Carceri blindate, visitatele voi che potete di Rita Bernardini Il Riformista, 7 agosto 2020 Deputati, senatori e Consiglieri regionali non hanno bisogno di autorizzazione per entrare. Usino le loro prerogative per essere presenti in tutti gli istituti di pena in questo momento così difficile e oscuro. La vita è ripresa ovunque tranne che nelle prigioni: colloqui limitati, pochissimi volontari, lavoro e studio azzerati. E dal Dap una stretta anche sul pannelliano “ferragosto in carcere”. Trentatré sono i detenuti che si sono suicidati in Italia dall’inizio di quest’anno fino alla fine del mese luglio. Nell’anno “horribilis” 2009, quando si raggiunse il picco massimo con 72 suicidi in 12 mesi, i detenuti che si erano tolti la vita fino al 31 luglio erano stati trentuno, due in meno. Nel conteggio dei 33, sono esclusi i 13 che sono morti in coincidenza con le “rivolte” della prima decade di marzo che, a quel che si sa fino a questo momento, sarebbero deceduti per overdose da medicinali sottratti dalle farmacie delle carceri. Insomma, qualcosa che somiglia molto al volerla fare finita con la vita. Il modo prescelto dai 33 detenuti per auto-sopprimersi in questo 2020 è stato quello del cappio stretto attorno al collo. In quattro casi però si sono suicidati usando il gas delle bombolette per cucinare in cella. Dal quadro desolante descritto in queste prime righe credo risulti evidente quanto sia grave la condizione dei detenuti tossicodipendenti ristretti nelle patrie galere. Ma questo è stato l’anno del Coronavirus, cioè l’anno che ha stravolto la vita dell’intera popolazione terrestre, ancor oggi angosciata dalla possibile ripresa della diffusione della pandemia e dalle conseguenze future: economiche, sociali, democratiche e di messa in discussione delle libertà personali; un conto che l’era del Covid-19 rischia di far pagare salatissimo a tutta l’umanità. Se ci addentriamo nel microcosmo della realtà carceraria, c’è un di più che occorre considerare per, mi auguro, affrontarlo. Infatti, come ha ben spiegato il Garante Nazionale Mauro Palma, se è vero che il lockdown ha implicitamente funzionato quale esperienza unificante ponendo tutti nella stessa situazione di privazione della libertà, nei luoghi dove la libertà era già precedentemente negata come le carceri, l’ansia per il rischio di un contagio da cui sarebbe stato impossibile difendersi si è aggiunta a quella che tali spazi chiusi di per sé generano. Una doppia ansia che è spesso sfociata nell’angoscia. E mentre bene o male la vita nella realtà quotidiana è ripresa, nelle carceri possiamo dire che è ancora tutto pressoché chiuso. I colloqui del detenuto con i familiari e con i figli minori, oltre ad essere ridotti nel numero e nel tempo, sono limitati alla presenza di un adulto e di un minore; gli incontri inoltre si svolgono con il vetro divisorio e con il citofono come nel famigerato 41bis. Le attività trattamentali - che già erano scarse in precedenza - sono azzerate quanto a lavori un minimo qualificanti e a possibilità di attività di studio. La presenza della società “esterna” è ridotta all’osso quanto a volontari e ad associazioni che prestano la loro opera in carcere. E tutto ciò al netto delle esasperazioni quotidiane di detenuti che non vengono curati anche se gravemente ammalati, di casi psichiatrici e di tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove per essere seguiti e curati e, invece, stanno in sezione, di impossibilità di avere contatti costanti con educatori, psicologi e assistenti sociali. Per non parlare dei magistrati di sorveglianza, ancor di più lontani che in passato dal seguire quel percorso individualizzato che il codice penitenziario prevede a proposito della riqualificazione del detenuto e del suo reinserimento futuro nella società. Ciò che non manca sono certamente le “circolari” provenienti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; l’ultima quella che prevede punizioni più severe (come l’isolamento e il trasferimento) per i detenuti aggressivi verso il personale o che assumano atteggiamenti “anti-doverosi” (è scritto proprio così); il tutto riducendo il potere dei direttori, sempre più relegati nell’angolo per cedere spazio a impostazioni muscolose di vita penitenziaria. Anche l’iniziativa di tradizione pannelliana del “ferragosto in carcere” ha subito un drastico ridimensionamento con i nuovi vertici del Dap: possiamo andare in non più di 5 istituti (su 198) con delegazioni di non più di due persone. Possiamo comprendere le delegazioni ristrette, ma sfugge alla logica la limitazione del numero di istituti da poter visitare. È per questo che i vertici del Partito Radicale hanno rivolto un appello a tutti i parlamentari e consiglieri regionali - che non hanno bisogno come noi dell’autorizzazione del Dipartimento per entrare in carcere (art. 67 OP) - affinché usino le loro prerogative per essere presenti in tutti gli istituti penitenziari in questo momento così difficile e oscuro. Martedì anche un agente si è tolto la vita. Era in servizio nel carcere di Latina ed è il quarto suicida quest’anno fra i baschi blu che prestano la loro opera nelle carceri. Queste sono le ragioni per cui, una visita a detenuti e “detenenti” è importante, per portare conforto e guardare lì dove in pochi vogliono volgere i propri occhi. Inutili afflizioni prive di senso di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 7 agosto 2020 Si parla e si scrive di “umanizzazione del carcere”, di “giustizia mite”; si riflette sul senso costituzionale della pena che apre a possibilità di futuro, anzi probabilmente dovrebbe lavorare per il futuro e poi si incontra la realtà quotidiana fatta di tante inutili afflizioni prive di senso. A Parma diverse persone chiuse in Alta Sicurezza condannate al fine pena mai e chiuse ormai da 25, 30 40 anni, sono costrette a condividere celle (e francamente chiamarle “camere di pernottamento” mi sembra un’inutile ipocrisia) minime poste all’ultimo piano sotto un tetto liscio in cemento che, nella calura estiva, si scaldano fino a superare i 40 gradi. Necessario? Ma forse no, considerando gli spazi ampi e solo parzialmente utilizzati del nuovo padiglione. Però è così. E chi non ha accettato - per motivi di salute - di condividere i suoi spazi vitali è da mesi in isolamento. Paradossalmente il Covid19 nella sezione AS1 ha ridotto il distanziamento tra le persone detenute! Dell’ultima ora anche la notizia che “ci hanno tolto le telefonate in più e siamo ritornati a una telefonata a settimana; ad agosto… Però sostengono che l’emergenza ci sia ancora. Comunque non potrebbero ridurcele, la legge è peggiorativa rispetto al Decreto con il quale fruivamo di 10 telefonate mensili, dunque non potrebbe essere applicata retroattivamente. Ma vediamo”. Le insufficienti competenze giuridiche mi impediscono di trovare argomenti tecnici per contestare una decisione che mi sembra, oltre che del tutto inopportuna in questo momento in cui è più che evidente che la normalità è ancora molto lontana, soprattutto inutilmente crudele e del tutto priva di senso. Non vedo altro obiettivo se non quello di rendere ancora più penosa una pena che già intacca i normali criteri di umanità. Soprattutto in estate, quando il caldo soffocante e la solitudine rendono le prigioni dei luoghi di totale sofferenza. Solo sofferenza. niente altro che sofferenza. Se poi c’è qualcuno onestamente convinto che da tutto questo si possa cavare qualcosa di buono, di costruttivo o di utile per il futuro del nostro Paese, se c’è qualcuno che ritiene che questa sia la giusta pena e che non rappresenti piuttosto una forma nemmeno troppo pudica di vendetta, bé sarei davvero curiosa di ascoltarne le ragioni. Credo che l’umanizzazione del carcere sia un esercizio intellettuale, una grande utopia e soprattutto una espressione troppo distante dalla realtà; oltre che poco condivisa. Basterebbe forse renderlo un po’ meno disumano, ridurre il danno. Ricordare il senso costituzionale della pena; tanto chiaro quanto disatteso. E infine provare a ripensare, nei giorni del dovuto e commosso ricordo, alle parole di Sergio Zavoli: “siamo nati per essere l’umanità”. Tutto qui. *Redazione “Ristretti” - Parma “La cultura dei diritti guidi sempre le Forze di polizia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2020 Il Garante dei detenuti all’incontro con i vertici delle forze dell’ordine. “Queste vicende possono ingenerare una cultura della contrapposizione che, nell’impropria generalizzazione che essa comporta, può costituire un elemento di lacerazione nel contesto sociale”. Così il Garante Mauro Palma ha spiegato durante l’incontro di ieri con i vertici delle forze dell’ordine le sue preoccupazioni a seguito di gravi fatti che hanno coinvolto alcuni operatori di diverse Forze di polizia. Il Garante nazionale ha incontrato i vertici della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Polizia penitenziaria per esprimere, appunto, la preoccupazione “per il rischio - ha evidenziato Palma - del diffondersi di una cultura della contrapposizione che non potrebbe che portare a una lacerazione sociale, una lacerazione di cui il Paese nel suo complesso finirebbe per essere vittima”. Da qui l’esigenza, espressa dal Garante e condivisa dai responsabili delle Forze di Polizia, di agire insieme per una formazione e una crescita della cultura dei diritti degli operatori capace di dare corpo e sostanza a un agire rispettoso dei principi della Costituzione, anche in condizioni difficili. Il Garante nazionale, per questo, ha ringraziato per la loro disponibilità gli interlocutori di così alto livello incontrati in questi giorni e ha assicurato il proprio impegno a cooperare e vigilare. Mauro Palma ha osservato con viva preoccupazione le drammatiche vicende che hanno gravemente coinvolto taluni operatori delle Forze di Polizia. Sottolinea che sono venute alla luce ripetute segnalazioni di episodi di violenza nell’Istituto penitenziario di Torino, già riportate al Garante nazionale nel passato e che avevano indotto il Garante stesso a produrre formale denuncia alla Procura della Repubblica del capoluogo piemontese. “Sono episodi - ha spiegato sempre il Garante Nazionale su cui doverosamente ha indagato la magistratura inquirente e su cui si pronunceranno gli organi deputati. Tuttavia, proprio le carte dell’indagine hanno evidenziato anche una cultura di alcuni settori, altrettanto grave proprio perché espressione di persone che indossano una divisa”. Mauro Palma ha osservato che tale aspetto “pone seri interrogativi sulla capacità e sulla volontà di intervento da parte di chi aveva il compito di vigilare e di indirizzare, al contrario, verso una cultura della tutela di quanto la Costituzione e l’ordinamento normativo del nostro Paese prevedono”. Il Garante ha sottolineato che analoga devianza culturale è emersa in altre situazioni, ribadendo che non è suo compito occuparsi della rilevanza penale degli episodi, quanto segnalare la cultura che essi esprimono. “Sono episodi differenti - approfondisce il Garante - che chiamano in campo settori diversi e che certamente, pur non rappresentando la complessiva cultura delle Forze di appartenenza dei singoli, pongono interrogativi al Garante nazionale che per compito istituzionale collabora con tutte le Forze di Polizia in una prospettiva di cooperazione e critica propria del mandato. Un ruolo che certamente è riconosciuto dalle Forze stesse come contributo di valore nel proprio operare”. Ma quindi a cosa serve la presenza del Garante nazionale nella formazione del personale dei diversi Corpi di Polizia? “Se, da un lato, è testimonianza di tale cooperazione - ha spiegato Palma -, dall’altro pone anche al Garante stesso interrogativi su come reprimere nel concreto tali atteggiamenti attraverso mutamenti culturali che agiscano ancor prima che essi possano svilupparsi in atti di grave rilevanza disciplinare e penale”. Il Garante nazionale ha preso atto della volontà di tutti i vertici delle Forze di Polizia di proseguire nella collaborazione, ragionando insieme su come rafforzare gli esistenti protocolli di intesa stipulati già nel passato, “nell’ottica della costruzione di una cultura che a ogni livello sviluppi e dia concretezza a quei valori di cui ciascuna Forza è portatrice”. Palma ha anche ricordato che la Costituzione del Corpo di polizia come parte civile in processi che si potranno tenere per gli episodi oggi oggetto di cronaca - così come già fatto dall’Arma dei Carabinieri in un processo in corso - sarà, a parere del Garante nazionale, “un elemento tangibile di volontà in tale direzione e darà concretezza a quell’impegno di cui la partecipazione del Garante nazionale alla formazione è espressione”. Il Garante nazionale ha quindi ringraziato le varie forze dell’ordine incontrate durante il vertice per la loro disponibilità e ha assicurato il proprio impegno a cooperare e vigilare. Finitela col carcere, per certi reati basta il risarcimento di Raffaele Marino* Il Riformista, 7 agosto 2020 Abuso edilizio e diffamazione ingolfano le aule dei tribunali: perché non depenalizzarli? Bisogna rafforzare le autorità amministrative e accontentarsi della riparazione del danno in sede civile. Il dibattito che si è acceso sulla necessità di una nuova depenalizzazione, sottintende in realtà la necessità di smaltire l’enorme arretrato che si è aggravato dopo la sostanziale chiusura dei tribunali per l’epidemia da Covid-19. In realtà si tratta di mali antichi ed endemici che si trascinano da decenni. Quando sono entrato in magistratura si ebbe la prima depenalizzazione con la legge 689 del 24 novembre 1981. Ricordo il commento di un autorevole procuratore dell’epoca: Hanno dato un giocattolo in mano ai pretori per farli divertire”. Nel corso dei successivi 40 anni si sono succeduti altri provvedimenti di depenalizzazione, di abrogazione di reati trasformati in illeciti civili, di amnistie, indulti e condoni vari. L’entrata in vigore del “nuovo” processo penale, che attraverso i riti semplificati avrebbe dovuto deflazionare il carico della giustizia penale, ha in realtà finito in breve con l’aggravare la situazione. Eppure si era partiti dal presupposto, accettato da tutti - avvocatura, magistratura, dottrina e giurisprudenza - che il processo penale è una risorsa preziosa e costosa da usare con parsimonia solo per quei comportamenti ritenuti effettivamente devianti e che intaccano i beni giuridici primari tutelati dalla nostra Costituzione. Ovviamente non è stato così: la “perenne emergenza”, felice locuzione coniata dall’illustre penalista napoletano Sergio Moccia, ha comportato una panpenalizzazione, che risponde più a spinte di carattere populistico che a reali esigenze di tutela della collettività. Facciamo un esempio per capirci: la tutela del territorio risale a una legge del 1941 poi trasfusa nel testo unico 380 del 2001 che sanziona come contravvenzioni gli illeciti edilizi. Uno su mille dei processi per abuso edilizio arriva a condanna definitiva: tutti gli altri si prescrivono, e, se anche non si prescrivessero, le condanne consisterebbero in pene miti quasi sempre soggette a sospensione condizionale. Le vere e reali sanzioni sono quelle accessorie di carattere amministrativo: la demolizione dell’immobile e la perdita di proprietà dell’area di sedime. Chi dovrebbe applicare queste sanzioni, indipendentemente dalla esecuzione della sentenza di condanna, sono gli enti territoriali che, invece, quasi mai si attivano. E allora, tornando alla questione della depenalizzazione, questa va senz’altro perseguita, ma a patto che le autorità amministrative chiamate a far rispettare le norme e ad applicare le sanzioni, siano messe in condizione e, aggiungo, abbiano la reale volontà, di eseguire le sanzioni stesse. Troppo spesso le polizie locali e, in seconda battuta le Prefetture, difettano delle risorse personali e strutturali per poter adeguatamente affrontare i nuovi compiti che le varie depenalizzazioni hanno loro affidato. Si pensi, per esempio, alle violazioni del codice della strada. Naturalmente vi sono anche esempi virtuosi. Penso, sempre a titolo esemplificativo, alla depenalizzazione della omissione dei contributi Inps da parte delle imprese sotto un certo tetto, avvenuta con il decreto legislativo 8 del 2016: quella depenalizzazione è risultata efficace in quanto l’Inps è estremamente puntuale nell’applicare le nuove sanzioni amministrative. Dunque, prima di pensare a ulteriori depenalizzazioni è necessario rafforzare le strutture di controllo deputate a farle rispettare. Ma, come è stato autorevolmente sostenuto su questo stesso giornale, occorre in realtà una vera e propria rivoluzione culturale che ponga al centro dell’attenzione del legislatore, da un lato, i diritti di libertà del singolo e, dall’altro, che vengano sanzionate con lo strumento penale soltanto le violazioni dei beni primari costituzionalmente garantiti, abbandonando la penalizzazione a ogni costo soprattutto quando la riparazione del danno in sede civile appaia la via più diretta e immediata per il ristoro delle vittime o, comunque, ampliando i casi di estinzione del giudizio a seguito di avvenuto ristoro dei danni. Un esempio? La diffamazione, reato che ingolfa le aule di tribunale e che il codice punisce addirittura con la reclusione fino a tre anni. Senza dimenticare che comunque il processo penale andrebbe del tutto ripensato, essendo oggi la fase delle indagini sostanzialmente appannaggio del solo pubblico ministero, ove gli spazi di controllo della difesa e del gip sono sostanzialmente evanescenti (ne abbiamo già parlato a proposito della nuova legge sulle intercettazioni), risolvendosi in orpelli formali che appesantiscono solo la procedura. Per non parlare della sostanziale discrezionalità dell’azione penale, non sussistendo alcun reale controllo sulle modalità di esercizio della azione da parte del singolo sostituto che può, senza colpo ferire, chiedere la custodia cautelare e poi, all’indomani di una scarcerazione per mancanza di indizi, chiedere l’archiviazione anche a distanza di anni senza che alcun ulteriore atto di indagine sia stato compiuto. Dunque la situazione è non solo grave, ma anche complessa e risolverla non sarà facile, ma ormai è diventato urgente e indifferibile por mano a una riforma complessiva del sistema ispirata dai principi costituzionali, nei fatti traditi, anche per ridare credito a una magistratura purtroppo screditata dai noti comportamenti clientelari. *Magistrato Riforma della giustizia: serve più managerialità di Gabriele Cuonzo Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2020 Un aspetto centrale della patologia della nostra Pa è l’inefficienza della giustizia civile incompatibile con le dimensioni e la qualità della nostra economia. Per completare tre gradi di giudizio ci vogliono otto-dieci anni (in Germania circa due anni e mezzo). Anche i nostri tribunali più efficienti, nei casi più complessi, non riescono a completare il primo grado in meno di tre-quattro anni, un’eternità in confronto a paesi concorrenti come Regno Unito, Germania, Olanda, Francia e persino Spagna. Questo quadro già fragile è stato messo a dura prova dall’epidemia, con il congelamento di gran parte delle attività giudiziarie e la proliferazione di ben 200 protocolli diversi elaborati dai vari uffici senza una efficace azione di coordinamento del governo. Ciò accade perché la giustizia in Italia non è concepita come un “servizio” fondamentale per l’economia, ma è piuttosto (come in genere nella nostra Pa) un segmento di burocrazia autoreferenziale non immune dagli interessi corporativi di tutti i soggetti coinvolti (in Italia abbiamo 240mila avvocati), restii a modifiche strutturali. Il risultato è un’accumulazione insostenibile di casi pendenti (3,3 milioni nel 2019) e una qualità media percepita dagli utenti molto bassa soprattutto nei casi più impegnativi sul piano istruttorio. Il disegno di legge Bonafede del gennaio 2020 (l’ultimo di tanti tentativi di riforma nell’ultimo ventennio) pur avendo aspetti positivi, non è adeguato alla gravità della situazione. Il disegno di legge si concentra sulla modifica del processo civile usando come modello il più efficiente rito del lavoro. È un passo avanti meritevole di approfondimento, ma quello che serve è un cambio di visione che è assente nel progetto. Pensiamo a ciò che è avvenuto in Italia in altri settori che si pensava fossero altrettanto malati e incurabili come i trasporti (con l’alta velocità), le poste, i beni culturali. Qui, ad una cultura burocratica autoreferenziale è subentrata una visione customer focused che in pochi anni ha permesso risultati notevoli. Occorre importare questa visione centrata sull’utenza anche nel settore della giustizia civile dotando i più importanti tribunali di impresa di personale e tecnologia, affidando il coordinamento dell’infrastruttura amministrativa e tecnologica a court manager distinti dai dirigenti magistrati. Che ciò sia fattibile senza stravolgere l’attuale normativa è confermato dall’Osservatorio conti pubblici italiani che in un recente contributo, firmato anche da esperti di altissimo livello come Mario Barbuto e Carlo Cottarelli, sottolinea l’importanza cruciale di una nuova visione, molto più attenta agli aspetti gestionali della giurisdizione. Alle giuste osservazioni del Osservatorio occorre aggiungere che bisogna dare la priorità ai tribunali di impresa più importanti (in particolare Milano, Roma e Napoli) creando subito corsie ad “alta velocità” che possano rassicurare il grande business internazionale sulla affidabilità della giurisdizione italiana. Ciò richiede investimenti sia in tecnologia (bisogna disporre di aule attrezzate con dispositivi audio video per consentire udienze da remoto), che in formazione di giudici e personale amministrativo. Basterebbero però pochi milioni di euro per ottenere un effetto “promozionale” straordinario per la nostra economia. D’Amato (Csm): “Su riforma troppa fretta, non raggiunge obiettivi prefissati” adnkronos.com, 7 agosto 2020 “Nonostante lo sforzo compiuto apprezzabile, mi aspetto e sono fiducioso che il testo venga migliorato dal dibattito parlamentare”. Lo afferma il consigliere togato del Csm, Antonio D’Amato, di Magistratura Indipendente, in vista della riforma della giustizia aggiungendo: “C’era proprio tutta questa fretta di fare un ddl di iniziativa governativa che, così come congegnato, non raggiunge gli obiettivi prefissati? Si sarebbe potuto dare luogo a una riforma più ampia: non vorrei che dietro a questa fretta ci sia solo un’esigenza punitiva senza guardare al complessivo miglioramento del sistema giudiziario”. Nella bozza allo studio del governo, secondo il consigliere togato, ci sono luci e ombre. Tra le “novità più importanti e interessanti, che i magistrati aspettavano da tempo - osserva D’Amato - c’è l’accesso diretto dei laureati al concorso” che segna il ritorno al sistema antecedente alla riforma del 2005/2006. In tal modo, sottolinea D’Amato, da un lato si accorciano i tempi per l’accesso alla professione e dall’altro si evita che i giovani laureati gravino economicamente a lungo sulle famiglie aprendo il più possibile la professione a tutti i ceti sociali. “È inoltre apprezzabile - continua D’Amato - che possa essere la Scuola superiore della magistratura ad organizzare, anche in sede decentrata, i corsi di preparazione al concorso, con costi auspicabilmente più contenuti per i partecipanti”. Anche se andrà verificata la capienza del numero di ammessi, secondo D’Amato si tratta di una innovazione importante perché “oggi la preparazione al concorso della magistratura è monopolio di scuole private”. Una battaglia di Mi contenuta nel testo è poi “l’introduzione della riabilitazione. La riabilitazione incentiva l’incolpato a non incorrere più nell’illecito e quindi a comportamenti che, da sbagliati, possono diventare virtuosi”. Giusto quindi, secondo D’Amato, “introdurre nel sistema un meccanismo che consenta, a certe condizioni, di cancellare le conseguenze, sin qui di fatto perpetue, di un errore commesso, laddove esso rimanga un fatto isolato, in una carriera che non abbia subito altri incidenti”. Tuttavia, spiega, “stona che fatti già accertati in sede di giudizio disciplinare siano poi nuovamente oggetto di valutazione ai fini del conseguimento della successiva valutazione quadriennale di professionalità”. Altro tema di indubbia valenza è “‘l’avanzamento’ del ruolo degli avvocati: le modifiche sono solo parzialmente innovative, in quanto - di fatto - alcune sono già previste nei regolamenti dei consigli giudiziari, come l’invio preventivo degli elenchi dei magistrati in valutazione al Consiglio dell’ordine o lo stesso diritto di tribuna”. “Quest’ultimo è un tema però da sempre divisivo nella magistratura - continua D’Amato - Fermi il confronto e il dialogo, doverosi sui temi dell’organizzazione giudiziaria, vi è stata in prevalenza sempre una netta contrarietà a questa proposta di riforma che non chiarisce fino in fondo le finalità perseguite. Non è comprensibile attraverso quale percorso il governo reputi che il ‘passivo’ diritto di tribuna consentito ai membri laici possa correggere alcune criticità, posto che le condotte dei magistrati sono già passibili di segnalazioni da parte dei consigli dell’ordine degli avvocati”. Non mancano altri rilievi. Riguardo al Csm, “l’iniziativa legislativa del governo risente dell’esigenza di allontanare il Csm dall’influenza dei gruppi correntizi”, osserva D’Amato secondo il quale però “l’iniziativa del governo sembra dettata da un’esigenza di carattere punitivo”. A non convincere D’Amato è il sistema elettorale scelto per il Csm: “Se l’obiettivo principale era affrancare il Csm dalle influenze dei gruppi associativi sarebbe stato preferibile prevedere un sistema elettorale diverso da quello del doppio turno”. Il sorteggio, in base all’ipotesi allo studio, è previsto se non si raggiunge il numero di candidature previste in ciascun collegio e se non sono garantite le quote rosa: “Non sarebbe allora stato preferibile scegliere tutti i candidati con il sistema del sorteggio?”, si chiede D’Amato ricordando che il problema dei rapporti tra politica e magistratura non possono ridursi esclusivamente alla questione del Consiglio superiore: “C’è anche il tema dei rapporti tra politica, incarichi di governo e magistrati che vanno a ricoprire ruoli apicali ministeriali e inoltre quello delle elezioni dei consigli giudiziari che non vengono toccati dalla riforma benché siano il frutto di un sistema elettorale che vede contrapposte per liste le varie correnti”. D’Amato è critico anche sull’articolo che introduce modifiche in tema di aspettativa per infermità ma “nulla, nessuna apertura, in tema di vigente riduzione del trattamento retributivo in caso di malattia: restiamo l’unica categoria nel pubblico impiego a subire decurtazioni stipendiali importanti nel caso anche in cui si è colpiti da gravi patologie come il cancro”. Dieci magistrati per un reato urbanistico: basta, depenalizziamoli di Riccardo Polidoro Il Riformista, 7 agosto 2020 Una giustizia obesa, che si muove lentamente, rappresenta un peso non più sopportabile per il nostro Paese. Ma il Legislatore, nonostante tale evidente menomazione, continua a ingrassare di nuove fattispecie un diritto penale ormai in agonia. Vi è una spasmodica ricerca di punizione, irrazionale, inutile e dannosa, che mira a un consenso popolare che cavalca l’onda della momentanea emotività. Occorrerebbe, invece, una drastica “cura dimagrante”, che privi di rilevanza penale tutte quelle condotte che possono essere valutate senza la necessità di indagini particolari. Un’ampia depenalizzazione è invocata, da tempo, dall’Unione delle Camere Penali Italiane che, anche su questo tema, ha dimostrato lucidità di pensiero, nonostante sia evidente che l’avvocatura, per un proprio interesse corporativo, dovrebbe augurarsi l’aumento delle condotte penalmente rilevanti. La diminuzione dei reati consentirebbe di ottenere il massimo rendimento delle risorse umane e degli spazi deputati alla celebrazione del processo penale, permettendo di attuare i principi del giusto processo, dettati dall’articolo 111 della Costituzione, secondo i quali lo stesso deve avere una durata ragionevole, garantire il contraddittorio e i diritti della difesa. Oggi, invece, la durata non solo è “irragionevole”, ma ignobilmente lunga, mentre il cittadino - imputato o persona offesa - ne paga le conseguenze e l’Italia viene additata, a livello internazionale, come inaffidabile. Le condotte depenalizzate potranno trovare una sanzione amministrativa che, con maggiore efficacia, saranno da deterrente per nuove azioni illecite. Se è vero che gli illeciti penali devono confrontarsi costantemente con il momento storico e, in particolare, con il grado di civiltà di un Paese, con il cambiamento e l’evoluzione degli usi e costumi di una società, è altrettanto importante che si promuova immediatamente una corretta informazione sullo stato comatoso della nostra giustizia e si affidino all’accertamento penale le sole condotte che abbiano effettivamente una rilevanza particolare e che necessitano di indagini, non eseguibili in altre sedi. Si potrebbero fare molti esempi di delitti e contravvenzioni da abrogare, ma probabilmente quello più eclatante riguarda i reati urbanistici che, pur considerati giustamente gravi per l’impatto devastante sul territorio, potrebbero essere disciplinati in maniera diversa. È del tutto irrazionale che il verbale per una costruzione ritenuta abusiva debba far nascere due procedimenti: uno penale, l’altro amministrativo. In entrambe le sedi si dovrà accertare se quanto contestato sia effettivamente illecito e disporre, eventualmente, la giusta sanzione, con tempi biblici in tutti e due i casi. Basterebbe, invece, la sola procedura amministrativa, in quanto l’indagine da svolgere è esclusivamente oggettiva, riguarda un luogo, un manufatto e l’esistenza o meno di titoli autorizzativi. Nulla di più. L’illecito potrà essere punito in tempi rapidi, anche con la confisca o l’abbattimento. Si recupererebbero nel penale enormi risorse. Esistono in molte Procure della Repubblica, sezioni specializzate per i reati urbanistici, che gestiscono migliaia di procedimenti destinati al dibattimento, che a sua volta viene sommerso dai relativi fascicoli, la maggior parte dei quali, dopo anni, giungeranno in Corte di Appello e poi in Cassazione. Per l’accertamento di una violazione urbanistica, in ambito penale, saranno dunque coinvolti un sostituto procuratore e probabilmente nove giudici e tre procuratori di udienza, oltre al personale delle varie segreterie e cancellerie e sperperate risorse economiche preziose. L’occhio vigile di un imprenditore comprenderebbe immediatamente l’inutilità di tali farraginose procedure, ma alla politica interessa solo una giustizia penale non in salute, ma “grassa” dei suoi innumerevoli reati. I diritti negati a Cutolo per “ragioni di opportunità” Il Riformista, 7 agosto 2020 L’affondo delle Camere Penali. Apprendiamo dal difensore e da notizie diffuse dai media, che Raffaele Cutolo - a suo tempo capo della Nuova Camorra Organizzata - è in gravissime condizioni di salute e che non è stata autorizzata la visita del medico di fiducia, per non meglio specificate “ragioni di opportunità”. Contraddittorie le notizie che giungono dal carcere di Parma, da dove la moglie e la figlia, in visita al detenuto, hanno riferito che Cutolo “non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire”, stato comatoso confermato anche dal difensore che descrive una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere, mentre per la direzione sanitaria dell’istituto penitenziario, egli sarebbe “vigile, orientato nel tempo e nello spazio”. Certo è che il detenuto assume 15 pillole al giorno, soffre di diabete, prostatite, artrite ed è fortemente ipovedente. In questi giorni è stato condotto nuovamente in ospedale da dove non si riescono ad avere informazioni sul suo stato di salute. Le “ragioni di opportunità” evidentemente vengono prima del diritto alla salute, prima del diritto di una moglie e di una figlia di avere notizie del congiunto, prima dei principi costituzionali e di tutte le altre norme. Eppure quella piccolissima parte della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, divenuta Legge aveva ribadito che “i detenuti e gli internati, possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia” ed aggiunto che “...con le medesime forme possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o nei reparti clinici e chirurgici all’interno degli istituti, previ accordi con l’azienda sanitaria competente e nel rispetto delle indicazioni organizzative fornite dalla stessa” (art. 11, comma 12, Ordinamento Penitenziario, così riformato dal D.Lvo 2 ottobre 2018, N.123). Evidentemente la Legge non è uguale per tutti e “non è opportuno” che un ottantenne capo di un’associazione criminale, che non esiste più da almeno 40 anni, che è detenuto da 57, possa avere le cure di un medico di fiducia, mentre è “opportuno”, che sul suo stato di salute vi sia il “silenzio di Stato”, in attesa che la vendetta possa giungere a termine, con la morte del “nemico”. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, esprime, ancora una volta, la propria indignazione per una politica giudiziaria che pratica, di fatto, la lenta, ma inarrestabile, pena di morte. La storia di Sak, detenuto in Italia e perseguitato in Ucrania: se estradato rischia la vita di Rossella Grasso Il Riformista, 7 agosto 2020 Denys Sak, ingegnere nucleare ucraino di origini russe, detenuto a Regina Coeli, è certo che se l’Italia dovesse decidere per la sua estradizione, in Ucraina sarà sottoposto a processo iniquo, persecuzioni o ancora peggio potrebbe essere ucciso. È stato arrestato mentre era in transito nell’aeroporto di Fiumicino nel luglio 2019. L’Ucraina ha chiesto la sua estradizione ma Sak chiede la protezione internazionale. Intanto il Tribunale ha dato assenso all’estradizione e il suo caso è finito in Cassazione. Sak preferisce stare in carcere in Italia, dove è recluso da un anno, piuttosto che finire 60 giorni (pena che dovrebbe scontare per il reato attribuitogli) nel carcere ucraino di Bakhmut, nel Donbass. Qui imperversa ancora una sanguinaria guerra civile, a pochi chilometri dagli avamposti dei separatisti filorussi. “Ciò che è peggio è che Sak verrebbe subito riconosciuto come russofono all’interno di un sistema filoucraino”, spiega Lucas Maria Carlodalatri, suo difensore, specializzato in diritto internazionale, su casi di estradizione e sulla tutela dei diritti umani. Per il lavoro che svolge, l’avvocato conosce bene situazioni carcerarie a livello internazionale, condizioni indescrivibili, molto al di sotto degli standard minimi. “Spesso i miei clienti sono dirigenti aziendali, accusati nello stato d’origine di reati per fatti privi di rilevanza - spiega l’avvocato - Ci sono sempre altre motivazioni sottese. Gli stati di provenienza danno l’idea che questi imputati debbano essere riportati a casa e lì processati per altri motivi che vanno al di là della giustizia relativa a un reato”. E questo è quello che sarebbe successo anche a Sak, accusato in Ucraina di un reato poco chiaro, una sorta di “truffa” che sarebbe stata commessa ai danni dell’azienda energetica di cui era uno dei dirigenti. Una “truffa” che ammonterebbe a 10.000 euro, reato che in Italia apparterrebbe al codice civile, di cui Sak, ingegnere termoelettrico, privo di precedenti penali o comportamenti irresponsabili, che parla 5 lingue, si è sempre detto innocente. Una cifra ridicola se si considera che aziende di questo tipo fatturano milioni di euro all’anno. L’azienda che avrebbe subito il danno si trova proprio nella zona del Donbass, annientata da quella guerra mai finita, e non si è mai presentata come parte lesa nel processo. “Tutto lascia presumere che Sak sia ricercato più per un motivo etnico razziale che per questo presunto reato - dice Carlodalatri - Se dovesse finire in Ucraina verrebbe processato perché ucraino traditore dell’Ucraina, scappato in Russia. C’è scritto in più punti negli atti dell’indagine consegnati”. Non a caso i guai di Sak sono iniziati proprio nel 2013 con l’inizio di quella guerra civile. Sak ha raccontato cosa è accaduto a un suo compagno di detenzione a Regina Coeli, Roberto Marsili. “Quell’anno Sak nota strane commesse in azienda - racconta Marsili - rifiuta un riciclaggio da parte dei nuovi soci, una filiera di società cipriote che detengono affari con lo stato ucraino ai soli fini di finanziare armamenti in vista della guerra civile che stava per cominciare, Sak si rifiuta di firmare, lo prelevano a casa degli “emissari” dei nuovi soci, lo picchiano, lo vessano per circa 2 milioni di euro e lo obbligano a firmare”. Così Sak mette al sicuro la sua famiglia e fugge in Russia perché per lui non ci sono autorità di cui si possa fidare. Ha abbandonato società e patria, riscoprendosi un pittore quotato negli Emirati Arabi, coltivando la pittura che era solo una passione. E proprio durante un viaggio di lavoro è stato intercettato a Fiumicino e adesso rischia di tornare nel luogo da cui è fuggito, in quella striscia di terra dove l’Ocse ha riscontrato 300 violazioni al cessate il fuoco ogni 2 giorni, persecuzioni di singoli se non di interi gruppi sociali, processi iniqui contro gli oppositori, nonché difficili e pericolose condizioni di vita e violenza generalizzata nelle carceri. Bakhmut è uno di questi, dove i diritti umani sono sconosciuti. A raccontarlo sono numerosi report di organizzazioni umanitarie e agenzie di stampa come Spektr.Press: le celle sono piccole e sovraffollate, non c’è presidio medico, le guardie sono sottodimensionate, i detenuti possono uscire dalle celle per soli 60 minuti al giorno in un regime di vita durissimo, senza luce e aria, gettati tra muffa e insetti, in condizioni igienico sanitarie precarie, hanno “diritto” a una sola doccia a settimana e non sono ammesse nemmeno le visite. “Più volte le forze dell’ordine davanti all’avanzata degli indipendentisti sono scappati lasciando al loro destino i detenuti chiusi nelle celle”, racconta l’avvocato Carlodalatri, che ha studiato con grande attenzione cosa succede in quella zona. “La struttura è stata scelta come punto di base per il transito dei prigionieri filorussi da riconsegnare alle autorità russe - spiega l’avvocato - ed anche per i detenuti nazionalisti che vengono riconsegnati dalle autorità separatiste o della federazione russa creando molteplici occasioni di attrito. In questo contesto il Signor Sak è doppiamente a rischio: agli occhi dei nazionalisti è un russofono ed agli occhi dei separatisti un imboscato”. La richiesta di protezione internazionale è stata avviata tra le mille difficoltà che incontra un detenuto che non può recarsi in Questura per farsi identificare. Ma la pandemia ha bloccato l’iter mentre il processo è arrivato in Cassazione. L’Italia sulla carta offre garanzie di protezione agli estradati come la visita del console che dovrebbe andare a controllare le loro condizioni. Ma contando che sono circa 500 le estradizioni all’anno risulta difficile credere che questo succeda davvero. Davanti alla corte per i diritti umani ci sono altri 120 ricorsi identici contro l’Ucraina. “Il nostro Paese è sempre tra i primi firmatari di tante azioni per la tutela dei diritti umani a livello internazionale - conclude Carlodalatri. Eppure permette che uomini come Sak vengano rispediti nei loro paesi di origine, dove non ci sono diritti”. Se Sak dovesse essere estradato potrebbe rimetterci la vita, con la connivenza dei giudici italiani. Sequestro e confisca allo stesso collegio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2020 Non c’è incompatibilità per il giudice che partecipa al giudizio per applicare la confisca, pur avendo in precedenza adottato il sequestro. Il provvedimento ha, infatti, un carattere temporaneo e provvisorio o è destinato ad essere sostituito da una decisione finale e non è riferibile ad una fase precedente e autonoma del procedimento. La Cassazione (sentenza 23605) respinge la richiesta di ricusazione del collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale, lo stesso che aveva espresso un giudizio, anticipato nel merito, nel rigettare la richiesta di dissequestro dei beni avanzata dalla ricorrente. Un provvedimento - faceva notare la difesa - assunto de plano, senza procedere all’incidente di esecuzione. In più il collegio aveva anticipato una valutazione di merito, che legittimava i dubbi sulla sua imparzialità, imponendo un’astensione. Ma il ricorso viene respinto. La Suprema corte ammette l’esistenza di un contrasto tra i giudici di legittimità sull’applicabilità al procedimento di prevenzione delle cause di incompatibilità previste dal Codice di rito penale. Nella giurisprudenza più recente prevale l’orientamento secondo il quale, le cause previste dal Codice di procedura penale per l’incompatibilità del giudice, soprattutto nel caso abbia anticipato un giudizio sull’imputazione (articolo 37, comma 1 lettera b) debbano valere anche nei procedimenti di prevenzione. E questo in virtù della sua natura giurisdizionale e degli interessi di rilievo costituzionale in gioco, che impongono l’osservanza delle garanzie del giusto processo. Un orientamento che la Cassazione condivide, ad esempio nel caso in cui è stato considerato doveroso un passo indietro del presidente del collegio che doveva decidere sulla confisca quando, come gip, aveva applicato la custodia in carcere per gli stessi fatti alla base della misura di prevenzione (sentenza 41975/2019). I giudici della sesta sezione non sono però d’accordo nell’estendere la causa di incompatibilità quando il giudice che decide della confisca è lo stesso che si è espresso sul sequestro. Nel procedimento di prevenzione, infatti, non c’è soluzione di continuità tra la fase cautelare, nella quale il giudice adotta il sequestro, e quella definitiva, in cui decide sulla confisca. Pesano poi le differenze tra il procedimento penale, luogo di più elevato tasso di garanzia, e il procedimento nel quale si applicano le misure di prevenzione che segue un modello diverso sia sul piano funzionale sia strutturale, essendo caratterizzato da una maggiore elasticità. In particolare, in sede di prevenzione non c’è separazione di funzione tra il giudice della fase cautelare e quello decisione di primo grado. Una differenza impensabile nel giudizio penale che dà la misura di come il legislatore, abbia diversamente considerato la necessità di tutelare l’apparenza di imparzialità. La via è stata quella di affidare - in caso di prevenzione - al contraddittorio e allo sviluppo successivo del procedimento la capacità persuasiva utile a smentire, potenzialmente, la prima valutazione fatta dal collegio in sede cautelare. Corruzione per il commercialista che fa da tramite per regalare denaro alla guardia di finanza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 6 agosto 2020 n. 23602. Risponde del reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, il commercialista che fa da tramite per il suo cliente facendo un “regalo” di 4 mila euro a due finanzieri, per aggiustare un verbale di contestazione, relativo alla società del suo assistito, fatto nel corso di una verifica fiscale nello studio dell’imputato. La Corte di cassazione, con la sentenza 23602, respinge sul punto, il ricorso del professionista. Ad avviso della difesa il commercialista si era limitato a tentare di convincere i due militari, in virtù dei suoi buoni rapporti, all’epoca, con la Guardia di finanza. Lo scopo sarebbe stato quello di ottenere una preventiva operazione di ravvedimento operoso per evitare una denuncia penale, con successivo “regalo” per il piacere ottenuto. Inquadrata così la vicenda, il reato doveva essere derubricato nel meno grave traffico di influenze. Ma la Cassazione non è d’accordo. Per la Cassazione, infatti, il traffico di influenze, anche secondo la legge 3/2019 la cosiddetta Spazzacorrotti, non è ipotizzabile nel caso sia stato accertato un rapporto alterato e non paritario tra il pubblico ufficiale e privato: circostanza che fa scattare appunto la corruzione. Il delitto di traffico di influenze (articolo 346-bis del Codice penale) si differenzia infatti dalla corruzione “per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte essere destinato all’agente pubblico”. La Suprema corte accoglie invece il ricorso per quanto riguarda la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena al pagamento dei 4 mila euro indebitamente percepiti dai pubblici ufficiali. Un riferimento, che non riguardava il reato contestato nel 2017, ma che è stato introdotto solo dalla Spazza-corrotti. Una norma non retroattiva. Salerno. “Mai più morti come quella di Jhonny” di Alfonso Romano La Città di Salerno, 7 agosto 2020 Confronto tra il Garante regionale dei detenuti e i direttori delle carceri campane dopo il suicidio in cella del rapper. “Mai più morti assurde in carcere come quella di Giovanni Jhonny Cirillo”. Questo il grido d’allarme lanciato ieri a Napoli, nell’ufficio di Antonio Fullone, Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, dove si sono infatti riuniti i direttori delle carceri della Campania insieme ai garanti dei detenuti delle città di Salerno, Napoli, Caserta e Avellino, con la presenza dei responsabili del trattamento e della sanità penitenziaria regionale e del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Una discussione scaturita proprio dopo la morte del 25enne scafatese, avvenuta il 26 luglio scorso nel carcere di Salerno, nata per definire le iniziative a contrasto dell’aumento sempre più esponenziale del rischio suicidi nei penitenziari campani, che ha evidenziato come ci sia il bisogno di creare una progettualità molto più larga di senso, andando anche oltre il semplice sostegno psicologico. Un confronto nato anche dopo la recente pronuncia della Cassazione, che ha dato l’ok agli arresti domiciliari per chi soffre di problemi psichiatrici. Un provvedimento che sa quasi di beffa per quanto accaduto al rapper di Scafati. “Il pomeriggio nelle carceri è il momento di maggior preoccupazione per via delle segnalazioni negative che possono arrivare, con gli agenti della polizia penitenziaria costretti a dover gestire situazioni. L’anno scorso con oltre 170 tentativi di suicidio c’è stato un campanello di allarme importante - ha detto Ciambriello. Quello che è successo nell’ultimo mese ci obbliga a ragionare sulle nuove necessità delle utenze che vivono gli spazi penitenziari”. Per il garante regionale dei detenuti, dunque, vanno ripensati gli istituti per evitare morti come quella di Giovanni Cirillo. “Le questioni sovraffollamento e del supporto psichiatrico sono limitrofe ai problemi concreti che vivono gli uomini e le donne nelle carceri. Esiste una depressione generale che circonda i luoghi penitenziari, ed esiste la necessità di riempire questi di molte altre esperienze sociali ed aggregative - ha continuato Ciambriello. C’è il bisogno di figure con diverse competenze, come sociologi e associazioni che sappiano instaurare dei rapporti umani oltre che meramente psichiatrici. Su questo un ruolo fondamentale lo fanno anche le attività degli enti locali e dei Piani di Zona che hanno il dovere di garantire una serie di figure. Ma anche gli spazi vanno liberati”. Nel frattempo, sull’inchiesta aperta dopo la morte del 25enne rapper va avanti il lavoro del pm Carlo Rinaldi della Procura di Salerno. Non c’è ancora nessun iscritto nel registro degli indagati e gli inquirenti vogliono fare luce sui filmati dell’ultimo colloquio in carcere tra Cirillo e il suo avvocato. Bologna. Una bimba per quattro giorni in cella con la mamma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2020 È accaduto alla Dozza: in Emilia Romagna non ci sono Icam. Una bimba di 4 anni è stata in isolamento, assieme alla madre, nel carcere “La Dozza” di Bologna. Una vicenda che ha dell’incredibile, accaduta lunedì scorso e solo giovedì sono state entrambe scarcerate. Parliamo di una donna migrante che è entrata nel carcere assieme alla bimba piccola. Come prevedono le norme di prevenzione del contagio da Covid-19, i nuovi giunti devono essere messi preventivamente in quarantena. Così è stato anche per la madre e la bambina. Potevano uscire solo per l’ora d’aria, isolate ovviamente dalle altre detenute. Come detto, solo giovedì, dopo l’udienza di convalida sono state “liberate”. In realtà, sia la bimba che la madre, nemmeno sarebbero dovute entrare. Teoricamente i bimbi possono stare in carcere con le loro madri fino al compimento dei tre anni, dopodiché sono previste gli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per detenuti Madri) o le case famiglia. Quest’ultime sono solo due nel territorio nazionale, una a Roma e l’altra a Milano. Gli Icam in tutta la regione dell’Emilia Romagna sono inesistenti. Un problema già evidenziato dal garante regionale per le persone private della libertà personale, Marcello Marighelli. “In Emilia- Romagna non è presente alcuna delle strutture individuate dalla legge ed è necessario porre termine ad una situazione che non rispetta i diritti dei bambini e delle madri”, ha affermato il garante. La soluzione sarebbe appunto quella di realizzare una casa- famiglia protetta che possa ospitare due o tre bambini con le loro madri per brevi periodi. La differenza tra le due soluzioni è grande: le case famiglia sono luoghi dove i figli possono fare una vita normale. Il carcere è tale se le madri non possono uscirne e l’Icam è di fatto un carcere: sono escluse le divise o le celle chiuse, ci sono belle stanzette colorate e ci sono i giocattoli, ma la mamma non può portare il figlio all’asilo, mentre ad esempio ve lo può portare, talvolta, la madre che vive in una casa- famiglia. A Bologna però rimane soltanto il carcere per i bimbi e può accadere, come raccontato, che possono finire addirittura in isolamento visto il periodo Covid-19. Se ci fosse stata una casa famiglia, la piccola di 4 anni avrebbe evitato di passare quattro giorni in una cella, assieme alla madre e in isolamento precauzionale. Fermo. “In carcere situazione sanitaria complessa” Il Resto del Carlino, 7 agosto 2020 Il Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, ha fatto visita alla Casa di reclusione cittadina. Ripartono da Fermo le visite in carcere del garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, che è stato ieri mattina nella casa di reclusione cittadina, dove una settimana fa è stato registrato il suicidio di un detenuto 23enne in misura cautelare. Nobili aveva fin da subito evidenziato la “necessità di continuare a controllare la situazione visto anche il periodo estivo che negli scorsi anni ha fatto emergere diverse problematiche negli istituti penitenziari, soprattutto per quanto riguarda la vivibilità dei luoghi”. Secondo il garante Nobili, oltre all’emergenza epidemiologica che resta di complessa gestione all’interno delle carceri, “in tutti gli istituti permangono alcune criticità sul fronte delle tossicodipendenze e preoccupano le patologie di tipo psichiatrico”, così come già segnalato nel “Report carceri 2019”, presentato dal garante nel gennaio scorso e frutto di oltre 50 visite e 400 colloqui con i detenuti. “Quella sanitaria è una situazione complessa - ribadisce Nobili - aggravata dalla crisi economica e c’è la necessità di rimodulare l’approccio, con interventi che devono essere di tipo differenziato. Come ho già avuto modo di dire, per i soggetti con problemi psichici e psichiatrici non si può pensare alla semplice restrizione nell’istituto penitenziario”. Anche Arjol Kondi, l’avvocato del giovane morto nel carcere di Fermo, ha avuto modo di sottolineare: “Un giovane ragazzo trovato senza vita. Si trovava in un luogo che per definizione deve ritenersi sicuro, consegnato allo Stato. Alla famiglia è stato detto che il giovane si è tolto la vita. Quanto vale la vita di una persona ristretta? Non si può morire in carcere. Non si deve morire in carcere! Il carcere priva la persona della sua libertà, ma ne deve garantire la sua dignità e vita”. Treviso. Sospeso il servizio di triage, rischio di contagi anche in carcere Corriere del Veneto, 7 agosto 2020 La denuncia della Polizia penitenziaria: “Adesso non ci sono più filtri”. Dal 31 luglio è stato sospeso nelle carceri il servizio di triage che era stato istituito all’inizio. Il caso del 28enne profugo arrestato e scoperto positivo al Covid-19 dopo il suo trasferimento nel carcere di Santa Bona riaccende la preoccupazione per la sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria. A riportare l’attenzione sulle difficoltà delle guardie nella gestione di detenuti e visitatori, è Leo Angiulli segretario regionale del Triveneto dell’Uspp (Unione sindacati di polizia penitenziaria) che denuncia: “Dal 31 luglio è stato sospeso nel carcere di Santa di Treviso e in tutte le carceri di Veneto, Friuli e Trentino, il servizio di triage Covid-19 che era stato istituito all’inizio dell’epidemia. Nonostante lo stato di emergenza sia stato prorogato dal governo fino al 15 ottobre, quel servizio per noi fondamentale è stato chiuso”. Il servizio, spiega il sindacato, prevedeva la presenza negli istituti di pena di un operatore socio sanitario, assunto dalla Protezione Civile, per gestire le operazioni di accoglimento dei nuovi detenuti e dei visitatori, come il controllo della temperatura e l’acquisizione di informazioni sullo stato di salute. “Faceva da filtro tra l’esterno e l’interno - continua Angiulli - garantendo alla polizia penitenziaria di non dover interagire con possibili asintomatici positivi. Ora invece tutto questo non è possibile. E per noi è un problema, soprattutto per i famigliari che vengono in visita e arrivano da ogni parte d’Italia”. La polizia penitenziaria denuncia la situazione perché: “È prerogativa dello Stato attivare le procedure per garantire la tutela dei lavoratori. I nostri agenti già lavorano, con i dispositivi di protezione, con tutti i nuovi entrati che, da protocollo sono tenuti in isolamento in un reparto apposito. E nel carcere di Treviso si sono già avuti casi di positività tra i detenuti”. Per questo l’Uspp chiede con forza: “È indispensabile che il servizio sia ripristinato con personale fornito dalla Protezione Civile o dall’azienda sanitaria. Non possono essere gli agenti penitenziari a farlo, perché hanno già un alto rischio per la loro normale attività”. Massa Marittima (Gr). Percorsi in carcere con la coop Thc dalsociale24.it, 7 agosto 2020 Un progetto di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Together let’s Help the Community. Insieme aiutiamo la comunità. Questo il significato dell’acronimo della coop Thc. Aiutare gli ultimi, gli emarginati. Come i detenuti. Per questo è nato il programma Percorsi in Carcere. Sostenere percorsi formativi e lavorativi per i detenuti. Questo lo scopo della cooperativa sociale di Roma. Il progetto si svolge presso la casa circondariale di Massa Marittima, in provincia di Grosseto, dove si trova un apiario composto da 22 arnie con famiglie di ape Ligustica. La cooperativa ha concluso Undici giornate, progetto in collaborazione con undici aziende agricole del grossetano. Un pezzo del più ampio progetto Percorsi in carcere. Sospeso durante il lockdown, il percorso di formazione dei detenuti era ripreso qualche settimana fa. La coop sta lavorando ad un ampliamento del percorso, coinvolgendo un numero maggiore di reclusi nel piccolo penitenziario di Massa Marittima, con la possibilità di allargare il progetto ad altre carceri toscane. Una cooperativa giovane, nata 4 anni fa, che ha subito deciso di investire nelle potenzialità sociali ed economiche del carcere. Lo scorso anno Thc ha rilevato le arnie e ha prodotto il miele. “Abbiamo testato sul campo le reali potenzialità. Poi abbiamo inserito altre undici aziende del territorio testando il legame tra carcere e territorio”, racconta il presidente della cooperativa, Mirko Pascale. Grazie a questo progetto le realtà imprenditoriali del territorio “hanno potuto constatare che era possibile avere manodopera qualificata dal carcere”, racconta Pascale. Durante questo percorso “i detenuti hanno appreso molto, ma anche noi cooperatori. C’è stato un bello scambio”. Per il prossimo futuro Thc punta ad avvicinare sempre più aziende al carcere che “può essere una risorsa a cui attingere. Vogliamo tessere questa rete creando un legame territoriale sempre maggiore. Entro tre anni - aggiunge Mirko Pascale - vogliamo portare il nostro progetto anche in altre carceri. Prima di tutto ci interessa il reinserimento sociale dei detenuti. Intendiamo infatti creare una rete sociale postuma, in modo da dare loro una seconda possibilità, accompagnandoli in questo processo”. Vibo Valentia. Inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, presentato progetto zoom24.it, 7 agosto 2020 Convenzione stipulata tra la Caritas Diocesana, la Direzione della Casa Circondariale e l’Ente Scuola Edile. Si è svolto nella sala polivalente della Casa Circondariale di Vibo Valentia l’incontro per la presentazione di un progetto rivolto a 10 detenuti ristretti nella Casa circondariale vibonese. A seguito di convenzione stipulata tra la Caritas Diocesana sede di Vibo Valentia, finanziatrice del progetto, nella persona del vice direttore Antonio Morelli, la Direzione della Casa Circondariale, nelle persone del direttore Angela Marcello e del Comandante Domenico Montauro, e l’Ente Scuola Edile province di Cz, Kr e VV, nella persona di Giuseppe Caputo (presidente) e di Enzo Scalese (vice presidente), i detenuti saranno impegnati in un percorso di formazione, che offrirà loro l’opportunità di acquisire un titolo spendibile nel mondo del lavoro. In un periodo di emergenza come quello appena trascorso, Paolo Blandino (direttore dell’Ente Scuola Edile) e la Responsabile dell’Area Trattamentale, Chiara La Cava, hanno continuato ad operare in sinergia per la concretizzazione del progetto a favore dei detenuti. Il progetto è stato fortemente voluto dal vice direttore della Caritas, Antonio Morelli, che ormai da anni offre supporto umano alla popolazione ristretta nel carcere di Vibo Valentia, e ha trovato la piena disponibilità del direttore del penitenziario. Intento della Caritas, afferma Morelli, è “spianare la strada, offrire opportunità concrete”. Il presidente dell’Ente Scuola, Giuseppe Caputo, nel porgere i saluti e nel ringraziare i soggetti coinvolti nel progetto, ha rimarcato il ruolo chiave ricoperto dall’Ente Scuola nel settore edile e l’importanza di coniugare le attività lavorative con la sicurezza. È intervenuto successivamente il direttore dell’Ente Scuola di Catanzaro-Crotone e Vibo Valentia, Paolo Blandino, che ha illustrato ai presenti i contenuti del progetto formative che consentirà ai partecipanti di acquisire le nozioni di base fondamentali per l’accesso ai cantieri edili e le abilità necessarie per l’attività di montaggio, smontaggio e trasformazione dei ponteggi. Sarà un percorso formativo di 52 ore che verrà erogato presso la casa circondariale di Vibo Valentia nel mese di settembre e che rappresenta un importante biglietto da visita spendibile dai partecipanti, una volta ritornati in libertà, per poter rientrare con più facilità nel mondo del lavoro. Palombara?Sabina (Rm). Rems, anche il Tar nega l’ora d’aria nel parcheggio tiburno.tv, 7 agosto 2020 I giudici amministrativi respingono il ricorso della Asl e condividono la tesi di Alessandro Palombi: la rete non garantisce sicurezza. Per lo stesso motivo la Roma 5 ha presentato un esposto e la Procura lo indaga per abuso d’ufficio. È alta un metro e mezzo e senza cordolo, ribattezzata la “rete da pollaio”. È quella installata nel parcheggio dell’ospedale “Santissimo Salvatore” trasformato dall’Asl Roma 5 in area verde per l’ora d’aria dei 40 detenuti nelle Rems, le due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza dove sono detenuti pazienti psichiatrici. Una trasformazione vietata per ragioni di sicurezza dal sindaco di Palombara Sabina Alessandro Palombi (Fratelli d’Italia) con l’ordinanza numero 36 firmata il 5 maggio scorso contro la quale l’Azienda Sanitaria si era appellata al Tar del Lazio per l’annullamento dopo la sospensione. Ieri, mercoledì 5 agosto, i giudici della Sezione Seconda Bis, con l’ordinanza 5088 hanno respinto la richiesta di sospensione in quanto “il Comune - scrive il Tar - ha richiesto all’Asl di innalzare il livello di sicurezza dei lavori di delimitazione dell’area esterna alla struttura che ospita i pazienti Rems e che pertanto tale area potrebbe essere utilizzata una volta dotata delle idonee misure di sicurezza, assunte dall’Asl medesima, atte a garantire l’incolumità pubblica”. L’ “incidente diplomatico” tra Azienda sanitaria e amministrazione comunale di Palombara Sabina si era consumato in piena emergenza Covid-19 e aveva visto anche l’intervento su Tiburno.Tv del Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasìa. Giovedì 25 marzo la Polizia locale notò gli operai di una ditta appaltatrice nel parcheggio e l’indomani il dirigente all’Urbanistica Paolo Caracciolo ordinò la sospensione dei lavori perché non autorizzati. Scartabellando, i vigili urbani scoprirono che si trattava di un intervento di perimetrazione disposto dal Direttore del Dipartimento di Salute Mentale Giuseppe Nicolò per far fronte alle misure di straordinaria limitazione imposte ai detenuti delle Rems nell’ottica di prevenzione del contagio da Coronavirus. Detenuti che non possono più godere del cosiddetto “Giardino d’inverno”, lo spazio al terzo piano dell’ospedale senza pareti dedicato alla ricreazione. Gli stessi vigili notarono che il 13 marzo la Asl aveva presentato tramite Cila (Comunicazione inizio lavori asseverata) un progetto per costruire un muro di recinzione alto un metro e mezzo con relativa palizzata. Opere che necessitano anche dei pareri del Genio civile trattandosi di zona sottoposta a vincolo idrogeologico. Mentre il 26 marzo - all’indomani del blitz della Polizia locale - i tecnici della Roma 5 avevano protocollato una Scia, Segnalazione certificata di inizio attività. Insomma, un titolo utile per la “rete da pollaio” installata. A quel punto il sindaco Palombi in una nota al Direttore generale dell’Asl Giorgio Giulio Santonocito evidenziando il proprio dovere di garantire la tutela dell’incolumità pubblica suggerì al manager di realizzare la recinzione prevista nel progetto presentato tramite Cila dopo aver ottenuto il parere del Genio Civile. Avvenne però che ad aprile la Polizia locale per un paio di volte sorprese detenuti e personale assembrati nel cortile dell’ospedale e subito dopo scattò l’ordinanza di divieto dell’ora d’aria almeno fino a quando non fosse stata realizzata una recinzione sicura. La stessa ordinanza del 5 maggio al sindaco Alessandro Palombi è costato un avviso di conclusione delle indagini preliminari per abuso d’ufficio notificatogli a luglio. Il fascicolo era stato aperto a seguito all’esposto presentato dal Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 5 Giuseppe Nicolò. Secondo il Procuratore Francesco Menditto, il sindaco Palombi ha utilizzato il suo potere non tanto per richiedere alla Asl di dotare la struttura di miglioramenti interni ed esterni bensì per realizzare intenzionali vessazioni e procurare ingiusti danni, ostacolando le attività delle Rems e dei pazienti. Il primo cittadino, candidato alle elezioni del 20 settembre prossimo, avrebbe violato l’articolo 97 della Costituzione perché le motivazioni a sostegno dell’ordinanza sarebbero non solo carenti ma addirittura strumentali. Sempre secondo il Procuratore il sindaco avrebbe violato pure l’articolo 54 del Decreto Legislativo 267/2000 per aver adottato il provvedimento contingibile e urgente, quando in realtà la presenza dei pazienti non comportava alcun pericolo per la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica. Siena. Associazione Nuova Vita, prosegue progetto “Mai Soli” per l’accoglienza dei detenuti radiosienatv.it, 7 agosto 2020 Presso la propria struttura, l’associazione, su segnalazione della Questura di Siena, ha accolto un detenuto di 60 anni, che aveva diritto ai domiciliari ma non aveva un posto dove poter alloggiare. L’Associazione Nuova Vita, impegnata a Siena nel sostegno a detenuti ed ex detenuti, porta avanti il suo progetto “Mai Soli”, e lo fa anche in questi giorni, nei quali ha accolto presso la propria struttura, su segnalazione della Questura di Siena, un detenuto, un uomo di 60 anni, che aveva diritto ai domiciliari ma non aveva un posto dove poter alloggiare. Si tratta della terza persona ospitata presso la struttura, la prima ancora in regime di detenzione. Le altre due sono persone che hanno scontato la propria pena e alle quali l’Associazione, oltre a fornire un alloggio, ha anche dato un aiuto per reinserirsi in ambito lavorativo. “Il nostro impegno - spiega Andrea Tanzini, presidente dell’Associazione Nuova Vita - è quello di dare una mano a chi nella propria vita ha sbagliato e ha avuto per questo problemi con la legge, perciò ci siamo messi subito a disposizione della Questura quando ci hanno segnalato la problematica di questa persona che necessitava di un luogo dove poter essere messa ai domiciliari”. “Siamo convinti - aggiunge Tanzini - che fornire aiuto a chi è stato o è ancora sottoposto a regime detentivo sia un modo per aiutare loro, ma anche tutta la società. In questo modo si può seguire il percorso di reinserimento sociale della persona, si può aiutare a ritrovare una strada che sembrava smarrita e questo fa sì che la persona avrà molte più probabilità di non tornare a delinquere e, di conseguenza, anche di non pesare più sul sistema giudiziario della nostra città e del nostro Paese”. Lecce. L’arte dei murales unisce detenuti del carcere e studenti dell’Università Gazzetta del Mezzogiorno, 7 agosto 2020 L’iniziativa ha coinvolto dieci studenti del Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo, selezionati con bando pubblico, di quattro volontari del progetto di servizio civile “UniSalento senza frontiere” e dei detenuti della sezione infermeria. I lavori sono iniziati il 2 luglio scorso, con incontri a cadenza settimanale, e il primo murales è già stato realizzato sulla parete del cortile interno della sezione infermeria della Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce. È una sintesi rappresentativa delle emozioni dei detenuti: immagini, disegni e frasi elaborate dagli stessi durante il ciclo di incontri di “Arte in libertà... oltre le sbarre”, il progetto di arte-terapia coordinato dall’Ufficio Integrazione Disabili dell’Università del Salento e promosso in collaborazione con la Casa Circondariale di Borgo San Nicola che intende offrire alla comunità detentiva un’opportunità formativa e di contatto con l’Università del Salento, favorendo anche un confronto diretto tra le due realtà. Ideato dagli studenti del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo, il progetto è iniziato a gennaio 2020 con alcuni laboratori di arte-terapia proprio mirati alla realizzazione di murales all’interno del carcere. Ha visto la partecipazione di dieci studenti del Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo, selezionati con bando pubblico, di quattro volontari del progetto di servizio civile “UniSalento senza frontiere” e dei detenuti della sezione infermeria. Dopo i primi incontri in presenza il programma è stato interrotto a causa dell’emergenza Covid-19 per poi riprendere in modalità telematica. I ragazzi, infatti, hanno voluto inviare una lettera ai detenuti per raccontare la situazione che il mondo esterno stava vivendo a causa della pandemia, testi per leggere e viaggiare con le parole, e tutorial per lo svolgimento di attività creative negli spazi di detenzione (ad. es. realizzazione di pasta di sale, pittura, disegno). Con la fine del lockdown e l’affievolirsi delle misure anti Covid-19 gli studenti sono ritornati in carcere e hanno iniziato a lavorare alla realizzazione del primo dei due murales guidati dalla volontaria di servizio civile Veronica Leo (studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Lecce). Le immagini riprodotte sono l’elaborazione delle idee grafiche dei detenuti emerse nei mesi di laboratori. Così sarà anche per il secondo murales che sarà realizzato a settembre. “Siamo a buon punto - dice il gruppo di lavoro - ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza il sostegno incoraggiante del Rettore, Fabio Pollice, della fiducia accordataci dalla Direttrice del penitenziario, Rita Russo, al lavoro spesso invisibile dei professionisti dell’area trattamentale del carcere che hanno seguito il progetto, Cinzia Conte, Annamaria Corallo, Fabio Zacheo e alla disponibilità e collaborazione preziosa del personale di Polizia Penitenziaria. “Naturae”, dal carcere una sfida lanciata alla morale corrente di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 7 agosto 2020 “La vita mancata”, a Volterra il primo quadro del progetto della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Il teatro e il carcere sono andati stringendo negli ultimi trent’anni un rapporto sempre più stretto, e incredibilmente coinvolgente. Soprattutto in Italia, anche se non si può dimenticare che Samuel Beckett in persona allestì il suo Aspettando Godot con Rick Cluchey nel penitenziario di San Quintino. Da noi è Armando Punzo che da più di trent’anni guida quell’esperienza particolare, mantenendo il luogo e il perno del suo fare teatro tra i bastioni della Fortezza medicea di Volterra, che conserva la sua imponenza temibile anche ora che non ospita più reparti di alta sicurezza. Poi ci sono moltissime altre esperienze che in tutta Italia coniugano teatro e carcere, alcune anche di notevole livello (Gianfranco Pedullà, per fare un solo nome), ma certo la perseveranza e la fama, anche internazionale, consentono alla Compagnia della Fortezza e a Punzo possibilità espressive da fare invidia a molte istituzioni stabili “di fuori” che agiscono in libertà fin troppo incondizionata. Tutto questo viene in mente ora, a vedere l’ultima creazione della compagnia volterrana. Un vero kolossal con un ensemble numerosissimo (forse il triplo degli spettatori falcidiati invece dalle misure anti Covid, e perciò ridotti a 25 per recita), e immagini fantastiche, degne davvero di un kolossal di quelli cinematografici. Lo spettacolo visto in carcere nei giorni scorsi ha per titolo Naturae, La vita mancata, 1° quadro. Il secondo quadro, Naturae, La valle dell’innocenza avrà luogo il prossimo sabato 8 e domenica 9, con doppia rappresentazione alle 17,30 e alle 21,30 in un luogo quasi altrettanto eclatante, il Padiglione Nervi della ex Salina di Stato giù a valle di Volterra, dove il sale costituirà un altro mirabolante elemento teatrale (prenotazione obbligatoria sul sito compagniadellafortezza.org). Il completamento definitivo del progetto è previsto per l’estate del prossimo anno. A questo progetto colossale Punzo è arrivato per tappe successive, che lo hanno in qualche modo liberato (e allo stesso tempo messo nella condizione) dal confronto con la scrittura dei “patriarchi” della pagina letteraria. Dopo le perlustrazioni elaborate, tra i molti, su Brecht, Pasolini, Genet, gli ultimi quattro anni la compagnia della Fortezza li ha dedicati, due ciascuno, a Shakespeare e Genet, presi a padri fondatori del teatro l’uno e della scrittura l’altro. Ma seguendo un filo coerente, l’artista grida ora di essere consapevole di poter sfidare il racconto della Genesi: il bene si rovescia nel male e tutto da cercare, lontano dalla morale dominante, è l’uomo nuovo, la vera missione umana e umanitaria. Detto così può sembrare un espediente retorico, invece Punzo, forse anche perché ormai, o finalmente, affrancato dalla gabbia, pesante per quanto aurea, di quelle scritture, può dar corpo in tutta libertà alle visioni maturate con i suoi compagni di lavoro. E lo spettacolo è davvero stupefacente. Con degli aiuti fondamentali, da citare non per puro dovere di locandina: Andrea Salvadori che suona dal vivo una partitura polistrumentale su cui vivono le immagini, Alessandro Marzetti per le scenografie che sospendono la vista e il respiro, Emanuela Dall’Aglio per i costumi mirabolanti, antichi o futuribili, destinati a rimanere nell’inconscio dello spettatore. Mentre Cinzia De Felice riesce a tenere le molte fila dell’insieme. E poi ci sono loro, quella settantina di detenuti/attori (quattro sole presenze femminili esterne) che danno corpo e visionarietà a quella difficile sfida alla morale corrente. Gli attori appaiono consapevoli del grande rito che vanno a officiare, quelli tesi nei loro corpi torniti e palestrati sotto candidi strati di biacca o lucidati di nero, e quelli intenti alle arti manuali della tornitura e levigatura di statue. Antiche mitologie rivivono nel tentativo di fuga liberatoria dell’uomo tenuto imprigionato da fili robusti che pure paiono semplice garza. Enormi prelati cappelluti di rosso infuocato, piccoli pupazzetti ai piedi degli spettatori, e perfino la mela tentatrice dell’Eden che pure chiede il permesso di agire e indicare il “peccato”. Dal torace ferito di un uomo escono rivoli di sangue precisi come corde di filo animato. La vittima sorride, sotto il suo ombrellino anch’esso rosso come il sangue. Dei velieri sono copricapo di altri uomini dai preziosi mantelli: i volti dei detenuti/attori trasfigurano in quelli di mistici sacerdoti tra passato e futuro. Insomma una grande festa per l’occhio, dove cuore e mente si affannano a trovare il bandolo della missione quasi impossibile. Rovesciare i valori? Ogni spettatore, nel carosello della memoria, potrà dedicarsi a verificare quella ricerca. Niente sgomberi fino al 31 dicembre. Ma per i rom non vale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 agosto 2020 Il Decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020, entrato in vigore come legge 77/2020 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 18 luglio, stabilisce all’art. 17 bis la proroga della sospensione dell’esecuzione degli sgomberi sul territorio nazionale sino al 31 dicembre 2020. Ma questo evidentemente non vale per i rom, dato che - come riferito il 23 luglio da Marco Cardilli, vice capo del Gabinetto della sindaca Virginia Raggi e come denunciato dall’Associazione 21 luglio - dopo l’allarme lanciato il 2 giugno da un servizio de “Le Iene” su un presunto business di smaltimento di rifiuti tossici, “l’area verrà definitivamente liberata da persone in data 11 agosto p.v.” L’area in questione è l’insediamento rom del Foro italico, un ex parcheggio di scambio realizzato per i mondiali di calcio del 1990 in cui l’anno successivo era stato collocato un gruppo di rom della Serbia sgomberato da Monte Antenne. Negli anni, il campo del Foro italico è diventato un vero e proprio insediamento formale: residenze anagrafiche, impianti idrici ed elettrici, scolarizzazione dei bambini. Nel 2008 è stato inserito nel “Piano nomadi” (sic) della giunta Alemanno. Prima che si spargesse la voce dello sgombero, nel campo vivevano 129 persone: metà famiglie serbe originarie e metà rom della Romania di più recente insediamento; 16 bambine e bambine erano iscritti alle scuole pubbliche della zona. Di notifiche ufficiali di sgombero, i residenti non hanno avuto notizia. Ma la voce si è sparsa e buona parte di loro si è spostata in altre zone di Roma. Restano sì e no 30 persone, tra cui anziani, persone malate, donne incinte e bambini. Se non verrà sospeso, l’11 agosto avrà luogo uno sgombero doppiamente illegale: rispetto al diritto internazionale, che prevede notifiche tempestive e messa a disposizione di alloggi alternativi adeguati, e rispetto alla già citata sospensione degli sgomberi fino alla fine dell’anno. Associazione 21 luglio sta chiedendo che lo sgombero sia sospeso e si avvii un dialogo con i residenti per esaminare soluzioni diverse. Amnesty International ha messo in allarme i suoi osservatori sul rispetto dei diritti umani. Libano. Nell’inferno di Beirut, la rabbia e il dolore di Vincenzo Nigro La Repubblica, 7 agosto 2020 Nella capitale devastata dalle esplosioni, i libanesi invocano la “rivoluzione”. E il popolo dei volontari si arma di scope. Una città bombardata da sé stessa, un Paese devastato dai capi delle sue mafie politiche. Il Libano colpito dal “fuoco amico” dei suoi peggior nemici, i suoi stessi governanti. Questo dice la gente di Beirut, urla “vogliamo la rivoluzione, questo regime deve cadere, non un euro a questi corrotti”. Questo chiedono nelle strade i ragazzi che a centinaia, come piccole formiche operaie, sono accorsi attorno al cratere del porto per ripulire, lavare, per confortare i sopravvissuti. Lavare il sangue, l’onore del Libano sporcato da mani libanesi. Ma soprattutto per preparare quella che arriverà inesorabile: una nuova pagina, ancora più poderosa, nella protesta di Beirut. Alle 18,10 di martedì pomeriggio il Libano è precipitato in un girone ancora più profondo dell’inferno che frequenta da anni. E che ha un suo nome, una sua identità ben definita e caotica insieme: le “guerre libanesi”. Il nuovo evento è l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio. Arriviamo in città dall’aeroporto con Andrea Tenenti di Unifil, la missione Onu schierata nel Sud Libano e guidata dal generale Stefano Del Col. “Stavo guidando da Sud verso Beirut - dice -, quando mi hanno chiamato i miei figli da casa. Li ho rassicurati, credevo fosse un boom sonico di aerei israeliani, o magari un’esplosione minore. Non potevo fare altro, mentre correvo verso di loro: poi ho visto questo disastro. E ho capito: è l’11 settembre del Libano”. Passiamo da Ainmraysi, dove esplose la bomba di Hezbollah che uccise nel 2005 il primo ministro Rafiq Hariri. Avvicinandoci in auto al porto iniziamo a scorgere quello che tutto il mondo ha visto. Ma scendendo dall’auto, a terra, si avvertono i suoni, gli odori di una scena di guerra. Il crepitare dei vetri sotto i piedi, il “boom” delle lastre pericolanti che vengono fatte cadere giù dagli operai che ripuliscono i palazzi. Il tanfo fetido delle fogne esplose. Dal buco nero di un negozio sventrato arriva come una musica funebre e gelida: è il pianto ormai diventato mormorio della proprietaria, il verso cupo di un essere umano finito. I ragazzi, i volontari sono sfiniti dal lavoro, si aggirano come squadre ormai allo sbando, con scope, pale, secchi. Quattro adolescenti palestinesi con le pettorine rosse si sono uniti a loro: “Siamo profughi del campo di Borj Al Barajine, ma oggi siamo tutti libanesi, vogliamo aiutare”. Ancora poco e compare la scena madre, il porto devastato. Il capannone, l’hangar 12 dove erano stipate le 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, non esiste più. Al suo posto si è allargato lo specchio d’acqua del porto. L’esplosione ha scavato una piccola baia, una mezzaluna di acqua di mare che arriva fin sotto i silos del grano. Mohammed, uno dei soldati che cintura l’area del porto, dice: “Mio padre lavorava ai silos, per fortuna martedì non c’era: in quei serbatoi passava l’80 per cento del grano che serve al Libano, adesso saremo senza grano, senza pane, il Libano è senza pane”. I silos sono stati mangiati a metà dall’esplosione, ma le strutture in cemento sono ancora in piedi. “Hanno protetto una piccola area verso Sud, in cui i danni sono relativamente minori”, dice Tenenti, “per 180 gradi l’esplosione si è allargata verso il mare” ma per il resto è stata come una bomba atomica. A fianco dell’Hangar 12, ormeggiata una banchina, c’era la nave del Bangladesh con i soldati dell’Unifil: “Ci sono 23 feriti, 2 gravi, li abbiamo evacuati, la nave è semi-distrutta, le porte blindate piegate come cartone”. Il conto dei morti ieri sera era arrivato a 172, più di 5300 feriti, decine di dispersi, corpi ancora da ritrovare. È morto l’architetto Jean Marc Bonfils, uno degli autori della nuova architettura, dei nuovi palazzi della Beirut ricostruita dopo la guerra civile. Altro passaggio, negli ospedali che tutti erano già in tilt da tempo: il Coronavirus ha stremato un Paese in crisi economica, in cui la sanità era già appesa al filo. Al Rosary Hospital cattolico non si entra, è tutto devastato: una monaca è morta, un’infermiera ha le gambe rotte, i letti rovesciati nelle corsie, con i malati trasferiti adesso non si immagina dove. Al St George è enormemente peggio: i morti sono 17, fra cui 12 pazienti, 4 monache e un infermiere. Una suora filippina dice: “Li abbiamo tutti trasferiti nel cortile dove già erano per il momento le vittime del Coronavirus”. Quel recinto è vittima di una maledizione doppia che guardiamo da lontano, neppure ci avviciniamo. Ritorniamo a Gemmayze. Qui ci sono le decine di volontari che hanno circondato il presidente Macron, che gli hanno fatto trovare scritte tipo “Non dare un euro al governo libanese”. Che hanno urlato “Rivoluzione, rivoluzione contro un regime che deve cadere”. È uno dei quartieri cristiani della capitale: si aggrappano alla Francia, all’Europa perché li liberi da chi non ha saputo fermare questo disastro. Amin, un ingegnere, fa vedere una notizia sul telefonino: l’ambasciatrice del Libano in Giordania, Tracy Chamoun si è dimessa in diretta mentre la intervistavano in tv. Protestava, dicendo che la bomba è colpa della corruzione, delle autorità libanesi. Insomma, la bomba è di Stato, e lei prova a tirarsene fuori. Adesso i capi del Libano, tutti, hanno ancora più paura. Per provare a incanalare contro qualcuno la rabbia popolare, hanno appoggiato la scelta del procuratore generale Ghassan Aouidat che ha messo agli arresti domiciliari 16 dirigenti del porto e delle dogane. Ci sono il vecchio direttore delle dogane, Shafiq Merhi, l’attuale direttore Badri Daher e il direttore del porto di Beirut Hassan Quraitem. Arresti domiciliari e conti bancari bloccati. “Ma tutti sanno che Merhi era uno di quelli che ha tempestato di lettere i giudici”, dice uno dei ragazzi della rivoluzione al banco che distribuisce acqua e panini ai volontari. “Guarda, lo ricordano i giornali”. C’è scritto che nel maggio del 2016 Merhi scrisse ai giudici per dire che “visto il serio pericolo di questo materiale depositato nell’hangar, in una condizione inappropriata, vi invitiamo a ordinare agli agenti marittimi di re-esportare il materiale immediatamente”. Il nitrato d’ammonio era arrivato su una nave russa che era entrata in avaria mentre era in rotta per il Mozambico. Era il 2013 e da allora questo dramma libanese si è avvitato su sé stesso. Il comandante russo se ne va, l’equipaggio viene bloccato a bordo ma poi liberato. La nave senza manutenzione sembra sul punto di affondare e allora decidono di trasferire il carico negli hangar. Dal 2014 al 2017 sarebbero state inviate almeno 6 lettere alla magistratura perché ordinassero a qualcuno di intervenire. Nulla. Qualcuno dei ragazzi si è segnato le parole che Macron, il presidente della Francia ex potenza coloniale in Libano, ha risposto alla folla che lo acclamava chiedendogli di affondare il “pouvoir”, il potere libanese. “Io non sono qui per aiutare loro: io voglio aiutare voi”. Il capo di uno stato straniero contro una cupola politica straniera. In Libano la bomba del secolo ha messo in moto qualcosa che nessuno capisce dove potrà portare il Paese. E forse il Mediterraneo. Libano. Scontri nella notte a Beirut, la polizia usa i lacrimogeni La Stampa, 7 agosto 2020 I manifestanti hanno vandalizzato alcuni negozi e lanciato pietre contro gli agenti. Arrestato il direttore del porto. Le forze dell’ordine libanesi hanno usato gas lacrimogeni per disperdere decine di manifestanti che protestavano dopo la gigantesca esplosione nel porto di Beirut, un episodio diventato il simbolo dell’incompetenza e corruzione delle autorità locali. I manifestanti hanno vandalizzato alcuni negozi e lanciato pietre all’indirizzo gli agenti nell’area del parlamento, secondo quanto riferito dall’agenzia nazionale Nna. Alcuni manifestanti sono rimasti feriti durante le azioni della polizia. Sabato è prevista una grande manifestazione antigovernativa nel Paese del Cedri, da anni preda di una crisi economica senza precedenti. Le indagini - Sono 16 le persone arrestate in relazione alle indagini sull’esplosione al porto di Beirut. Lo ha reso noto Fadi Akiki, commissario statale ad interim presso il tribunale militare. “Le indagini continuano a includere tutti gli altri sospetti, al fine di chiarire tutti i fatti relativi a questo disastro”, ha aggiunto Akiki, spiegando che finora sono state interrogate 18 persone. Tra gli arrestati c’è anche il direttore del porto, Hassan Qureitem. Un’italiana tra le vittime - C’è anche una italiana di 92 anni tra le 157 persone morte nella potentissima esplosione che martedì scorso ha devastato Beirut. E tra i 5mila feriti si registrano almeno dieci italiani. Un bilancio quello delle vittime di un disastro dalle cause ancora da chiarire che potrebbe purtroppo ancora salire. L’italiana morta era Maria Pia Livadiotti, nata a Beirut nel 1928 e iscritta al registro anagrafico di Roma dei cittadini residenti all’estero. A quanto si apprende dall’ambasciata, la 92enne è morta in casa, probabilmente a causa di un trauma cranico dovuto alla forza d’urto dell’esplosione, che ha seminato vittime a diversi chilometri di distanza dal luogo della deflagrazione. Sul suo corpo non vi erano segni di ferite da schegge o lamiere. Maria Pia Livadiotti era una delle più longeve italiane di Beirut e aveva quasi sempre vissuto nella capitale libanese. Era vedova di Lutfallah Abi Sleiman, già medico di fiducia dell’ambasciata d’Italia a Beirut. Il figlio della donna ha detto di esser stato anche lui lievemente ferito in strada, di aver trovato, al suo ritorno a casa, la madre riversa a terra e di aver capito che purtroppo era già morta. La storia dell’anziana italiana si mescola a quella delle oltre 150 persone che hanno perso la vita nella tragedia del 4 agosto. Tra loro spicca la triste vicenda di una donna siriana e dei suoi quattro figli, tutti morti poche ore prima di imbarcarsi su un aereo che li avrebbe portati in Germania, dove li attendeva il marito e il padre dei bambini. Era una delle innumerevoli famiglie di siriani che passano per Beirut in fuga dalla guerra in Siria. Confessioni estorte con abusi e torture: una sindrome cinese di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 7 agosto 2020 “Non è mai troppo tardi per correggere gli errori”. Con queste parole il presidente Xi Jinping ha messo fine alla drammatica vicenda che ha visto protagonista un carpentiere cinese, oggi 52enne, finito in carcere per ben 27 anni, condannato per un assassinio avvenuto nel 1993 del quale però non esistevano prove sufficienti per detenere l’uomo. Zhang Yuhuan ha così scontato metà della sua vita, 9.778 giorni, ingiustamente in una cella. È l’errore riconosciuto dalla giustizia che molto probabilmente non risarcirà mai abbastanza l’uomo. In realtà la vicenda è importante per diversi aspetti. Il calvario di Zhang iniziò nell’ottobre 1993 quando i corpi di due ragazzi furono scoperti in un bacino idrico del villaggio a Jinxian, una contea di Nanchang, capitale del Jiangxi. Immediatamente i sospetti si appuntarono su Zhang, vicino di casa delle vittime. Nel gennaio 1995, un tribunale di Nanchang lo ha dichiarato colpevole condannandolo a morte, poi la pena è stata commutata in ergastolo dopo due anni. Zhang ha sempre urlato la sua innocenza sostenendo di essere stato torturato dalla polizia durante gli interrogatori. A marzo 2019, sotto la spinta di innumerevoli appelli pubblici l’Alta Corte ha riaperto il caso e a luglio scorso i procuratori provinciali hanno raccomandato l’assoluzione del sig. Zhang sulla base di prove insufficienti. Implicitamente si è riconosciuto che le confessioni del condannato erano state estorte con la forza. Quella della tortura non è una pratica inusuale in Cina, già nel 2015 un rapporto di Amnesty International aveva messo in evidenza come su 127mila verdetti emessi in quell’anno ben 1898 potevano essere ricondotti a confessioni ottenute illecitamente, tra queste solo in 16 casi la Corte aveva deciso di non accogliere le dichiarazioni dell’imputato anche se ciò era dovuto solo all’emergere di altre prove. Si tratta di cifre ottenute tramite il lavoro di 40 avvocati, spesso i primi a subire le conseguenze delle loro denunce. Nel mirino delle autorità poi finiscono attivisti per i diritti umani, oppositori e i rappresentanti di minoranze etniche in lotta per il proprio riconoscimento. Malgrado fin dal 2010 il sistema cinese abbia iniziato uno sforzo serio per sradicare l’uso delle confessioni forzate. Attualmente infatti, come nel caso Zhang, la condanna a morte deve essere approvata dalla Corte suprema cinese. Ma tali riforme sono ostacolate dal potere per due principali motivi. La polizia in molte province è sottoposta a forti pressioni da parte delle autorità centrali per risolvere i casi, inoltre spesso vengono detenuti imputati definiti “politicamente sensibili” come nel caso dei musulmani Uiguri. È molto probabile quindi che un possibile miglioramento della giustizia cinese riguarderà solo la criminalità comune lasciando fuori chi viene considerato una minaccia per il partito Comunista. Ecuador. Coronavirus: registrati 800 casi nel sistema carcerario agenzianova.com, 7 agosto 2020 I casi confermati di Covid-19 registrati nelle carceri dell’Ecuador sono quasi 800. Lo riferisce il direttore del Servizio nazionale di assistenza a persone adulte private della libertà (Snai), Edmundo Moncayo, evidenziando che negli ultimi giorni è stato intensificato il lavoro delle squadre del ministero della Salute impegnate nei penitenziari per adattare le infrastrutture e creare recinti epidemiologici per limitare i contatti e contenere i nuovi casi di contagio. “Abbiamo progettato aree di isolamento per i detenuti infettati che dovranno osservare un periodo di isolamento preventivo obbligatorio tra 12 e 21 giorni per impedire al virus di diffondersi in tutti i padiglioni”, ha detto Moncayo. Il direttore dello Snai precisa che tra i detenuti contagiati dal covid-19 si registra un’alta percentuale di recuperati, come nel caso del carcere di Ambato, dove 450 detenuti sono già guariti. Lo Snai ha effettuato più di 3.000 test in carcere per verificare contagi e stato di salute di ciascun detenuto. Ci sono carceri in cui il virus non è arrivato, come quelli di Quevedo, Zaruma, Machala, Macas, Canar”. Nel carcere femminile Tomas Larrea di Portoiejo, nel dipartimento di Bahia, non ci sono nuovi casi dopo il focolaio registrato in precedenza”, ha detto Moncayo. Lo Snai continua a rafforzare le misure di sicurezza nel sistema carcerario del Paese con azioni di osservazione e monitoraggio permanenti. Il paese andino ha registrato nella giornata di mercoledì 903 nuovi casi positivi, che hanno spnto il totale dei contagiati da nuovo coronavirus a quota 88.866, con un numero di vittime pari a 5.847. La provincia più si conferma quella di Guayas, la regione costiera con capitale Guayaquil, con 17.669 casi di contagio accertati. Il ministero dela Salute ha precisato che a tutto il 5 agosto, 59.344 persone sono guarite e altre 11.824 sono state dimesse dall’ospedale. Rimangono nelle strutture di cura 830 persone con condizioni definite stabili e altre 378 con prognosi riservata.