Csm, toghe divise sulla riforma Bonafede Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2020 Area: “Sorteggio delle Commissioni svilente”. Anm: “Apprezzamento, ma rischi incostituzionalità”. Dopo l’approvazione della legge delega in Consiglio dei ministri, arrivano le reazioni del mondo della giustizia italiano. Secondo i magistrati progressisti ci sono “norme positive”, ma viene definito “ipocrita” il nuovo divieto di costituire gruppi a Palazzo dei Marescialli. Caiazza: “Riforma gattopardesca”. Salvini: “Non cambierà nulla”. “Ricostruiamo la credibilità della giustizia”. È un obiettivo ambizioso quello annunciato dal guardasigilli Alfonso Bonafede nel presentare la riforma del Consiglio superiore della magistratura approvata venerdì notte dal Consiglio dei ministri. Una legge delega dalla gestazione lunga e travagliata, iniziata subito dopo lo scandalo delle nomine esploso a maggio dell’anno scorso con l’inchiesta di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. E che ora dovrà scontrarsi con le resistenze di un mondo giudiziario in subbuglio. Il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza parla già di “riforma gattopardesca che sembra voler riformare tutto ma non riformerà nulla”. Più positivo il giudizio di Area, la corrente di sinistra delle toghe, anche se viene definito “ipocrita” il nuovo divieto di costituire gruppi a Palazzo dei Marescialli. L’Associazione nazionale magistrati esprime “apprezzamento” per il complessivo impianto della riforma, ma denuncia l’incostituzionalità del meccanismo di sorteggio (anche se residuale nell’elezione dei consiglieri). Alfonso Sabella, invece, che non appartiene ad alcuno schieramento, dice: “Le correnti faranno ancora accordi, serve una presa di coscienza etica”. Cosa prevede la riforma “spazzacorrenti” - Come già trapelato prima del Cdm, i punti cardine della riforma prevedono l’introduzione di sistema maggioritario a doppio turno in 19 collegi per l’elezione dei consiglieri togati del Csm (aumentati a 20, più 10 laici), stop a chi proviene da incarichi di governo, regole rigide per le nomine per arginare il potere delle correnti, quote rosa e sorteggio per la composizione delle Commissioni. Poi vengono introdotti nuovi criteri in ottica di merito e trasparenza per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi e c’è una riorganizzazione delle procure al fine di ridurre la gerarchizzazione al loro interno. Chiuse definitivamente le cosiddette porte girevoli tra toghe e politica: un magistrato che abbia ricoperto un incarico al parlamento italiano o europeo, o in una Regione per almeno sei mesi, o che abbia avuto incarichi di governo o in Comuni con oltre 100mila abitanti non indosserà più la toga e potrà essere ricollocato come funzionario al ministero della Giustizia o in altri ministeri. Introdotto un argine anche ai cambi di funzione delle toghe: il passaggio da pm a giudice e viceversa potrà avvenire al massimo due volte e non più quattro. Riforma Csm, Bonafede: “Scritta norma di cui si parla da anni: il magistrato eletto in politica non potrà più rientrare in magistratura a vita” Area: “Sorteggio mortificante”. Ma Sabella: “È l’unica soluzione” - Nel mondo della giustizia, a esporsi per prima sulle novità della riforma è la corrente di Area. “Molte modifiche incontrano le richieste della magistratura”, si legge in un comunicato, “come la nomina dei direttivi; l’organizzazione della Procura; la semplificazione della valutazione di professionalità” e le nuove regole sulla carriera politica delle toghe. Positivo anche il giudizio sui provvedimenti che riguardano il Csm, ma il timore dei magistrati progressisti è che “la norma che vieta la costituzione di gruppi” rischi di “ostacolare il funzionamento dell’organismo e di risolversi in una ipocrisia”. Poi c’è il nodo del sorteggio dei membri delle Commissioni, finora in mano all’ufficio di Presidenza e decisivo per decidere il destino di tutti i magistrati d’Italia. Sceglierne a caso i membri, scrive Area, “rischia di mortificare le differenti competenze dei componenti del Consiglio”. Tema caro anche all’Anm, secondo cui il nuovo meccanismo rappresenta “una risposta demagogica a problemi di complessa natura, anche tecnica”. Il sindacato chiede poi di non sovrapporre la lotta alla “degenerazione correntizia” con la negazione del “necessario e vitale pluralismo culturale” di chi lavora a Palazzo dei Marescialli. Di conseguenza, aggiungono, va stigmatizzata “ogni eventuale strumentalizzazione mediatica e politica sul punto, tesa a utilizzare la riforma in senso punitivo ai danni dell’associazionismo giudiziario e dei magistrati tutti”. Molto più duro il giudizio di Caiazza, secondo cui nella riforma “mancano interventi decisivi, come sull’automatismo di carriera dei magistrati, caso di distorsione italiano unico al mondo”. A suo parere, poi, sono “devastanti” i provvedimenti che riguardano il Csm, perché consegneranno “la giustizia in mano alle procure”. Poi c’è la posizione dell’outsider Sabella, oggi giudice del Tribunale del Riesame di Napoli, secondo cui il disegno di legge di Bonafede non si spinge abbastanza avanti. “L’unica soluzione è il sorteggio puro, altrimenti non sarà possibile scardinare il sistema delle correnti. Anzi, molto probabilmente, a lume di naso, ora si creeranno ancora molti più accordi”. “Mi dispiace dirlo”, aggiunge, ma “non vedo una presa di coscienza etica all’interno della magistratura. Conseguentemente penso che qualunque tipo di legge elettorale venga adottata in questo momento per il Csm, che non sia il sorteggio puro, non porterà che a un meccanismo per cui le correnti riusciranno poi a trovare accordi per determinare loro le scelte”. Da qui la necessità di un “passo indietro da parte dei vertici della magistratura associata, che ritengo doveroso”. Anche la politica si divide - Reazioni alla riforma arrivano anche dalla politica. Il presidente della commissione Giustizia alla Camera, il pentastellato Mario Perantoni, parla di un “atto importante, perché getta le basi per rifondare il sistema di governo della magistratura. Il ministro Bonafede ha portato avanti una mediazione non facile con la maggioranza riuscendo a fare sintesi tra posizioni diverse”. Secondo il leader della Lega Matteo Salvini, invece, ex alleato di governo del ministro, con Bonafede “non si riformerà un bel niente. La separazione delle carriere e i processi veloci, oltre alla certezza della pena, li faremo noi quando torneremo al governo”. L’Anm con Bonafede: riforma “apprezzabile” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 agosto 2020 Sostanziale via libera al nuovo Csm, ma critiche sul sorteggio e sugli eccessi anti correnti. Anche Area positiva, Magistratura democratica invece è molto dura: “Non si stroncano i vizi del correntismo né le intese di potere”. “Esprimiamo apprezzamento per il complessivo impianto e per molti degli interventi di riforma”. È un sostanziale via libera quello che arriva dall’Associazione nazionale magistrati al disegno di legge sull’ordinamento giudiziario e il Csm approvato nella serata di venerdì dal Consiglio dei ministri. Anche se non mancano aspetti critici, soprattutto sul sistema elettorale, dove “c’è il rischio di produrre esiti opposti a quelli che si dichiarano”: l’obiettivo del governo è quello di fare spazio ai candidati indipendenti dalle correnti. Resta la contrarietà al sorteggio “applicato anche in via residuale al sistema elettorale del Csm e alle dinamiche che ne regolano il funzionamento interno”. Al caso è infatti affidata la selezione di 5 su 6 componenti della commissione disciplinare e di tutti quelli della commissione incarichi direttivi (non quindi sorteggio per tutte le commissioni, come ha detto venerdì il ministro Bonafede in conferenza stampa). Per l’Anm il sorteggio “è in contrasto con i principi costituzionali” e “rappresenta una risposta demagogica a problemi complessi”. Infine per la magistratura associata, piegata dallo scandalo del “caso Palamara”, va bene contrastare “la degenerazione correntizia”, ma senza arrivare a “negare il necessario e vitale pluralismo culturale”. Secca invece la bocciatura che arriva dagli avvocati penalisti. “La riforma del sistema elettorale del Csm potrebbe fare in modo che siano eletti principalmente pm, come accade per l’Anm”, prevede il presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza. Con fatica, l’Associazione nazionale magistrati riesce dopo una giornata di confronto tra le tre correnti rimaste a reggere la giunta esecutiva - la sinistra di Area, i centristi di Unicost e i davighiani di Autonomia e indipendenza - a produrre una nota di commento alla riforma. Non solo per la necessità di studiare un testo che non era conosciuto negli ultimi dettagli, ma anche perché la campagna elettorale per il rinnovo del parlamentino delle toghe è già cominciata (si voterà ad ottobre) e non è semplice limare un documento comune. In precedenza era arrivato il commento di Area, che muove anche lei dai “molti aspetti che incontrano le richieste della magistratura”, come “l’organizzazione della procura, l’accesso alle funzioni di legittimità, l’attribuzione alla scuola superiore della formazione per il concorso, la partecipazione alle elezioni politiche ed amministrative ed il successivo ricollocamento dei magistrati”. Sul Csm Area giudica positive “l’incompatibilità tra alcune commissioni e la sezione disciplinare, l’apertura dei ruoli tecnici al mondo universitario”. Invece “desta perplessità la norma che vieta la costituzione di gruppi nel Csm perché rischia di ostacolare il funzionamento dell’organismo e di risolversi in un’ipocrisia”. Sbagliata anche “la composizione delle commissioni per estrazione” e restano le critiche “sull’effettiva garanzia circa la rappresentanza di genere” e sul sorteggio che “svilisce la competizione elettorale”. Non solleva troppi dubbi il muro che è stato alzato tra il mandato politico e il ritorno in magistratura. “Chi viene eletto non potrà tornare in magistratura a vita”, ha detto il ministro. In realtà - per evitare una sicura incostituzionalità - la toga che esce dal parlamento sarà collocata in un ruolo speciale presso il ministero. Il segretario di Area Eugenio Albamonte non lo giudica un eccesso. Il parlamento, spiega, “è lontano dal modello costituzionale - quello disegnato da Aldo Moro quando diceva che i magistrati dovevano potersi candidare perché come parlamentari senza vincolo di mandato restavano autonomi e indipendenti dai partiti. Oggi è difficile per un magistrato che vi ha fatto parte rientrare in magistratura mantenendo un profilo di indipendenza”. Albamonte “apprezza” quindi che dopo il mandato non si torni nell’immediatezza a funzioni giurisdizionali attive, ma “resta da discutere se sia meglio prevedere un purgatorio, un periodo di sospensione, o l’inferno del divieto a vita. Anche perché per gli incarichi importanti al ministero vige lo spoil system, di conseguenza chi non è in linea con il ministro di turno sarà tenuto in parcheggio”. Di segno nettamente opposto e molto critica la nota di Magistratura democratica, a riprova delle distanze che si allargano dentro Area, macro corrente alla quale Md aderisce. Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, segretaria e presidente di Md, giudicano la riforma “un coacervo di disposizioni eterogenee e affastellate, nelle quali è persino difficile scorgere una filosofia di fondo, una visione alternativa a quelle che sono state le cause della crisi”. La riforma, spiegano, non combatte “la trasformazione verticale della magistratura e il carrierismo, plasmati da una concezione impiegatizia del lavoro, virus che hanno determinato la grave regressione svelata dall’indagine di Perugia”. Secondo Md, impedendo la costituzione dei gruppi nel Csm “non si stroncano i vizi del correntismo” né “si eviteranno i rischi di convergenze non dichiarate che muovono da interessi di potere e che hanno condotto alla frana del sistema”. Ermini: boccio la riforma Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 9 agosto 2020 Il presidente del Consiglio superiore: “La Costituzione non dà all’istituzione il ruolo di mera gestione amministrativa. I sorteggi? Sistema inaccettabile”. Il futuro del Csm? “La sua discrezionalità viene ridotta”. Rischia di “diventare un organo burocratico, e la Costituzione gli dà tutt’altro rango”. Il sorteggio? “Un sistema inaccettabile”. Perfino per le commissioni del Csm? “Quella poi è proprio una forzatura”. Il vice presidente del Csm David Ermini legge la riforma del Csm del Guardasigilli Alfonso Bonafede e con Repubblica fa il suo primo bilancio. Il governo risponde al caso Palamara, anche se il Guardasigilli Bonafede dice di no, con la riforma del Csm. A un anno dallo scandalo. E ci vorrà almeno un altro anno, se va bene, per l’esito parlamentare. Tutt’altro che un intervento tempestivo non le pare? “Il Csm ha sicuramente bisogno di una riforma, perché quella del 2006 firmata dall’ex ministro Mastella e che nasceva dal lavoro del predecessore leghista Castelli, è stata mal gestita. Quella di Bonafede non è tanto una riforma contro il caso Palamara, che sarà affrontato nelle sedi competenti, quanto un intervento su un sistema che si era via via degenerato. Quindi, da questo punto di vista, ben venga la riforma, anche se nel merito bisogna guardarsi dal rischio di trasformare l’attuale Csm in un organo burocratico e di mera gestione amministrativa”. Quando lei parla di “sistema” a cosa si riferisce? “Il carrierismo ha utilizzato e sfruttato il correntismo ed è scoppiata la degenerazione. Io non sono contro le correnti se hanno un valore ideale, ma sono nettamente contrario alla voglia esasperata di carriera a tutti i costi per conquistare un posto”. Partiamo dalla legge elettorale per il Csm. Doppio turno, venti collegi, sorteggio solo se le liste non arrivano a 10 eleggibili. È la riforma epocale che da più parti si chiedeva? “Non mi impicco sulla riforma elettorale, perché ci sono sempre i pro e i contro. Il problema non è come si manda, ma chi si manda al Csm. Il sorteggio tout court avrebbe rappresentato l’irresponsabilità totale facendo saltare il rapporto tra eletto ed elettore. È un sistema inaccettabile, in quanto la Costituzione parla di elezione. Ma prima di una rivoluzione elettorale, ne serve una morale, che è tutt’altra cosa. Bisogna evitare che il potere delle correnti venga sostituto dal potere delle lobby. Il Parlamento di certo saprà trovare una soluzione”. Che intende per “rivoluzione morale”? “L’istituzione deve prevalere sempre sull’interesse personale o del gruppo. Quando si fanno le nomine, deve contare il più adatto per quell’incarico, non quello che appartiene alla corrente più forte. In passato invece alcune nomine sono state fatte per appartenenza, si è fatto l’interesse del gruppo, non quello dell’ufficio”. È una riforma anti-correnti? O inciuci e accordi sotto banco saranno possibili ugualmente? “Bisognerà verificare. Il problema è la scelta degli uomini. Questo conta per evitare gli inciuci. Di certo la discrezionalità del Csm viene ridotta, ma dentro un’assemblea collegiale gli accordi è fisiologico che ci siano. Il problema è che devono puntare ad elevare il livello della scelta, non al ribasso pur di rispondere a interessi di gruppo, perché in questo caso diventano inciuci. Insisto, il Parlamento avrà modo di migliorare la legge anche con il nostro contributo che sarà espresso nel futuro parere”. Parità di genere: era necessario renderla obbligatoria per legge? “È positivo che oltre il 50% dei giudici sia composto da donne. Abbiamo finalmente una donna al vertice della Cassazione. È giusto che la parità ci sia pure al Csm. Oggi non c’è. Se il Parlamento e i giudici non lo fanno da soli, la legge deve obbligarli”. Beh, le Camere non hanno certo brillato in questa consigliatura eleggendo 8 uomini... “È vero, però con questa riforma non potranno più farlo. Il Parlamento dovrà assumere un ruolo determinante, perché se si toccano organi di alta rilevanza costituzionale serve un’amplissima convergenza. Le Camere devono appropriarsi della riforma per renderla completa in modo che rappresenti la continuità rispetto alla volontà dei costituenti. Una riforma a maggioranza sarebbe meno autorevole. Anche perché il Csm è presieduto dal presidente della Repubblica. È vero che c’è stato lo scandalo che riguarda la responsabilità di alcuni, ma il Csm è un architrave nel sistema delle istituzioni democratiche”. Candidature: uomini di governo esclusi, parlamentari no. È costituzionale? “A titolo personale dico che limitare l’ingresso dei parlamentari non mi pareva conforme”. Un Csm sotto schiaffo, che fa solo burocrazia. Addirittura commissioni elette per sorteggio: è un sistema per tagliare le unghie al vice presidente? “Ridurre il Csm a un organismo burocratico sarebbe stravolgere la volontà dei costituenti. Vedo delle criticità e una norma ultronea, perché le commissioni vengono nominate in base a una turnazione anche con il concerto del presidente della Repubblica, e passare da questo al sorteggio svilisce tutto, mi sembra francamente un’inutile forzatura. Il nostro regolamento già prevede che tutti i consiglieri siano almeno per un anno presidenti di una commissione e che ci sia una rotazione ogni anno. E dopo il primo anno il vice presidente è in grado di comprendere bene le caratteristiche dei singoli consiglieri”. Niente correnti delle toghe al Csm, a fronte dei laici la cui provenienza politica è chiara visto che sono indicati dai partiti: costituzionalmente si può impedire il diritto di riconoscersi in gruppi? “Il regolamento già ora non lo prevede. Lo leggo come un tentativo per recidere il cordone tra le correnti dell’Anm e il Csm che effettivamente va reciso. È importante cambiare pagina. Vale anche per i laici che non rappresentano più i gruppi che li hanno nominati ma devono rispondere solo alla Costituzione e al presidente della Repubblica. Io ho lasciato la tessera del Pd prima di entrare al Csm. E da quel momento in avanti ho deciso in totale autonomia e, al di là dei rapporti personali, non ho certo consultato nessuno, a parte Mattarella, prima di prendere decisioni importanti”. La futura legge stabilisce criteri rigidi per la vita delle procure. Vede dei capi depotenziati? “I direttivi vanno aiutati fornendo strutture amministrative adeguate. Il Csm su questo dirà la sua. L’obbligo di verifica ogni tre mesi per i procuratori sui tempi dei processi non è un’ingerenza e una lesione sull’autonomia delle toghe? “È un dato di fatto che non tutti hanno gli stessi tempi di lavoro. Altrettanto lo è il tempo troppo lungo dei processi. Quindi bisognerà contemperare le due esigenze, rispettando però l’autonomia del magistrato”. Il processo disciplinare a Palamara e agli altri dell’hotel Champagne: fine dicembre, se va bene. 18 mesi non sono troppi per dare una risposta? “Il processo è stato fissato nei tempi previsti e si svolgerà con la cadenza che il collegio riterrà utile, evitando forzature in tutti i sensi. Saranno rispettate le garanzie degli incolpati, attraverso un processo giusto che la sezione disciplinare affronterà in modo serio, pacato e competente. Come per tutti gli altri procedimenti disciplinari”. Di Matteo a Bonafede: “Fai solo demagogia, le correnti resteranno” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 9 agosto 2020 Il pm antimafia e membro del Csm contesta il disegno di legge con le nuove regole sulla magistratura. “Vedo più ombre che luci. Si vuole dare all’opinione pubblica l’apparenza di una reazione, senza colpire le vere patologie”. “Complessivamente non mi pare una buona riforma”, dice del disegno di legge Bonafede il pm antimafia e consigliere del Csm Nino Di Matteo. Qual è la sua cifra? “La volontà di una reazione improntata alla velocità, per lo più apparente, e l’intento demagogico di dimostrare all’opinione pubblica di voler porre fine a fenomeni degenerativi nel Csm e in parte della magistratura. Ma senza individuare e intaccare le patologie: correntismo, collateralismo con la politica, carrierismo, burocratizzazione e gerarchizzazione degli uffici di Procura”. Qual è l’ombra più lunga? “Il sistema elettorale del Csm: inadeguato alla soluzione del problema, può aggravarlo”. Non è “spazza-correnti”? “Suggestiva formula mediatica, ma la realtà è tutt’altra. A scapito di minoranze e candidati indipendenti, favorirà le correnti a più forte radicamento territoriale. Il cui potere, che non si esplica solo alle elezioni, non sarà scalfito senza riforma radicali”. Radicali quanto? “Sorteggio per selezionare i candidati da sottoporre alle elezioni del Csm. Mi pare l’unico modo per scardinare in radice il potere delle correnti, senza incorrere nell’incostituzionalità. Aggiungo la rotazione triennale per azzerare la folle corsa agli incarichi direttivi e semi-direttivi, che rischia di trasformare i dirigenti degli uffici in capi, con i nefasti effetti ormai di dominio pubblico”. Che vuol dire fare il capo? “Il capo può ritenersi investito del potere di condizionare le scelte dei suoi sostituti, trasformandoli in oscuri funzionari attenti a non dispiacere i vertici dell’ufficio. Il che confligge col disegno costituzionale di potere diffuso in cui i capi coordinano i magistrati, senza comprimerne autonomia e indipendenza”. Per questo si scatenano guerre sulle Procure? “L’eventuale potere oscuro di un procuratore si misura in quello che fa, non fa e non consente di fare. Per chi teme il controllo di legalità sul potere è più facile controllare 10 procuratori in assetto gerarchico che 200 pm autonomi”. In qualche modo è già così? “La magistratura è cambiata. Nelle sedi disagiate non vuole più andare nessuno. Ricordo quando noi giovani pm ci accapigliavamo per avere i processi più delicati ma anche scomodi. Ora c’è la corsa ad appuntarsi le cosiddette medagliette”. Che cosa sono? “Collaborazioni organizzative, incarichi di supporto informatico, docenze alla scuola della magistratura. Titoli non legati alle indagini e ai processi, ma preziosi per far carriera. Al cui fine le indagini sono un rischio, ti puoi solo bruciare”. Le quote rosa le piacciono? “Le considero un’offesa al valore oggettivo delle donne magistrato. Alcune (6 sui 16 togati) già meritoriamente nel Csm. Tanto più ora che finalmente le donne iniziano a ricoprire importanti incarichi apicali”. Condivide lo stop alle “porte girevoli” tra magistratura e politica? “È una delle luci della riforma. Ne segnalo altre due. La più netta separazione nel Csm tra sezione disciplinare e importanti commissioni (incarichi direttivi e trasferimenti per incompatibilità). E il ritorno al concorso aperto a tutti i laureati, per non penalizzare giovani brillanti ma senza una famiglia benestante alle spalle”. E il divieto per chi va al Csm di concorrere a incarichi direttivi per 4 anni? “Oltre che demagogico e ingiusto, trasuda finalità punitive dei consiglieri che hanno assolto o assolveranno il compito con coraggio, disciplina e onore. Come se entrare al Csm significhi di per sé brigare, trafficare, sporcarsi le mani”. Che effetto avrà? “Disincentivo a candidature di colleghi autorevoli, per non vedersi pregiudicata la carriera. Finiranno per candidarsi al Csm solo magistrati inesperti o a fine carriera”. Parla anche per sé? “Parlo per i magistrati stimati e perbene che intendono candidarsi al Csm non rivendicando vantaggi ma non dovendo nemmeno temere svantaggi”. Separazione delle carriere e azione penale discrezionale non sono nella riforma… “Ne prendo atto favorevolmente. Ma guai a ridimensionare o a mettere sotto tutela il Csm, che deve tornare a essere presidio di indipendenza della magistratura. Anche contro chi - ancora molti, ne sono convinto - vorrebbe renderla un potere collaterale e servente rispetto alla politica”. Il decreto Bonafede “anti scarcerazioni” ha risolto la questione dei boss ai domiciliari? “Constato che molti detenuti, anche pericolosi e legati alle mafie, non sono tornati in carcere. Le conseguenze delle scarcerazioni restano irrisolte. Tanto più per gli effetti simbolici della connessione con rivolte carcerarie senza precedenti, la ferita è ancora aperta e profonda”. È indispensabile separare la carriera dei magistrati di Iuri Maria Prado Libero, 9 agosto 2020 È ben comprensibile che i lettori sbuffino quando si discute di separazione delle carriere dei magistrati: perché se ne parla, se ne parla, se ne parla da anni, da decenni, senza che mai si spieghi bene in che cosa consista la faccenda. Di solito funziona così: da una parte c’è qualcuno cui per accidente è concesso di dire che bisogna separarle, e dall’altra una star della magistratura militante che gli rinfaccia di essere un amico dei corrotti che vuole impedire agli angeli togati di far sognare il popolo perbene sbattendo la gente in galera e facendo pulizia nelle amministrazioni pubbliche, nelle aziende, nelle liste elettorali, tutta roba da rivoltare come un calzino, secondo la terminologia degli anni Novanta, o da smontare come un Lego, secondo quella di marca calabrese oggi di moda. Non è difficile capire come un dibattito di questo livello produca noia quando non repulsione. Eppure la cosa tocca la carne di interessi veri, e cioè l’interesse dei cittadini a una giustizia meglio funzionante e l’interesse della magistratura corporata a lasciare le cose come stanno sul presupposto bugiardo che cambiarle significhi attentare alle solite menate, vale a dire l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Separare le carriere dei magistrati significa semplicemente impedire che i processi siano maneggiati nel sodalizio dei compagni di merende, o per meglio dire di retate: con uno che è messo lì a decidere se dar ragione al presunto colpevole, cioè un mascalzone per forza, o invece al collega togato con cui appunto condivide una carriera di avanzamenti automatici ben protetta da quel consorzio di specchiatezza che è il Consiglio superiore della magistratura. Tutte le chiacchiere di contorno sull’efficienza giustiziera e sulle capacità dei pubblici ministeri di mettere in riga i potenti, cose che sarebbero pregiudicate con la separazione delle carriere, costituiscono solo il manto demagogico sotto cui lavora l’eterna pretesa reazionaria di certa magistratura, quella che spaccia la coincidenza della propria intoccabilità con non si sa ben quale diritto dei cittadini. E soprattutto quelle chiacchiere non rendono ragione di una verità più semplice: che l’Italia, col suo sistema a carriera unica, sta nella cerchia dei paesi democraticamente arretrati, mentre in quelli più civili non risulta che sia impedito ai magistrati di fare le pulci ai potenti. Gli è impedito semmai - ed è cosa ben diversa - di gestire il processo come se si trattasse di cosa loro, con l’imparzialità e la terzietà del giudice ridotte, se proprio va bene, a una realtà ipotetica: e più spesso a una insultante finzione. L’anticorruzione non c’è più di Sergio Rizzo La Repubblica, 9 agosto 2020 Il nuovo corso dell’Anticorruzione si apre con la nomina dei cinque componenti del nuovo collegio dell’authority da parte del Consiglio dei ministri qualche giorno dopo che la gestione uscente aveva garbatamente stroncato l’ultimo parto del governo. Segnalando, con un documento di 26 pagine subito finito in un cassetto del Senato senza neppure essere stato discusso, che l’abolizione temporanea delle gare d’appalto prevista dal cosiddetto decreto Semplificazioni elimina la concorrenza e favorisce il rischio di un aumento della corruzione. Sia chiaro, non che ci sia un qualche collegamento fra il caustico giudizio e il cambiamento del vertice: i commissari uscenti non avrebbero potuto essere confermati mentre la nomina dei sostituti, soprattutto di quella del presidente, arriva con grande ritardo. Così non possiamo dire se la missione sia far dimenticare la stagione di Raffaele Cantone, che se n’è andato quasi un anno fa dopo aver denunciato “il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo”. Di sicuro, tuttavia, non c’è nulla che sembra più distante da quella esperienza di questo nuovo corso. A cominciare dal presidente designato. Giuseppe Busìa è un avvocato, organico a quel mondo che ruota intorno a Guido Alpa, principe del foro e mentore, fino a diventarne socio, del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Con il premier, il rapporto di amicizia è strettissimo. Al punto che Busìa doveva diventare segretario generale di palazzo Chigi, ma il veto leghista lo ha bruciato a favore di Riccardo Chieppa, magistrato e figlio di magistrati. Poi, uscita di scena la Lega, era in predicato per assumere l’incarico politico di sottosegretario a palazzo Chigi nel Conte due, ma è stato bruciato dal veto grillino in favore di Riccardo Fraccaro. A quel punto non gli restava che un’authority. Si era fatto avanti per la Privacy, ma intanto si era liberata la poltrona di Cantone: più facile e rapido. Da mesi le voci di palazzo dicevano che quel posto era destinato a lui. Busia è esponente della burocrazia fiduciaria della politica, da cui quella burocrazia trae la propria forza. La sua atmosfera di provenienza è quella della scomparsa Margherita che si è ben innervata nel Partito democratico. Ex vice capo di gabinetto del ministro margheritino dei Beni culturali Francesco Rutelli durante il secondo governo Prodi, il nuorese Busia è approdato all’autorità della Privacy presieduta dall’ex deputato margheritino ed ex sindaco di Nuoro Antonello Soro con il prestigioso incarico di segretario generale. In quel ruolo, nel 2016, aveva preso in contropiede l’Anac di Cantone che si stava apprestando a stabilire le linee guida della legge che avrebbe imposto ai dirigenti pubblici di rendere noti i propri patrimoni, sollecitando in fretta e furia tutti i funzionari a preparare le carte. Con quella mossa Busia aveva di fatto consentito ai dirigenti già in rivolta di fare ricorso al Tar, affossando la norma sulla trasparenza dei loro patrimoni. E ora le circostanze vogliono che venga nominato alla guida dell’autorità che dovrebbe essere il tempio della trasparenza. Segnale impossibile da non notare. Ma sono sciocchezze, al cospetto della ragion di maggioranza. Chi meglio di un amico di Conte non sconfessabile dal Partito democratico, e soprattutto dalla fazione del Pd che più ha sostenuto il piano del governo Conte due con i grillini, per un incarico del genere? Certo, c’è l’incognita del parlamento: i cinque componenti dell’Anticorruzione sono designati dal governo ma vanno confermati dalle commissioni delle Camere a maggioranza qualificata. Una garanzia che può offrire soltanto la spartizione accurata degli altri quattro esperti commissari. Con la partecipazione dell’opposizione, ovvio. Ecco allora Consuelo Del Balzo, che firma articoli al curaro (anche contro Conte) sulla Voce del Patriota, una specie di organo ufficiale di Fratelli d’Italia. Ecco l’avvocato Paolo Giacomazzo: lo stesso Giacomazzo candidato per la Lega alle elezioni comunali di Mira nel 2017? Ecco il magistrato Luca Forteleoni, che nel 2014 il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, oggi deputato renziano, sponsorizzava via sms per una nomina al Csm. Ed ecco, infine, Laura Valli, già esperta “non retribuita” dell’Anac, che non dispiace al Movimento 5 stelle. Tutti bravissimi, confidiamo. Se però una caratteristica dovrebbe avere un’autorità creata per combattere la corruzione, sarebbe quella di essere lontana dalla politica. Soprattutto in Italia. Perché se al contrario è controllata dal governo e dai partiti, allora diciamo la verità: un’authority del genere non serve a niente. Diventa un postificio e basta. Ma di postifici ne abbiamo già troppi. Violenza sulle donne, una legge per risarcire le vittime in nome di Maria Antonietta Rositani di Giulia Ferri L’Espresso, 9 agosto 2020 Parte da Reggio Calabria la proposta per un fondo speciale per le cure sanitarie che al momento non sono coperte dal servizio sanitario. L’iniziativa nasce dal comitato a sostegno della donna bruciata viva in strada dall’ex marito. “Le istituzioni devono capire che servono fondi urgenti, non ingessati da tempi e criteri burocratici”. Lo scorso venerdì mattina è stata presentata presso la Questura di Reggio Calabria una proposta di legge regionale per la costituzione di un fondo di solidarietà e urgenza per le donne vittime di violenza di genere e violenza domestica e i loro figli. L’iniziativa è partita dal comitato, nato pochi mesi fa, a sostegno di Maria Antonietta Rositani, la donna bruciata viva in strada dall’ex marito Ciro Russo e sopravvissuta alle fiamme. “Negli ultimi mesi erano già sorti vari movimenti a sostegno di Maria Antonietta”, ha raccontato all’Espresso l’avvocato Lucia Lipari, promotrice dell’iniziativa, “a un certo punto abbiamo ritenuto indispensabile costituire un comitato che avesse due scopi: da un lato raccogliere fondi appositamente per lei, dall’altro fare pressione per l’istituzione di un apposito fondo intanto sul governo regionale per poi arrivare a una misura nazionale”. Il testo della proposta di legge è stato ispirato dalla dolorosa storia della signora Rositani. La donna si trova ancora ricoverata in ospedale dopo più di 450 giorni e i suoi familiari, seppur con molte difficoltà, stanno cercando in ogni modo di restarle accanto. Sono moltissime le spese che devono sostenere le donne vittime di violenza e le loro famiglie, e soprattutto non si esauriscono nell’immediato. “Per i risarcimenti l’iter è molto complesso e il sistema sanitario nazionale copre solo le spese per le cure mediche imminenti” ha spiegato l’avvocato Lipari. Infatti il sistema sanitario nazionale paga le spese per le cure e gli interventi necessari in una fase iniziale, mentre le successive visite, le terapie riabilitative o gli ulteriori accertamenti vengono pagati autonomamente dalle donne. Il risarcimento di queste spese arriverà solo a posteriori, solo a determinate condizioni e con tempi spesso lunghissimi. Da qui la necessità di un fondo che possa essere utilizzato per tutti gli interventi chirurgici e le cure mediche necessarie, che sia subito operativo e risponda alle esigenze di chi deve allontanarsi urgentemente dal nucleo familiare e far fronte a spese immediate. La proposta di legge chiede poi un’azione che non si rivolga solo alla donna colpita dalla violenza, ma anche ai figli minori e ai familiari. Proprio a questo scopo il fondo dovrebbe servire a garantire la copertura delle spese per la fuoriuscita della donna ma anche dei propri figli dalla situazione di violenza; la stipula di convenzioni con le strutture ricettive per ridurre le spese di soggiorno dei familiari, nei casi di donne che abbiano subito gravi forme di violenza e debbano trascorrere lunghi periodi di degenza in ospedale; interventi a tutela dei minori per il completamento del percorso scolastico. In Italia, i fondi pubblici destinati al Piano Nazionale Antiviolenza vengono gestiti a livello regionale, spesso con gravi ritardi nell’erogazione delle risorse finanziarie, a causa di vincoli di bilancio e complessi procedimenti amministrativi. “Le istituzioni devono capire che servono fondi urgenti, non ingessati da tempi e criteri burocratici, la cui elargizione non sia subordinata alle pronunce processuali”, sostiene l’avvocato Lipari. L’iniziativa è stata fortemente sostenuta dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, dal Coordinamento delle camere minorili della Calabria, dalle forze di polizia, dal Tribunale per i minorenni e da molte altre associazioni. Durante la presentazione il procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa legislativa “perché le donne vittime di violenza avviano un percorso veramente complesso attraverso la denuncia, che non si esaurisce in quell’attimo, ma prosegue per un lungo periodo e ciò comporta la necessità concreta che queste donne siano sostenute psicologicamente, legalmente ma anche finanziariamente”. Allo stesso modo il giudice del tribunale dei minori, Patrizia Surace, e il questore Maurizio Vallone, hanno sottolineato la necessità di operare a livello preventivo e legislativo, perché non si può pensare che le vittime denuncino e poi vengano abbandonate lungo percorsi così complessi. Secondo il Rapporto sulla violenza di genere del Consiglio regionale della Calabria, la Regione è la seconda a più alto indice di femminicidio in Italia in rapporto alla popolazione femminile, (0,35 donne uccise all’anno ogni 100mila donne residenti), preceduta solo dal Trentino, mentre il 26 per cento delle donne della regione hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Per questo per Lucia Lipari è fondamentale avviare una presa di coscienza innanzitutto a livello regionale, per poter poi arrivare a una legge quadro nazionale. E il comitato non è solo in questa battaglia: numerose altre associazioni chiedono una legge che intervenga in maniera organica e stabilisca risarcimenti adeguati alle donne che subiscono violenza. Anche Antonella Veltri, presidente di Donne in rete contro la violenza (D.i.Re), in una recente nota stampa ha dichiarato che: “La vicenda di Maria Antonietta Rositani deve servire affinché lo Stato italiano adotti finalmente misure adeguate di risarcimento per le donne vittime di violenza, dando seguito alle raccomandazioni del Grevio, il Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, e alla recente sentenza della Corte europea di giustizia su questa materia”. L’avvocato Lipari ha intenzione di chiedere un incontro ufficiale alla Regione Calabria: “Mi auguro che ci sia questa sensibilità, si tratta di tante storie, tutte simili e tutte che hanno bisogno al più presto di risposte concrete”. Decreto semplificazioni, le toghe del Consiglio di Stato in rivolta contro Conte di Liana Milella La Repubblica, 9 agosto 2020 Il premier, ex componente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, attaccato per la riduzione delle norme processuali sugli appalti che smantellano la tutela del giudice. È scontro tra il Consiglio di Stato e il premier Giuseppe Conte. Che, prima di diventare premier, ha fatto parte del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e ne è stato anche vice presidente. E ha poi portato a palazzo Chigi Roberto Chieppa, ex giudice di palazzo Spada, come segretario generale. Ma stavolta il decreto Semplificazioni fa saltare i nervi ai consiglieri di Stato. Che tornano dalle ferie, si riuniscono il 7 agosto, e dopo aver letto e chiosato il testo buttano giù una nota al veleno contro l’idea di modificare il codice del processo amministrativo smantellando così “la tutela del giudice”. E ciò accade proprio quando si parla di appalti, in quella linea di totale deregulation che ormai caratterizza la più recente legislazione e che lo stesso presidente del Cds, Filippo Patroni Griffi, ha criticato in un’intervista a Repubblica. Ma cosa lamentano le toghe amministrative? Sostanzialmente sono contrarie a un intervento che “incide sull’organizzazione della giustizia amministrativa, e sulla qualità e sull’efficienza del servizio giustizia”. Nella nota, approvata all’unanimità dal Consiglio di presidenza, inviata alle Camere e alle commissioni che dovranno convertire il decreto Semplificazioni, si sottolinea che oggi “i tempi di definizione dei giudizi in materia di affidamento di opere, servizi e forniture sono straordinariamente celeri, tanto che è possibile ottenere una sentenza definitiva in due gradi in meno di un anno e una pronuncia cautelare in trenta giorni”. Tant’è che ormai è giudizio unanime che “i ricorsi in materia di appalti non sono causa del ritardo nella realizzazione delle opere pubbliche”. In pratica, dopo il decreto Semplificazioni, i tempi del giudizio provvisorio, quello cautelare, diventano i tempi della sentenza. Quindi le parti avranno pochissimo tempo per studiare la causa e difendersi. E la stessa cosa vale per il giudice che dovrà decidere su cause di milioni di euro e di centinaia di pagine in tempi strettissimi. Il tutto a scapito del rispetto della legalità negli appalti. Si annidano qui i dubbi del Consiglio di presidenza che scrive: “Non si comprendono le reali ragioni dell’intervento normativo che corre il rischio, se applicato letteralmente, di pregiudicare le garanzie di difesa dei cittadini e delle imprese e rimettere il controllo di legalità esclusivamente alla sede penale”. Già nei giorni scorsi era stata diffusa la tabella dei tempi dei giudizi cautelari davanti al Tar, i Tribunali amministratrici regionali (nel 2017 erano serviti 38 giorni per un giudizio; 45 nel 2018). E quelli ugualmente cautelari presso il Cds: 62 giorni nel 2017, 41 nel 2018. Tempi che nel 2019 si sono ulteriormente abbassati. Stanno migliorando anche i tempi di durata dei giudizi, scesi sotto l’anno per una sentenza definitiva, ovvero per i due gradi di giudizio. Campania. Il Garante Ciambriello: “Suicidi in carcere, una strage silenziosa” di Giusy Santella linkabile.it, 9 agosto 2020 Una riunione al Prap promossa dal garante campano propone un impegno collegiale per ridurre il rischio suicidario. Si è tenuta nei giorni scorsi presso il Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria una riunione richiesta dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, avente come oggetto la riduzione del rischio suicidario nelle carceri. Alla riunione, oltre al garante regionale, erano presenti i garanti del comune di Napoli Pietro Ioia, della provincia di Caserta Emanuela Belcuore, della provincia di Avellino Carlo Mele. Fondamentale anche la presenza del provveditore campano Antonio Fullone, della responsabile dell’ufficio trattamento detenuti Assunta Borzacchiello, del responsabile della sanità penitenziaria Giuseppe Nese e delle direzioni delle carceri di Secondigliano, Poggioreale, Salerno, Aversa e Santa Maria Capua Vetere. Nella sua introduzione il dottor Fullone ha ringraziato il Garante Samuele Ciambriello per aver chiesto questo incontro a più voci, sapendo che l’emergenza Covid ha aggravato alcune problematiche all’interno delle carceri, sia per la mancanza di attività e la mancata presenza dei volontari, sia per la riduzione dei colloqui con i familiari e gli avvocati. Quella dei suicidi è una tragedia che riguarda le carceri di tutta Italia, tuttavia la Campania detiene un triste primato: basti pensare che solo da marzo ad oggi sono già 7 i detenuti che si sono suicidati nelle carceri campane ma, come ha ricordato il Garante Ciambriello, decine di altri tentativi sono stati sventati grazie alla prontezza dell’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Samuele Ciambriello, nel suo intervento, ha posto l’accento sul tema della prevenzione del rischio suicidario, che non può essere una responsabilità solo di chi si trova nel carcere: “i gesti estremi hanno diverse motivazioni ed è erroneo pensare di individuare dei colpevoli a tutti i costi. Ogni morte di una persona in carcere, ogni forma di autolesionismo, fa sentire responsabile tutti gli operatori penitenziari, compresi i volontari, ma probabilmente le maggiori responsabilità sono da attribuire alla politica, che da alcuni anni ha rimosso la questione delle carceri dalla propria agenda”. Durante la riunione sono state messe in campo possibili azioni da intraprendere in contrasto a quella che è diventata una piaga che affligge il sistema carcerario. Si è parlato di incrementare i progetti d’istituto e di volontariato, specialmente di pomeriggio e di prevedere la presenza pomeridiana in istituto di almeno un educatore a rotazione e di un commissario di polizia e di incrementare le figure sociali nelle carceri (psicologi, psichiatri, educatori, assistenti sociali, pedagoghi). Come ha ricordato la direttrice di Secondigliano Giulia Russo, il pomeriggio in tutte le carceri rischia di “essere il deserto dei tartari”. Nei loro interventi i Garanti Ioia e Ciambriello hanno sottolineato l’incremento massiccio nelle carceri di detenuti con patologie psichiatriche, che prima di entrare in carcere erano seguiti dai dipartimenti di salute mentale territoriali e di detenuti tossicodipendenti seguiti dai Sert territoriali. Le situazioni di disagio sono molteplici e necessiterebbero di accurati percorsi terapeutici che spesso in carcere non possono essere garantiti. Intanto aumentano anche le denunce delle famiglie estenuate dalle violenze ed estorsioni dei figli e che decidono purtroppo di ricorrere alla risposta del carcere per i propri figli, consegnando una delega in bianco al sistema. I garanti hanno dichiarato la propria disponibilità a ricevere segnalazioni provenienti dagli istituti e riguardanti i soggetti che vivono un disagio maggiore o che hanno già tentato di togliersi la vita, in modo da creare anche all’esterno una rete che coinvolga le famiglie e il mondo del volontariato. Purtroppo i dati dimostrano che i mesi estivi risultano ancora peggiori per i detenuti, che si sentono ancora più soli, dovendo passare più tempo in cella per questioni di carattere organizzativo e mancanza di personale. I numeri di suicidi continuano a salire, e per ogni persona che decide di togliersi la vita in carcere, il sistema penitenziario dimostra di essere sempre più inadeguato a svolgere quella che è la sua funzione rieducativa e risocializzante. Tutta la comunità è chiamata e riflettere ed agire, prima che sia troppo tardi. Torino. Carceri, alle Vallette ancora sovraffollamento lavocetorino.it, 9 agosto 2020 La denuncia dei radicali, in merito alla situazione della struttura. “Abbiamo chiesto da mesi sul carcere di Torino di fare luce sulla mala-gestione in fase di emergenza e oggi, malgrado le inchieste in atto, si stanno di nuovo creando le condizioni per nuove violazioni e nuove violenze con un sovraffollamento insopportabile”. È quanto dichiarano Igor Boni e Patrizia De Grazia, esponenti radicali, in merito alla situazione della struttura delle Vallette. “Al 31 luglio - osservano - erano presenti 1369 detenuti di cui poco più di 100 donne a fronte di una capienza regolamentate di 1058. I benefici della riduzione parziale attuata in periodo di emergenza Covid che avevano fatto scendere i numeri a 1270 sono annullati. Gli stranieri sono 663 e non ci sono mediatori culturali. I numeri sono in costante aumento”. Boni e De Grazia invitano “la politica ad adottare il carcere di Torino e tutte le strutture regionali”. “Ogni 15 giorni a turno - è la proposta - i consiglieri regionali utilizzino il loro potere ispettivo e si rechino nelle carceri. Si può fare un accordo tra tutte le forze politiche per dare voce e luce a quel che accade dietro le sbarre. Da mesi chiediamo consigli regionali e comunali straordinari aperti sul dramma delle carceri. Strutture che dovrebbero garantire distanziamento, sanificazione e utilizzo di mascherine e che oltre a non fare nulla di tutto questo costringono persone ammassate in violazione delle leggi e dei diritti umani”. Reggio Calabria. Nomina Garante dei detenuti, Nucera: “Per me si realizza un sogno” ilreggino.it, 9 agosto 2020 L’assessore comunale alle politiche sociali: “Si dà seguito e conclusione ad un percorso avviato nei mesi scorsi”. Sono stati presentati nella sala Lampadari di Palazzo San Giorgio, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Giovanna Russo, dei diritti dell’infanzia ed adolescenza la psicologa, psicoterapeuta e assistente sociale Valentina Arcidiaco, della persona con disabilità la psicopedagogista Carmelina Costarella, dei diritti della salute Giuseppe Ferreri, nominati dal Comune di Reggio Calabria. Subito dopo si è proceduto alla riunione della neo eletta “Giunta dei Garanti” che sarà presieduta, su indicazione del sindaco Giuseppe Falcomatà, dall’assessore alle Politiche Sociali Lucia Anita Nucera. “Sono felice per le nomine-ha affermato l’Assessore Lucia Nucera- perché si dà seguito e conclusione ad un percorso avviato nei mesi scorsi. I Garanti saranno operativi da subito, si tratta di figure con un profilo professionale elevato che saranno al servizio della città. Opereranno all’interno del comune con i propri uffici, tranne il Garante delle persone private della libertà personale che sarà collocato in una via vicina dove è presente un bene confiscato. Per me, si realizza un sogno. Tutti i Garanti fanno parte del mio settore che ringrazio, ci saranno incontri settimanali per avviare le procedure e portare avanti tutte le problematiche che saranno attenzionate. Penso che questo rispecchi un’attenzione particolare per le fasce deboli. Inoltre, abbiamo istituito l’Osservatorio delle pari opportunità e contro ogni forma di discriminazione di cui faranno parte i Garanti al fine di interagire con altre istituzioni all’interno delle politiche sociali”. Presente all’incontro anche il consigliere Valerio Misefari delegato alla sanità che ha posto l’accento sulla situazione drammatica della salute. “Continua il percorso - ha dichiarato il sindaco Giuseppe Falcomatà - volto a favorire la partecipazione di soggetti competenti nella tutela dei diritti. La nomina dei Garanti è gratuita e al servizio della collettività. Queste figure daranno determinazione e competenza ai vari settori di cui si occuperanno”. Il Garante delle persone private della libertà personale è Giovanna Russo che durerà in carica cinque anni: “Questo incarico è un onere ma anche un onore e cercheremo di creare delle sinergie con tutte le parti coinvolte. Avremmo il compito di vigilare e tutelare su tutti quelli che sono i diritti negati dei detenuti e delle persone private delle libertà personali. Nella mia carriera professionale e universitaria mi sono sempre dedicata agli ultimi ed a percorsi cattolici che mi hanno sempre spinto a stare vicino a persone che hanno problemi di inserimento sociale e di tutele negate”. Il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza è Valentina Arcidiaco che resterà in carica tre anni: “Sono psicologa, psicoterapeuta e assistente sociale specialista. Tenevo molto a ricoprire questo incarico perché lavoro da tanti anni con i minori sia in Italia che all’estero”. Il Garante della persona con disabilità è Carmelina Costarella psicopedagogista, nominata sempre per tre anni: “Ho lavorato per tanti anni al comune come responsabile del settore disabili e ho voluto mettermi di nuovo al servizio delle persone con disabilità e per le famiglie. Sento di avere una grande responsabilità ma ho anche tanta passione e dedizione”. Il Garante della salute è il medico Giuseppe Ferreri in carica per tre anni: “La sanità non attraversa un periodo florido quindi è necessario che ci sia una figura che stia accanto al paziente che lo sappia consigliare e guidare nei momenti critici della sua patologia”. Presente anche il Garante dei diritti degli animali Mary Foti. Vicenza. Il Comune a fianco di senzatetto e condannati Corriere del Veneto, 9 agosto 2020 Percorsi di inclusione sociale e di formazione per senza fissa dimora e progetti per detenuti. Il Comune mette in campo tre diversi iniziative nell’ambito del Sociale, grazie a finanziamenti del ministero dell’Interno e della Regione. I piani sono stati approvati dalla giunta di Francesco Rucco e arrivano a pochi giorni dalle dichiarazioni del sottosegretario all’Interno ed ex-primo cittadino di Vicenza, Achille Variati, che in un dibattito in Parlamento sulla sicurezza in centro - sollevato dall’onorevole Pierantonio Zanettin (Forza Italia) - ha parlato di “aumento delle problematiche a capo di persone senza fissa dimora”, sottolineando che “i servizi sociali del Comune potrebbero assicurare un’opera di prevenzione significativa”. In questo filone rientra il progetto “Homeless, more skills”, che con le cooperative Samarcanda e Cosmo e l’associazione Diakonia vede il Comune impegnato in diverse attività per i senzatetto: dai corsi di alfabetizzazione informatica nei centri di accoglienza, alla consulenza psicologica, dal supporto per i servizi del territorio e fino a percorsi professionalizzanti, con la previsione di veri e propri stage aziendali. A questo progetto, se ne affiancano altri due che vedono il Comune diventa partner di altre realtà: il primo, promosso da Engim Veneto, è “Occupabilità e inclusione sociale attiva a Vicenza” per detenuti, mentre “Misure per la cittadinanza attiva e l’inclusione sociale”, promosso da Diakonia è volto a favorire l’inclusione sociale sia di detenuti che di persone che scontano la pena fuori dal carcere. Rovigo. Il nuovo Tribunale? Si continua a litigare su un progetto vitale Corriere del Veneto, 9 agosto 2020 Si è ravvivata la polemica sulla localizzazione del Tribunale circondariale di Rovigo. Vi sono state prese di posizioni diverse di personaggi, tutti del capoluogo, ed un inspiegabile silenzio da parte di “voci” di rappresentanti di alcuni dei 51 Comuni polesani e dei 32 padovani che fanno parte di tale circondario: il problema è anche loro, non è solo una “questione rodigina”. Il Tribunale di Rovigo è stato istituito all’inizio dell’ottocento e nel capoluogo vi erano otto avvocati; amministravano la Giustizia nella nostra provincia undici Preture e gli avvocati erano circa una ventina (ora sono oltre cinquecento). A seguito di riforme varie la situazione è radicalmente mutata e dal 24 dicembre 2014 tutto si è concentrato in Rovigo, ma evidentemente “l’orologio mentale” di più di qualcuno è fermo agli anni passati ed altri oltretutto considerano la sede della Giustizia come una sorta di incentivo per le attività commerciali. Si sostiene, invero, che non si deve spostare di molto il Tribunale perché ne avrebbe danno lo shopping e la vendita di caffè o di panini. Non mi risulta che imputati o testimoni, dopo aver svolto il proprio ruolo processuale, abbiano intenzione di dedicarsi ad acquisti. A parte tale rilievo, mi par del tutto fuori luogo sottovalutare, con i succitati “condizionamenti”, l’esigenza fondamentale di avere una sede unica per tutte le attività giudiziarie, ora sparse in edifici diversi, nonché adeguate aule, stanze per magistrati, per l’attesa di avvocati e testimoni. Si dice che il processo è già una pena: essa è più dura se - come spesso accade - si deve restare a lungo in piedi, in attesa del proprio turno avanti alla porta della stanzetta di un giudice o partecipare ad un processo senza che vi sia posto per tutti per appoggiare il proprio fascicolo. “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (mentre Roma discute, Sagunto è espugnata): adattando la frase di Tito Livio, vien da auspicare che, mentre a Rovigo si discute, Roma prenda un’autonoma decisione. La pedagogia negativa che ci porta all’indifferenza di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 9 agosto 2020 Ognuno degli eventi di cui si celebra il ricordo presenta spesso anche una quantità di risvolti carichi di interrogativi che rimandano a tenebrosi sfondi politici. È permesso - e per giunta proprio all’indomani della commemorazione della strage alla stazione di Bologna - dire che forse c’è qualcosa che non va nel modo in cui la Repubblica ha costruito la sua memoria e ne ricorda gli eventi cruciali? Pensiamoci un attimo. È in sostanza, la nostra attuale, una memoria (e dunque un calendario commemorativo) costituita da quattro segmenti. 1) assassinii di singole personalità pubbliche (da Giorgio Ambrosoli ad Aldo Moro, da Walter Tobagi a Giovanni Falcone a tanti altri); 2) attentati di varia natura con decine di vittime (da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, a Ustica ai Georgofili, alla stazione di Bologna, appunto); 3) eventi catastrofici di varia natura (dal Vajont al terremoto dell’Irpinia, dell’Aquila, al ponte Morandi ecc.); 4) nodi inquietanti della nostra storia come il “piano Solo”, la P2, “Gladio”. Oggi come oggi, insomma, la memoria della Repubblica - quella che a scadenza fissa occupa le pagine dei giornali e impegna il discorso ufficiale, che suscita rievocazioni e ricostruzioni - è pressoché interamente costituita di eventi di segno negativo. Ma non solo. Vi è un secondo aspetto caratterizzante: ognuno degli eventi suddetti di cui si celebra il ricordo presenta, quale più quale meno, anche una quantità di particolari inquietanti, di molteplici dubbi irrisolti, di risvolti carichi di interrogativi senza risposta, i quali rimandano tutti immancabilmente a tenebrosi sfondi politici nonché a inadempienze clamorose o a insospettabili complicità (in realtà sospettate quasi sempre fin dal primo momento) da parte dei più importanti e delicati apparati pubblici. Sicché è ovvio che nel momento in cui li si commemora anche tutto ciò venga puntualmente ricordato con il giusto rilievo. Quasi sempre accompagnandolo con la richiesta di scuse ai parenti delle vittime e alla promessa di profondere ogni impegno per “far intera luce” su quanto è deplorevolmente accaduto. Grazie a un massiccio investimento commemorativo, è di fatto in questi eventi e in nessun altro che la Repubblica riconosce la sua memoria, e quindi è virtualmente ad essi che affida il suo profilo identitario. Che non basta certo il ricordo del remoto, sempre più remoto, 25 aprile a mutare di segno. Se le cose stanno così mi chiedo che cosa mai potrà pensare del suo Paese, quale immagine potrà ricavarne, un giovane italiano che oggi giunge all’età della ragione. Egli sarà inevitabilmente convinto, temo, di essere nato in una sorta di nazione maledetta, un sorta di terra elettiva dell’illegalità e della violenza o nel caso migliore dell’inettitudine e dell’inefficienza, un luogo dove non è mai accaduto altro che malefatte e nefandezze, dove lo Stato ha quasi sempre protetto i golpisti, i bancarottieri, i terroristi, i ladri, i mafiosi, gli imbroglioni e i delinquenti di ogni tipo, e dove chi ha cercato di opporsi a tale andazzo ha fatto nove volte su dieci una brutta fine. Tale è il messaggio che in questi decenni abbiamo tutti contribuito a costruire e diffondere, perlopiù inconsapevolmente. Tale è soprattutto il messaggio che trasmette il nostro modo di commemorare ciò che pure è doveroso commemorare: un modo algido e convenzionale nella sua ripetitività. Basterebbe che almeno per una volta, ad esempio, per una sola volta, invece di ripetere l’eterno “bisogna far luce” qualcuno potesse dire “su questo abbiamo fatto luce!”, basterebbe ciò, io credo, per cambiare tutto. Ma una simile rottura non c’è mai stata, e dal momento che la memoria ufficiale della Repubblica e i suoi riti commemorativi non ricordano mai un evento con il segno più, non evocano mai un successo, qualcosa che dunque sia in grado d’ispirare alcunché di buono e di grande, abbiamo costruito di fatto una vera e propria pedagogia del negativo. Una pedagogia del negativo destinata inevitabilmente a dare scacco matto a qualsiasi buon proposito di educazione civica, di ammaestramento all’osservanza delle leggi, a qualsiasi eventuale orgoglio di appartenenza nazionale. Sul terreno della memoria mi sembra che si sia prodotta, tra l’altro, una frattura generazionale che forse spiega molte cose della nostra situazione attuale. Mentre infatti le prime generazioni della Repubblica - diciamo quelle nate tra gli anni 40 e i 60 del secolo scorso - si formarono in un’atmosfera memoriale che ancora faceva posto a valori identitari antichi ma anche nuovi di segno positivo (non ultimi quelli dell’epopea della ricostruzione postbellica, che epopea fu davvero, oggi possiamo dirlo), quelle successive - ormai necessariamente immemori di ciò che era prima di loro - hanno sempre più risentito invece del clima che dicevo all’inizio. Di una memoria commemorativa repubblicana stando alla quale sono stati più o meno sempre gli “altri”, i “cattivi”, ad avere avuto la meglio, mentre “noi” - gli italiani “buoni” e il nostro Stato, la nostra democrazia - siamo invece sempre stati un campionario di errori e di difetti, non siamo mai riusciti a riportare una vera vittoria che fosse una e a combinare qualcosa d’importante. Ma quale voglia di fare, d’impegnarsi, quale senso della collettività e del Paese, torno a chiedermi, può mai avere chi da quando ha l’età della ragione ha respirato quest’aria? Forse la decadenza italiana inizia anche da qui, dalla memoria. Anche da che cosa e da come si ricorda. Siamo stati forse vittime di un abbaglio quando abbiamo creduto che ricordare e illustrare di continuo il male servisse a generare il bene. Invece è probabilmente vero l’opposto: che così si finisce solo per generare non altro male, forse, ma qualcosa di peggio: l’indifferenza e l’impotenza da cui troppo spesso siamo avvolti. L’emergenza Covid e le regole violate. “Rischi di abuso di potere” di Diodato Pirone Il Mattino, 9 agosto 2020 Allarme dei costituzionalisti: va coinvolto il Parlamento. Ma insomma, alla luce delle novità emerse dopo la pubblica diffusione dei verbali dei Comitato Tecnico Scientifico, governo Conte ha abusato o no dei suoi poteri? La Costituzione è stata rispettata? Fra í costituzionalisti anche culturalmente orientati nell’area della maggioranza di governo si avverte non da ieri una forte preoccupazione. Fra i primi a lanciare l’allarme Giovanni Guzzetta, che insegna diritto Costituzionale a Tor Vergata. “Che ci siano state delle forzature nella gestione giuridica della pandemia emerge dai fatti - attacca Guzzetta - Durante tutta l’emergenza il governo ha dato una interpretazione discutibile della Costituzione, usando strumenti che definirei impropri come le secretazioni di atti amministrativi e i Dcpm”. Per Guzzetta anche la discrepanza emersa fra il parere del Comitato Scientifico favorevole a nuove zone rosse in Lombardia e le decisioni diverse del governo che preferì giorni dopo chiudere la Lombardia e 14 altre province più che un profilo penale fa emergere un tema di legittimità delle decisioni politiche nato perché i meccanismi costituzionali non sono stati seguiti. Anche Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale, e il giurista Enzo Cheli, ex presidente dell’Autorità delle Comunicazioni, sia pure con toni diversi affermano un concetto analogo: il Parlamento è stato tenuto ai margini delta partita e questo non è encomiabile. “Direi che non dobbiamo assuefarci all’uso ripetuto di strumenti non espressamente previsti dalla Costituzione come i Decreti del presidente del Consiglio che non possono essere verificati dalla Camere, dalla Consulta e neanche dal Colle”. sottolinea Mirabelli. “Leggo molte critiche strumentali al governo che non tengono conto della gravità del problema che ha dovuto affrontare - spiega Enzo Cheli - Tuttavia non posso non rilevare che tutta l’attività del governo ha finito per rendere abbastanza marginale il ruolo del Parlamento. Il che è sbagliato anche perché il coinvolgimento delle forze parlamentari anche d’opposizione se fatto con schiettezza - aiuta anche il governo. Finita la fase di emergenza più stretta, l’esecutivo farebbe bene a smettere di usare l’artiglieria pesante come Dpcm e stato d’emergenza e tornare alle regole ordinarie della legislazione coinvolgendo quanto più possibile l’opposizione”. Per il giovane costituzionalista Salvatore Curreri, che insegna alla Kore di Enna: “Occorre saper distinguere fra scelte determinate da una situazione obiettivamente difficile e altre interpretazioni della Costituzione che invece non convincono. Ad esempio tenere segreti i verbali del Cts, ovvero atti amministrativi, non solo è ai limiti della legittimità Costituzione ma mi pare anche una scelta politicamente poco lungimirante che si ritorce contro il governo bombardato da mille polemiche”. Tutti i giuristi mettono in evidenza che l’epidemia è stato l’ennesimo stress test (il copyright è di Mirabelli) per le nostre regole costituzionali che ne sono uscite piuttosto malconce. “Non c’è una regola costituzionale che sia stata seguita nella sua interezza - si accalora Guzzetta. Invece dei decreti legge sono stati usati i Dpcm; lo stato d’emergenza consentiva al ministro della Salute di superare i poteri delle Regioni e invece questo potere non è stato usato anche a costo di creare molta confusione fra gli italiani sulle regole da seguire; persino i decreti legge sono stati di fatto votati solo da una Camera mentre l’altra si è limitata ad accettare quanto deciso a Montecitorio o a Palazzo Madama”. A far notare la fine de facto del bicamerismo, pure salvato dagli italiani con il voto di massa M favore del “no” al referendum del dicembre 2016 sull’abolizione del Senato, è stato nei giorni scorsi il costituzionalista e deputato Pd, Stefano Ceccanti. “Dovremmo fermare la macchina e fare un pit stop costituzionale perché al di là degli errori e della pessima interpretazione del governo Conte. l’Italia ha un problema di regole costituzionali che non funzionano più da decenni. È ora di cambiarle”. Ecco l’anno in cui sull’immigrazione la sinistra al governo ha perso se stessa di Susanna Turco L’Espresso, 9 agosto 2020 Difendevano la capitana Rackete, ma non hanno ancora abolito i decreti Salvini. Andavano sulla Sea Watch 3, ora non riescono a portare gente in piazza. E la missione in Libia va avanti come prima. Discontinuità col governo grillino-leghista: nessuna. Tutto cominciò a settembre, quando Zingaretti giurava: “È tempo dello ius soli”. Se la storia si ripete - come alla storia accade peraltro di fare - tra una quindicina di giorni, in un afoso pomeriggio di metà agosto, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, si troverà a riproporre di botto l’introduzione dello ius soli in Italia. Così, in controtendenza. Un ballon d’essai che precipita nel nulla. Proprio come fece, inopinatamente, il 18 novembre scorso, in una domenica d’Assemblea dem al Fico di Bologna, giusto quando cominciava l’avventura per la rielezione alla regione di Stefano Bonaccini, con una scelta che risulto subito incomprensibile ai più: “Lo ius culturae e lo ius soli son una scelta di campo del Pd”, tuonò il segretario dem in quella occasione. Fu una netta presa di posizione, forse l’ultima o la penultima, da parte sua. Una dichiarazione che orrorificò l’alleato di governo grillino, Luigi Di Maio, e divise persino gli stessi dem. “Sono sconcertato”, ebbe a dire il ministro degli Esteri, in vena di benaltrismo (“con tutti i problemi che ci sono, col maltempo, gli 11 mila lavoratori di Taranto, si tira fuori quel tema, che non è mai stato discusso nell’accordo di governo”), ma non piacque per tempismo nemmeno a Bonaccini stesso: “Le due priorità di questo momento sono un grande piano di prevenzione contro il dissesto idrogeologico e cambiare la plastic tax”, disse il governatore emiliano-romagnolo, allora uscente e appena all’inizio della battaglia elettorale che avrebbe vinto con la Lega solo a fine gennaio. Zingaretti, comunque, aveva detto una cosa di sinistra: come nel Pd ormai non se ne vedono ormai più, da un pezzo. Se c’è, nel magma grigio, una conseguenza evidente dell’avvento del Conte due, è proprio questa: la sparizione di un convincente lacerto di sinistra nella linea del Partito democratico e dintorni. Intendiamoci: qualcuno è rimasto, ma sembra la particella di sodio della pubblicità dell’acqua minerale. Persino sul fronte migranti, che era l’ultimo orizzonte rimasto, ormai la differenza è ormai ridotta a zero, tra Conte 1 e Conte 2. Lo dice un europarlamentare anomalo come l’ex medico di Lampedusa Pietro Bartolo, ma lo dice anche Amnesty International Italia, presentando il suo ultimo rapporto. Sui migranti non ci sono in sostanza differenze: “L’avvicendamento tra due coalizioni di governo, nonostante alcuni iniziali e promettenti annunci, non ha prodotto una significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia, in particolare quelle relative a migranti, richiedenti asilo e rifugiati”, ha detto il presidente di Amnesty Italia, Emanuele Russo, presentando a giugno l’ultimo rapporto 2019-2020. Le navi delle Ong sono spesso ostacolate o bloccate nei porti oppure hanno avuto “ingiustificati ritardi nelle autorizzazioni all’approdo”, le autorità italiane hanno continuato a supportare le autorità marittime libiche, secondo la criminale ipocrisia dei cosiddetti respingimenti mascherati. Grazie al Covid abbiamo da aprile persino vigente un decreto che definisce l’Italia “porto non sicuro” per navi battenti bandiera straniera che salvano migranti nel Mediterraneo. Mentre per quel che riguarda l’interno, il decreto che ha abolito lo status di protezione umanitaria ha fatalmente aumentato l’illegalità: ad almeno 24 mila persone è stato negato uno status legale, e le nuove norme hanno avuto anche conseguenze disastrose sulle opportunità di integrazione per i richiedenti asilo, che - smantellata la rete delle strutture di accoglienza dei comuni - sono rimasti detenuti nei centri per il rimpatrio. Nulla, del resto, in quest’anno è cambiato, rispetto all’anno del governo giallo-verde. Prorogato il Memorandum Italia-Libia firmato nel 2017 sotto il governo Gentiloni, rifinanziata insieme con le altre missioni internazionali quella in Libia (con la solita ventina di voti contrari). Ancora intoccati - si dice a settembre - i decreti sicurezza che si proclamava voler far sparire nei primi cento giorni, o quanto meno modificare secondo i rilievi puntualmente apposti dal Quirinale già al momento della firma. Insomma se c’è ancora qualcosa di sinistra, nei partiti di governo, è difficile vederlo. Ricostruire la storia di questa sparizione, la sparizione della sagoma della sinistra dall’orizzonte della politica italiana, è facile e doloroso. Misurare un’estate con l’altra è un buon punto di partenza. Tanto per cominciare si può accostare la reazione del Pd al governo rispetto all’uccisione, il 28 luglio, da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, di tre migranti al porto libico di Khoms: tentavano la fuga, dopo essere stati intercettati col gommone per non essere riportati nei lager, cosiddetti centri di detenzione. Parole spese dai membri del governo sull’accaduto: zero. Eppure, solo tredici mesi fa, alla fine di giugno 2019, alcuni parlamentari del Pd, tra cui il capogruppo alla Camera Graziano Delrio, insieme coi colleghi dem Davide Faraone, Matteo Orfini, Giuditta Pini, Nicola Fratoianni di Sinistra italiana e Riccardo Magi di +Europa, erano scesi a Lampedusa e poi in barca avevano raggiunto la Sea Watch3, per stare a fianco dei 42 migranti bloccati da due settimane sul limitare delle acque territoriali italiane. “I diritti delle persone prima di tutto”, diceva Delrio. Mentre il segretario Nicola Zingaretti parlava contro Salvini di una “macabra sceneggiata” e scriveva al premier Conte, che ancora non era il suo premier, chiedendo un incontro: “Non possiamo stare a guardare questo teatrino osceno”. Erano i giorni della capitana Carola Rackete portata in trionfo, e del Viminale cattivo di Matteo Salvini: giorni manichei, e quindi in fondo facili. Con il senno del poi soprattutto. Tutto, allora, era cominciato con il rifiuto della capitana di portare i migranti soccorsi a Tripoli, porto di sbarco indicato dalla cosiddetta guardia costiera libica. Quella che nel frattempo continua a essere pagata e formata coi soldi italiani e alla quale s’affida il perverso compito di non rispettare i diritti umani al posto nostro. Ricordate la gente in piazza a protestare, o anche solo quella barca, coi parlamentari a bordo? La propaganda para-salviniana ne aveva fatto persino una versione fake, con gli onorevoli intenti a consumare, grazie a un fotomontaggio, un lauto pasto a base di piatti di pesce. Un atto di partecipazione e di testimonianza che in questi tempi non si è potuto ripetere. Niente Ong, niente parlamentari slanciati a controllare. Al massimo, in barca, si sono visti Maria Elena Boschi, Gennaro Migliore e altri parlamentari di Italia Viva in gita verso Ischia. Al massimo, ma in pochi, si son trovati in piazza a Roma a Piazza Santi Apostoli, chiamati dall’appello di Luigi Manconi per fermare i finanziamenti a Tripoli, qualche centinaio di persone e qualche parlamentare a disagio di chi appartiene a un partito che il rifinanziamento l’ha appena votato in Parlamento. “Verrà considerato come uno dei momenti più bui della storia del nostro Paese e del Pd”, ha sibilato Matteo Orfini, ex giovane turco, uno dei più attenti alla questione. Giusto un anno fa, il voto finale fu il 5 agosto, il Senato diede l’ultimo via libera al decreto sicurezza-bis, quello che criminalizza il soccorso in mare e aumenta in maniera esponenziale (fino a un milione) le multe per le Ong. Il Pd in Aula mostrava cartelli politicamente garruli, rispetto al grigiore colposo di oggi: “La disumanità non può diventare legge”. Ma può restare legge, come poi è successo? Nicola Zingaretti tuonava: “Adesso l’Italia è più insicura. Grazie agli schiavi Cinque Stelle la situazione nelle città rimarrà la stessa, anzi peggiorerà”. Interessante, a ripercorrere i dibattiti parlamentari di quel periodo, è l’insistere con le accuse ai grillini di essere schiavi, lacché, succubi della volontà di Salvini. “Si traducono in legge i suoi tweet”, s’indignava per esempio Pietro Grasso, ex presidente del Senato. Ironico il punto di caduta finale, per un’area politica che di lì a pochissimo avrebbe finito per essere a sua volta succube di quei grillini che aveva accusato essere tanto servili. A fine luglio, il 24 durante il voto finale alla Camera, il presidente di Montecitorio Roberto Fico aveva graziosamente dato testimonianza delle sue difficoltà di coscienza uscendo dall’Aula (con lui in 17), mentre il capogruppo dem Delrio assicurava: “Il decreto sicurezza non fa che accrescere l’insicurezza dei cittadini, ma il Pd è all’opera per costruire una grande alternativa nel Paese e mandarli a casa”, diceva alludendo al terzetto Salvini, Di Maio e Conte. Operazione che, di lì a quaranta giorni, il Pd potrà dire riuscita per un terzo: a casa giusto Matteo Salvini. Gli altri due, saldamente al governo. Quanto alla “grande alternativa” è presto detto. Il governo Conte bis, giurando il 5 settembre, si dava delle priorità abbastanza chiare, riportate dalle cronache di quei giorni in maniera piuttosto univoca. Punto primo: ottenere più soldi dall’Europa, obiettivo che si potrebbe dire bipartisan, trasversale a qualsiasi maggioranza. Punto secondo: tagliare i parlamentari, priorità carissima ai Cinque Stelle, giunta a dama entro il mese di ottobre. Punto terzo: decreti sicurezza da abrogare, o almeno modificare, parola d’ordine alla quale il Pd s’era aggrappato per dimostrare il famoso cambio di rotta da affidare senz’altro al buon senso della prefetta Luciana Lamorgese, già capo di gabinetto di Angelino Alfano al Viminale. Zingaretti ne era convinto e lo sarebbe stato per ancora un paio di mesi. “Bisognerà affrontare in fretta il tema perché non ci si trovi in situazioni imbarazzanti. Certi casi non si possono ripetere con il nuovo governo”, giurava nella sua prima intervista dopo l’accordo con M5S. Eppure, esclusi gli eccessi anche mediatici dell’era salviniana, quei decreti sono rimasti tal quali. Il primo tentativo di cambiarli, bloccato a fine ottobre; il secondo promesso dalla ministra Lamorgese “per gennaio”; l’ultimo, per ora in bozza, di un mese fa. La pratica è quella raccontata dalle cronache di questi giorni: la vergognosa ipocrisia dei respingimenti nascosti, la strategia silenziosa adottata da Italia e Malta per ridurre i flussi migratori in partenza dalla Libia, il patto tacito che in pratica - come denuncia fra gli altri Sea Watch - di fronte alla presenza segnalata di gommoni o barche, prevede non l’immediato intervento (come impone la legge del mare) ma l’attiva e operante attesa dell’intervento dei libici - nel 2020 secondo l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, la cosiddetta guardia costiera libica ne ha riportati indietro 6500 contro i 4500 del 2019. Una realpolitik perversa, fatta di violazione di diritti umani per procura. Il 9 settembre 2019, quando tutto questo ancora non era compiuto, Dario Franceschini, neoministro della Cultura, celebrava l’inizio del nuovo governo alla serata finale della Mostra del cinema, davanti al relitto del terribile naufragio del 2015 a Lampedusa in cui morirono mille persone, recuperato da Renzi e portato fino a Venezia. Giurava Franceschini: “Dopo mesi di odio e dolore tornano civiltà e umanità”. Ecco, l’odio magari s’è diluito. L’umanità, però, non sembra tornata più di tanto. Già all’indomani del giuramento, del resto, la Sea Eye con a bordo otto persone s’era vista negare il porto proprio dall’Italia, alla faccia del cambio di governo. Eppure la sinistra di Leu poteva ancora tuonare: “Non si deve mettere in discussione il principio che il salvataggio debba essere tempestivo ed efficace”, giurava Nicola Fratoianni, aggiungendo che senza un deciso cambio di atteggiamento, “tornerò a bordo delle navi”. Già si capiva come sarebbe finita. L’ultima apertura di credito è di fine settembre 2019, con l’accordo a La Valletta tra Italia, Germania, Francia e Malta per a redistribuzione dei migranti, con tanti plausi a Lamorgese. Poi basta. Pochi giorni dopo, il tentativo di rilanciare lo ius culturae, si arena di fronte al primo “abbiamo altre priorità” di Luigi Di Maio (il secondo arriverà a novembre, come abbiamo detto), ma anche di una parte del Pd. “Siamo molto convinti di farlo subito”, dice invece Delrio. Non accade nulla. In compenso, giusto per chiarire che tira l’aria opposta, il 24 ottobre, il Parlamento europeo boccia la risoluzione che invitava gli stati membri a tenere aperti i porti alle navi Ong che salvano i migranti, grazie al voto decisivo dei Cinque Stelle che si astengono e consentono la bocciatura. In fondo, in piena coerenza con ciò che ha sempre predicato il Movimento fondato da Grillo, che sul fronte migranti ha sempre ospitato in sé un’ala di sinistra, salvo poi decidere invariabilmente verso destra. Sin dai tempi in cui si trattava di votare sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina, alla quale base grillina era favorevole, ma i vertici no: e quindi era stato un no. A fine ottobre, dopo un paio di mesi di governo, già la spinta propulsiva per cambiare qualcosa sembra terminata. Tre giorni prima della scadenza del Memorandum, il ministro Di Maio annuncia che l’intesa resterà in vigore per altri tre anni ma che il governo “sta lavorando per modificarla in meglio”. È il preannuncio dell’ennesimo quasi niente partorito dalla montagna. Poche ore prima, Zingaretti aveva chiesto - manco a dirlo - “modifiche radicali”. Che naturalmente non arriveranno. Con il 2020, il Pd sembra rinunciare a tutto. L’ultimo sussulto riguarda sempre il Memorandum: a fine febbraio, il 22, una singolare assemblea nazionale dem indetta a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, praticamente già in Era Covid, il partito vota all’unanimità un ordine del giorno nel quale, fra l’altro, si dice chiaramente che “la guarda costiera libica non esiste”, “è stato dimostrato come in realtà si tratti di milizie armate, spesso in lotta fra loro e molto spesso coinvolte in prima persona nel traffico di migranti e nella gestione di lager”, quelli descritti nel “rapporto firmato dal segretario generale delle Nazioni unite Guterres in cui si legge che i centri di accoglienza sono in realtà veri e propri lager, in cui migranti e rifugiati hanno continuato a essere sistematicamente sottoposti a detenzione arbitraria e tortura”. Parole di un qualche peso, per un partito di governo. E una netta presa di posizione - sia pur nella forma indicibilmente aleatoria di un ordine del giorno e all’interno di una Assemblea che aveva per il resto come momento saliente l’elezione di Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, a presidente del partito - che è tornata all’onore delle cronache in questi giorni, con gli articoli di denuncia di Roberto Saviano e centinaia di proteste dentro al partito, dopo che il 16 luglio è arrivato il sì (401 sì, 23 contrari) al rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero e ai fondi per l’addestramento e l’appoggio alla cosiddetta guardia costiera libica (obiettivo per il quale l’Italia ha destinato, dal 2017 a oggi, 22 milioni di euro, secondo i dati di Oxfam). Polemiche alle quali Zingaretti ha risposto in maniera singolare, come muovendo da una distanza siderale rispetto alla realtà, sia governativa che parlamentare, del suo partito: “Il governo e i gruppi parlamentari, che certamente partono dagli stessi presupposti del Pd, hanno ritenuto nella loro responsabilità di interpretare al meglio idee e valori del Pd con la risoluzione approvata dalla maggioranza in Parlamento”, ha scritto su Facebook. Un tratto surreale, pirandelliano, peraltro duplicato poi negli avvertimenti rivolti ai ministri dem. “Sleeping Nicola”, l’ha soprannominato il Foglio. Mentre una linea dem latita, l’unico altro punto di riferimento capace di esprimere un punto di vista è rimasto Marco Minniti, l’ex ministro degli Interni che nei giorni scorsi è arrivato a realizzare i sogni più sfrenati di tutti i sovranisti d’Italia, affermando che “c’è una evidente correlazione tra immigrazione e Covid”, proprio mentre Salvini ricominciava a soffiare sul fuoco del pericolo straniero e Giorgia Meloni, leader di Fdi, accusava addirittura il governo di “furia immigrazionista”. Il ministro dell’Interno che mise in piedi la politica di deciso contenimento degli arrivi dell’era Gentiloni, l’uomo che Franz Timmermans a gennaio arrivò a proporre come inviato speciale “plenipotenziario” dell’Europa in Libia, è rimasto in quasi la sola voce da interrogare, nell’area, l’unico che abbia da dire qualcosa. Mentre, curiosità nella curiosità, gli unici a essersi ritagliati un ruolo - almeno da un punto di vista mediatico - che rappresenti un qualche obiettivo di sinistra (tipo difendere i braccianti, Bellanova docet) sono quelli che nel centrosinistra sono da sempre i più a destra di tutti: i renziani. Migranti. Dall’Italia sei milioni di euro alle Ong che legittimano i campi di prigionia libici di Luana De Francisco L’Espresso, 9 agosto 2020 La denuncia di un rapporto dell’Asgi: invece di combatterle, si favoriscono le pratiche più disumane. Così con soldi pubblici di un bando del ministero degli Esteri finanziamo i centri di detenzione in mano ai trafficanti. Le torture sono quotidiane, anche se noi non le vediamo. Dallo scempio ci separano chilometri di terra e di mare e l’indifferenza per i muri. Tutto invisibile e muto dietro quei recinti, lontano anni luce da una società, la nostra, ossessionata dalla xenofobia. Eppure, anche se di quegli abusi sappiamo così tanto, abbiamo deciso di aprire i cordoni della spesa e investire proprio là dove lo sguardo non arriva. Lo ha fatto il ministero degli Esteri, finanziando interventi destinati alle comunità libiche e ai centri di detenzione per migranti e rifugiati attraverso l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo. Il progetto, inserito nel 2017 in un più ampio quadro di azioni per l’assistenza alle vittime di crisi umanitarie e la cooperazione con i Paesi interessati dal fenomeno migratorio, ha contato finora su uno stanziamento di sei milioni di euro. Tutti soldi ripartiti tra le nove organizzazioni non governative italiane che si sono aggiudicate i tre bandi pubblicati dall’Aics. Un’operazione forse ispirata da buone intenzioni. In realtà, da subito una parte dell’opinione pubblica ha storto il naso di fronte a una mossa considerata piuttosto la legittimazione del funzionamento e dell’esistenza stessa di centri notoriamente gestiti nel disprezzo dei diritti umani. Si è guardato all’iniziativa con la stessa diffidenza riposta nel memorandum che, pochi mesi prima, aveva sancito l’impegno dell’Italia a garantire sostegno economico, politico e operativo alle autorità libiche, in cambio del contenimento dell’afflusso di migranti verso l’Europa. Ora, a tirare le somme sull’apparente contraddittorietà di quei bandi è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con un rapporto che, nel confermare la funzionalità dei progetti a un piano di “esternalizzazione” delle frontiere, ne biasima l’inefficacia in termini di risposte durevole e sostenibili alle carenze strutturali dei centri, veri e propri luoghi di prigionia, dove gli stranieri intercettati dalla Guardia costiera libica, con mezzi e tecnologie forniti dall’Italia, vengono trasferiti e sottoposti a ogni forma di violenza e sfruttamento, in attesa di “rimozione”. “Ideati nella piena consapevolezza delle gravi e diffuse violazioni che si consumano nei centri e con l’obiettivo di ridurne l’entità, ma non di eliminarle del tutto - scrive il pool di studiosi che ha lavorato al report - i bandi hanno creato i presupposti per la realizzazione di progetti che hanno l’effetto, quantomeno politico, di perpetuare un sistema di detenzione di cittadini stranieri in condizioni inumane, al fine di impedire loro di raggiungere il territorio europeo e di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale”. Del resto, suona curioso puntare a “migliorare” le condizioni dei detenuti, senza un’attività di controllo esercitata in loco da personale italiano (espressamente vietato dall’Aics per ragioni di sicurezza) e senza che l’erogazione delle prestazioni sia condizionata all’impegno del governo di Tripoli a porre rimedio alle criticità. Come? Per esempio, suggerisce l’Asgi, con più investimenti per il mantenimento dei detenuti, cui spettano razioni alimentari da non più di un euro al giorno, l’ampliamento dei locali, “pericolosamente sovraffollati e con scarsa luce e ventilazione”, e una vigilanza più stringente sugli abusi fisici commessi anche su donne, bambini e malati. La verità, secondo i ricercatori, è un’altra. “L’inadeguatezza delle risorse stanziate, l’illegittima e arbitraria detenzione e l’assenza di meccanismi di prevenzione sugli abusi - osservano - non paiono ascrivibili a un’impossibilità oggettiva del governo libico, come asserito nei bandi, ma a una sua precisa scelta politica, e si pongono in contrasto con gli obblighi internazionali della Libia di proteggere i diritti fondamentali degli individui di cui ha assunto la custodia”. Intanto, l’Italia paga e lo fa anche a fronte dell’”approssimazione dei rendiconti contabili di alcune Ong” e nonostante le perplessità sul “corretto impiego del denaro pubblico” che la gestione dei centri, per lo più lasciata a milizie armate svincolate da supervisione giurisdizionale, non può non suscitare. Il rapporto ha esaminato i contributi apportati in particolare ai centri di Tajoura, Tarek al Sikka e Tarek al Matar, tutti nelle vicinanze di Tripoli. Nell’elenco figura, tra gli altri, Nasr di Zawiya, gestito dal clan cui afferisce il trafficante Bija e teatro delle violenze recentemente accertate da una sentenza del tribunale di Messina. Ci sono pure Al-Khoms e Souq al Khamis, che nel 2019 il segretario generale dell’Onu ha descritto come “agghiaccianti” e definito “paradisi per la tratta di esseri umani, il traffico di migranti e le sparizioni forzate”. E allora, a giudicare dalla tipologia degli interventi, tra creazione di presidi medici e igienici, riabilitazione di sistemi idrici e supporto psico-sociale, e dalla quantità di beni inviati, tra forniture di generi alimentari, medicine, vestiario, coperte e giochi, quella italiana pare una gigantesca opera umanitaria. Assai diversa la conclusione dell’Asgi, critica con la logica stessa dei bandi. “Il rischio - ammonisce - è che, agevolando il funzionamento dei centri, si fornisca un contributo causale ad azioni illegittime, presenti e future, imputabili direttamente al governo libico o, comunque, ai gestori dei centri”. Borhan Loukasi, il diciassettenne etiope che nell’abbraccio del marinaio siriano Alì è diventato l’icona della Pietà nel Mediterraneo, arrivava da uno di quei centri di tortura. La gamba gliela avevano spezzata là. Navi e centri per migranti sovraffollati, più rischi di contagio di Marina Della Croce Il Manifesto, 9 agosto 2020 Il Viminale cerca strutture adeguate. Salvini scatenato: “15mila balordi portano il virus”. Fino a due giorni fa, venerdì, erano 182 i migranti risultati positivi al Covid. Non pochi se si pensa che il totale dei contagi del giorno ammontava a 552. Non molti se invece si considera che stando ai dati forniti dal Viminale i migranti arrivati in Italia dal primo gennaio a ieri sono in tutto 14.832, il che significa che uno su 80 è risultato positivo al test. Numeri che dovrebbero tranquillizzare, anche perché si tratta di persone sotto controllo del servizio sanitario, ma che invece Matteo Salvini continua a usare strumentalmente in vista delle elezioni regionali di settembre. “Qua per andare in spiaggia si chiede la mascherina, a quelli che hanno fatto sbarcare a Lampedusa chi la chiede la mascherina? Hanno fatto sbarcare 15 mila balordi che sono in giro per l’Italia a fare casino e a portare virus e confusione” ha detto il leader della Lega a Tirrenia, in provincia di Pisa, dove si trovava ieri per un’iniziativa elettorale. Naturalmente le cose sono molto diverse da come le racconta Salvini. Il che non significa che il rischio di una maggiore diffusione dei contagi non esista vista la concentrazione di migranti nei centri di accoglienza e sulle navi dove il governo ha deciso che venga trascorso il periodo di quarantena. “I centri di accoglienza possono essere sovraffollati o possono non avere le mascherine, e questo ovviamente aumenta i rischi, se mal governati possono aumentare la trasmissione di malattie infettive, compreso il Covid”, confermava ieri il direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive, Massimo Andreoni. Ricordando però come i centri dove vengono alloggiati i migranti non siano gli unici luoghi a rischio: “In questi giorni - ha proseguito Andreoni - abbiamo visto diverse situazioni, dalle spiagge ai luoghi della movida dove la presenza di un eventuale positivo può provocare diversi contagi. Bisogna evitare tutte le situazioni a rischio”. Restando ai migranti un caso eclatante è quello scoppiato nei giorni scorsi alla caserma Serena di Treviso, dove i profughi contagiati sono 246 su 281. Una situazione dovuta, secondo il direttore generale della Ulss 2 trevigiana Francesco Benazzi, proprio alla promiscuità. “Positivi e non positivi non sarebbero stati posti in aree divise del centro”, ha spiegato. “I migranti hanno rifiutato di farsi isolare, come hanno esplicitamente ammesso gli operatori presenti nella struttura”. Tutto questo, ha poi proseguito Benazzi, “nonostante l’Ulss avesse dato ordine di creare un blocco in un’area isolata con docce e bagni”. Per il direttore generale non si sarebbe infine riusciti a far utilizzare le mascherine ai migranti nelle aree esterne comuni e a obbligarli al distanziamento sociale. In Sicilia dei 28 nuovi casi di contagio registrati nelle ultime 24 ore, 9 riguardano migranti. In Abruzzo, invece, sono stati trovati tutti negativi gli operatori del Cas di Civitella del Tronto dove nei giorni scorsi sono risultati contagiati 24 dei 50 migranti. Al momento dello sbarco a Lampedusa erano risultati tutti negativi al test, risultato smentito in seguito dai tamponi eseguiti una volta arrivati in Abruzzo. Anche per questo al Viminale si starebbe pensando a un cambio di strategia sottoponendo i migranti che sbarcano a Lampedusa direttamente ai tamponi, vista la poca attendibilità dei test sierologici. Nel frattempo si cercano strutture adeguate dove far trascorre la quarantena, visto che navi e caserme - dalle quali comunque non si esce - potrebbero non bastare. E a proposito di navi domani potrebbe arrivarne un’altra in Calabria per posizionarsi lungo le coste meridionali della regione. Libano. Beirut, il sabato della collera di Vincenzo Nigro La Repubblica, 9 agosto 2020 Assaltati cinque ministeri, la guerriglia con i militari, il ritratto di Nasrallah bruciato, un morto e almeno 730 feriti. Nella città piegata dalle esplosioni è stato un giorno di rivolta contro “i clan al governo”. E ora il premier dice: voto anticipato. La capitale, il cuore del Libano, brucia. Il popolo contro lo Stato a Beirut. Una rivoluzione che esplode e diventa violenta per disperazione. Contro le mafie dei capi-bastone settari (sunniti, sciiti, cristiani, drusi) che dopo la guerra civile 1975-1990 si sono impossessati del Paese, lo hanno diviso per quote, si sono spartiti gli incarichi del potere. E poi hanno bevuto il sangue, anno dopo anno, hanno disossato, hanno spremuto il Paese. Fino all’ultima goccia. In un crescendo drammatico, sino al tragico epilogo dell’esplosione involontaria ma colpevole, innescata da corruzione e incompetenza, che ha devastato il porto e mezza città il 4 agosto scorso. Da ieri i palazzi del potere di Beirut sono in fiamme. Nel pomeriggio, dopo avere tentato per l’ennesima volta dall’ottobre 2019 di assaltare il Parlamento, la protesta, la “Rivoluzione” come si è ribattezzata da sola, ha cambiato velocemente obiettivi. Il Palazzo dei deputati era difeso dall’esercito e dai blindati. E allora sciami di dimostranti, non tutti violenti, molti (e con moltissime donne) soltanto disperati, hanno assaltato, devastato, occupato e abbandonato in macerie i ministeri degli Esteri, dell’Economia, dell’Ambiente, dell’Energia. Hanno devastato l’Associazione delle Banche del Libano, la cupola a cui tutti i capi della Nazione facevano riferimento, lo strumento della spartizione delle ricchezze del paese. Le notizie, i numeri nella prima notte di Beirut, non raccontano la potenza del terremoto per lo Stato libanese. Per ora per fortuna soltano un morto, un poliziotto ucciso, 730 fra agenti, militari e manifestanti feriti, 8 ministeri e uffici governativi devastati. Fisicamente, la città non è tutta in fiamme: ma lo Stato libanese è in ginocchio. Nel pomeriggio la polizia aveva scaricato centinaia di candelotti di gas sui manifestanti. Ore e ore di assalti e di ritirate. Fino a quando i manifestanti si sono divisi e hanno preso di mira i ministeri. I simboli del potere odiato sono bruciati subito: i ritratti ufficiali del presidente Michel Aoun, cristiano ma alleato degli sciiti di Hezbollah, sfasciati e calpestati. I pupazzi con il corpo del capo sciita Nasrallah impiccati a forche di cartone, gli identikit dei volti del potere dipinti sulle mura e cancellati con croci nere e le scritte “questi ladri devono morire, tutti”. Mentre scendevano a frotte lungo lo stradone che porta a piazza dei Martiri, i manifestanti (in maggioranza sunniti e cristiani) passavano a frotte davanti agli ingressi di Khandak Ghamik, la “trincea profonda”, il quartierone sciita alle spalle del centro. Gli uomini del servizio d’ordine di Hezbollah con il cappellino giallo e quelli di Amal con il berretto verde erano in forze agli imbocchi delle loro strade. Da una parte e dall’altra volavano gli insulti, soprattutto quando transitavano i rivoluzionari con le immagini di Nasrallah impiccato. Il grande timore è proprio questo: che la protesta per una scintilla si trasformi da politica in settaria, sunniti e cristiani contro gli sciiti. E sarebbe la fine di tutto. Per ore, prima dell’impennata della violenza, centinaia di donne e di ragazzi si avvicinavano ai cordoni dell’esercito. E i militari in Libano sono più rispettati della polizia, considerata corrotta e violenta. “Voi, l’esercito in piazza contro di noi?”, gridava Danielle, una donna cristiana, sessantenne: “Ma voi dovete difendere noi da quei ladri criminali: dovete aiutarci ad arrestarli, dobbiamo impiccarli, noi tutti insieme”. I militari rimanevano impassibili, i poliziotti rispondevano manganellando. I rivoluzionari, i descamisados hanno iniziato a spaccare le lastre del selciato, quelle di marmo che rivestivano le colonne dei palazzi del potere. Migliaia di sassi come proiettili contro la polizia. “Siete immondizia, siete criminali”, gridavano i cartelli meno aggressivi. “Lasciate il nostro Paese”. Il primo ministro, Hassan Diab, un tecnocrate rispolverato per caso dal presidente Aoun dopo le poderose proteste dell’autunno, sperava di offrire qualcosa alla piazza dicendo che “l’unica soluzione sono elezioni anticipate”. Hassan Aflak, un medico, risponde subito: “Ma se torniamo a votare, voi eleggerete lo stesso Parlamento, perché il popolo è ostaggio dei capi bastone, e voi truccherete il voto, farete vincere sempre voi stessi”. Martedì l’esplosione del porto, 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio che hanno fatto quasi 200 morti (con i dispersi ormai deceduti), 5,000 feriti e 100 mila senzatetto, è stata il detonatore finale di questa nuova crisi che arriva da lontano. C’è chi l’ha capito, anche nel “pouvoir”, nelle stanze del potere, e ha iniziato velocemente a riposizionarsi, a fuggire. I tre deputati del partito cristiano “Kataeb” si sono dimessi. Loro stanno all’opposizione dei cristiani di Aoun, alleati degli sciiti di Amal e di Hezbollah. “Abbiamo deciso di uscire da questo Parlamento, ci batteremo per il Paese che vogliamo, un Paese che non discrimina tra cittadini”, ha detto il capo del partito Sami Gemayel. Parlava ai funerali del segretario del suo movimento, ucciso al porto. Gemayel è erede di un’altra dinastia settaria, figlio e fratello di presidenti, al momento fuori dal governo, per cui pronto a criticare il sistema di cui fa parte. Giovedì si era dimessa un’altra cristiana eccellente, Tracy Chamoun, ambasciatrice in Giordania e figlia del leader Dany Chamoun. Se non altro suo padre era morto assassinato dai siriani nel 1990. “Sono tutti movimenti tattici della vecchia politica, da oggi tutto cambierà in Libano”, dice Aiad Ahmer, 28 anni, architetto. È uno dei capi della rivolta, ha iniziato a lavorare da molti anni alla protesta. “Questa esplosione che arriva oggi viene innescata dalla bomba del porto di martedì, ma è figlia diretta delle proteste iniziate il 17 ottobre”. Con il nome della “protesta di WhatsApp”, esplosa dopo la tassa di pochi centesimi che il governo voleva imporre per ogni messaggino. “Ma non è così - dice oggi l’architetto - quella protesta non esplose per WhatsApp: erano i giorni in cui i boschi del Paese, migliaia di ettari, andavano in fumo e il governo senza mezzi era incapace di spegnerli. Non volavano elicotteri, i mezzi a terra erano fermi. Il governo paralizzato. Il 16 ottobre stavamo organizzando una manifestazione comune con i pompieri, per la settimana successiva. Poi arrivò anche la tassa di WhatsApp, e tutto si infiammò in un attimo”. Di notte gli scontri rallentano, alcuni ministeri vengono liberati. L’ambasciata americana dichiara: “Difendiamo il diritto a protestare, ma senza violenza”. Nessuno sembra farci caso. Il Libano ha preso una nuova strada. Sembra un incubo, tutti contro tutti, senza sapere dove si andrà a finire. Libano. Beirut urla “rivoluzione”: sassi e lacrimogeni, assaltati i ministeri di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 agosto 2020 Migliaia di persone sono scese in piazza a Beirut per protestare contro il governo dopo l’esplosione che, il 4 agosto, ha devastato la città, causando oltre 140 morti e migliaia di feriti. Assaltato il ministero degli Esteri. Una tv parla di un morto tra i militari. “Thawra” grida la folla in Piazza dei Martiri. “Thawra”, la canta, ne fa un inno, una speranza, l’unica che rimane dopo il collasso economico, la crisi dei partiti al potere e adesso la tragica esplosione nel porto martedì scorso. “Thawra” in arabo significa rivoluzione ed è esattamente ciò che sta avvenendo a Beirut. Una rivoluzione contro il governo e i partiti tradizionali. Ma con una connotazione specificamente libanese, che vede la nascita di un fronte popolare cristiano-sunnita contro le milizie sciite dell’Hezbollah (il “Partito di Dio”) sostenute dall’Iran e dal regime siriano. Improvvisamente sono scardinati gli equilibri che nel 1990 avevano permesso di superare 15 anni di guerra civile costati oltre 200.000 morti. Per il Libano si apre un periodo di grave incertezza, che potrebbe portare alla reazione armata delle milizie sciite e ad eventuali bagni di sangue. Nuove vittime - “Non abbiamo più nulla da perdere. Rivoluzione, impicchiamo questi politici corrotti. Rivoluzione, buttiamo giù tutto”, inneggiano in decine di migliaia cercando di coprirsi naso e bocca dalla pioggia di lacrimogeni sparati da esercito e polizia. Quanti sono? I manifestanti parlano di mezzo milione, la polizia li riduce a 15.000. L’esercito regolare reagisce comunque in forze. Si odono anche alcuni spari. Corriamo mischiati tra la gente. Vediamo passare alcune barelle con delle vittime (in serata gli ospedali segnalano circa 120 feriti e almeno un paio di morti). “Attenti sparano, sparano!”, urlano calpestando le schegge di vetro, cemento e metallo cadute a terra dai piani alti a causa dell’esplosione al porto. Sporcano le strade, scricchiolano sotto le suole, mucchi di detriti non raccolti che adesso coniugano materialmente quella tragedia alla volontà di riscatto popolare. Il ministero occupato - Ma il dispiegamento dell’esercito non basta. Gruppi di giovani armati di bastoni, con in testa gli elmetti dei lavoratori edili o i caschi di moto, avanzano egualmente, sfidano il gas mettendosi le magliette sulla bocca. Quando proprio va male si strofinano sul naso cipolla e limone. Ancora spari, boati forti. Col sole che tramonta dopo le diciassette riescono ad irrompere nell’edificio del ministero degli Esteri guidati da alcune decine di ex militari che da mesi chiedevano l’aumento delle loro pensioni. “Un colpo gravissimo per il prestigio e il potere del presidente Michel Aoun. Gli Esteri sono simbolicamente il cuore della sua autorità. Cristiano, ha voluto rompere il vecchio fronte maronita filo-occidentale per allearsi con gli sciiti dell’Hezbollah pro-ayatollah a Teheran e con il regime di Bashar Assad a Damasco”, spiegano i commentatori del quotidiano della minoranza cristiana L’Orient-le Jour. Il ministero è occupato in forze. Nella portineria piovono documenti di ogni tipo gettati dagli uffici ai piani alti; vengono dati alle fiamme i dossier. Il tabù di Hezbollah - A quel punto avviene qualche cosa di impensabile solo sino a poco fa. I manifestanti girano brandendo l’effige di Hassan Nasrallah impiccato ad una piccola forca di legno che si portano in spalle. S’infrange un tabù. Non era mai avvenuto dalle manifestazioni iniziate lo scorso 17 ottobre che venisse attaccato direttamente il massimo esponente politico dell’Hezbollah. “Basta con l’Iran. Basta con le milizie sciite armate che impongono il loro volere sulla società civile. Ci riprendiamo il nostro Libano. Non siamo una colonia di Teheran, vogliamo tornare ad essere un libero Stato indipendente che si autodetermina”, grida tra i tanti Lili Franje, una settantenne dell’intellighenzia cristiana che è venuta a manifestare vestita come se fosse ad una festa. Resta solo la rivoluzione - Ride e piange. Le si affianca Mohammad al Jadduah, imam sunnita di Baalbek. “Siamo assieme nel chiedere che questo governo si dimetta”, spiega. E con loro c’è la 47enne Rolla Stephan, sofisticata e dai modi gentili come può essere la buona borghesia maronita della capitale. “Con mio marito avevamo cinque compagnie commerciali e una edile. In tutto oltre 900 dipendenti. La crisi economica ci aveva portato via quasi tutto nell’ultimo anno. E ora l’esplosione ha distrutto casa nostra e gli ultimi uffici. Siamo diventati nullatenenti. Ci resta solo la rivoluzione”, dice come se stare in piazza indossando la maschera antigas e gli occhiali protettivi contro le schegge fosse la scelta più logica possibile. Lo scontro violento - Verso le 18 il premier Hassan Diab alla radio cerca di calmare le folle. Torna a promettere un’inchiesta indipendente sulle cause dell’esplosione e si spinge a garantire “libere elezioni entro due mesi”. Ma pare fiato sprecato. “Troppo tardi! Vi impiccheremo tutti, dimettetevi”, replicano da Piazza dei Martiri. Quindi è la volta del ministero dell’Economia. L’odiatissimo centro delle misure, che negli ultimi mesi hanno ridotto a un decimo il valore della Lira libanese, viene occupato con la forza. Seguono le sedi delle istituzioni bancarie più prestigiose e quelle del ministero dell’Ambiente. “Al parlamento. Prendiamo il parlamento”, si eccitano a vicenda gruppi di ragazzi con le pietre in mano. Lo sbarramento dei lacrimogeni si fa più fitto. C’è chi sviene sopraffatto, soffocato dalle nuvole bianche che s’infilano nelle vie minori. Ma l’esercito fa barriera. Ora combatte su due fronti e riesce ad evitare che alcuni giovani sciiti di Hezbollah puntino i fucili sulla folla. Ieri sera lo scontro stava continuando a tratti ancora molto violento. Stati Uniti. In un carcere del Texas il 75 per cento dei detenuti è positivo al Covid-19 agenzianova.com, 9 agosto 2020 Il 75 per cento dei detenuti del carcere di Seagoville, in Texas, è risultato positivo al test del coronavirus. Lo riferisce oggi l’emittente “Cnn” citando i dati dell’Ufficio federale delle prigioni degli Stati Uniti. In particolare, sono risultati contagiati 1.333 detenuti su circa 1.750. Tre di essi sono deceduti a causa del Covid-19. Inoltre, sono stati infettati 28 dipendenti del carcere su 300. Raggiunti dalla “Cnn” al telefono, alcuni dei prigionieri hanno detto di temere per le proprie vite, dal momento che la struttura è sovraffollata e non è possibile rispettare il distanziamento fisico. Stando ai dati, il carcere di Seagoville, che si trova nell’area di Dallas, ha più casi di coronavirus dell’85 per cento delle contee degli Stati Uniti.