In carcere altri suicidi, giovani e con problemi psichici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2020 Sono 33 le persone che si sono tolte la vita. Gli ultimi tre suicidi avvenuti in carcere riguardano giovani detenuti che non hanno superato i 24 anni. Giovani problematici per i quali gli istituti penitenziari sono risultati un fallimento e una opzione che forse non avrebbe dovuto essere contemplata. L’altra volta sulle pagine de Il Dubbio si è parlato del 23enne Giovanni “Jhonny” Cirillo. Un giovane rapper che si è tolto la vita nel carcere campano di Fuorni. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, ha fatto sapere che il giovane rapper richiedeva con forza il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiche. Dopo solo quattro giorni dal fatto, esattamente giovedì scorso, in un altro carcere si è consumato l’ennesimo suicidio di un 22enne. Era da pochi giorni nel carcere di Fermo, nelle Marche, ed era in custodia cautelare per una presunta violenza nei confronti della madre. Era problematico, con disagi mentali. “Un problema serio a cui vanno date risposte diverse rispetto al passato. Per i soggetti con problemi psichici e psichiatrici il carcere non basta, devono essere individuate forme d’intervento che vadano oltre la semplice restrizione nell’istituto penitenziario”, così il Garante dei diritti delle Marche, Andrea Nobili, ha commentato la tragica notizia. “Nel contesto generale- ha sottolineato Nobili- credo che il riavvio formale delle attività trattamentali possa fornire un contributo non indifferente per rendere più sostenibile la permanenza in carcere, anche su un versante più specificatamente psicologico”. Ancora prima, il terz’ultimo in ordine cronologico, si è suicidato un ventenne marocchino al carcere “Bassone” di Como. Trasferito da un altro carcere nelle scorse settimane, è stato trovato morto nella sua cella nell’infermeria al pian terreno della casa circondariale. Il giovane si è impiccato. Quando gli agenti lo hanno trovato, era ormai troppo tardi per lui. Stessa dinamica un mese fa, quando in una cella di un’altra sezione del carcere si è tolto la vita, impiccandosi con la coda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita del loro concellino. Negli ultimi mesi, oltre ai due suicidi, all’interno del Bassone sono stati registrati anche altri due tentativi di impiccagione. Tanti, troppi casi di suicidio legati al discorso di salute mentale. In tutto 33 suicidi, su un totale complessivo di 89 morti. A questo bisogna aggiungere anche i suicidi degli agenti penitenziari. In tutto quattro dall’inizio dell’anno. L’ultimo è avvenuto l’altro ieri. Si tratta di un assistente capo coordinatore che era in servizio nel carcere di Latina. Nel 2019 sono stati 11 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita: da gennaio ad oggi, come detto, sono quattro casi. “Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. È necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria - suggerisce Donato Capece, segretario generale del Sappe composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Non si perda altro prezioso tempo nel non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio nel Corpo”. Siamo uomini o Circolari? di Dario Stefano Dell’Aquila e Luigi Romano napolimonitor.it, 6 agosto 2020 Il 23 luglio scorso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha indirizzato una Circolare ai propri uffici in cui detta le “linee di intervento” riguardo le “aggressioni al personale”. Un atto sottotraccia che cade in un momento particolare per la storia del mondo penitenziario, segnato dalle recenti indagini sulle torture avvenute nel carcere di Torino - indagini che hanno coinvolto anche i vertici dell’istituto piemontese, il direttore Domenico Minervini e il comandate della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, rimossi dall’incarico - e a poche settimane dalle indagini ancora aperte sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che sembrano rincorrere anche in questo caso la pista della tortura. Un sistema penitenziario scosso dall’emergenza Covid-19, da quattordici detenuti morti nel corso delle proteste di marzo, da un cambio di vertice giunto a seguito di pressioni mediatiche dal forte sapore populista. Dopo quanto accaduto, confidare che una circolare possa migliorare lo stato di cose è come sperare che un’aspirina curi una malattia grave. Allo stesso tempo ci sono atti che hanno un valore simbolico che va ben oltre il loro contenuto tecnico. Se n’è accorta l’associazione Antigone che ha commentato il provvedimento: “La circolare emanata dal Dap nei giorni scorsi disegna un modello di gestione del conflitto interno alle carceri interamente schiacciato sulla repressione, spingendo verso una gestione di tipo disciplinare della vita penitenziaria e una reazione esclusivamente repressiva degli episodi, anche violenti, che possono verificarsi in carcere. È un modello che amplifica il conflitto invece di lavorare alla sua decostruzione”. Secondo Antigone un clima penitenziario sereno “non si costruisce con l’uso massivo dell’isolamento disciplinare, con trasferimenti e con le punizioni esemplari bensì proponendo una vita penitenziaria piena di senso, con attività lavorative e culturali e con operatori capaci di instaurare relazioni di prossimità fondate sulla conoscenza delle persone detenute e delle dinamiche di sezione, come indicato dagli organismi internazionali con il concetto di sorveglianza dinamica”. Ci siamo già interrogati, in passato, sulla sospensione delle politiche penitenziarie che continua a danneggiare la tenuta di un sistema in sovraffollamento, frustrato da mesi di “ozio forzato” e abbrutito dalle violenze. Ma cosa dice questa circolare, che sembra essere adottata per trovare un’intesa con i sindacati di polizia penitenziaria? Con la circolare, il Dap richiama gli agenti e i dirigenti a intervenire rapidamente per isolare i detenuti che compiono atti violenti di insubordinazione, attuando il cosiddetto “approccio integrato (che sarà approfondito con futuri interventi)”. A tale fine, comunica l’Ufficio, è stata istituita il 25 giugno un’équipe di lavoro che ha l’obiettivo di elaborare nuovi regimi di custodia specifici per ogni istituto. La necessità è quella di evitare la diffusione di un clima di impunità che andrebbe a influire negativamente sull’ordine e la disciplina interna. Pertanto, nei casi gravi e urgenti si può agire anche in via cautelare, quindi prima degli accertamenti del Consiglio di disciplina (l’organo collegiale che ha il compito di verificare le contestazioni e impartire la sanzione, art. 40 O.p), con l’isolamento del detenuto. Il direttore dovrà procedere velocemente evitando la decadenza della contestazione. Il Dap in sostanza non lascia spazio a incertezze e manifesta anzi apertamente un’esigenza di controllo centralizzato, attraverso la raccolta delle informazioni. Oltre agli “eventi critici”, si dovranno infatti comunicare anche i “procedimenti disciplinari”, tutti dati che costituiranno il materiale grezzo del nuovo gruppo di lavoro, impegnato a immaginare nuovi segmenti detentivi per la conservazione dell’ordine nelle prigioni. Inoltre, il Dipartimento chiama i provveditorati regionali a monitorare semestralmente l’andamento del sistema disciplinare specifico di ogni carcere. Altre indicazioni riguardano i “trasferimenti disciplinari”, che già in piena Fase 1, in assoluta contraddizione con le esigenze provocate dall’emergenza epidemica, avevano precedenza rispetto a quelli per motivi sanitari. Dovranno essere comunicate tempestivamente le richieste di trasferimento al provveditorato competente e alla Direzione generale dei detenuti; quest’ultima controllerà con note specifiche gli andamenti e gli esiti dei provvedimenti con cadenza trimestrale. In ultimo, una “nota di colore” raccomanda alle direzioni degli istituti la predisposizione di presidi medici e di assistenza psicologica per il personale vittima delle violenze. Forse a questo tipo di intervento preferivamo il silenzio, un simile inquadramento va a rafforzare soltanto una componente del sistema penitenziario, la sola a essere presa in considerazione in questi anni. Il personale in divisa proviene da una particolare formazione e quindi è addestrato a risolvere i conflitti attraverso metodi definiti e limitati. Il suo punto di vista è assolutamente parziale rispetto alla configurazione generale dell’ordinamento penitenziario che prevede - per una precisa scelta politica di sistema - ai vertici delle catene di comando soggetti vincitori di concorso pubblico che non indossano la divisa. Accanto agli agenti, ci sono operatori giuridico-pedagogici (personale nevralgico per la gestione dei detenuti e da sempre trascurato), psicologi, mediatori, figure ancora oggi dimenticate dall’agenda dei ministeri. Pertanto, schiacciare fino a confondere i bisogni e le strategie di tutto il mondo penitenziario con le esigenze della polizia è una scelta gravissima. Infatti, il carcere emerso in questi mesi è segnato da ferite profonde, sintomatiche di contraddizioni latenti e violentissime la cui risoluzione può essere attuata solo attraverso modifiche strutturali. Invece, l’irrigidimento mostrato dal Dap nell’ultima circolare consolida un’idea di carcere militarizzato e disciplinante. Gli eventi drammatici, le quattordici morti, gli episodi di tortura emersi nelle indagini, potevano costituire occasioni per una riflessione sui metodi di contenzione della polizia penitenziaria (e delle forze dell’ordine in generale), sulle zone grigie degli abusi, sui poteri e sulle funzioni dei pubblici ufficiali che hanno facoltà di agire sui nostri corpi. Ancora una volta il contenimento è l’unico immaginario possibile, frutto di una visione miope e semplificata dei problemi complessi che riguardano le nostre libertà. “Sono convinto che la questione penitenziaria […] si collochi in un punto strategico e di forte crisi di questo nostro mondo dopo Cristo (come lo ha chiamato Marchionne per dire ai dipendenti Fiat che era finita l’epoca dei diritti), con una espressione che temo non voglia dire, come è d’uso, dopo l’apparizione di Cristo, ma dopo la sua sparizione”. Lo scriveva Alessandro Margara quasi dieci anni fa, perplesso per la barbarie dilagante. Basentini: “Contro di me linciaggio, scarcerazioni non dipese da nota Dap” adnkronos.com, 6 agosto 2020 “Diverse settimane sono stato oggetto di un vero e proprio linciaggio mediatico basato su congetture, giudizi e riflessioni privi di qualsiasi fondamento, spesso condizionati dalla mancata conoscenza sia degli elementi di fatto che delle norme di riferimento”. Ha esordito così Francesco Basentini, magistrato ed ex Capo del Dap, audito in Commissione Antimafia a Palazzo San Macuto. “Il linciaggio, caratterizzato da un carico altamente diffamatorio e manifestamente falso è andato ben oltre la valutazione della mia persona come capo del Dipartimento - continua - quasi avesse una preordinata e unitaria regia diretta contro di me e contro i miei affetti personali. Contro di esso e contro chiunque lo abbia messo in atto agirò senza esitazione, difendendo quale magistrato i valori che ho più a cuore, la mia toga e il rispetto delle Istituzioni”. In merito allo ‘scandalo scarcerazioni’ Basentini ha ricordato che “particolarmente critica e negativa è stata da parte di molti la valutazione al provvedimento del 21 marzo 2020 della direzione generale dei detenuti e del trattamento. La genesi che ha determinato la sua emanazione è nota essendo stata dettagliatamente ricostruita dal consigliere Romano nel corso della sua audizione. Una riflessione utile riguarda la stretta correlazione di contenuto tra la stessa nota e una norma che esiste da circa 20 anni e che sancisce l’obbligo, non la facoltà, di segnalare alla magistratura la sussistenza di possibili vulnerabilità che possono giustificare il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena”. “Come si può pensare - insiste Basentini - che sia stata la nota a determinare le scarcerazioni, esistendo una norma da oltre 20 anni prima della circolare del 21 marzo? Come si può ritenere che non doveva essere emanata quando è evidente come si limiti a invitare i direttori degli istituti ad agire come già previsto da regolamento? Dato che è scontato che l’obbligo di segnalazione discenda dalla fonte normativa che ho menzionato e non dalla nota del 21 marzo, se si temevano possibili effetti negativi con le scarcerazioni, bisognava intervenire sulla norma regolamentare, provvedendo a modificarla o abrogandola, e questo non è compito che spetta all’Amministrazione penitenziaria”. “Gli Imam nelle carceri devono essere accreditati dal Ministero” Corriere di Como, 6 agosto 2020 La richiesta del sindacato Fns-Cisl. “Oggi gli Imam in carcere vengono eletti dai detenuti e tra i detenuti. Secondo noi invece questa figura dovrebbe arrivare dall’esterno, e dovrebbe essere accreditata dal Ministero”. È la richiesta avanzata da Giovanni Savignano, responsabile per Como e Varese della Fns Cisl, la sigla che rappresenta i lavoratori della sicurezza. Il tema della radicalizzazione islamica è di stretta attualità, dopo la notizia dell’espulsione di un tunisino 47enne ritenuto troppo vicino alle posizioni dell’Islam radicale. L’uomo era evaso nel 2017 dai domiciliari a Brescia ed era stato rintracciato in Svizzera nell’ottobre del 2019 con false generalità. Era quindi stato portato nel carcere di Como, dove - scrive il Viminale - nei mesi “è stato sottoposto ad attento monitoraggio carcerario per le sue esternazioni volte all’istigazione dell’odio razziale e interreligioso”. “Il sistema italiano si è mosso in anticipo rispetto ad altri Paesi - spiega al riguardo Savignano - e da tempo ormai monitoriamo questi fenomeni all’intero degli istituti di pena. Contiamo però che una casa circondariale come il Bassone ha circa il 70% dei detenuti extracomunitari, dei quali molti sono di fede islamica. Perciò il controllo non è semplice, anche per una barriera linguistica”. “All’interno delle carceri si trovano soggetti più fragili dal punto di vista sia psicologico sia economico - prosegue Savignano - che sono quindi più facilmente influenzabili o malleabili. Terreno fertile per il proselitismo. La sensibilità e l’esperienza degli agenti di polizia penitenziaria permettono di percepire atteggiamenti sospetti, movimenti da controllare. Ma non è sufficiente - conclude Savignano. Oggi infatti gli Imam vengono eletti dai detenuti tra i detenuti. Noi chiediamo invece che l’Imam arrivi dall’esterno del carcere e sia accreditato dal Ministero, per garantire per quanto possibile trasparenza e sicurezza”. Covid-19: quest’anno niente ferragosto in carcere per i Radicali di Valter Vecellio lindro.it, 6 agosto 2020 Avvertimento per il lettore. Quanto leggerà fra breve è qualcosa che si riporta nella quasi integrità documentale per una ragione molto semplice: quasi nessuno dei grandi organi di informazione ne ha parlato o scritto. Non si tratta, dunque, di contro-informazione, piuttosto di informazione ‘altra’; giudichi poi il lettore, dopo aver letto, se si tratta di cose che meritano di essere conosciute e dibattute; o se invece ha ragione chi, con il suo silenzio e la sua indifferenza, all’atto pratico ci dice che si tratta di cose, di vicende che non costituiscono ‘notizia’; che non meritano di essere conosciute, non foss’altro per poter poi esprimere dissenso e contrarietà, ma almeno con cognizione di causa. Prima notizia: il tradizionale ‘ferragosto in carcere’ che da anni viene organizzato dal Partito Radicale e dall’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ quest’anno avrà connotazioni diverse e più ridotte. Nei giorni scorsi si una delegazione radicale si è incontrata con il vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Roberto Tartaglia. “In quella sede”, spiegano i dirigenti radicali, “abbiamo richiesto di poter visitare le carceri e la comunità penitenziaria nel periodo di ferragosto, come da buona tradizione radicale e pannelliana”. Richiesta accolta solo in parte. “Causa emergenza sanitaria da Covid-19, tuttora in vigore”, si legge in un comunicato, “siamo stati autorizzati a visitare solamente cinque istituti dei 190 presenti sul territorio nazionale e con delegazioni formate al massimo da due persone”. I radicali prendono atto della decisione assunta dal Dap e la vogliono considerare “un atto simbolico volto alla ripresa - che riteniamo prioritaria e urgente - di tutte le attività interne ed esterne previste dall’ordinamento penitenziario e da un’esecuzione penale improntata ai principi costituzionali”. Rilevano come sia ormai di solare evidenza che l’emergenza sanitaria si sia solo sovrapposta ad una gravissima emergenza penitenziaria che dura da tempo; e che nel tempo si è andata aggravando, sacrificando i fondamentali diritti della persona detenuta. Un rospo che i radicali hanno deciso di ingoiare. Spiegano Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito: “Pur non comprendendo la ratio di una tale scelta, abbiamo ritenuto di dover accettare per manifestare la nostra solidarietà nei confronti dell’intera comunità penitenziaria”. Verranno così visitati i penitenziari di Bologna, Cagliari-Uta, Napoli-Poggioreale, Palermo Ucciardone, Tolmezzo. Parlamentari nazionali ed europei, e i consiglieri regionali, per legge, possono accedere per ‘visite ispettive’ nelle carceri. Così la radicale Rita Bernardini, Presidente di ‘Nessuno tocchi Caino’, rivolge un appello a tutti i parlamentari di visitare le carceri “per verificare le attuali condizioni di detenzione che, a mio avviso, sono peggiori del passato”. “Ci auguriamo”, dicono ancora i radicali, “che, come è pure successo negli anni passati grazie al Partito e a Radio Radicale, ci sia una mobilitazione generale dei parlamentari che li veda presenti e impegnati in tutta Italia e in tutti gli istituti”. Questo perché “urgono atti e iniziative concrete per riportare il carcere nell’alveo della Costituzione, per ridare a chi ha sbagliato il diritto ad emendarsi con dignità e a chi all’interno del carcere presta la propria opera di poterlo fare in un luogo adeguato sia strutturalmente sia dal punto di vista degli organici oggi del tutto carenti sotto tutti i profili, in particolare quelli destinati al percorso riabilitativo della persona detenuta”. Si comprende il comportamento dei dirigenti radicali che hanno scelto una linea pragmatica invece di ingaggiare una polemica frontale con il Dap (che peraltro sarebbe solo servita a irrigidire i suoi vertici, senza portare alcun frutto concreto). Le ‘radio carcere’ operanti negli istituti di pena avranno certamente già diffuso attraverso i loro canali, che se quest’anno a Ferragosto i detenuti non avranno il ‘conforto’ dell’ascolto e della comprensione assicurato da decenni dai radicali, è per una sorta di ‘causa maggiore’. Meno comprensibile il comportamento assunto dal DAP. A parte che esiste una strumentazione efficace per impedire che dall’esterno possano accedere persone a rischio virus (e comunque nelle visite si possono mantenere benissimo mantenere le cautele anti-contagio prescritte), perché autorizzare cinque visite, e non sei, o non quattro? Forse se si supera lo ‘sbarramento’ dei cinque penitenziari, il Covid-19 si scatena? E se si rimane al quinto ‘livello’, al contrario, non si manifesta con i suoi effetti deleteri? Se c’è una ragione, è davvero imperscrutabile; se non c’è, allora è un arbitrio che nulla giustifica. Seconda notizia: Raffaele Cutolo. Il personaggio è quello che è, nessuno si sogna di negarlo. Tuttavia un fatto è incontrovertibile: ha 78 anni, e da 57 è in carcere. E’ stato, in anni lontani, capo della Nuova Camorra Organizzata, sodalizio criminale responsabile di una quantità impressionante di delitti, ma ora non esiste più, soppiantato da altri clan di camorra che con Cutolo non hanno nulla a che fare, e che non riconoscono come capo. “Venerdì scorso”, racconta Gaetano Aufiero, avvocato di Cutolo, “abbiamo saputo che il mio assistito è stato condotto in ospedale, a Parma. Informalmente dall’ospedale ci hanno detto per un colpo di tosse ma sappiamo che invece la situazione è ben più grave”. Il quadro clinico di Cutolo è compromesso da tempo: lo scorso febbraio Cutolo infatti era stato ricoverato per una crisi respiratoria. Soffre di diabete, prostatite e artrite, è fortemente ipovedente. Nonostante questo, le sue condizioni sono state considerate compatibili con la detenzione dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha respinto la precedente istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute. Il 22 giugno la moglie Immacolata Iacone, ha raccontato al Consiglio Direttivo di “Nessuno tocchi Caino”, era stata a trovare il marito insieme alla loro figlia: “Non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire con me e nostra figlia. Il carcere di Parma è un cimitero di vivi: stanno solo aspettando di farlo uscire morto da lì. Facciamo prima a mettere la sedia elettrica”. Sergio D’Elia, che di “Nessuno tocchi Caino” è segretario, commenta: “Da Caino che è stato, Cutolo è diventato vittima di uno Stato che ha abolito la pena di morte ma pratica la tortura e la pena fino alla morte. Nessun diritto, nessuna pietà per i nemici dello Stato. Non si fanno prigionieri, Cutolo deve morire in galera, come sono morti Riinae Provenzano”. Con loro, accusa D’Elia, “radice e incarnazione del male assoluto, muore anche lo Stato, rappresentante collettivo e tutore supremo del bene comune. Il Diritto è sinonimo di “limite”, il punto invalicabile, la linea di frontiera che noi Stato, noi comunità ci imponiamo di non superare per non degradare al livello del delitto, al rango dei malfattori. Salvo rare eccezioni, non v’è nessuno che si renda conto che nelle sezioni del 41-bis, nei confronti di Cutolo, nel nome di Abele, lo Stato è diventato Caino”. Quando il diavolo sta nel potere di Luciano Violante La Repubblica, 6 agosto 2020 Un filo nero unisce i fatti di Piacenza, i pestaggi nelle carceri di Torino, le vicende nelle quali è coinvolto il dottor Palamara. Si tratta dell’abuso di potere. Funzionari ai quali la Repubblica ha consegnato poteri rilevanti sulla vita, l’integrità fisica, la reputazione, il patrimonio dei cittadini, al fine di garantire il rispetto delle regole, le hanno violate ripetutamente per trarne vantaggi personali o economici o di prestigio o di altro genere. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso. Nei casi indicati il potere è stato esercitato in modo difforme dalle finalità per le quali è stato concesso. Di qui l’abuso. Poco conta dire che si tratta di mele marce. Se non fossero eccezioni non saremmo in democrazia. Il problema centrale è diverso. La nostra società sta assumendo caratteri che consentono e tollerano comportamenti abusivi. Una cultura egocentrica ha posto l’esercizio del potere e la sua ostentazione al centro delle aspirazioni delle persone. Ha conseguentemente indotto a ignorare la funzione del limite nella organizzazione delle società democratiche e ha animato una cultura del consumo per l’affermazione individuale. Basta seguire alcune raffinate pubblicità per cogliere l’invito frequente a superare i limiti per essere veramente sé stessi. In sostanza quella pubblicità ci dice che non puoi essere te stesso se resti nelle regole della comunità; per essere te stesso devi superare quelle regole e io ti offro il prodotto per farlo. Una seconda caratteristica è la cultura del successo. Conta quello che si ottiene, indipendentemente da come lo si ottiene. Se si ottengono risultati soddisfacenti si possono chiudere gli occhi sui metodi usati per ottenerli. Il successo è di per sé motivo di soddisfazione e lo si dimostra con il possesso. Le vacanze in alberghi di lusso che sarebbero state offerte al dottor Palamara e ai suoi cari da ricchi questuanti o l’esibizione di champagne di marca da parte dei carabinieri di Piacenza stanno a segnalare il raggiungimento di uno status sociale superiore. Nei tre casi citati gli abusi non sono avvenuti in segreto; ma non sono stati fermati. A Piacenza perché consentivano di alimentare le statistiche, a Torino perché mantenevano nelle carceri un ordine seppure dettato dal terrore, a Roma perché permettevano ai magistrati consenzienti di accedere a benefici di carriera che altrimenti sarebbero stati preclusi. Il principio che sembra prevalere è: se posso farlo, lo faccio. Sembra un principio liberale. È in realtà la tomba del liberalismo e può diventare l’agonia dei regimi democratici. Perché il liberalismo senza regole accresce le iniquità. Si è visto con l’esperienza del Covid. I leader che più caratterizzano sé stessi per la predicazione liberale, Trump, Bolsonaro, Johnson, non sembra abbiano adottato efficaci politiche di contenimento del virus perché ispirati a una radicale diffidenza per le regole. Si sono rivelate più efficaci le risposte italiana e tedesca perché frutto di un buon equilibrio tra la cultura dei diritti, propria del liberalismo e il senso del dovere, proprio invece della cultura repubblicana. Una severa e rapida punizione nei casi citati, qualora le responsabilità fossero accertate, sarà necessaria. Ma è altrettanto necessario un impegno da parte delle classi dirigenti per introdurre nella nostra società il senso del limite e il senso del dovere. Riformare la giustizia è partita doppia: ordinamento e procedure; chi decide cosa di Daniela Piana Il Dubbio, 6 agosto 2020 Sono ormai mesi che le questioni delicate e serissime che riguardano i rapporti fra magistratura e politica nel nostro paese occupano le prime file del dibattito sui media. Adesso che appare sulla agenda istituzionale la riforma dell’ordinamento giudiziario e che in prospettiva si comprende che il sistema giustizia potrebbe entrare in una - ennesima? - fase di revisione di carattere normativo - si pensi alla riforma della giustizia civile - è tempo di fare un po’ di ordine e di mettere le cose in prospettiva. Solo che per una volta invece di metterle in prospettiva futura, occorre che esse vengano messe in prospettiva passata. Quale è il modello da adottare nel definire con equilibrio fra magistratura e politica? Se per “politica” si intende quell’insieme di istituzioni che esercitano un potere costituzionalmente garantito e che assegnano quote di risorse e di valori sancendo equilibri sociali ed economici, allora il potere giudiziario è, come gli altri poteri, parte della “politica” nel senso di esercizio del potere in vista della tutela di ciò che travalica i confini individuali, pur nel rispetto dei diritti individuali. Pertanto che vi sia esercizio di potere decisionale dentro allo spettro dell’esercizio del potere giudiziario è cosa che attiene alla fisiologia. Se così è, nella scelta del modello vanno tenuti in considerazione anche gli equilibri fra le varie voci che si esprimono nell’esercizio di quel potere: fra tali voci vi sono quelle del potere giudicante rispetto al potere requirente, le funzioni di carattere nomofilattico rispetto alle funzioni di soluzione delle controversie di primo grado, quelle fra le funzioni di partecipazione alla nomina dei direttivi sia per parte dei componenti togati del Csm sia per parte dei componenti laici del Csm. Sono solo esempi. In sintesi, a bene vedere, dentro al mondo del potere giudiziario gli snodi che determinano per ciascun ambito funzionale, equilibri di potere, sono tantissimi, e non sarebbe in alcun modo possibile scegliere un modello di rapporto fra magistratura e politica guardando soltanto ai confini che intercorrono fra poteri, giudiziario, da un lato, esecutivo e legislativo dall’altro, senza tenere in alcun conto ciò che accade dentro allo spazio funzionale ordinamentalmente governato e costituzionalmente protetto, di ciascun potere per le prerogative di ciascuna delle sue voci. Se per “politica” invece si intende la politica dei partiti, allora la questione cambia e cambia di molto. Il distinguo va fatto fra quella politica che attiene al circuito di legittimazione elettorale democratica e quella politica nel senso di esercizio di potere che attiene al circuito di legittimazione ‘ terza’, fondata sulla imparzialità. La questione è delicatissima e per il nostro paese la storia pesa moltissimo. Che vi sia stata supplenza funzionale accettata dalla politica legittimata elettoralmente e democraticamente verso l’esercizio del potere da parte del giudiziario su questioni urgenti e di difficile soluzione è cosa che non possiamo dimenticare. I vuoti decisionali sono una sorta di ‘ vertigine’ nelle società complesse e non siamo soli, sul piano comparato, a vivere la tendenza a supplire funzionalmente laddove la politica delle istituzioni elettive ha manifestato la sua assenza o la sua lentezza o, ancora, la sua incapacità a darsi un equilibrio stabile nel tempo. Gli esempi sono innumerevoli. Ciò che conta è che a questo punto la democrazia italiana si trova segnata dalla sua storia come un territorio si trova segnato dalle varie strade che mano a mano nel tempo le persone solcano e fissano dove dapprima vi era spazio indeterminato. La storia traccia condizioni e con tali condizioni occorre fare i conti. Riformare il sistema giustizia è una partita doppia da giocare che si qualifica come segue. Da un lato si tratta di mettere mano, e di farlo in modo integrato, all’ordinamento e alle procedure. Se, infatti, è vero che nel potere giudiziario gli equilibri interni fra esercizi di potere sono importanti, allora il rapporto fra giudici e PM cosi come il rapporto fra togati e laici nel CSM, sono aspetti che non potranno - per quanto toccati da strumenti di riforma diversi, l’uno processuale e l’altro ordinamentale - essere affrontati in modo sequenziale. Occorre affrontare l’ambito di esercizio del potere giudiziario nel suo sistema interdipendente. La seconda partita da giocare riguarda le aspettative e le modalità che la politica e la società italiana vogliono fissare perché sia chiaro chi si prende la responsabilità di decidere su cosa. Se non si vuole una magistratura che supplisca funzionalmente con tutte le criticità che questo comporta occorre che la politica si prenda le proprie responsabilità. Ma quale politica? Quella dei partiti, quella della rappresentanza elettorale democratica. E qui inizia tutta una altra storia. Forse dovremmo spingerci a dire che per un buon equilibrio fra magistratura e politica occorre una vera applicazione del principio di Montesquieu. Il potere si bilancia con la sua stessa materia, questo è vero dentro al mondo della magistratura questo è vero fra magistratura e altre istituzioni democratiche. Se la riforma dell’ordinamento giudiziario sarà capace dunque di prendersi in carico l’eredità della storia del paese e farsi anche spazio di decisione autonoma dalle ombre del presente per guardare soprattutto al futuro, è questione che scopriremo presto. Insomma, un ponte San Giorgio fra passato e futuro. Csm, la riforma Bonafede approda a palazzo Chigi di Liana Milella La Repubblica, 6 agosto 2020 Le toghe saranno meno libere di autogovernarsi. Diventano molto più rigide le regole per promuovere i magistrati e gestire la vita interna delle procure. Verso una discrezionalità temperata dell’azione penale. Netta parità di genere per il Csm. Quaranta articoli cambiano profondamente la vita delle toghe italiane. La “cura” del Guardasigilli Alfonso Bonafede - una riforma di cui il Pd, ancora ieri, cantava le lodi - mette lacci e lacciuoli molto stretti per evitare futuri casi Palamara. E lo si vede subito, dalla prima pagina della legge delega che domani approderà al Consiglio dei ministri (oggi è in pre-consiglio per il drafting dei tecnici), laddove si accenna in sintesi “alla necessità di rimodulare, secondo principi di trasparenza e di valorizzazione del merito, i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi”. Un capitolo che si aggiunge alla nuova legge elettorale per il Csm, con la parità di genere, e allo stop alle “porti girevoli” tra magistratura e politica. È la prima risposta della politica al mercimonio delle nomine. Che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi sta perseguendo con, al momento, già una dozzina di azioni disciplinari, destinate a punire gli intrallazzi sui posti di vertice più o meno importanti venuti fuori dalle chat dell’ex pm di Roma Luca Palamara, cui però si rivolgevano costantemente e sistematicamente i magistrati di mezza Italia. L’unico sistema per impedire tutto questo era quello di irrigidire i criteri di scelta di chi deve dirigere un ufficio. E questo contiene la riforma Bonafede. Sulla quale però persistono anche dei malumori nella stessa maggioranza che dovrebbero essere sanati dal futuro dibattito parlamentare. Sicuramente si tratta di una delega su cui si eserciteranno a lungo gli studiosi del diritto. E che non soddisfa comunque chi, ignorando la Costituzione, chiedeva a gran voce il sorteggio per eleggere i futuri 20 togati del Csm. La scure sui futuri capi degli uffici - Due pagine tagliano le unghie ai futuri componenti del Csm e mettono paletti rigidissimi sui criteri di scelta dei futuri capi e vice capi degli uffici giudiziari. Sarà obbligatorio attenersi “all’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti; all’audizione dei candidati quando almeno tre componenti della commissione competente lo richiedano; alla frequentazione, presso la Scuola superiore della magistratura, di specifici corsi, della durata di almeno tre settimane”. Risorge l’anzianità: “Conservare il criterio dell’anzianità come criterio residuale a parità di valutazione risultante dagli indicatori del merito e delle attitudini”. In compenso riacquistano spazio i fuori ruolo (vedi caso Cantone): “Valutazione della attitudine organizzativa maturata attraverso esperienze professionali fuori del ruolo organico, si tenga conto anche della natura e delle competenze dell’amministrazione o ente che conferisce l’incarico, della attinenza dello stesso incarico alla funzione giudiziaria e della sua idoneità a favorire l’acquisizione di competenze coerenti con la funzione giudiziaria”. Ma si frena la corsa continua ad altri incarichi di capo ufficio che ha caratterizzato gli ultimi anni, dalla riforma Castelli-Mastella del 2006: “Il magistrato titolare di funzioni direttive o semi-direttive, anche quando non chiede la conferma, non può partecipare a concorsi per il conferimento di un ulteriore incarico direttivo o semi-direttivo prima di cinque anni”. Ma non basta, perché a valutare le toghe arriveranno anche, con la loro presenza nei consigli giudiziari che redigono i pareri sui candidati, anche “avvocati e professori universitari che potranno partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni”. Una presenza che rompe il tradizionale “buonismo” di quei pareri che quasi in fotocopia sembrano elencare sempre solo aspetti positivi degli aspiranti. La stretta sulle procure - Ma anche la vita interna delle procure e i poteri del capo dell’ufficio muteranno. Sotto il controllo del Csm che “stabilisce i principi generali per la formazione del progetto organizzativo” con cui il capo dirige i suoi sostituti. Nel lungo elenco di obblighi ecco “i criteri di priorità nella trattazione degli affari”, quella obbligatorietà temperata dell’azione penale che ormai è una realtà tra gli inquirenti italiani a fronte di un’obbligatorietà dell’azione penale che non ammetteva esclusioni per alcun reato commesso anche di piccola entità. I poteri del “capo” e i tempi lunghi dei processi - Ma il futuro capo dell’ufficio, rispetto ai colleghi, avrà un potere maggiore di intervento perché “al verificarsi di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati, deve accertarne le cause e adottare ogni iniziativa idonea a consentirne l’eliminazione, con la predisposizione di piani mirati di smaltimento, anche prevedendo, ove necessario, la sospensione totale o parziale delle assegnazioni, la redistribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro. La concreta funzionalità del piano è sottoposta a verifica ogni tre mesi”. Commissioni a sorteggio e stop alle correnti - Quel sorteggio che non diventa sistema per eleggere i futuri togati del Csm entra però nella vita di palazzo dei Marescialli. Togliendo al vice presidente il potere di scegliere in modo autonomo, per quattro volte in quattro anni, i singoli componenti delle commissioni “competenti per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, per le valutazioni di professionalità, nonché in materia di incompatibilità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie”, in pratica le più importanti del Consiglio stesso. La nuova legge dispone che i componenti “sono individuati annualmente tramite sorteggio”. Non basta ancora perché la legge impone che “all’interno del Csm non possano essere costituiti gruppi tra i suoi componenti”. Quindi “ogni membro esercita le proprie funzioni in piena indipendenza ed imparzialità”. La legge elettorale per il “nuovo” Csm - Per eleggere venti togati (anziché 16) - i laici saranno 10 anziché 8 - scatta una nuova legge elettorale. Che non prevede il sorteggio in prima battuta. Ma ci sarà solo un eventuale sorteggio qualora le liste non raggiungano i dieci candidati, sempre nel rigido rispetto della parità di genere. Venti collegi, di cui uno per la Cassazione e uno per i fuori ruolo “formati in modo che ciascuno comprenda un numero di elettori tendenzialmente pari ad un diciassettesimo del corpo elettorale”. Due turni di votazione, in cui “l’elettore esprime fino a quattro preferenze progressivamente ordinate e numerate sulla scheda. Se l’elettore ne esprime più di una, le stesse devono essere espresse sulla scheda alternando candidati di genere diverso”. E ancora: “Ogni collegio deve esprimere un numero minimo di dieci candidature, di cui cinque per ciascun genere, e rispettare la parità di genere anche nel caso in cui esprime un numero superiore di candidature”. Anche in questo caso, dunque, è fatta salva la parità di genere. L’escamotage del sorteggio - Ma ecco il passaggio della legge in cui compare, per la prima volta nella storia del Csm, la prassi del sorteggio: “Quando le candidature sono in numero inferiore a dieci, oppure quando non rispettano la parità di genere, l’ufficio elettorale centrale procede, in seduta pubblica, all’estrazione a sorte delle candidature mancanti tra i magistrati eleggibili, in modo tale che, tramite estrazione da elenchi separati per genere, sia raggiunto il numero minimo di candidature e rispettata la parità di genere. I magistrati eleggibili sono estratti a sorte in numero pari al quadruplo di quelli necessari per raggiungere, procedendo nel rispetto della parità di genere, il numero minimo di dieci o, nel caso in cui tale numero sia stato rispettato, per garantire comunque la parità di genere nelle candidature espresse. I magistrati estratti a sorte sono inseriti in un elenco numerato progressivamente, differenziato per genere, formato secondo l’ordine di estrazione”. No ai membri laici dal governo - Via libera come voleva il Pd (ma Bonafede si è opposto fino all’ultimo) ai membri laici del Csm provenienti anche dalle Camere, ma stop a quelli che sono al governo. Dice la legge: “I componenti sono scelti tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra gli avvocati dopo quindici anni di esercizio professionale, purché non siano componenti del Governo o non lo siano stati negli ultimi due anni, non siano componenti delle giunte delle Regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano o non lo siano stati negli ultimi due anni”. Con questa legge non sarebbe entrato al Csm Giovanni Legnini, ma sarebbe entrato invece l’attuale vice presidente David Ermini. Il primo era sottosegretario, il secondo semplice deputato. Stop al carrierismo post Csm - Si ferma per legge anche la corsa a posti di vertice dopo i quattro anni passati al Csm. Palamara, ad esempio, non avrebbe potuto presentare la domanda per il posto di procuratore aggiunto a Roma. Perché la legge recita così: “Prima che siano trascorsi quattro anni dal giorno in cui ha cessato di far parte del Csm, il magistrato non può proporre domanda per un ufficio direttivo o semi-direttivo, fatto salvo il caso in cui l’incarico direttivo o semi-direttivo sia stato ricoperto in precedenza. Prima che siano trascorsi due anni dal giorno in cui ha cessato di far parte del Csm, il magistrato non può essere collocato fuori del ruolo organico per lo svolgimento di funzioni diverse da quelle giudiziarie ordinarie”. Le toghe in politica mai più in servizio - I magistrati che vogliono entrare in politica non possono farlo nello stesso luogo dove “hanno prestato servizio nei due anni precedenti la data di accettazione della candidatura”. Anche se non eletti non possono ritornare dove si sono candidati. A incarico concluso, se non sono maturi per la pensione, saranno “inquadrati in un ruolo autonomo del ministero della giustizia o di altro ministero”. Quindi devono lasciare la toga per sempre. Tempi ridotti per l’accesso in magistratura - Finisce in compenso il business delle scuole post laurea perché “i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni possano essere immediatamente ammessi a partecipare al concorso per magistrato ordinario”. Togati eletti col “mini-sorteggio”, c’è già il no della magistratura di Errico Novi Il Dubbio, 6 agosto 2020 Si è detto: la riforma del Csm non è un totem. Va oggi in Consiglio dei ministri ma tutti i suoi promotori, dal guardasigilli Bonafede agli sherpa della maggioranza, assicurano che il testo è aperto all’esame del Parlamento, e alle audizioni. Bene. Quando sarà l’Anm essere audita, se ne vedranno delle belle. Perché da una rapida ricognizione, il sistema per eleggere i togati che la riforma ha individuato lascia assai perplessa la magistratura associata. Non tanto per l’opzione dei 19 collegi, destinati a sostituire l’attuale collegio nazionale unico, o per il meccanismo uninominale a doppio turno, quanto per quel sorteggio residuale riemerso in extremis, sotto una specie tutta particolare. Come recita l’articolo 23 del ddl, “ogni collegio deve esprimere un numero minimo di dieci candidature, di cui cinque per ciascun genere, e rispettare la parità di genere anche nel caso in cui esprime un numero superiore di candidature. Quando le candidature sono in numero inferiore a dieci oppure quando le candidature non rispettano la parità di genere l’ufficio elettorale centrale procede, in seduta pubblica ad estrazione a sorte delle candidature mancanti”. Una previsione sulla quale dall’Anm già riecheggia un dissenso netto, e argomentato. “Il punto di caduta? In teoria le correnti potrebbero presentare un numero di candidature civetta sufficiente a raggiungere quota 10, e concentrarsi sull’unico candidato autentico”, ipotizza Eugenio Albamonte, segretario del gruppo progressista “Area” ed ex presidente dell’Anm. “Finisse così, avremmo un esito distorsivo peggiore delle prassi che si ritiene di modificare. In pratica è assai più probabile che ci si trovi con magistrati costretti dal sorteggio a candidarsi seppur poco motivati. Risultato: si crea solo confusione”. Il dissenso di Albamonte è tanto più deciso considerato che invece sui nuovi collegi territoriali la sua valutazione è tendenzialmente positiva: “Le candidature esterne all’attuale panorama delle correnti sarebbero comunque incoraggiate: in un singolo distretto, o in pochi distretti aggregati in uno stesso collegio, è assai più plausibile che un magistrato apprezzato dai colleghi possa proporsi a prescindere dal sostegno di un gruppo. Ci sono aree in cui esistono singoli uffici molto partecipi, che potrebbero esprimere una propria specifica rappresentanza, legata ad aspetti professionali. Basta non prevedere soglie minime di candidature: il quadro sarebbe comunque più eterogeneo”. La pensa così anche Antonio Sangermano, presidente del Tribunale dei minori a Firenze, ex vicepresidente dell’Anm e promotore di “Movimento per la Costituzione”, il gruppo distaccatosi da Unicost e destinato a creare una coalizione con Magistratura indipendente: “Sulla carta si rischia davvero di rafforzare le correnti, che sarebbero sollecitate a mettere in campo candidati- fantoccio per rinfoltire il parterre: si genera solo confusione. Si può anche intuire l’ansia di scongiurare l’infortunio delle ultime elezioni per la categoria requirente, quando le 4 correnti hanno ritenuto di proporre un solo candidato ciascuna, e ovviamente sono stati eletti tutti, visto che i seggi erano proprio 4. Ma la cosa non si risolve triplicando o quadruplicando la soglia minima dei candidati rispetto all’attuale numero dei gruppi”. Sangermano dissente in modo netto anche da altre norme inserite nella riforma: “L’ipotesi che chi aspira a un incarico direttivo debba fare una sorta di corso accelerato alla Scuola superiore della magistratura rasenta l’umiliazione. Che è conclamata nell’ipotesi di costringere un procuratore capo a tornare sostituto per quattro anni prima di potersi candidare a un nuovo incarico. Così si mandano al macero le professionalità, e non so se davvero è l’evoluzione di cui la magistratura ha bisogno”. Se ne discuterà per mesi. Anche perché la materia suggerisce considerazioni anche di segno opposto. Ieri per esempio l’azzurro Pierantonio Zanettin, deputato attento alle modifiche dell’ordinamento giudiziario, anche perché reduce dal mandato nella precedente consiliatura del Csm, ha previsto una ulteriore legittimazione del “ruolo delle correnti della magistratura, che a parole si vorrebbe limitare”, visto che “il ballottaggio avviene non fra i due migliori candidati, come in tutti i sistemi elettorali a doppio turno, ma tra i migliori quattro. Guarda caso le correnti sono proprio quattro. È chiaro”, secondo Zanettin, “che così si rendono inevitabili desistenze e accordi correntizi”. Ma Albamonte capovolge il discorso: “Sarebbe poco plausibile che una corrente decida di scomparire da un intero collegio, sarebbe una scelta autolesionistica”. Si vedrà. Certo che basta la parola, sorteggio, per arroventare ogni discussione sul Csm. Approvata la legge per la sicurezza dei medici: pene fino a 16 anni La Repubblica, 6 agosto 2020 Ok definitivo del Senato. Violenza aumenta ma nell’80% dei casi non viene denunciata. Inasprimento delle pene fino a 16 anni di carcere, sanzioni amministrative fino a 5mila euro, la previsione della procedibilità d’ufficio senza la necessità che vi sia querela da parte della persona offesa. E l’istituzione di un Osservatorio ad hoc e l’istituzione di una Giornata nazionale. E’ ormai legge, con il via libera definitivo arrivato oggi all’unanimità dal Senato, il ddl sulla sicurezza degli operatori sanitari e socio-sanitari. L’iter dell’attesa legge, per la tutela di medici, infermieri, odontoiatri, veterinari, farmacisti, biologi, tecnici e tutti gli operatori sanitari, è partito dall’iniziativa dell’ex ministro della Salute Giulia Grillo, del governo Conte-Uno. La norma estende alle lesioni gravi o gravissime causate a operatori sanitari le aggravanti previste per le aggressioni a un pubblico ufficiale: le pene sono quindi da 4 a 10 anni per le lesioni gravi e da 8 a 16 anni per le lesioni gravissime. Nel caso in cui l’aggressione non costituisca reato, chi usi violenza, offenda o molesti gli operatori sanitari dovrà pagare una multa da 500 a 5 mila euro. Sono poi previste varie iniziative, come l’istituzione di un Osservatorio nazionale, costituito per la metà da donne, per monitorare gli episodi di violenza e promuovere la prevenzione, anche con l’uso della videosorveglianza; la stipula di protocolli fra le strutture sanitarie e le forze di polizia e l’istituzione della “Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari”. Soddisfatto il ministro della Salute Roberto Speranza: “Da oggi - ha commentato - c’è una Legge che difende con più forza da ogni forma di aggressione i professionisti sanitari e il loro lavoro. L’approvazione definitiva del disegno di legge rappresenta un importante traguardo, che ha unito Governo, Parlamento e mondo della sanità”. Gli episodi di violenza e le aggressioni a chi lavora negli ospedali e negli studi, ha aggiunto, “sono inaccettabili. Ci prendiamo cura di chi si prende cura di noi”. Parla di un “gesto concreto” a tutela dei professionisti anche il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, che ricorda come “la violenza contro medici, infermieri ed operatori è frequente, aumenta sempre di più ed i casi sono sicuramente sottostimati: 4 o 5 violenze al giorno ma si ipotizza che siano molte di più”. Una legge, sottolinea, che “non vuole dare un messaggio di repressione, bensì di giustizia e corretta gestione della tensione a cui sono sottoposti gli operatori in prima linea”. Parla di “risultato storico” M5S e per il Pd questa legge è “necessaria”. Dedica il risultato raggiunto a “Paola Labriola e a tutte le colleghe e i colleghi vittime di violenza” la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo). Ora, afferma il presidente Filippo Anelli, “è il momento di una vera riforma del Servizio sanitario nazionale”. E’ uno strumento, rileva inoltre Carlo Palermo, segretario del sindacato medico Anaao-Assomed, che si rende “ancor più necessario dal momento che la pandemia da Covid-19 ha indebolito fortemente il Ssn esponendo ancora di più la categoria. Infatti, le migliaia di prestazioni sospese durante la fase acuta dell’emergenza ricadono ora sull’organizzazione”. Ed il fenomeno della violenza continua ad essere purtroppo un’emergenza. I numeri delle aggressioni fisiche e verbali, secondo una recente indagine Anaao, infatti, confermano un trend in ascesa anche se l’80% dei casi non viene denunciato. Per quanto riguarda le discipline interessate dal fenomeno, l’86% degli psichiatri dichiara di aver subito aggressioni, il 77% dei medici di medicina d’urgenza, il 60% dei chirurghi, il 54% dei medici del territorio, il 40% degli anestesisti. Ma “la nostra azione in difesa dei colleghi non si ferma qui. Continueremo a chiedere - conclude Palermo - l’approvazione di una tutela giudiziaria relativa al periodo emergenziale che limiti per i medici e gli operatori sanitari la procedibilità in ambito penale, civile, amministrativo ed erariale esclusivamente a fatti commessi con dolo”. Ecco perché è stato prorogato il 41bis a Raffaele Cutolo di Giancarlo Tommasone stylo24.it, 6 agosto 2020 Il decreto che ha stabilito il prolungamento del regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis, nei confronti del boss della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo (che la scorsa settimana ha lasciato il penitenziario di Parma per essere trasferito in una struttura sanitaria della città emiliana), è stato siglato l’undici settembre del 2019 (l’istruttoria era stata avviata il precedente 15 maggio). I motivi che hanno portato il Ministero della Giustizia a estendere la misura per i successivi due anni nei confronti del padrino di Ottaviano (oggi 78enne e gravato da numerose patologie), sono riassumibili in tre punti: “Il gruppo di appartenenza è attualmente attivo e presente sul territorio e, in concreto, la potenzialità organizzativa del gruppo criminale non è venuta meno, né si sono acquisiti nuovi elementi da cui desumere una minore operatività dello stesso, anche in riferimento al ruolo e alla situazione personale del detenuto”; “non si sono verificate sopravvenienze da cui desumere un mutamento del ruolo della posizione del detenuto all’interno dell’organizzazione, né lo stesso ha operato condotte che si sono poste in conflitto con la sua appartenenza all’organizzazione”; “il decorso del tempo trascorso in detenzione non ha mutato il ruolo e la funzione del soggetto (Raffaele Cutolo, ndr) all’interno dell’organizzazione”. Inoltre, è riportato nero su bianco nel decreto a firma del ministro della Giustizia, “la Dda ha affermato che appare quasi superfluo rammentare - anche in questa sede come nei precedenti rinnovi - come da innumerevoli risultanze processuali, Raffaele Cutolo risulta essere elemento di spiccatissima pericolosità sociale. Capo indiscusso del sodalizio criminoso denominato “Nuova camorra organizzata”, Cutolo fu artefice della più vasta opera di proselitismo criminale, svolta dall’interno dell’ambito carcerario: come emerge da numerosissime e ormai storiche risultanze processuali, è proprio attraverso le direttive impartite dal carcere, che Cutolo (detenuto dal 25 marzo del 1971) ha costituito la sua organizzazione delinquenziale”. Scagionato dalle accuse di mafia, ma per il Tar ha parentele “rischiose” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 agosto 2020 L’odissea del titolare di una farmacia, fatto fuori dal sistema pubblico per “calabresità”. L’interdittiva antimafia continua a far discutere. È ciò anche se tale provvedimento amministrativo, come noto emesso dal prefetto in assenza di un giudicato penale ma solo sulla base del “sospetto”, sia stato recentemente dichiarato esente da profili di illegittimità costituzionale. Con la sentenza 57 dello scorso 26 marzo, la Consulta ha infatti stabilito che l’interdittiva antimafia “non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, essendo giustificato dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”. Non è stato sufficiente, allora, al titolare di una farmacia essere assolto da tutte le imputazioni per poter riprendere la propria attività. L’ostacolo, al momento insormontabile, è rappresentato proprio dall’interdittiva antimafia. Un caso esemplare - Questi i fatti. Il dottore G. G. rileva agli inizi degli anni 2000 la farmacia di piazza Caiazzo a Milano. La farmacia, aperta nel lontano 1907, è una delle più antiche in città ed è rifornita di farmaci anche difficilmente reperibili altrove. Per la sua vicinanza alla Stazione centrale è poi un punto di riferimento per le numerose comunità straniere presenti. A marzo del 2018 G. G., originario della provincia di Reggio Calabria ma ormai da tanti anni residente a Milano, viene arrestato con l’accusa di essere legato alla criminalità organizzata. Seconda la Procura di Milano, in particolare, la farmacia subirebbe il condizionamento del boss calabrese Giuseppe Strangio, che avrebbe infiltrato proprio personale al suo interno e impiegato anche soldi provento dallo spaccio di stupefacenti. G.G. è dunque accusato poi di non avere le autorizzazioni necessarie e di truffare con i rimborsi il servizio sanitario nazionale. Oltre al titolare, vengono arresti tutti i dipendenti. In totale sono undici. La farmacia viene posta sotto sequestro e i magistrati nominano al riguardo un curatore. L’Asl, informata dell’indagine, revoca immediatamente tutti i permessi. Le indagini vengono condotte con ampio utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali. A fine 2018 il gip scagiona Strangio dall’accusa di riciclaggio perché “il fatto non sussiste”. Passa qualche mese e fa lo stesso anche per tutte le altre imputazioni. La farmacia viene quindi dissequestrata, nonostante il parere contrario del Nas carabinieri di Milano che aveva condotto le indagini. La prima sorpresa di G. G, rientrato in possesso della struttura, è che molti farmaci sono stati mal conservati e lasciati scadere con conseguente danno economico ingente. Nonostante tutto, però, G.G., vuole ripartire. La trafila davanti al Tar - Inizia allora a presentare una serie di istanze alla Prefettura di Milano affinché riveda l’interdittiva antimafia, emessa subito dopo il suo arresto, alla luce dell’assoluzione. Alle istanze, però, nessuno risponde. G.G. decide quindi di rivolgersi al Tribunale amministrativo regionale. La doccia fredda arriva nelle scorse settimane. “Le sopravvenute sentenze di assoluzione non sono idonee a modificare il quadro indiziario”, scrivono i giudici amministrativi. Perché nonostante la decisione dei giudici in ambito processuale, il collegio del Tar ritiene comunque che il titolare sia legato da rapporti parentali ad esponenti di spicco della criminalità calabrese. E che dunque perduri il pericolo di condizionamento mafioso dell’attività della farmacia. L’esercizio del servizio farmaceutico esporrebbe a rischi concreti l’ordine pubblico rendendo “recessive” le pur rilevanti ragioni imprenditoriali. Come se non bastasse, il Tar condanna G.G. anche al pagamento di 2000 euro di spese. Ad assistere G. G. l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm), i cui vertici hanno già dichiarato che presenteranno appello alla decisione del Tar. Stangata della Cassazione alle toghe: la sospensione cautelare può essere sine die di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 agosto 2020 A stabilirlo una ordinanza delle Sezioni Unite dello scorso 16 luglio. La sospensione cautelare per il magistrato può essere “sine die”. Lo hanno deciso le Sezioni unite della Cassazione con una ordinanza del 16 luglio scorso. Il caso era stato sollevato dall’ex pm ed ex parlamentare di Forza Italia Alfonso Papa. Il magistrato era stato indagato, insieme a Luigi Bisignani, nel giugno 2011 con l’accusa di favoreggiamento, concussione e rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta napoletana condotta dal pm Henry John Woodcock sull’associazione P4. Condannato in primo grado, alcune condotte erano state dichiarate prescritte in appello. Nel 2014 era stato nuovamente indagato per concussione sempre dalla Procura di Napoli. La Sezione disciplinare del Csm aveva subito disposto nei suoi confronti la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura. L’ex pm aveva chiesto, senza successo, alla Sezione disciplinare di voler dichiarare l’inefficacia della sospensione cautelare per decorrenza del termine di cinque anni di durata massima previsto dalla legge. La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso di Papa avverso la pronuncia della Sezione disciplinare, ha affermato che “la specificità dello status di magistrato e delle funzioni dallo stesso esercitate giustifica ampiamente, anche nella fase cautelare, una disciplina più rigorosa rispetto a quella dettata per gli altri pubblici impiegati, essendo necessario tutelare soprattutto il dovere e l’immagine di imparzialità e la connessa esigenza di credibilità nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali”. Infatti, dopo aver evidenziato che la disciplina assicura che la sospensione cautelare obbligatoria sia mantenuta fin quanto permangano i presupposti della sospensione facoltativa, ha sottolineato che il magistrato era stato condannato in primo grado alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione e che tale condanna rafforzava le esigenze cautelari in quanto l’eventuale condanna definitiva per i gravi reati commessi avrebbe avuto valore di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della sua attribuibilità all’incolpato’. Il tipo di reati per i quali Papa era stato condannato in primo grado comportava di per sé “la grave menomazione del prestigio dell’ordine giudiziario, legittimando la persistenza della misura cautelare della sospensione dalle funzioni”. In conclusione, per i giudici di piazza Cavour, la Sezione disciplinare del Csm aveva congruamente motivato, senza incorrere in vizi logici e giuridici, “le ragioni del diniego della revoca della sospensione cautelare obbligatoria originariamente disposta”. Mobbing e straining: figure distinte ma equiparabili sul piano processuale e risarcitorio di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2020 Lo straining è una figura affine al mobbing dal quale si differenzia per l’assenza di condotte reiterate nel tempo da parte del datore di lavoro e per la conseguente mancanza di un intento vessatorio idoneo ad unificarle all’interno di un fenomeno comportamentale unitario. In proposito, ha precisato il Tribunale del Lavoro di Pavia con la recente sentenza n. 85/2020 che se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata, o comunque con più azioni prive del carattere della continuità, si è in presenza dello straining, comportamento che produce una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa e, in genere, una situazione stressante, che, a sua volta, dando luogo a disturbi psico-somatici, psico-fisici o psichici, pur mancando del requisito della continuità nel tempo della condotta considerata, può essere sanzionato in sede civile al pari del mobbing. La vicenda - Un dipendente comunale conveniva in giudizio il datore di lavoro lamentando un pluridecennale “calvario” lavorativo fonte di danni patrimoniali e non patrimoniali di cui chiedeva il risarcimento. Segnatamente il lavoratore asseriva che a seguito di rifiuto della concessione di alcuni permessi per pratiche edilizie e dopo aver denunciato alcune irregolarità, era divenuto per il datore di lavoro “un elemento scomodo, da ridimensionare e penalizzare”. Il datore di lavoro si difendeva affermando la contraddittorietà della ricostruzione degli eventi fatta dal dipendente, allegando a conforto un compendio documentale. La decisione - Investita della controversia, la sezione lavoro del tribunale di Pavia ha innanzitutto richiamato la vigente normativa sul rapporto di lavoro subordinato secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. In tema vanno richiamate le figure del mobbing e dello straining. Ebbene si parla di mobbing lavorativo qualora ricorrano insieme: una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica o nella propria dignità; l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi. A ben vedere l’elemento qualificante della figura in esame va ricercato non tanto nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Simile, tuttavia distinta, dalla fattispecie appena esaminata è la figura dello straining. In particolare, lo straining può essere definito come una “forma attenuata” di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di singoli comportamenti quali il demansionamento, la dequalificazione, l’isolamento o la privazione degli strumenti di lavoro. Segnatamente al fine di accertare la configurazione dello straining occorre valutare se la situazione di conflitto venutasi a creare fra le parti sia stata accentuata dal comportamento del lavoratore, dal momento che il contributo che questi abbia dato, con le proprie condotte, alla determinazione di una situazione di conflitto duratura nel tempo conduce ad escludere la possibilità di risarcimento. In altre parole, è la stessa condotta del lavoratore che può impedire l’individuazione di una condotta stressogena del datore di lavoro nei suoi confronti. In ogni caso - si badi - le predette figure trovano entrambe rilevanza giuridica mediante l’articolo 2087 del codice civile, tanto che, da un lato, non incorre in violazione dell’articolo 112 Ccil giudice che qualifichi la fattispecie in termini di straining a fronte di una deduzione di mobbing, trattandosi semplicemente di differenti qualificazioni di tipo medico-legale utilizzate per identificare comportamenti ostili connotati da rilevanza giuridica alla luce del precetto normativo e, dall’altro lato, che, quale che sia la qualificazione giuridica assegnata ai comportamenti ascritti al datore di lavoro, incombe in ogni caso sul lavoratore l’onere di provare, oltre l’esistenza del danno, anche la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra. Di talché, solo a fronte di tale prova, sussiste per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno lamentato dal lavoratore. Emilia-Romagna. “Tutelare i genitori reclusi con figli”: la proposta dei Garanti di Ambra Notari redattoresociale.it, 6 agosto 2020 Garante delle persone private della libertà e Garante per l’infanzia dell’Emilia-Romagna insieme per chiedere una presa di coscienza per evitare nuovi casi di ‘bambini dietro le sbarre’: “Serve una rete di case protette sul territorio”. Nel 2019, in Emilia-Romagna, sono stati 15 i bambini tra 1 e 36 mesi rinchiusi in carcere con un loro genitore. Permanenze in genere brevi, di meno di una settimana. Ma c’è chi, ancora neonato, ‘dietro le sbarre’ ha passato qualche settimana. Un bimbo ci ha vissuto 10 mesi. In tutto si contano 450 giorni. È Marcello Marighelli, Garante regionale delle persone private della libertà personale a sottolineare questi numeri, raccolti nelle carceri emiliano-romagnoli ma riferiti agli istituti di Bologna e Forlì, perché elle altre strutture non si sono registrati casi. “Sono numeri significativi - ammonisce Marighelli - sia in termini di presenze, sia in termini di giorni. La normativa è complessa: le madri detenute che scelgono di tenere i figli con sé devono essere accolte negli Icam o in case protette e, solo in via residuale e solo fino ai 3 anni, nella sezione nido del carcere. In regione non c’è nulla di tutto ciò, non è prevista nessuna di queste tre opzioni. Fino a oggi le case circondariali di Bologna e Forlì si sono adoperate per sopperire a queste presenze, ma questa situazione deve finire”. Per affrontare questa necessità, Marighelli e Clede Maria Garavini, la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, hanno presentato in commissione la proposta di una nuova programmazione. La soluzione, secondo i garanti, sarebbe l’individuazione di una casa famiglia protetta, idonea sia a garantire il rispetto dei diritti dei minori, sia a rispondere alle esigenze della donna detenuta che, “toccata dalla legge penale, potrebbe avere lei in primis bisogno di un ambiente accogliente dove meglio potersi dedicare al bimbo e di un percorso di supporto alla genitorialità. Le donne detenute, in questo modo, avrebbero anche la possibilità - per loro e per i propri figli - di sottrarsi a un ambiente talvolta criminogeno”, spiega Marighelli. La casa famiglia auspicata è una casa protetta diffusa, una rete di case protette sparse sul territorio, da individuare tra quelle già esistenti destinate all’accoglienza mamma-bambino, naturalmente rispettose dei requisiti previsti dalla legge. “Una casa protetta ad hoc per le madri detenute, per fortuna, resterebbe vuota per gran parte dell’anno - spiegano i garanti -. Questo renderebbe difficile la gestione di tutti i professionisti che dovrebbero garantire supporto a madri e figli. Se, invece, puntiamo a strutture già esistenti, il problema non si porrebbe, e la qualità di educatori, luoghi e dotazioni sarebbe assicurata. Anzi, sia le donne sia i bambini si ritroverebbero a vivere in un sistema rodato, con evidente vantaggio per l’approccio a una quotidianità il più ‘normale’ possibile”. “È la scienza a dirci che un bambino non può stare in carcere - sottolinea Garavini - e lo ribadisce la Convenzione Onu. I bambini hanno diritto a una crescita sana, a sperimentare opportunità ricche e diverse. Hanno diritto di vivere all’interno di relazioni serene, in contesti educativi che sappiano rispondere in maniera adeguata ai loro bisogni. Tutte questo in carcere non si trova: la madre detenuta non è nelle condizioni di essere serena, propositiva, di accogliere e sostenere la crescita. Gli ambienti sono limitati e limitanti, non attrezzati. Il bambino diventa vittima dello stato di detenzione del genitore, la condanna del genitore diventa la condanna del bambino, poi identificato come ‘figlio del detenuto’, con tutto quello che ne segue in termini di evoluzione e possibilità”. Per questo la casa protetta è la soluzione: un ambiente a dimensione familiare, il nido, la scuola, i giochi, l’attività fisica, sportiva e ricreativa. E poi programmi di sostegno alla genitorialità: “Un investimento forte sul bambino permette di trasformare la vita dei genitori: il figlio diventa fonte di ripresa”. Secondo i garanti i tempi sono maturi per una scelta in questo senso: “Negli ultimi anni è aumentata molto la consapevolezza - spiega Marighelli. Vanno registrati anche le disposizioni e i patti nazionali e internazionali: non è possibile rimandare oltre. Al momento registriamo una buona rispondenza nelle sedi istituzionali”. Anche Garavini parla di comprensione immediata e condivisa a livello politico: “Questo è un tema su cui siamo pressoché certi potremo incontrare l’appoggio di tutti: la tutela del minore è impegno prioritario. Un bambino in carcere non è ammissibile, nemmeno per un giorno”. Oltre all’individuazione di una casa protetta (quindi accoglienza extracarceraria), la nuova programmazione condivisa dai garanti prevede, a partire dall’anno in corso e per tutto il 2021, azioni di monitoraggio per assicurare la piena attuazione della normativa europea in materia di relazioni tra genitori detenuti e figli (di qualsiasi età), che garantisce regolarità e stabilità nei contatti anche telefonici e telematici tra figli e genitori detenuti: “Vogliamo dare un contributo reale al benessere delle bambine, dei bambini e degli adulti che vivono le loro relazioni affettive nel corso di una pena o di una misura cautelare”. Fra le altre proposte, i garanti risollecitano esperienze formative per gli operatori di polizia penitenziaria che si occupano degli incontri in presenza fra genitori e figli. “Percorsi di sensibilizzazione ancor prima che di formazione”, specifica Garavini. “Le misure proposte non eliminerebbero il fenomeno - conclude Marighelli - ma se ci fosse un’alternativa valida avremmo sicuramente maggiori garanzie. Non possiamo più accettare situazione come quella che pochi giorni ha visto protagonista una bambina di 4 anni, in carcere per 4 giorni con la madre, in emergenza sanitaria - il riferimento è alla vicenda raccontata da Redattore Sociale lo scorso giovedì -. Non sappiamo cosa sia successo, spesso capita che una misura domiciliare non possa essere presa in considerazione perché, nei fatti, un domicilio non c’è. Se ci fosse stata una casa protetta le cose sarebbero andate diversamente, e la piccola avrebbe evitato di passare 4 giorni in una camera detentiva”. Torino. Cadute e denti rotti, quegli strani incidenti avvenuti in carcere di Sara Strippoli La Repubblica, 6 agosto 2020 Il Garante regionale dei detenuti: “In un anno 75 infortuni con motivazioni lunari”. Da gennaio 2018 a fine settembre dello stesso anno sono stati registrati 166 strani incidenti all’interno del carcere di Torino, infortuni etichettati come accidentali che destano molto sospetti. Ancor di più visto che 75 si sono verificati all’interno di un solo padiglione. Lo ha comunicato ieri mattina in aula al Consiglio regionale il garante dei detenuti Bruno Mellano, che ha citato una relazione del garante nazionale e presentato una documentata analisi della situazione nelle carceri del Piemonte. Dopo i fatti riscontrati al carcere Lorusso-Cutugno, una vicenda che ha portato a indagare 25 persone e a rimuovere il direttore del carcere Domenico Minervini, quei fatti devono essere riletti con grandissima attenzione: “Leggendo il resoconto di quegli incidenti emerge che si tratta di infortuni raccontati con motivazioni che potrei definire lunari - dice Mellano - denti rotti mangiando una insalata, tumefazioni al naso causate da collanine appuntite, cadute dallo sgabello mentre si gioca al solitario. Tutti episodi che lasciano perplessi”. Di sicuro episodi che necessitano di una verifica, assicura Mellano. Nella fotografia presentata in aula anche i dati sulla positività al Covid-19 registrata nelle carceri del Piemonte: più di un terzo dei detenuti che sono risultati positivi in tutta Italia sono in carcere in Piemonte, 287 in tutto il Paese, 107 nelle tredici carceri della nostra regione, 78 a Torino, 25 a Saluzzo e 4 nella Casa Circondariale di Alessandria. La giornata in cui si è registrato il picco di persone positive al coronavirus ha fissato il numero a quota 161 contagiati, in Piemonte si è superata quota 60. Per il Pd un segnale che l’assessore alla sanità regionale Luigi Icardi e il resto della giunta “devono fare di più per la salute dei detenuti e di chi lavora in carcere”, commentano il capogruppo Dem Raffaele Gallo e la consigliere Monica Canalis. Problematica anche la situazione della carenza di posti in seguito ai cantieri aperti: la relazione di Mellano rivela che da una verifica aggiornata a lunedì, sono 248 le camere e 510 i posti non disponibili nelle carceri del Piemonte. La sintesi del garante coinvolge la Regione: “C’è urgente necessità di un ruolo maggiormente dinamico dell’ente rispetto alla situazione della sanità penitenziaria”. Ivrea (To). Episodi di violenza archiviati, ora si chiede a Torino di avocare l’inchiesta di Ottavia Giustetti La Repubblica, 6 agosto 2020 Il lungo silenzio sulle violenze nel carcere di Ivrea, denunciate ormai da più di cinque anni, e sempre archiviate dalla Procura, ora si trasforma in un caso alla luce dell’inchiesta torinese nata dalla relazione della garante Monica Gallo e arrivata a configurare il reato di tortura. È stato il Garante regionale Bruno Mellano a risollevare l’attenzione su quattro episodi che hanno una tortuosa storia giudiziaria e per i quali garante e associazione Antigone hanno chiesto che sia la procura generale di Torino ad avocare i fascicoli. I maltrattamenti dei detenuti all’interno della “cella liscia”, quella che dalle guardie penitenziarie veniva chiamato “l’acquario”: una stanza al piano terra del carcere che avrebbe dovuto essere la sala d’attesa dell’infermeria e dove, invece, i detenuti venivano chiusi anche per ore, senza che nessuno potesse vedere all’interno, mentre erano sottoposti a trattamenti “di contenimento”. Le segnalazioni riportavano tre pestaggi specifici e quella che è stata battezzata la “repressione di ottobre” per i fatti avvenuti nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016. Testimonianze molto dure nelle quali si raccontava di almeno due detenuti vittime delle guardie carcerarie, trattenuti prima in una delle celle del carcere e poi nel cosiddetto “acquario”, la stanza che veniva usata, illecitamente, come “cella di contenimento”. La Garante nazionale, Emilia Rossi, dopo una visita a Ivrea confermò il racconto delle vittime in una relazione ufficiale: “Gli agenti fecero ingresso nella stanza di uno di loro lanciando il getto dell’idrante sul pavimento interno e lo presero violentemente a schiaffi e pugni sul viso e sulla testa e, quando era scivolato a terra, a colpi di manganello sul costato”. Il racconto è riportato anche dall’associazione Antigone e dalla pagina web infout.org, sulla quale gli altri detenuti scrissero: “Noi qui stiamo testimoniando tutto quello che è accaduto, poteva esserci un altro caso Cucchi, addirittura più accentuato e che avrebbe coinvolto altre persone”. Dopo anni di richieste di giustizia alla procura di Ivrea, che invece ha risposto con quattro richieste di archiviazione, è stato il gip Stefania Cugge a rimandare indietro i fascicoli chiedendo di svolgere le indagini ulteriori per individuare i responsabili dei pestaggi. A febbraio di quest’anno, quando a Torino è scoppiato il caso Vallette, l’avvocata della garante, Maria Luisa Rossetti, ha chiesto aiuto alla procura generale depositando un’istanza di avocazione. Fino a ora non sono arrivate risposte e intanto la procura di Ivrea ha chiesto nuovamente l’archiviazione che il gip aveva respinto. Caserta. La Garante dei detenuti: “Bisogna abbattere il muro del pregiudizio” di Alina D’Aniello informareonline.com, 6 agosto 2020 L’intervento di Emanuela Belcuore. Una figura, quella del garante, che assume particolare rilevanza in un momento storico, e più in generale in una società, dove nella normativa giudiziaria circa la detenzione, c’è un’incompatibilità tra la limitazione della libertà personale e la tutela dei diritti fondamentali, spesso subordinati alla prima. Una figura oggi rivestita da Emanuela Belcuore, recentemente nominata garante dei diritti delle persone detenute della provincia di Caserta, che conta quattro istituti di pena. Un compito gravoso, specie se si guarda alla recente emergenza sanitaria, che ha visto numerose rivolte all’interno delle carceri. Tra i suoi progetti, oltre quello di svolgere una funzione di presidio su tutte le forme di privazione della libertà e di garantire che sia osservata la normativa vigente, il tema del lavoro e dell’affettività. La sua recente nomina arriva immediatamente dopo la questione delle carceri durante il lockdown. Quali sono i progetti in cantiere e come intende muoversi nei prossimi mesi? “I progetti che ho in cantiere sono due. In primis, mi concentrerò sul tema del l lavoro, creando una cordata di imprenditori che offrano un impiego ai detenuti in carcere, operazione che avverrà tramite delle cooperative. Il fatto che queste persone siano state private della loro libertà non li rende privi di dignità, restituibile solo attraverso il lavoro. È importante, dunque, abbattere il pregiudizio e non nascondere la polvere sotto il tappeto. Ne approfitto per fare un appello a tutti gli imprenditori, in modo tale che possano contribuire alla creazione dei corsi di formazione in carcere, costituendo un ponte tra esterno ed interno. Inoltre, il lavoro rappresenta una dimensione fondamentale nella riabilitazione dopo il carcere, che scoraggia il ritorno a delinquere. Un altro aspetto su cui mi concentrerò è quello dell’affettività, predisponendo delle zone in cui i detenuti e le detenute possano incontrarsi con i propri congiunti. Anche in questo caso, l’essere privati della propria liberà non comporta il non avere diritto ad un’intimità con la propria famiglia”. Come stanno funzionando le strutture - come le case lavoro - preposte alla riabilitazione del detenuto? “In Campania l’unica casa lavoro che abbiamo si trova ad Aversa, dove paradossalmente non c’è lavoro. Ci sono ettari di terra che potrebbero essere coltivati, creando cooperative. Purtroppo però, questo non viene fatto, evidenziando un problema culturale non indifferente. Il vero lavoro deve venire dall’esterno e dalla buona volontà degli imprenditori. Sottolineo nuovamente la necessità di fare una rete, perché la singola azienda non basta”. Di recente sono stati pubblicati i dati relativi alla popolazione detenuta, dove è stato evidenziato un calo di presenze, indice che potrebbe rivelare un cambiamento importante. Cosa ci può dire circa questi numeri e sul problema del sovraffollamento? “Per quanto riguarda le carceri del casertano, ora non c’è più quest’emergenza: ad Arienzo, ad esempio sono 46 detenuti, ad Aversa 124, Carinola ve ne sono circa 400, mentre Santa Maria Capua Vetere neanche 900, numeri legati ad una struttura decisamente più ampia. Questo grazie al decreto svuota-carceri approvato durante l’emergenza sanitaria da Coronavirus. Inoltre, è importante sottolineare il fatto che in questo periodo ci sono stati meno arresti, data “l’impossibilità” delle persone a delinquere. Dunque, ci sono stati meno ingressi, a fronte delle uscite. Circa le carceri del napoletano, invece, come Poggioreale, c’è sicuramente un problema di sovraffollamento”. La tematica della tutela diritti dei detenuti sembra sempre passare in secondo piano, o meglio, messa volutamente da parte. A che punto è il dibattito sulla questione? “Grazie al coronavirus si è sicuramente accesa una luce ad occhio di bue sulla faccenda. Tuttavia, credo che ci sia ancora molta strada da fare perché si possa parlare di tutela dei diritti dei detenuti. Il problema, come dicevo anche prima, è culturale ed è legato a doppio filo al pregiudizio. Facilitare ed incentivare l’ingresso dei detenuti nella società civile abbassa la recidiva. Questa però, dovrebbe essere una prerogativa dell’intera comunità, che continua a vedere il detenuto come un elemento “lontano” dalla sua vita”. Foggia. Petralia visita la Casa circondariale di Marco Belli gnewsonline.it, 6 agosto 2020 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, questo pomeriggio ha visitato la casa circondariale di Foggia. Si tratta della quarta tappa - dopo quelle a Siracusa, Torino e quella sarda di Cagliari e Nuoro - del viaggio che porterà il numero uno del Dap in tutti gli istituti italiani. Nel carcere foggiano Petralia è stato accolto dal provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, Giuseppe Martone, dal direttore della casa circondariale, Giulia Magliulo, e dal comandante di reparto, Giuseppe Telesca. Insieme a loro ha visitato alcune sezioni detentive, in particolare quelle interessate dalla rivolta del 9 marzo scorso. Come sempre, la visita del capo Dap ha avuto poi il suo momento centrale nel lungo incontro con il personale di Polizia Penitenziaria e del comparto funzioni centrali in servizio all’interno dell’istituto, con il quale si è soffermato ad analizzare i principali problemi da risolvere relativi alla struttura e alle risorse disponibili. Lasciato il carcere e accompagnato dal direttore del Gruppo Operativo Mobile, Mauro D’Amico, e dal comandante pro-tempore del Nucleo Investigativo Regionale di Bari, Roberto Mango, Petralia si è successivamente diretto in Prefettura per un incontro con il Prefetto della Provincia di Foggia, Raffaele Grassi. A lui e a tutta la polizia giudiziaria provinciale, il capo del Dap ha voluto rivolgere il ringraziamento a nome di tutta l’Amministrazione Penitenziaria per l’assistenza prestata in occasione della rivolta del 9 marzo scorso e per la preziosa collaborazione nella cattura di tutti i 72 detenuti evasi dall’istituto. Ferrara. Interno Verde al Galeorto, apre al pubblico l’orto dei detenuti estense.com, 6 agosto 2020 Sabato 12 settembre a Ferrara visita guidata alle coltivazioni dell’Arginone. Interno Verde apre al pubblico il Galeorto, l’orto coltivato dai detenuti. “Sarà un momento importante per promuovere i valori di scambio e condivisione che guidano l’intera organizzazione del festival. Un’occasione per coltivare solidarietà verso realtà che spesso vengono trascurate. L’associazione Ilturco è felice di poter continuare la positiva collaborazione con la Casa Circondariale di Ferrara iniziata nel 2018 e proporre al pubblico ferrarese e di altre province un’esperienza di indubbio valore formativo”, raccontano gli organizzatori. L’eccezionale apertura dell’orto si terrà sabato 12 settembre, dalle 10 alle 11.30, in occasione della quinta edizione del festival dedicato ai giardini segreti del capoluogo estense, che aprirà eccezionalmente al pubblico 70 spazi verdi di grande fascino e interesse. La visita all’interno dell’istituto penitenziario sarà curata dall’associazione Viale K, che si occupa di coordinare il progetto educativo: i partecipanti verranno accompagnati in un itinerario guidato dal personale della Casa Circondariale attraverso le varie aree coltivate dai detenuti, che racconteranno la loro esperienza lavorativa e formativa. “L’idea di coinvolgere uno spazio così particolare, e rendere accessibile un luogo per definizione inaccessibile, è nata per invitare le persone a conoscere una realtà spesso poco considerata e oggetto di pregiudizio. Interno Verde si propone come un festival di relazioni: l’obiettivo è quello di promuovere, attraverso l’interesse trasversale che la cura del giardino è capace di suscitare, una socialità spontanea e vicina, un’atmosfera inclusiva. In quest’ottica l’apertura del GaleOrto ci sembra possa rappresentare un messaggio importante. Ringraziamo già da ora sia la direzione della Casa Circondariale che il personale della polizia penitenziaria e le educatrici, per la grande disponibilità che anche quest’anno hanno dimostrato accogliendo con entusiasmo la proposta di far parte della manifestazione”, concludono i soci de Ilturco. Per scoprire le coltivazioni nascoste tra le mura di cinta che circondano la struttura di via Arginone, e assaggiare le verdure che crescono protette tra le torrette di guardia e il filo spinato, è necessario prenotare la propria partecipazione, che dovrà essere effettuata entro lunedì 24 agosto, comunicando via mail all’indirizzo info@internoverde.it i propri dati (nome, cognome, residenza, data e luogo di nascita, codice fiscale) e allegando una scansione del proprio documento d’identità. L’ingresso è riservato a un gruppo di massimo 30 persone. Lo stesso indirizzo mail sarà a disposizione per dubbi o domande inerenti l’iniziativa. Interno Verde è patrocinato dal Mibac, da Ibc Emilia-Romagna, dal Comune e dall’Università degli Studi di Ferrara, dall’Associazione Nazionale Pubblici Giardini, con l’adesione dell’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio. Per informazioni e iscrizioni: www.internoverde.it. Melfi (Pz). I detenuti a scuola di legalità grazie al calcio di Luca Imperatore gnewsonline.it, 6 agosto 2020 Per i detenuti della Casa Circondariale di Melfi oggi è una giornata speciale e tutta dedicata allo sport. Inizia infatti il corso per arbitri di calcio a 5 organizzato dal Centro Sportivo Italiano del Comitato di Melfi, frutto del progetto “Valori oltre le sbarre”. L’iniziativa, voluta dal presidente del Csi di Melfi Aldo Cilenti e accolta con favore dalla direzione del penitenziario, si è concretizzata grazie alla convenzione siglata tra la Presidenza nazionale del Csi e il Ministero della Giustizia. “Questo importante progetto di carattere sociale - ha spiegato Cilenti - è solo il primo tassello di un’intensa collaborazione che vede impegnate la struttura carceraria e il Comitato melfitano, e tornerà utile ai detenuti che vi partecipano, una volta riacquistata la piena libertà”. A tenere il corso saranno formatori altamente qualificati ed esperti del Csi, che da anni è impegnato nelle carceri italiane con attività sportive e formative. Partecipano al corso 10 detenuti che si alleneranno ogni mercoledì per tre mesi. Alla fine del corso è previsto un test di valutazione e il rilascio dell’attestato con il conseguimento della qualifica di “arbitro di calcio a 5” che potrà essere utilizzato nei comitati del Csi in Italia. “C’è molto entusiasmo tra i detenuti - ha detto Marisa Di Pierro, comandante facente funzioni - la possibilità di partecipare a questo corso è vista come una occasione in più e una sorta di fiducia nei loro confronti”. L’iniziativa, insieme ad altri corsi che si stanno tenendo nell’istituto, come il corso per conduttori cinofili, quello di lettura libera e di arte-terapia, sono la dimostrazione di come sia alto l’impegno e il valore della funzione rieducativa della struttura lucana. Modena. La prima di “Odissea Web”. Gli attori? I detenuti del carcere Il Resto del Carlino, 6 agosto 2020 Questa sera alle 20.15 al Supercinema estivo di Modena (in viale Carlo Sigonio 386) viene presentato il film “Odissea Web”, un progetto realizzato dal Teatro dei Venti durante il lockdown, nel corso delle prove da remoto con gli attori del carcere di Modena e di Castelfranco Emilia. Nel febbraio 2020, a causa della pandemia di Covid-19, il Teatro dei Venti è stato infatti costretto a sospendere le attività formative e produttive che porta avanti da anni nella casa circondariale Sant’Anna di Modena e nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia. Grazie alle donazioni di privati cittadini, sono stati consegnati ai due istituti quattro computer portatili permettendo così di far partire da remoto le prove dello spettacolo che avrebbe dovuto debuttare in forma di studio quest’anno al festival Trasparenze. Questo film è un racconto di quelle giornate, oltre che l’ultimo evento di Trasparenze Festival a Modena. Il progetto vede la regia di Raffaele Manco e Stefano Tè, la sceneggiatura di Vittorio Continelli, Stefano Tè e Massimo Don e fotografia e montaggio di Raffaele Manco. L’ingresso alla proiezione è gratuito con prenotazione obbligatoria al numero 3456018277, oppure scrivendo a biglietteria@trasparenzefestival.it. Trasparenze Festival prosegue con diversi appuntamenti da domani a domenica, nella frazione montana di Gombola. Armi nucleari, l’orrore che dobbiamo eliminare di António Guterres* Corriere della Sera, 6 agosto 2020 Settantacinque anni dopo Hiroshima e Nagasaki, il rischio non è scongiurato. Questo mese segna il 75esimo anniversario del bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki, quando il genere umano apprese sulla propria pelle la devastazione che una singola bomba atomica è in grado di scatenare. La hibakusha, la prolungata sofferenza causata ai sopravvissuti, dovrebbe rappresentare per noi lo stimolo quotidiano a eliminare tutte le armi nucleari. Tuttavia, malgrado essi abbiano condiviso le proprie storie in modo che l’orrore sperimentato da Hiroshima e Nagasaki non sia mai dimenticato, la minaccia nucleare sale, ancora una volta. Una rete di accordi e strumenti legali è stata costruita per prevenire l’uso di queste armi distruttive e giungere a eliminarle del tutto. Tuttavia è da tempo iniziata l’erosione di questo quadro normativo, rimasto inattivo per decenni. La possibilità che le armi nucleari siano utilizzate - intenzionalmente, accidentalmente o in conseguenza di calcoli sbagliati - è pericolosamente elevata. Alimentate da crescenti tensioni internazionali e dalla dissoluzione della fiducia reciproca, le relazioni tra Stati che possiedono armamenti nucleari stanno degenerando in confronti rischiosi e destabilizzanti. Mentre i governi fanno sempre maggiore affidamento sulle armi nucleari per la propria sicurezza, i politici attingono alla retorica per spiegarne il possibile uso e stanziano somme ingenti per perfezionarne il grado di letalità, denaro che sarebbe assai più utilmente speso per uno sviluppo pacifico e sostenibile. Per decenni, i test nucleari hanno avuto orribili conseguenze umane e ambientali. Questa reliquia di un tempo che fu dovrebbe essere per sempre confinata nel passato. Ciò è possibile solamente attraverso un divieto legalmente vincolante e verificabile su tutti i test nucleari. Il Trattato sul divieto globale dei test nucleari ha provato la propria validità, ma ci sono Stati che devono ancora firmarlo o ratificarlo, pregiudicando in tal modo che esso dispieghi in pieno i propri effetti di elemento essenziale della disciplina complessiva per l’eliminazione delle armi nucleari. Insieme al cambiamento climatico, gli armamenti nucleari costituiscono una minaccia esistenziale per le nostre società. La maggior parte delle circa 13.000 armi nucleari attualmente in stoccaggio negli arsenali globali sono enormemente più distruttive delle bombe lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Qualsiasi loro utilizzo scatenerebbe un disastro umanitario di proporzioni inimmaginabili. È ora di tornare alla consapevolezza condivisa che un conflitto nucleare non può essere vinto e non deve essere combattuto; all’intesa collettiva che dovremmo lavorare con l’obiettivo di un mondo libero da armi nucleari; e allo spirito di cooperazione che favorisca il progresso storico verso la loro eliminazione. Stati Uniti e Russia, in qualità di possessori di quasi il 90 per cento delle armi nucleari, devono guidare questo processo. Il Trattato “New Start” contempla criteri verificabili. La sua proroga quinquennale consentirebbe di avere il tempo per negoziare nuovi accordi, tra l’altro includendo altri Paesi possessori di armi nucleari. Il prossimo anno, le Nazioni Unite ospiteranno la Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (Npt), uno degli accordi internazionali di sicurezza di maggior successo. Esso è il solo a prevedere impegni vincolanti adottati dalle cinque maggiori potenze nucleari per perseguire l’eliminazione delle armi nucleari e imporre obblighi verificabili di non acquistare o sviluppare tali armamenti. L’adesione pressoché universale all’accordo significa che la grande maggioranza della comunità internazionale sia vincolata da tali impegni. La Conferenza di revisione del Trattato Npt offre pertanto l’opportunità di contenere l’erosione dell’ordine nucleare internazionale. Fortunatamente, la maggior parte degli Stati membri delle Nazioni Unite resta fedele all’obiettivo di un mondo libero da armi nucleari. Lo dimostra il sostegno che 122 Paesi hanno dato all’adozione del Trattato sul divieto di armi nucleari. Essi si rendono conto che le conseguenze di qualunque utilizzo di armi nucleari sarebbe catastrofico. Non possiamo rischiare un’altra Hiroshima, un’altra Nagasaki o peggio. Riflettendo sulla sofferenza della hibakusha, facciamo che l’umanità colga in questa tragedia l’opportunità di ristabilire un fronte comune e di rafforzare il proprio impegno per un mondo libero da armi nucleari. *Segretario Generale delle Nazioni Unite Migranti. “Sulla rotta balcanica più arrivi che dal mare” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 6 agosto 2020 L’allarme del Viminale. Fino a giugno i 9.300 ingressi rispetto ai 6.800 sbarchi certificati. Se luglio non fosse stato il mese dei flussi record dalla Tunisia a Lampedusa, il 2020 avrebbe potuto essere l’anno del sorpasso. Con l’affermazione della rotta balcanica su quella del Mediterraneo. È stato così fino a giugno con 9.300 ingressi in Europa attraverso la frontiera italo-slovena contro i 6.800 sbarchi sulle coste del Sud, adesso diventati 14.800. E tuttavia la rotta balcanica è stata la più attiva nel 2020 con un più 73 per cento rispetto all’anno scorso, facendo suonare un campanello d’allarme al Viminale. La ministra Lamorgese annuncia il rafforzamento dei contingenti militari, la ripresa dei pattugliamenti congiunti con la polizia slovena e droni per l’individuazione dei migranti. Arrivi triplicati dunque: siriani, afghani, pakistani stipati nei cassoni dei camion, nascosti nei vani motore, provano a passare a piedi nei boschi dei valichi. Turchia, Grecia, Serbia, Bosnia, Slovenia fino all’Italia, lungo il confine che va da Trieste a Udine. Un itinerario oggi assediato dal Covid: “Non possiamo accogliere più nessuno, la situazione è ingestibile, non ci sono strutture per la quarantena. Se viaggiamo a mille immigranti irregolari al mese il rischio sanitario è rilevante”, denuncia il governatore Fedriga al Comitato Schengen che ha annunciato una missione sul nuovo fronte caldo. Non se ne parla più di tanto, ma basterebbero già i numeri ufficiali, quelli dell’agenzia europea Frontex, a confermare che in Italia (anche solo per transito verso il Nord Europa) nei primi sei mesi dell’anno sono arrivati più immigrati via terra che via mare. E se luglio è stato il mese dell’emergenza per Lampedusa, anche il Friuli Venezia Giulia fa contare numeri mai visti negli ultimi cinque anni: 2050 ingressi a giugno, con un’ulteriore impennata a luglio. Numeri per difetto perché - a differenza degli sbarchi che il Viminale riesce a conteggiare con precisione - i migranti intercettati al confine italo-sloveno sono una parte minima rispetto a quelli che riescono a passare. E infatti i numeri riferiti ieri, al question time in Parlamento dal ministro Federico D’Incà, sono decisamente inferiori a quelli di Frontex con circa 2500 persone rintracciate, 620 delle quali (circa il 25 per cento) rimandate dall’altra parte in virtù del contestato accordo italo-sloveno sulle riammissioni sul quale il governo italiano punta moltissimo per i respingimenti immediati alla frontiera. Gli accordi prevedono infatti la possibilità di riconsegnare alla polizia slovena entro 24 ore i migranti trovati sul territorio italiano entro una fascia di 10 chilometri dal confine di stato. “Respingimenti illegali”, li bolla il deputato Riccardo Magi che in un’interrogazione ha dato voce alla denuncia degli avvocati dell’Asgi secondo i quali i migranti verrebbero rimandati indietro ignari di tutto e senza poter presentare domanda di protezione internazionale. Accuse che il Viminale respinge ricordando che la Slovenia è paese della Ue e che chi viene respinto può presentare lì richiesta di protezione. Migranti. La polveriera di Udine. In 500 nell’ultima zona rossa di Brunella Giovara La Repubblica, 6 agosto 2020 Tre casi Covid nell’ex caserma dell’esercito. Il Pd: “Il Friuli non può essere lasciato da solo a gestire i flussi dalla Slovenia. L’Ue ci aiuti”. Questo posto è una polveriera, anche se il reggimento di artiglieria dell’Esercito se ne è andato da anni. Lunedì scorso fuoco e fiamme, 500 migranti chiusi nell’ex caserma come in galera hanno protestato e incendiato materassi, nell’unica zona rossa rimasta in Italia, decisa dal sindaco leghista Fontanini. Tre casi di positività al Covid, 500 in quarantena fino al 15 agosto, si poteva facilmente immaginare che sarebbe finita così, in una rivolta di disperati, afgani, pakistani, cingalesi, gente che arriva seguendo la rotta balcanica, e qui approda, con speranze zero. Martedì ancora qualche fiammata, poi è intervenuta la prefettura che ha portato l’imam sul posto, a calmare gli animi, a mediare. Ieri, calma assoluta, le pattuglie della polizia, i volontari della protezione civile fermi sotto la scritta Caserma A. Cavarzerani, e il tricolore che sventola fiacco. “Gestiamo la situazione con tutte le forze possibili”, dice il questore di Udine, Manuela De Bernardin Stadoan, una che è andata a vedere di persona - non è comune - che cosa stava succedendo dietro al muraglione. Spiega che “a luglio si sono intensificati i rintracci”, le segnalazioni di gruppi di migranti sulle provinciali, uomini giovani, poche donne, ragazzini. La rotta balcanica sputa sulla frontiera centinaia di futuri richiedenti asilo, la Slovenia è a due passi, i controlli sono stati rafforzati sui valichi secondari, strade di montagna, o di pianura, “il ministero ha già mandato e sta ancora mandando rinforzi”, dice il questore. Nessuno però si illude che serva a qualcosa. Ieri, un gruppetto trovato a Cormons. Mercoledì otto del Bangladesh intercettati dai carabinieri a Pozzuolo, periferia di Udine. “Ricordo quando il governatore Fedriga minacciò di costruire un muro lungo tutto il confine, l’abbiamo a lungo canzonato…”. Cristiano Schaurli è il segretario regionale del Pd, e sa che il confine gigantesco da Trieste all’Austria “non è militarizzabile”, giacché non siamo in guerra, quindi “i migranti continueranno ad arrivare, la rotta balcanica ha avuto in questi ultimi 4 mesi più afflusso che quella via mare. L’Europa dovrebbe occuparsi del problema, il Friuli non può essere lasciato solo a gestire i flussi”, alla maniera leghista, poi. Anche il salviniano Fedriga sa benissimo che l’idea del muro è umoristica, roba da vendere agli elettori. Però la rivolta dei 500 “è benzina per il fuoco della Lega”, dice Schaurli, e in questa che è pur sempre la terra di Pasolini e di padre Turoldo (uno che diceva “prima gli esseri umani”) la gente non vuole più vedere gli immigrati, nascono comitati anti caserma, ci si lamenta che le case si stanno deprezzando e via così. Si possono ricordare alcuni precedenti, esperimenti che la Lega più destra ha fatto qui, come il no agli atleti africani alla mezza maratona di Trieste, aprile 2019, o quella volta che il Comune di Codroipo vietò l’uso di bambole di colore negli asili nido. Ma la deriva fascista e pure nazista adesso è più concreta, plateale, esibita. L’altro giorno a Trieste 14 giovani di CasaPound hanno fatto irruzione nel Consiglio regionale - non si sa come si possa entrare così in un palazzo delle istituzioni, ma è stato molto facile - e qui hanno letto un proclama dove si chiedeva di “fare qualcosa” contro i migranti e “la distruzione della società occidentale”. Ed ecco farsi avanti il consigliere leghista Calligaris, che affronta i CasaPound, e cosa gli dice? “Potevate chiedere un incontro, vi spiegavamo che nessuno qui può bloccare la rotta balcanica perché non abbiamo la competenza”. Però li ha subito superati a destra, aggiungendo “io sono uno di quelli che gli sparerebbe, a quella gente lì. Tranquillamente”. Poi si è scusato, ed è stato subito perdonato da Fedriga. E che dire del coordinatore della protezione di Grado, tale Felluga, che ha scritto su Facebook “non preoccupatevi, stiamo organizzando gli squadroni della morte e nel giro di due giorni riportiamo la normalità”. Come si riporta la normalità, in un centro di accoglienza da 300 posti, che oggi ospita 500 persone? “Quattro taniche di benzina e si accende il forno crematorio, così non rompono più”, più chiaro di così. Libano. Beirut, la guerra nel destino di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 6 agosto 2020 La città è sinonimo universale di tormento senza soluzione. La capitale si riconosce nel fragore. E tutto quello che accade qui è una replica, segue uno schema. Sono luoghi comuni, al punto che anche chi non ci ha mai messo piede li conosce: c’è la città che non dorme mai e quella che mai ha pace (e mai l’avrà). La seconda è Beirut. Poi hanno distrutto Sarajevo, Falluja, Aleppo, ma il sinonimo universale del tormento senza soluzione è rimasto quel nome: Beirut. Mentre scrivo queste righe ho in sottofondo la voce di Fairouz, “nostra ambasciatrice presso le stelle”, che da decenni si leva dolente dalle ricorrenti macerie. La più straziante delle sue canzoni è questa Li Beirùt: “La città è fatta delle anime della gente, di vino e sudore, pane e gelsomini, perché allora il suo sapore è diventato quello del fuoco e del fumo?”. È una domanda retorica, piove come cenere sui detriti ogni volta che ingombrano le strade. Per conoscere la risposta bisogna aver respirato l’odore della distruzione che mischia il metallo e la carne, camminato sulle rovine con chi le ha portate dentro di sé, amato in modo oscuro la notte dietro le quinte degli edifici diroccati più che nei bunker trasformati in discoteche. E, sopra tutto, issato la bandiera dell’impermanenza sotto quel cielo di ogni cosa e persona. Il 14 febbraio del 2005, quando un ordigno sul lungomare fece saltare in aria il convoglio dell’ex premier Rafiq al-Hariri, ero in un negozio a poco più di un chilometro di distanza, all’inizio del quartiere cristiano di Gemmayzeh. Un tuono assordante, mentre le vetrine vibravano. Da giorni i jet israeliani sorvolavano la città a bassa quota infrangendo il muro del suono per impaurire la popolazione. Uscii in strada guardando verso l’alto, ma un vecchio sul marciapiede, seduto su una seggiola scassata, mi indicò il cuore della città. Disse una sola parola: “Ainfijar!”, esplosione. Più ancora che un rumore, aveva riconosciuto un destino. In Occidente si racconta una Beirut prima e dopo la guerra civile come affiancando due ritratti di una donna che è stata bellissima, poi sfregiata da un incidente e da una serie di interventi che, anziché curarla, hanno fatto rivivere il trauma. “La Parigi del Medio Oriente”, per giunta con le palme sul porto dove si cullavano gli yacht dei bancarottieri, le notti da espatriati in hotel, con le odalische sotto il baldacchino erano cartoline infradiciate, alla deriva sull’acqua. Tanti saluti all’”età dell’oro” li ha scritti la siriana Ghada Samman nel suo romanzo Beirut Nightmares: “La bella vita che così tanti associano a quella Beirut riguardò una esigua minoranza degli abitanti, mentre la stragrande maggioranza soffriva la fame, l’ignoranza, le malattie, la povertà. Poi venne una guerra sporca, ma fece seguito a una sporca pace”. Nel fragore e nel pericolo la città ha riconosciuto la propria vocazione, ha livellato le sorti personali, elevato l’esistenza quotidiana a un grado di suspense impensabile e, per quanto possa essere difficile comprenderlo, irrinunciabile. Si è creata una sorta di dipendenza, come agli individui capita con l’alcol o la droga. Il lutto collettivo è un fiume carsico che attraversa silenziosamente il sottosuolo e a intervalli affiora con un’esplosione. Non prevedibile, eppure attesa. Esiste una branca della criminologia chiamata vittimologia che studia la predisposizione di alcuni individui a subire offese a ripetizione. In parte diventa una loro seconda natura, in parte un’etichetta sulla quale gli altri infieriscono. Scomparse dal cartellone mondiale le guerre di teatro è rimasto il teatro della guerra: Beirut. Il ragazzo tra le macerie citato in tutti i reportage di ieri che accusa “una maledizione” sulla sua terra sconta la giovane età e confonde ciò che è ancora esterno, esorcizzabile, con ciò che è entrato dentro, scorre nelle vene. Tutto quello che accade a Beirut è una replica, segue uno schema. Prendete il miglior romanzo recente che vi sia stato ambientato, Il gioco di De Niro, di Rawi Hage, leggete queste righe: “Le bombe piovevano come rovesci monsonici nell’India lontana. Io ero disperato e smanioso, avevo bisogno di un lavoro migliore e di soldi. Lavoravo al porto, manovravo l’argano. Scaricavamo le armi dalle navi” e più in là: “Una bomba è caduta nella via accanto. Ho sentito le urla, ormai doveva esserci un fiume di sangue. Ho aspettato; la regola era aspettare la seconda”. Era già tutto letteralmente scritto: le armi al porto, la doppia esplosione. Come fosse già accaduto, perché lo era e, quel che è più terribile, lo sarà di nuovo. Le verità non sono sepolte, galleggiano. Nella sera di San Valentino del 2005 mentre i professionisti del depistaggio raccontavano favole evocando perfino “il cartello dei diamanti” i vecchi sulle seggiole scassate si facevano solo due domande: “A chi giova?” e “Chi può farlo?”. Ripondendosi: “Siria” e “Hezbollah”, anticipando 15 anni di commissioni d’inchiesta internazionali. Conoscono le risposte anche stavolta. E la prossima. Libano. “È una strage di stato”. Punto di non ritorno a Beirut di Pasquale Porciello Il Manifesto, 6 agosto 2020 Rabbia e incredulità il giorno dopo l’esplosione che ha sfigurato la capitale libanese. 140 le vittime, ma si scava ancora. Primi arresti per lo stoccaggio del nitrato di ammonio nel porto. Martedì 4 agosto, ore 18:08. Una prima esplosione. Pochi istanti. Un’altra. Un’onda d’urto spaventosa, avvertita fino in Siria, a Cipro, a 200km. Un deposito contenente 2750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate dal 2014 nel capannone 12 al porto di Beirut, dopo il sequestro nel 2013 della nave moldava Rhosus, saltato in aria in circostanze ancora da definire. Badri Daher, direttore dell’ufficio doganale, ha dichiarato che il deposito di nitrato non era sotto la sua responsabilità, ma sotto quella di Hassan Koraytem, capo del porto e direttamente sottomesso al ministero dei Trasporti e dei lavori pubblici. Daher ha aggiunto che dal 2014 a oggi abbiamo allertato sei volte la magistratura, che non è intervenuta”. Dal canto suo Koraytem si è mostrato sorpreso che “non ci si sia sbarazzati del materiale nonostante la corrispondenza tra magistratura e dogana. (…) Noi abbiamo seguito le istruzioni dei magistrati. Ci hanno chiesto da poco, dopo anni, di colmare una fessura nella porta del capannone per evitare un possibile deterioramento e noi lo abbiamo fatto”. Il giorno dopo l’esplosione che ha devastato Beirut le strade sono affollate di volontari, di gente che, ancora in stato confusionale, comincia a rimuovere vetri e detriti, che sono ovunque. Le auto parcheggiate hanno le lamiere ammaccate e i vetri frantumati, come dopo un incidente. Si calcola sommariamente che siano 300mila gli sfollati, ma i danni sono incalcolabili. La croce rossa ha installato delle tende per i primi soccorsi. Le operazioni sono andate avanti instancabilmente da martedì sera. Si estraggono ancora persone dalle macerie e si spera siano vive, ma sono ancora molti i dispersi. L’aria è irrespirabile. “Ho sentito un primo boato forte e mi sono affacciata alla finestra per capire cosa stesse succedendo. Pochi secondi e ne ho sentito un altro violentissimo e sono stata sbalzata all’indietro sul letto. Poi silenzio. Mi sono ripresa e mi sono pulita dai detriti. Ho visto che la porta era scardinata. La mia vicina di casa sanguinava. A quel punto ho sentito grida dalla strada, sirene di ambulanze. Ho guardato fuori dalla finestra e c’erano detriti ovunque, vetri rotti, auto sfasciate”, racconta con la voce tremante Gabriella, cooperante italiana in Libano. “Ho pensato che si trattasse di un attentato. Ho provato a chiamare qualcuno, ma la linea era staccata. È stato un incubo. Sono viva per miracolo”. Chris Ibrahim, al momento dell’esplosione a Ashrafieh, un paio di km dal porto, racconta: “Eravamo in auto, in direzione mare. Ho sentito una prima esplosione e ho visto davanti a me una nube di fumo. Qualche istante e c’è stato un rumore come di risucchio e subito dopo un’altra esplosione, questa volta fortissima. Poi un momento di silenzio ed è cominciata una pioggia di metallo e vetro. Abbiamo invertito la rotta e siamo scappati in direzione opposta”. La Croce Rossa Libanese parla di circa 140 morti, 5mila feriti e decine di dispersi. Numeri provvisori che continuano a salire. La situazione negli ospedali ancora attivi è disastrosa. I feriti lievi vengono mandati via senza essere medicati: non c’è tempo, spazio, modo. A un paio di km in linea d’aria dal porto, l’ospedale Saint George a Geitawe è stato evacuato. Nell’esplosione sono morte 12 persone. Nelle vicinanze, l’Ospedale Libanese “non è più funzionale” dichiara il direttore Pierre Yared. Anch’esso è stato evacuato e i pazienti sono stati trasferiti. Altri presìdi hanno subito meno danni materiali, ma accetteranno nei prossimi giorni solo pazienti gravi. Il sistema sanitario libanese è in gran parte privato, in seguito alle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni. La crisi economica ha costretto nei mesi passati molti degli ospedali privati o a chiudere o a ridurre le prestazioni, a causa dei mancati finanziamenti statali. Il servizio sanitario pubblico, già provato dalla crisi, dalla mancanza di elettricità - che aveva già costretto il Rafiq Hariri a chiudere 2 delle sue 6 sale operatorie -, era già prossimo al collasso per l’emergenza covid. Il Libano è formalmente in un nuovo lockdown dal 30 luglio fino al 10 agosto. E ieri sera il ministero della Salute ha confermato negli ultimi due giorni 355 nuovi casi e 3 morti. Alla fortissima crisi economica, sociale, sanitaria si deve aggiungere una crisi alimentare che si stima colpirà più della metà della popolazione entro la fine dell’anno. Negli ultimi mesi la moneta ha subito una svalutazione dell’80%. Il Paese dei Cedri risente inoltre dell’influenza della crisi siriana e della continua situazione di instabilità a sud con Israele. È stata giornata di lutto nazionale quella di ieri. Il presidente della Repubblica Aoun ha dichiarato lo stato di emergenza per 2 settimane alla fine di un consiglio straordinario nel quale ha inoltre confermato la volontà espressa dal premier in visita al porto martedì di “punire duramente i responsabili”. E a tale proposito il governo ha messo agli arresti domiciliari tutti gli ufficiali coinvolti nell’operazione di stoccaggio e guardia del capannone 12 dal 2014 a oggi. I commenti sui social vanno in una sola direzione: la responsabilità è dello stato! R.K. riassume così un sentimento diffuso: “Non mi importa cosa ci fosse nel deposito, armi, fuochi d’artificio, materiale chimico. Tutto ciò mostra solo una cosa: un governo inetto che non mi rappresenta in nessun modo. Chiunque parteggia ancora per questo o quel politico dovrebbe solo chiudere la bocca. Questo circo deve finire!”. Si ha la sensazione che questa esplosione abbia segnato un punto di non ritorno e che presto, quando lo shock sarà passato, il circo dovrà in qualche modo finire e il popolo libanese pretenderà di farsi restituire la dignità che merita. Colombia. Arrestato l’ex presidente Uribe, la Corte suprema gli ha imposto i domiciliari di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 agosto 2020 L’ex presidente della Colombia, Álvaro Uribe Vélez, che ha governato il paese dal 2002 al 2010, è stato posto agli arresti domiciliari. La decisione è stata presa da parte della Corte suprema che ha così colpito uno degli uomini tutt’ora più potenti del paese. L’arresto è arrivato ieri in seguito alle accuse di manomissione di prove, corruzione di testimoni e intralcio alla giustizia. A Uribe viene contestato di “interferire” con l’inchiesta scaturita dopo la denuncia lanciata dal senatore Ivan Cepedo. Quest’ultimo aveva aveva dichiarato che Uribe era stato fondatore di un gruppo paramilitare di destra coinvolto nella guerra sporca contro l’Esercito rivoluzionario della Colombia (Farc). Attualmente in Colombia è in corso un difficilissimo processo di pace, molti ex guerriglieri stanno cercando di rientrare nella vita civile ma in diverse zone le violenze e le uccisioni di attivisti per la terra continuano ad imperversare. Parte delle Farc hanno ripreso le armi, i narcos cercano di sfruttare la situazione e le bande paramilitari sono di nuovo in azione. Per questo la decisione dell’Alta Corte assume un significato particolare. Il suo presidente, Hector Javier Alarcon, ha annunciato che Uribe “sconterà la detenzione nella sua residenza. E da lì, può continuare la sua difesa con tutte le garanzie del giusto processo di legge”. La sentenza che ordina la detenzione è la prima in assoluto in Colombia e potrebbe rappresentare un punto di svolta. Non a caso Uribe ha reagito quasi incredulo: “la privazione della mia libertà provoca profonda tristezza per la mia famiglia e per i colombiani che credono ancora che ho fatto qualcosa di buono per il paese”. Inoltre l’ex presidente ha messo in dubbio l’indipendenza della Corte, una circostanza dovuta anche al fatto che l’arresto è arrivato dopo la denuncia per calunnia dello stesso Uribe contro Cepedo, accusa archiviata e trasformatasi in un vero e proprio boomerang. I giudici hanno indagato per nove mesi prima di dar corso alla propria decisione, molte prove sono state raccolte tramite intercettazioni telefoniche, ascolto di testimoni, esame di documenti, avvenute tra l’ex presidente e i suoi stretti alleati. Tra questi c’è anche l’attuale presidente colombiano Ivan Duque, uomo di destra anch’esso e critico verso la Corte Suprema. Circostanza che potrebbe far presagire ad uno scontro istituzionale. L’arresto ha provocato reazioni contrastanti in tutto il paese, per molti Uribe è un salvatore della patria che ha combattuto i ribelli comunisti delle Farc, ma per il resto dei colombiani invece è il responsabile di numerose violazioni dei diritti umani verificatisi durante le sue due amministrazioni.