Gestione Covid-19 all’interno degli Istituti penitenziari: linee di indirizzo regioni.it, 8 agosto 2020 La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato, nella riunione del 6 agosto, il documento “Linee di indirizzo “Gestione Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari”. Premesso che negli Istituti Penitenziari italiani al 31.12.2019 erano presenti 60.769 detenuti, molti dei quali con patologie croniche, alcuni anche in precarie condizioni di salute, e che le strutture penitenziarie soffrono di un indice di sovraffollamento di oltre il 20% della capienza regolare, con ambienti spesso in condizioni strutturali e igieniche precarie, si evidenzia la necessità che i Sistemi Sanitari Regionali gestiscano l’emergenza Covid-19 secondo quanto indicato dal Ministero della Salute e dalle strategie e/o procedure attuate dalle stesse Regioni, con gli stessi standard che vengono garantiti ai cittadini in libertà. Anche nel contesto “carcere” le indicazioni devono tener conto che il virus Sars-CoV-2 è ancora circolante e può determinare lo sviluppo di “focolai” all’interno delle strutture detentive, che anche i soggetti asintomatici possono diffondere il virus. Gli interventi sanitari per la gestione del Covid-19 (fra cui anche le attività di screening con l’esecuzione di tamponi, ricerca di anticorpi, ecc.) vengono realizzati sulla base delle evidenze scientifiche e in relazione agli indirizzi e alle strategie proprie di ogni singola Regione, nel rispetto dei principi di equità, efficacia, efficienza e sicurezza clinica, tenendo conto che le regole di prevenzione nel contesto “carcere” devono seguire le norme di prevenzione previste per i contesti di “comunità”. Pertanto le Regioni e l’Amministrazione Penitenziaria sono chiamate, in maniera sinergica e collaborativa, a fornire risposte appropriate per la gestione dell’emergenza Covid-19, pur con compiti e responsabilità propri e specifici. Le prestazioni sanitarie erogate all’interno degli Istituti Penitenziari devono necessariamente essere basate sulle evidenze scientifiche e non possono essere “snaturate” dalle logiche del particolare “contesto”. Le presenti linee di indirizzo prendono in considerazione i seguenti elementi di criticità presenti nelle strutture detentive: - il sovraffollamento; - le scadenti condizioni strutturali degli Istituti Penitenziari, che rendono difficoltosa una adeguata disponibilità degli spazi per la gestione degli isolamenti e delle sezioni c.d. ponte (dove collocare i detenuti in isolamento per criterio di coorte). Affinché l’azione sanitaria all’interno delle carceri sia efficace e rispondente alle norme sulla prevenzione del rischio clinico essa deve essere favorita dall’Amministrazione Penitenziaria, tramite azioni coerenti e sinergiche di tipo preventivo e di gestione dell’emergenza Covid-19, in linea con quelle che sono le logiche e i comportamenti adottati sul territorio. In questo senso le azioni di prevenzione, anche comportamentali, all’interno delle carceri (anche per il personale dell’Amministrazione Penitenziaria) devono essere omogenee a quelle attuate sul territorio e perdurare fino al sussistere delle indicazioni valide per la popolazione generale (lungo tutte le fasi che caratterizzano l’emergenza Covid-19) Lo scopo del presente documento è fornire linee di indirizzo tali da favorire forme di collaborazione sinergiche e efficaci fra i Servizi Sanitari Regionali (Ssr) per la gestione dell’emergenza Covid-19, a beneficio della popolazione detenuta e generale, e per ridurre il rischio di sviluppo di procedure eterogenee e frammentate nelle diverse Regioni. Linee di indirizzo Allo stato attuale, tenuto conto delle indicazioni del Ministero della Salute e Regionali, le azioni principali del SSN per la prevenzione/gestione dell’emergenza Covid-19 negli Istituti Penitenziari, sono: 1. Attuare per i detenuti nuovi giunti un adeguato triage e una valutazione clinica e anamnestica atta a valutare l’eventuale presenza di una sintomatologia suggestiva di infezione da Covid-19 o eventuali esposizioni recenti al contagio; 2. Adottare per tutti i detenuti nuovi giunti (dalla libertà o da altro istituto), anche se asintomatici, la misura della quarantena precauzionale di 14 giorni e le altre misure sanitarie ritenute necessarie; tale procedura va applicata anche ai detenuti che rientrano in Istituto dopo pernottamento all’esterno (permessi, ricoveri, ecc..). La misura della quarantena precauzionale, anche per i casi asintomatici, è l’unica procedura sanitaria che garantisce il minimo rischio clinico; 3. Adottare per i detenuti che fruiscono di art. 21 ex L.354/75 con lavoro all’esterno e per i detenuti “permessanti” procedure di gestione del rischio che prevedano la prescrizione di una allocazione nettamente separata dal resto della popolazione detenuta (es. con il ricorso delle c.d. sezioni ponte), riducendo ai soli casi sospetti, per sintomatologia o contatto stretto con casi positivi, il ricorso alla quarantena precauzionale; 4. Predisporre l’isolamento sanitario per i casi di detenuti positivi o sospetti positivi in idonei spazi individuati preventivamente in collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, secondo le indicazioni del Ministero della Salute e delle Regioni, ponendo la massima attenzione affinché gli stessi non entrino in contatto con il resto della popolazione detenuta, neppure durante lo svolgimento delle prestazioni sanitarie; 5. Assicurare il ricovero ospedaliero dei detenuti con infezione da Covid-19, quando appropriato dal punto di vista clinico; 6. Assicurare ai detenuti ogni misura di prevenzione e diagnosi effettuabile all’interno del carcere (es. tamponi, ricerca di anticorpi, test rapidi, ecc.) e garantire eventuali approfondimenti esterni che necessitano di tecnologie sanitarie non disponibili nell’istituto penitenziario, seguendo le indicazioni del Ministero della Salute e delle Regioni; 7. Assicurare che le azioni sanitarie per la gestione dell’emergenza Covid-19 rivolte alla popolazione detenuta (individuazione dei contatti e tracciamento, screening, ecc.) siano gestite in stretta collaborazione tra le UU.OO. Sanità Penitenziaria delle Asl e i Servizi di Igiene e Sanità Pubblica, ognuno per le proprie competenze, con particolare attenzione al rientro della persona sul territorio a seguito di scarcerazione; 8. Garantire che i detenuti destinati al trasferimento, al momento dell’uscita dall’istituto, vengano accuratamente visitati per un’ultima volta con misurazione della temperatura corporea, dopo di che il medico fornirà il nulla osta al trasferimento attestando nella certificazione l’assenza di sintomi suggestivi di infezione da Covid-19. I Detenuti in misura di isolamento precauzionale, casi positivi e/o sospetti non possono essere trasferiti; 9. Prevedere incontri informativi specifici con i detenuti o loro rappresentanze al variare delle indicazioni ministeriali, dell’ISS o regionali, in correlazione alla diversa fase epidemiologica in atto e ogni qual volta se ne ravveda la necessità per l’insorgenza di problematiche di contesto; 10. Garantire interventi di informazione sulle modalità di prevenzione e di cura del COVID-19, anche attraverso l’utilizzo di brochure/materiale informativo multilingue, rivolti sia alla popolazione detenuta che al personale dell’Amministrazione Penitenziaria, nonché a tutti i soggetti che, a vario titolo, entrano in carcere, ecc. Per garantire l’attuazione e l’efficacia delle azioni di prevenzione della diffusione del contagio negli Istituti Penitenziari occorre una fattiva e sinergica collaborazione fra Amministrazione Penitenziaria e Aziende Sanitarie Locali, che si auspica si possa realizzare anche attraverso le seguenti azioni: 1. Responsabilizzare le persone che a vario titolo entrano in carcere sull’obbligo di accedervi soltanto se in buona salute (in assenza di febbre >37.5°C e/o presenza di sintomi respiratori) e garantire l’adozione di attività di pre-triage per gli stessi, con l’eventuale supporto di Enti ausiliari e/o volontari (es. Croce Rossa Italiana) ovvero tramite dispositivi elettronici (thermal gate); 2. Identificare luoghi idonei all’isolamento sanitario all’interno degli istituti e adeguarne costantemente la disponibilità di posti, in base all’andamento epidemiologico locale del contagio, garantendone la regolare sanificazione; 3. Assicurare che i locali adibiti ai colloqui, alle attività trattamentali e lavorative all’interno degli Istituti Penitenziari siano idonei allo scopo, onde permettere il distanziamento fisico, l’applicazione delle misure di prevenzione e di igiene; le aree suddette essere opportunamente arieggiate e sanificate; 4. Garantire che l’accesso di visitatori, volontari, fornitori avvenga nel rispetto delle norme di distanziamento sociale e di igiene personale, del corretto uso dei DPI e del tracciamento dei contatti, in base alle indicazioni ministeriali e regionali in riferimento alle diverse fasi dell’epidemia; 5. Assicurare che gli operatori penitenziari, i detenuti lavoranti e tutte le altre persone che, a vario titolo, si recano in carcere per motivi di lavoro, seguano le indicazioni fornite dal proprio medico competente e ricevano dal datore di lavoro i DPI previsti; 6. Privilegiare le modalità di colloquio con soggetti esterni (familiari, avvocati, Ag, ecc..) che favoriscono il contenimento della diffusione del contagio, ad esempio video-colloqui/video-conferenze; 7. Favorire lo svolgimento delle attività trattamentali, educative e lavorative intramurarie nel rispetto delle disposizioni ministeriali e regionali, adibendo locali idonei allo scopo, che permettano il distanziamento sociale e l’applicazione delle misure di prevenzione e igiene, e che possano essere opportunatamente arieggiati e sanificati; anche in questi casi, ove possibile, privilegiare le modalità a distanza (es. attività scolastica in videoconferenza, ecc..); 8. Contenere, fino al perdurare dell’emergenza, i trasferimenti dei detenuti da un Istituto Penitenziario a un altro, fatte salve improcrastinabili esigenze di sicurezza, giustizia o salute; 9. Garantire che il trasporto e l’accompagnamento del detenuto all’esterno dell’istituto, qualunque sia il motivo (es: udienze, processi, visite esterne, accessi in Pronto Soccorso, ecc..), avvengano in sicurezza sia per gli Agenti di Polizia Penitenziaria che per i detenuti, tramite l’adozione dei DPI necessari e delle misure di prevenzione e di igiene; assicurare inoltre la detersione e la sanificazione dell’automezzo prima e dopo il trasporto, con particolare attenzione alle superfici di appoggio; 10. Gestire la ricezione dei pacchi che rappresenta un limitato rischio di diffusione del virus all’interno delle carceri. In ogni caso si consiglia l’adozione delle misure di prevenzione (pulizia delle superfici); 11. Favorire e promuovere le istanze di misure alternative o di sostituzione delle misure cautelari restrittive, soprattutto per i soggetti a maggior rischio di sviluppo di complicanze da Covid-19. Modifiche delle linee di indirizzo - Le seguenti linee di indirizzo potranno essere modificate in base al variare delle necessità e/o delle indicazioni del Ministero della Salute e delle Regioni. Depenalizzare? Ok, ma servono subito processi veloci e misure alternative di Giacomo Di Gennaro e Andrea Procaccini* Il Riformista, 8 agosto 2020 Un detenuto su tre attende il giudizio: senza una giustizia celere trasformare i reati in illeciti civili o amministrativi può essere inutile. Bisogna capire che la pena si può scontare anche fuori dalla cella. E poi serve una svolta culturale: in galera si va soltanto per fatti gravi. Sebbene sembri limitarsi a una cadenza stagionale l’attenzione ad agosto sulle condizioni delle carceri, allorquando si chiudono i tribunali, riteniamo che i diversi articoli in questi giorni su questo giornale di denuncia delle condizioni di disagio e sovraffollamento presenti siano di estrema rilevanza. La situazione carceraria rappresenta, infatti, una spia del funzionamento e delle distorsioni del nostro sistema penale. Una riflessione che in quest’anno di Covid assume una valenza ancora più densa di significati se consideriamo che è in questo scenario che vanno lette le tragiche rivolte di marzo e susseguenti polemiche e ricadute politiche. Il ricorrente tema della depenalizzazione o del diritto penale minimo risponde a criteri di garanzia di uno Stato di diritto, a una concezione della pena che non sia carcerocentrica, a un’idea della risoluzione dei conflitti sociali che non sia totalmente delegata alla pena e allo spettro della punizione e, in ultimo, a un’esigenza di razionalizzazione del sistema dinanzi alla proliferazione di sempre nuovi illeciti penali. I tentativi compiuti nel nostro Paese, in passato, hanno avuto una modesta portata in quanto, a partire dagli anni Novanta, si sono scontrati con un processo di iperpenalizzazione (cioè di introduzione di nuove fattispecie di reato e aumento dei massimi edittali di pena) compiuto da un legislatore che ha cavalcato e recuperato le dimensioni più simboliche ed emotive del diritto penale finalizzato a inseguire solo il consenso elettorale e scaricando così sul mondo dell’esecuzione penale, variamente inteso, una serie di problematiche sociali altrimenti non governate. Si pensi all’immigrazione e alla condizione di tossicodipendenza in carcere. Lo stesso legislatore poi, ciclicamente, in maniera apparentemente schizofrenica, per fronteggiare i problemi del sovraffollamento carcerario e rispondere alle condanne ricevute in sede europea, è stato “costretto” a promulgare provvedimenti, su basi esclusivamente deflattive, capaci di facilitare la fuoriuscita dei detenuti dal circuito penitenziario e il loro accesso alle misure alternative. Basti pensare che, in base ai dati ministeriali, tra il 2012 e il 2019 si è registrato un calo del 9% delle presenze in carcere (da 66.695 a 60.611) e un aumento del 125% tra le misure di comunità (da 25.524 a 57.391). Se questi dati possono confortare in quanto attestano un calo del riscorso alla pena detentiva, per un altro verso certificano un aumento decisamente considerevole del numero complessivo delle persone sanzionate sotto il controllo dello Stato. In tale situazione i giuristi denunciano che l’effetto combinato di iniziative legislative meramente repressive con interventi volti alla riduzione della popolazione detenuta producono effetti contradditori. Da un lato c’è il rischio che la pena si riduca a una mera minaccia generando un’idea diffusa di impunità in un’opinione pubblica che concepisce solo il carcere, dall’altro si sovraccaricano di un peso considerevole gli uffici di esecuzione penale esterna, rendendo più difficoltoso il perseguimento delle finalità rieducative delle diverse misure. A fronte di tale situazione una “seria” depenalizzazione può essere la chiave di volta per invertire questa tendenza? A prescindere dal momento politico che non sembra favorevole, gli studi sociologici e criminologici hanno evidenziato un limite fondamentale in questo tipo di impostazione, ovvero il prefigurare una corrispondenza lineare tra il quadro dei riferimenti sanzionatori e l’andamento della penalità in concreto. L’andamento della penalità in concreto è condizionato da una molteplicità di fattori (globalizzazione, ristrutturazione del sistema del welfare, l’insorgere del problema della insicurezza in settori sempre più vasti della popolazione) e non risponde al solo riferimento normativo. Con ciò non si vuole sostenere che i provvedimenti legislativi in questione non abbiano avuto un’influenza nei processi di crescita della popolazione penitenziaria o in un loro eventuale calo, ma che sarebbe limitativo considerarli come determinanti. Allontanandoci dalla depenalizzazione in senso stretto e spostandoci sul funzionamento della penalità in concreto, sappiamo che in seguito alle condanne europee il legislatore ha promulgato dei provvedimenti (il cosiddetto Svuota-carceri) volti ad alleggerire le nostre carceri, per un verso, favorendo la fuoriuscita dei detenuti a fine condanna, per l’altro, evitando l’ingresso in carcere dei condannati con pene brevi. Ebbene le nostre carceri, a dicembre 2019, registravano la presenza di 60.769 detenuti. Di questi il 68,3% ha lo status di condannato definitivo, la restante parte, poco più del 30%, si trova in attesa di giudizio. Concentrandoci sui condannati definitivi (41.531) e considerando la pena inflitta osserviamo che circa il 23% di questi è in detenzione per una condanna non superiore ai tre anni. Se invece si analizzano i dati in base al residuo di pena, si osserva addirittura che nel 55% dei casi si sta scontando un residuo non superiore ai tre anni. In teoria potremmo ritenere che entrambe le categorie di detenuti avrebbero i requisiti per usufruire delle varie misure sopramenzionate e allo stesso tempo potremmo ipotizzare una molteplicità di motivi che ne impediscano la fruizione, ma ciò che ci preme sottolineare è che questi dati dimostrano come la normativa non produca degli automatismi. Un discorso differente merita il tema della legge sulla droga e la condizione della tossicodipendenza in carcere, temi per i quali si imporrebbe un cambio di paradigma. A prescindere dalle varie impostazioni etiche o culturali, è un fatto oggettivo che la legislazione proibizionista in vigore produce una situazione per la quale il 34,8% dei detenuti è in carcere per violazione della legge sulla droga (il 23,8% a causa della sola la violazione dell’articolo 73 del Testo unico, sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Se colleghiamo questi freddi numeri alle tragiche cronache delle rivolte di marzo che hanno visto 12 detenuti morire per overdose in seguito agli assalti alle infermerie degli istituti, allora l’impellenza di una revisione della legislazione diventa eclatante. Se la strada della depenalizzazione ha un senso, non deve essere intrapresa per mascherare aspetti repressivi di facciata o rivolgendosi a esclusivi reati bagatellari. Tuttavia la strada più efficace per rispondere ai requisiti di giustizia in uno Stato di diritto restano processi celeri, riduzione della custodia cautelare, applicazione delle misure alternative di esecuzione della pena, penalità carceraria per i reati più gravi in condizioni penitenziarie riparative, umane e fondate su contemporanee politiche di recupero e reinserimento sociale. *Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Federico II Detenuti e migranti: un destino comune di Iuri Maria Prado Il Riformista, 8 agosto 2020 Due fatti accomunano la condizione dei migranti a quella dei detenuti: che questi come quelli sono i deboli della società, e che gli uni e gli altri sono innocenti. Sono analogamente deboli perché identicamente sono sottoposti a una realtà che soverchia le loro ambizioni di vita: in un caso questa realtà è la fame, la guerra, la schiavitù; nell’altro caso è il potere dello Stato. E nei due casi il risultato è il medesimo: la destituzione di rango nella scala umana, e appunto la riduzione delle persone a una condizione di debolezza, di impotenza nella soggezione a un potere irresistibile. Ma anche più significativo è il secondo fatto accomunante: l’innocenza. Perché così i migranti come i detenuti soffrono la loro condizione di debolezza senza averne nessuna colpa. Dice ma come? D’accordo i migranti, che non si sono scelti la fame e la guerra da cui fuggono, ma che c’entrano i detenuti che invece nessun ha obbligato a delinquere? L’obiezione ha poco senso per due motivi. Innanzitutto perché l’eventuale colpa del delitto semmai spiega - non elimina - la violenza dello Stato; e in secondo luogo perché i detenuti non scontano la pena prevista dalla legge, cioè la privazione della libertà, ma quella diversa e illegale del sovraffollamento, della malattia, della sopraffazione, della disperazione affettiva, dell’inibitoria di qualsiasi diritto: e senza che questo regime di afflizione sia nemmeno remotamente giustificato dalla responsabilità per il fatto illecito che hanno commesso. E a fronte di tutto questo, come per i migranti a fronte della guerra e della fame, c’è per i detenuti solo la loro innocenza. E infine ciò, a fare dei migranti e dei detenuti cose simili: “cose”, pour cause, nel sodalizio delle società magari diverse tra loro ma che ugualmente se ne disinteressano. Sesta Opera San Fedele, il Terzo settore che dona nuova vita ai carcerati di Gianpaolo Plini interris.it, 8 agosto 2020 L’intervista a Guido Chiaretti, presidente dell’Associazione Sesta Opera San Fedele Onlus di Milano che porta sostegno ai carcerati. Duecento volontari dell’Associazione Sesta Opera San Fedele Onlus di Milano ogni giorno portano il loro sostegno ai carcerati. Un universo particolare dove “c’è possibilità di resurrezione” secondo il presidente Guido Chiaretti. Troppo spesso si tende a tralasciare le problematiche che investono il mondo carcerario che in Italia soffre di strutture vetuste e di un insostenibile sovraffollamento. Per questo, le attività dell’associazionismo aprono uno squarcio di luce sulle carceri italiane donando nuova speranza ai detenuti seguiti verso un percorso di necessaria rieducazione ai fini del reinserimento nella società. In che modo la vostra associazione si prende cura dei detenuti? “La nostra associazione ha quasi un secolo, è nata nel 1923 a San Vittore a Milano. Poi, ci siamo estesi ed abbiamo portato il nostro servizio di volontariato in altre carceri, man mano che queste sorgevano. Quindi: Opera, Bollate, nel Carcere minorile Beccaria e nel reparto speciale dell’Ospedale San Paolo. Ci occupiamo anche del mondo delle misure alternative, cioè sosteniamo quei condannati che scontano la pena sul territorio extra carcerario. Dentro le strutture le attività che svolgiamo sono innumerevoli: l’accoglienza tramite dei colloqui per i detenuti appena arrivati che è fondamentale per la differenza di approccio tra detenuto-volontario e detenuto-istituzione. C’è meno formalità”. In Italia la funzione della pena è rieducativa. A suo avviso, è davvero possibile intraprendere un percorso di cambiamento per il detenuto? “Questo è l’obiettivo che esiste sulla carta. Le istituzioni si muovono verso questo traguardo ma il risultato spesso è diverso. Dipende spesso dalle carceri: dove il reparto educatori funziona in maniera eccelsa il detenuto ha più probabilità di reinserirsi nella società in modo corretto. È qui che interviene il volontariato, il terzo settore. Noi interveniamo anche all’interno di una rete di associazioni al fine di dar vita a dei veri e propri percorsi di reinserimento che iniziano con delle attività di sostegno psicologico. Per le donne, per esempio, il problema principale è quello della mediazione dei conflitti. Si insegna perciò a controllare le reazioni emotive. Poi, si sviluppano anche delle attività dal carattere più pratico come l’avviamento al lavoro, l’accompagnamento per i detenuti che godono di permesso premio. Questi vengono ospitati all’interno di alcune strutture che mettiamo a disposizione e coadiuvati nella gestione della quotidianità: dalla salute ai rapporti con la famiglia. Percorsi che durano anche un anno”. Guido Chiaretti Che tipo di rapporto si instaura tra il volontario e il detenuto? “Il rapporto è variabile. Alcuni utilizzano il volontario per delle richieste che rientrano nella nostra attività. In altri casi, nascono dei rapporti umani e di amicizia che continuano anche dopo l’espiazione della pena. Legami che durano per moltissimi anni. Ci sono anche dei detenuti che si sono reinseriti nella società con grande successo: trovano lavoro ed economicamente si sostentano. Dopo poco tempo, alcuni li abbiamo visti ritornare pronti a trasformarsi a loro volta in volontari con il desiderio di aiutare”. Durante il lockdown qual è stata la difficoltà più grande per la vostra associazione? “La difficoltà maggiore che abbiamo riscontrato è stata quella del blocco degli ingressi. Il contagio poteva provenire solo dall’esterno e si è deciso di adottare questa misura. Ma in alcune carceri come San Vittore non sono stati bloccati i servizi essenziali che promuoviamo come il vestiario o gli incontri. Ora, le cose si sono distese ma ancora non si possono svolgere tutte le attività di gruppo anche se i colloqui fortunatamente sono permessi. Durante la quarantena proprio la problematica dei colloqui è stata alla base dell’esplosione delle proteste nelle carceri. I detenuti più in salute hanno compreso la situazione di emergenza ma altri, come i tossicodipendenti, hanno fatto più fatica”. Una volta fuori dal carcere, come sostenete queste persone? “Quando il detenuto esce inizia una situazione davvero critica. Perché se non è stato preparato per tempo il reintegro nella società c’è il rischio concreto che le persone finiscano per commettere gli stessi reati per i quali sono state condannate. Pensiamo ad un detenuto che si sosteneva con lo spaccio: se dopo la galera non trova un’occupazione deciderà con molta probabilità di ricominciare a spacciare. È fondamentale il percorso di reinserimento che però inizia anni prima”. Cos’è che tiene il fuoco del volontariato acceso all’interno della sua associazione? “Il fatto più importante di chi fa volontariato seriamente all’interno del carcere è guardare il detenuto come una persona che ha sbagliato ma che può rimettersi in gioco. Questa è una piccola esperienza di resurrezione, sia per chi crede sia per chi non crede. Il carcere è un problema di tutta la società. Il detenuto può rinascere da un’esperienza di segregazione e allo stigma sociale che investe anche tutto il nucleo familiare. Questa visione ripaga di tutti i nostri sforzi”. Csm, la riforma Bonafede stronca le correnti ma è rivolta tra le toghe di Liana Milella La Repubblica, 8 agosto 2020 Il Cdm approva la legge delega. Il ministro: “Sarebbe stata così anche senza il caso Palamara”. Proteste contro il sorteggio per l’elezione. Il caso Palamara costerà molto alla magistratura. Lo dimostra la riforma del Csm firmata dal Guardasigilli Alfonso Bonafede. Che dopo molti mal di pancia passa in Consiglio dei ministri. E suscita subito la rivolta delle toghe che definiscono “svilente” il sistema del sorteggio che rispunta nella legge elettorale e già pensano alla futura guerra non solo sulla burocratizzazione del Csm e sulle nuove minacce disciplinari, ma pure sull’organizzazione delle procure e sulle regole anti correnti. È una legge delega. La discussione parlamentare sarà lunga. Destinata a compensare i distinguo di Pd, Iv e Leu. Ma per ora Bonafede è soddisfatto e può dire “è una riforma essenziale per scardinare il correntismo. Lo sarebbe stata anche senza il caso Palamara”. Qual era l’obiettivo? Evitare tutto ciò che il caso Palamara ha squadernato. La soluzione sta nella nuova legge elettorale, doppio turno, obbligo di liste con almeno 10 concorrenti, la scure di sorteggiarne altri se non si raggiunge la quota. Ancora: la parità di genere per mandare al Csm le toghe rosa, visto che sono oltre la metà della magistratura. Ancora: obbligo di esprimere quattro preferenze. Ma di prima mattina la corrente di sinistra delle toghe, Area, scrive che la riforma “potenzierà gli aspetti meno nobili dei gruppi associativi, inducendoli a scambiare i distretti come figurine”. Nel mirino c’è quel sorteggio che “la gran parte della magistratura ha respinto, ritenendola svilente e di incerta legittimità costituzionale”. Niente male come antipasto. Contro una riforma che vuole “rimodulare, secondo principi di trasparenza e di valorizzazione del merito, i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi”. Lì punta Bonafede. Lì trova pienamente alleati Pd, Iv e Leu. Che invece hanno ostacolato, alla fine vincendo la battaglia, la sua richiesta di escludere i parlamentari dal novero dei possibili candidati a diventare membri laici del Csm. Resta fuori solo chi è stato al governo negli ultimi due anni. Penalizzati i togati del Csm in uscita. Niente incarichi di vertice per quattro anni. Sulle misure anti correnti sono tutti d’accordo. Cancellate per legge. Nel futuro Csm niente più Area, Unicost, Mi, Autonomia e indipendenza. Non basta. Il vice presidente non avrà più il potere di scegliere i componenti delle singole commissioni. Saranno sorteggiati. Sarà il caso a decidere chi dovrà far parte delle due commissioni strategiche, la prima, che può decidere di allontanare una toga dalla sua sede. La quinta che può scegliere i capi degli uffici. Un Csm con le unghie corte. Perché la legge toglie ogni discrezionalità nella scelta dei futuri capi degli uffici giudiziari. Obbligatorio attenersi “all’ordine temporale delle vacanze; all’audizione dei candidati; alla frequentazione, presso la Scuola della magistratura, di specifici corsi”. Risorge pure l’anzianità come “criterio residuale a parità di valutazione”. Dopo il caso Falcone sembrava messo in soffitta, invece rieccolo. Il capitolo più pesante non è quello delle toghe in politica - se sono elette non possono mai più tornare indietro - ma la vita negli uffici. Verifiche ogni tre mesi sull’efficienza nel lavoro, pena deferimenti disciplinari. Gli avvocati entrano nei consigli giudiziari e daranno giudizi sui giudici. Un procuratore dovrà aspettare 5 anni prima di poter correre per un altro ufficio. Nel lungo elenco di obblighi pure “i criteri di priorità”, un’obbligatorietà temperata dell’azione penale a fronte di un’obbligatorietà che non ammetteva esclusioni per alcun reato. Via libera alla riforma del Csm: ora la chiamano “spazza-correnti” di Errico Novi Il Dubbio, 8 agosto 2020 Il Consiglio dei ministri delibera il ddl: limiti ai gruppi Anm e agli “scivoli” post consiliatura. Il Partito democratico è tradizionalmente additato dagli avversari come organico a una parte della magistratura (e viceversa). Il Movimento 5 Stelle passava come vessillifero delle toghe dure e pure Leu ha come prima linea del settore giustizia nientemeno che l’ex procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso. A parte Italia viva e Matteo Renzi, che ha spesso avuto un rapporto complicato con l’ordine giudiziario, l’attuale coalizione di maggioranza sarebbe insospettabile. La meno sospettabile, quanto meno, di poter assestare un colpo ai magistrati, e alle loro correnti. In realtà la riforma del Csm finalmente venuta alla luce oggi in Consiglio dei ministri non è avara di novità. Innalza il numero dei consiglieri da 26 a 30 (20 togati più 10laici) per separare più agevolmente chi entra nella sezione disciplinare dai consiglieri destinati alle commissioni per gli incarichi e le incompatibilità (chi giudica non nomina). Modifica il sistema di voto in modo abbastanza plateale: dal collegio unico nazionale che spianava la strada ai big dell’Anm, si arriva a circoscrizioni elettorali che più piccole non si potrebbe, perché saranno uninominali, dunque tante quanti sono i togati da eleggere (19, visto che un componente magistrato, il presidente della Cassazione, continuerà a esserlo di diritto) e perciò più favorevoli a candidature espresse dal territorio. Visto che non bastava a placare l’ansia da “spazza correnti” (la legge delega è già così ribattezzata, nella sgradevole assonanza con la “spazza corrotti”), si è innanzitutto previsto il sorteggio degli eventuali candidati mancanti, qualora non ce ne fossero dieci spontanei. Poi, una volta eletti con uninominale a doppio turno (possibilità di esprimere fino a quattro preferenze, con alternanza di genere obbligata, passa subito solo chi vince col 65 per cento, se no vanno in finale i primi quattro), i magistrati non potranno formare gruppi consiliari, né di corrente né di altra natura. Nomine di procuratori capo e presidenti di Tribunale in rigoroso ordine cronologico (addio “pacchetti”, soprattutto per la Cassazione), maggior peso all’anzianità, criteri stabiliti solo da norme aventi forza di legge e non più da regolamenti domestici di Palazzo dei Marescialli, divieto di ritorno in magistratura per le toghe reduci da mandati parlamentari o di governo. Insomma, la lista è tale da aver richiesto 41 articoli stracarichi di commi. Però, non c’è la comunque utopistica rivoluzione. E anzi, non arrivano, per il solito braccino sul match point, volée facili facili come il diritto di voto al presidente dell’Ordine degli avvocati sulle valutazioni di professionalità dei magistrati espresse dai Consigli giudiziari. E sulla separazione delle funzioni requirente e giudicante (di separare le carriere non se n’è manco voluto parlare) non ci si è spinti oltre un lieve ritocco verso l’altro degli intervalli minimi necessari per il cambio e una riduzione da 3 a 2 delle giravolte consentite nell’arco della carriera. Ma persino sul ruolo dell’avvocatura s’intravedono sprazzi di un visione comunque innovativa, innanzitutto nell’ammissione del Foro, e dell’accademia, nell’ufficio Studi e documentazione, dove si preparano le “schede” degli aspiranti procuratori capo. Non una cosetta marginale, insomma. Ecco, il menù potrà non essere dai sapori accesissimi ma sarebbe sbagliato definirlo insipido. Però il destino del ddl delega, voluto con tenacia dal guardasigilli Alfonso Bonafede, non pare in discesa. Ci saranno accuse. Da parte dell’opposizione politica, già lanciata nel denunciare l’asserito gattopardismo sulle correnti. Ma anche l’opposizione “togata” non farà sconti: ieri la corrente ora maggioritaria in Anm, Area, ha di nuovo avanzatole riserve sul sistema elettorale già illustrate a questo giornale dal segretario Eugenio Albamonte. Altri, come il leader del nascente polo moderato, Pasquale Grasso, vedono invece nell’uninominale a doppio turno un assist alla coalizione avversaria, potenzialmente formata da Area e Unicost. E Magistratura indipendente, caposaldo dello schieramento di Grasso, è così allarmata da un simile sospetto da preferire il sorteggio di tutti i candidabili. Durante l’esame in Parlamento le critiche ci saranno, e ci saranno proprio perché Pd, M5S e Leu sono fatalmente esposti all’illazione del collateralismo. È la loro croce. Se solo saranno equilibrati, come hanno cercato finora con esiti ondivaghi, passeranno per collaborazionisti delle toghe. Se tentassero impennate, colpi d’ala, sarebbero destinati a dividersi. Il ddl è appunto una legge quadro. Le norme su sistema di voto e composizione del Consiglio saranno introdotte da decreti legislativi a 60 giorni dall’entrata in vigore della delega. Il ministro ci crede. E gli si deve riconoscere la fermezza nell’intervenire su dettagli regolatori solo in apparenza secondari. Oltre che sull’apertura dei ruoli tecnici agli avvocati, fortemente voluta anche dal sottosegretario Andrea Giorgis, anche sui fuori ruolo, che non potranno candidarsi a incarichi dirigenziali per due anni. E soprattutto sul ripristino del periodo naftalina imposto ai togati uscenti prima di poter a loro volta assumere ruoli direttivi (o anche fuori ruolo). Ben quattro annidi “frugalità”: una vera botta, considerato che l’originario limite della legge istitutiva del Csm (Dpr n. 916 del 1958) prevedeva uno stop di 2 anni, ridotti a uno nel 2014 e azero (sic!) da una misteriosa manina con la Manovra 2018. Secondo le toghe estranee all’associazionismo, l’assenza di decantazione favoriva, a fine consiliatura, campagne elettorali mirate da parte dei togati uscenti, ansiosi di scegliersi “delfini” che, una volta in plenum, favorissero la carriera del mentore. Non esistono statistiche, ma una ragione per cui quei due anni sabbatici erano spariti ci sarà. Perciò, dire che il ddl “Bonafede e altri” è una delicata carezza è roba buona solo per la propaganda. Csm, la moralizzazione in due tempi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 agosto 2020 Le nuove regole sugli incarichi direttivi e le valutazioni di professionalità, introdotte sull’onda del “Caso Palamara”, sono previste in una delega che il governo dovrà esercitare entro un anno dopo l’approvazione del parlamento. Sono tante le novità previste dal disegno di legge sulla giustizia approvato ieri sera in Consiglio dei ministri - 25 pagine per 41 articoli - ma solo alcune sono previste come direttamente operative quando (e se) il testo sarà approvato. Sono quelle che riguardano essenzialmente la riforma del Consiglio superiore della magistratura, dopo che la consiliatura in corso è stata travolta dal caso Palamara. Invece le norme che incidono sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, sul modo in cui dovranno essere fatte le nomine per gli ambitissimi incarichi direttivi e semi direttivi, sul funzionamento dei consigli giudiziari, sono previste nel Capo I del testo di legge e dunque rientrano in una serie di deleghe che il parlamento dovrà affidare al governo. Significa che richiederanno tempi ancora più lunghi (12-14 mesi dopo l’approvazione della legge). C’è il rischio di uno sfasamento tra l’entrata in carica del primo Csm eletto secondo le nuove regole - l’attuale scade nel 2022 - e l’effettiva applicabilità dei criteri “moralizzatori”. Il testo di legge vede la luce dopo un iter lunghissimo. il ministro Bonafede ne aveva annunciato il varo addirittura per la fine del 2019. A febbraio 2020, invece, il Consiglio dei ministri aveva fatto partire solo una parte della riforma della giustizia, quella che dovrebbe abbreviare la durata del processo penale (attualmente è in commissione alla camera), stralciando le nuove regole sul Csm. La cui esigenza è tornata di attualità al riesplodere del caso Palamara. Molti sforzi, allora, sono dedicati alla ricerca di un percorso più trasparente per gli avanzamenti in carriera dei magistrati. Avanzamenti che sono diventati il cruccio e il chiodo fisso di buona parte della categoria da quando è stata abolito l’avanzamento solo per età. Una delle novità più importanti (nella delega) riguarda però l’inizio, l’ingresso in magistratura, quello che adesso avviene trascorsi diversi anni dal termine degli studi. È previsto invece che in futuro i laureati in giurisprudenza possano immediatamente accedere al concorso, cominciando il tirocinio obbligatorio anche prima della laurea e dopo l’ultimo esame. In più, i costosi e non troppo trasparenti corsi privati per preparare il concorso dovrebbero essere sostituiti da corsi organizzati nelle città dalla scuola superiore della magistratura, anche con borse di studio. Il testo contiene novità un tempo tabù per la sinistra: un cuneo nell’obbligatorietà dell’azione penale, una sostanziale separazione delle carriere - possibili solo due passaggi da giudice a pm o viceversa - e un ostacolo netto, quasi insuperabile per il magistrato che intende tentare con la politica. Sono previsti infatti criteri più rigorosi di ineleggibilità, limiti al ritorno nelle funzioni per chi si candida e non viene eletto, un divieto assoluto di tornare nelle funzioni giurisdizionali per chi svolge almeno un anno di mandato non solo in parlamento ma anche in un consiglio regionale o alla guida di un medio comune. Queste cautele non valgono per i magistrati di Cassazione, della Corte dei conti o del Consiglio di stato. Occhi puntati sul meccanismo elettorale per la componente togata del Csm. Già molto criticato - ieri dalla corrente di sinistra delle toghe, Area - perché a dispetto di una certa farraginosità non garantisce una corretta rappresentatività L’effetto paradosso della “giustizia ingiusta” di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio, 8 agosto 2020 La lentezza è di per sé un’ingiustizia. Non è solo questione di efficienza giudiziaria, ma riguarda le libertà personali e i beni. Se volessimo esagerare, diremmo che è un paradosso davvero grande l’accostamento ormai frequente dell’ingiustizia alla giustizia. Stiamo parlando della giustizia specificamente intesa come processo giudiziario. Affermare che la giustizia dev’essere giusta e che persiste una giustizia ingiusta non costituisce tuttavia un paradosso vero e proprio, qualcosa di contrario all’opinione o al modo comune di pensare. Non è una stranezza inaspettata la giustizia ingiusta, ma una constatazione sulla bocca di tutti, eccetto i magistrati che certamente rendono giustizia senza intenzioni ingiuste e senza volontà di farne apparire ingiusti i risultati. Un fatto è che i custodi della legge sono gli unici irresponsabili della lentezza con la quale l’applicano. Un secondo fatto è che la lentezza della giustizia è causata soprattutto da chi deve o ricorrevi o subirla. Un terzo fatto è che son troppi i casi in cui la lentezza della giustizia fa comodo a molti. Un quarto fatto è che una giustizia lenta è di per sé un’ingiustizia, a prescindere da ogn’altra considerazione legale o fattuale, sebbene agli “utenti” (sic!) danneggiati dai ritardi siano contrapposti i beneficati, per i quali la disfunzione non esiste. Pare inutile chiarire e ribadire che la lentezza della giustizia non è solo questione di efficienza giudiziaria, ma concerne la libertà individuale e i beni personali. (Efficienza ed efficacia per me pari sono: chi le vuol distinguere deponendo il rasoio di Ockam, impugni il vocabolario). Così il problema è sempre stato considerato dalle nazioni civili, cioè quelle che sanno contemperare il tempo e l’efficacia del processo. Nel 1215 la “Magna Charta” sanzionò “quale rimedio definito e pratico”, con la forma e la sostanza di un provvedimento tecnico, la clausola 29 sulla giustizia: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato del suo stato giuridico, delle sue libertà o libere usanze, messo fuori della legge, esiliato, molestato in nessun modo e noi non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese. Noi non venderemo, né rifiuteremo o differiremo a nessuno il diritto e la giustizia”. Pure nella Repubblica del Leone vigevano disposizioni dettate dalla serissima preoccupazione di conformare tempi e processi, specialmente per garantire la libertà dei cittadini. Infatti gli antichi dogi di Venezia, all’atto dell’elezione, assumevano una serie d’impegni, chiamati “promissioni”, verso lo Stato e verso il popolo. Tra queste “promissioni” se ne ricorda una del 1275, dunque quasi coeva della “Magna Charta”, che obbligava personalmente il doge “a vigilare affinché tutti i detenuti fossero giudicati entro il termine massimo di un mese dall’arresto”. Nel corso dei secoli, Britannici e Italiani hanno preso strade diverse. Come prova evidente della loro divaricazione, torna istruttivo un aneddoto di cui sono protagonisti due grandi processualisti. Ricordava Salvatore Satta nella prefazione alla quinta edizione del suo manuale: “Mi raccontava Calamandrei che una volta, recatosi in Inghilterra e sorpreso dall’empirismo processuale di quei giuristi (e, in perfetta corrispondenza, della totale ignoranza della nostra scienza) si mise ad esporre ad un altissimo giudice i nostri sistemi. Il buon uomo stette ad ascoltarlo interessato, poi gli chiese ingenuamente: ma con tutte queste belle cose, le vostre sentenze sono migliori delle nostre? Il discorso naturalmente non poté continuare”. L’aneddoto spinge a concludere sullo spunto iniziale. Esiste “l’effetto paradosso”, il fenomeno per cui oltre una certa soglia l’intervento ottiene risultati opposti. Capita appunto in Italia, dove leggi, leggine, provvedimenti, circolari, ordini, emanati dal Parlamento, dal Ministero, dal Consiglio superiore della magistratura per accelerare la giustizia, e renderla giusta al meno in questo, finiscono immancabilmente per rallentarla o, al più, lasciarla com’è. Mancata scarcerazione, la Cedu verifica se il governo ha violato i diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2020 Il ricorso degli avvocati Ghini e Di Credico è stato assegnato per la decisione alla Camera della Cedu con la richiesta all’Italia di informazioni fattuali. Continua la richiesta di spiegazioni da parte della Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo (Cedu) nei confronti del governo italiano in merito alla vicenda del detenuto recluso al carcere di Venezia che, per il tramite degli avvocati difensori Roberto Ghini del foro di Modena e Pina Di Credico del foro di Reggio Emilia, aveva presentato alla Corte di Strasburgo l’articolo 39, ovvero la misura urgente e provvisoria. Procedura accolta dalla Cedu con tanto di domande poste allo Stato italiano e poi sospesa dopo che il Tribunale di sorveglianza ha fissato subito l’udienza e conclusa con la concessione della detenzione domiciliare. Ricordiamo che parliamo del periodo a rischio di contagio da Covid 19 - non fronteggiato attraverso l’accesso a una misura alternativa alla detenzione nei confronti del recluso - e che alla Cedu si era rappresentata la configurazione della pena contraria al senso di umanità. Storia a lieto fine per il governo italiano? Nient’affatto. Andiamo con ordine facendo nuovamente un passo indietro. La Cedu con comunicazione del 22 maggio scorso ha informato la difesa di avere deciso di non indicare allo Stato italiano di adottare misure urgenti e provvisorie e contestualmente richiedeva alla difesa di depositare il ricorso entro il 2 giugno 2020. Domiciliari concessi dopo il ricorso alla Cedu - “Sicuramente - spiegano gli avvocati Pina Di Credico e Roberto Ghini - ha avuto un peso nella decisione di non adottare una misura provvisoria, la circostanza che proprio durante questa procedura urgente (e probabilmente grazie all’intervento della Corte), con tempistiche alle quali raramente si è abituati, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha fissato immediatamente l’udienza nell’interesse del detenuto per il giorno 28 aprile 2020. Nel corso di tale udienza il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha applicato il beneficio della detenzione domiciliare ritenendo non sussistente la pericolosità sociale del detenuto per le stesse motivazioni addotte dalla difesa”. Quei 51 giorni in condizioni detentive inumane a degradanti - Ma è sorto un problema. Il tribunale di sorveglianza non si era però pronunciata sulla eccepita violazione dell’articolo 3 Cedu per essere stato il detenuto esposto per ben 51 lunghi giorni in condizioni detentive inumane a degradanti al rischio di contagio da Covid 19 con il rischio di morire. Come spiegano gli avvocati, tale situazione poteva essere evitata ponendo il detenuto sin dalla prima richiesta in detenzione domiciliare avendo dimostrato, la difesa, che ricorrevano tutti i presupposti come affermato dal Tribunale di Sorveglianza che ha escluso la sussistenza della pericolosità sociale. Gli avvocati difensori, pertanto, hanno ritenuto opportuno depositare il ricorso alla Cedu il 27 maggio 2020, nonostante l’interruzione della procedura urgente, ritenendo che il detenuto avesse subito comunque un trattamento inumano e degradante durante l’attesa di ottenere la misura alternativa alla detenzione e ritenendo che lo Stato Italiano con il proprio comportamento avesse ostacolato il diritto al ricorso con informazioni in parte non perfettamente corrispondenti al vero. “Si è ritenuto, inoltre - spiegano Ghini e Di Credico - che il governo Italiano avesse impiegato un tempo eccessivamente lungo, seppure sollecitato dalla Cedu, ad adottare una decisione in punto di legittimità della detenzione con ulteriore violazione dell’art. 5 Cedu”. Ma accade una singolare coincidenza. Pochi giorni dopo la presentazione del ricorso dinanzi la Cedu, viene notificato alla difesa un ricorso per Cassazione del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Venezia con cui si impugnava la decisione del Tribunale di Sorveglianza. A oggi la Corte di Cassazione non ha fissato alcuna udienza. Il ricorso dinanzi la Cedu è stato assegnato per la decisione alla Camera - Ma veniamo al dunque. “In questi giorni - annunciano gli avvocati Ghini e Di Credico - si è appreso che il ricorso dinanzi la Cedu è stato assegnato per la decisione alla Camera e che il Presidente ha comunicato il ricorso al governo italiano con la richiesta di informazioni fattuali”. Gli avvocati evidenziano che si tratta allo stato “di un ulteriore risultato degno di attenzione se si considera che alla Camera, composta da 7 giudici, vengono assegnati solo i ricorsi che sollevano una nuova questione relativa all’interpretazione ovvero all’applicazione della Convenzione e non i ricorsi che affrontano questioni già note come accade per il Comitato”. Ciò a ulteriore conferma del fatto che la questione dell’esposizione a contagio da Covid 19 di un detenuto è del tutto nuova. “È senza precedenti - sottolineano gli avvocati Ghiri e Di Credico - e merita sicuramente un vaglio approfondito sia relativamente al divieto di trattamento inumano e degradante che sotto il profilo della celerità della decisione che un Tribunale deve rispettare quando si verte in materia di libertà di una persona oltretutto esposta al rischio di contagio da virus mortale”. Campania. Una casa per i detenuti senza fissa dimora, assegnati i fondi di Rossella Strianese ottopagine.it, 8 agosto 2020 Molte le donne, con figli, che hanno scontato la pena e non sanno dove andare. Il Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania Samuele Ciambriello, comunica che la Regione Campania, l’assessorato alle politiche sociali, di concerto con l’ufficio del Garante, con il Provveditorato regionale, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e Dipartimento Giustizia minorile e di comunità della Campania, hanno portato a termine la procedura per l’assegnazione di una somma pari a 300.000.00 euro concessi da Cassa delle Ammende - Ministero della giustizia, utili alla realizzazione di una progettualità rivolta all’accoglienza di detenuti, detenute, detenute madri con figli e giovani adulti dai 18 ai 25 anni, senza fissa dimora per un totale di 65 detenuti. Il percorso, della durata di sei mesi, si inserisce nell’ambito del più ampio “Programma di intervento della cassa delle ammende per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 negli istituti penitenziari” e si rivolge ad enti e associazioni del terzo settore che abbiano risposto agli obiettivi fissati dalla Cassa delle ammende: la collocazione in unità abitative indipendenti o di accoglienza in ambito comunitario, nel rispetto dei requisiti previsti dalla normativa vigente in materia; interventi di sostegno economico e sociale per i destinatari delle misure, con particolare riferimento alle detenute con prole minore di età; aiuto per il soddisfacimento dei bisogni primari. Le associazioni assegnatarie dei fondi per l’esecuzione del programma indicato in Campania sono: 1. Migranti senza frontiere (Salerno) 2. Cooperativa Sociale San Paolo (Salerno) 3. Less Impresa Sociale (Napoli) 4. Croce Rossa Italiana Comitato Napoli Nord (Arzano) 5. Cooperativa Sociale L’Uomo e il legno (Melito di Napoli) 6. Il Melograno (Benevento) 7. Generazione Libera (Caserta) 8. Tarita (Sant’Egidio del Monte Albino) Per il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, “L’intento è quello di garantire un alloggio - seppur transitorio - a detenuti senza fissa dimora, idonei ad una misura alternativa alla detenzione in carcere. Si tratta di garantire i diritti inalienabili che appartengono a tutti gli individui ma anche far fede alla promessa rieducativa sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione”. Il tema è molto attuale anche in riferimento al bisogno di sicurezza dei cittadini. Difatti Ciambriello conclude: “Soccorrere chi abbia scontato la propria pena assegnandogli un alloggio, significa anche rispondere all’esigenza di sicurezza sempre più presente nelle nostre città: un detenuto il cui percorso risocializzante non si sia compiuto rischia di ricadere in una recidiva che bisogna assolutamente evitare”. Roma. Penalisti trattati da intrusi: esiste ancora il diritto di difesa? di Vincenzo Comi* Il Dubbio, 8 agosto 2020 Dai vertici del Tribunale un provvedimento che prevede attività a scartamento ridotto anche per settembre. Accedere alla cancelleria per consultare fascicoli o depositare istanze è ridotta a infastidita concessione degli uffici. Va tutelata la salute. Ma non a costo di sfregiare i diritti. Che senza avvocati non esistono. Ripartono le crociere ma non riparte la giustizia penale, almeno a Roma. È del 4 agosto l’ultimo provvedimento del presidente del Tribunale di Roma che ratifica anche dal primo settembre una partenza a marce ridotte dei processi penali e di tutta l’organizzazione giudiziaria. Le udienze riprenderanno a singhiozzo, le cancellerie riceveranno gli avvocati solo su appuntamento, il deposito degli atti per tutti gli uffici avverrà presso un presidio, così detto punto unico. E intanto arrivano i rinvii delle udienze alla primavera 2021. È fondamentale garantire la sicurezza sanitaria nei luoghi di lavoro ma è altrettanto necessario attivare tutti gli strumenti disponibili per far funzionare la giustizia penale, che rappresenta una funzione prioritaria per uno stato di diritto. Il processo penale involge diritti fondamentali dei cittadini. E questi diritti sono assicurati dalla presenza e dalla prestazione professionale degli avvocati. Solo un’idea populista di giustizia può identificare l’avvocato come un estraneo al sistema, come un ostacolo al funzionamento della macchina. C’è un cartello affisso nei pressi di una scala del tribunale di Roma che ne riserva l’uso al personale interno, escludendo gli avvocati. Ed è capitato a qualcuno di essere ripreso da un solerte dipendente, salvo poi affiancarsi disinvoltamente al bar. L’accesso alle cancellerie per appuntamento fissato a discrezione del personale amministrativo senza limiti di tempo dalla richiesta costituisce una modalità di lavoro che condiziona - se non pregiudica - l’esercizio del diritto di difesa. Le informazioni sui procedimenti penali, il deposito delle istanze, la consultazione dei fascicoli non può essere rimessa alla discrezionalità delle cancellerie. Va dato atto di tante ottime individualità, ma gli uffici devono essere a disposizione dei difensori come dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero. È una deriva pericolosa che si nasconde dietro provvedimenti che, nel nome di un’emergenza sanitaria, finiscono per tenere il difensore fuori dal tribunale e quindi dal processo. Perché il processo è anche preparazione della difesa. La tecnologia è preziosa se efficace e risolutiva, se il difensore può consultare da studio i fascicoli, se può avere copia immediata degli atti o delle sentenze, se può avere informazioni in tempo reale sullo stato del procedimento. Oggi siamo ben lontani da questa realtà, purtroppo. Serve coraggio, e un intervento che organizzi il funzionamento della giustizia penale in maniera efficace e con il riconoscimento di tutti i ruoli. Avviso ai naviganti: il difensore è una parte essenziale del processo che garantisce i diritti dei cittadini, per chi si fosse distratto durante il lockdown. *Vice presidente della Camera Penale di Roma Pistoia. Nel carcere recuperati documenti d’interesse storico di Antonella Barone gnewsonline.it, 8 agosto 2020 Tra i materiali recuperati nei magazzini della casa circondariale di Pistoia e ora conservati nell’archivio storico appena completato, ci sono documenti che raccontano il carcere del passato ma descrivono anche, con rara autenticità, i cambiamenti del costume e del pensiero nel corso dell’intero secolo XIX. Tra questi, la lettera di conferimento del premio natalità di 1.000 lire a un agente per il suo quinto figlio durante il ventennio fascista o i disegni del trasferimento dei detenuti - durante i bombardamenti del 1943 - dal carcere alle Ville Sbertoli, unici luoghi dotati di sbarre poiché adibiti a manicomio. I 173 registri, selezionati durante un’attività di scarto d’archivio, costituiscono un piccolo patrimonio storico e culturale che, al momento, non potrà essere versato nell’Archivio di Stato cittadino per la mancanza di spazi e resterà a tempo indeterminato nell’istituto penitenziario. Una “ospitalità” gradita alla Direzione e soprattutto ai dipendenti che hanno effettuato, insieme gli esperti del Ministero dei Beni culturali, la descrizione delle serie archivistiche di rilevanza storica dal 1901 al 1990. “Un’iniziativa faticosa e appassionante, - racconta Rosa Cirone, presidente della Commissione Sorveglianza e scarto degli archivi, su delega della direttrice Loredana Stefanelli - a cui abbiamo cominciato a pensare durante l’attività di selezione per lo scarto di materiali, giacenti negli scaffali da tempo immemorabile. Al termine, abbiamo chiesto alla Direzione Generale Archivi del Ministero per i beni e le attività culturali (Mibac), di poter provvedere noi personale della casa circondariale a inventariare i documenti di rilevanza storica e culturale”. È stato così che Rosa Cirone, funzionaria in servizio nel carcere di Pistoia e appassionata di storia, insieme ad alcuni collaboratori ha inventariato secondo rigorosi criteri metodologici il materiale. “I tempi del trasferimento si annunciano lunghi - commenta Rosa Cirone. Nel frattempo avremo la massima cura del materiale che potrà essere consultato in sede da studenti ricercatori. Inoltre, abbiamo allo studio proposte culturali aperte al territorio per far conoscere e valorizzare questo patrimonio. Iniziative che continueranno di concerto con l’Archivio di Stato, anche dopo il trasferimento nei nuovi locali del materiale”. Messina. Coronavirus: laboratorio in carcere per realizzare le mascherine di Antonella Petris meteoweb.eu, 8 agosto 2020 Sarà realizzato un laboratorio di sartoria per realizzare 5500 mascherine personalizzate all’interno della sezione femminile del carcere di Messina “Gazzi”. Sarà realizzato un laboratorio di sartoria per realizzare 5500 mascherine personalizzate all’interno della sezione femminile del carcere di Messina “Gazzi”. Il progetto, nato con l’obiettivo di avviare percorsi di inclusione e di formazione al lavoro per le detenute nelle case circondariali italiane, è realizzato nell’ambito del programma “Si Sostiene in carcere 2019/2021” e del protocollo sottoscritto con il Dap e il Ministero Giustizia dal Soroptimist International d’Italia, l’associazione di donne di elevata qualificazione professionale impegnate nel sostegno all’avanzamento della condizione femminile nella nostra società. In programma l’allestimento di un piccolo laboratorio di sartoria e la fornitura di macchine da cucire, materiali e ogni altra attrezzatura utile per un corso che prevede anche lezioni a distanza. Il percorso di tutoraggio è affidato all’associazione D’aRteventi, che già opera con le detenute, scelta su indicazione della Direzione del carcere per meglio organizzare localmente il corso e monitorarlo in collaborazione con le educatrici e la polizia penitenziaria. “Questa di Messina rappresenta una tappa importante dei nostri progetti di inclusione sociale dopo il successo del Regalo Solidale con 100 club aderenti, 3450 borse realizzate, quasi 26mila euro messi a disposizione delle sartorie sociali delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore. La nostra attenzione si è concentrata proprio sull’empowerment e sulla valorizzazione delle potenzialità lavorative che possono aprirsi attraverso un’attività sartoriale”, ha dichiarato Mariolina Coppola, presidente nazionale Soroptimist. Pavia. Cani in carcere per aiutare i detenuti di Manuela Marziani Il Giorno, 8 agosto 2020 I reclusi di Torre del Gallo impareranno la professione di addestratore e a prendersi cura degli animali. Sono entrati nelle strutture per anziani, negli ospedali e ora anche in carcere. Alcuni cani del canile di Voghera varcheranno il cancello di Torre del Gallo per aiutare i detenuti ad avere relazioni e imparare una professione da svolgere quando non saranno più reclusi. Parte il prossimo mese un progetto innovativo voluto dal garante provinciale dei detenuti Vanna Jahier e dal direttore generale di Ats Mara Azzi e realizzato con la collaborazione del direttore del carcere Stefania D’Agostino e il centro cinofilo Il Biancospino. Saranno gli istruttori del centro di addestramento di Casteggio, infatti, ad entrare in carcere per insegnare ai detenuti ad occuparsi dei cani e ad addestrarli. “L’obiettivo, quando avranno terminato il loro periodo detentivo, è quello di dare agli ormai ex detenuti un titolo professionale - ha spiegato Vanna Jahier - perché possano trovare lavoro come operatori di pet therapy o addestratori”. Per realizzare il progetto, con l’aiuto di Ubi banca, sono state acquistate da un’azienda di Reggio Emilia quattro cucce dotate di pannelli solari per i rigori invernali e realizzata una recinzione di 12 metri per lasciare liberi i cani e farli seguire corsi di agilità. Il primo impegno di spesa è di 30mila euro, ai quali se ne dovranno aggiungere altri per la scuola di formazione. “Il dottor Giorgio Oldani della clinica veterinaria Sant’Anna - ha aggiunto il garante provinciale dei detenuti, che proprio in questi giorni ha lasciato l’incarico per la fatica che comporta seguire tre istituti e 1.600 detenuti alcuni dei quali protetti e della sezione di alta sicurezza, ma vorrebbe continuare ad occuparsi della casa circondariale di Pavia - individuerà tra gli ospiti del canile di Voghera i cani con attitudini alla pet therapy, li sottoporrà alle vaccinazioni e poi li porterà in carcere per far cominciare loro, che non hanno un padrone e una famiglia, una nuova vita”. E anche per i detenuti il rapporto può essere positivo. “L’animale non ha un atteggiamento giudicante - ha sottolineato il direttore generale di Ats, Mara Azzi - quindi i detenuti che sono stati giudicati e rischiano di esserlo ancora possono costruire con un cane un rapporto importante. Nel contempo i cani che in canile hanno rapporti spersonalizzanti, possono avere un padrone al quale legarsi. Insomma, con questo progetto si favorisce il benessere del detenuto e dell’animale”. E, nel caso in cui il detenuto durante la sua libertà abbia avuto un cane, potrà portarlo con sé in carcere. “Molti - ha concluso Vanna Jahier - hanno parenti lontani e nessuno che possa prendersi cura dei loro animali”. Dal carcere alla vita, l’opera prima di Cereda di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 agosto 2020 Solo un intellettuale folle, uno che ha toccato il carcere da dentro, pur avendone da sempre conoscenza per cultura e propensione all’ascolto, avrebbe potuto scrivere un romanzo di vita e di morte, che prende il lettore e lo fa prigioniero, lasciandogli poche speranze di avere la sua uscita di sicurezza. Chiarendo che di lì non si esce. Loris Cereda c’è riuscito. Direttore da sempre di aziende farmaceutiche, è finito a Bollate nel 2011, quando contro ogni previsione e a capo di una lista civica aveva sconfitto la sinistra del governo locale ed era diventato sindaco di Buccinasco, quella cittadina appiccicata a Milano che gli amici di Travaglio chiamano la “Platì del nord”. Perché lì ci sono le famiglie Barbaro e Papalia. Diverse generazioni con diverse storie. E già il giovane sindaco era stato preso di mira perché un giorno aveva ricevuto nel suo ufficio, senza segreti e sotto gli occhi di tutti, uno di quei giovani con il cognome sbagliato. Era uno decisamente molto scorretto, politicamente, quel sindaco. Poi qualcuno aveva cominciato ad andare dai carabinieri, un po’ con la logica del “cercate cercate, qualcosa salterà fuori”. Così Loris Cereda è stato ammanettato di colpo una mattina, con impiego di forze ed elicotteri, un paese intero messo a soqquadro, come se si fosse trattato di un capomafia. Invece la ‘ndrangheta non c’entrava niente. Ma c’entravano molto i rischi che si corrono ad amministrare la cosa pubblica. E infine è stato condannato per fatti molto presunti e molto politici e mai del tutto chiariti. Tiene molto al suo ruolo di “pregiudicato”. Non ha scritto un saggio e neanche una lagna o una protesta, ma un romanzo un po’ agghiacciante. Il libro (L’Educatore, Ex Cogita, 170 pagine, 16 euro) è nato in gran parte in carcere. Il primo pugno nello stomaco te lo dà prima ancora di introdurti alla storia di Claudio Bassetti, un tizio neanche tanto simpatico, che di mestiere fa l’educatore nel carcere più aperto d’Italia e che, a quanto dice lo scrittore, non c’entra niente con quello che lui ha incontrato a apprezzato da detenuto a Bollate. L’autore racconta sulla base della sua esperienza personale: quando era primo cittadino era stato ammanettato di colpo, come se fosse un capo mafia. Invece la `ndrangheta non c’entrava niente... di suicidio, e con lucida precisione certosina ti spiega come si fa a morire in carcere, pur in un Paese dove la pena capitale è stata da tempo abolita. “L’impiccagione alla branda del letto a castello con il lenzuolo legato a cappio, il taglio longitudinale delle vene eseguito con il filtro della sigaretta, scaldato e poi compresso per farne una lama sottilissima, il soffocamento, con il sacchetto di plastica dopo essersi tramortiti con dosi massicce di ansiolitici raccolti giorno dopo giorno dall’infermeria e conservati sfidando le notti insonni: sono tutti strumenti di morte molto più diffusi delle camere a gas, delle sedie elettriche e delle iniezioni letali”. Claudio Bassetti è un po’ come si immagina debba essere il bravo educatore, quello disponibile, che capisce il detenuto, quello che non lo identifica con il reato. Ma è anche un uomo molto solo, senza amici, che ha una relazione sentimentale con una donna che vive con un altro uomo, e non riesce a corteggiarne in modo adeguato un’altra che forse gli piace più della prima ma che, quando capisce, chiarisce che no, non ha intenzione. Una vita sempre uguale, in cui i colloqui tra l’educatore e i detenuti parlano sempre dei comportamenti. Ogni carcerato sa che il suo futuro dipende dalla relazione che l’educatore farà al direttore e in seguito quest’ultimo al magistrato che deciderà su misure alternative, liberazione anticipata e ogni provvedimento che avrà il sapore della libertà. La vita a Bollate è un po’ come ce la si immagina: celle aperte, corsi di ogni tipo, anche di scrittura, filosofia finalizzata al famoso recupero del detenuto secondo il dettato costituzionale. Un luogo, sul piano teorico, di non violenza. Un paio di volte il racconto è attraversato dal fantasma di Marco Pannella, quando si apprende che è malato, e quando muore, e i detenuti delle carceri di tutta Italia battono per tutta la notte con le pentole sulle inferriate delle celle e piangono colui che li aveva aiutati di più, che aveva creduto nel loro essere persone e non bestie feroci. Anche i più feroci, quelli che avevano sparato e ucciso. Anche loro avevano pianto, quella notte. Il paradosso di questa storia di vita e di morte è che la violenza, quella che sarà determinante per il resto dei suoi giorni, Claudio Bassetti la incontra fuori dal carcere. Quando l’uomo della sua donna, quello ufficiale, la riduce una maschera di sangue e lividi e sarà lui a portarla all’ospedale. Lui che forse non ne è neanche innamorato, ma che nella quotidianità del carcere ha costruito minuto dopo minuto il suo mondo di dignità, di regole e di giustizia. Ma è giusto quel che un uomo ha fatto colpendo una donna? E quella donna, si domanda Bassetti, avrà mai una vera giustizia? La risposta è no, e lui lo sa, è obbligato a saperlo. È così - forse anche con la memoria a quel che gli diceva il detenuto Amedeo (intellettuale e farmaceutico, in cui è facile riconoscere l’Autore), quando contrapponeva il comportamento trasgressivo alla non accettazione di una legge sbagliata - che l’Educatore diventa il Vendicatore. Ed entrerà di colpo nella sua seconda vita, quella dall’altra parte. Quella in cui sarà il suo comportamento a esser giudicato, esaminato, vivisezionato. Quella in cui le sue relazioni con i detenuti saranno nella cella con i letti a castello, nella quotidianità del cucinare, del leggere, dello scrivere, dell’andare a rapporto con un altro educatore. Quella in cui ogni giorno ci sono in gioco la vita e la morte, fino a quel corpo semi appeso e il suo tragico “c’eri cascato, eh?”. L’Educatore ha ricevuto nel 2017 il premio “Bormio conica” per gli inediti, all’interno della Milanesiana ed è stato selezionato quest’anno, dopo la pubblicazione, al concorso Masterbook per gli studenti dello Iulm. È in vendita online e nelle librerie. Non è un libro da ombrellone, ma magari anche sì. Il Covid, la Polis e il mondo che già non c’è più di Carlo Fusi Il Dubbio, 8 agosto 2020 Quel che rende questo virus diverso da tutti gli altri è che attacca il pilastro delle società avanzate, il cemento dello stare insieme, il bastione del confronto umano: la socialità. Continuano a grandinare i dati dei contagiati e dei morti, triste contabilità di una pandemia che non conosce fine. Grandinano anche le polemiche sulla gestione dell’emergenza, su come il governo si è attivato, le manchevolezze, le mezze verità. Forse dimenticando che è stato affrontato un morbo sconosciuto e potentissimo, e l’Italietta delle mille manchevolezze ha retto come e meglio di tanti altri Stati più importanti e potenti (chiedere a Donald Trump, Angela Merkel e Boris Johnson per chiarimenti). Però il punto - lo spiega bene su queste colonne Giorgio La Malfa - è che l’emergenza non può essere infinita, altrimenti diventa normalità. Un paradosso. Con il Covid bisogna convivere: e la ricetta non è aumentare a dismisura le unità di terapia intensiva. Ma più a fondo c’è un’altra, formidabile questione che atterrisce perché se si radica costringerà il mondo intero a ristrutturarsi. Quel che rende questo virus diverso da tutti gli altri è che attacca il pilastro delle società avanzate, il cemento dello stare insieme, il bastione del confronto umano: la socialità. Non possiamo più stare gli uni accanto agli altri come prima, dobbiamo distanziarci per essere sani. Tutto il contrario di quel che è successo nel corso dell’evoluzione, dai primati all’homo sapiens: tale anche perché capace di stare in compagnia dei suoi simili imprigionando fino a farlo scomparire l’impulso a sbarazzarsi del competitor. Tra “uniti” e “si vince” bisogna mettere un metro, forse due che è meglio. Ma se il senso di comunità, prima fisico poi inevitabilmente psicologico, cambia cosa dobbiamo mettere al suo posto? Se ai nostri ragazzi diciamo chela movida è un pericolo, quale alternativa gli forniamo: stare a casa da soli o a gruppetti? Se ai lavoratori spieghiamo che lo smart working è la panacea, con cosa sostituiamo il senso unitario del lavoro e co-me organizziamo la difesa dei diritti, specie dei più deboli che magari restano soli non perché non hanno il pc ma perché trasformati nei nuovi paria della contagiosità? Se agli studenti e ai professori diciamo che distanziati è meglio, come si svilupperà l’identificazione gruppale e l’esperienza della trasmissione della conoscenza? Qualche bello spirito potrebbe dire che poiché il mood è quello del rinvio, rinviamo a settembre o dopo pure l’individuazione di modelli alternativi di socialità. Ma forse non ce lo possiamo permettere. Dalla strategia della tensione alle trame politiche, sui “Servizi” bisogna mantenere il controllo di Francesco Damato Il Dubbio, 8 agosto 2020 Proroga causa Covid per il rinnovo delle cariche degli 007. Ed è polemica su Conte. Una volta, parlandone con Aldo Moro, che ne aveva un rispetto quasi sacrale, tanto da difendere apertamente come ministro degli Esteri un capo che era finito nei guai, notai che ad ogni mio accenno ai “Servizi”, come ci eravamo ormai abituati anche noi giornalisti a chiamarli quasi per ridurne l’aspetto inquietante e ingentilirli, lui ci aggiungeva l’aggettivo che avevo omesso: segreti. Egli credeva così tanto a quell’aggettivo, ed evidentemente alle sue implicazioni, che da presidente del Consiglio al suo vice Pietro Nenni, convinto che si potesse e dovesse fare un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, appunto, di fronte alle polemiche su un colpo di Stato che sarebbe stato tramato nell’estate del 1964, durante la crisi del suo primo governo di centro- sinistra, gli spiegò pacatamente che i socialisti non potevano “scivolare su un ossimoro”. A un Nenni scettico egli spiegò che l’ossimoro consisteva nel fare un’inchiesta su qualcosa che è istituzionalmente segreto. Quando da un’inchiesta parlamentare, in aggiunta peraltro al processo che stava maturando su quei fatti del 1964 raccontati da Lino Iannuzzi sull’Espresso di Eugenio Scalfari, si decise di scendere ad un’inchiesta amministrativa, Moro trasecolò davanti al ministro socialdemocratico della Difesa Roberto Tremelloni che parlava delle spese dei servizi segreti su cui rafforzare il controllo della Corte dei Conti. Per mettere sotto inchiesta parlamentare i servizi segreti i democristiani e i socialisti dovettero mandare via Moro da Palazzo Chigi, nell’estate del 1968, l’anno anche della contestazione giovanile, e inventarsi un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra, sempre col trattino. E Moro, finito in minoranza nella sua Dc, dopo averla guidata da segretario fra il 1959 e il 1963, per ritorsione - secondo i suoi avversari- o per lungimiranza - secondo i suoi estimatori- si inventò la cosiddetta e famosa “strategia dell’attenzione” verso i comunisti. Che erano destinati all’opposizione anche della nuova edizione del centro- sinistra, pur depurata della formula originaria della “delimitazione della maggioranza”. Mentre Moro parlava tuttavia di “strategia dell’attenzione” nasceva in qualche anfratto dei servizi segreti la “strategia della tensione”. Che era supportata da ambienti internazionali non esclusivamente americani o israeliani, che avevano colorato a lungo le uniche correnti di quei servizi, prima che subentrasse con Enrico Mattei alla presidenza dell’Eni anche una corrente un po’ filo-araba. La “strategia della tensione” doveva servire, fra attentati, depistaggi e altro, a fermare quella che veniva considerata una corsa a sinistra degli equilibri politici italiani, scomoda anche ai sovietici per i cambiamenti che avrebbe potuto provocare nel Pci e per l’allontanamento dal mondo “bipolare” uscito dai trattati di Yalta conclusivi della seconda guerra mondiale. Lo stesso Moro in quelle condizioni finì per rimetterci la vita con un sequestro che nelle motivazioni delle brigate rosse doveva servire a salvare l’anima del Pci interrompendone l’imborghesimento, come lo chiamavano i terroristi convinti che la Resistenza con la fine della seconda guerra mondiale fosse stata solo un’avventura interrotta, o deviata. Eppure - pensate un po’- l’esordio dei servizi segreti nelle incursioni nelle vicende politiche della Repubblica era avvenuto agli inizi degli anni Sessanta per spostare gli equilibri dal centro, dove li aveva fermamente collocati Alcide De Gasperi, a sinistra. Per quanto insultati da Ugo La Malfa come “miserabbbili”, con tre b di accento o tono siciliano, molti videro o avvertirono soldi dei servizi segreti per piegare le ultime resistenze di Randolfo Pacciardi al centro- sinistra e far vincere un decisivo congresso del Partito Repubblicano ai sostenitori della svolta in direzione dei socialisti. Erano dei servizi segreti i fascicoli a carico di tutti gli oppositori reali o solo potenziali a quella svolta: fascicoli che si moltiplicarono a tal punto da indurre ad un certo punto il governo a disporne la distruzione, compreso quello - per esempio- dedicato con pruriginosa attenzione ad una relazione extra- coniugale dell’ex presidente del Consiglio ed ex ministro democristiano dell’Interno Mario Scelba. Che si arrese alla svolta non per questo, cioè sotto ricatto, ma per la capacità che ebbe Moro di arrivarvi a tappe, con prudenza certosina. Alla fine di una riunione della direzione democristiana dedicata proprio alla preparazione dell’intesa con i socialisti Moro lesse un documento da lui stesso predisposto annunciandone l’approvazione “con le consuete riserve dell’onorevole Scelba”. Che obbiettò di essere invece favorevole al testo. Ma Moro lo pregò di non smentirlo perché quell’astensione gli serviva nel negoziato col Psi. Cui, a governo ormai formato e riuscito a sopravvivere alla prima crisi, quella appunto del 1964, propose la nomina a ministro di Scelba, che aveva rifiutato l’incarico di presidente del Consiglio fattagli dal capo dello Stato Antonio Segni per interrompere l’alleanza con i socialisti e tornare al centrismo, anche a costo di elezioni anticipate. Nenni non ne volle sapere e Moro, per ripararvi, promosse l’elezione di Scelba a presidente del Consiglio Nazionale della Dc. Vennero poi i tempi, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica, di incursioni ancora più pesanti dei servizi segreti, o della loro parte “deviata”, nelle vicende politiche d’Italia. Se ne sta occupando un processo d’appello a Palermo sulla “trattativa”, riconosciuta da una sentenza di primo grado, fra pezzi dello Stato e la mafia finalizzata a farla recedere dalla stagione delle stragi. Nacquero anche fra le pieghe dei servizi segreti i guai del mitico magistrato antimafia Giovanni Falcone. Che, già osteggiato da non pochi colleghi e dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, fra gli altri, che lo accusava pubblicamente di coprire nelle sue indagini i livelli cosiddetti politici di “Cosa nostra”, egli si trovò ad un certo punto a che fare con un pentito convinto di avere buone informazioni sul ruolo che uomini dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, se non lui direttamente, avrebbero avuto addirittura nell’assassinio, nel 1980, del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale capo dello Stato. Insospettito dalle contraddizioni del pentito, Falcone si fece consegnare dal direttore del penitenziario in cui era rinchiuso l’elenco delle persone che erano andate a parlargli negli ultimi tempi. E scoprì alcune visite rimaste, diciamo così, anonime, senza l’indicazione delle persone. Ciò avveniva quando queste appartenevano ai servizi segreti. Falcone avvertì puzza di bruciato e, anziché credere al pentito, lo incriminò per calunnia. Da allora la sua permanenza a Palermo si fece impossibile. Egli fu costretto a cambiare aria con l’aiuto dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, di Andreotti a Palazzo Chigi e di Giuliano Vassalli e poi Claudio Martelli guardasigilli, trasferendosi a Roma come direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia. Ma non riuscì lo stesso a scampare alla morte con la strage di Capaci del 1992, cui seguì quella che costò la vita al collega e sodale Paolo Borsellino. Mi chiederete a questo punto quale attualità possa avere questa rievocazione di fatti e uomini riconducibili ai servizi segreti in questo momento in cui altri sembrano essere i problemi sul tappeto del governo e della maggioranza: stato di emergenza virale appena prorogato mentre scoppiano polemiche sul confinamento disposto a marzo in tutta Italia, difformemente dalle indicazioni limitative del comitato tecnico-scientifico, crisi economica, utilizzo dei fondi europei per la ripresa, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, riforma del processo penale promessa in cambio della prescrizione breve ormai in vigore dall’inizio di quest’anno, riapertura delle scuole, riforma dello sport contestata al ministro del ramo dai compagni pentastellati di partito, rimpasto ministeriale negato a parole e perseguito dietro le quinte, nuova legge elettorale, referendum confermativo della riduzione di 345 seggi parlamentari e contemporanee elezioni regionali e amministrative d’autunno. Purtroppo in questo groviglio di problemi si è inserito anche quello di una proroga degli incarichi ai vertici o piani alti dei servizi segreti, anche di quelli non rinnovabili per vecchie norme superate un po’ alla chetichella con un articolo inserito in uno dei decreti legge dettati dall’emergenza virale. Sfuggita anche all’attenzione, a quanto sembra, del Quirinale fra la sorpresa di una parte della maggioranza - particolarmente il Pd, da cui sono giunte al governo richieste correttive, anzi soppressive, nel percorso parlamentare di quel decreto- questa storia ha procurato al presidente del Consiglio in persona un attacco molto circostanziato del quotidiano La Repubblica. Il cui specialista Carlo Bonini, quasi completando o stringendo una stretta critica verso Conte cominciata col recente cambiamento della proprietà del giornale, ha usato parole ed espressioni pesanti, curiosamente rimaste senza risposta: compresa la rappresentazione di un presidente del Consiglio che si fa consigliare in una materia così delicata e minata da un generale “disinvolto nella vita privata”. Che ha evidentemente un ruolo in “questa partita avvelenata - ha scritto Bonini- che divide il governo e ha il sentore fetido della cultura del ricatto”. Non è francamente questo ciò di cui Conte aveva ed avrebbe bisogno in un passaggio già così difficile della sua esperienza a Palazzo Chigi, pur confortato da un indice di gradimento personale abbastanza alto in tutti i sondaggi. Che purtroppo non bastano a risolvere i problemi di un presidente del Consiglio cui proprio, e sempre, su Repubblica il costituzionalista Michele Ainis ha appena rimproverato i troppi rinvii cui ricorre, sino a paragonarlo a “Fabio Massimo, il temporeggiatore”. Fu un “dittatore” romano che un po’ si illuse di poter sconfiggere Annibale temporeggiando, appunto. Migranti. Tampone subito a chi sbarca. Dopo il pasticcio dei test il Viminale corre ai ripari di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 agosto 2020 I test sierologici si sono rivelati inaffidabili, il ministero cambia il protocollo medico. Per la quarantena in arrivo una seconda nave in Calabria, pronta la tendopoli in Sicilia. La caserma Serena a Treviso più che un focolaio è un rogo: 246 contagiati su 281. Ancora migranti positivi in fuga, questa volta dal centro di Ferrandina a Matera, ospiti e operatori di una struttura a Pergusa blindati dentro dopo sei tamponi positivi, il governatore dell’Abruzzo Marsilio che presenta un esposto-denuncia in procura, quello della Basilicata Bardi che chiude le porte ai richiedenti asilo. E i numeri che certificano la nuova impennata di contagi, un terzo dei quali riconducibili a focolai in centri di accoglienza, con gli amministratori di centrodestra pronti a cavalcare l’emergenza. Il Viminale rafforza il suo piano: arriva una seconda nave per la quarantena che dalla prossima settimana stazionerà davanti alle coste della Calabria e si mette a punto la prima delle due tendopoli da 300 posti, quella di Vizzini, nel Catanese, pronta ad essere utilizzata (solo per i 14 giorni necessari) se le navi quarantena fossero piene. Potrebbe accadere già dai prossimi giorni: la Azzurra (che ieri ha preso a bordo altri 350 migranti dall’hotspot di Lampedusa) è già alla sua capienza massima di 700, 12 dei quali risultati positivi e isolati in un ponte “zona rossa”. Per le prossime due settimane la nave non potrà più ospitare nessuno, il mare mosso per ora ha fermato gli sbarchi ma se dovessero arrivare di nuovo a centinaia potrebbero essere dirottati nella tendopoli. Ma soprattutto si punta a cambiare il protocollo sanitario, prevedendo con una apposita convenzione con la Regione siciliana, tamponi subito per tutti i migranti che sbarcano e non soltanto i test sierologici che si sono dimostrati poco affidabili anche perché hanno un periodo finestra di dieci giorni. Decine di migranti provenienti dall’hotspot di Lampedusa con un certificato di negatività al test sierologico sono poi risultati positivi al tampone nelle strutture di accoglienza delle diverse regioni d’Italia in cui nel frattempo erano stati redistribuiti moltiplicando i contagi tra gli ospiti dei centri. È così che si sono accesi tanti nuovi focolai che hanno fatto schizzare l’Rt (l’indice di contagio) in regioni come la Sicilia, la Basilicata, l’Abruzzo fino a qualche settimana fa con pochissimi casi e che ora temono anche un danno di immagine per quel che resta della stagione turistica. Oltre alla paura che il contagio esca da quei centri da cui in tanti riescono a fuggire creando allarme nella popolazione. “Da quei centri non deve uscire nessuno. Tamponeremo gli ospiti ogni settimana”, assicura il governatore veneto Zaia. I test sierologici, dunque, non bastano ma l’effettuazione dei tamponi è a carico del servizio sanitario locale e le Asl dei porti di sbarco dovrebbero sopportarne tutto il peso. A Lampedusa la Regione siciliana ha fatto arrivare un’attrezzatura per analizzare i tamponi in loco e la strada individuata dal Viminale è quella di utilizzarla per testare con sicurezza lo stato di salute di tutti i migranti prima di redistribuirli. “Stiamo lavorando per cercare strutture sicure per la quarantena da dove i migranti non possono allontanarsi. Dalle navi e dalle tendopoli, che non saranno assolutamente utilizzate per accoglienza stanziale, non esce nessuno - spiegano al Viminale - Non è facile trovare altri siti anche perché molti amministratori locali oppongono un rifiuto alle richieste di mettere a disposizione strutture giudicate adeguate”. La Sicilia, chiamata a sostenere il peso maggiore, chiede un protocollo sanitario. “Questo caos - dice l’assessore alla Salute Razza- è frutto delle indecisioni di chi a Roma sarebbe chiamato a decidere, ma che ad oggi non ha ancora definito un protocollo sanitario per la gestione dei migranti. La Regione sta agendo ben oltre le proprie competenze ma la situazione è insostenibile”. Non esistono vere e proprie linee guide per la gestione dell’accoglienza. Nei centri ad ogni nuovo positivo si ricomincia la quarantena. Dall’Arci arriva una proposta: utilizzare i 5.000 posti vuoti nel circuito dell’accoglienza diffusa. “Mandare le persone nei grandi centri significa creare nuovi focolai - osserva Filippo Miraglia - in appartamenti con poche persone, seguiti da operatori specializzati e mediatori, la gestione sarebbe molto più controllata”. Migranti. Un patto tra Libia, Turchia e Malta per fermare i barconi Il Manifesto, 8 agosto 2020 Verrebbe da dire: attenti a quei a quei tre. Il patto siglato giovedì a Tripoli tra Malta, Libia e Turchia rischia di essere qualcosa di diverso e di più dell’ennesimo accordo per fermare i migranti nel Paese nordafricano impedendogli di arrivare in Europa. Di fronte al premier libico Fayez al Serraj, il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavasoglu e quello maltese Evarist Bartolo hanno deciso di fornire aiuti sotto forma di mezzi e finanziamenti alla cosiddetta Guardia costiera libica, rafforzando allo stesso tempo i confini meridionali del Paese dal quale transitano i migranti. “L’immigrazione clandestina non rappresenta una minaccia solo per l’Ue ma anche per la Libia” è stato spiegato a giustificazione del sostegno promesso. L’accordo non sì ferma però alla sola repressione dei migranti, ma mente in discussione anche un’iniziativa europea come la nuova missione Irini che ha lo scopo di fermare il contrabbando di armi verso la Libia, già contestata da Ankara e Tripoli, secondo le quali favorirebbe il generale Khalifa Haftar a cui i rifornimenti arrivano principalmente per via aerea e terrestre, e ora anche dalla Valletta. Non è certo una novità che Malta spinga perché la Libia moltiplichi gli sforzi per fermare i migranti. Nei mesi scorsi ha chiesto infatti all’Unione europea di investire cento milioni di dollari in aiuti umanitari al Paese nordafricano in modo da rallentare le partenze. Ma soprattutto avrebbe stretto un accordo per permettere a Tripoli di intercettare i barconi con i migranti prima del loro arrivo in acque maltesi. A rivelarlo è stato a novembre dell’anno scorso il Sunday Times of Malta, secondo il quale l’accordo prevedrebbe che le forze armate maltesi, delle quali fa parte anche la Marina, forniscano indicazioni circa la posizione dei barconi in modo da permettere alla Guardia costiera di Tripoli di intervenire bloccandoli. C’è poi il memorandum siglato da Tripoli con la Valletta, e reso noto nei mesi scorsi da Avvenire, che prevede la creazione di centrali operative comuni tra i due Paesi per coordinare la ricerca dei barconi favorendo così il loro ritorno in Libia dove i migranti vengono internati nei centri di detenzione gestiti dal governo. Giovedì il ministro maltese Bartolo ha affermato che la Guardia costiera libica, la stessa che meno di due settimane fa ha sparato e ucciso tre migranti che tentavano di fuggire, avrebbe “salvato” e riportato sulle sue coste 6.265 uomini, donne e bambini che tentavano di attraversare il Mediterraneo. L’accordo prevede inoltre il ritorno delle compagnie maltesi e turche in Libia e il ripristino dei collegamenti aerei Libia, Malta e la Turchia. Per Ankara il vantaggio è invece doppio. Non solo può contare su un alleato interno all’Unione europea in un momento in cui i rapporti con Bruxelles sono a dir poco tesi, ma soprattutto rafforza ancora di più il suo controllo sulle due principali rotte, quella balcanica e quella del Mediterraneo centrale, attraverso le quali i migranti tentano di arrivare in Europa. Stati Uniti. In prigione tutta la vita per aver rubato un tagliaerba di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 8 agosto 2020 Il fatto avvenuto in Louisiana: l’afroamericano 23 anni fa è stato arrestato per furto, durissima la sentenza poi confermata dall’Alta Corte. Una storia da film, di quelle con avvocati battaglieri, impegnati per i diritti civili e imputati condannati ingiustamente che riescono a dimostrare le storture del sistema giudiziario statunitense. Nella realtà però la stragrande maggioranza delle volte le cose vanno decisamente peggio e non c’è scampo da detenzioni spropositate e giurie spesso composte da soli bianchi. È quello che è successo a Fair Wayne Bryant, un uomo afroamericano di 62 anni, condannato in Lousiana nel 1997 per un tentativo di furto con scasso semplice. Aveva tentato di rubare due decespugliatori da un negozio, la pena è stata enorme: ergastolo. Attraverso il suo avvocato, Peggy Sullivan, nel 2018 ha fatto appello al Second Circuit Court chiedendo l’annullamento della sentenza in quanto “eccessiva e incostituzionalmente dura”. Due giorni fa però la Suprema Corte dello stato ha respinto la richiesta del condannato e confermato la pena del carcere a vita. Il verdetto è stato di 5 voti a favore contro 1. L’unica dissenziente è stata la giudice capo Bernette Johnson, che ha motivato la sua decisione scrivendo nero su bianco: “la condanna inflitta è eccessiva e sproporzionata rispetto al reato commesso dall’imputato”. La giudice Johnson è l’unica donna e soprattutto l’unica nera della Corte, il resto sono tutti uomini bianchi. Negli Usa esistono tre tipi di ergastolani, quelli che non usciranno mai in libertà condizionale, coloro che invece potrebbero goderne e i cosiddetti “Virtual”, persone formalmente non condannate all’ergastolo, ma a pena talmente alte (più di 50 anni), da essere equivalenti al carcere a vita. In questo sistema il 48,3% dei detenuti sono afroamericani, il 32,4% bianchi, e il 15,7% ispanici. La percentuale discriminatoria appare evidente se si considera che su una popolazione di circa 325 milioni di persone i neri sono il L’ergastolo a Bryant è dovuto ai suoi precedenti. Fu condannato nel 1979 per tentativo di rapina a mano armata, nel 1987 per possesso di oggetti rubati, per aver tentato di falsificare un assegno del valore di 150 dollari nel 1989 e per semplice furto con scasso di un’abitazione nel 1992, tutto prima del suo arresto del 1997 per il fallito tentativo di rubare i decespugliatori. Reati di poco conto, per questo la giudice Johnson ha spiegato che “ciascuno di questi crimini è stato uno sforzo per rubare qualcosa. Tale piccolo furto è spesso determinato dalla povertà o dalla dipendenza. È crudele e insolito imporre una condanna all’ergastolo ai lavori forzati per questo”. La giudice ha anche toccato un argomento sensibile, quello economico: “dalla condanna nel 1997, l’incarcerazione di Bryant è costata ai contribuenti della Louisiana 518.667 dollari. Arrestato a 38 anni ha già trascorso quasi 23 anni in prigione e ora ha più di 60 anni. Se vivrà altri 20 anni, i contribuenti della Louisiana avranno pagato quasi un milione di dollari per punire il signor Bryant”. Tutto ciò per un furto fallito di due tagliaerba. Afghanistan. Diritti delle donne, è morta Cristina Cattafesta fondatrice del Cisda di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 agosto 2020 Si è spenta a 64 anni, l’attivista milanese, nota per il suo impegno a sostegno delle donne afghane e curde. L’addio delle compagne “Sei stata capace di creare ponti, oltre ogni confine”. “Sei stata capace di accogliere e sollecitare il bello, di tessere reti e creare ponti, oltre ogni confine e durata nel tempo. Hai raccolto sogni adolescenti e li hai trasformati in realtà, con spontaneità e vicinanza, schiettezza e sensibilità. In tante abbiamo affidato a te le nostre difficoltà se non, talvolta, un pezzo di vita, e tu le hai fatte tue, mostrando una cura e un’umanità che raramente si incontrano”. È mancata oggi a Milano Cristina Cattafesta, 64 anni. Pacifista, femminista e attivista è stata tra le fondatrici della Casa delle Donne Maltrattate di Milano e, nel 2004, del Cisda (Coordinamento Italiano a sostegno delle donne afghane). Impegnata da sempre per la parità di genere, ha fatto conoscere in Italia la battaglia di attiviste afghane come Malalai Joya e Selay Ghaffar e ha dato sostegno e voce alle realtà più martoriate dell’Afghanistan e del Kurdistan, anche quando l’attenzione mediatica su queste regioni è calata. Cattafesta era stata arrestata dalle autorità turche nel luglio 2018 mentre si trovava in missione per monitorare le elezioni nella regione del Kurdistan turco.Rilasciata dopo 15 giorni, aveva spiegato di essere stata trattenuta in un “palazzo di lacrime”, insieme ad altre donne di cui aveva raccolto le testimonianze, pur essendo lei stessa prigioniera. Sulla pagina Facebook del Cisda le sue compagne hanno scritto: “Oggi Cristina ci ha lasciate. Dopo una malattia dolorosa, intensa e rapida, tanto da non consentirci di realizzare cosa stesse accadendo. Né, per tante, di abbracciarti, un’ultima volta. E, nel dolore, ci siamo rifugiate nelle numerose immagini dei momenti che ciascuna di noi ha condiviso con te, tra decenni di attività politica in Italia, appuntamenti in giro per l’Europa e dozzine di delegazioni nel paese dove tu, per prima tra noi, hai lasciato il cuore. L’Afghanistan. Immagini, sempre, di sorrisi e complicità, rassicuranti e divertenti, nonostante le difficoltà di certi impegni, che ci hanno legate profondamente. Come compagne, come amiche. Siamo unite dall’importanza che ha la storia di ogni persona. Ci lasci, in un tempo sospeso, con un’eredità collettiva immensa: ci impegneremo a custodirla, strette intorno alla tua presenza indelebile, alla tua mancanza incolmabile. Abbracciamo forte le sorelle e il compagno Edoardo”. Libano. I sospetti sull’esplosione a Beirut: “Ruolo straniero, forse un razzo” di Giordano Stabile La Stampa, 8 agosto 2020 Parlamento assediato e tensione nella capitale. Il presidente Aoun ipotizza “un’interferenza esterna, faremo un’inchiesta”. Dopo quattro giorni appare Nasrallah che si difende in tv: non c’erano armi nel deposito, il porto non lo controlliamo noi. In una Beirut ancora sanguinante, che continua a tirare fuori i suoi morti dalle macerie, il popolo della rivoluzione è tornato ad assediare il Parlamento, nel centro sfregiato della capitale. Una notte di scontri e lanci di lacrimogeni. A differenza dello scorso autunno, però, la classe politica ha capito che non potrà risolvere la crisi prendendo ancora tempo. E ieri hanno parlato i due uomini del “compromesso storico” che regge il Paese dal 2016. Il presidente cristiano Michel Aoun e il leader degli sciiti Hassan Nasrallah. Poche battute, per respingere ogni responsabilità e dire no a un’indagine internazionale, chiesta giovedì anche da Emmanuel Macron. Il suo faccia a faccia con la gente nelle vie devastate del quartiere di Gemmayze è suonato come un monito e un allarme per un potere arroccato nei palazzi, che non può più permettersi di scendere nelle strade senza correre il rischio di essere linciato. Aoun ha parlato davanti alla sua residenza sulla collina di Baabda, pressato dai reporter. Ha ribattuto che un’inchiesta esterna avrebbe come risultato di “diluire la verità” e sarebbe un attentato alla sovranità nazionale. Poi ha alluso a “interferenze straniere” e ribadito che l’indagine dovrà chiarire se lo scoppio è stato causato da “un razzo o una bomba” oppure è stato solo un incidente dovuto alla negligenza delle autorità portuali. “Venti dirigenti”, ha specificato, sono già agli arresti. Ma l’accenno al razzo si iscrive nelle teorie complottiste che dilagano fra una popolazione sotto choc. Un video che mostrava l’arrivo di un missile sul porto è stato sbugiardato dai “debunker” sul Web. Una bufala con immagini manipolate, pure in maniera rozza. Le voci sulla presenza di “jet israeliani a bassa a quota” continuano però a circolare. Giocano a favore di Hezbollah, ma Nasrallah non ha imboccato la strada delle speculazioni. In un discorso in tv di soli sette minuti il segretario generale del Partito di Dio ha tenuto soprattutto a precisare che i suoi uomini “non controllano il porto, e non sanno che cosa ci sia custodito”. E che in ogni caso non c’erano “armi, esplosivo, e neppure nitrato d’ammonio” appartenenti al movimento sciita. Poi Nasrallah ha chiesto “un’inchiesta trasparente, giusta, indipendente”, condotta dall’esercito e non da altri. Ha sottolineato come “tutte le parti politiche dicono che l’esercito libanese è l’unica istituzione che gode di piena fiducia: bene, che sia affidata a lui”. Ha capito il clima: “La verità deve essere svelata o avremo una crisi del sistema e della stessa entità libanese”. Non è il momento “per i regolamenti di conti: il Paese ha bisogno di calma e solidarietà”, ha concluso. È una linea difensiva, spia di uno stato di imbarazzo e difficoltà. Spazzati via i complottismi, resta da stabilire come una metropoli di oltre due milioni di abitanti abbia potuto convivere per quasi sette anni con una piccola bomba atomica pronta a esplodere. Le 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio sono arrivate con il mercantile Rhosus, battente bandiera moldava, partito dal porto georgiano di Batumi nel settembre del 2013. Era diretto in Mozambico ma problemi tecnici lo costringono a far tappa a Beirut e a scaricare la sostanza pericolosa. Poi i creditori l’assediano, l’equipaggio rimane senza viveri, sbarca e viene arrestato, e alla fine il carico rimane lì fino all’esplosione del 4 agosto, nonostante sei allarmi lanciati dalle dogane. Una concatenazione di irresponsabilità che dicono tutto sullo stato di disfacimento dello Stato libanese. Va ricostruito, nelle infrastrutture e nella fiducia. Dopo il blitz di Macron, la Francia guida la missione di soccorso internazionale, e ha già organizzato una conferenza di Paesi donatori. Si terrà domani, in videoconferenza. Parteciperanno anche il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e il commissario agli aiuti Janez Lenarcic. L’inquilino dell’Eliseo ha poi parlato al telefono con Donald Trump. I due hanno concordato sulla necessità “di inviare aiuti immediati”. Trump dovrà vincere le perplessità del segretario di Stato Mike Pompeo. Le immagini del cratere del porto spingono però alla solidarietà. Tutto intorno ci sono ancora i corpi sepolti dei dispersi. Ieri il bilancio delle vittime è salito a 158, nel calcolo del segretario della Croce rossa libanese George Kettaneh. Alcuni cadaveri sono stati ripescati in mare, altri sotto metri di terra e detriti. Le speranze di trovare sopravvissuti sono a questo punto a zero. I soccorritori continuano, spinti anche dai famigliari degli scomparsi, madri in lacrime sulle televisioni nazionali, una disperazione che comincia ad assalire la gente, dopo l’adrenalina dello choc. L’altro antidoto è il lavoro collettivo nelle strade, un senso civico mostrato anche durante le prime manifestazioni lo scorso ottobre. Centinaia di cittadini spazzano, rimuovono, si aiutano. E su un punto, tutti concordano. Gli aiuti dovranno andare “alla società civile, non ai politici”. Si moltiplicano le iniziative private, raccolte di fondi, come quella della stessa Croce rossa o di Impact Lebanon. La rinascita del Libano può partire da qui. Egitto. Zaky, sei mesi dall’arresto: nuovo appello di Amnesty La Repubblica, 8 agosto 2020 Amici e associazioni non si arrendono per lo studente dell’Alma Mater: “Liberatelo”. La sua sagoma anche al cinema in piazza a Bologna. “Sei mesi di detenzione su accuse del tutto infondate sono un periodo di tempo inaccettabile, rinnoviamo gli appelli alla scarcerazione rivolti al Governo che lo tiene in carcere e anche al Governo dell’Italia, Paese di cui Patrick sempre più sta diventando parte, cittadino onorario e soggetto di tante iniziative di solidarietà”. Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, lancia la nuova campagna social per chiedere la scarcerazione del ricercatore egiziano che dall’8 febbraio è formalmente in stato di arresto, e in cella, in Egitto con accuse che annoverano anche la propaganda sovversiva. Patrick stava frequentando un master europeo in Studi di genere all’Università di Bologna. Domani, a sei mesi dall’arresto formale del 29enne, Amnesty International lancerà un “tweet storm” con l’hashtag #freepatrickzaki per tenere alta l’attenzione sul caso e tornare chiedere libertà. Era il 7 febbraio quando, appena atterrato al cairo per passare qualche giorno con la famiglia, Patrick Zaki venne arrestato e, due giorni dopo, condotto nel carcere di Mansoura - sua città natale - con le accuse di fomentare le manifestazioni e il rovesciamento del governo, pubblicare notizie false sui social minando l’ordine pubblico, promuovere l’uso della violenza e istigare al terrorismo. Accuse che ha sempre respinto. Oggi, sei mesi dopo, il 28enne è ancora in carcere, e pochissimo si sa riguardo le sue sorti. Quasi un mese dopo l’arresto, è stato condotto a quello di Tora, al Cairo, dove sono detenuti centinaia di attivisti su cui pendono le sue stesse accuse. Si sa che c’è stata una pandemia, entrata anche negli istituti penitenziari e che ci sono state, e continuano a esserci, decine di proteste, lettere, sit-in, manifestazioni in tutto il mondo per chiedere la sua liberazione. Zaki ha scritto una lettera per rassicurare sulle sue condizioni di salute, e lo scorso 27 luglio, inaspettatamente, è apparso in tribunale, cosa che non accadeva dal giorno del suo arresto (l’hanno visto i suoi legali, la sua famiglia no, non è stata ammessa). In mezzo, gli appelli dei suoi amici, le richieste di Amnesty e le dichiarazioni dei politici italiani; i murales sparsi per l’italia - il più noto, l’abbraccio di Regeni a Zaky, “stavolta andrà tutto bene” - la cittadinanza onoraria a Bari e, ancora prima, Bologna. Bologna, la sagoma di Zaky in biblioteca: “Ti aspettiamo in Salaborsa” Bologna, la sua città adottiva. Era l’agosto 2019 quando Zaky ì arrivò sotto le due torri per frequentare il master “Gemma” dell’Erasmus Mundus, in studi di genere e delle donne. Bologna non smette di chiedere libertà per il suo studente. L’artista e attivista Gianluca Costantini ha realizzato il disegno che ritrae Zaky tra il filo spinato, soggetto dell’enorme manifesto affisso prima sul cartellone pubblicitario che ricopre la facciata di palazzo dei Notai, poi sui ponteggi del cantire della Garisenda. È sempre Costantini l’autore delle sagome del ragazzo sparse nele biblioteche universitarie e anche in piazza Maggiore, dove c’è il del cinema ogni sera. “Patrick, voglio ascoltare le tue storie e raccontarti le mie. Devi averne molte da raccontare. Anche se ora sei da solo in prigione, non hai mai abbandonato la tua lotta, così noi non abbiamo lasciato che il fuoco si spegnesse”: inizia così la lettera che Shilpi Gupta, laureata al master Gemma e dottoranda dello stesso master, ma all’università di Granada, ha scritto. “Caro Patrick, ti aspettiamo. Tua mamma vuole cucinare con te, tuo padre muore dalla voglia di guardarsi con te un film sul divano, i tuoi amici non vedono l’ora di fare serata con te. Ci manchi tanto, Patrick. Ps: racconto sempre di te al mio bambino di sette mesi. Ascolta la tua storia, e i suoi occhi brillano per il tuo coraggio”. Cina. Quarto cittadino canadese condannato a morte per droga Associated Press, 8 agosto 2020 La Cina ha condannato a morte un quarto cittadino canadese per accuse di droga in meno di due anni, a seguito della crisi tra i due Paesi per l’arresto in Canada di una dirigente del gigante tecnologico cinese Huawei. Ye Jianhui è stato condannato a morte il 7 agosto 2020 dal Tribunale Intermedio Municipale di Foshan, nella provincia meridionale del Guangdong. Ye è stato giudicato colpevole di produzione e trasporto di droghe illegali, ha detto il Tribunale in una breve dichiarazione. Anche un altro imputato nel caso è stato condannato a morte, mentre altri quattro sono stati condannati a pene comprese tra sette anni e l’ergastolo. Le condanne a morte in Cina vengono automaticamente sottoposte alla più alta corte del Paese per la revisione. Il Tribunale non ha fornito dettagli sulle accuse contro Ye e gli altri. Tuttavia, il sito web del giornale Yangcheng Evening News, con sede nella vicina metropoli di Guangzhou, ha reso noto che Ye e il co-imputato Lu Hanchang avevano cospirato con altri per produrre e trasportare droghe tra maggio 2015 e gennaio 2016. La polizia avrebbe sequestrato circa 218 kg di cristalli bianchi infusi con il Mdma (Ecstasy) in una stanza usata dai due, trovando altri 9,84 g di sostanza in sacchetti, all’interno di residenze usate da Lu e gli altri, ha detto il giornale. I rapporti tra Canada e Cina si sono deteriorati a seguito dell’arresto da parte del Canada alla fine del 2018 di Meng Wanzhou, dirigente dell’azienda e figlia del fondatore di Huawei, all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti, che vogliono la sua estradizione poiché accusata di frode nei rapporti della società con l’Iran. Il suo arresto ha fatto infuriare Pechino, che parla di mossa politica volta a frenare l’ascesa della Cina come potenza tecnologica globale. La condanna di Ye è arrivata il giorno dopo che il connazionale canadese Xu Weihong è stato condannato a morte dal Tribunale Intermedio Municipale di Guangzhou, sempre nella provincia di Guandong. Il canadese Robert Schellenberg è stato condannato a morte per traffico di droga in un nuovo improvviso processo, poco dopo l’arresto di Meng, infine un cittadino canadese identificato come Fan Wei è stato condannato a morte nell’aprile 2019 per il ruolo svolto in un caso di traffico internazionale di droga.