La Corte europea incalza l’Italia: entro martedì risponda sull’emergenza Covid-19 in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 aprile 2020 Presentata lunedì scorso una richiesta urgente per un recluso di Vicenza. Per la prima volta il governo italiano dovrà rendere conto alla Corte europea di Strasburgo di come sta gestendo l’emergenza Covid 19 nelle carceri italiane. Tutto è scaturito dalla richiesta di adozione di una misura provvisoria urgente presentata alla Corte europea dagli avvocati Roberto Ghini del Foro di Modena e Pina Di Credico, referente osservatorio Europa della Camera penale di Reggio Emilia. Entrambi sono difensori di fiducia di B.M., recluso presso la casa circondariale di Vicenza, per il quale è stata rigettata l’istanza di detenzione domiciliare da parte del magistrato di sorveglianza di Verona. Un rigetto che non ha preso in considerazione l’emergenza coronavirus, nonostante l’istanza sia stata fatta a seguito dell’introduzione dell’istituto della detenzione domiciliare di “emergenza” ex art. 123 del Decreto Legge n. 18/ 2020 “Cura Italia”. Il provvedimento di rigetto della richiesta di detenzione domiciliare del magistrato di Verona, nel contempo, è stato impugnato davanti al Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Ma l’emergenza epidemia è tuttora in corso e il sovraffollamento non può certamente permettere la gestione sanitaria all’interno delle carceri, istituto penitenziario di Verona compreso. La fissazione dell’udienza e l’esito dell’eventuale decisione hanno tempi incerti che il detenuto non può quindi permettersi. Motivo per il quale gli avvocati Ghini e Di Credico, lunedì scorso, hanno presentato una richiesta urgente alla Cedu. La procedura 39 (questo è il tipo di richiesta prevista dal regolamento Cedu) è straordinaria e viene infatti attivata al fine di ottenere una misura provvisoria ed urgente in casi particolari ove è a rischio la vita delle persone. Mercoledì scorso la Corte ha accolto la richiesta, ma sospendendo la decisione in attesa che il governo italiano relazioni su taluni aspetti relativi, tra l’altro, anche alla gestione dell’emergenza covid19 negli istituti di pena. Nel ricorso alla Cedu, da sottolineare, - oltre a segnalare che la decisione del magistrato di Sorveglianza non abbia rispettato il requisito della “base legale” - venivano descritte le attuali condizioni del detenuto, recluso in una cella di 7-8 mq unitamente ad altro detenuto per 20 ore al giorno e con la possibilità di usufruire di 4 ore all’aria aperta in un cortile di 200 metri quadrati da condividere con altri 50 detenuti. Come hanno ben spiegano a Il Dubbio gli avvocati Ghini e Di Credico “In sostanza alla Corte Europea è stata segnalata la violazione dell’art. 3 Cedu per trattamenti inumani e degradanti chiedendo una misura urgente e provvisoria, ovverosia che il detenuto sia posto in detenzione domiciliare anche senza “braccialetto elettronico”, essendo notoria la cronica carenza di tali strumenti o, in alternativa, che sia posto in condizioni di sicurezza tali da rispettare le norme sanitarie e pertanto in cella singola con tutti i presidi necessari”. Qui di seguito le domande alle quali dovrà rispondere il governo italiano entro le 10 di mattina del 14 marzo. Qual è l’attuale situazione sanitaria nel carcere di Vicenza? In particolare, quali sono le attuali condizioni del richiedente? Quali misure preventive specifiche sono state prese dalle autorità competenti del carcere di Vicenza per proteggere il richiedente e gli altri detenuti dal rischio di contrarre il Covid-19 (inclusa l’ora d’aria, i pasti e altre situazioni di potenziale rischio)? Le autorità locali, in particolare il magistrato di Sorveglianza di Verona, hanno considerato l’eccezionale crisi sanitaria in atto legata al contagio Covid-19? E hanno previsto misure alternative al carcere per il richiedente anche considerando l’entrata in vigore del Decreto Legge 18/ 2020 (Dpcm) sulle misure in esso contenute? Nel contesto dell’attuale crisi sanitaria e delle richieste presentate formalmente dai vari detenuti, in quanto tempo medio il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha potuto comunicare la sua decisione in merito alle istanze, come quella del richiedente? Carceri, un nuovo fronte per il governo. La corte di Strasburgo vuole urgenti spiegazioni di Francesco Grignetti La Stampa, 10 aprile 2020 Può essere una slavina che precipita sulla testa del governo italiano, che ha le carceri sovraffollate e il pericolo che l’epidemia dilaghi tra le sbarre. Gli ultimi dati dicono di 42 detenuti contagiati, di cui 9 ricoverati, gli altri in isolamento nei penitenziari, e ben 166 agenti di Polizia penitenziaria positivi al tampone. “La situazione è esplosiva”, avverte il deputato Riccardo Magi, dei Radicali. Sono molto preoccupati anche gli avvocati: il Consiglio nazionale forense ha scritto al governo che “le misure adottate, tra le quali la concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare, sono del tutto inidonee”. Nel frattempo gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico, difensori di un recluso presso la casa circondariale di Vicenza, cui era stata negata la richiesta di arresti domiciliari, hanno ottenuto dalla corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo una misura provvisoria urgente e pertanto il governo italiano è stato invitato a esporre entro il 14 aprile quali siano “le misure preventive specifiche adottate per proteggere il richiedente e gli altri detenuti dell’istituto di Vicenza, volte a ridurre il pericolo di contagio all’interno del carcere”. Al detenuto vicentino era stata respinta la richiesta dei domiciliari dal magistrato di sorveglianza. Ora ha fatto ricorso al Tribunale di sorveglianza di Venezia. Nel ricorso, spiegano i due avvocati, “venivano descritte le attuali condizioni del detenuto, recluso in una cella di 7-8 mq unitamente ad altro detenuto per venti ore al giorno e con la possibilità di usufruire di quattro ore all’aria aperta in un cortile di 200 metri quadrati da condividere con altri cinquanta detenuti”. È evidente che in queste condizioni è materialmente impossibile il distanziamento sociale. “La corte è stata informata di come il detenuto sia tenuto addirittura ad acquistare il disinfettante necessario a sanificare la propria cella”. E perciò il detenuto, che non è malato ma paventa il pericolo di contagio, aveva sperato nei domiciliari. Dal magistrato, però, è arrivata una delusione. Ora spera nell’appello. E anche di questo ricorso è stata informata la corte europea, precisando che non v’è certezza circa i tempi per fissare l’udienza. “In sostanza - spiegano sempre i due avvocati - alla corte europea è stata segnalata la violazione dell’art. 3 per trattamenti inumani e degradanti chiedendo una misura urgente e provvisoria, ovverosia che il detenuto sia posto in detenzione domiciliare (anche senza “braccialetto elettronico”, essendo notoria la cronica carenza di tali strumenti) o, in alternativa, in condizioni di sicurezza tali da rispettare le norme sanitarie (in cella singola con tutti i presidi necessari)”. Si vedrà quali decisioni prenderà la corte di Strasburgo, che intanto ha appena ordinato la liberazione dal carcere e il trasferimento in una comunità, visto che non ci sono posti a sufficienza nelle Rems (le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito i manicomi giudiziari) del figlio di Loretta Rossi Stuart, Giacomo, affetto da grave malattia bipolare. Il giovane era finito in cella, ma la detenzione è stata considerata “illegittima”. “La corte - spiega il suo legale, Valentina Cafaro - ha aperto il contraddittorio con lo Stato italiano. Sul tavolo c’è la questione della violazione degli articoli della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Nel caso in cui venisse accolto, da un lato ci sarebbero effetti risarcitori individuali, e a livello più generale lo Stato dovrebbe garantire la compatibilità del suo ordinamento giuridico con la Convenzione affinché queste situazioni non si verifichino più”. Coronavirus, l’appello per tutelare la salute di mamme e bambini in carcere di Valeria Pini La Repubblica, 10 aprile 2020 La lettera di Cittadinanzattiva al ministro della Giustizia: “Proteggere da Covid-19 tutti i detenuti, primi fra tutti i minori”. Tutelare la salute di mamme e bambini in carcere. Una priorità che riguarda tutti i detenuti con l’emergenza Covid-19. Perché il sovraffollamento può aiutare la diffusione rapida del virus. Per affrontare il problema, che in questi giorni ha visto anche moltiplicarsi le proteste e gli scontri negli istituti di pena, Cittadinanzattiva ha appena inviato una lettera al governo in cui chiede misure immediate e concrete per salvaguardare la salute di tutti i detenuti, a cominciare dai minori. Un appello mandato oggi al ministro della Giustizia, al capo del Dap, al Commissario straordinario per l’emergenza Covid19 ed alle Regioni. “Le misure introdotte con il DL n. 18/2020 - che prevedono per i detenuti in semi-libertà la possibilità di non rientrare in carcere la sera e per i condannati fino a 18 mesi di scontare la pena in detenzione domiciliare, nonostante abbiano prodotto un leggero calo delle presenze nelle carceri, non bastano. Raggiungono potenzialmente una platea di beneficiari insufficiente, ma soprattutto, sulla base delle segnalazioni, restano vanificate a causa della indisponibilità nell’immediato di un domicilio per una buona parte delle persone detenute”, spiega dichiara Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti-Cittadinanzattiva. Inoltre “i dispositivi di protezione individuale distribuiti nelle ultime settimane al personale di polizia penitenziaria risultano tuttora insufficienti e buona parte della popolazione detenuta risulta tuttora sprovvista di mascherine e gel disinfettanti”. Cittadinanzattiva chiede che lo stesso criterio applicato per proteggere la salute di tutta la popolazione sia applicato anche in ambito penitenziario. Perché si parla di un bene fondamentale che non risponde a differenze. La lettera inviata oggi, chiede al più presto uno screening dei detenuti, degli operatori della polizia penitenziaria e del personale sanitario e civile, mediante somministrazione di tamponi o di test sierologici come già avvenuto in Toscana ed in Campania. Servono inoltre dispositivi di protezione individuale in quantità sufficiente per personale e detenuti, ma anche la tempestiva individuazione di alloggi dove collocare i detenuti che possono accedere alla detenzione domiciliare. Fra le priorità inoltre c’è quella dfi collocare subito al di fuori degli istituti di pena per madri e bambini che si trovano tuttora ristretti, come ha ricordato già l’appello della casa circondariale di Roma Rebibbia. “Se la presenza di bambini dietro le sbarre rappresenta già nell’ordinario una gravissima aberrazione su cui da tempo si invocano interventi e riforme, in questo momento, il rischio, anche solo potenziale, di una loro esposizione al contagio impone di intervenire con assoluta risolutezza, prevedendo immediatamente l’uscita dagli istituti di madri e bambini, così da porli in sicurezza”. “Salvare i detenuti dall’epidemia” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 aprile 2020 La delibera con cui il Cnf chiede misure idonee ad alleggerire il sovraffollamento degli istituti di pena. L’avvocatura si impegna anche a tutelare le donne minacciate. “La convivenza forzata rischia di aggravare la violenza di genere”. “L’avvocatura, anche in considerazione del ruolo sociale che assolve incondizionatamente, è impegnata in prima linea nella difesa di soggetti vulnerabili e dei loro diritti spesso discriminati”. Con queste parole la presidente facente funzione del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, ha commentato la scelta del plenum di approvare una serie di delibere che rispondono proprio alla necessità di tutelare i più vulnerabili. “L’avvocatura, anche in considerazione del ruolo sociale che assolve incondizionatamente, è impegnata in prima linea nella difesa di soggetti vulnerabili e dei loro diritti spesso discriminati”, con queste parole la presidente facente funzione del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, ha commentato la scelta del plenum di approvare una serie di delibere che rispondono proprio alla necessità di tutelare i più vulnerabili. “La discriminazione non è mai giustificabile, ma soprattutto in questo particolare e difficile momento provocato dall’epidemia e dall’emergenza sanitaria si amplificano le esigenze di tutela da cui nessuno può o deve rimanere escluso”. In quest’ottica, il Cnf è intervenuta “sullo stato dei detenuti, la tutela delle donne vittime di violenza domestica e di genere, sostenendo in questo caso gli emendamenti proposti dalla Commissione parlamentare sul femminicidio e aderendo alla campagna di sensibilizzazione promossa dal dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio”, ha concluso Masi. Violenza di genere - Il Cnf, “valutata la necessità di intervenire in modo consistente sul fenomeno della violenza domestica e di genere anche e soprattutto durante l’emergenza sanitaria, dacché, l’isolamento e la convivenza forzata rischiano di aggravare la situazione di pericolo che molte donne vivono”, ha scelto di aderire alla campagna di comunicazione e sensibilizzazione “Libera puoi” promossa dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri a sostegno delle donne vittime di violenza durante l’emergenza sanitaria. “L’obiettivo è di promuovere il numero 1522 attivo h24 e far conoscere le modalità di accesso alla segnalazione”, si legge della delibera. Inoltre, la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura ha anche deliberato di sostenere gli emendamenti proposti dalla commissione d’inchiesta sul femminicidio, “con particolare riferimento alla necessità di garantire l’applicazione rigorosa delle misure civili e penali a tutela delle donne vittime di violenza e di maltrattamenti; di garantire l’accesso delle donne ai centri antiviolenza e alle case rifugio nel rispetto delle misure precauzionali dettate dall’emergenza sanitaria; di prevedere ulteriori specifiche misure di protezioni per le donne vittime di violenza, anche migranti, richiedenti asilo, rifugiate e vittime di tratta e alla necessità di agevolare l’accesso ai numeri antiviolenza”. Carcere - Il Consiglio nazionale forense ha inviato all’attenzione del governo e in particolare del premier Giuseppe Conte e del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ma anche del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e al capo del Dap, Francesco Basentini, una delibera sull’emergenza carceri e il preoccupante aumento di positivi al virus Covid-19, in cui viene chiesta “l’immediata adozione di tutti i provvedimenti normativi necessari a ridurre il sovraffollamento delle carceri e rendere effettiva la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente garantito, dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”. Nel testo, il Cnf definisce “del tutto inidonee” le misure adottate dal governo e rileva che il coronavirus ha “già provocato la morte di un detenuto, mentre aumentano ogni giorno i casi accertati di positività di detenuti e agenti di polizia penitenziaria”, e evidenzia che “l’emergenza sanitaria in atto per la pandemia da Covid-19 impone soluzioni non più procrastinabili per ridurre la cronica situazione di grave sovraffollamento delle nostre carceri”. Inoltre, il Cnf ricorda che l’Italia in passato “è stata condannata già due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”, e che l’attuale situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane “non rende possibile il rispetto delle misure prescritte dalle autorità sanitarie finalizzate a contenere la diffusione della pandemia ed attuare il distanziamento sociale”. Infine, il Cnf ha sottoscritto un protocollo di intesa con la Corte di cassazione, la Procura Generale presso la Corte di cassazione limitatamente alla trattazione delle adunanze civili ed udienze penali camerali non partecipate, che prevede la collaborazione per la digitalizzazione degli atti processuali, sia attraverso l’invio di copia informatica di quelli già depositati in originale cartaceo, sia con il deposito di memorie e motivi aggiunti tramite posta elettronica certificata. Carceri, Cota tradisce la Lega: “Sconti di pena subito” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 aprile 2020 A chiedere di intervenire sul dramma delle carceri dove è impossibile distanziarsi è addirittura il leghista Cota. Dalle frequenze di Radio Radicale a Pasqua la Sesta marcia “Amnistia per la Repubblica”. Che la situazione delle carceri italiane - nello specifico quelle piemontesi e in particolare a Torino - sia drammatica, è talmente evidente che a chiedere di intervenire subito con “sconti di pena automatici per i detenuti” è addirittura Roberto Cota. Sì, proprio lui, leghista della prima ora e della prima fila, ex governatore del Piemonte, ora che è tornato al suo mestiere di avvocato, e davanti allo sfacelo del Coronavirus che minaccia decine di migliaia di reclusi in celle piccole e fatiscenti (e in prospettiva l’intera popolazione), è costretto a rimangiarsi l’appellativo di “svuota-carceri” che la sua parte politica ha affibbiato alle ultime scarsissime misure governative, e anzi a chiedere di più. E lo fa proprio nel momento in cui lo stesso Dap ammette che il numero di detenuti risultati positivi al Covid-19 è raddoppiato nel giro di una settimana, arrivando ad una sessantina (dati di mercoledì scorso) di cui addirittura 23 nel solo carcere di Torino. Tra gli agenti penitenziari i casi registrati erano circa 180. “Lungi dal voler essere buonisti - è la premessa dalla quale Cota non può esimersi, ça va sans dire - si tratta di fare un ragionamento che può essere basato su un argomento: l’interesse generale alla carcerazione di determinate categorie di persone si deve bilanciare con l’interesse, sempre generale, collegato all’emergenza sanitaria ed alla prevenzione della diffusione del contagio”. Nella nota che l’esponente del Carroccio firma insieme ad altri avvocati piemontesi, ex consiglieri regionali di tutti gli schieramenti, e all’ex sottosegretaria all’Economia di Berlusconi, Maria Teresa Armosino, si sottolinea la necessità di intervenire in Parlamento sulle misure contenute nel “Cura Italia”, in sede di conversione in legge del decreto. Perché, spiegano gli autori, sebbene tali norme vadano nella giusta direzione, la loro applicazione tuttavia “non è automatica” e “la responsabilità della scarcerazione è stata demandata alla Magistratura di Sorveglianza che deve valutare caso per caso con passaggi burocratici complessi”. Mentre invece bisognerebbe “prevedere un automatico sconto di pena che consenta di uscire dal carcere a chi è già nei termini per poter fruire delle misure alternative”. Particolare attenzione, secondo Cota, va messa su chi è “presunto innocente in quanto in custodia cautelare”, e in questo periodo la carcerazione preventiva dovrebbe essere “sostituita con gli arresti domiciliari, salvo ragioni eccezionali”. Perché è chiaro a tutti che per scongiurare un’epidemia in differita all’interno delle carceri (che graverebbe sul Ssn e causerebbe un ritorno del virus nella società) non basta aver “provveduto a disporre l’isolamento in camera singola” dei detenuti risultati positivi al Coronavirus, come tiene a precisare il capo del Dap, Francesco Basentini. Se, come fa notare l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, “la gestione dei singoli casi non segue percorsi di assoluta separatezza”, con bagni separati e trattamenti separati. Solo chi non ha mai visitato neppure un carcere italiano può pensare che le strutture siano adeguate a questo tipo di gestione, tanto più se i numeri del contagio dovessero continuare a crescere. Consapevole di ciò, ieri l’ospedale Spallanzani di Roma, dopo il ricovero per Covid di una detenuta proveniente da Rebibbia, ha chiesto all’amministrazione penitenziaria “la ricostruzione dei contatti della detenuta con il Covid-19 e di sottoporre a tamponi tutte le altre detenute e compagne di cella che sono state in contatto con la stessa. Viene, inoltre, disposta la sanificazione dell’area infermeria e la quarantena per tutte le presenti, oltre 25 detenute”. A darne notizia è il segretario del sindacato S.Pp. Aldo Di Giacomo che commenta: “Finalmente il buon senso prevale, anche se non dipende dall’Amministrazione Penitenziaria”. E per rompere il “silenzio assordante” che qualcuno tenta di far scendere “sulla situazione delle carceri”, ma anche “sulla rapina di libertà ai danni dei cittadini con la moltitudine e genericità di soggetti autorizzati a trattare dati personali” e “su una nuova Europa possibile e necessaria”, il Partito Radicale organizza la “VI Marcia Amnistia per la Repubblica” nel giorno di Pasqua, quest’anno nella forma di una lunga maratona di interventi “dalle frequenze di Radio Radicale dalle ore 11 alle 19”. La vita del detenuto vale come la nostra. Diamo i domiciliari a chi non è pericoloso di Enzo Maraio* Il Dubbio, 10 aprile 2020 In carcere non si è più sicuri che fuori, si rischia una calamità grave. C’è il pericolo che l’emergenza sanitaria, che ha già messo in ginocchio l’economia globale e cambiato irrimediabilmente le nostre vite, nelle carceri “finisca in una calamità grave” - per dirla con Papa Francesco. Un argomento scomodo, nei confronti del quale la politica ha assunto, specialmente in questo momento, un atteggiamento troppo timido, spesso inconsapevole, a volte reticente. Nonostante si siano verificati i primi contagi e decessi - e temo ce ne saranno altri - c’è chi ha sostenuto che con il virus che circola nel mondo, “in carcere si è più sicuri che fuori”, facendo eco al ministro della Giustizia che circa un paio di settimane fa sosteneva che fosse tutto sotto controllo. È utile ricordare che lo Stato ha il dovere, dettato dalla Costituzione, di tutelare la salute pubblica e che questo dovere è ancora più forte nei confronti di chi, privo della propria libertà, è sotto la custodia dello Stato stesso. Domando: come è possibile assicurare il distanziamento sociale in luoghi come le carceri, in cui ci sono 61.230 detenuti a fronte di una capienza di 50.931 (e di questi, tra l’altro, un terzo in attesa di giudizio)? Come si fa ad allargare le braccia sapendo che il 70% dei detenuti ha disturbi psicologici, che ci sono casi di soggetti sieropositivi all’Hiv o colpiti da epatite C e tubercolosi e che, dunque, la questione sanitaria nelle carceri era già di per sé fragile prima e ora rischia di scoppiare? Come si può, ancora, voltarsi dall’altra parte quando si realizza, senza ipocrisia, che le carceri oggi sono delle autentiche polveriere in cui un solo contagio, in un contesto in cui si è stretti come le sardine e si condivide lo stesso gabinetto, può far esplodere una bomba sanitaria pericolosissima? Insomma, la vita di un detenuto vale meno dei quella di un cittadino libero? La bomba va disinnescata senza perdere altro tempo. Il centrosinistra dovrebbe chiedere al Ministro Bonafede di farsi da parte, perché la responsabilità della gestione penitenziaria possa essere assunta, da subito e fino a fine emergenza, dalla Presidenza del Consiglio. Noi avevamo chiesto a Conte, con una lettera accorata già di qualche settimane fa, di emanare un decreto legge, per ragioni di urgenza, per concedere la detenzione domiciliare immediata a detenuti non socialmente pericolosi, non recidivi e che non si sono macchiati di reati gravi. Sarebbe non un atto di debolezza dello Stato, non un cedimento ad un presunto ricatto, ma al contrario un atto fondamentale di salvaguardia della salute pubblica. Siamo il Paese dove, per far sentire la propria voce, i detenuti devono pagare con la propria vita l’azione, certo sbagliata, di una sommossa senza precedenti. E dove una forza politica di maggioranza, come quella che rappresento, continua a rimanere inascoltata da anni sul tema. Non ci vorranno costringere allo sciopero della fame? Anche quello è un gesto che, per dargli un senso, bisogna saper fare. Pannella, ci manchi. *Segretario nazionale Psi Santi Consolo: “Il grido inascoltato delle carceri” di Angela Stella Il Riformista, 10 aprile 2020 Intervista all’ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che avverte sul rischio pandemia. “Bonafede? Ha bocciato la riforma aggravando l’attuale drammatica emergenza”. Prima di Francesco Basentini, a presiedere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, c’era il magistrato Santi Consolo che non ha mai smesso di occuparsi e preoccuparsi del mondo penitenziario, “dei detenenti e dei detenuti”, come piaceva dire a Marco Pannella. “Il carcere, essendo chiuso ed isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia” ha tuonato il Procuratore Gratteri nei giorni scorsi. Lei che il carcere lo conosce bene, che ne pensa invece? I migliori esperti sono gli operatori penitenziari che quotidianamente sovraintendono alla custodia come cura, anche sanitaria, dei reclusi. Proprio la Polizia Penitenziaria due giorni fa, con un drammatico appello al Presidente Conte, non al Capo del Dap o al Ministro Bonafede, ha chiesto l’adozione di “misure deflattive immediate” affermando che “l’emergenza sanitaria ha trasformato gli istituti Penitenziari in una bomba ad orologeria”. La certezza della pena non significa che l’unico modo di espiarla sia il carcere; ciò sarebbe contrario all’ordinamento penitenziario vigente e alla Costituzione. Quindi anche lei pensa che debbano andare ai domiciliari? Le misure alternative di esecuzione penale oggi più che mai rispondono all’esigenza primaria di tutela della salute. Come denunciai un mese fa in una intervista, provvedimenti immediati ed efficaci dovevano essere adottati da tempo per prevenire il rischio di pandemia di ritorno nel consorzio sociale esterno del carcere. I dati sui contagi tra i detenuti e il personale penitenziario, da quanto è dato conoscere, sono in controtendenza preoccupante rispetto ai dati complessivi nazionali. Sovraffollamento, coabitazione continuativa forzosa senza distanziamento, assenza di qualsivoglia presidio precauzionale e carenze di verifiche sanitarie a tappeto sono di grande attrattiva per il virus. Gli oltre 190 istituti sono ubicati, in gran parte, nei centri urbani più grandi d’Italia. I circa trentamila operatori penitenziari che quotidianamente si recano nelle carceri per lavoro costituiscono un formidabile veicolo di diffusione all’esterno. Scommettere sull’assenza di rischio è un azzardo suicida. Le misure adottate dal Ministro Bonafede sono adeguate a fronteggiare l’emergenza? Il Ministro ha bloccato la riforma penitenziaria cosi aggravando oggi, certo inconsapevolmente, l’attuale drammatica emergenza. La deflazione delle presenze detentive, ancora del tutto insufficiente, la si deve soprattutto al riscoperto ruolo di supplenza di molti magistrati che hanno assunto indirizzi di assoluto buon senso. Penso al rinvio di ordini di carcerazione che arrivano molto tempo dopo la data del commesso reato. Limitare al massimo i nuovi accessi limita notevolmente i pericoli. Se fosse adesso il capo del Dap cosa farebbe che non è stato ancora fatto? Innanzitutto recupererei il costante assiduo dialogo con le componenti dell’amministrazione penitenziaria per trarne preziosissimi suggerimenti. Dirigenti Generali, polizia penitenziaria, dirigenti civili e amministrativi nei momenti di difficoltà vogliono avvertire la presenza, la vicinanza, la comprensione, la guida e, non ultima, l’assunzione della responsabilità del Capo che non li faccia sentire soli. Attiverei il potere di proposta al Ministro sostenendo le misure urgenti chieste da tanti magistrati. Penso per esempio alla magistratura di sorveglianza della Lombardia che, fra l’altro, ha suggerito automatismi immediati nella concessione di misure cautelari. Darei da subito immediate risposte ai dieci quesiti posti dall’Unione delle Camere Penali tendenti a conoscere qual è il piano per fronteggiare l’emergenza. Un piano molto articolato. Che altro farebbe? Al Dipartimento da tempo risalente sono stati affinati applicativi quanto mai efficaci per monitorare in tempo reale tutte le situazioni di emergenza e gli eventi critici. Oggi bisogna collaborare con tutte le autorità sanitarie territoriali perché sono improcrastinabili i tamponi a tappeto a tutti gli operatori che lavorano negli Istituti penitenziari e poi anche ai detenuti. I problemi non si risolvono nascondendo la polvere sotto il tappeto. Chiederei inoltre che le ingenti risorse di ‘Cassa e Ammende”, alcune decine di milioni, da subito venissero destinate alla tutela del benessere, soprattutto sanitario, dei detenuti e al sostegno di quei familiari che risultano bisognosi di aiuto economico; ciò con elaborazioni di progetti e con riunioni a ritmo serrato. Un piano d’emergenza, se c’è, va subito reso pubblico, con bollettini frequenti, completi e affidabili che diano conto dell’evoluzione dei dati salienti. Un esempio per tutti: le rivolte di marzo, se non vado errato, ho letto che avrebbero provocato danni per circa 20 milioni di euro. Forse, per ragioni di trasparenza che da sempre erano vanto dell’amministrazione, sarebbe opportuno conoscere il numero di posti detentivi diventati inagibili. Il premier Conte in una intervista ha detto: “Il governo di certo non si gira dall’altra parte rispetto alla condizione delle carceri...”. Lei che ne pensa? Il premier è bravissimo nella capacità di comunicare e rassicurare ma su quello che è stato fatto per la questione penitenziaria sarei molto più cauto. Nei comunicati è bene non annunciare trionfalmente ciò che si farà, ma quello che è stato effettivamente fatto. Il virus, abbiamo tragicamente sperimentato, è velocissimo. Avvocati, magistrati e persino il pg della Cassazione oggi prendono posizioni condivisibili per ridurre il sovraffollamento. Ma non sono i soli. Basta scorrere le rassegne stampa per comprendere che il grido di allarme è pressoché unanime ed enormi i rischi. I ritardi della produzione di mascherine nelle carceri per esempio sono notevolissimi. Gli obiettivi si devono raggiungere con estrema rapidità. L’applicativo spazi detentivi serve per individuare soprattutto stanze adeguate per la quarantena di detenuti contagiati che non possono conseguire misure alternative. Il Dipartimento dovrebbe chiarire subito quali e quante stanze disponibili ha. Il monito del Sommo Pontefice è drammatico: il sovraffollamento si potrebbe risolvere in una calamità grave. È evidente che una pandemia di ritorno per l’intera collettività significherebbe regressione alla triste Fase 1 e danni economici irreparabili. Antigone. “Gravi carenze nel decreto Cura Italia sulle carceri” Ansa, 10 aprile 2020 Necessario liberare 10 mila persone per distanziamento sociale. “Qualora sia vero, come sembra, che non ci saranno modifiche rilevanti agli articoli 123 e 124 del decreto Cura Italia, per quanto riguarda le carceri, si sarà commesso un errore gravissimo, sulla pelle di operatori penitenziari, poliziotti, detenuti”. Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone che si batte per i diritti in carcere, che rivolge un appello al Governo: “evitiamo che le carceri diventino le nuove Rsa”. “In questa fase grave per il paese - sottolinea Gonnella - ci si affida giustamente in tutti gli ambiti ad esperti italiani ed internazionali per affrontare l’emergenza. Questo per ora non sta avvenendo per le carceri, dove al ministero della Giustizia non ci si affida alle indicazioni provenienti da Onu, Consiglio d’Europa, Garante nazionale delle persone private della libertà e garanti territoriali, professori di diritto e procedura penale, alti magistrati a partire dal Procuratore generale presso la corte di Cassazione, avvocati, magistrati di sorveglianza, funzionari penitenziari, ma anche autorità morali come papa Francesco”. “Tutti hanno chiesto e chiedono misure urgenti e straordinarie per ridurre drasticamente il sovraffollamento. Misure - aggiunge - che creino spazio fisico, misure utili ad assicurare il distanziamento sociale”. Secondo Gonnella “c’è bisogno di liberare 10 mila persone almeno, anche perché sempre più sono gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c’è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi”. “Ci appelliamo a chiunque abbia a cuore la salute delle persone e la solidarietà - dice il presidente di Antigone - affinché non si dia ascolto a chi dice (sono pochi ma influenti) che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, al pari di tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia”. Dunque, conclude Gonnella “si liberino tutti coloro che sono a fine pena, a prescindere dalla disponibilità dei braccialetti elettronici. Si liberino tutti gli anziani e i malati oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici prima che contraggano dentro il virus che potrebbe essere letale. Si dia ascolto al Pontefice e non a persone che non hanno mai vissuto l’esperienza carceraria e non sanno cosa significhi respirare l’ansia e la tensione in quel contesto”. La Croce tra le sbarre di Piero Vietti Il Foglio, 10 aprile 2020 Dal carcere di Padova le meditazioni per la Via Crucis del Papa: l’ultima parola non è l’errore. “In carcere la vera disperazione è sentire che nulla della tua vita ha più un senso: è l’apice della sofferenza, ti senti il più solo di tutti i solitari al mondo”. Non ci sono scorciatoie, nelle meditazioni che questa sera accompagneranno le quattordici stazioni della Via Crucis di Papa Francesco, lette sul sagrato vuoto della Basilica di San Pietro in questo Venerdì Santo in cui il mondo intero soffre la passione della pandemia. Non ci sono formule magiche né trucchi da prete, soluzioni bigotte o frasi fatte. C’è un grido straziante, solitudine, una domanda di significato senza sconti, c’è tutto il dolore del mondo per il male commesso, per la violenza subìta, per la fatica di accompagnare chi fino alla fine dei suoi giorni resterà in una cella per pagare i propri errori. C’è il mistero enorme che è l’uomo. Quest’anno il Papa ha chiesto alla cappellania della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova di meditare sulla Passione. Aiutati dal cappellano del carcere, don Marco Pozza, e da una volontaria, Tatiana Mario, raccontano la loro storia dolorosa cinque detenuti, una famiglia vittima di un omicidio, la figlia di un condannato all’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di un detenuto, una catechista, un frate volontario, un agente di polizia penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto dopo otto anni di processo. Quattordici testi che sono quattordici immersioni nell’abisso di una umanità ferita e spesso dimenticata, e a cui nessuna risposta ordinaria può dare conforto. “Perché proprio a noi questo male che ci ha travolto? - si chiedono, alla seconda stazione, due genitori a cui hanno ucciso una figlia - Non troviamo pace. Neppure la giustizia, in cui abbiamo sempre creduto, è stata in grado di lenire le ferite più profonde: la nostra condanna alla sofferenza resterà fino alla fine”. “La condanna più feroce rimane quella della mia coscienza - dice un ergastolano nella prima stazione - di notte apro gli occhi e cerco disperatamente una luce che illumini la mia storia”. “Le ferite crescono con il passare dei giorni, togliendoci persino il respiro”, dice la madre di un detenuto. “Tante volte incontro uomini disperati che, nel buio della prigione, cercano un perché al male che sembra loro infinito”, racconta una catechista volontaria. “Anni fa ho perduto l’amore perché sono la figlia di un uomo detenuto, mia madre è caduta vittima della depressione, la famiglia è crollata”, si ascolta in un’altra meditazione. “Potrà tutto il grande oceano di Nettuno lavare questo sangue via dalle mie mani?”, si chiede Macbeth nella tragedia di Shakespeare, consapevole dei propri delitti. È anche la domanda sottintesa in ogni riga di questa Via Crucis, senza mai la pretesa di una risposta affermativa. Sono uomini e donne caduti, precipitati da sé stessi o da altri in una notte senza stelle alla fine del mondo. “Ho vissuto anni sottoposto al regime restrittivo del 41 bis e mio padre è morto ristretto nella stessa condizione. Tante volte, di notte, l’ho sentito piangere in cella. Lo faceva di nascosto ma io me ne accorgevo. Eravamo entrambi nel buio profondo”, racconta un ergastolano. “Non mi ero accorto che il male, lentamente, cresceva dentro me. Finché, una sera, è scoccata la mia ora delle tenebre”, dice un altro detenuto. Più di uno racconta di avere pensato al suicidio, troppo grandi il dolore e la vergogna per quello che avevano fatto, l’assenza di un orizzonte o di un significato, o troppo grandi le accuse ingiuste ricevute, come nel caso del sacerdote processato per anni e poi assolto. Sembrano i personaggi di un romanzo di Dostoevskij, ma sono reali: padri, madri, figli, assassini, vittime, traditori e innocenti feriti che possono raccontare questo dolore perché in carcere hanno incontrato chi ha saputo “riconoscere la persona nascosta dietro la colpa commessa”, come dice il magistrato di sorveglianza alla dodicesima stazione. “Sono queste le creature sospese che mi vengono affidate: degli uomini inermi, esasperati nella loro fragilità, spesso privi del necessario per comprendere il male commesso”, dice poco prima un’educatrice del carcere di Padova. Come ha ricordato su queste pagine qualche settimana fa il cardinale Angelo Scola, in Delitto e castigo il protagonista Raskolnikov arriva a sentire il perdono su di sé ed è pronto a ricominciare dopo che il rimorso gli ha fatto ammettere la propria colpa e l’amore e la fede di Sonja gli hanno fatto capire la necessità del castigo, il deserto del carcere da attraversare lontano da lei, fino alla “resa” di fronte all’evidenza del bene di quella ragazza che lo “recupera”. Da anni la Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova è un esempio virtuoso di come la collaborazione tra direzione del carcere, polizia penitenziaria, magistratura di sorveglianza, associazioni di volontariato e chiesa locale possano dare frutti che in altre strutture carcerarie sono impensabili, a partire da un tasso molto basso di recidiva: centinaia di volontari quotidianamente entrano nel carcere padovano scommettendo sulla rieducazione e il reinserimento sociale e puntando su istruzione, lavoro, arte, cultura e religione. Parlando della crocifissione di Cristo, lo scrittore francese Charles Péguy dice: “Che era dunque l’uomo. Quell’uomo. Che era venuto a salvare. Del quale aveva rivestito la natura. Non lo sapeva. Come uomo non lo sapeva. Perché nessun uomo conosce l’uomo”. Dio stesso grida sulla Croce, scrive ancora Péguy, “un grido che risuonerà sempre, eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai, eternamente”. Perché quel grido? “Somiglio più a Barabba che a Cristo - dice l’ergastolano della prima stazione - Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo, scoppio nel pianto: dopo ventinove anni di galera non ho ancora perduto la capacità di piangere, di vergognarmi della mia storia passata, del male compiuto. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona. Il passato è qualcosa di cui provo ribrezzo, pur sapendo che è la mia storia”. Ma “il carcere è stato la mia salvezza. Se per qualcuno sono ancora Barabba, non mi arrabbio: avverto, nel cuore, che quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita”. Nell’esperienza di un grande amore, il corpo a corpo di ognuno con il dolore e la colpa è investito da una luce nuova. “Per quelli come noi la speranza è un obbligo”, dice la figlia del carcerato che da quasi trent’anni gira l’Italia “come Telemaco” per stare accanto al padre trasferito da un carcere all’altro. “A casa nostra è tutta una Via Crucis”. E allora ci si aggrappa anche a “un frammento di bene” che “è sempre rimasto acceso”. Un detenuto è diventato nonno mentre era in carcere. “Un giorno, alla mia nipotina, non racconterò il male che ho commesso ma solamente il bene che ho trovato. Le parlerò di chi, quando ero a terra, mi ha portato la misericordia di Dio”. E ancora: “Sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre”. Non c’è nessuna facile scappatoia, come dice il magistrato della dodicesima stazione “è necessario che l’uomo espii il male che ha commesso”, ma “non posso inchiodare un uomo, qualsiasi uomo, alla sua condanna: vorrebbe dire condannarlo una seconda volta”. Allora tutto cambia, se c’è chi salva e cancella il male commesso si può ricominciare: anche aprire o chiudere una cella può essere fatto con più umanità, dice l’agente di polizia penitenziaria nell’ultima stazione (“Ce la metto tutta per difendere la speranza di gente rassegnata a sé stessa. In carcere ricordo loro che, con Dio, nessun peccato avrà mai l’ultima parola”); i genitori della ragazza uccisa adesso accolgono a casa loro le persone in difficoltà; l’assassino di una notte ringrazia perché “ha trovato gente che mi ha ridato la fiducia perduta”; un altro detenuto sogna “di tornare un giorno a fidarmi dell’uomo” e di aiutare altri a portare la loro croce, come è successo a lui. Chi asciugherà tutte le nostre lacrime? chiedono a chi le ascolta le quattordici stazioni della Via Crucis di oggi. “Non si possono arginare le piene di cuori straziati”, risponde una delle meditazioni che risuoneranno stasera in piazza San Pietro. Ma “se qualcuno gli stringerà la mano, l’uomo che è stato capace del crimine più orrendo potrà essere il protagonista della risurrezione più inattesa”. Emergenza coronavirus: indulto e favori ai clan. È scontro tra toghe di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 10 aprile 2020 Carceri affollate, rischio contagio dietro le sbarre, indulto. Eccola l’altra faccia dell’emergenza sanitaria. C’è chi chiede interventi radicali, come indulto e amnistia, per disinnescare il rischio contagio da coronavirus dietro le sbarre e rilanciare il processo penale; c’è invece chi chiede di rafforzare i presidi sanitari nelle case circondariali, respingendo però soluzioni all’insegna del liberi tutti. È di ieri l’intervento del magistrato Paolo Mancuso, presidente campano del Pd, (ex pm antimafia ed ex numero due del Dap), che attraverso il Mattino ha battuto su due punti in particolare: la necessità che il governo affronti l’emergenza carceri finora trascurata; ma anche l’esigenza di scongiurare una soluzione estrema come l’indulto, “che è poi quello a cui puntano i clan”, rimasti silenti nelle rivolte di marzo, portate avanti “dai detenuti comuni”. Pochi giorni fa, era invece intervenuto il pm Henry John Woodcock, magistrato in forza al pool mani pulite ed ex pm anticamorra, che sulle pagine de Il Fatto quotidiano aveva chiuso così il suo articolo: “Chi può cominci a mettere mano a un qualche - ben ponderato - progetto di amnistia e di indulto, oltre che a un massiccio progetto di depenalizzazione”, con l’obiettivo di ridare slancio al processo e garantire la sicurezza di tanti reclusi in un periodo così grave sotto il profilo sanitario. Sovraffollamento, virus, camorra. Questioni strettamente collegate, come emerge dall’intervento del sostituto procuratore generale Catello Maresca (per dieci anni al pool anticamorra, poi all’antiterrorismo e a mani pulite), tra i primi in Italia a sollevare la questione carceri. Spiega Maresca al Mattino: “Ci siamo fatti cogliere impreparati, l’emergenza carceraria di questi giorni - tra incubo contagio dietro le sbarre, rivolta e concessioni governative -, parte da lontano: dai tagli ai finanziamenti, dalla mancanza di investimenti per fare assunzioni o per riqualificare i penitenziari”. Già, ma come si esprime il pm che arrestò Michele Zagaria sulle concessioni governative di questi ultimi giorni? E rispetto all’indulto? “In questo corto circuito che va avanti da anni, le mafie giocano la loro partita, come sto ripetendo dall’inizio di marzo. Mandano avanti le terze linee, quelle che hanno dato vita agli scontri di un mese fa, e lo fanno con un solo obiettivo: avere contatti con l’esterno, mantenere saldo il rapporto con il mondo di fuori. Trovo grave la concessione di skype anche ai detenuti di alta sicurezza e tutte le agevolazioni rese in modo indiscriminato che annullano il lavoro di anni e rafforzano le mafie”. E sull’indulto come si esprime il pg Maresca? “Non sono a favore dell’indulto, ma se il bivio è concessioni per tutti (alta sicurezza compresa) e indulto, dico meglio l’indulto. Eppure le mie domande restano insolute: perché non si rafforzano i presidi sanitari interni alle carceri? Perché non si creano aree Covid anche in alcuni padiglioni? Perché non si spostano i reclusi dai penitenziari più affollati a quelli meno congestionati?”. Ma a prendere le distanze dalla posizione di Mancuso sull’indulto, è il penalista Bruno Larosa: “Non credo affatto che i clan puntino sull’indulto poiché, a differenza di molti, i camorristi sanno bene che i provvedimenti come l’amnistia e l’indulto hanno sempre escluso i reati e i condannati per i delitti di criminalità organizzata, così come quelli di maggior allarme sociale. Mi impressiona che il presidente cittadino del Pd sia sulla stessa lunghezza d’onda del segretario nazionale della Lega. Sanno, come osservava Camus, che la paura è un metodo ed entrambi lo usano per opporsi a provvedimenti che avrebbero l’effetto immediato di rendere dignitosa l’esecuzione della pena e di tornare a dare un senso al processo penale e al lavoro di magistrati e avvocati”. Non manca la voce di un giudice del calibro di Tullio Morello: “Al di là dell’indulto, che può risolvere solo parzialmente l’emergenza carceri, sarebbe necessaria l’amnistia. Impossibile, visti i ritardi accumulati, immaginare una giustizia efficiente. Penso al monocratico, dove non si potrà riprendere con cinquanta fascicoli a udienza, bisogna studiare l’amnistia per alcune tipologie di reati, in modo da non avvantaggiare bande criminali e clan mafiosi”. Indagini preliminari anche da remoto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2020 Non solo le udienze, nella quasi totalità, ma anche le indagini preliminari. Il settore penale viene investito in maniera sempre più significativa dalla dematerializzazione dell’attività giudiziaria. E l’avvocatura si rivolta. Ieri, con l’approvazione al Senato, in sede di conversione, di un nuovo e denso pacchetto di misure emergenziali si è fatto un altro passo nella direzione di uno svolgimento a distanza, tanto più problematico quando il modello di Codice di procedura penale è centrata su oralità, rilevanza del dibattimento, formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Con una serie di emendamenti anche del ministero della Giustizia si è identificato nel collegamento da remoto la modalità tipica, su decisione del giudice non soggetta a impugnazioni, per lo svolgimento di tutte quelle udienze, evidentemente la stragrande maggioranza, che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti. Lo svolgimento dell’udienza dovrà avvenire con modalità che assicurino il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice farà comunicare ai difensori delle parti e al pubblico ministero e agli altri soggetti di cui è prevista la partecipazione giorno, ora e modalità di collegamento. I difensori attesteranno l’identità dei soggetti assistiti, i quali, se liberi o sottoposti a misure cautelati diverse dalla custodia in carcere, parteciperanno all’udienza solo dalla medesima postazione da cui si collega il difensore. In caso di arresti domiciliari, la persona arrestata o fermata e il difensore possono partecipare all’udienza dì convalida da remoto anche dal più vicino ufficio della polizia giudiziaria attrezzato per la videoconferenza, quando disponibile. A debuttare poi è una sorta di “indagine preliminare da remoto”, visto che il pubblico ministero e il giudice possano avvalersi di collegamenti da remoto “per compiere atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone, nei casi in cui la presenza fisica di costoro non può essere assicurata senza mettere a rischio di contenimento della diffusione del virus Covid-19”. Eccettuati i casi nei quali all’atto devono partecipare persone detenute si prevede che tutti i soggetti “convocati” devono confluire in un ufficio di polizia attrezzato al collegamento; qui l’atto viene svolto in presenza di un agente o di un ufficiale di polizia giudiziaria. Il difensore partecipa da remoto mediante collegamento dallo studio legale, a meno che decida di essere presente nel luogo dove si trova il suo assistito. Una modalità inedita che potrà riguardare tutti gli atti di indagine e quindi interrogatori, assunzione di sommarie informazioni, accertamenti tecnici non ripetibili, senza prevedere alcuna connotazione di urgenza, osservano i penalisti che contestano le norme “liberticide”. Ricomprendendo anche gli atti da compiersi da parte del giudice, sottolineano le Camere penali, “si smaterializza anche la acquisizione della prova utilizzabile in dibattimento, rientrando anche l’incidente probatorio, oltre all’udienza di convalida, all’udienza sulla richiesta di archiviazione ed all’interrogatorio di garanzia, che vengono incredibilmente svolti sotto il controllo della polizia giudiziaria”. Il processo a distanza e la definitività del provvisorio di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 10 aprile 2020 L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 ha reso impellenti le discussioni riguardanti il processo a distanza in ambito penale. In queste poche righe non si analizzerà la disciplina vigente nel dettaglio, ma ci si limiterà ad evidenziare i rischi della modalità telematica sia nell’immediato che in una prospettiva futura: in Italia nulla è più definitivo del provvisorio L’avversione di molti penalisti, e non solo, nei confronti della celebrazione del processo da remoto non è una lotta reazionaria nei confronti delle nuove tecnologie, non è una sottovalutazione o negazione della straordinarietà dei momenti che stiamo vivendo, non è una mera presa di posizione da azzeccagarbugli, non è un arroccamento corporativo, è invece una difesa del giusto processo e del diritto di difesa. Il processo celebrato a distanza non può essere giusto: si minano i princìpi dell’oralità e dell’immediatezza, si comprime il diritto di difesa dell’imputato allontanandolo dal suo difensore. Già nell’Ottocento, Francesco Carrara (come ricordato dall’Avv. Lorenzo Zilletti, Responsabile del Centro Marongiu, in “Dieci braccia di distanza”: Francesco Carrara e la distanza dal Processo sulla rivista dell’Ucpi Diritto di Difesa) denunciava la grave limitazione del diritto di difesa che derivava dal porre in aula il cliente a dieci braccia di distanza dall’avvocato, non poteva immaginare cosa avrebbe riservato il futuro. L’utilizzo dei mezzi tecnologici non potrà mai sostituire adeguatamente la presenza in aula non potendo garantire l’istantaneità e la tempestività degli interventi orali. Conosciamo tutti i ritardi e le difficoltà delle videoconferenze finanche nelle conversazioni quotidiane. Come ricordato nelle recenti Osservazioni del Centro Marongiu sul processo a distanza, il giusto processo si celebra davanti al giudice terzo ed imparziale non con il giudice in collegamento da remoto. ?L’impossibilità di procedere alla discussione o alla cross examination in videoconferenza potrebbe portare, nella prassi, ad una ulteriore contrazione dell’oralità e dell’immediatezza dovuta all’incentivazione del contraddittorio cartolare e dell’acquisizione degli atti di indagine. Celebrare un processo mediante strumenti elettronici, con tutti i soggetti collegati da remoto, e non in un’aula di tribunale è degno di uno scenario distopico in quanto implica la smaterializzazione e la disumanizzazione della Giustizia. Il processo penale è un rito che si celebra: l’architettura dell’aula, le toghe, i gesti, non sono residuati di un’altra epoca o meri orpelli bensì dei simboli essenziali della sacralità della celebrazione che pone al suo centro l’uomo. Si potranno ritenere queste considerazioni eccessive, sproporzionate ed infondate rispetto alla situazione attuale che prevede il processo a distanza solo per alcune rare eccezioni, peraltro limitate temporalmente. Il timore, però, è che si estenda la sua applicazione come già invocato da parte di alcuni. D’altronde, in Italia nulla è più definitivo del provvisorio, in particolare nell’ambito del diritto penale ove l’eccezione è spesso trasformata in regola. La legislazione emergenziale è stata, infatti, il cavallo di troia tramite cui sono state introdotte norme limitative dei diritti che da temporanee sono diventate stabili. Le emergenze, vere o presunte tali, non cessano mai, divengono infinite o si susseguono senza soluzione di continuità. Il timore è altresì fondato sulla scarsa adesione ai princìpi del sistema accusatorio, messo in discussione perennemente dagli orfani dell’inquisitorio. I precedenti, pertanto, non fanno ben sperare. L’attacco ai princìpi del diritto penale liberale continuerà. I diritti e le libertà fondamentali non sono negoziabili né centellinabili, la loro compressione ne è già la negazione. Vigiliamo. Il diritto penale dell’economia al tempo della pandemia di Fabio Di Vizio Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2020 Mentre l’emergenza sanitaria non si placa, cominciano a delinearsi le prime misure a sostegno dell’economia. In prospettiva nazionale, il decreto liquidità, discusso il 6 aprile, profila una poderosa agevolazione dei finanziamenti-ponte alle imprese, con garanzia dello Stato, moratorie nell’accesso a procedure di liquidazione, misure protettive. A livello sovranazionale, poi, il dibattito langue attorno ai temi noti: prestiti tramite il Mes, eurobond, potenziamento della Bei, allentamento dei vincoli ai debiti sovrani, politica monetaria espansiva della Bce. Silente, o quasi, invece, il dibattito sulle condizioni strutturali della ripresa economica che imporrà iniziative complesse, non riservate agli economisti, dovendosi salvaguardare condizioni irrinunciabili del diritto dell’economia. Le prime iniziative normative sospendono il rispetto di regole vissute sinora come prudenziali per la salute dell’economia e la salvaguardia delle ragioni dei creditori. Si pensi alla temporanea moratoria delle istanze di fallimento, alla sospensione dei doveri di reintegrazione del capitale sociale e di salvaguardia dei patrimoni aziendali. Lo stesso, poi, deve osservarsi per la presunzione di continuità nella redazione dei bilanci. Nella struttura dei primi interventi normativi la diretta connessione di tali moratorie con l’interruzione dei flussi di cassa dovuta al lockdown appare impalpabile e alto è il pericolo di abuso da parte di chi non è meritevole perché già in crisi irrimediabile pre-Covid. Se si immagina di congegnare regole delle quali l’imprenditore potrà giovarsi “alle spalle” dell’Autorità giudiziaria (ma, prima, dei creditori), si alimenta una miope aspirazione alla latitanza del diritto. Ben altro, invece, è il tema dei limiti all’intervento regolatorio dello Stato in materia economica. In proposito, occorre preservare, già in questa fase, il valore di tali limiti, poiché, poi, non sarà facile ricondurre uno Stato “pagatore” alla condizione di mero regolatore. Del resto, il diritto non deve idealizzare la realtà economica, ma riconoscerla per quello che è, adattandole gli istituti. Se è deciso il differimento dell’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, la regolamentazione privatistica dovrà introdurre modifiche più consistenti nell’accesso alle operazioni straordinarie (fusioni, scissioni, cessioni e affitti di azienda, finanziamenti infragruppo). Il trattamento tributario dovrà assecondare oneste riorganizzazioni aziendali. Tutto ciò, però, sempre coniugando la continuità imprenditoriale con la correttezza della rappresentazione della crisi, non con il suo occultamento. Il diritto dell’economia sarà per molto tempo disciplina dell’emergenza, ma ogni soluzione andrà costruita su un patto chiaro: il prezzo della certezza giuridica è la correttezza con la quale si rappresenta la crisi. Per riorganizzare al meglio gli attivi e soddisfare i creditori è solo nella trasparenza che la continuità aziendale potrà diventare valore mediabile con la responsabilità patrimoniale; sempre in un contesto giudiziale e non secondo la nascosta convenienza dell’inadempiente. Il diritto penale dell’economia deve smettere l’autoreferenzialità nel definire disvalori. La responsabilità delle Procure e dei Tribunali nel contrasto degli abusi sarà da rifondare. A fronte della severa lettura penalistica di molte operazioni straordinarie funzionali alla protezione degli attivi dovranno essere trovate soluzioni originali, chiare e certe. Ricollegarne la punizione alla sorte infausta costituirebbe remora ad assumere ragionevoli rischi. La prevedibilità delle decisioni giudiziali è valore anche economico. Così, rispetto a trasparenti riorganizzazioni aziendali la tutela penale dovrà essere complementare e non sopravanzare quella civile o amministrativa già logicamente progressive. Ciò che non attinge al grado di illecito civile e non costituisce nascosta frode, dunque, non dovrà essere di interesse dei giudici penali. Infine, ogni riforma ha prospettive di tenuta solo se svolta in un quadro euro-unitario. L’integrazione normativa europea è realtà da potenziare, estendendo la previsione dell’articolo 83 Tfue ai reati della crisi economica, per evitare dannose competizioni ordinamentale o arbitraggi normativi funesti per le economie nazionali. Intercettazioni, il no all’uso per reato non connesso vale anche nel giudizio abbreviato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 9 aprile 2020 n. 11745. Il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni relativi a reati non connessi con quelli per i quali le captazioni sono state disposte vale anche nel caso in cui il difensore scelga il giudizio abbreviato. La corte di cassazione, con la sentenza 11745, accoglie il ricorso contro la Condanna della corte d’Appello, che in linea con la sentenza del Gup, aveva affermato la responsabilità della ricorrente per il reato continuato di falso ideologico in atto pubblico e fraudolenta predisposizione di documenti relativi ad un incidente. L’accusa mossa alla ricorrente era di aver agito in concorso anche con Silvana Saguto l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. E proprio nei confronti di quest’ultima le intercettazioni venivano disposte ed eseguite, in relazione alle accuse di essere a capo di un sistema illegale nella gestione dei beni sequestrati alla mafia. Reati non connessi dunque con quali per i quali si procedeva contro la ricorrente. Per la Cassazione il ricorso è fondato alla luce della sentenza delle Sezioni unite (51/2029) che ha affermato che il divieto previsto in line a generale dall’articolo 270 del Codice di rito penale non scatta, oltre che nei casi in cui i risultati siano indispensabili per accertare reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza, sono per i reati connessi con quelli oggetto dell’iniziale autorizzazione. Né, chiarisce la Suprema corte, la causa di inutilizzabilità si può considerare sanata dalla scelta difensiva del giudizio abbreviato. Un rito alternativo nel quale restano deducibili le inutilizzabilità definibili “patologiche”, e dunque derivanti dall’assunzione di atti probatori in contrasto con specifici divieti normativi. Lombardia. Coronavirus, “Medici senza frontiere” al lavoro nelle carceri Il Giorno, 10 aprile 2020 Il via da San Vittore. Ma in una settimana sono raddoppiati in Italia i casi di contagio in cella, la maggior parte in Regione. Il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia ha attivato un protocollo di collaborazione con l’organizzazione Medici senza frontiere per la prevenzione della diffusione del coronavirus negli Istituti del suo distretto. L’Ong ha iniziato da una settimana la sua attività presso la Casa circondariale San Vittore di Milano. Lo rende noto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, che ha avuto una lunga interlocuzione con Msf per un confronto sulla situazione e sull’ intervento nelle carceri. “Sebbene ci si mantenga all’interno di numeri sostanzialmente contenuti, ieri si è avuto un innalzamento dei casi di positività nella popolazione detenuta che ha portato il numero complessivo a quasi due volte quello (20, ndr.) che l’Amministrazione penitenziaria aveva comunicato la scorsa settimana”. Campania. Con i limiti del decreto le prigioni non si svuoteranno di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 10 aprile 2020 I dati parlano chiaro. Su un totale di circa 500 candidati in tutta la Campania, solo poche decine hanno finora beneficiato della detenzione domiciliare prevista dal governo per evitare che le carceri si trasformassero in focolai di Coronavirus. A denunciarlo sono stati il garante regionale e la Camera penale di Napoli. I motivi? Sono presto detti: oltre la questione di braccialetti elettronici, introvabili sebbene necessari per i detenuti ai quali restino da scontare da sei a 18 mesi di reclusione, non bisogna dimenticare la carenza di personale degli uffici giudiziari e i requisiti troppo stringenti fissati dal decreto legge 18. Tanto che, dalle parti del Tribunale di Sorveglianza partenopeo, c’è chi avrebbe preferito “un provvedimento dalle maglie più larghe sulla base del quale scarcerare un numero più consistente di detenuti, magari senza passare per il vaglio della magistratura”. La norma varata dal governo prevede che il giudice di sorveglianza disponga l’esecuzione della pena presso il domicilio soltanto per i condannati per determinati reati. Per quelli ai quali restino da scontare meno di sei mesi non occorre il braccialetto elettronico che, invece, è indispensabile per chi sia destinato alla reclusione per un periodo tra sei e 18 mesi. La pratica viene istruita dai vertici del carcere dove il detenuto si trova, mentre al magistrato spetta il solo compito di verificare la sussistenza dei requisiti previsti dal decreto. Critiche a questa impostazione giungono proprio da ambienti giudiziari: “Sarebbe stato più utile prevedere la detenzione domiciliare anche per i soggetti condannati per altri reati - spiegano dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli - o prevedere concessione del beneficio in modo automatico, senza gravare i magistrati di un ulteriore compito. In questo modo la platea dei detenuti destinati a tornare in libertà sarebbe stata più ampia”. Anche i braccialetti elettronici “potevano essere tranquillamente evitati per chi deve ancora scontare un anno, quindi non solo sei mesi, di reclusione”. Sulla lentezza con la quale viene disposta la detenzione domiciliare, comunque, incide anche un altro fattore: la carenza di personale che da tempo affligge il Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Prima che scoppiasse la pandemia, come ha più volte denunciato la presidente Adriana Pangia, in servizio c’era il 45 per cento dei dipendenti previsti da una pianta organica già di per sé ridotta. Quando il governo ha definito le restrizioni per arginare la diffusione del Coronavirus, la situazione è peggiorata: per evitare assembramenti negli uffici, i vertici del Tribunale si sono visti costretti a organizzare il lavoro su turni concedendo a un terzo dei dipendenti la possibilità di operare da casa con tutte le inevitabili difficoltà tecniche che ne derivano. “Tutto ciò - trapela dallo staff della presidente Pangia - si traduce in un rallentamento del disbrigo delle pratiche, incluse quelle relative alla detenzione domiciliare”. Non bisogna dimenticare, infine, che non tutte le istanze di detenzione domiciliare avanzate dal carcere sono ammissibili. Sempre secondo quanto riferito da fonti giudiziarie, sono decine le domande prive dei requisiti previsti dal decreto 18 che vengono ugualmente sottoposte al vaglio della magistratura. Risultato: i giudici sono tenuti ad analizzarle per poi dichiararle inevitabilmente inammissibili. Con buona pace di quei detenuti che, pur avendo le carte in regola per scontare la pena a casa, devono attendere settimane per vedersi accordato il beneficio. Campania. Solidarietà e iniziative “prison made” da Associazione Il Carcere Possibile Onlus Il Dubbio, 10 aprile 2020 Tanti contributi oltre la rabbia e la preoccupazione. dagli istituti campani raccolta fondi per il “Cotugno” e disponibilità a donare sangue a Secondigliano si producono mascherine. Nel corso delle ultime settimane, sperando che non accadesse l’irreparabile, abbiamo offerto tutto il nostro contributo al governo nel cercare soluzioni che consentissero di salvaguardare la salute dei detenuti di fronte all’inesorabile avanzata del virus all’interno delle carceri, ma il ministro della Giustizia è rimasto sordo ad ogni ragionevole richiesta. Un detenuto è morto e tanti sono i contagiati. L’intero mondo giuridico (e non solo) sta cercando con pazienza di spiegare al ministro feroce che il sovraffollamento carcerario è un potenziale moltiplicatore micidiale del contagio e che non è sufficiente un muro di cinta ad impedire al virus di entrare. Il nuovo nemico cammina con le nostre gambe ed ogni giorno, all’interno dei penitenziari, vi è l’ingresso degli agenti di polizia penitenziaria e del personale amministrativo. “Il carcere, essendo chiuso ed isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia” ha tuonato il Procuratore Gratteri nei giorni scorsi. Vorremmo poterle credere signor Procuratore, ma l’ecatombe all’interno delle case di riposo (o, se si preferisce, delle Rsa) narra tutta un’altra storia. Ed allora vi è un’unica via da percorrere per tutelare la salute di tutti i cittadini reclusi: bisogna scarcerare subito il maggior numero possibile di detenuti. Lo ha evidenziato nei giorni scorsi, con una importantissima nota, anche il Procuratore Generale presso la Cassazione - Giovanni Salvi - che ha esortato tutti i magistrati a valutare come primario il diritto alla salute dei detenuti (definitivi ed in attesa di giudizio) e dunque a utilizzare tutti gli strumenti che la legge consente per ridurre sensibilmente la popolazione carceraria ritenendo, evidentemente, inidonee le misure sino ad ora messe in campo dal governo. Nelle more il tempo corre velocemente, il rischio che all’interno del carcere scoppi una bomba epidemiologica si fa sempre più alto e con esso cresce la paura (che si fa panico) dei detenuti. Cresce la loro angoscia e certamente un forte senso di smarrimento incrementato dall’assenza dei colloqui con i familiari e dall’assenza di attività trattamentali. Nonostante tutto però, i detenuti stanno cercando di reagire e di dare il loro contributo di solidarietà al mondo esterno. Dalle mura alte e robuste delle carceri si alza non soltanto una richiesta disperata di aiuto, ma anche la voce di chi ha voglia di rendersi utile alla società in un momento di bisogno e scoramento. Di chi ha voglia di sentirsi parte della comunità. Ecco perché non si può non plaudire a tutte le iniziative messe in campo in questo momento dai reclusi di tutta Italia. In Campania, ad esempio, presso il carcere di Poggioreale molti detenuti hanno organizzato, grazie al coordinamento del direttore dell’istituto, una raccolta fondi da destinare all’ospedale Cotugno di Napoli. Al contempo, i detenuti di Secondigliano e le detenute di Pozzuoli non soltanto hanno già inviato donazioni in danaro alla medesima struttura sanitaria, ma si sono dichiarati disponibili a donare il proprio sangue da destinare agli ospedali che dovessero averne bisogno, così come comunicatoci dalle direttrici degli istituti penitenziari. Ed ancora, i detenuti del carcere di Secondigliano si stanno cimentando nella lavorazione di mascherine cosiddette “home made” o più propriamente “prison made”. Ecco, nonostante la paura ed il senso di abbandono, i detenuti stanno cercando di far sentire la loro presenza: tendono la mano e donano quello che possono, quel poco che hanno a disposizione mostrando al ministro indifferente il volto dell’umanità. Umbria. Tamponi a tappeto per personale degli istituti e detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 10 aprile 2020 Circa 840 unità di Polizia Penitenziaria e 1.500 detenuti di tutti gli istituti dell’Umbria, oltre al personale sanitario che vi presta servizio, saranno sottoposti nei prossimi giorni a tampone per la rilevazione del contagio da Covid-19. La Regione lo ha comunicato oggi al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Umbria e la Toscana, Gianfranco De Gesu, chiarendo di aver dato disposizioni ai direttori sanitari e ai direttori dei distretti interessati affinché il test sia previsto per “tutti i nuovi entrati, tutto il personale sanitario e penitenziario e tutti i detenuti”. La Regione Umbria ha inoltre predisposto un modello operativo di prevenzione del contagio basato sull’individuazione di alcuni “Referenti per la sicurezza Covid” all’interno di ogni carcere. Si tratterà per lo più di personale di estrazione sanitaria, al quale sarà fornita una formazione specifica in videoconferenza con informazioni sui comportamenti necessari per la prevenzione del contagio. L’iniziativa segue analoghe intese con la Regione Toscana per sottoporre ai test sierologici rapidi il personale in servizio negli istituti penitenziari toscani e con la Regione Campania per la somministrazione degli stessi test a tutto il personale e alla popolazione detenuta negli istituti campani. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Tre contagi in cella: “carceri a rischio epidemia” di Viviana Lanza Il Riformista, 10 aprile 2020 I detenuti positivi al Coronavirus nel carcere di Santa Maria Capua Vetere restano tre: oltre al politico siciliano indicato come “paziente 1”, gli altri due sono detenuti reclusi nella stessa sezione del primo contagiato e si ritiene che il contagio sia partito proprio da un detenuto della sezione che agli inizi di marzo aveva ottenuto il permesso di uscire dal carcere per una visita. Si tratta di un positivo asintomatico ed attualmente è in quarantena. Così come sono in isolamento sanitario, in una zona del carcere allestita proprio per far fronte all’emergenza Covid 19, gli altri due detenuti positivi al virus. Per il resto le notizie che arrivano dal carcere casertano sono confortanti perché gli esiti dei tamponi sugli altri detenuti della sezione a rischio contagio (parliamo di oltre 130 persone continuamente monitorate anche se non presentano alcun sintomo della malattia) sono risultati negativi. “A partire dalla notizia del primo caso positivo nella notte di sabato - fanno sapere il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone e il garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello - sono stati effettuati 200 test sierologici rapidi domenica e 200 tamponi naso-faringei lunedì e ai test sono stati sottoposti tutti i detenuti della sezione a rischio e tutto il personale che vi lavora”. La notizia degli esiti negativi dei tamponi non basta tuttavia ad allentare la tensione e l’attenzione che ruotano attorno al pianeta carcere. “La Campania è la seconda regione d’Italia per numero di carceri e la seconda per sovraffollamento dopo la Lombardia. Parliamo di 7.374 detenuti in totale, cioè 1.300 unità in più della capienza regolamentare” precisa Luigi Romano, presidente di Antigone Campania lanciando l’allarme: “C’è il rischio concreto che le carceri possano diventare bombe epidemiologiche”. Il motivo è soprattutto legato al sovraffollamento. “In carcere - aggiunge Romano - non si può rispettare il distanziamento sociale che sarebbe l’unica misura attualmente predisposta nel Paese per evitare il rischio di contagio. Le agitazioni sono dovute a questo, ma almeno per il momento non sono vere e proprie sommosse”. Parla di possibile bomba epidemiologica anche l’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente dell’associazione “Il carcere possibile”, la Onlus della Camera penale di Napoli che si occupa di tutele e diritti dei detenuti. “Abbiamo offerto tutto il nostro contributo al Governo nel cercare soluzioni che consentissero di salvaguardare la salute dei detenuti di fronte all’inesorabile avanzata del virus all’interno delle carceri ma il ministro della Giustizia è rimasto sordo ad ogni ragionevole richiesta”. Cresce la preoccupazione per la situazione all’interno degli studi di pena, perché con il protrarsi dei tempi che saranno necessari per uscire dalla pandemia è prevedibile che tra i detenuti cresca il senso di smarrimento incrementato dall’assenza dei colloqui con i familiari, dall’assenza di attività e dall’assenza del conforto dei cappellani. “Ci si chiede a questo punto - aggiunge l’avvocato Ziccardi - se nella lotta tra la propaganda politica e la salvaguardia della salute dei detenuti non sia forse giunto il momento di affermare con forza che il rispetto e la tutela della vita umana valgano qualcosa in più di qualche cinico slogan politico o di una competizione con i leader dell’opposizione a chi si mostra più disumano”. Da più parti quella delle carceri viene segnalata come un’urgenza da affrontare senza ulteriori rinvii. “L’intero mondo giuridico, e non solo, sta cercando con pazienza di spiegare al ministro che il sovraffollamento carcerario può essere un potenziale micidiale moltiplicatore del contagio e che non è sufficiente un muro di cinta, per quanto lo si voglia fortificare, ad impedire al virus di entrare”, precisa il presidente de “Il carcere possibile” sottolineando “il volto di umanità” mostrato dai detenuti che nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli hanno già fatto una raccolta fondi per l’ospedale Cotugno, si sono offerti di donare il sangue, e lavorano alla produzione di mascherine, 10mila a settimana, destinate al personale interno ma anche già fornite alla Prefettura di Benevento, alla Procura di Napoli Nord e alla polizia municipale di Aversa. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Detenuti denunciano pestaggi, intervenga la Procura” di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 10 aprile 2020 Ciambriello, Garante dei detenuti, invia una richiesta al procuratore Troncone. “Ci hanno ucciso di mazzate”. Andrea, detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, racconta al cellulare ad una donna, che lo chiama “amò” che sarebbe stato pestato all’interno del penitenziario. Un altro recluso, in un colloquio al cellulare con una donna, presumibilmente la moglie, riferisce di avere un occhio pesto e che gli sarebbero state tagliati barba e capelli per punizione. Un terzo (la sua interlocutrice lo appella Renà) conferma quando la signora gli chiede se siano state le “guardie” a malmenarlo. Sono stralci di telefonate intercorse nei giorni scorsi tra alcuni reclusi del penitenziario sammaritano ed i familiari, che sono stati ripresi anche sui social nei gruppi che tengono in contatto i parenti dei reclusi e che sono giunte anche all’orecchio di Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti della Campania. Ciambriello, che in tal senso era stato sollecitato anche da una lettera dell’associazione Antigone e che aveva ricevuto pure segnalazioni del presunto pestaggio dalla viva voce di alcuni parenti di detenuti, ieri ha inviato una richiesta al capo della Procura sammaritana, Maria Antonietta Troncone. “Le chiedo di accertare - racconta al Corriere del Mezzogiorno - se siano attendibili i racconti che emergono dalle telefonate e se siano stati commessi episodi penalmente rilevanti da parte di alcuni agenti di custodia nelle ore concitate seguite alla irruzione ed alle perquisizioni in alcune celle di due sezioni del reparto Nilo, dove i reclusi si erano barricati. Lo chiedo nell’interesse dei detenuti e degli stessi agenti di polizia penitenziaria”. Spiega: “Ho preso in carica già da martedì quelle che sono state telefonate e messaggi relativi alla situazione molto critica che si sarebbe verificata tra domenica e lunedì. Ho detto anche ad alcuni parenti di detenuti che mi avevano contattato di sporgere denuncia ai carabinieri. Io per parte mia ho scritto ed ho segnalato le cose alla dottoressa Troncone”. Poi Ciambriello prosegue: “A Santa Maria Capua Vetere nel pomeriggio di lunedì ci sono state perquisizioni dopo la rivolta. Il provveditore ha detto che sono stati trovati bastoni, olio bollente e che sono state rotte le telecamere di videosorveglianza. Ci sarebbe stata una rappresaglia ai danni dei detenuti, secondo le segnalazioni che ho ricevuto e gli stralci di telefonate che circolano sui social. Martedì ho esposto le cose al procuratore Troncone chiedendole di avviare verifiche concrete sull’accaduto”. Il penitenziario dove si sarebbero consumati i pestaggi - stando alle denunce di detenuti e familiari - è in funzione da circa un quarto di secolo. Una delle criticità è la mancanza di acqua potabile e per risolverla alcuni anni fa furono stanziati 1.200.000 euro dalla Regione. I lavori, però, ancora non sono terminati. È un carcere sovraffollato: i detenuti sono 976 e la capienza è di 818 persone. L’organico della polizia penitenziaria è inferiore a quanto previsto. Gli agenti dovrebbero essere 470, stando alla pianta organica, ma sono 413. Il caso accende di nuovo i riflettori sul clima pesante che si respira in queste settimane nei penitenziari, anche a causa della emergenza coronavirus. “Ad oggi - quantifica il garante - in Italia risultano 41 detenuti contagiati, nove dei quali sono ora ricoverati in ospedale. Tra i reclusi a Santa Maria Capua Vetere i positivi accertati Covid sono 4 ed uno di essi è attualmente al Cotugno. Non ci sono sufficienti braccialetti per eseguire i provvedimenti dei magistrati finalizzati ad alleggerire il sovraffollamento nei penitenziari. Ci sono state poi, come noto, rivolte in tutta Italia e si sono contati tredici morti. Ufficialmente per overdose, secondo la versione del ministero, compreso uno che sarebbe dovuto uscire dopo una settimana. È importante, in questa situazione, che tutti mantengano i nervi saldi e si faccia luce sulle denunce dei presunti pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, verificando se siano fondate o non lo siano”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Tensioni al carcere, protesta delle donne dei detenuti di Anna Grippo casertanews.it, 10 aprile 2020 Mogli, madri, figlie, in un assembramento all’ingresso dell’istituto penitenziario chiedono di essere messe a conoscenza delle condizioni di salute dei loro cari reclusi. “Abbassate i manganelli. Non ce li sta uccidendo il Covid-19, ci state pensando voi!”. “Non siete soli, non vi lasceremo più contagiare, amnistia subito!”. “Rispetto e dignità per ogni singolo detenuto”. Sono questi i messaggi contenuti nei cartelli apposti dalle donne dei reclusi all’ingresso della casa circondariale “Uccella” di Santa Maria Capua Vetere come segno di protesta. Mogli, madre, figlie in un assembramento di circa una ventina di persone si sono recate stamani all’ingresso dell’istituto penitenziario chiedendo di essere messe a conoscenza delle condizioni di salute dei loro cari, reclusi. La preoccupazione è altissima a seguito dei riscontrati casi di positività al coronavirus all’interno della struttura penitenziaria nonché degli attimi di tensione continua tra detenuti ed agenti cominciata domenica sera e peggiorata nella tarda serata di lunedì. Durante una perquisizione straordinaria disposta dalla direzione del carcere sammaritano in conseguenza del verificarsi di reiterati momenti di tensioni, in alcune celle del reparto Nilo che ospita circa 400 persone, sono stati ritrovati e sequestrati spranghe ricavate dalle brande, olio, numerose bacinelle per farlo bollire ed altri oggetti contundenti. All’esito della verifica gli animi si riscaldarono ed i tumulti creatisi portarono al registrarsi di qualche contuso. Si richiese l’intervento del Nucleo di Pronto Intervento della Polizia Penitenziaria che rispose con 150 agenti in supporto agli 80 agenti ordinari del nucleo penitenziario sammaritano. La situazione di elevata tensione ha portato le donne dei detenuti ad essere ascoltate a gran voce lamentando l’impossibilità di comunicazione mediante videochiamata coi propri cari ed esiguità delle telefonate classiche. La protesta però non ha creato particolari problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico poiché gli agenti all’esterno del plesso supportati dal personale dell’esercito monitorano la situazione per scongiurare che si degeneri. Trento. “Il carcere è una vera polveriera, si devono ridurre i detenuti” di Donatello Baldo Corriere del Trentino, 10 aprile 2020 Impossibile parlare con la responsabile sanitaria della Casa circondariale di Spini di Gardolo: “Non può rispondere al telefono - spiega il piantone al centralino - è impegnatissima, sta facendo tamponi sui detenuti”. I risultati dei test non saranno comunicati subito e nell’attesa del dato - che potrebbe segnare un aumento - rimane valido il numero contenuto nel “bollettino” di mercoledì: 4 contagiati tra i detenuti, 2 tra il personale amministrativo, 2 tra gli agenti di Polizia penitenziaria. “Il carcere è una polveriera pronta ad esplodere - afferma con preoccupazione l’avvocato Filippo Fedrizzi, presidente della Camera Penale di Trento - devono intervenire le istituzioni”. Nel carcere trentino i detenuti sono 322, quando la convenzione Stato-Provincia fissa a 240 unità la capienza massima. Le celle sono chiuse, le sezioni “sigillate”, i detenuti positivi confinati in un’area separata: “I sintomi dei detenuti contagiati sono lievi - rassicura il direttore dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon - e sono stati isolati dal resto della popolazione carceraria. È poi stato emanato un protocollo - continua Bordon - che prevede tra le altre cose che se i loro sintomi dovessero aggravarsi, questi verrebbero subito trasferiti al Santa Chiara dove sono allestiti spazi appositi per le persone detenute”. Per la restante popolazione carceraria, “il medico responsabile della struttura, la dottoressa Chiara Mazzetti, conosce bene la storia clinica di ognuno e sa bene quali sono le perone più esposte”. Conferma l’avvocato Fedrizzi: “La loro situazione clinica di fragilità e di immunodeficienza è stata raccolta in un dossier, stiamo parlando di una ventina di detenuti con varie patologie che se dovessero contrarre un virus sarebbero esposte ad un grave rischio per la loro salute. Ora la palla passa al Tribunale di sorveglianza”. Questi detenuti, infatti, potrebbero godere dell’applicazione dell’articolo 147 del codice di procedura penale che differisce l’esecuzione della pena: “So che queste posizioni sono oggetto di valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza, così come la posizione di un’altra cinquantina di detenuti che devono scontare pene inferiori ai 18 mesi e che possono essere scarcerati. In tutto, circa 70 persone che potrebbero uscire dalla struttura e così alleggerire la pressione dell’affollamento che dal punto di vista sanitario è altamente rischiosa”. Ma c’è un problema: molti detenuti, seppur nella condizione di poter uscire dal carcere, non hanno una casa dove andare: “Questo è il vero problema. E per questo - sottolinea con forza Fedrizzi - faccio un appello accorato alle istituzioni, alla politica, alla società civile e al volontariato trentino: troviamo una soluzione”. Sembra che da parte delle istituzioni della Giustizia ci sia la massima disponibilità all’”alleggerimento” del numero dei detenuti: “Il Tribunale di Sorveglianza è pronto, la Procura si sta dando da fare in questo senso. Ma servono le strutture per accogliere queste persone, bisogna muoversi in fretta”. Interpellata al telefono, la Garante dei detenuti Antonia Menghini risponde con un messaggio: “Mi sto adoperando - assicura - per cercare di reperire sul territorio qualche disponibilità abitativa per chi, pur avendo titolo ad accedere ad una misura alternativa, non ha un idoneo domicilio. Al momento non ho ancora avuto riscontro. Ove dovesse concretizzarsi qualche soluzione ne darò certamente notizia”. Napoli. Il Garante: “Coronavirus, in carcere nessuna distanza di sicurezza” di Massimo Romano napolitoday.it, 10 aprile 2020 La denuncia di Pietro Ioia: “A Poggioreale anche in otto in una cella: si calpestano i diritti umani. Ci vorrebbe un’amnistia, ma il Governo non avrà il coraggio di farlo”. Al tempo del coronavirus, il carcere è uno dei luoghi più sensibili al contagio, ma allo stesso tempo quello con la minore attenzione da parte delle istituzioni. “In un carcere come quello di Poggioreale, dove ci sono anche otto detenuti per cella, è impossibile tenere le distanze di sicurezza” denuncia il garante dei diritti dei detenuti di Napoli Pietro Ioia. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari, in particolare quello di Napoli centro, ha aperto la strada a una psicosi che si sta diffondendo al loro interno: “Ci sono stati due agenti di polizia penitenziaria trovati positivi a Secondigliano - prosegue Ioia - e un detenuto sospetto, sempre a Secondigliano. Ma chi sta in carcere è terrorizzato e lo sono anche i parenti. È una situazione esplosiva, dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno”. La decisione di sospendere i colloqui ha scatenato, nei primi mesi di maggio, una rivolta sia all’interno che all’esterno del carcere: “C’era bisogno di una limitazione - afferma il garante - ma condivido il pensiero dei parenti, i quali sostengono che anche la polizia può portare il virus all’interno. Sulle rivolte, mi sento di dire che chi le scatena all’interno delle celle sa quali sono le conseguenze, ma ogni abuso perpetrato anche quando tutto è ritornato alla calma va condannato”. Per Pietro Ioia, la soluzione per difendere i detenuti dal Covid 19 sarebbe quella di un’amnistia: “Ma il Governo non avrà mai il coraggio di farlo perché chi si occupa di queste cose perde voti. Almeno, però, si impegnasse affinché chi deve uscire dal carcere, chi è malato, chi ha finito di scontare la pena o chi deve usufruire dei giorni per buona condotta possa uscire davvero e non continui ad affollare le celle”. Brindisi. In quarantena 9 agenti di Polizia penitenziaria di Mimmo Mongelli Gazzetta del Mezzogiorno, 10 aprile 2020 Dall’altro ieri ci sono 9 agenti della Polizia penitenziaria in organico al carcere di Brindisi che sono in quarantena. Sono - come riferiamo nell’articolo accanto - quelli che hanno avuto contatto diretto con il 35enne brindisino che è risultato positivo al Covid-19 e, domenica scorsa, è stato trasferito d’urgenza all’ospedale Perrino. Le condizioni del detenuto, che era arrivato in carcere, in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna a metà marzo, sono stabili dal momento che sebbene positivo risulta asintomatico. Quel che è certo è che l’ufficializzazione del primo caso di coronavirus tra le mura della casa circondariale ha fatto scattare nella struttura una serie di misure. Ieri sono state distribuite a tutti i detenuti le mascherine, con l’obbligo di indossarle. Sempre ieri hanno iniziato ad essere effettuati i tamponi ai detenuti che sono ristretti nello stesso braccio in cui era allocato il 35enne brindisino risultato positivo al Covid19. I responsi dei tamponi dovrebbero iniziare ad arrivare già oggi e, a seconda di quelli che saranno i risultati, saranno eventualmente adottate nuove misure di contenimento. Intanto, è di ieri la nota della segreteria regionale di Puglia e Basilicata dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp): “Mentre tutti si stanno muovendo come giganti contro il possibile contagio del Covid 19 nelle carceri - si legge nel comunicato - nel Distretto Puglia e Basilicata la Polizia penitenziaria non viene adeguatamente tutelata. Per queste ragioni avevamo già dichiarato, giorni addietro, lo stato di agitazione. Come struttura sindacale - prosegue la nota - abbiamo già chiesto il commissariamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dopo la notizia di un caso di contagio nel carcere di Brindisi abbiamo nuovamente chiesto lumi al Provveditorato regionale al fine di conoscere quali misure sono state messe in campo a tutela di tutti. Alcuni dubbi sorgono sulla tutela dei colleghi, sull’equipaggiamento “della dotazione di protezioni individuali”, che dovrebbero essere messe a disposizione di tutti gli operatori che per varie ragioni entrano in contatto con i detenuti nelle strutture penitenziarie. Proprio per questo - prosegue l’Uspp - si fa appello ai Prefetti che entrino nella cabina di regia della gestione delle strutture carcerarie in tema di emergenza del Covid-19”. Il sindacato della Polizia penitenziaria è sul piede di guerra: “Come sindacato e come operatori impegnati in prima linea siamo addolorati dall’inefficacia, per non dire dell’inefficienza, del sistema in questo momento di grande emergenza dove al posto dell’arida comunicazione cartacea dovrebbe esserci un’azione concreta da parte degli organi preposti alla difesa di chi opera nelle trincee penitenziarie. Da quanto sembra in altre regioni, come in altri settori, si stanno muovendo ad una velocità impressionante per tutelare la salute dei lavoratori della Polizia Penitenziaria. In questo distretto siamo quasi fermi all’anno zero: il Provveditore e il Direttore del personale, quasi a volere sminuire le sicure iniziative a salvaguardia dei lavoratori, si affidano ad una indicazione generica del Ministero della Sanità”. Milano. A San Vittore 79 bloccati dal virus. Tribunale, morto carabiniere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 aprile 2020 Positivi sei detenuti e 14 agenti, altri 59 in quarantena. Il militare lavorava sul piano distrutto dall’incendio. Era solo questione di tempo, ma il virus Covid-19 è entrato anche nel carcere di San Vittore: e in un colpo solo sta coinvolgendo 79 persone fra positivi (6 detenuti e 14 agenti) e isolati (27 detenuti e 32 agenti). Perché, proprio come nella casa circondariale di Torino - dove l’altro giorno un sospetto contagio aveva fatto scoprire altri 19 reclusi contagiati - anche a Milano si innesca la forzata progressione aritmetica di coloro che vengono messi prudenzialmente in quarantena. Contagiati dal virus - è infatti l’esito dei 131 tamponi a San Vittore comunicati dal Ministero della Giustizia - sono al momento 6 detenuti (su 745), di cui uno in ospedale; e 14 agenti, dei quali 8 nell’Hotel Michelangelo messo a disposizione dalla Prefettura, 5 a casa e uno in ospedale. L’amministrazione penitenziaria (che per quanto possibile aveva “cinturato” la cittadella attraverso 1.539 “triage” all’esterno, e che a tutti i detenuti ha fornito la mascherina) ha allora messo subito in isolamento chi potesse aver avuto recenti contatti con i positivi, e così in quarantena prudenziale sono finiti 27 detenuti e 32 agenti. In compenso risultano guariti un detenuto in istituto e un altro nel reparto di psichiatria di un ospedale. A livello italiano sino all’altro giorno si registravano cinque morti (un detenuto, 2 agenti, due medici penitenziari), 57 positivi trai detenuti e 178 tra gli agenti. Neanche il tempo di prendere atto della situazione di San Vittore, e il mondo della giustizia milanese è funestato dalla morte in ospedale a Como, dove era stato ricoverato per problemi respiratori con diagnosi appunto di Covid-19, di un carabiniere molto familiare a chi lavora in Tribunale, il 52enne Mario Soru, in servizio al Reparto Servizi Magistratura. Nessuno può sapere se nel caso di questo militare sardo, che lascia una moglie e un figlio, il contagio sia avvenuto a Palazzo di Giustizia (dove aveva svolto l’ultimo servizio il 16 marzo) oppure altrove, ma certo sembra che un sortilegio malefico si stia davvero abbattendo sul settimo piano del Tribunale: qui due settimane fa un violento incendio ha reso inagibili gli uffici della sezione Giudici delle indagini preliminari e del Tribunale di Sorveglianza, e proprio in questi due uffici prestava servizio il carabiniere, ben noto a chi ne apprezzava il tratto umano del suo assicurare lì (con i colleghi di pattuglia) la sicurezza di corridoi e di aule tanto ribollenti di vite travagliate quanto perciò spesso tutt’altro che tranquilli. “Abbiamo perso una persona cara e rara - dice la presidente dei giudici di sorveglianza Giovanna Di Rosa. Oltre a un altissimo senso dello Stato, si faceva voler bene per la sua discrezione e il suo modo di fare”. Palermo. “Tutelare la dignità del detenuto. Non ci voleva il Coronavirus per parlarne” Redattore Sociale, 10 aprile 2020 La testimonianza di Stefania, giovane moglie di un detenuto del Pagliarelli che, a sua volta, ha scritto una lettera aperta nei giorni della protesta in carcere. “Dopo quei fatti, la situazione è migliorata. Ma non ci voleva il Coronavirus per parlarne”. La persona detenuta fa i conti con un sistema giudiziario molto lento, che lo distrugge a poco a poco dal punto di vista psico-fisico insieme alla sua famiglia. Perché nel 2020 ancora non ci sono le condizioni di vita per garantire la dignità al recluso? A domandarlo con forza è Stefania, 42 anni, giovane moglie di un detenuto del carcere Pagliarelli. La sua riflessione emerge insieme a quella del marito che invece, in occasione delle recenti proteste nelle carceri, ha scritto una lettera. “C’è stata in carcere una buona parte di detenuti che, dopo le restrizioni per il Coronavirus, hanno fatto una protesta silenziosa e civile. Dopo queste, la situazione è migliorata: adesso viene distribuita la candeggina, nella spesa i detenuti possono acquistare l’igienizzante per le mani e la polizia è munita di mascherine e guanti - racconta Stefania, madre di due figli -. Inoltre, non essendoci più i colloqui con noi familiari, si possono fare a giorni alterni telefonate di 10 minuti e video chiamate che possono durare anche un massimo di 30 minuti. I problemi da affrontare, però, non sono solo questi. Occorre rivedere tutto il sistema giudiziario e tutelare soprattutto la dignità del detenuto. Non ci voleva il Coronavirus per parlarne”. “Mio marito non ha ancora una pena definitiva ed è, da più di due anni, in custodia cautelare - continua rammaricata la donna. Ci sono moltissime persone tenute in custodia cautelare per un tempo troppo lungo. Questo è solo un sistema che distrugge a poco a poco la persona, rovinando pure le famiglie. In Italia, la persona viene presa e reclusa anche se deve naturalmente essere considerata colpevole fino a prova contraria. Il detenuto passa anni dentro un processo. Possibilmente poi, dopo 4 anni, si risolve l’iter processuale con la sentenza che ti dice che sei innocente. Ma è giusto fare passare così tanto tempo senza avere prove certe sui fatti concreti? I processi dovrebbero essere più rapidi e giusti se basati su prove certe e non solo su presunzioni di colpevolezza. Quante sono state le persone che poi dopo una sentenza di assoluzione hanno chiesto un risarcimento del danno? Il nostro Paese è purtroppo pieno di questi casi. In questo modo a perderci è lo Stato perché poi deve risarcire chi, nel frattempo, ha sofferto fisicamente e psicologicamente, perdendo anni significativi della sua vita”. Per la famiglia di Stefania l’arresto del marito è stato un fulmine a ciel sereno. “È facile dire ‘chi sbaglia deve pagarè, anch’io lo dicevo! Poi la vita ti mette alla prova e capisci che prima di giudicare e di parlare devi riflettere e provare ad indossare i panni dell’altro. Solo così cambia la prospettiva. Le condizioni di vita della persona detenuta devono essere dignitose. Il sovraffollamento genera tanti problemi. Il detenuto non può fare la doccia ogni giorno, manca l’acqua calda e non ci sono i riscaldamenti. Inoltre ci sono condizioni igieniche a volte preoccupanti se si immagina che in carcere stanno chiusi come sardine. Chi ha problemi di salute non viene curato in maniera rapida ma deve aspettare mesi. Si interviene, purtroppo, solo quando la persona peggiora”. “Nella nostra famiglia, prima che fossimo catapultati in questa drammatica situazione, ignoravamo il mondo carcerario - continua ancora nel suo racconto Stefania. Per noi è stata una batosta fortissima, che ho dovuto gestire anche come madre di due figli in crescita. Prima che ci accadesse questo ricordo che, quando da ragazza vedevo in TV Marco Pannella che faceva gli scioperi della fame per i diritti dei detenuti, mi sembrava esagerato. Quando mio marito è stato portato via da casa, ho maturato, solo a poco a poco, l’accaduto. Con grande forza d’animo sono stata a fianco dei miei figli che ho cercato di confortare per renderli più sereni. Ripeto sempre ai miei figli che non possiamo perdere la fiducia nella giustizia che cercherà di fare la giusta chiarezza per riuscire a farci sperare, prima o poi, in un futuro diverso. Ho avuto e ho i miei momenti di sconforto ma so che prima o poi questa situazione si supererà. Cerco sempre di essere forte e attiva anche nei confronti di mio marito che al pensiero di vedermi soffrire si amareggia. Anche a lui cerco di dare coraggio”. La donna punta il dito anche su altri problemi del sistema carcerario. “Il tempo del carcere dovrebbe essere riabilitativo ed educativo non certo devastante per chi entra e ne esce a volte peggio di prima. Alcuni infatti purtroppo si incattiviscono. Poi ci sono i magistrati che devono gestire un carico di lavoro enorme, perché il sistema è troppo pesante. Chi ha compiuto reati gravi dovrebbe avere processi più veloci. Poi ci sono anche coloro che per piccoli reati dovrebbero avere misure alternative. Mi chiedo anche come si può mettere insieme chi ha compiuto omicidi da chi ha compiuto reati economici”. “Tutto nella vita ha un senso e credo che, dopo che tutto questo passerà, potrei pensare anche di impegnarmi per i diritti dei detenuti - conclude infine la donna. Ci sono famiglie che andrebbero per esempio aiutate e prese in carico dai servizi sociali. Non occorre certo costruire nuove carceri. Dentro il carcere la persona non deve sopravvivere per le necessità primarie ma deve essere aiutata a ritornare a vivere e a credere in un futuro diverso dentro la società. Se si lavora bene sul piano dei diritti a beneficiarne sarà tutta la società”. “(...) Scrivo questa lettera a nome mio e di tutti i detenuti del Pagliarelli e non solo, per far sapere il più possibile in quali condizioni siamo costretti a vivere da anni dentro queste mura, a causa di un sistema giudiziario e penitenziario obsoleto e contorto allo stesso tempo - scrive nella lettera il marito di Stefania. Da qualche giorno stiamo protestando in maniera pacifica, tramite sciopero della fame e battitura delle grate, sperando che qualcuno, lì fuori, ascolti il nostro grido di sofferenza perché non è giusto che in un paese civile e sviluppato, così come si definisce il nostro, siamo costretti a vivere come sardine in scatola a causa del sovraffollamento; abbiamo carenze igieniche e sanitarie allarmanti; non è giusto che ci venga negato il diritto a fare una doccia giornaliera a causa di persistenti problemi tecnici. Non è giusto che per parlare con un dirigente del penitenziario si debbano fare trafile infinite sempre che ti ascoltino; non è giusto che si debbano aspettare tempi biblici per avere una visita medica specialistica. Allora ci chiediamo se bisognava aspettare una pandemia per portare alla ribalta i diversi problemi che ci sono all’interno delle carceri in Italia; ci chiediamo qual è il concetto di giustizia che hanno i governanti e se hanno mai considerato che noi detenuti siamo esseri umani con le nostre paure e debolezze e soprattutto con i nostri errori. Spero che chi di dovere capisca che noi reclusi abbiamo il diritto di vivere all’interno degli istituti di pena e non di sopravvivere”. Roma. A Rebibbia detenuta positiva al coronavirus, scatta l’allerta focolaio di Camilla Mozzetti Il Messaggero, 10 aprile 2020 Trasferita allo Spallanzani 35enne in carcere da pochi giorni: verifiche sanitarie anche per tutto il personale della Penitenziaria. I primi sintomi ha iniziato a manifestarli mercoledì sera: febbre alta e un po’ di affanno. Da alcuni giorni, una detenuta della sezione femminile del carcere di Rebibbia aveva lasciato la sua cella e si trovava in infermeria per dei problemi dovuti a una patologia specifica “Ma poiché c’erano stati due casi di medici positivi al coronavirus nei giorni scorsi - spiega Gabriella Stramaccioni garante dei detenuti - si è deciso di trasferire la donna, un’italiana 35enne, all’Istituto nazionale Malattie infettive Lazzaro Spallanzani”. Il primo tampone a cui la detenuta è stata sottoposta ieri al suo arrivo in ospedale è risultato positivo. E sulla situazione degli istituti penitenziari della Capitale si riaccende l’attenzione, dopo le sommosse interne ed esterne dei giorni scorsi, le visite annullate e rimpiazzate poi dalle video-chiamate con Whatsapp. Non è escluso che a Rebibbia possa esserci un focolaio di Covid-19. A confermare il caso della prima detenuta positiva, l’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato durante la video-audizione in commissione regionale rispondendo a una domanda della consigliera di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo. “La paziente è ricoverata allo Spallanzani e si sta procedendo a tamponare i contatti stretti sia tra gli operatori sia tra coloro che momentaneamente per vicende di giustizia sono ospiti della struttura penitenziaria, in accordo con l’amministrazione del carcere”. Lo Spallanzani, dal canto suo, ha chiesto alla direzione del penitenziario la sanificazione dell’infermeria e la quarantena per le altre 25 detenute che si trovavano nel presidio sanitario. Le condizioni della donna - che si trovava in carcere per aver violato i domiciliari - al momento, non destano preoccupazione, “È lucida e vigile”, aggiunge la Stramaccioni che con la direttrice del carcere femminile Maria Carmela Longo sta monitorando la situazione. Ma chiaramente sono partite tutte le verifiche del caso. Al femminile di Rebibbia ci sono attualmente 350 detenute a cui va sommato circa lo stesso numero di persone tra polizia penitenziaria e personale di supporto alle attività. La Asl Roma 2 ha avviato tutto il percorso per lo “screening” e a ieri sera “erano stati effettuati un centinaio tamponi” aggiunge ancora la garante dei detenuti. I numeri ufficiali sono arrivati direttamente dall’assessore D’Amato: “I 75 tamponi eseguiti ai contatti stretti della donna sono risultati tutti negativi. Una buona notizia per l’indagine epidemiologica in corso”. Che tuttavia, al momento non esclude ancora l’esistenza di altri casi positivi giacché le indagini non si concluderanno prima di sabato. “Se una situazione del genere dovesse esplodere nel nuovo complesso - conclude la Stramaccioni - dove sono detenute all’incirca 1.500 persone sarebbe un problema perché non ci sono sufficienti spazi per provvedere alla quarantena o all’isolamento”. Al femminile di Rebibbia per ora si sono organizzati così: al primo piano della struttura sono stati riservati dei posti per gli isolamenti, l’ora d’aria ieri non è stata cancellata ma è stato imposto un rigido controllo per il rispetto delle distanze di sicurezza e domani ma si celebrerà la messa ma in corridoio per garantire il distanziamento. Sempre da domani, infine, le detenute avranno le mascherine e i guanti mentre da oggi scatterà il controllo della temperatura all’ingresso del carcere per tutti i dipendenti. Siena. La Garante: “Il detenuto contagiato sta bene, ma chiediamo test e tamponi per tutti” di Gennaro Groppa sienanews.it, 10 aprile 2020 Nel carcere di Ranza, dunque, si è registrato il primo caso di un detenuto positivo al Covid-19. Si tratta di un 60enne che da poco è stato trasferito da una casa di reclusione di Bologna. Nel capoluogo emiliano l’uomo era stato sottoposto ad un primo tampone, risultato negativo. Ma all’arrivo a Ranza è stato sottoposto ad un secondo tampone, al quale stavolta è risultato positivo. Il detenuto si trova adesso in isolamento, ma d’altronde la direzione del carcere aveva già precedentemente disposto l’isolamento preventivo di tutti i detenuti che sono stati trasferiti nel corso delle ultime settimane. “Quest’uomo è probabilmente entrato in contatto a Bologna con persone che poi sono risultate contagiate e positive al Covid-19 - afferma Sofia Ciuffoletti, direttrice de “L’altro diritto” e garante dei diritti dei detenuti di Ranza. Noi crediamo che in momenti come questi sia fondamentale adottare tutte le metodiche corrette. Tante carceri italiane sono sovraffollate, quindi anche in tempi normali esistono enormi problemi, adesso ci sono tante difficoltà anche da un punto di vista sanitario. Noi chiediamo che sia garantita la tutela sanitaria di tutti i detenuti. Se in questo periodo vanno fatti dei trasferimenti la nostra richiesta è che essi vengano effettuati seguendo tutte le normative necessarie anche da un punto di vista sanitario. C’è tensione in tutte le carceri, anche se devo dire che nella struttura di Ranza la direzione sta svolgendo un ottimo lavoro e questo ci fa dormire sonni abbastanza tranquilli”. Sofia Ciuffoletti, quali sono le vostre principali richieste in questo frangente? “Chiediamo innanzitutto che possa essere fatto uno screening completo a tutti coloro che sono nelle carceri, quindi non solamente agli agenti penitenziari ma anche ai detenuti. Chiediamo che sia possibile effettuare sia i test sierologici che i tamponi. In Toscana è stato comunicato che questi esami saranno effettuati, noi continueremo a monitorare la situazione. A Sollicciano hanno già iniziato, proseguiranno poi con le altre carceri toscane”. A Ranza c’è un problema nel reperimento delle mascherine necessarie? “No, in questo momento direi di no. Il Comune di San Gimignano ha appena donato 600 mascherine alla struttura, questa è una risposta importante. È ovvio che l’impegno dovrà poi proseguire per assicurare che le mascherine siano a disposizione costantemente all’interno del carcere. L’approvvigionamento dovrà essere continuo. Nel piano-mascherine del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi devono essere tenuti in considerazione anche i detenuti”. Il detenuto arrivato a Ranza da Bologna e risultato poi positivo al Covid-19 indossava la mascherina al momento del trasferimento? “Sì, ci hanno detto di sì. Sia lui che gli altri detenuti trasferiti e anche gli agenti indossavano tutti le mascherine di protezione. Al momento del loro arrivo a Ranza, a tutti i detenuti trasferiti è stato fatto il tampone, l’unico positivo è stato quest’uomo. Tutti i detenuti appena arrivati a Ranza erano stati già messi in isolamento preventivo, la direzione di Ranza è un esempio di buona gestione”. Dentro ad un carcere è in questo momento possibile ricevere delle buone cure sanitarie? “Ovviamente in un carcere accade spesso che la popolazione sia debilitata e vulnerabile. La cura dei detenuti spetta al sistema sanitario, Ranza ha anche il problema di non essere molto vicino a presidi ospedalieri. Per quel che riguarda l’uomo positivo al Covid-19, in questo momento è asintomatico, tuttavia è ovvio che abbia bisogno di un monitoraggio costante. Ricordo a tutti che la questione della salute dei detenuti deve essere un tema pubblico di interesse generale”. Esiste un problema di sovraffollamento nel carcere di Ranza? “Direi di no. Alcuni detenuti hanno scontato la loro pena e sono usciti dal carcere, altri però sono arrivati con dei trasferimenti. Comunque nella struttura di Ranza riescono in questo momento a garantire anche gli isolamenti per motivi sanitari, quindi il problema del sovraffollamento lì non c’è. Il tema è invece assolutamente presente in tantissime altre carceri italiane”. Livorno. Carcere, sì ai colloqui via Skype di Gaetano Costa Italia Oggi, 10 aprile 2020 I detenuti chiedono a Mattarella e Bonafede di consentirli anche dopo l’emergenza. Il mondo dentro Skype. Unico contatto con i familiari che si trovano all’esterno del carcere. Le videochiamate sono state introdotte in diversi penitenziari italiani in seguito all’emergenza legata al coronavirus. Un modo per scongiurare eventuali contagi durante le visite di persona. Alle Sughere, il penitenziario di Livorno, la cosa funziona. Tanto che i detenuti vorrebbero prolungare i colloqui sulle piattaforme digitali anche al termine dell’epidemia. Una richiesta ufficiale che, tramite una lettera, è stata inoltrata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Nella Casa circondariale livornese hanno riadattato il cosiddetto reembolso, un programma di recupero approvato nel 2012 in alcuni Stati del Brasile che permette a determinati reclusi di ottenere uno sconto di pena pari a quattro giorni in un mese per ogni libro letto. Alle Sughere il principio è il medesimo. Quel che cambia è la finalità: per ogni volume sfogliato i carcerati hanno diritto a una videochiamata in più. “Vogliamo dare nuovo impulso alla biblioteca dell’istituto e ai progetti legati alla lettura”, ha spiegato il direttore del carcere, Carlo Mazzerbo. “Oggi più che mai la conoscenza può fare la differenza e la riscoperta o la scoperta della lettura, in un momento come quello attuale, è fondamentale perché, come diceva Pennac, un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. Persino da te stesso”. I detenuti leggono. E parlano su Skype coi parenti. All’epoca del Covid-19, con i colloqui sospesi, non ci sono alternative. Ma le videochiamate, secondo i reclusi del carcere di Livorno, devono diventare una prassi comune. “Chiediamo che la concessione fatta in questo periodo di emergenza possa essere confermata anche per il futuro, allineandoci ad altri Stati europei”, hanno scritto i detenuti delle Sughere nel messaggio inviato a Mattarella e Bonafede prima di citare alcuni esempi di carceri nelle quali, anche prima dell’emergenza, “veniva data la possibilità di effettuare le videochiamate ai detenuti dell’alta sicurezza e non solo della media sicurezza”. A introdurre la novità dei colloqui su Skype nel carcere di Livorno è stato il garante dei detenuti, Giovanni De Peppo, secondo il quale le videochiamate “alleggeriscono il clima di preoccupazione per la sospensione delle visite”. Provvedimento, quello dei colloqui diretti annullati, che aveva scatenato proteste da parte di reclusi e familiari in varie prigioni italiane. Ora le tensioni sono rientrate. E gli incontri online procedono. “A Livorno, in questa delicatissima fase, il ruolo di grande equilibrio e capacità del direttore Mazzerbo, ma anche di un ispettore e di un gruppo di agenti della polizia penitenziaria, hanno assicurato e garantiscono permanentemente il funzionamento dei collegamenti sia nelle sezioni dei detenuti comuni, sia di quelli dell’alta sicurezza”, ha detto De Peppo a Repubblica Firenze. “Assicurare diritti e garantire sicurezza sono le azioni che in un istituto di pena vanno sempre d’accordo e in questa fase più che mai impariamo che solo la sensibilità, l’umanità e la professionalità di tutti possono salvarci”. Como. La voce del cappellano: “In carcere ognuno ha la possibilità di rialzarsi” di Silvia Guggiari catt.ch, 10 aprile 2020 Ogni anno, in occasione della Via Crucis del Venerdì Santo, Papa Francesco dà voce a quelli che lui stesso chiama gli “scartati” della società. Quest’anno la voce è quella dei detenuti che hanno scritto delle meditazioni profonde che chiamano ognuno di noi a riflettere sul valore di pena, di giustizia, di perdono (a questo link il testo delle meditazioni). Una voce, quella dei carcerati, che vogliamo ascoltare anche noi attraverso le parole di Padre Michele Rocco, francescano, cappellano del carcere del Bassone (Como) che attualmente vede detenute circa 450 persone. Padre Michele, qual è il ruolo del cappellano all’interno del carcere? Quella del cappellano è una figura istituzionale, prevista nell’ordinamento del carcere: si potrebbe identificare come il parroco di una parrocchia ben delimitata dalle mura che al suo interno non ha solo i detenuti ma anche la polizia penitenziaria e tutti coloro che nell’istituto vi lavorano. Collaborando con polizia penitenziaria e in particolare con l’area educativa, il cappellano opera affinché la persona detenuta possa vivere la sua esperienza di detenzione nella maniera più costruttiva possibile. Ovviamente affianca, assiste e dialoga con tutti gli uomini e le donne presenti in istituto, al di là del loro credo. La Via Crucis del Venerdì Santo aprirà le porte di uno di quei luoghi che la società preferisce tenere chiuso… Quella che si svolgerà questa sera sarà sicuramente un buon momento per riflettere sull’esperienza della detenzione. Il Papa ha da sempre nel cuore i carcerati: non a caso appena divenuto Pontefice era entrato in un carcere e aveva lavato i piedi ai detenuti. Un episodio che aveva creato parecchio scalpore non tanto nella società, ma soprattutto nell’ambiente vaticano. Le meditazioni della Via Crucis sono scritte da persone che si stanno guardando dentro e questo è il messaggio più bello: sono persone che hanno compiuto cose brutte che però si stanno mettendo in discussione, che sono cadute ma che si stanno rialzando in piedi. A parlare, nelle quattordici stazioni, non solo i detenuti, ma anche persone che con loro vivono questo dramma come la mamma del detenuto, il poliziotto, il magistrato e anche chi ha dovuto subire una grave ingiustizia come i genitori di una ragazza innocente ammazzata. A mio modesto parere manca però la stazione più importante: ovvero quella di Gesù. Manca la voce della persona ingiustamente ammazzata che non ha avuto la possibilità di poter realizzare i propri sogni. La Via Crucis scritta dai detenuti vuole dunque dimostrarci che un percorso di redenzione è possibile? Assolutamente sì. Non a caso la Bibbia inizia con un furto (quello di Adamo ed Eva) e un omicidio (Caino e Abele): l’uomo in qualche modo ha rubato la sua libertà; da qui Dio gli dice “io non ti abbandono”. E tutta la Bibbia è la storia del rapporto di amore tra Dio e l’uomo, dove l’amore è condividere ciò che non si ha. L’uomo condivide la sua non totale libertà, e Dio condivide l’umanità facendosi uomo. Da settimane ci ripetiamo “Tutto andrà bene”. Nella catechesi di mercoledì è stato il Pontefice a dirci che “Con Dio possiamo davvero confidare che tutto andrà bene”. Una speranza a cui possono aggrapparsi anche i detenuti? Con i detenuti, durante la Quaresima, abbiamo riflettuto sul brano di Vangelo che racconta della morte di Lazzaro. Abbiamo letto di Gesù che piange per la morte dell’amico; abbiamo capito che noi siamo vivi ma magari il nostro cuore è fermo perché abbiamo fatto del male a qualcuno. Gesù ci dice “io piango per questa tua morte però voglio donarti nuovamente la vita”. Il ruolo del sacerdote all’interno del carcere, degli educatori e dei poliziotti è dunque quello di cercare di togliere le bende che legano i detenuti in modo che quando escano possano essere più liberi e risorgere a vita nuova. Questa è la speranza che ci indica anche papa Francesco. Come si sta vivendo l’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus? Inizialmente i detenuti erano molto spaesati, non capivano la situazione esterna che ovviamente si ripercuoteva anche su di loro. Questa confusione ha provocato sommosse e disordini in diverse carceri italiane, ma non da noi. Il direttore e il comandante della polizia hanno fatto subito un incontro con i rappresentanti delle sezioni, spiegando loro la situazione esterna, chiarendo che la Nazione intera si stava chiudendo per cercare di limitare i contagi. Questo incontro è stato determinante per chiarire la situazione ed evitare possibili disagi. Fuori dal carcere è stato poi allestito un triage della protezione civile per coloro che come me entrano ed escono dalla struttura. All’interno sono state create due zone di quarantena, uno al maschile e uno al femminile, dove il detenuto appena arrestato deve trascorrere 15-20 giorni. Non abbiamo avuto nessuno contagio; se dovesse succedere sarebbe una tragedia. Padova. Fernando Badon e la squadra di calcio che rende “liberi” i carcerati di Marco De Lazzari Il Gazzettino, 10 aprile 2020 Hai voglia a chiamarlo solo calcio, quando il pallone diventa lo strumento per sfidare pregiudizi e burocrazia regalando sorrisi e sprazzi di una normalità perduta. Rimettiamoci in gioco è il progetto di speranza che accende il motore della Polisportiva Pallalpiede, squadra allenata dal 56enne Fernando Badon ex attaccante del Venezia negli anni 80 e formata dai detenuti del penitenziario Due Palazzi di Padova, sfida a dir poco intensa iniziata 4 anni fa partecipando (con buonissimi risultati) al campionato di Terza categoria. “Ormai sono abituato a frequentare il carcere, un posto diventato normale anche se di normale non c’è nulla racconta Badon, padovano di Saonara, con entusiasmo palpabile Senz’altro è un’esperienza forte stare a diretto contatto con vite di grande sofferenza dovuta alle dinamiche del carcere. Ho detto subito di sì quando la Nairi Onlus, che si occupa di diritti umani, mi ha coinvolto con Lara Mottarlini, il professor Paolo Piva e il tecnico federale Valter Bedin. Sono entrato col dirigente factotum Andrea Zangirolami e ho fatto la scelta giusta, tutto ciò che ho cercato di dare mi è tornato indietro moltiplicato a livello umano”. L’obiettivo era introdurre anche il calcio tra le materie da proporre ai carcerati… “Ho a che fare con ragazzi e soprattutto adulti di una decina di etnie, all’inizio ognuna stava per conto proprio e superare queste divisioni passando dalle celle al campo è stata la parte più difficile. Pian piano il linguaggio dello sport ha abbattuto barriere ed educato trasversalmente, io ho allenato come avrei fatto fuori da quelle mura. Si è instaurato un filo diretto incredibile, non ho mai chiesto per quale reato si trovassero lì. Nel gruppo ci sono vari ergastolani, altri nel tempo hanno ritrovato la libertà e capita di tenersi in contatto, i rapporti sono andati oltre”. L’aspetto comportamentale è giocoforza basilare… “I giocatori firmano un codice etico, abbiamo l’obbligo di vincere la Coppa Disciplina e ci siamo sempre riusciti arrivando una volta secondi, ma solo per un errore nel compilare una lista. All’inizio pochi sapevano giocare a calcio, siamo cresciuti insieme e nella stagione 2018/19 abbiamo vinto il campionato. Un’emozione impagabile anche se partecipiamo fuori classifica e non possiamo salire di categoria”. La Pallalpiede, va da sé, gioca tutte le partite in casa al Due Palazzi… “Questo progetto affronta molte difficoltà, per iscrizione e permessi, maglie e scarpe. All’inizio non c’erano spogliatoi, adesso c’è persino una tribunetta e ogni sabato pomeriggio abbiamo 70-80 detenuti che con deroga scendono dalla loro sezione per fare il tifo scortati dalle guardie. Ci alleniamo martedì e il giovedì pomeriggio, le selezioni per la squadra sono sempre aperte e legate ai tempi di detenzione, abbiamo pure un centrocampista con trascorsi giovanili nella Lazio e nel Catania. Per tutti loro il calcio è ossigeno prosegue Badon non vedono l’ora di giocare, lo scopo è aiutarli all’inserimento e recuperarli abituandoli alle regole che non avevano rispettato quand’erano fuori. Perciò la soddisfazione più grossa è che abbiano capito l’importanza di ascoltare e impegnarsi, anche nel fare il riscaldamento come si deve”. Quale invece l’approccio degli avversari-ospiti varcando il cancello? “Sicuramente è migliorato, ogni anno ci hanno cambiano di girone perché il contatto è reciprocamente formativo. Notiamo sempre un po’ di curiosità e preoccupazione per il luogo, poi però il calcio migliora il clima e molti si informano con interesse spontaneo”. Fino a pochi mesi fa il suo vice era l’amico-bomber Walter Ballarin, studiato da vicino nel tridente nero-verde con Gigi Capuzzo e Roberto Fantinato nel Venezia che chiuse al 5. posto la Serie C2 1983/84 nel primo anno dei fratelli Mazzuccato alla presidenza… “Ho vestito le maglie di Cittadella, Forlì, del Bassano di Cinesinho-Stevanato e Union Chioggia Sottomarina, ma quella stagione in nero-verde fu un’esperienza bellissima. Arrivai giovanissimo dal vivaio del Padova di Vittorio Scantamburlo (lo scopritore, tra i tanti, di Alex Del Piero, ndr). Un gran bel Venezia con tanti giocatori di categorie superiori, peccato averlo smantellato perché avrebbe potuto lottare per salire in C1. Una cartolina? I 12mila del Penzo per il derby col Mestre, gara addirittura in schedina e che purtroppo perdemmo 3-0. Ma chi se la scorda”. Oxfam: “A rischio povertà mezzo miliardo di persone in più” di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 10 aprile 2020 Il rapporto “Dignità, non miseria”. L’allarme: con la pandemia la lotta alla miseria può tornare indietro di 30 anni, evitare gli errori del 2008, che avevano ampliato le ineguaglianze nel mondo. Le proposte dell’organizzazione: sovvenzionare subito le persone a rischio, con soldi liquidi, e annullare il debito estero dei paesi più poveri. Nel mondo, mezzo miliardo di persone in più cadranno nella povertà. È l’allarme di Oxfam, nel rapporto Dignità, non miseria presentato ieri, dove l’organizzazione propone un piano di salvataggio economico universale all’altezza della crisi, causata dalla pandemia di Covis-19. Un altro mezzo miliardo, che andrà ad aggiungersi ai 736mila (dai 2015) che già oggi vivono sotto la soglia della povertà, fissata dalla Banca Mondiale a meno di 1,9 dollari al giorno. Oxfam basa la sua analisi sui dati Onu, che mettono in evidenza il rischio che la lotta alla miseria torni indietro di 30 anni. “Un paese come il Ghana - ha denunciato ieri il portavoce di Oxfam France, Robin Guittard - spende 11 volte di più per rimborsare il debito estero che per il budget sanitario, per la Mauritania è sei volte di più. È una situazione insostenibile, in particolare in un contesto di pandemia mondiale”. Oxfam fa alcune proposte per evitare il peggio e non rifare gli errori del dopo 2008, che avevano ampliato le ineguaglianze nel mondo: sovvenzionare subito le persone a rischio, con soldi liquidi, e annullare il debito estero dei paesi più poveri, “2.500 miliardi di dollari per lottare contro la pandemia e impedire il crollo dell’economia mondiale, privilegiare l’aiuto diretto alle persone, sotto forma di sovvenzioni in liquidi a tutti coloro che ne hanno bisogno. Può essere finanziato con la sospensione immediata del servizio sul debito dei paesi poveri, con un rilancio economico da parte di Fmi e Banca Mondiale, con l’aumento degli aiuti e la fiscalità”. Oxfam lancia un appello all’Fmi perché emetta 1.000 miliardi di dollari di Diritti speciali di prelievo (attivo di riserva internazionale) da utilizzare come helicopter money, per permettere alle persone di nutrirsi. La prossima settimana è prevista una riunione di Fmi e Banca Mondiale, per discutere sull’uscita dalla crisi. Nel rapporto di Oxfam ci sono tre testimonianze, che illustrano la situazione. Micah Olywangu è taxista a Nairobi, dove l’aeroporto è chiuso e l’economia ferma. “Il virus ci affamerà prima di farci ammalare” afferma. Diane è cameriera a Jackson nel Mississipi ed è senza stipendio da quando il ristorante dove lavora ha chiuso a marzo: “Siamo distrutti, rischiamo l’espulsione da casa e di trovarci in strada, senza cibo”. Tarawati è una lavoratrice domestica a Sriniwaspuri, a sud di Dehli, ha 7 figli: “Questo virus sta già distruggendo le nostre vite”. L’Fmi prevede “al meglio una ripresa parziale nel 2021” e parla di “peggiori conseguenze economiche della Grande Depressione del 1929”. Kristalina Georgieva, direttrice generale dell’Fmi, afferma che “solo qualche mese fa aspettavamo una crescita del reddito per abitante in 160 paesi, mentre oggi prevediamo per più di 170 paesi una contrazione del reddito per abitante”. Crollo del prezzo delle materie prime, blocco degli investimenti esteri, commercio mondiale fortemente rallentato: il Wto (Organizzazione mondiale del commercio) prevede un crollo di oltre del 30% degli scambi mondiali, peggio che dopo il 2008, in quasi tutte le regioni del mondo. Il commercio cadrà in America del Nord e Asia rispettivamente del 40% e del 36%, in Europa e in America del sud sarà superiore al 30%. “L’obiettivo immediato è mettere sotto controllo l’epidemia e attenuare i danni economici causati agli individui, alle imprese, ai paesi”, afferma il direttore generale Roberto Azevedo, che prevede “la più profonda recessione economica della nostra esistenza”. La crescita dei commerci mondiali negli ultimi 25 anni aveva permesso a più di un miliardo di persone sulla Terra di uscire dalla povertà, adesso questo risultato rischia di venire azzerato. Per Oxfam, far fronte alle conseguenze economiche della pandemia, “è una questione di volontà politica”. In caso contrario, “questa crisi provocherà immense sofferenze, a causa dello sfruttamento delle ineguaglianze estreme tra ricchi e poveri, tra nazioni ricche e povere, tra uomini e donne”. La zona euro è in piena tempesta ed è ormai in recessione. Secondo dati dell’Ifo Institute (padronato tedesco), l’economia dell’Eurozona si è contratta del 2,3% nel primo quarto, crollerà del 10,5% nel secondo e ancora dell’8,7% nel quarto. Ifo Institute parla di “shock senza precedenti per l’economia mondiale”. Per l’Organizzazione internazionale del lavoro, su 3,3 miliardi di lavoratori nel mondo, 1,25 miliardi sono a rischio licenziamento per gli effetti della pandemia, mentre 4 su 5 stanno subendo conseguenze nelle condizioni di lavoro. Stati Uniti. Proteggere i detenuti è fondamentale per arginare il virus di Anna Flagg* Internazionale, 10 aprile 2020 Immaginate migliaia di navi da crociera piene di passeggeri ma a corto di disinfettanti, personale medico e strumenti protettivi. Poi immaginate che ogni settimana un quarto dei passeggeri scenda dalle navi, sostituito da nuovi turisti che rischiano di trasmettere o essere contagiati dal nuovo coronavirus. Posti simili esistono, e negli Stati Uniti sono ovunque. Sono le prigioni di contea, gestite dagli sceriffi eletti a livello locale che in questo momento hanno l’incarico di arginare l’epidemia di covid-19 ma che con ogni probabilità hanno risorse limitate e spesso nessuna voce in capitolo su chi entra o esce da quelle strutture. Sia nelle grandi prigioni che si trovano nei focolai principali come New York e Seattle, sia nelle piccole prigioni di contea, l’andirivieni delle persone che entrano ed escono minaccia di accelerare la diffusione della malattia, mettendo in pericolo la popolazione incarcerata, il personale e la comunità in generale. Alcuni stati e alcune giurisdizioni locali hanno risposto con rilasci e scarcerazioni anticipate. Popolazione di passaggio - Nel paese esistono due tipi di prigioni: quelle gestite dalle autorità federali o statali e dedicate esclusivamente ai detenuti condannati a molti anni di carcere, dove quindi la popolazione carceraria è abbastanza stabile; e quelle gestite dalle autorità locali, in cui finisce chi aspetta di uscire su cauzione, chi non può pagare la cauzione ed è in attesa del processo e chi deve scontare pochi mesi per reati non violenti. Nelle prigioni del secondo tipo i detenuti entrano ed escono a ritmo costante. Il Marshall Project e il New York Times hanno analizzato i dati sulla popolazione carceraria statunitense del 2017 raccolti dal Vera institute of justice, scoprendo che in media le prigioni del secondo tipo prendono in carico 200mila nuovi detenuti ogni settimana, un numero più o meno equivalente a quello delle persone rilasciate. “È fondamentale che l’opinione pubblica capisca la portata del ricambio di detenuti nelle prigioni”, sottolinea Brandon Garrett, professore di diritto dell’università di Duke. “Alcuni restano in carcere per poco tempo. Questo significa che entrano ed escono ripetutamente dalle loro comunità”. Evitare il contagio in queste strutture è molto difficile. Il distanziamento sociale è praticamente impossibile nei dormitori con tanti letti disposti in fila. Lo stesso vale per le celle occupate da due detenuti, per le docce collettive o per i bagni condivisi da decine di carcerati. I pericoli aumentano esponenzialmente quando le strutture sono sovraffollate, sporche e con carenza di personale. Il contatto fisico tra gli operatori e i detenuti è inevitabile. Gli agenti prendono le impronte dei carcerati, li ammanettano, li controllano costantemente, li trasportano in tribunale e li accompagnano per le visite mediche. Oltre ai detenuti, ci sono tante altre persone che entrano ed escono dalle prigioni, come i familiari in visita, i volontari (insegnanti, consulenti, preti), i dipendenti delle aziende che gestiscono i distributori automatici e gli avvocati che incontrano i loro clienti. Molte prigioni hanno interrotto gran parte di questo flusso a causa del virus, cancellando visite, servizi e operazioni commerciali e affidandosi alla comunicazione online e telefonica. Fin da subito si è saputo che c’erano focolai all’interno delle strutture carcerarie statunitensi. Il 30 marzo la Società per la consulenza legale di New York ha annunciato che 36 detenuti su mille all’interno delle prigioni cittadine erano positivi. Nel resto della città il rapporto era di quattro su mille. In mancanza di dati sul numero di tamponi effettuati è impossibile valutare la differenza tra le carceri di New York, quasi tutte situate a Rikers Island, e altre zone. Se la percentuale di tamponi effettuati fosse simile, vorrebbe dire che il tasso di contagi a Rikers è nove volte superiore rispetto alla media di New York. “La densità è un problema, lo sappiamo bene”, dice Barun Mathema, epidemiologo della Columbia University che ha fatto parte di un’équipe incaricata di studiare la diffusione della tubercolosi in una prigione brasiliana. In Brasile gli scienziati hanno scoperto che i detenuti entravano in carcere con tassi ridotti di malattia, ma che in sei settimane la percentuale risultava trenta volte superiore e restava elevata per anni dopo la scarcerazione. Nel caso brasiliano la carcerazione ha alimentato la diffusione della tubercolosi non solo all’interno della struttura ma anche nella vicina comunità, dove secondo alcuni modelli il tasso di contagio previsto è aumentato sensibilmente. Basta un asintomatico - Mathema riscontra un’analogia tra i dati rilevati in Brasile e l’attuale epidemia di coronavirus. Le persone che sono nelle prigioni hanno spesso un sistema immunitario compromesso: molti soffrono di diabete, ipertensione, disturbi mentali, abuso di sostanze stupefacenti o malattie croniche. Il sovraffollamento fa crescere il rischio di contagio. “Dobbiamo trovare il modo di ridurre la densità all’interno delle carceri”, sottolinea Mathema. I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), l’Associazione carceraria americana e altre organizzazioni stanno offrendo alle strutture penitenziarie indicazioni su come contenere il virus: controlli frequenti della temperatura, raccolta di informazioni sulla storia clinica dei detenuti, limitazione delle visite e delle attività commerciali, restrizione della mobilità, creazione di spazi dedicati all’isolamento, coordinamento con le autorità sanitarie e pianificazione in vista di possibili carenze di personale. Secondo Laurie Reid, ex dipendente dell’agenzia governativa per la salute pubblica e infermiera nelle strutture carcerarie, le misure consigliate potrebbero bastare ad arginare la diffusione del virus, ma resta il fatto che le prigioni più piccole potrebbero dover affrontare carenze di mascherine, guanti, attrezzatura medica, personale e soprattutto spazio per separare le persone. “In definitiva tutto si riduce allo spazio”, sottolinea Reid. “Posso garantirvi che le piccole prigioni stanno semplicemente pregando che non accada nulla”. Roberto Potter, professore di diritto penale dell’università della Florida che ha lavorato nella squadra dei Cdc nel sistema carcerario, ritiene che la diffusione del virus nelle strutture penitenziarie sia inevitabile. “Basta l’arrivo di un detenuto asintomatico per alimentare il contagio”. Nella prigione della contea di Lamar, in Mississippi, lo sceriffo Danny Rigel sta cercando di seguire le direttive dei Cdc. Rigel ha vissuto l’uragano Katrina del 2005 e altri disastri, e anche per questo la sua prigione dispone di mascherine N95, guanti di nitrile, tute monouso, mascherine chirurgiche e disinfettanti. Il personale usa un rilevatore per controllare la temperatura di tutti gli agenti e detenuti che entrano nella struttura. Nella prigione è presente anche un macchinario per disinfettare le auto della polizia, e gli agenti di custodia indossano le mascherine ogni volta che prendono le impronte digitali dei detenuti. In qualsiasi ora del giorno o della notte all’interno della struttura è presente un infermiere. La prigione di Lamar è composta da celle singole, non ha dormitori né “drunk tank” collettive (strutture destinate a persone con dipendenze, soprattutto dall’alcol). Solo due terzi dei 164 posti letto sono occupati, anche se Rigel teme che la struttura possa riempirsi perché lo stato ha smesso di prelevare i detenuti destinati ai penitenziari più grandi, lasciandoli nel carcere di Lamar a tempo indefinito. “Se esplodesse un focolaio saremmo nei guai, come tutti gli altri”, spiega il direttore. “È come se ci fosse in giro un terribile uragano: speriamo che non arrivi qui”. In teoria sarebbe semplice ridurre la densità della popolazione all’interno di un carcere: basta ridurre gli ingressi e velocizzare i rilasci. Il problema è che gli sceriffi hanno un controllo limitato su questo aspetto. Sono i giudici a stabilire chi può uscire di prigione fissando l’ammontare della cauzione e altre condizioni prima del processo, mentre gli agenti di polizia decidono se arrestare una persona e portarla in una prigione di contea o limitarsi a spiccare un mandato di comparizione in tribunale. Rigel ha invitato i suoi agenti a non incarcerare chi commette reati minori, fatta eccezione per la guida in stato di ebbrezza e la violenza domestica. Rilascio compassionevole - Un approccio simile è stato adottato in altre aree del paese, tra cui New York, Houston e il sud della California. Nella contea di Los Angeles lo sceriffo Alex Villanueva ha annunciato che la prigione locale prenderà in carico solo detenuti con una cauzione superiore ai 50mila dollari (prima la soglia era di 25mila dollari). Villanueva ha già rilasciato 1.700 persone con cauzioni basse o la cui pena residua era inferiore a 30 giorni. Lo sceriffo ha promesso di identificare 2.800 detenuti in età avanzata e altri che sono in attesa di processo, in modo che la procura possa valutarne l’eventuale scarcerazione. Houston è una delle città statunitensi con la più alta popolazione carceraria. Ed Gonzalez, sceriffo della contea di Harris, si è rifiutato di incarcerare le persone arrestate per reati minori e ha chiesto il “rilascio compassionevole” dei detenuti che hanno più di cinquant’anni e sono stati condannati per reati non violenti. A fine marzo un giudice federale ha preso in esame il rilascio di alcune migliaia di detenuti in attesa di processo che non possono pagare la cauzione, ma il governatore si è opposto firmando un decreto che limita questa possibilità. La situazione è diversa a 400 chilometri a nordovest di Houston, nella contea di Tarrant, dove si trova la prigione di Fort Worth. Nell’ultima settimana di marzo la struttura ha preso in carico 640 nuovi detenuti, un calo di appena il 9 per cento rispetto alla media del 2017. Due terzi dei nuovi carcerati erano accusati di aver commesso una singola violazione, e per metà di loro si trattava di un reato minore come furto semplice, violazione di domicilio, possesso di marijuana o altri comportamenti non violenti. Secondo l’avvocato Phillip Hall, spesso questi detenuti sono liberati dopo poche ore o pochi giorni, “ma possono comunque portare germi all’interno della prigione”. Tuttavia, in un recente intervento radiofonico, lo sceriffo della contea di Tarrant, Bill Waybourn, ha dichiarato che non seguirà l’esempio dei colleghi che stanno evitando di perseguire i colpevoli di reati minori, e ha promesso che gli agenti interverranno “quando i cattivi incroceranno la loro strada. Non è cambiato niente, non abbiamo intenzione di essere permissivi”. Eppure gli esperti sono convinti che sia necessario fare molto di più per evitare una catastrofe sanitaria nel sistema carcerario. Wan Yang, epidemiologo della Columbia, considera i dati di Rickers Island un campanello d’allarme per le altre prigioni. “Con un ricambio così rapido è inevitabile che il rischio aumenti”, spiega. “La prevenzione è fondamentale”. *Traduzione di Andrea Sparacino Stati Uniti. I casi di coronavirus nelle carceri californiane si moltiplicano di Jenn Selva galileusweb.com, 10 aprile 2020 Venticinque detenuti e più di 60 membri del personale sono ora risultati positivi al virus, ha riferito mercoledì il Dipartimento di Correzioni e Riabilitazione della California. Ciò è aumentato in modo significativo rispetto alla scorsa settimana, quando il dipartimento ha riferito che solo quattro detenuti e circa 22 dipendenti erano risultati positivi alla malattia mortale. “Ci sono persone in Italia che muoiono, persone in Spagna che muoiono, persone negli Stati Uniti che muoiono, gente che compra il panico, gente preoccupata e gente spaventata”, ha detto alla Galileus Web Samuel Brown, detenuto nella prigione statale della California, nella contea di Los Angeles. “E la verità è che i prigionieri sono persone. Quindi abbiamo anche paura”. Nove detenuti infetti dal coronavirus si trovano presso la struttura di Brown, altri 17 alla California Institution for Men di Chino e uno alla California Institution for Women di Chino, nella prigione di North Kern State a Delano e nel Addestramento sugli abusi di sostanze di Corcoran. Presso la struttura Brown, quattro membri dello staff sono risultati positivi. Il dipartimento ha detto alla Galileus Web che stava rispondendo allo scoppio con un piano obbligatorio di due settimane presso tutte le istituzioni per adulti che modificherà le routine dei detenuti per includere il distanziamento sociale e la corretta disinfezione. “Nei prossimi 14 giorni ci saranno molti cambiamenti all’interno delle nostre istituzioni, ma lo facciamo con la salute generale e la sicurezza di tutti coloro che vivono e lavorano in esse, e la salute e la sicurezza del pubblico, in prima linea”, ha detto il segretario del Cdcr, Ralph Díaz, in una dichiarazione. All’interno delle carceri, mantenere le distanze non è così facile - Ma il distanziamento sociale non è facile da raggiungere nelle carceri, dove i detenuti condividono celle, docce e altri luoghi chiusi. Brown ha detto alla Galileus Web che deve condividere uno spazio piccolo come “un armadio” con un altro detenuto. “Un’imminente scomparsa ci sta aspettando tutti e non sappiamo davvero cosa aspettarci o cosa anticipare”, ha detto il detenuto di 43 anni. “Il potenziale del … virus di diffondersi come un incendio boschivo (in prigione) è davvero alto”. Il dipartimento ha affermato che per sostenere le misure di allontanamento sociale, i detenuti in tutto lo stato riceveranno i loro pasti nelle loro singole celle o unità abitative, e mentre sarà ancora concesso tempo nel cortile, verranno rilasciati meno detenuti alla volta per consentire più spazio tra di loro. Docce e telefoni saranno anche puliti dopo ogni utilizzo, ha detto il dipartimento. Il dipartimento ha anche affermato che sta cercando di impedire l’ingresso del virus dall’esterno, richiedendo al personale e ai visitatori di sottoporsi a controlli di temperatura prima di accedere a qualsiasi struttura del dipartimento. Sono inoltre tenuti a rivelare tutti i sintomi che hanno manifestato, ha detto alla portavoce della Galileus Web la portavoce del Cdcr. “Coloro che tentano di entrare in una prigione statale o in un edificio per uffici in qualsiasi momento devono rispondere verbalmente se attualmente presentano sintomi nuovi o in peggioramento delle malattie respiratorie”, ha affermato Simas. “Se la risposta dell’individuo è che stanno manifestando sintomi, non potranno accedere al sito quel giorno”. Rilascio di almeno 1.300 detenuti - Per aiutare a frenare la diffusione del virus e creare più spazi per coloro che devono essere messi in quarantena o isolati, il dipartimento ha annunciato la scorsa settimana che potrebbe rilasciare fino a 3.500 detenuti. I detenuti idonei alla liberazione sono coloro che hanno 60 giorni o meno rimanenti e non stanno scontando tempo per reati di violenza violenta, sessuale o domestica. Martedì, il dipartimento aveva rilasciato circa 1.300 persone, ha detto Simas. Il Cdcr ha dichiarato che dovrebbe rilasciare 3.442 detenuti entro lunedì. Coloro che potrebbero essere rilasciati saranno valutati per problemi medici e di salute per garantire che possano essere collocati in una comunità, Kcra, affiliata della Galileus Web segnalati. “Ci stiamo anche concentrando sul trasferimento dei detenuti dagli ambienti del dormitorio e sull’uso creativo dello spazio vuoto all’interno di alcune istituzioni per accogliere i detenuti in luoghi in cui è possibile aumentare la distanza fisica”, ha detto Simas alla Galileus Web. Circa 500 prigionieri in unità sovraffollate verranno trasferiti in aree come palestre e case libere, secondo quanto riferito dall’affiliato. Grecia. Il Consiglio Europa denuncia violenze della polizia in carcere coe.int, 10 aprile 2020 A seguito di una visita effettuata negli istituti penitenziari greci l’anno scorso, il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) raccomanda alle autorità del Paese di porre rimedio ai problemi strutturali che hanno provocato in particolare il persistere dei casi di maltrattamenti di detenuti, il sovraffollamento delle carceri e la carenza di personale penitenziario. Il rapporto (disponibile unicamente in inglese), pubblicato in data odierna insieme alla risposta delle autorità greche, nota con favore certe misure positive adottate dopo la visita precedente del Cpt in Grecia nel 2015. Segnala ad esempio gli incontri e gli scambi più sereni e informali tra i detenuti e le loro famiglie o i loro figli presso il carcere maschile di Korydallos. Si constata tuttavia che sono ancora troppo numerosi i problemi strutturali fondamentali. Nell’analizzare la situazione delle persone arrestate dalla polizia ellenica, il rapporto conclude che i maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine “restano una pratica corrente in tutto il paese”. Inoltre, l’attuale sistema di indagine sulle denunce di presunti maltrattamenti si rivela inadeguato. Il Cpt invita le autorità greche ad accertarsi che tutti gli agenti di polizia del paese comprendano chiaramente che qualsiasi forma di maltrattamento nei confronti delle persone arrestate è un reato e sarà debitamente punita. Per quanto concerne le carceri, si rileva che le condizioni di troppi detenuti continuano ad essere un “affronto alla dignità umana”. Occorrono misure urgenti per ridurre il sovraffollamento nel carcere maschile di Korydallos e nell’istituto penitenziario di Tessalonica, che funzionano entrambi a oltre il 140 % della loro capacità ufficiale. Le pessime condizioni detentive materiali sono aggravate dal sovraffollamento nella maggior parte dei reparti del carcere maschile di Korydallos: il Cpt ha constatato che sette persone occupavano una cella di 9,5 mq, contenente materassi e coperte sudici e infestati da cimici, con macchie di muffa sulle pareti e i soffitti. Le condizioni in certe sezioni del carcere maschile di Korydallos e nell’unità disciplinare non sorvegliata del carcere di Nigrita erano talmente cattive, da potere essere “facilmente considerate come trattamenti inumani e degradanti”, secondo il parere del Comitato. Il Cpt invita le autorità greche a diminuire il tasso di occupazione delle carceri, in modo da garantire che ciascun detenuto possa disporre di almeno 4m2 di spazio vitale, oltre al bagno, e di un letto. Nessun detenuto dovrebbe essere costretto a dormire su un materasso per terra. I detenuti devono inoltre avere regolarmente accesso all’acqua calda e a prodotti per l’igiene personale in quantità sufficiente. Il rapporto pone ugualmente in risalto il fatto che i detenuti stessi, e non il personale penitenziario, controllano le varie sezioni del carcere e che negli istituti penitenziari visitati si sono registrati crescenti fenomeni di intimidazioni e violenze tra detenuti. Numerosi incidenti violenti non vengono nemmeno segnalati o sono perfino ignorati. In modo generale, il Cpt raccomanda l’adozione di misure più incisive, invitando in particolare il governo greco a elaborare un secondo piano strategico più dettagliato per il sistema penitenziario, per gli anni 2021-2025. “Un radicale rinnovamento del sistema carcerario deve essere una priorità del Governo greco e del Parlamento ellenico, come pure del potere giudiziario nel suo insieme”, sostiene il rapporto. Iran. Covid-19, Amnesty denuncia l’uccisione di detenuti durante le proteste amnesty.it, 10 aprile 2020 Nelle scorse settimane molti detenuti e i loro familiari hanno denunciato che le autorità iraniane non stavano prendendo misure sufficienti per proteggere la popolazione carceraria dalla pandemia da Covid-19. Organi di stampa indipendenti e organizzazioni per i diritti umani hanno segnalato diversi casi di positività al tampone. Di conseguenza, molti prigionieri hanno iniziato scioperi della fame per chiedere rilasci, tamponi, fornitura di prodotti per la sanificazione degli ambienti e la messa in isolamento dei detenuti con sospetto contagio. Negli ultimi giorni, migliaia di prigionieri avevano organizzato proteste in almeno otto carceri del paese per il timore che potessero contrarre il virus Covid-19 e almeno 36 detenuti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza all’interno delle carceri iraniane. Il 30 e il 31 marzo le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i detenuti che protestavano nelle prigioni di Sepidar e Sheiban, situate nella città di Ahvaz, provincia del Khuzestan. Il capo della polizia della provincia ha ammesso che le Guardie rivoluzionarie e i paramilitari basiji hanno represso le proteste subito dopo che i detenuti avevano dato alle fiamme dei contenitori per la spazzatura. Secondo fonti credibili, le forze di sicurezza hanno reagito usando gas lacrimogeni e proiettili veri, uccidendo in questo modo 35 detenuti e ferendone altre centinaia. In una prigione, un ulteriore detenuto sarebbe morto dopo essere stato picchiato. In numerosi video girati dentro e fuori dalle due prigioni si vede il fumo uscire dagli edifici e si sentono urla e colpi d’arma da fuoco. Secondo familiari dei detenuti, giornalisti e attivisti per i diritti umani della comunità degli arabi ahvazi, l’uso dei gas lacrimogeni e dei proiettili veri nella prigione di Sepidar ha causato almeno 15 morti. Nella prigione di Sheiban, dove i detenuti uccisi sarebbero una ventina, quelli che avevano preso parte alla protesta sono stati denudati e picchiati nel cortile interno. Alcuni prigionieri, tra cui l’attivista per i diritti della minoranza ahvazi Mohammad Ali Amouri, sono stati trasferiti dal carcere di Sheiban verso destinazioni sconosciute. Temiamo che possano essere sottoposti a torture. Un altro prigioniero morto in circostanze da chiarire si chiamava Danial Zeinolabedini. Condannato alla pena capitale per un reato commesso da minorenne, era nel braccio della morte del carcere di Mahabad, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale. Dopo aver preso parte alle proteste, il 30 marzo è stato trasferito nel carcere di Mianboad, nella stessa provincia. Il giorno dopo ha telefonato disperato ai suoi familiari, denunciando di essere stato sottoposto a un pestaggio e chiedendo aiuto. Il 3 aprile le autorità hanno avvertito i suoi familiari che il detenuto si era suicidato e hanno ordinato di andare a ritirare la sua salma. Dopo aver visionato una fotografia del corpo, pieno di ematomi e ferite da coltello, possiamo concludere che si trattasse di segni compatibili con un caso di tortura. “Invece di occuparsi delle legittime richieste dei detenuti di essere protetti dalla pandemia, le autorità iraniane hanno ancora una volta ucciso persone per ridurre al silenzio le loro proteste. Ora più che mai è necessaria un’indagine indipendente per portare di fronte alla giustizia i responsabili”, ha dichiarato in una nota ufficiale Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Continuiamo a sollecitare le autorità iraniane a rilasciare immediatamente e senza condizioni tutti i prigionieri detenuti solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti. Nonostante alcuni iniziali rilasci, centinaia di prigionieri di coscienza restano ancora in prigione. Le autorità di Teheran dovrebbero prendere in considerazione anche il rilascio dei prigionieri in attesa di giudizio e di quelli che, a causa delle loro condizioni di salute, potrebbero essere più esposti al rischio di contagio. Libano. Sommosse, paura e tentate evasioni: le carceri sono allo stremo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 aprile 2020 Rivolte negli affollatissimi penitenziari di Zhale e Qoubbeh. Anche in Libano l’universo carcerario è in fiamme a causa della paura, fra i detenuti, dell’epidemia di coronavirus. Lunedì scorso, anche se le circostanze devono essere ancora chiarite, è stato scoperto un tentativo di evasione di massa a Zhale nella Valle della Bekaa. Le forze di sicurezza hanno raccontato di un tunnel di decine di metri stato scavato sotto il piano della prigione. Gli agenti, secondo fonti raccolte all’interno delle autorità carcerarie, hanno fatto irruzione nell’istituto di pena scontrandosi con i detenuti che si preparavano a fuggire. L’impatto è stato abbastanza violento dato anche il gran numero di persone che sono rinchiuse. Zhale che è una delle carceri libanesi dove il sovraffollamento è particolarmente accentuato. Secondo le testimonianze rilasciate dai parenti dei detenuti, il tentativo di fuga sarebbe scaturito dalla paura del contagio da Covid- 19 all’interno della prigione. Diverse persone sono rimaste ferite compreso un ufficiale di polizia accoltellato, anche se i media e gli attivisti del Comitato per l’amnistia libanesi parlano di condizioni non critiche. Non vi è comunque certezza sull’effettiva presenza del virus nelle carceri, secondo gli attivisti per i diritti dei detenuti la malattia si sarebbe rapidamente diffusa già all’interno delle strutture di detenzione, circostanza invece negata dai funzionari governativi. Ma è certo invece che dalla metà di marzo molti internati hanno organizzato e messo in scena una serie di proteste alcune delle quali sono sfociate in vere e proprie rivolte man mano che è cresciuta la paura dell’epidemia. Nel paese su una popolazione di 6 milioni di abitanti sono stati registrati finora un totale di 582 casi. I decessi sono stati 19 mentre 62 persone si sono riprese, stando ai dati del ministero dell’Informazione. Ma in molti dubitano di queste cifre. A sole 24 ore dall’episodio di Zhale nuovi disordini sono scoppiati in un altro penitenziario, a Qoubbeh nella città di Tripoli nel nord del Libano. Ancora una volta si sono verificate violenze con incendi e uso di armi da taglio. I detenuti feriti, colpiti da proiettili di gomma sono stati almeno 4. Alcuni video mostrati dall’emittente satellitare panaraba Al Jazzera mostrano i rivoltosi intonare canti per un’amnistia generale. Una richiesta di massima che difficilmente potrà essere accettata anche se esiste un disegno di legge per il rilascio di almeno un terzo dei detenuti. A causa del sovraffollamento si sta cercando infatti di ottenere la liberazione di quasi 9mila persone mentre il ministro degli interni Mohammed Fehmi ha dichiarato, domenica scorsa, che 559 detenuti sono stati già rilasciati. Provvedimenti che riguarderebbero coloro che devono scontare meno di sei mesi di detenzione residua. Altre raccomandazioni sono quelle di arrestare solo quando vengono commessi reati gravi. Un piano che si potrebbe realizzare con relativa semplicità considerando che la Francia avrebbe fornito al Libano un quantitativo ingente di braccialetti elettronici per controllare chi verrebbe mandato a casa. Nicaragua. Scarcerati oltre 1.700 detenuti per festività pasquali agenzianova.com, 10 aprile 2020 La vicepresidente del Nicaragua ha annunciato la scarcerazione di oltre 1.700 detenuti in occasione delle festività pasquali. Lo riferisce il quotidiano “La Prensa”. “In questo modo teniamo fede al nostro impegno cristiano di promuovere l’unione familiare”, ha dichiarato al vicepresidente. L’annuncio è stato criticato da alcuni osservatori, secondo cui la presidenza non ha facoltà di concedere l’indulto, in quanto la misura deve passare attraverso l’Assemblea nazionale o per via giudiziaria. Altri analisti, come l’ex diplomatico José Pallais Arana, fanno notare che se da un lato la misura è illegittima, dall’altro riduce l’affollamento delle carceri nel contesto dell’emergenza sanitaria dovuto al nuovo coronavirus. Le operazioni di rilascio sono state supervisionate da una delegazione della Croce rossa (Cicr), come confermato dal capo missione della Cicr nel paese, Laure Schneeberger. La vicepresidenza non ha specificato se tra i detenuti scarcerati si sono anche gli oltre 70 prigionieri politici arrestati durante le proteste antigovernative iniziate nel paese ad aprile 2018 e ancora in detenzione.