiana, dovuta alla violazione degli obblighi Costituzionali italiani ed europei, rischiava di diffondersi in Europa. Proponeva come cura, come continuano a fare il Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino, un’amnistia per riportare innanzitutto la Repubblica nei binari delle sue carte fondamentali. Sono convinta che l’amnistia il rimedio più adeguato, insieme all’indulto, per ripristinare lo Stato di Diritto nelle carceri come nelle aule di giustizia, unico antidoto al pericolo di contagio, non solo sanitario. *Tesoriera di Nessuno tocchi Caino, ex componente del Cpt Amnistia, la marcia di Pasqua quest’anno è su Radio Radicale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2020 “Amnistia è la parola più bella del linguaggio umano”, faceva dire Victor Hugo a Gauvin, il personaggio de “I Miserabili”. Il Partito Radicale ostinatamente non dimentica una delle parole più belle che compaiono anche nella nostra Costituzione. Per questo motivo, nonostante la quarantena, i Radicali hanno deciso di organizzare anche quest’anno la marcia di Pasqua per l’amnistia. Ma lo fa virtualmente, a partire dalle 11 di domani, attraverso le frequenze di Radio Radicale. Insieme a dirigenti e militanti del Partito, hanno tra gli altri preannunciato il loro intervento durante la marcia: Clemente Mastela, già ministro della Giustizia; Enrico Sbriglia, già dirigente dell’Amministrazione penitenziaria; Francesco Ceraudo, già presidente dell’Associazione dei medici penitenziari; Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria; i religiosi don Ettore Cannavera, don Vincenzo Russo, don Luigi Ciotti, i parlamentari Roberto Giachetti, Sandra Lonardo, Paola Nugnes, Giuliano Pisapia, Renata Polverini, Roberto Rampi; i magistrati Eugenio Albamonte e Carlo Nordio i giornalisti Vittorio Feltri, Riccardo Iacona, Corradino Mineo, Adriano Sofri; e Ilaria Cucchi, Marco Boat, Jean- Léonard Touadi e Ornella Favero. Oggi più che mai, la marcia per l’Amnistia ha una valenza ancora più significativa visto il sovraffollamento che, ai tempi del coronavirus, diventa sempre più insostenibile. Per utilizzare le parole di Marco Pannella, un’attenzione nei confronti dei penitenziari è una “prepotente urgenza” anche per ciò che è accaduto recentemente al Senato per la discussione del decreto “Cura Italia”. Tutte le associazioni e i giuristi hanno confidato, invano, nell’accoglimento delle loro indicazioni per la riduzione della popolazione penitenziaria per evitare una potenziale ecatombe. “Dove c’è sovraffollamento, tanta gente, c’è il pericolo che questa pandemia finisca in una calamità grave”, ha detto giorni fa Papa Francesco durante l’omelia. L’amnistia è contemplata dall’articolo 79 della Costituzione ed è stata modificata nel 1992 per renderla di difficile attuazione. Da allora in poi, infatti, non è mai stata applicata. L’amnistia (così come l’indulto) può essere concessa con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Nel 2016 l’allora senatore Luigi Manconi propose un disegno di legge costituzionale (ddl Pannella, un omaggio al leader radicale) che avrebbe abbassato il tetto necessario per approvare l’amnistia e l’indulto. Ma non ci fu nulla da fare. Video-interrogatorio a distanza: il cortocircuito dei processi in chat di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 aprile 2020 La legge non c’è ancora, ma a Milano persino gli interrogatori a distanza, con tutte le parti collegate in video sui loro computer, ciascuna a casa propria, già si fanno. O, almeno, li sta già facendo la Procura, anticipando di fatto ciò che la legge prevedrà a regime se nei prossimi giorni anche alla Camera (come già al Senato) verrà approvato il decreto legge “Cura Italia”, nel quale il governo ha trapiantato emendamenti chiesti dai capi delle Procure e volti appunto a rendere standard il processo a distanza sino al 3o giugno. Non senza ipoteche organizzative e soprattutto culturali sul senso di un processo che il codice vuole invece caratterizzato da immediatezza (che vuol anche dire non-mediazione). Al punto che a frenare sono tanto gli avvocati dell’Unione Camere Penali Italiane quanto settori della magistratura quali Magistratura Democratica. Con l’attività ordinaria sospesa sino all’ii maggio, ormai un po’ in tutta Italia le urgenti convalide degli arresti e relative udienze per direttissima sono consentite su piattaforme come Microsoft Teams, nelle quali il giudice è l’unico in Tribunale con il cancelliere, l’arrestato (con l’interprete se straniero) si collega in video dalla camera di sicurezza delle forze dell’ordine che l’hanno fermato, l’avvocato è nel proprio studio legale (o se preferisce a fianco dell’arrestato o in Tribunale), il pm resta in ufficio in Procura, e gli atti vengono scambiati via mail o in una chat. Sembrava già tanto, in termini di sacrificio del rito processuale, seppure giustificato dall’imperativo di evitare gli spostamenti, specie da e verso le carceri (dove ieri è morto il primo detenuto ammalatosi nel carcere di Voghera, a livello nazionale sesta vittima con un altro detenuto, due agenti e due medici penitenziari, per un totale di almeno 58 positivi tra i detenuti e 178 tra gli agenti). Ma adesso in Procura a Milano si va oltre. La pm Donata Costa, ad esempio, avendo ricevuto la richiesta di interrogatorio di un professionista in custodia cautelare in carcere per reati fiscali desideroso di poi domandare i domiciliari, sulla base del consenso del difensore lo ha video-interrogato a distanza su Teams in una sessione nella quale l’arrestato era in carcere, il pm a casa a Milano, l’avvocato a casa a Pescara, il maresciallo della GdF a casa a Milano. Il verbale dell’interrogatorio, videoregistrato, come sottoscrizione ha avuto la sola firma del pm, dopo rilettura e assenso della difesa. Lo stesso tipo di obiettivo è stato invece perseguito in modo fisico ad esempio dal giudice Guido Salvini, che, dovendo sostituire un gip per decidere il divieto di avvicinamento di un uomo all’ex compagna, ha scelto di celebrare l’udienza in mezzo al corridoio del IV piano (con panche predisposte a distanza) per non costringere le numerose persone a convivere nella stanza di fortuna, senza finestre, approntata per i gip dopo l’incendio che ha reso inagibili gli uffici gip al VII piano. A breve la legge in itinere consentirà ai giudici di decidere che ogni processo si faccia a distanza; e al pm e al giudice di avvalersi di collegamenti da remoto per atti che richiedono la partecipazione dell’indagato, della persona offesa, del difensore, di consulenti o di altre persone, per lo più in un ufficio di polizia attrezzato al collegamento, “nei casi in cui la loro presenza fisica non può essere assicurata senza mettere a rischio di contenimento della diffusione del virus Covid-19”. È “un modello di processo incompatibile con la Costituzione”, protestano gli avvocati Ucpi: “La norma sembra preoccuparsi solo della salute dei magistrati”, e “viene smaterializzata anche la fase dell’indagine preliminare, il cui luogo di svolgimento tipico diviene l’ufficio di polizia”. Ma pure i magistrati della corrente di MD invitano a raffreddare gli entusiasmi: “La presenza fisica è garanzia anche del risultato epistemologico dell’acquisizione probatoria”, e “analoghe perplessità fanno sorgere tutte le ipotesi che decontestualizzano la decisione, ipotizzando camere di consiglio delocalizzate, con gravi dubbi su riservatezza e ponderazione”. Va bene affrontare l’emergenza per evitare la paralisi delle udienze, ma “non tutte le facilitazioni permesse dalla crisi possano costituire un buon lascito per il futuro”: altrimenti “si rischia che, terminata la fase critica, si introducano o stabilizzino deroghe a quelle norme con cui la legislazione tutela e garantisce al massimo i diritti e le libertà”. Il processo ora si fa da casa. Online anche gli incontri protetti tra genitori e figli di Dario Ferrara Italia Oggi, 11 aprile 2020 Via libera al “processo da casa”. Nel maxi-emendamento al dl Cura Italia approvato al Senato c’è un pacchetto di norme per la giustizia ai tempi del Coronavirus. Si fa tutto online: dalle (poche) udienze che si celebrano al deposito degli atti nei procedimenti civili in Cassazione fino agli incontri protetti fra genitori e figli organizzati dai servizi sociali; dalla mediazione civile agli atti delle indagini preliminari. Collegamenti da remoto anche per le camere di consiglio nei procedimenti civili e penali che vanno avanti. E a non fermarsi sono soltanto i processi per la “tutela di bisogni essenziali”. Effetti di legge. Fino al 30 giugno nei procedimenti civili e penali non sospesi le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte tramite collegamenti da remoto, regolati dal solito provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia. E il luogo da cui si collegano i magistrati va considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Ermellini smart. Il processo civile telematico arriva in Cassazione: fino al 30 giugno il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Ma servirà anche qui il provvedimento Dgsia. La Suprema corte ha sottoscritto un protocollo con il Consiglio nazionale forense sulle modalità dei ricorsi digitali. Cassazione e prescrizione. Veniamo all’ampio capitolo sul penale, che ha suscitato le vibranti proteste dell’Ucpi. Nei procedimenti pendenti in Cassazione la richiesta di procedere da parte di detenuti, imputati o proposti può essere avanzata solo tramite il difensore. In quelli pervenuti alla cancelleria della Suprema corte fra il 9 marzo e il 30 giugno 2020 il decorso del termine di prescrizione è sospeso fino alla data dell’udienza fissata per la trattazione e in ogni caso non oltre il 31 dicembre. Postazione unica. Niente presenza fisica fino al 30 giugno per le udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti e periti: sarà il solito provvedimento Dgsia a regolare i collegamenti da remoto. I difensori attestano l’identità degli assistiti, i quali, se liberi sottoposti a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, partecipano all’udienza dalla stessa postazione da cui si collega il difensore. Senza interventi. Fino alla cessazione dell’emergenza dichiarata per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione a norma degli articoli 127 e 614 Cpp la Cassazione procede in camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti, salvo che il ricorrente chieda discussione orale. Largo alla videoconferenza. Addio ai tradizionali incontri protetti fra genitori e figli in spazio neutro, disposti dal giudice nelle controversie in tema di diritto di famiglia: sono sostituiti da collegamenti audio video che consentono la comunicazione fra l’adulto, il minore e l’operatore specializzato, secondo le modalità individuate dal responsabile del servizio socio- assistenziale e rese note all’ufficio giudiziario. Firma digitale. La modalità telematica prosegue dopo il 30 giugno per gli incontri della mediazione civile, se tutte le parti sono d’accordo. Il verbale del procedimento svoltosi online viene sottoscritto con firma digitale dal conciliatore e dagli avvocati. Gli avvocati a Bonafede: i processi tornino davvero di Errico Novi Il Dubbio, 11 aprile 2020 Ieri il tavolo virtuale voluto dal Ministro con rappresentanze forensi e Anm. La giustizia riparta. Con determinazione. Stavolta sono gli avvocati a sollecitare Bonafede. Che pure è sempre stato fra i ministri più favorevoli a tenere il Paese “vivo” anche nel contrasto all’epidemia. Ma nell’incontro, ovviamente virtuale, che il ministro della Giustizia ha voluto ieri pomeriggio con tutte le maggiori rappresentanze forensi e con l’Anm, è stata proprio l’avvocatura a spingersi in maniera più esplicita per una ripresa vera della giustizia dopo l’11 maggio. È stato uno snodo cruciale, quello vissuto in call conference tra via Arenula, Cnf, Ocf, Aiga, Ucpi, Unione nazionale Camere civili, Avvocati giuslavoristi italiani e, appunto, Associazione magistrati. Cruciale perché forse per la prima volta dall’inizio dell’emergenza coronavirus è arrivato, da uno dei due protagonisti della giurisdizione, un invito energico a “definire insieme criteri certi, uniformi seppur modulati in base ai contesti, per fare in modo che nella cosiddetta fase 2 si possano anche celebrare processi con gli attori in carne e ossa, e non solo da remoto o in modalità meramente cartolare”, come spiega Maria Masi, presidente facente funzioni del Cnf. Un appello che il guardasigilli ha ascoltato con attenzione, e con interesse anche per alcune particolari istanze avanzate dalla professione forense: per esempio, come spiega ancora Masi, “per i soggetti più vulnerabili e meritevoli di particolare tutela come minori e donne vittime di maltrattamenti”. E infatti, da via Arenula viene conferma che Bonafede “ha manifestato l’intenzione di integrare un nuovo tavolo” con la presenza di rappresentanze come “l’Aiaf, l’associazione degli avvocati per la famiglia e i minori”, che raccolgono proprio gli avvocati specializzati nella delicata materia. L’incontro è sembrato proficuo a tutti. Anche l’Anm ha mostrato una posizione diversa da quella con cui, domenica scorsa, aveva di fatto sollecitato il prolungamento, dal 15 aprile all’ 11 maggio, della sospensione, visto il rischio che ricadessero eccessive responsabilità sanitarie sui capi degli uffici giudiziari. L’Associazione magistrati ha però dato vita a un confronto serrato con il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza sui rischi, ribaditi dall’avvocatura, per una eccessiva “dematerializzazione” del processo penale. Certo è che sia l’Ucpi sia l’Unione nazionale Camere civili del presidente Antonio de Notaristefani si sono espresse con Cnf, Ocf e Aiga, per lo sforzo di tornare a celebrare, ove possibile, le udienze anche nelle aule di giustizia, e non solo in videocall. Entro giovedì prossimo tutte le rappresentanze si sono impegnate a produrre contributi scritti per definire un quadro omogeneo di regole, che dovrebbe dunque sostituire, in gran parte dei distretti, i “protocolli” fin qui adottati dai dirigenti insieme con gli Ordini territoriali. “Accumulare rinvii a ottobre o novembre non è la strada”, osserva ancora la presidente del Cnf, “perché non è che il ruolo per quelle epoche sia libero da udienze: se nei prossimi mesi continuassero a saltare processi, sarebbe impossibile celebrarli tutti in autunno”. Bonafede non ha mancato di avanzare perplessità su una ripresa certa e relativamente uniforme dal 12 maggio in poi, visto che l’emergenza coronavirus è tuttora diversa a seconda delle aree del Paese. Ma il Cnf ha a propria volta notato come più che le cautele anti-contagio potrebbe influire l’effettiva disponibilità di personale e di spazi nei vari Tribunali, e che si potrebbe così procedere a una regolazione più centralizzata. Capitoli a parte meritano sollecitazioni venute sempre dall’avvocatura, e in particolare dal coordinatore di Ocf Giovanni Malinconico, per la tutela delle famiglie con genitori separati, viste le difficoltà di trasferire i figli anche da un’abitazione all’altra. Istanza condivisa dal Cnf, come quella dell’Agi, l’associazione dei giuslavoristi, per i quali Bonafede ha assicurato disponibilità a riconoscere il valore delle negoziazioni assistite definite dagli avvocati in forma non impugnabile. Una strada, quella delle soluzioni alternative delle controversie, decisiva pure per i civilisti, pronti a inserirla fra gli strumenti per un ritorno ampio al cammino ordinario della giustizia. Garanzie a intermittenza in nome dell’emergenza: così si smantella il processo penale di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 11 aprile 2020 Gli emendamenti al Cura Italia rischiano di minare i valori fondamentali del diritto di difesa. Il problema non è quello di prevedere il futuro ma di comprenderlo quando arriva. E il futuro che sta arrivando non promette nulla di buono. Non si tratta di attivare qualche algoritmo predittivo ma di decifrare alcuni segni che già il presente ci mostra a piene mani. Proviamo a leggerli tutti insieme. Gli emendamenti approvati hanno ulteriormente chiarito, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quali siano nell’emergenza-virus i soggetti processuali da tutelare e quali quelli da sacrificare, quali gli interessi da salvaguardare e quali i diritti e le garanzie del giusto processo di cui fare tranquillamente a meno. Quali indagini svolgere al sicuro e quali persone esporre invece al contagio. Con delle linee guida di tutela che valgono per il pubblico ministero, ma non per il detenuto in attesa di giudizio, con un’idea della sicurezza e delle garanzie anch’essa a intermittenza, che non valgono per chi sconta la pena in carcere, ma solo per chi la somministra. Un apparato emergenziale che ha fatto giustamente denunciare i rischi di un pericoloso e non reversibile smantellamento dei valori del processo penale. Secondo Eugenio Albamonte sarebbe tuttavia del tutto infondato “il retro pensiero in base al quale staremmo assistendo ad una riforma occulta del processo penale in chiave inquisitoria, destinata a diventare definitiva dopo l’emergenza corona virus”. Occorre tuttavia replicare in proposito come in verità l’uso in chiave recessiva ed autoritaria dello stato di emergenza è fenomeno tanto noto e tanto ovvio nei suoi sviluppi, nelle sue dinamiche e nelle sue giustificazioni politiche, culturali e psicologiche che non vale neppure la pena di soffermarcisi troppo. Quel che vale la pena di chiarire è che la storia delle riforme del processo penale in questi anni e la stessa propulsione antigarantista, autoritaria e carcero-centrica impressa alle riforme dal fenomeno populismo penale nel nostro Paese, hanno consentito in questi anni la strutturazione di un assetto politico-giudiziario (e direi anche culturale) che lascia intravedere con assoluta nettezza le linee di una stabilizzazione della legislazione dell’emergenza. Valga per tutte la orgogliosa rivendicazione del dottor Gratteri della primogenitura del progetto applicativo del processo a distanza. Ben venga, dunque, per i seguaci del mancato ministro e per questa linea di pensiero maggioritaria l’introduzione di un processo delocalizzato, sbrigativo, snello ed economico in linea con la fase recessiva attraversata dall’intero Paese, nel quale i giudici (ed ovviamente anche i giudici popolari) stanno nei loro uffici o nelle loro case, gli imputati nei loro domicili (o nelle carceri che li ospitano), e gli avvocati dove meglio credano, ma non a coltivare il processo con gli obsoleti strumenti del contraddittorio e dell’immediatezza. O a rivendicare il valore democratico della “pubblicità delle udienze”, principio che esce evidentemente disintegrato da questa modalità di fare (una volta si diceva “celebrare”) i processi. Affermare dunque che “l’irruzione delle nuove tecnologie telematiche nel processo penale” sia un “fenomeno certamente auspicabile per le sue potenzialità benefiche” come pure sostenuto da Eugenio Albamonte, significa guardare al problema in maniera decontestualizzata che non tiene conto delle reali linee di tensione che attraversano la nostra storia e la storia della politica giudiziaria del nostro Paese. Se non vi è dubbio, infatti, che la tecnologia applicata al processo (e da tempo da noi auspicata) possa avere effetti benefici, c’è tuttavia da chiedersi come mai nessuna delle virtù informatiche e telematiche offerte dal progresso sia mai stata applicata sino ad ora al processo penale a beneficio delle garanzie processuali. E c’è da domandarsi come mai ora quella tecnologia si ritorca invece, come lo scorpione della favola antica, interamente contro i presupposti stessi del processo inteso come dispositivo democratico, liberale e garantista. E ciò che ancor più preoccupa è che l’emergenza come sempre accade finisce con il trasformare la logica delle cose in un asfissiante “prendere o lasciare”, il cui risultato è proprio quello che lo stesso Albamonte descrive: l’assenza di una “approfondita valutazione che di sicuro oggi non è consentita”. Ed è proprio questo un punto fondamentale della questione. In una matura democrazia lo stato di necessità è infatti una ipotesi che certamente vale alla adozione di misure eccezionali, ma che deve anche essere l’occasione di un necessario patto fatto di chiarezza e di lealtà fra lo Stato e il cittadino, un patto che ha ad oggetto la dichiarata ma straordinaria sospensione di alcuni diritti e di alcune garanzie e l’assunzione dell’impegno ad una immediata chiusura di tale fase di deroga in coincidenza con la fine dell’emergenza. Ma questa rassicurazione di natura pattizia dovrebbe venire coralmente dal Parlamento e dal Governo, mentre neppure una parola è stata detta dal Ministro della Giustizia. Importante, ma non certo sufficiente, che venga da un pur autorevole esponente della magistratura. Non sono affatto convinto dunque che queste siano - come ritiene Eugenio Albamonte - soltanto “suggestioni del tutto destituite di fondamento” e che davvero si possa escludere che “norme come quelle che consentono la dislocazione del giudice in luogo diverso dall’aula o la partecipazione alla camera di consiglio in video conferenza possono essere in alcun modo transitate nel processo penale dopo l’emergenza”. Noi ricordiamo infatti che anche l’art. 146-bis delle norme d’attuazione introdusse negli anni novanta in via eccezionale emergenziale e temporanea il processo a distanza, mentre poi questa modalità si è stabilizzata nei processi di criminalità organizzata al di fuori quei contesti e la riforma Orlando, con la sola voce contraria dell’avvocatura, e non certo dell’Anm, ha pochi anni fa ulteriormente esteso l’utilizzo del dispositivo telematico al di fuori di ogni giudizio di pericolosità ed ogni istanza securitaria. Ed abbiamo visto una lunga parabola di controriforme che dagli anni novanta in poi hanno segnato il processo penale, piegando il modello accusatorio ed il giusto processo di volta in volta alle esigenze del fenomeno mafioso, poi di quello corruttivo e poi ancora a quelle dell’efficientismo, demolendo un pezzo per volta la struttura della legalità sostanziale e processuale che dovrebbero presidiare il processo. Distorcendo il processo penale in virtù di ipotetiche “percepite” esigenze securitarie, e piegando a tali presunte esigenze tutti i valori costituzionali del contraddittorio, del diritto di difesa, della presunzione di innocenza, della riservatezza delle comunicazioni, della ragionevole durata. Sappiamo bene che vi è una parte della “magistratura italiana che - come ricorda Albamonte - ha interiorizzato le garanzie processuali rendendole una componente imprescindibile della propria cultura”, ma non è quella parte che può orientare oggi lo strumento politico e che dovrebbe pertanto farsi carico di una emergenza democratica che invece stenta a vedere con sufficiente lungimiranza. E vi è da fare infatti in proposito - approfittando di questa sonda cognitiva più sensibile che la crisi ci consegna - una ulteriore considerazione relativa alla qualità della stessa delle sorti della giurisdizione, sulle quali l’intera magistratura dovrebbe forse più attentamente riflettere. Ricordare cioè che un giudice che fa i processi a distanza e delibera in camere di consiglio con giudici popolari collocati ciascuno dove vuole, sulla base di testimonianze assunte da remoto, non solo sconvolge i “valori” del processo accusatorio, ma finisce con il polverizzare la “natura” stessa del processo in quanto tale. E quel giudice che non ha più interesse a coltivare la formazione della prova nel contraddittorio delle parti a contatto fisico con il testimone, così come quel giudice che pensa egli stesso di poter essere sostituito una due, tre, cento volte durante il processo, è un giudice che si delegittima da solo, che mortifica la giurisdizione ed il suo stesso ruolo sociale. C’è dunque da non stare affatto tranquilli nel vedere questo futuro che arriva perché, per quel che c’è da comprendere, non sarà un futuro che ci piace e che possa piacere alla nostra fragile e opportunista democrazia. È sulla base di queste non lontanissime esperienze che riteniamo che si debba levare una voce al tempo stessa dura ma responsabile e preoccupata per le sorti del processo penale. Ricordando che quel che accade alle garanzie del processo poi si riflette sull’assetto democratico dell’intero Paese. Ed è per tali ragioni che le valutazioni del dottor Albamonte ci paiono troppo generose ed è in base a questi elementi che riteniamo che le sue ottimistiche rassicurazioni non possano sostituirsi a quelle del Ministro e che non siano utili a contraddire invece quel main-stream che attraversa Governo e Parlamento e che in ossequio all’emergenza sta costruendo con il fango della propria incoerenza e della propria incultura un mostruoso e pericolosissimo Golem che una volta preso vita non sarà poi facile riaddomesticare. *Direttore di “Diritto di Difesa”, la rivista dell’Unione Camere Penali Italiane Carcere per i cronisti, il Cnog fa slittare la decisione della Consulta fnsi.it, 11 aprile 2020 Il legale del Sugc, che ha sollevato l’eccezione di incostituzionalità della norma che prevede la pena detentiva per i giornalisti, e l’Avvocatura dello Stato favorevoli a trattare il caso il prossimo 21 aprile. Ma l’Ordine, mero interventore nel procedimento, chiede l’udienza pubblica e tutto è rinviato sine die. Il 21 aprile si sarebbe dovuta celebrare, dinanzi alla Corte Costituzionale, la pubblica udienza in relazione alla eccezione di incostituzionalità sul carcere per i giornalisti sollevata dal Tribunale di Salerno, su sollecitazione dell’avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania, Giancarlo Visone, in un processo per diffamazione a mezzo stampa contro un iscritto del Sugc. “In ragione dell’attuale emergenza Covid-19 - informa il sindacato regionale -, con decreto del presidente della Corte Costituzionale, si era palesata la possibilità, al fine di consentirne la trattazione, della celebrazione del procedimento nelle forme della camera di consiglio, senza partecipazione delle parti. In particolare, la Corte ha disposto che, laddove le parti ritenessero sufficientemente istruito per iscritto il procedimento, dovessero esprimere il proprio consenso alla trattazione in camera di consiglio, altrimenti la decisione sarebbe stata rinviata a data da destinarsi, onde consentire la pubblica udienza. Nel caso di specie, tanto l’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza della presidenza del Consiglio dei ministri, quanto l’avvocato Francesco Paolo Chicchiarelli, che per conto del Sindacato unitario giornalisti della Campania rappresenta il collega Pasquale Napolitano, hanno convenuto che il processo fosse adeguatamente istruito, avendo le parti già puntualmente sviscerato tutte le proprie difese con apposite memorie scritte, ed hanno quindi ritenuto opportuna l’immediata trattazione del procedimento”. È chiaro, aggiunge il Sugc, che, “non essendo prevedibile la durata dell’emergenza, diversamente, la decisione sarebbe stata rinviata a data futura non preventivabile, con conseguenze attuali sulla libertà di stampa. Purtroppo, il difensore dell’Ordine nazionale dei giornalisti, terzo interventore in questa procedura, ha invece negato il suo consenso alla trattazione, insistendo per la decisione futura in pubblica udienza. Ciò determinerà lo slittamento a data incerta della risoluzione di una questione di vitale importanza per la categoria dei giornalisti”. Veneto. “Meno perquisizioni per evitare il rischio contagio” Il Gazzettino, 11 aprile 2020 Gli agenti penitenziari sono preoccupati e chiedono più sicurezza. Il segretario provinciale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Carmine Napolitano, ha scritto alla direttrice di Santa Maria Maggiore, Immacolata Mannarella, al provveditore regionale triveneto dell’amministrazione penitenziaria, Gloria Manzelli, e al Garante dei detenuti, Sergio Steffenoni, per sollevare il problema delle perquisizioni ordinarie effettuate nelle stanze dei detenuti. “Ogni mattina a svolgere tale servizio sono impegnati 4-5 agenti in uno spazio di 10 metri quadrati - lamenta il segretario dell’Osapp - Tale operazione comporta la violazione dei decreti in merito al contenimento della pandemia (che vietano la creazione di assembramenti e stabiliscono una distanza minima di 1 metro) e rischia di mettere a repentaglio la salute di tutta la popolazione detenuta”. Il rappresentante sindacale evidenzia come tra il personale che presta servizio in carcere vi siano dipendenti che hanno tra i membri della famiglia infermieri e medici, e dunque potrebbero essere inconsapevolmente fonte di contagio. “Chiederemo dunque che l’attività di perquisizione venga temporaneamente sospesa, o almeno ridotta sensibilmente nel numero di addetti impiegati e nel numero di perquisizioni settimanali” Molise. “Niente tampone al personale del carcere”, consigliera Calenda sollecita Asrem primonumero.it, 11 aprile 2020 Sottoporre a tampone il personale che opera all’interno delle case circondariali molisane: è il succo della nota che la consigliera regionale Filomena Calenda ha inviato al direttore generale Asrem, Oreste Florenzano dopo aver raccolto le sollecitazioni di chi lavora in tali strutture. Per la presidente della Quarta commissione è urgente sottoporre a test diagnostici tutto il personale sanitario e non per escludere qualsiasi rischio di contagio. La sollecitazione rivolta all’Azienda sanitaria regionale arriva dopo aver “accolto le istanze pervenutemi dal personale sanitario che opera all’interno della struttura carceraria di Isernia che, ad oggi, ancora non è stato sottoposto al test diagnostico (tampone faringeo) per escludere il contagio dal virus Covid-19?. Inoltre, aggiunge Calenda, “ritengo opportuno che vengano sottoposti a esami tutti coloro che lavorano negli istituti carcerari della nostra regione (Isernia, Campobasso e Larino). Solo in tal modo, infatti, si potrà escludere, il diffondersi di casi all’interno di queste strutture penitenziarie. La pandemia, purtroppo, nelle altre regioni è riuscita ad entrare anche negli istituti di pena, provocando persino sommosse e proteste. Bisogna prevenire tali situazioni e garantire che detenuti e personale vengano tutelati e non vengano sottoposti a rischi inutili”. Il presidente della IV Commissione Consiliare infine ha colto l’occasione per ricordare al direttore generale che nell’ultimo Consiglio regionale è stata approvata una mozione in cui si evidenzia la necessità di effettuare test diagnostici a tutto il personale sanitario e a coloro che operano nelle residenze per anziani. “Spero - ha concluso Calenda - che vengano sottoposti a tampone oro-faringeo in tempi rapidi, in modo da evitare ulteriori contagi”. Milano. Il procuratore Greco ai sostituti: su, è ora di rispettare la legge! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 aprile 2020 In una circolare, per contenere il sovraffollamento, ha chiesto ai pm di limitare l’uso della custodia cautelare. Come dovrebbe essere di norma. Sarà il fatto che in Lombardia l’attenzione di tutti è molto concentrata sul Coronavirus. Sarà il fatto che anche al Palazzo di giustizia di Milano già due magistrati si sono ammalati. Sarà il fatto che di questi tempi va tutto un po’ a singhiozzo anche nei tribunali. Fatto sta che la circolare con la quale il Procuratore capo Francesco Greco pochi giorni fa ha ingiunto (ne ha il potere) ai suoi sostituti di andarci piano, con le richieste di custodia cautelare, e di concentrare la propria attenzione solo sui reati più gravi, non pare aver suscitato particolari reazioni di protesta. Anche se aveva un retrogusto di rimprovero, quasi come se alcuni pubblici ministeri avessero abusato del tintinnar di manette. Nel sollecitare al Gip l’adozione di misure cautelari, aveva scritto il capo dell’ufficio, limitatevi ai “reati con modalità violente” o “di eccezionale gravità o di codice rosso”, e aveva ricordato la situazione di particolare pericolo in cui si trovano le carceri italiane, eternamente sovraffollate e particolarmente esposte alla possibilità di contagio da virus. Non risultano particolari prese di posizione al riguardo da parte dei sessanta sostituti procuratori del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Eppure, poco più di tre mesi fa, nel dicembre del 2019, era scoppiata una mezza rivoluzione, quando il dottor Greco, sempre con la formula della circolare, aveva presentato i “criteri organizzativi” per gli uffici per il triennio 2019-2921. Principi che erano stati considerati dalla quasi totalità (con l’esclusione degli otto vice del procuratore capo) dei sostituti come “limitative dell’autonomia dei singoli pm in rapporto ai procuratori aggiunti”, che avrebbero dovuto essere interpellati prima che ciascun pm assumesse iniziative come le iscrizioni nel registro degli indagati, le intercettazioni e gli atti investigativi. Era stato un richiamo alle gerarchie e un tentativo di mettere un confine all’autonomia del singolo sostituto difficilmente accettabile, nella situazione ormai degenerata del nostro ordinamento. L’iniziativa del procuratore Greco e la rivolta che ne era seguita sono lo specchio dell’anomalia italiana, che si rispecchia non solo nel potere enorme e incontrollato che hanno i Pubblici ministeri (soggetti burocratici privi di legittimazione popolare) nel nostro ordinamento, caso unico al mondo, ma addirittura nella rivendicazione di assoluta autonomia da parte di ogni singolo “sostituto”. Come se il termine medesimo non stesse a indicare qualcuno che agisce “al posto di”, qualcun altro, cioè il titolare unico dell’iniziativa, il procuratore capo. È persino singolare che Francesco Greco debba oggi ricordare ai suoi collaboratori quel che prevede la legge, e cioè che il ricorso alla custodia cautelare in carcere debba essere solo “l’extrema ratio”, quando le misure coercitive o interdittive, anche applicate cumulativamente, risultino inadeguate. L’iniziativa pare quasi un rimprovero rispetto a quanto accade ogni giorno alla Procura della repubblica di Milano. Forse fi no a ora qualche pm ha abusato del proprio potere e ha sventolato le manette per intimidire (come già venticinque anni fa) e ha contribuito a riempire le carceri anche quando l’arresto non era un atto dovuto? La domanda è retorica perché gli esempi si sprecano, e non solo a Milano. Basta contestare un reato associativo, anche senza la presenza di fatti delittuosi specifici, per far scattare le manette e avere la possibilità di disporre intercettazioni, attraverso le quali poi poter costruire un castello accusatorio anche in presenza di labili indizi. L’anomalia, e le successive cattive interpretazioni, nascono dall’articolo 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Lapidario. Un principio nato come un compromesso, dopo il ventennio con la soggezione di fatto della pubblica accusa al regime. Si concede l’autonomia al rappresentante dell’accusa, ma lo si vincola con l’obbligatorietà. Il risultato è stato tragico a paradossale nei risultati. Prima di tutto per l’assoluta irrealizzabilità del principio: nessuno riuscirà mai a perseguire tutti i reati, soprattutto se non ci sono dei criteri di priorità. Criteri che furono suggeriti, fin dal 1993, dai membri della Commissione Conso, che erano tutti magistrati, e rappresentavano tutte le componenti, anche politiche e correntizie, della categoria. Il secondo paradosso del principio dell’obbligatorietà è il totale arbitrio e le palesi distorsioni che ne sono derivate, per cui troppo spesso addirittura il singolo sostituto finisce con il decidere a quali reati e a quali fatti dare priorità. Creando tra l’altro, disparità tra i cittadini, in violazione di un sacro principio costituzionale, quello dell’uguaglianza. Se a questo si aggiunge il fatto che il pubblico ministero italiano, veramente unico al mondo, finisce con l’avere un potere politico privo di bilanciamento, poiché non è eletto come negli Stati Uniti né dipende dal Guardasigilli come in Francia, si capisce perché, dopo i fallimenti riformistici delle Bicamerali, tanti capi dei singoli uffici giudiziari tentino di suggerire qualche criterio, almeno organizzativo. Come ha tentato a Milano Francesco Greco. Non è stato il primo. Ma la strada è ancora lunga, a partire dalla circolare Zagrebelsky del 1990, che indicò vere corsie preferenziali per alcune ben individuate tipologie di reato, fino a quella del procuratore della repubblica di Torino Maddalena nel 2007 e del presidente della corte d’appello di Milano del 2008. È una vera attività paralegislativa, quella messa in campo da alcuni procuratori, che trova moltissime difficoltà nella stessa casta dei togati. E anche nell’incapacità del Parlamento e dei governi di diverse parti politiche, di modificare il maledetto articolo 112 della Costituzione. Napoli. Il procuratore Melillo scrive ai Pm: “Attenti, le carceri stanno scoppiando” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 11 aprile 2020 Nelle carceri di Napoli e dintorni c’è una “grave condizione di sovraffollamento” che genera “allarme sociale per le relative condizioni di vita”. È quanto si legge nella circolare con cui il procuratore partenopeo Giovanni Melillo apre a un “differimento dell’esecuzione” della pena che molti soggetti dovrebbero scontare all’interno del carcere. Nel documento il magistrato prende in esame il caso dei condannati liberi o dei soggetti agli arresti domiciliari destinati a finire in cella. In queste circostanze, come si legge nel testo firmato da Melillo, il provvedimento che dispone la traduzione in carcere è sottoposto al visto del procuratore aggiunto che coordina la sezione Esecuzione penale. Il motivo? “Appare necessario - è scritto nella circolare - assicurare l’uniformità delle valutazioni concernenti l’opportunità di un differimento dell’esecuzione, stante l’attuale emergenza epidemiologica”. In altri termini: le carceri scoppiano, il rischio che si trasformino in focolai di Coronavirus è dietro l’angolo, perciò i magistrati devono valutare attentamente la possibilità di evitare che altre persone finiscano dietro le sbarre, almeno per il momento, e che la “bomba epidemiologica” denunciata dall’associazione Antigone scoppi. La circolare del procuratore è arrivata nello stesso giorno in cui un gruppo di familiari di detenuti ha protestato all’esterno dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Nella struttura in provincia di Caserta, infatti, l’allarme sanitario resta alto: sono quattro i detenuti positivi al Covid-19, tre dei quali in isolamento in spazi ad hoc del reparto di alta sicurezza Tamigi e uno ricoverato al Cotugno. I parenti dei detenuti hanno ricevuto rassicurazioni dai vertici del carcere: i test sierologici ai quali è stata finora sottoposta la popolazione carceraria sammaritana non hanno rivelato altri casi di contagio. Ieri, inoltre, sono stati sottoposti ai test i detenuti che, nelle scorse settimane, sono usciti dall’istituto penitenziario per visite esterne o controlli medici. Nonostante l’impegno dei vertici del carcere e di Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania, la tensione resta palpabile. Già nello scorso fine settimana, d’altra parte, un gruppo di detenuti si è barricato in un’ala dell’istituto e ha minacciato gli agenti della polizia penitenziaria con l’olio bollente. Questo episodio è ora al vaglio della Procura di Santa Maria Capua Vetere alla quale il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello si è rivolto per denunciare presunti maltrattamenti ai danni dei manifestanti: possibili sviluppi già nelle prossime ore. Agitazione anche a Poggioreale, dove molte persone temono per le condizioni di salute dei loro familiari detenuti. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuti positivi al coronavirus, proteste e violenze Il Riformista, 11 aprile 2020 Il Garante: “È mio dovere mostrare questa foto”. Le foto delle presunte violenze sul corpo di un detenuto dopo la protesta avvenuta domenica scorsa, 5 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). A denunciarla sui social è Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli. L’immagine mostra la schiena di un detenuto, scarcerato questa mattina, con segni evidenti di percosse. “Proprio stamattina - scrive Ioia - mi sono letto lo statuto da garante per i diritti e la salute dei detenuti, ed è mio sacrosanto dovere mostrare questa foto di un detenuto scarcerato stamattina dal carcere di Santa Maria Capua Vetere”. La protesta che ha coinvolto circa 150 persone è avvenuta dopo la notizia che un detenuto era risultato positivo al coronavirus. Si sono vissuti momenti di altissima tensione nel carcere casertano, con gli agenti penitenziari che sarebbero stati minacciati anche con dell’olio bollente. La protesta è poi rientrata solo a notte fonda con l’intervento delle forze dell’ordine. Nei giorni successivi è poi emersa la positività di altri due detenuti al coronavirus. Ma la settimana è stata caratterizzata dalle manifestazioni dei familiari dei detenuti che si sono radunati all’esterno del carcere sammaritano. Tra loro c’è chi ha denunciato le presunte violenze subite in carcere dalle forze dell’ordine nel tentativo di domare la rivolta. “Li sono andati a picchiare cella per cella” ha raccontato una donna. Sulla vicenda nei giorni scorsi sono intervenuti in un comunicato congiunto, Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania e Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. “Tutti i detenuti dell’intera sezione, oltre 130 persone, compresi i tre positivi presenti nel carcere, non presentano alcun sintomo di malattia, non necessitano di alcuna terapia e sono monitorati dai sanitari” hanno chiarito aggiungendo: “Abbiamo potuto rilevare come tutti i detenuti presenti nel carcere di Santa Maria siano attentamente valutati e seguiti sin dall’inizio dell’emergenza e ringraziamo il personale sanitario ai vari livelli che è intervenuto in questi giorni con immediatezza e professionalità. A partire dalla notizia del primo caso positivo, nella notte di sabato, sono stati effettuati 200 test sierologici rapidi domenica e 200 tamponi naso-faringei lunedì, per tutti i detenuti della stessa sezione e per tutto il personale, sanitario e penitenziario, che vi lavora”. “Siamo vicini al personale penitenziario e ai familiari dei detenuti, - conclude la nota congiunta - e collaboreremo giorno per giorno a garanzia del diritto alla salute, del diritto alla vita di tutte le persone che operano nel mondo carcerario, dando supporto al personale sanitario. Riteniamo anche importante contribuire ad un’informazione puntuale, trasparente e corretta, che eviti la diffusione di notizie che non corrispondono alla realtà, creano condizioni di falso allarme e ostacolano il lavoro di tutto il personale impegnato nella gestione di un’emergenza che interessa tutto il nostro mondo”. Verona. Allarme Covid nel carcere: “Trenta detenuti e venti poliziotti positivi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2020 La denuncia del leader della Uil-Pa Polizia penitenziaria. Emergenza Covid 19 nel carcere di Verona. Vi sarebbero circa trenta detenuti e circa venti appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria risultati positivi al tampone. Raggiunto da Il Dubbio, la notizia del focolaio viene confermata da Gennarino De Fazio, il leader della Uil-Pa Polizia penitenziaria. Ma non solo, il rappresentante sindacale denuncia che, sempre in relazione al penitenziario veronese, è stato riferito nelle scorse settimane dell’emanazione di inviti - verbali, ma in occasioni formali quali le conferenze di servizio - rivolti dalla Direzione al personale con intento dissuasorio all’utilizzo delle mascherine. Come se non bastasse, il sindacalista ha appreso che nei giorni passati i detenuti nuovi giunti sarebbero stati sottoposti a triage e tenuti in osservazione per soli tre giorni, a seguito dei quali in assenza di sintomatologia specifica sarebbero stati associati ai reparti detentivi in comune senza particolari, ulteriori, precauzioni. Di tutto questo Gennarino De Fazio ne chiede contezza tramite una nota urgente indirizzata al Dap, al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, al ministro della salute Roberto Speranza e ovviamente alla direzione del carcere veronese. Non solo ha chiesto di sapere l’esatto numero dei contagiati, ma anche quale protocollo operativo e sanitario si sta adottando e si intende attuare anche per salvaguardare compiutamente dai rischi di contagio il personale dipendente e, soprattutto, quello del Corpo di polizia penitenziaria impiegato nella sezione detentiva nella quale sarebbero allocati i circa trenta detenuti affetti da Covid-19. Nel frattempo, come anticipato in esclusiva da Il Dubbio, per la prima volta il governo italiano dovrà rendere conto - entro le 10 di martedì prossimo - alla Corte europea di Strasburgo di come sta gestendo l’emergenza Covid 19 nelle carceri italiane. La questione è seria, i numeri del contagio all’interno delle carceri sono in continua ascesa. Se confermati il numero dei contagi di oggi, tra personale e detenuti, i numeri totali hanno fatto notevole balzo in avanti. Proprio mentre nel mondo libero i numeri stanno finalmente decrementando. Voghera (Pv). Coronavirus: morto detenuto ricoverato in ospedale askanews.it, 11 aprile 2020 Si chiamava Antonio Ribecco ed era un boss dell’Ndrangheta detenuto nel carcere di Voghera. È morto in un ospedale di Milano dove era ricoverato da circa una settimana per Covid-19 e altre patologie. Si tratta del secondo detenuto che muore per coronavirus, il primo è deceduto nel carcere della Dozza di Bologna a inizio aprile. E due sono al momento i deceduti anche fra gli agenti di polizia penitenziari: uno lavorava nel carcere di Opera, l’altro in quello di Brescia, dove è deceduto anche il medico della casa circondariale. “La morte del secondo detenuto nelle carceri italiane aumenta ancora di più l’attenzione da parte nostra sulla situazione dei contagi da Covid-19 all’interno degli istituti. Sono molti gli istituti in Italia che sono oramai in enorme difficoltà per il propagarsi del virus tra i detenuti e i poliziotti. Bologna, Verona, Voghera e Pisa sono solo alcuni delle carceri in cui i contagi si contano a decine da una parte e dall’altra. Solo a Verona ci sono 50 contagiati tra poliziotti e detenuti. Siamo molto preoccupati vista l’incapacità dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia di gestire le criticità che ogni giorno si presentano”, afferma Aldo di Giacomo del sindacato S.PP.. Secondo di Giacomo è “molto grave la mancanza di trasparenza sui dati forniti dell’Amministrazione”. Ad esempio su un totale di circa 36mila unità, gli agenti positivi sono ufficialmente 190, ma “400 colleghi sono a casa in isolamento o quarantena e ci sono difficoltà a fare i tamponi. I numeri sono irrealistici”, spiega ancora di Giacomo che ricorda di aver chiesto più volte di isolare i positivi e di sanificare gli ambienti. Il segretario generale del S.PP. ha presentato oggi un esposto presso la procura di Verona per verificare se nel carcere di Montorio vengono correttamente applicate le misure di sicurezza sanitaria per prevenire la diffusione del virus. Voghera (Pv). “C’è rischio virus in cella”. La direttrice replica: “Casi controllati” di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 11 aprile 2020 Accuse anche dall’ex calciatore Iaquinta (il padre è detenuto) La responsabile del penitenziario spiega le contromisure. Pubblica un disegno fatto a mano di una cella della casa circondariale di Voghera, per dimostrare che in quello spazio non sarebbe possibile tenere le distanze di sicurezza imposte dall’emergenza sanitaria. Il messaggio che il calciatore Vincenzo Iaquinta, il cui padre sconta una pena nella struttura vogherese, ha affidato al suo profilo sul social network Instagram (poi ripreso da un sito sportivo online) è chiaro: “Come si fa a mantenere la distanza di sicurezza?”. Insomma, il metro di distanza interpersonale, in uno spazio che dal disegno del calciatore risulta di 5,25 metri per 4,50, occupato da tavolo e quattro sedie, 2 letti più uno a castello, angolo cottura e il bagno, non sarebbe possibile da rispettare. Un dubbio cui risponde il direttore della casa circondariale di Voghera, Stefania Mussio, che parla anche dell’impegno per assicurare la tutela dei detenuti. A partire dalle diverse misure adottate: “Il cambiamento delle abitudini e delle relazioni è qualcosa che riguarda oggi tutte le persone e ancor di più chi si ritrova a dover condividere uno spazio “forzato” in ragione del reato commesso - spiega Mussio. L’argomento della distanza interpersonale non può essere considerato l’unico paramento misuratore di un pericolo: le persone detenute devono indossare la mascherina, devono mantenere la cella pulita e sanificata con i prodotti a loro disposizione, devono in ogni caso adottare modalità di relazione più caute e accorte, devono mantenere areata la cella. Inoltre devono ricevere informazioni corrette”. La direttrice fornisce dettagli sulla situazione in carcere per quanto riguarda il contagio da Coronavirus. La situazione Covid - “La sezione in cui si trova Iaquinta è stata posta in quarantena perché sono stati individuati due casi positivi di Covid-19, fortunatamente asintomatici. Entrambi i casi hanno riguardato due detenuti che condividevano la camera di pernottamento, rispettivamente con altre tre persone: tutte e 6 sono state sottoposte a tampone e tutte e sei sono risultate negative”. Stefania Mussio spiega che in carcere si fa di tutto per affrontare l’emergenza nel miglior modo possibile, conciliando le ragioni della sicurezza con gli aspetti umani e sociali. “Abbiamo cercato in questo periodo di comprendere le angosce sia dei detenuti che dei loro famigliari. Abbiamo fatto in modo, con tutti gli strumenti a disposizione, di allentare il problema dei colloqui e delle telefonate, favorendo in ogni modo i contatti con le famiglie. Il personale penitenziario lavora duramente, fortemente provato dai turni di servizio e dal virus che non risparmia nessuno. Applichiamo rigorosamente i protocolli sanitari e tutte le possibili modalità di prevenzione, con le difficoltà note a tutti coloro che lavorano in prima linea. Qui come altrove non è diverso: la diversità la facciamo quando affrontiamo il problema senza scoraggiarci credendo fortemente di svolgere un servizio e non sentendoci soli, ma un insieme di forze. Con noi i medici, il medico del lavoro e gli infermieri. Nessuno è escluso”. Infine, la direttrice non nega che quello degli spazi in carcere possa essere un problema: “La complessità di questo virus, che merita attenzione e prevenzione, non si dovrebbe sempre circoscrivere al solo problema della distanza interpersonale e quindi dell’affollamento, una questione importante, nota e di vecchia data, che meriterebbe di essere affrontata lontano da logiche emergenziali”. Padova. “Nelle vostre parole mi sento a casa”: il Papa scrive ai detenuti di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 11 aprile 2020 “Nelle vostre parole mi sono sentito accolto, a casa”: ancora una volta Papa Francesco ha rivolto un pensiero di vicinanza e sostegno al mondo delle carceri. Nel giorno del venerdì santo il Pontefice ha espresso la sua gratitudine per le meditazioni e gli spunti di riflessione forniti dai detenuti della comunità Due Palazzi di Padova per la Via Crucis in programma stasera. “Voglio ringraziarvi - ha proseguito il Pontefice - perché avete disperso i vostri i nomi non sul mare dell’anonimato ma delle molte persone legate al mondo del carcere. Così, nella Via Crucis, presterete la vostra storia a tutti colori che nel mondo condividono la medesima situazione”. Rivolgendosi ai detenuti dell’istituto veneto Bergoglio ha aggiunto: “È consolante leggere una storia in cui abitano le storie, non solo delle persone detenute, ma di tutti coloro che si appassionano per il mondo del carcere. Insieme è possibile. Vi abbraccio forte. Pregate per me, vi porto sempre nel mio cuore”. Per don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, “le parole di Papa Francesco sono la soddisfazione di una comunità intera che si sforza tutti i giorni di aiutare i viventi che sono caduti per terra a risorgere, a rimettersi in piedi”. Le meditazioni - ha spiegato il cappellano - sono state scritte dalla comunità del carcere di Padova, “non solo da detenuti ma da tutte le persone che cercano di vincere la sfida della rieducazione: magistrati, imprenditori, volontari, agenti di Polizia Penitenziaria, familiari di detenuti”. In occasione delle festività pasquali anche l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ha voluto indirizzare una lettera ai detenuti: “Oggi più che mai vorrei essere lì tra di voi. A maggior ragione in questo momento di massimo isolamento che accentua la sofferenza per la restrizione delle visite dei vostri affetti più belli, la paura e l’incertezza sulla vostra condizione, la precarietà rispetto alle cose di prima necessità. Ho desiderato entrare nella vostra cella per raggiungervi e parlare a ciascuno di voi, al vostro cuore sofferente”. Padova. La Via Crucis di don Pozza e dei carcerati del Due Palazzi di Davide D’Attino Corriere del Veneto, 11 aprile 2020 Quella di ieri sera, trasmessa da Roma in mondovisione, inevitabilmente è stata una Via Crucis diversa. Unica. Destinata a restare per sempre nella storia. Una celebrazione inedita, sul sagrato della Basilica di San Pietro anziché di fronte al Colosseo come avvenuto fino all’anno scorso, non solo per la figura “solitaria” di papa Francesco, in una piazza deserta di fedeli a causa dell’emergenza sanitaria in atto. Ma anche per la presenza, nel Venerdì Santo in cui si commemorano la passione e la crocifissione di Gesù Cristo, di don Marco Pozza, già soprannominato “don Spritz” quand’era viceparroco nella chiesa della Sacra Famiglia a Padova. A lui, sacerdote 40enne originario di Calvene (Vicenza), oggi cappellano del carcere Due Palazzi sempre a Padova, il pontefice ha affidato il compito di portare la croce durante le quattordici stazioni della cerimonia. E il giovane prete, che gode da tempo di un rapporto “privilegiato” con il Santo Padre (tanto da intervistarlo spesso su Tv2000), si è spiritualmente calato nella parte, senza rinunciare al suo solito abbigliamento, jeans e scarpe da ginnastica, e tradendo un pizzico di emozione. La stessa emozione che si è provata quando, all’altezza di ogni stazione della Via Crucis, sono state lette le meditazioni preparate proprio da alcuni detenuti del carcere padovano e raccolte da don Pozza con la giornalista della Difesa del Popolo, Tatiana Mario. “Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo - ha scritto un ergastolano calabrese scoppio nel pianto. Dopo ventinove anni di galera, non ho ancora perduto la capacità di piangere e di vergognarmi della mia storia passata e del male compiuto. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona. Il passato è qualcosa di cui provo ribrezzo. È strano a dirsi ma il carcere è stato la mia salvezza. Se per qualcuno sono ancora Barabba, non mi arrabbio: avverto, nel cuore, che quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi per educarmi alla vita”. Napoli. Sepe agli “amici dietro le sbarre”: non cedete alla paura verso il virus di Rosanna Borzillo Il Mattino, 11 aprile 2020 Si rivolge ai detenuti in “questi giorni difficili, pieni di paure e di preoccupazioni” e li chiama “carissimi amici”: l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, sceglie di scrivere a chi “vive in una condizione di restrizione, resa ancora più dura dal virus, diffusosi in Italia”. A loro dedica una lettera di incoraggiamento e, in questa Settimana Santa, invita a non “avere paura”. L’arcivescovo ricorda il brano del Vangelo in cui viene riferito che Gesù stava nella barca con i discepoli “anche allora - dice - intorno c’era la tempesta e sembrava che tutto e tutti stessero per naufragare”. “Una situazione - dice Sepe - che vi rende simili alle altre persone libere, che sono costrette a restare a casa e non si possono incontrare con gli amici e i parenti, come si era abituati a fare”. Tutti temono la tempesta, tutti pensano che sia la fine. “E questo ci rende tutti un po’ carcerati e ci unisce a voi in questo tempo in cui ciascuno, però, è chiamato a fare la propria parte per evitare che il virus si possa propagare”. L’invito ai detenuti è, perciò, a mantenere la calma, a sostenere i compagni più fragili e in difficoltà, a pregare il Signore, che non ci farà mancare il suo sostegno. “Gesù - ricorda Sepe - sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. Ai detenuti (a cui Sepe ha dedicato l’anno pastorale con la Lettera “Visitare i carcerati”, ispirata all’opera di misericordia), aggiunge: “non siate paurosi! Gesù disse ai discepoli: “Non avete ancora fede?”. E a noi ripete di non avere paura e di continuare a rivolgerci a lui con fede e speranza”. E, poi, un appello: a mantenere la calma. “Capisco - scrive ai detenuti - che anche voi siate in ansia per voi stessi e per le vostre famiglie, e che la condizione di reclusione vi tiene lontani dai vostri affetti in un momento così pieno di incertezze”. La sospensione dei colloqui con i propri familiari, per impedire che il contagio possa entrare all’interno del carcere, ha inasprito paure e animi. L’arcivescovo ribadisce: “So che state comunicando soltanto attraverso i telefonini cellulari, anche con chiamate in video, ma certo non è la stessa cosa che vedersi di persona; tuttavia è comunque un modo per non interrompere i legami e per guardare negli occhi le persone a cui volete bene”. Poi un incoraggiamento per gli “amici” che Sepe raccomanda, in modo particolare, nella preghiera alla Vergine, benedicendo “mogli, figli e madri a cui va un abbraccio paterno”. Voghera. Feste di Pasqua, il Vescovo Viola oggi in visita al carcere cittadino vogheranews.it, 11 aprile 2020 È un periodo particolare alla Casa Circondariale di Voghera: si è fronteggiata l’emergenza che l’intera Nazione sta attraversando con attenzione alla salute delle persone e alle reciproche relazioni. “Si è dovuta avviare un’azione nuova, diversa, di fronte alla quale non è stato semplice ricalibrarsi - spiega la dirigenza del carcere: è stato necessario limitare gli accessi di operatori esterni, riducendo le attività del trattamento, tutti i progetti si sono congelati, e allo stesso modo si è fatto di tutto per preservare i contatti delle persone detenute con i familiari così indispensabili soprattutto nelle difficoltà.” In carcere ora, ci si parla a distanza e si spera che i contatti telefonici più numerosi sopperiscano alla presenza”, aggiunge l’istituto. In questo nuovo scenario la struttura punta comunque a valorizzare i momenti di incontro. Per questo è stato contattato il Vescovo Vittorio Viola, “che si è mostrato molto disponibile ed ha immediatamente accolto la richiesta di incontrare tutti noi per una comune sentita preghiera”, aggiunge l’Istituto. Per questo, oggi, sabato 11 aprile, Padre Vittorio Viola si recherà presso l’Istituto, facendo accesso da solo, per impartire una speciale benedizione al personale e alle persone detenute, per pregare insieme. Alle ore 12 il Vescovo benedirà il personale presente nel piazzale antistante l’Istituto. Dopo di che, accompagnato dal Direttore e dal Comandante, andrà all’interno per visitare le singole sezioni e in questo pellegrinaggio, dove ogni persona detenuta sosterà davanti alla propria cella, pregherà con tutti. In tutte le sezioni, fa sapere il carcere, saranno poste delle cassette con dei rami d’ulivo, in modo che dopo la benedizione ogni persona possa attingervi e conservare un segno di pace, in ricordo del momento vissuto. Nelle sale socialità di ogni sezione, al passaggio del Vescovo, sarà poi consegnata anche un’orchidea (“simbolo di vita che fiorisce, che si rigenera proprio ora in questa calda stagione primaverile”). Bologna. Un programma radiofonico per i detenuti sostenuto anche dal Garante regionale di Cristian Casali cronacabianca.eu, 11 aprile 2020 Le puntate in onda su Radio Città Fujiko a partire dal prossimo lunedì, 13 aprile, dalle 9 alle 9.30 (dal lunedì al venerdì fino al 30 giugno), riascoltabili anche sul blog “Liberi dentro” nella pagina dei podcast. Un programma di didattica, cultura e informazione rivolto al carcere, ma anche alla cittadinanza: l’idea è quella di non fermare le attività didattiche che si svolgevano nella struttura bolognese della Dozza prima dell’inizio dell’emergenza legata al coronavirus. Il progetto “Liberi dentro-Eduradio” vede coinvolti gli insegnanti della scuola del carcere, le associazioni di volontariato, i garanti dei diritti delle persone detenute e i diversi rappresentanti delle fedi: un coro di voci per accorciare le distanze tra carcere e società. Il programma andrà in onda su radio Città Fujiko (103.1 fm) a partire dal prossimo lunedì, 13 aprile, dalle 9 alle 9.30 (dal lunedì al venerdì fino al 30 giugno), e tutte le puntate saranno riascoltabili sul blog “Liberi dentro” nella pagina dei podcast. Un’iniziativa, spiega il Garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli, “che abbiamo apprezzato fin da subito e che cercheremo di sostenere ritenendo fondamentale lo strumento della didattica all’interno degli istituti carcerari”. L’emergenza sanitaria, ha rimarcato poi padre Ignazio (tra i promotori del progetto), “ha causato un blocco drammatico dei contatti con l’esterno delle carceri italiane, comprese le attività educative: con questo programma vogliamo che le nostre voci scavalchino i muri”. Sondrio. I detenuti organizzano una raccolta fondi per l’emergenza Covid-19 varesenews.it, 11 aprile 2020 Hanno raccolto quanto nelle loro possibilità e hanno donato alla Protezione Civile tramite il cappellano della casa circondariale. Originale iniziativa dei detenuti della casa circondariale di Sondrio: in questi giorni, hanno deciso di mettersi in gioco e di collaborare anche loro, per quanto nelle proprie possibilità, per sostenere chi lotta contro il Coronavirus. Con il contributo “operativo” del Cappellano, don Ferruccio Citterio, i reclusi nel carcere di via Caimi hanno raccolto 200 euro, che saranno devoluti alla Protezione civile. “In uno scenario apocalittico come questo - spiega il direttore del carcere Carla Santandrea - i detenuti hanno dimostrato di voler essere parte attiva per portare il proprio contributo. Ognuno, per la propria parte, ha dato dimostrazione di grande sensibilità e attenzione”. “Un gesto encomiabile che fa riflettere perché nella vita ogni aiuto ha un grande peso e, soprattutto, la solidarietà è un sentimento che è ben vivo anche dietro alle sbarre, anzi, lì, lo è ancora di più” conclude il direttore del carcere che sta nel pieno centro della cittadina di Valtellina. Il bonifico con la donazione, operativamente, è stato poi fatto dal Cappellano. Porti non sicuri, le carceri invece sì... di Riccardo Magi* Il Riformista, 11 aprile 2020 C’è qualcosa di perverso e di osceno nel decreto che proclama che i porti italiani non possono più essere considerati “porti sicuri” cioè luoghi in cui uomini, donne e bambini salvati da un naufragio possano trovare la salvezza. Un solo articolo, cinque righe, un testo a otto mani, firmato da quattro ministri di peso: De Micheli, Di Maio, Lamorgese e Speranza. E politicamente trasversali: M5S, Pd, Leu, un tecnico. Cinque righe che rivelano qualcosa di terribile e allarmante: l’impotenza e la prepotenza che può impadronirsi del potere. Pensare di poter modificare gli obblighi internazionali con un atto amministrativo, quale è un decreto ministeriale, quando la nostra Costituzione riconosce in quegli obblighi un limite persino alla potestà legislativa dello Stato. Pensare magari che questo atto amministrativo sia più forte e vigoroso se lo si firma in quattro, finendo per svelarne proprio così la debolezza Sia chiaro, è falso dal punto di vista tecnico che i porti italiani, pur nella attuale situazione di emergenza sanitaria, “non assicurano i requisiti” per la classificazione di piace of safety. Ma il governo per togliersi dall’impaccio di dover autorizzare lo sbarco dei 150 naufraghi della Alan Kurdi ancora a largo di Lampedusa, e di dover decidere su eventuali altri disperati in fuga dall’inferno libico nelle prossime settimane ha deciso di tagliare la testa al toro e di definire l’Italia un paese “non più sicuro.” Anziché predispone tutte le misure necessarie a scongiurare la diffusione del contagio, a partire dalle più stringenti misure di quarantena su navi attrezzate o in terra, rispondendo così anche alle richieste di aiuto del sindaco di Lampedusa dove nel frattempo continuano i cosiddetti sbarchi fantasma, l’Italia preferisce adottare un provvedimento che non ha precedenti. Qualche tecnico ministeriale deve aver convinto i ministri che fosse una furbata. Questo decreto si colloca in effetti nella scia dei “decreti sicurezza” salviniani. Come quelli gioca con le definizioni, con le classificazioni, con i requisiti, gioca con il diritto travolgendo lo stato di diritto. Il terribile decreto sicurezza-bis è ancora in vigore e il governo avrebbe potuto utilizzare quei divieti amministrativi all’ingresso nelle acque italiane che Salvini aveva usato l’estate scorsa. Sotto il profilo giuridico se non altro sono stati convertiti dal Parlamento. Ma qui sta la perversione, per ottenere lo stesso risultato di bloccare lo sbarco di 150 disperati, hanno voluto produrre un altro decreto altrettanto illegittimo e sproporzionato di quelli salviniani ma politicamente molto più ipocrita dal momento che si serve dell’ombrello dell’emergenza sanitaria. Esattamente un anno fa, era l’aprile 2019, l’affermazione di Salvini che i porti libici fossero “porti sicuri” scatenava reazioni indignate, intervenivano la Commissione europea e l’Onu a smentire, intervenivano tutti ma proprio tutti gli esponenti del centrosinistra. Oggi non abbiamo lo stesso coro di indignazione per il fatto che l’Italia si definisca un “porto non sicuro” ma il gioco è lo stesso. È altrettanto sporco, solo più subdolo. Abbiamo vissuto un paio di anni in cui il dibattito politico è stato occupato e soffocato dall’uso strumentale del tema dell’emigrazione, dalla demagogia dell’invasione, dalla propaganda del “ci rubano il lavoro” per accorgerci ora, in piena crisi globale da pandemia che non sappiamo più come raccogliere la frutta e la verdura. È anche accettando supinamente atti di pelosa arroganza politica come il decreto sui porti che un Paese perde il buon senso e si perde. Ho votato una sola volta la fiducia a questo governo, nel momento in cui nacque promettendo discontinuità. Una discontinuità che doveva concretizzarsi anche sulla capacità di governo dei fenomeni migratori. Dobbiamo chiedere con forza ai quattro ministri di riflettere e revocare quel decreto. Non è questione marginale rispetto a tutte le altre che l’emergenza ci pone davanti ogni giorno perché non sarà un trionfo di ipocrisia e di cinismo a portarci fuori dall’emergenza sanitaria, sociale, economica. Non saranno l’uso strumentale dell’epidemia da virus e la retorica bellica a mascherare lo strabismo di chi ci governa. Quello strabismo che fa dire al governo italiano che i porti italiani non sono sicuri e le carceri invece sì. Uno strabismo tragico se nei prossimi giorni, com’è probabile, avremo più morti in mare e nelle carceri. *Deputato +Europa Radicali Governo senza alibi su migranti, prezzi alimentari e carceri di Tonino Perna Il Manifesto, 11 aprile 2020 Abolire i Decreti sicurezza, vigilare sulle speculazioni nel campo farmaceutico e alimentare e svuotare le carceri. La pandemia ha generato nei mass media un mondo ad una dimensione, per riprendere il titolo di un famoso libro di Marcuse. Certo, e chi scrive l’ha sostenuto fin dal 4 febbraio, siamo di fronte alla più pericolosa pandemia del secolo, ma questo non significa che altre emergenze debbano essere negate, sotterrate, ignorate. La prima riguarda la condizione dei migranti resi clandestini dai Decreti (in)sicurezza. Sono oltre 400mila i migranti a cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Un esercito di “clandestini”, creato ad arte per criminalizzare gli immigrati e mantenere alta la paura. È un’emergenza negata a cui il governo Conte 2, già prima dell’arrivo del virus, avrebbe dovuto dare rapidamente una risposta abolendo i decreti criminogeni. Ora sarà costretto a farlo se non vuole che muoia l’agricoltura italiana, come chiedono a gran voce le associazioni degli imprenditori del settore. Il paradosso è che i migranti non si possono muovere dai ghetti - da Rosarno a Foggia a Fondi - perché non possono uscire dai Comuni se non hanno un contratto di lavoro, ma non possono avere un contratto di lavoro se sono irregolari. Rimangono in questi ghetti senza assistenza medica, in pessime condizioni igieniche, col rischio di creare una bomba sanitaria anche per gli abitanti dei vari territori. A questo punto ci aspettiamo che i sindacati, a partire dalla Flai-Cgil e dalle U.s.b., intervengano duramente con il governo per sbloccare la situazione e vigilino sul rispetto dei contratti di lavoro in agricoltura (dove spesso vengono registrate molte ore in meno di quelle effettuate) ora che la forza-lavoro ha il coltello dalla parte del manico. Infatti, siamo passati dalla “invasione dei migranti africani” al bisogno urgente di questi giovani africani per salvare le nostre aziende agricole. Una seconda emergenza negata, in qualche modo collegata anche alla precedente, è rappresentata dall’inflazione strisciante nei prezzi dei generi alimentari che potrebbe presto diventare galoppante. Più evidente in campo farmaceutico, dove ci sono stati episodi di vero e proprio sciacallaggio per tutti gli strumenti di protezione sanitaria e di speculazione per alcuni farmaci e integratori, anche nel settore alimentare registriamo un aumento dei prezzi in alcuni comparti. In parte per la riduzione della produzione agricola dovuta a mancanza di manodopera, in parte per il blocco/ritardo delle materie prime importate e a nuove frizioni nelle filiere agro-alimentari. Ovviamente i più colpiti sono i ceti a basso reddito, la cui spesa alimentare arriva a rappresentare anche il 40-50 per cento della spesa mensile, contro una media nazionale del 18 per cento. Se questo fenomeno non viene contrastato per tempo colpirà pesantemente il potere d’acquisto delle fasce sociali più fragili, come è successo quando si passò dalla lira all’euro, perché il governo Berlusconi non vigilò su catene agro-alimentari e servizi di ristorazione che raddoppiarono i prezzi. Infine, una terza emergenza negata è quella delle carceri sovraffollate. Ben altri, ben più autorevoli di chi scrive, da Luigi Manconi a papa Francesco, hanno denunciato questo massacro. Se il governo continua a nascondersi rispetto a questo dramma umano bisognerà che altri soggetti sociali e politici glielo ricordino: non svuotare adesso le carceri, utilizzando misure alternative per i reati minori (che sono la maggioranza) significa essere complici di una strage. Presidente Conte, lei ha acquistato una credibilità e un consenso inimmaginabili fino all’arrivo della pandemia, sappia che può - senza spesa aggiuntiva - abolire i Decreti sicurezza, vigilare sulle speculazioni nel campo farmaceutico e alimentare, e svuotare le carceri. Se non lo farà, il suo governo sarà responsabile della morte di migliaia di persone. Frontiere sempre più chiuse. Il nuovo piano Ue per i migranti Carlo Lania Il Manifesto, 11 aprile 2020 Nessun obbligo di ricollocamento per gli Stati e richieste di asilo esaminate alle frontiere. Nessun obbligo per gli Stati di accogliere i richiedenti asilo, agenti di Frontex armati alle frontiere esterne dell’Unione dove verranno effettuati anche screening delle domande di protezione internazionale. E poi stretta sui rimpatri, che saranno a carico del bilancio europeo, e pressione sui Paesi di origine perché stipulino accordi per riprendere i migranti. Sono solo alcuni dei punti del nuovo piano dell’Unione europea su migranti e asilo che la commissione guidata da Ursula von der Leyen ha ormai finito di mettere a punto e che dovrebbe essere presentato a giorni, subito dopo Pasqua. A ben vedere, però, di nuovo c’è ben poco se non il fatto che, accantonato ancora una volta il principio di solidarietà che pure dovrebbe rappresentare uno dei suoi pilastri, l’Unione sembra essere andata incontro alle richieste di chi, come il blocco di Visegrad ma non solo, da tempo chiede maggior rigore verso quanti, migranti o profughi che siano, cercano di arrivare nel Vecchio continente. E se le indiscrezioni verranno confermate, quella che si profila è un’Europa che per sopravvivere sceglie di farsi sempre più fortezza. Per mesi il vicepresidente della commissione Ue Margaritis Schinas e la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson hanno consultato tutte e 27 le capitali facendo e ascoltando proposte pur di arrivare a una bozza che trovasse l’accordo di tutti. “Questa volta l’Europa non può fallire”, ha spiegato più volte Schinas ricordando l’insuccesso del piano di ricollocamenti avviato da Bruxelles nel 2015. Il risultato di tanto lavoro è un piano che sembra ispirarsi alla “solidarietà flessibile” più volte invocata da alcuni Paesi e dove ogni Stato è libero di scegliere come e se intervenire per sostenere il peso dei nuovi arrivi. Sì perché a quanto si capisce non solo resterebbe in vigore il principio di Paese di primo approdo, in base al quale la presa in carico del richiedente asilo è dello Stato nel quale arriva, ma non sarebbe previsto nessun meccanismo di redistribuzione obbligatorio e automatico dei profughi tra gli Stati membri. Di fatto i Paesi che non vorranno accogliere richiedenti asilo potranno scegliere se finanziare i ricollocamenti oppure inviare personale (sanitari, funzionari esperti nell’esame delle richieste di asilo, volontari) ai Paesi che più sono sotto pressione a causa degli sbarchi. Sono previsti inoltre screening delle domande di asilo alle frontiere esterne dell’Unione. In pratica chi vorrà presentare una richiesta di protezione internazionale dovrà farlo prima ancora di mettere piede in Europa. Una procedura che preoccupa non poco le organizzazioni di diritti umani, visto che mette a rischio la possibilità di una valutazione individuale della domanda. Novità anche per quanto riguarda Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere. Il progetto prevede di reclutare diecimila nuovi agenti entro il 2027 ma già 700 potrebbero essere operativi fin dalla prossima estate nel controllo dei confini esterni dell’Unione. Nei mesi scorsi proprio Schinas aveva parlato della possibilità che il nuovo corpo europeo per la prima volta possa essere armato e contare su navi ed elicotteri per sorvegliare le rotte del Mediterraneo. Il nuovo piano europeo prevede infine anche misure per l’integrazione, nonché l’apertura di canali legali di ingresso che però dovrebbero riguardare solo migranti altamente qualificati. Stati Uniti. L’isola-cimitero di New York, dove i poveri sono seppelliti dai detenuti di Marina Catucci Il Manifesto, 11 aprile 2020 Stati uniti. Hart Island è da 150 anni luogo di sepoltura degli indigenti. Ora i numeri si moltiplicano. Intanto i governatori si organizzano: consorzio di Stati per acquistare materiali medici bypassando il presidente ostruzionista Trump. Hart Island fa parte del piccolo arcipelago delle Isole Pelham, all’estremità occidentale del Bronx, a New York City. Da oltre 150 anni viene utilizzata per seppellire chi non può permettersi funerali o posti al cimitero: ci sono sepolti i resti di oltre un milione di persone anche se dal primo decennio del XXI secolo le sepolture erano meno di 1.500 all’anno. Prima della pandemia. A essere sepolti in quell’isola sono prevalentemente i senzatetto e gli indigenti, la fascia sociale più colpita dal virus. Le statistiche dicono che se prima del Covid-19 si trattava di 25 sepolture la settimana, ora si parla di oltre 30 al giorno. A svolgere il lavoro sono i detenuti del carcere di Rikers Island, dove si consuma un dramma parallelo, comune ad altre prigioni, dove il virus a gioco facile. A Rikers Islands il tasso di contagi potrebbe essere nove volte superiore alla media già altissima della città. Il 30 marzo la Società per la consulenza legale di New York parlava di 36 detenuti su mille positivi al test del coronavirus, nel resto della città il rapporto era quattro su mille. Ciò che il virus sta evidenziando nella patria del capitalismo mondiale è che una pandemia non coinvolge tutta la popolazione nello stesso modo. Le classi sociali più svantaggiate, senzatetto e indigenti sono i più esposti di tutti al contagio e il numero di malati e di decessi in questa porzione di newyorchesi non si sta stabilizzando, come invece sta accadendo in fasce diverse. Nonostante i numeri impressionanti il sistema implementato nello Stato e nella città di New York al momento sembra reggere, i ricoveri sono in calo e gli ospedali da campo non hanno raggiunto neanche lontanamente la massima capienza. Durante le conferenze stampa quotidiane il governatore Andrew Cuomo inizia a esprimere un cauto ottimismo riguardo la tenuta del sistema sanitario e ha spiegato come gli ospedali da campo costruiti ovunque siano stati una mossa cautelativa basata sulle previsioni scaturite dai dati iniziali. “Il mio compito è ascoltare gli esperti - ha detto Cuomo - e cercare soluzioni. La soluzione che abbiamo trovato ha fatto sì che non ci sia bisogno, al momento, di questi letti. La distanza sociale e l’isolamento stanno funzionando”. Il problema, ora, ha spiegato Cuomo, è cominciare a pensare a una seconda fase di riapertura, per quanto lontana: dipende dal numero di test che possono essere fatti. “Abbiamo bisogno di milioni di test solo nello Stato di New York; come autorità locali tra poco saremo grado di produrne 2mila al giorno. Uno sforzo enorme per una goccia nell’oceano. Abbiamo bisogno dell’aiuto federale, che il presidente faccia riconvertire le ditte alla produzione di test diagnostici e tamponi, senza i quali nessuna riapertura è possibile”. Trump ha più volte invitato i governatori a cavarsela da soli senza aspettarsi un aiuto federale, invito però che non considera i limiti dei poteri locali. Il governatore di New York si riferisce ancora una volta al Defence Production Act che impone la riconversione della produzione delle fabbriche in materiali necessari per la nazione; in questo caso, oltre respiratori e mascherine, anche tutti gli agenti per i test immunologici e per i tamponi. Senza questa produzione il sistema attuale prevede che gli Stati siano in concorrenza tra loro, con il governo federale e con soggetti stranieri e privati per acquistare le forniture. I governatori hanno per questo chiesto a Trump che il governo federale acquisti i materiali per poi redistribuirli in proporzione alla gravità del problema, Stato per Stato. La Casa bianca, però, non vuol sentir parlare né di Defence Production Act né di farsi carico dei materiali sanitari. Per cercare di ovviare allo stallo, dopo settimane in cui gli Stati combattevano l’uno contro l’altro e contro il governo federale, alcuni governatori stanno mettendo in piedi un “consorzio multi-stato” che aumenterebbe il loro potere d’acquisto, taglierebbe la concorrenza e procurerebbe rapidamente rifornimenti alle aree più bisognose. Cuomo, vicepresidente della National Governor’s Association, ha riferito ai giornalisti che sono in corso riunioni tra i governatori per unirsi in un gruppo. Ha definito il consorzio “Opzione B”. California, Washington State, New York, New Jersey, Connecticut, Maryland, tutti Stati che hanno già formato coalizioni in opposizione alle politiche di Trump, come il controllo delle armi, il trattato di Parigi, gli Stati santuario. Colombia. Le carceri protestano via Whatsapp: “Abbiamo diritto a una vita degna” di Francesca Caprini Il Manifesto, 11 aprile 2020 Le richieste dei detenuti dopo la strage del 21 marzo. Nelle 132 prigioni del paese 120mila prigionieri in spazi pensati per 80mila. E quelli politici iniziano a sparire. Il Covid-19 corre per il mondo e come una cartina tornasole mostra i drammi e le contraddizioni dei territori e delle società che attraversa. Così è per le carceri, così è anche in Colombia. Lo scorso 21 marzo, una delle pagine più sanguinose della storia carceraria del paese: la rivolta dei carcerati colombiani, che chiedono più sicurezza contro il virus pandemico e il ripristino delle visite dei parenti, viene sedata con inaudita violenza. Ventitré i detenuti uccisi, 80 i feriti e la prigione La Modelo di Bogotà diventata teatro di guerriglia e morte. Mercoledì scorso, con una giornata di protesta pacifica organizzata via Whatsapp, i detenuti di tutti gli istituti penitenziari colombiani hanno provato a far arrivare al governo richieste precise, denunciando la situazione di forte precarietà: “Abbiamo diritto alla vita, alla salute, alla dignità - hanno detto attraverso un video - e lo Stato ne è responsabile. Abbiamo bisogno di acqua potabile, cibo sano, disinfettanti, sapone, mascherine. Parenti e avvocati non possono più venire a trovarci, mentre le guardie entrano ed escono senza alcun controllo sanitario. No alle pallottole, no alla pandemia”. Il detenuto legge il documento davanti a una platea di un centinaio di prigionieri seduti per terra in uno dei cortili interni del carcere bogotano. Alle loro spalle si intravvedono lenzuola colorate e indumenti stesi dalle finestre, pezzi di vita quotidiana di una delle prigioni più violente del paese, afflitta da un endemico problema di sovraffollamento che stringe oltre 5mila carcerati negli spazi pensati per 2.600. La rivolta nelle carceri colombiane non è legata solo alla pandemia in corso - che in Colombia ha fatto registrare fino a oggi circa 2.200 contagiati, di cui un migliaio solo a Bogotà, e 79 decessi - ma si intreccia con problematiche pregresse. In una nota dell’Alta Commissaria per i diritti umani Onu, Michelle Bachelet, emessa dopo quella che viene definita “la strage del 21 marzo”, si denuncia come nelle 132 carceri in Colombia il sovraffollamento sia quantificato oltre il 50%: “Sono 120mila persone costrette in carceri pensate per 80mila e che necessitano misure di sicurezza contro la diffusione del Covid-19”. Il governo di Ivan Duque - criticato duramente sia da parte di organismi per i diritti umani, che da deputati dell’opposizione - ha annunciato un decreto che preveda a breve la liberazione di 10mila carcerate e carcerati tra anziani, malati o che abbiano già scontato i due terzi della pena. E mentre il Movimento carcerario denuncia le ripercussioni da parte delle guardie verso i detenuti - “Ci privano dell’acqua e della libertà”, dicono - a preoccupare è la serie di trasferimenti di prigionieri politici verso il carcere di massima sicurezza di Ibaguè. L’organizzazione per i diritti umani Corporación Solidaridad Jurídica è allarmata: “Denunciamo il trattamento repressivo e militare verso i prigionieri politici - ci spiega il suo presidente John Leon - La notte del 24 marzo sono stati prelevati dal Patio 4 de La Modelo [la sezione del carcere dove attendono di essere giudicati gli ex guerriglieri. Nel Patio 5 sono detenuti invece ex paramilitari, ndr], quattro ex guerriglieri senza che potessero prendere i propri oggetti personali, né comunicare con gli avvocati. Sono stati portati nel carcere di massima sicurezza di Ibaguè, le motivazioni sembrano essere di natura disciplinare. Uno di loro, Josè Parra Bernal, era malato e protetto dalla Commissione Internazionale per i diritti umani, ci giunge voce che sia già deceduto”. La situazione è complicata dal conflitto giurisdizionale con la Jep (Giurisdizione speciale per la Pace, l’organismo preposto alla valutazione dei casi nell’ambito del processo di pace in corso in Colombia dal 2016), che di fatto blocca le amnistie - che potrebbero essere previste dal decreto governativo - per gli ex guerriglieri. “Denunciamo la possibile sparizione forzata di queste persone”, conclude Leon. Anche Michelle Bachelet ha scritto una preoccupata nota in proposito: “Ora più che mai crediamo che il governo colombiano debba prendere in considerazione di liberare prigionieri politici in carcere senza sufficienti motivazioni”. Apprensione anche per le tre giovani studentesse da tre anni incarcerate per l’attentato del 2017 al Centro commerciale andino di Bogotà, simbolo di quello che viene definito da movimenti universitari e organizzazioni sociali, un “montaggio giudiziale”. Anche di Lizeth Rodríguez, Lina Jiménez ed Alejandra Mendez non si sa più nulla. Bolivia. Coronavirus, indulto per detenuti con più di 58 anni e donne con figli agenzianova.com, 11 aprile 2020 Un indulto riservato a detenuti più a rischio per età e alle detenute con figli. È quanto contenuto nel decreto approvato è stato deciso in Bolivia Jeanine Anez, presidente ad interim della Bolivia. A beneficiarne saranno uomini con un’età superiore ai 58 anni e donne dai 55 anni in su con uno o più figli. Il provvedimento punta a ridurre il sovraffollamento delle carceri nel contesto dell’emergenza sanitaria provocata dal nuovo coronavirus. La disposizione dovrà ora essere approvata dall’Assemblea nazionale. “È importante adottare queste misure in questo momento in cui vi è un sovraffollamento nelle carceri”, ha affermato il ministro della Presidenza, Yerko Nunez. La misura era stata chiesta dalla Defensoria del Pueblo. Le carceri del paese operano infatti al dopo della loro capacità e i due terzi dei detenuti sono in attesa di giudizio. Sono 264 in Bolivia le persone affette da Covid-19 conclamato e 18 i morti. La presidente Anez ha annunciato lo stato di emergenza sanitaria fino al 15aprile e la chiusura delle frontiere, nel tentativo di contenere la diffusione del nuovo coronavirus. La disposizione stabilisce che solo una persona per nucleo famigliare può uscire di casa per fare la spesa dalle 7alle 12. Le uscite sono scaglionate sulla base dell’ultimo numero della carta di identità; una misura, questa, adottata anche i altri paesi della regione come Ecuador e Panama. Il governo ha anche disposto la chiusura delle scuole e sospeso i voli da e per l’Europa. Saranno con ogni probabilità posticipate le elezioni generali previste per il 3 maggio a una data compresa fra il 7 giugno e il 6 settembre 2020. Le elezioni sono state indette in seguito alle contestazioni di quelle del 20 ottobre scorso, che hanno portato alle dimissioni del presidente Evo Morales su pressione delle forze armate.