In aumento il numero dei detenuti, sono 3mila in più dei posti nelle carceri agi.it, 5 agosto 2020 Nei 189 penitenziari italiani i reclusi sono 53.619, a fronte di una capienza regolamentare di 50.558 unità. Il dato è inferiore a quello pre-Covid: a fine di febbraio i detenuti erano ben 61.230. Torna a salire il numero dei detenuti reclusi nei 189 penitenziari italiani: alla data del 31 luglio scorso - sono i dati aggiornati dell’Amministrazione penitenziaria - i reclusi nelle carceri del Paese sono 53.619, a fronte di una capienza regolamentare di 50.558 unità. Il sovraffollamento carcerario resta comunque contenuto rispetto ai mesi precedenti l’emergenza Covid: alla fine di febbraio, infatti, i detenuti erano ben 61.230. In seguito - anche in parte per le misure contenute nel decreto Cura Italia, entrate in vigore in marzo, e relative alla detenzione domiciliare con braccialetto elettronico, per chi, condannato per reati non gravi, aveva una pena residua fino a 18 mesi - il numero dei ristretti in cella è sceso a 57.846 (dato al 31 marzo), per poi calare ancora fino a 53.387 detenuti registrati alla fine di maggio. Da giugno, invece, i dati parlano di una tendenza all’aumento, con i 53.579 reclusi al 30 giugno e i 53.619 della fine di luglio. Dei 53.619 detenuti totali al 31 luglio scorso, 17.448 sono stranieri: in particolare, sono 3.223 i reclusi originari dal Marocco, 2.121 quelli di cittadinanza romena, 2.050 gli albanesi, 1.783 provenienti dalla Tunisia e 1495 i nigeriani. Le donne in carcere sono 2.248 - 31 le detenute madri con 33 bambini in totale - mentre 800 sono i reclusi che godono del regime di semilibertà. Inoltre, su una popolazione carceraria di 53.619 unità, i condannati in via definitiva risultano essere 35.825, mentre 8.904 sono in attesa di primo giudizio. Tra i penitenziari con un numero importante di reclusi rispetto ai posti regolamentari, quelli della Capitale - Regina Coeli con 1.003 detenuti a fronte di 606 posti, e Rebibbia Nuovo Complesso dove sono recluse 1.415 persone mentre la capienza regolamentare è di 1.150 -, Milano Opera (1.246 detenuti per una capienza pari a 918), Torino Lorusso-Cutugno (dove i detenuti sono 1.369 e i posti 1.058), il Pagliarelli di Palermo (con 1.278 reclusi e 1.182 posti), le case circondariali Poggioreale e Secondigliano a Napoli (dove, rispettivamente, sono ospitate 1.967 e 1.248 persone a fronte di capienze regolamentari di 1.571 e 1.037 unità), e il carcere di Lecce, in cui vivono 1.050 detenuti mentre la capienza è pari a 791. Fine pena mai di Adriano Sofri Il Foglio, 5 agosto 2020 Vengono dei pensieri stralunati, sul progresso, per esempio. Per esempio: Raffaele Cutolo è stato trasferito, per la seconda volta quest’anno, in un reparto detentivo d’ospedale dal carcere di Parma dov’è attualmente recluso in regime di 41 bis. Non intendo dire niente su Cutolo, la sua carriera criminale, la storia d’Italia con cui è intrecciata. Anche solo leggere per intero una voce di Wikipedia a lui dedicata mette a dura prova: provate. Cutolo è nato nel novembre 1941, ha quasi 79 anni. È stato in galera o in manicomi criminali, con brevi interruzioni per latitanze ed evasioni, 57 anni. Il suo primo ergastolo, di quattro, riguardò un omicidio commesso nel 1963, quando non aveva ancora 22 anni. Uccise un disgraziato che aveva fatto apprezzamenti su sua sorella. Non so bene, ma nel 1963 in Italia la “speranza di vita”, cioè l’aspettativa di durata della vita media per i nati in quell’anno, si aggirava sui 65 anni. Nel 2020 è vicina agli 81 per gli uomini. Ergastolo, specialmente quello “ostativo” che è l’innovazione dell’Italia nuova, vuol dire “fine pena mai”. È piuttosto impressionante quanto sia diventato lungo questo “mai”. Non c’è nessuna pietà per i detenuti mafiosi di Renato Farina Libero, 5 agosto 2020 Il boss Raffaele Cutolo sta male: ricoverato dopo 55 anni passati in cella. Le pene non devono andare contro il senso di umanità. Raffaele Cutolo, 79 anni, 55 passati in carcere, dei quali gli ultimi 27 tra i sepolti vivi del 41bis. La famiglia chiede che possa passare il resto dei suoi giorni curato in casa o in una struttura ospedaliera. Che fare di Raffaele Cutolo? Il boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco) sta male, tiene il capo reclinato, gli occhi chiusi, ha crisi respiratorie, nelle settimane scorse non ha riconosciuto la moglie, non ha stabilito nessun contatto visivo e neppure di gesti, anche se da dietro il cristallo ogni cosa è difficile. Stava in carrozzina che è una pena per tutti, ma se sei un vecchio rudere e stai in carcere, e la fine della pena non esiste, equivale a una sedia elettrica con la corrente regolata al minimo, senza neppure la pietà di farla finita con l’accanimento terapeutico di una carcerazione che la Costituzione sancisce destinata alla rieducazione, figuriamoci. ‘O Professore, così era stato chiamato dai compagni di cella sin dal primo ergastolo prima dell’evasione con la nitroglicerina, perché sapeva leggere e scrivere, portava gli occhiali con la montatura da docente di greco, ed aveva lo sguardo magnetico del filosofo epicureo, ora non ha più né occhiali né sguardo: le palpebre non si alzano. È stato trasferito dalla sua cella del carcere di Parma in una camera d’ospedale. L’avvocato difensore Gaetano Aufiero riferisce che dal reparto dove Cutolo è degente hanno spiegato informalmente così il perché del ricovero: “Un colpo di tosse”. Sarà cimurro, come le bestie, ci si domanda perché non chiamino un veterinario o direttamente uno scortichino. Naturalmente, è un assassino, non si è mai ex assassini. Ha ammazzato e fatto ammazzare. Ha guidato ogni sorta di traffici crudeli nei mezzi e nei fini. Ha inventato la macchina del delitto e del dominio sul territorio, sui corpi e sulle anime. La sua Nco l’ha concepita come un esercito e una religione, inventando un apparato colerico-militar-mafioso prima che lo adottassero i narcos colombiani e messicani. Di questa società camorristica si elesse capo unico e assoluto, ma a quanto pare non immortale, anche se si faceva chiamare “Vangelo”. Arrivò a comprarsi un castello nel breve momento del suo trionfo quand’era libero, ma anche mentre era il re di ogni carcere da cui comandava. Ed eccolo nella sua miserabile versione di carcassa, senza più alcun peso in Gomorra che l’ha trasformato in un reperto archeologico. Non abbiamo nessuna voglia di dipingerne le gesta secondo l’epica brigantesca dell’eroe del male. Vorremmo trattare la questione dal punto di vista della stima che vorremmo mantenere per noi stessi e dell’idea di Stato e più profondamente di civiltà. Che fare di Raffaele Cutolo? L’avvocato e la famiglia chiedono che possa passare il resto dei suoi giorni curato in casa o in una struttura ospedaliera, magari persino penitenziaria. Finché lo chiedono loro, la richiesta è persino ovvia. Nei mesi scorsi la richiesta è stata respinta dai giudici di sorveglianza. Ritengono che le condizioni di salute non giustifichino un regime diverso da quello durissimo, il 41 bis: il più duro che esista nell’Unione Europea, al punto da essere stato considerato alla stregua di una tortura in alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, ad esempio rispetto al precedente più simile al caso Cutolo, quello di Bernardo Provenzano, detenuto incosciente in regime 41 bis nella sezione penitenziaria del carcere di San Vittore presso l’Ospedale San Paolo di Milano, dove morì il 13 luglio 2016. La sentenza di Strasburgo è stata del 2018, e ha condannato l’Italia per aver rinnovato l’applicazione del 41bis a Provenzano “nonostante le sue deteriorate condizioni di salute”. La Corte all’unanimità ha decretato che la nostra Repubblica ha tradito l’art 3 della Convenzione che dà forma alla civiltà europea: “Divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti”; in perfetta corrispondenza dell’art.27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se leader politici di destra o di sinistra non sono d’accordo osino cambiare in Parlamento questi commi troppo delicati. Si prendano questa responsabilità. Basterebbe aggiungere cinque parole: “Non vale per i mafiosi”. Un po’ di coraggio. Il caso ci pare lampante. Cutolo ha quasi 79 anni. Ha passato finora 55 anni in carcere, di cui gli ultimi 27 tra i sepolti vivi del 41bis. La famiglia chiede possa essere visitato da un geriatra di fiducia, oppure da una commissione che valuti il caso. La storia finirà male, come per Provenzano. Il Fatto già il 23 aprile mise le mani avanti con questo titolo di prima pagina: “Scarcerati altri mafiosi. Ci prova persino Cutolo”. In realtà Cutolo non ci ha provato proprio, non avendo la forza di dire alcunché di connesso. L’aria è cattiva. Appena la notizia duplice del ricovero in ospedale e della contemporanea richiesta di attenuazione della pena è stata diffusa dai siti, i commenti avevano la febbre. Nessuna clemenza. Ad esempio: “Speriamo che siano le anime di coloro che ha fatto uccidere che lo perseguitino finché camperà, e spero anche dopo! Per questa persona dovrebbe esserci la pietà che ha avuto lui con le sue vittime”. Un altro: “Chissà quante persone ha sulla coscienza... A patto ne abbia una...”. Che Cutolo abbia una coscienza o no, non dovrebbe essere un nostro problema. Il problema è di avere ciascuno di noi una coscienza. Severa, metallica, d’accordo. Ma quando si batte col martello sull’acciaio o sul granito si sprigiona una scintilla. I processi-lumaca bloccano i tribunali: “Troppi reati inutili, serve depenalizzare” di Viviana Lanza Il Riformista, 5 agosto 2020 La giustizia è schiacciata dal peso di processi che sono troppi e troppo lunghi. La depenalizzazione potrebbe essere una soluzione? Lo abbiamo chiesto al professor Vincenzo Maiello, giurista, avvocato e ordinario di Diritto penale all’università di Napoli Federico II. “Scontiamo un approccio anacronistico, perché superficiale ed improduttivo, ai temi della giustizia penale”, spiega. “Il carattere fuorviante del metodo invalso nelle politiche criminali degli ultimi decenni sta in una sorta di concezione taumaturgica del diritto e del processo penale, che muove dall’idea secondo cui solo facendo appello alle risorse di questi strumenti lo Stato potrebbe fronteggiare le aggressioni ai diritti ed ai beni dei singoli e della società. La pena - afferma Maiello - è un’arma a doppio taglio, è uno strumento che nel contempo tutela ed offende: essa viene incontro ad esigenze di salvaguardia di interessi e valori possibilmente di primario significato, ma mettendo a repentaglio altri beni fondamentali, quali quelli che fanno capo alla regola aurea dello Stato Costituzionale, vale a dire la libertà dalla coercizione. In pratica, si tratta di un congegno cui è legittimo far ricorso in via di estrema oculatezza e parsimonia sulla base di giudizi di bilanciamento tra opposti valori ed esigenze, dovendosi fondare su prognosi di efficacia altamente consapevoli, ricche di sapere empirico, perché - sottolinea - quando si decide di varare una nuova norma penale non lo si può fare né col piglio estemporaneo delle intuizioni emotive, né con pregiudizi ideologici. Questo è un approccio che il Legislatore ha adottato solo in parte, perché è prevalsa un’esigenza di gestione demagogica e populistica”. Il professor Maiello usa una metafora: “Paragoniamo la pena a un farmaco: il farmaco diventa un veleno se somministrato eccessivamente o può produrre effetti placebo che danno l’illusione della guarigione ma, non toccando le cause della malattia, le lasciano integre sicché la malattia ha la potenzialità per ripresentarsi nel futuro con altre rinnovate, e se possibili, ancora più virulenti manifestazioni”. Di qui l’insopprimibile bisogno di farne un impiego massimamente sorvegliato. “È arrivata l’ora di avviare un processo di bonifica della cultura politico criminale del nostro Legislatore e, prima ancora, dello stesso discorso pubblico”, osserva Maiello. “L’alternativa è una cultura ed una pratica legislativa orientata all’effettività dei diritti in senso lato, ma anche la sperimentazione di modelli di tutela alternativi ed integrati nel cui ambito alle tradizionali risposte coercitive dovrebbero affiancarsi strumenti di incoraggiamento di condotte virtuose, reintegrative e recuperatorie, quali ad esempio forme di agevolazioni di varia natura nei settori delle offese all’economia, all’ambiente e al territorio, nonché pratiche di giustizia conciliativa e riparativa”. Sul terreno processuale occorrerebbe pensare a filtri che rendano più stringenti le valutazioni predibattimentali. Il fatto che un’enorme quantità di procedimenti si concluda con l’assoluzione impone una riflessione sull’adeguatezza dell’odierna disciplina dell’udienza preliminare e sulla necessità di nuovi criteri di giudizio e di valutazione del materiale di prova. Ma la strada verso la depenalizzazione sembra ancora lunga, perché? “Nessuno oggi si assume la responsabilità di invertire la rotta degli indirizzi di politica legislativa promuovendo un arretramento del diritto penale. In gioco, sono i dividendi elettorali, su cui pesa una narrazione che vuole distinguere i buoni ed i cattivi sulla quantità di pena che si promette. Occorre invece ribadire che, in uno Stato costituzionale, i buoni sono quelli che stanno dalla parte di un diritto penale minimo e i cattivi coloro che si schierano dalla parte della militarizzazione delle aspettative di sicurezza. Insomma, il diritto penale necessario sta allo stato di diritto come il diritto penale sommamente pervasivo sta alla dittatura ed allo stato totalitario: ricordiamo la distopia di Orwell e le sue categorie della psico-polizia e del Ministro della Verità alla ricerca ed alla punizione dei psico-reati”. Csm, il sorteggio per le candidature di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 agosto 2020 Giovedì il Consiglio dei ministri può approvare la legge delega di riforma del Consiglio superiore. Bonafede riesce a infilare l’estrazione a sorte, ma solo per riempire le liste. Il Pd: modifiche in parlamento. È approdata ieri in pre-consiglio ed è prevista per l’approvazione nel Consiglio dei ministri in agenda domani la riforma del Csm. Con un po’ di ritardo rispetto agli auspici del ministro Bonafede, che l’aveva annunciata a maggio, e dopo il visto del legislativo di palazzo Chigi, prende così forma ufficiale la legge delega con cui il governo intende rispondere allo scandalo delle inchieste sul mercato delle nomine nel Consiglio superiore, il noto “caso Palamara”. Sugli aspetti fondamentali della riforma i quattro partiti di governo hanno ormai un accordo, sui dettagli restano perplessità e distanze. Tanto che la maggioranza concorda anche sul fatto che il testo sarà certamente modificato in parlamento. A cominciare dal meccanismo elettorale per la componente dei magistrati nel Consiglio (che salirà a 20 consiglieri sul nuovo totale di 33). All’ultima curva il ministro grillino è riuscito a infilare in qualche modo il sorteggio dal quale era partito come soluzione generale al male del correntismo, e che poi era stato costretto ad abbandonare per la contrarietà dei magistrati e degli alleati, oltre che dell’articolo 104 della Costituzione. La nuova formula di voto è fortemente maggioritaria, prevede la distribuzione dei circa novemila magistrati italiani in 19 collegi e l’elezione al primo turno del candidato o della candidata che superi il 65% dei voti. Altrimenti c’è un secondo turno in cui l’eletto o l’eletta sarà scelto nel ballottaggio tra i primi quattro. Le liste dovranno rispettare la parità tra i sessi - ma il sistema elettorale non garantisce un’equa rappresentanza di genere tra gli eletti - e, ultima novità, dovranno essere composte da almeno dieci candidati. Questo per evitare accordi pre-elettorali tra correnti (in passato è successo di vedere un numero di magistrati candidati pari a quello degli eletti nel collegio). E se non dovessero farsi avanti almeno 10 candidati nel collegio? Ecco che Bonafede ha recuperato il sorteggio: non più per eleggere i consiglieri togati ma (almeno) per selezionare i magistrati candidati “d’ufficio”. Che naturalmente non possono essere costretti a correre e dunque conserveranno la facoltà di rinunciare, rendendo necessari successivi sorteggi. Inutile dire che questa è la prima norma “di dettaglio” sulla quale si eserciteranno i parlamentari nel lavoro di correzione. Per quanto riguarda la componente “laica” nel nuovo Consiglio, quella che deve essere eletta dal parlamento (dieci consiglieri) il Pd ha ottenuto di mitigare i furori antipolitici dei grillini, ottenendo di limitare l’ineleggibilità ai componenti del governo (in carica o ex da meno di due anni) e de delle giunte regionali, cancellando da ultima la previsione in base alla quale non poteva essere eletto il rappresentante legale di un partito. Confermate tutte le altre riforme, tra le più rilevanti quelle contro le cosiddette “nomine a pacchetto” e il divieto per i consiglieri di far parte sia della commissione disciplinare del Csm che di quelle che si occupano delle nomine o delle valutazioni delle professionalità. Rafforzata la separazione tra le funzioni di pm e giudice, irrobustiti anche gli ostacoli tra gli incarichi al Csm e il ruolo ordinario così come tra le candidature a mandati elettivi e il ritorno nei ranghi della magistratura (ritorno definitivamente escluso per chi viene eletto in parlamento o nominato nel governo). Per il Pd, scrivono in una nota il responsabile giustizia Verini e i parlamentari sul dossier Bazoli e Mirabelli, il passaggio della legge delega in Consiglio dei ministri è “una tappa fondamentale per contribuire al recupero di una piena credibilità della magistratura”. Ma “sarà poi il parlamento ad arricchire e irrobustire il provvedimento, con un confronto aperto e ravvicinato”. Csm, nella riforma più spazio agli avvocati di Errico Novi Il Dubbio, 5 agosto 2020 Palazzo dei Marescialli sarà obbligato ad acquisire il parere dal Consiglio dell’Ordine prima di confermare i capi degli uffici per il secondo quadriennio. E dovrà aprire l’ufficio Studi e documentazione anche al Foro e all’Accademia. Oggi il ddl delega verificato dal “pre-consiglio”, giovedì il via libera del Consiglio dei ministri. Tanto tuonò che piovve davvero. La riforma del Csm è finalmente arrivata in “pre-consiglio dei ministri”, giovedì sarà discussa nel Consiglio vero e proprio. Ci ha messo quasi un anno. Va calcolato anche il primo tempo della pellicola, montato quando la controparte di Bonafede era ancora Salvini, cioè nell’estate del 2019. Dopo altri lunghi mesi di trattative, oggi si è cominciato a discutere. Con i tecnici del Dagl (inquietante sigla che indica il legislativo di Palazzo Chigi) a confronto con i colleghi di via Arenula. Ma il testo non è destinato, nel breve, a modifiche clamorose. Al punto che, come fa notare un parlamentare del Pd impegnato sul ddl delega, “si è lasciato ai tecnici l’onere di verificare qualche dettaglio, come probabilmente avverrà sulle preclusioni imposte ai magistrati fuori ruolo per l’accesso in Cassazione, ma visto che non restano in sospeso aspetti politicamente rilevanti, non abbiamo neppure dovuto prevedere un ultimo vertice di maggioranza”. In sostanza la riforma è un atto di tregua. Accolto con soddisfazione dai due principali azionisti dell’Esecutivo: secondo il neoeletto presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, dei 5 Stelle, il testo è un “punto avanzatissimo” nel “piano” che prevede anche la riforma penale. Lo pensano anche i dem Walter Verini, Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli, che proprio nel ddl sul processo confidano anche per risolvere “il tema della prescrizione”. Il “mini sorteggio” che limita le correnti - Di misure severe con i magistrati ce ne sono. A cominciare dal divieto di formare in plenum gruppi legati alle correnti fino alle preclusioni imposte a togati uscenti e fuori ruolo nell’ammissione agli incarichi direttivi, oltre che per il rientro (impossibile) in magistratura dopo un mandato parlamentare. Su uno snodo chiave il derby Pd-5 Stelle va al riposo in situazione di parità: i dem hanno ottenuto l’archiviazione dell’ipotesi sorteggio, respinta perché incostituzionale. Bonafede è riuscito però a introdurne una forma surrogata: preso atto che i togati saranno eletti in 19 collegi con uninominale a doppio turno, si stabilisce che in ciascun collegio non possano esserci meno di 10 candidati, e che se i candidati “spontanei” sono meno di 10, gli altri vengono appunto sorteggiati. Il Pd considera marginale il dettaglio. E ricorda che “in Parlamento dovrà esserci un confronto vero e aperto alle forze politiche e a tutte le componenti della giurisdizione”. Ma intanto non si può sottovalutare che le correnti dei magistrati sono 4, non 10. Se vorranno evitare che, tra gli aspiranti consiglieri, entrino in ballo pericolosi outsider, dovranno ricorrere a candidati “gregari” schierati al solo fine di impedire la selezione random dei “senza tessera”. Si scatenerebbe la rivolta dentro e fuori l’ordine giudiziario. Il colpo alla rappresentatività delle correnti è dunque, con un sistema simile, non insignificante. Consigli giudiziari e pareri degli Ordini forensi - Tra le poche sciabolate che le toghe sono riuscite a sventare c’è il voto di avvocati e accademici sulle valutazioni di professionalità dei magistrati: nei Consigli giudiziari, le articolazioni territoriali dell’autogoverno, i “laici” continueranno a non potersi pronunciare. Però almeno potranno assistere: viene sancito il cosiddetto diritto di tribuna. Così come è confermata una modifica chiesta dal Pd dopo che l’Anm aveva ottenuto il dietrofront sul “voto”: all’atto di verificare l’operato di un procuratore capo o di un presidente di Tribunale dopo i primi quattro anni, il Csm dovrà acquisire il parere del Consiglio dell’Ordine forense. E un dettaglio in apparenza microscopico segnala ancora meglio lo sforzo di riconoscere un maggiore rilievo all’avvocatura: in vista dei pareri spettanti ai Consigli giudiziari, il Csm dovrà avere la premura di inviare al Consiglio dell’Ordine forense l’elenco dei magistrati di quel distretto che l’anno successivo saranno sottoposti alle valutazioni di professionalità (nella carriera di giudici e pm sono 7 in tutto). In tal modo l’avvocatura potrà prestare particolare attenzione alle “condotte di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”, come recita la riforma del 2006. Ruoli tecnici del Csm aperti agli avvocati - Ancora, il testo contiene l’opzione prefigurata al Dubbio dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis: la possibilità che anche avvocati (con almeno 10 anni di esercizio della professione) e accademici facciano parte dell’ufficio Studi e documentazione di Palazzo dei Marescialli. Come previsto dal testo attuale al primo comma dell’articolo 25, il Csm può assegnare ai ruoli tecnici “un numero non superiore a otto addetti esterni, individuati mediante procedura selettiva con prova scritta aperta ai professori universitari di ruolo di prima e di seconda fascia, agli avvocati iscritti da almeno dieci anni nel relativo albo e a tutti i magistrati ordinari, i quali sono posti fuori del ruolo organico della magistratura”. Anche qui un passo tutt’altro che irrilevante visto che, come spiega Giorgis, i cosiddetti “magistrati-segretari” (oggi gli unici a comporre quegli uffici) compilano i fascicoli in base ai quali i consiglieri superiori decidono a chi affidare incarichi direttivi e semi-direttivi. Il resto è noto. Dal divieto di eleggere laici (avvocati compresi) che siano, o siano stati negli ultimi due anni, “componenti del governo”, all’innalzamento del numero dei consiglieri superiori dagli attuali 26 a 30 (con 20 togati di cui 19 eletti e uno solo “di diritto”, giacché il pg di Cassazione non lo sarà più), in modo da rendere praticabile l’esclusione dalle altre commissioni di chi è destinato alla sezione disciplinare. Chi giudica non nomina, chi nomina non giudica: il principio dovrebbe finalmente essere rispettato. Magistrati, la riforma inutile di Armando Spataro La Repubblica, 5 agosto 2020 Separazione delle carriere tra giudici e pm. L’Unione delle Camere Penali ha promosso una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. La proposta sembra ignorare che già oggi, dopo una riforma del 2006, il passaggio da una funzione all’altra è regolato in modo rigoroso. Aldilà di altri limiti, si richiede anche un giudizio di idoneità del Csm allo svolgimento delle diverse funzioni richieste. La proposta, in realtà, riguarda una riforma del tutto irrilevante: basti considerare che nel periodo 30 giugno 2016 - 30 giugno 2019 i trasferimenti in ogni grado da funzioni requirenti a funzioni giudicanti sono stati 80 e quelli nella direzione opposta 41, con percentuali annue rispettivamente dell’1,17% e dello 0,20% in relazione al numero dei magistrati in servizio. Ma quali sono le ragioni che si opporrebbero all’unicità di carriera? Si afferma innanzitutto che la contiguità tra giudici e pm, derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone “l’appiattimento” sulle tesi dei pm, con pregiudizio dell’articolo 111 della Costituzione che prevede la parità delle parti davanti a un giudice terzo e imparziale. Sembra evidente che, in questo caso, ci si trovi di fronte non ad un argomento tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dei giudici. Saverio Borrelli parlò in proposito di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”. L’articolo 111 della Costituzione, in realtà, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal pm, mentre la parità tra le parti è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale. Diversamente, perché non separare le carriere fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di Cassazione? Sulla parità tra pm e difensore, peraltro, bisogna avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste sul piano istituzionale: l’avvocato è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere. Niente di ciò vale per il pm, che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti. Esiste un altro argomento abusato a favore della separazione delle carriere: essa si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del pm dal potere esecutivo. È questa un’affermazione gratuita e incolta: gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza e, anzi, la regola dominante è che chi abbia maturato esperienze professionali di pm acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante, mentre dove vige la separazione questa porta con sé la dipendenza del pm dall’esecutivo (tranne in Portogallo). Va considerato che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che in Italia, invece, viene ciclicamente messo in discussione, quasi sempre come clava punitiva. Resta la centralità e la necessità, dunque, dell’acquisizione di una cultura che deve condurre il pm a raccogliere elementi probatori in funzione del futuro giudizio (e non delle “brillanti operazioni” oggetto di criticabili conferenze stampa): i canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pm e giudici, utilizzando esperienze eterogenee e dando vita a un sistema più garantito per i cittadini. Di qui la necessità di un unico sistema d’accesso alle due funzioni, di un’unica formazione professionale di tutti i magistrati (che dovrebbe includere anche quella degli avvocati), di un unico Csm che ne amministri la carriera e che, attraverso una sola e comune Sezione disciplinare, sia in grado di sanzionare comportamenti deontologicamente vietati. È inaccettabile che sia la Chiesa a “giudicare” i preti pedofili di Jennifer Guerra thevision.com, 5 agosto 2020 Uno Stato che tollera questo tipo di interferenze nell’amministrazione della giustizia, specialmente riguardo a fatti così gravi che coinvolgono minori, non può certo definirsi laico. Quando si parla di pedofilia all’interno della Chiesa solitamente ci si indigna per i grandi scandali di copertura da parte della Santa Sede, ma raramente si pone l’attenzione su quello che fa - o meglio, non fa - lo Stato italiano nei confronti di chi perpetra tali crimini. Secondo i dati raccolti da “Rete L’Abuso”, l’Associazione di sopravvissuti agli abusi sessuali del clero e osservatorio permanente, dagli anni Novanta a oggi sono 150 i preti processati per reati sessuali a danno di minori, con una durata media della condanna di circa 4 anni. Le stime dalla Chiesa sulla percentuale di pedofili vanno invece dal 2% del totale del clero, dichiarato da Bergoglio a Repubblica, al 4-6% secondo il membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori, Hans Zollner. Contando che i sacerdoti nel nostro Paese sono 32.000, si tratterebbe di almeno 600 persone. Anche rifacendosi alla stima “ottimistica” del Papa, come fanno notare gli autori del libro “Giustizia divina”, Emanuela Provera e Federico Tulli, si tratta di una percentuale altissima rispetto al tasso di condannati per abusi sessuali nei confronti di minori tra i laici, 0,0025%. I due giornalisti hanno anche provato a verificare quanti dei preti condannati siano effettivamente in carcere: su 125 penitenziari che hanno risposto (sui 191 presenti sul territorio italiano nel 2017) sono solo 5 i sacerdoti detenuti per reati connessi alla pedofilia. C’è quindi una situazione di grave omertà nella Chiesa, che preferisce gestire internamente i casi anziché consegnare anche coloro che ritiene colpevoli all’autorità giudiziaria. Non è raro infatti che gli abusi, che si consumano quasi sempre ai danni di famiglie molto legate alla realtà parrocchiale, non vengano denunciati alla polizia, ma soltanto al vescovo o ad altre autorità ecclesiastiche. Nella maggior parte dei casi infatti un genitore che sospetta delle violenze sui propri figli preferisce confidarsi con altri fedeli o altri sacerdoti prima di sporgere denuncia. Questo fa sì che molto spesso l’unico processo che si svolge sia quello canonico. Per il diritto canonico, un sacerdote che commette violenza contro un minore viola il canone 277 sul celibato ecclesiastico e perciò, secondo il canone 1395, viene “punito con la sospensione, alla quale si possono aggiungere gradualmente altre pene, se persista il delitto dopo l’ammonizione, fino alla dimissione dallo stato clericale” e se il delitto avviene con un minore di 16 anni viene “punito con giuste pene”. La violenza sessuale è considerata un peccato e non un reato: ciò significa che il sacerdote deve rispondere a Dio e non alla giustizia terrena. Il procedimento canonico viene avviato dalla Curia qualora vi siano “seri indizi” di “colpe gravi” e, se queste vengono accertate, la Congregazione per la dottrina della fede dà decreto di rimozione della persona accusata, oppure la invita a rinunciare all’incarico entro 15 giorni. Come spiegano Provera e Tulli, il procedimento canonico ha una serie di problemi che lo rendono un sistema vòlto a tutelare più la Chiesa che le vittime. Ad esempio, al procedimento non sono ammessi avvocati o testimoni ed è la vittima a dover dimostrare il delitto subìto. In più gli atti sono coperti da segreto pontificio, per cui è raro che le autorità ecclesiastiche collaborino con la giustizia italiana, anche dopo un’eventuale condanna. Il problema è proprio la natura della condanna inflitta dalla Congregazione per la dottrina della fede, che spesso fa sì che il prete condannato riesca a sfuggire alla magistratura anche dopo una denuncia all’autorità giudiziaria italiana. Il sacerdote viene infatti rimosso dal suo incarico e, in base alla gravità dei fatti commessi o ad altri precedenti, viene semplicemente riassegnato a un’altra diocesi oppure informalmente indirizzato verso una comunità di “assistenza per ecclesiastici in difficoltà”, come l’Oasi di Elim a Roma o il progetto dei “Ministri della misericordia”, centri che danno sostegno per diversi problemi, dalle dipendenze alle crisi vocazionali. Sono moltissimi i casi di sacerdoti - ma anche di suore - di cui si sono perse le tracce dopo sentenze di condanna da parte del tribunale ecclesiastico. Non è nemmeno raro che dopo tutti i vari trasferimenti, spesso fatti nel modo più discreto possibile, i reati contestati cadano in prescrizione per l’ordinamento italiano. Come racconta Giustizia divina, succede spesso che le vittime decidano di denunciare gli abusi anche alle autorità italiane a distanza di anni proprio nel momento in cui si accorgono che i propri abusatori continuano a fare i preti altrove, ma i termini per la denuncia sono ormai trascorsi. Senza contare poi che i trasferimenti continui non risolvono il problema, ma anzi possono favorire la reiterazione del reato, mettendo il sacerdote a contatto con altri minori. Ma perché la Chiesa non collabora con la giustizia? La Cei ha disposto che i vescovi, poiché non sono pubblici ufficiali, non abbiano il dovere di denunciare i casi di cui vengono a conoscenza. Questa idea era stata ribadita nel 2014 dall’allora presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco, che aveva giustificato l’idea che non vi fosse obbligo di denuncia per non “mancare gravemente di rispetto alla privacy, alla discrezione alla riservatezza e anche ai drammi di vittime che non vogliano essere messe in piazza”. Nel 2019 sono state approvate le nuove “Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili”, che comportano l’obbligo di segnalazione alle autorità ecclesiastiche, ma non a quelle civili, verso le quali le segnalazioni sono soltanto “incoraggiate”. Nonostante la buona volontà e la politica di “tolleranza zero” invocata da Bergoglio, tra la Chiesa - attenta a difendere la propria immagine e i propri interessi - e la magistratura italiana non può e non potrà mai esserci una vera collaborazione. La causa risiede nei Patti Lateranensi del 1929, ratificati nel Concordato del 1984: secondo l’articolo 4, “I vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero”. In pratica, non sono tenuti a collaborare con la giustizia. Nella circolare alle Conferenze episcopali per la preparazione delle linee guida da adottare nei casi di abuso su minore, il Vaticano ha ribadito che “va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale”. Il riferimento al “foro interno sacramentale”, cioè alla confessione, riguarda il divieto di un sacerdote di divulgare un peccato o l’identità del peccatore che si è confessato. Ciò significa che se un prete viene a conoscenza di un abuso durante una confessione è invitato a tenere per sé questa notizia, pena la scomunica. Anche il motu proprio di papa Bergoglio del marzo 2019 che istituisce l’obbligo per i membri della Curia di informare il tribunale vaticano di eventuali abusi prevede la clausola del sigillo sacramentale. Il concordato stabilisce inoltre che un prete che abbia commesso un delitto perseguibile sia per la legge italiana che per il diritto canonico possa rifugiarsi negli immobili della Chiesa protetti dall’extraterritorialità, dove le forze dell’ordine non possono entrare. Bernard Francis Law, l’arcivescovo di Boston noto per aver coperto decine di abusi scoperti dalla famosa inchiesta del Boston Globe vincitrice del Premio Pulitzer e raccontata nel film “Il caso Spotlight”, nel 2002 fu trasferito per volere di Wojtyla nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, che gode dell’extraterritorialità. Law è morto a Roma nel 2017, all’età di 86 anni, senza subire alcun processo per il suo coinvolgimento nella copertura degli abusi su almeno 552 minori. Negli ultimi anni, sembra che la Chiesa si stia sforzando più che in passato per contenere il fenomeno della pedofilia, soprattutto a partire dall’elezione di Bergoglio. Nel 2014 è stata istituita la Pontificia commissione per la tutela dei minori, mentre nel 2016 il papa ha firmato il provvedimento “Come una madre amorevole” per la “protezione dei bambini e degli adulti vulnerabili”, ribadita anche con il motu proprio del 2019. Ma tutto questo non è abbastanza se lo scopo di queste iniziative è risolvere dall’interno il problema sottraendo alla giustizia italiana chi compie violenze su minori. La responsabilità di questa situazione è anche dello Stato, e a riconoscerlo è l’Onu che, nell’ultima relazione del Comitato per i diritti dell’infanzia, ha espresso preoccupazione “per i numerosi casi di bambini vittime di abusi sessuali da parte di personale religioso della Chiesa Cattolica nel territorio dello Stato Membro e per il basso numero di indagini criminali e azioni penali da parte della magistratura italiana”. Tra le raccomandazioni delle Nazioni Unite c’è proprio il superamento dei Patti Lateranensi e l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sul tema. Cassazione: sì ai domiciliari a chi ha problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 agosto 2020 Lo ha stabilito per la prima volta sulla scorta della sentenza della Consulta del 2019. La Cassazione, per la prima volta, apre ai domiciliari per i detenuti con problemi psichiatrici. Questa è la prima sentenza dopo la decisione della Corte costituzionale che ha equiparato il disagio fisico con quello mentale. Nel caso specifico parliamo di un detenuto con un disturbo ossessivo- compulsivo con la patologia bipolare dell’umore, al momento in fase depressiva. Quindi non poteva continuare a vivere in un contesto come quello carcerario senza patire un gravissimo disagio sul piano psicologico, acuito dalla impossibilità di adottare i necessari interventi psicoterapici. La Prima Sezione penale, sentenza del 3 agosto scorso, ha così accolto, con rinvio, la richiesta del recluso per un cumulo di pene, da 5 anni e mezzo ed affetto da una grave disturbo ossessivo compulsivo accertato da un medico psichiatra ed in precedenza riconosciuto anche da un altro tribunale di sorveglianza che gli aveva concesso di scontare il residuo pena ai domiciliari. Tornato in carcere per altri reati, si era nuovamente rivolto al giudice ed al Tribunale di sorveglianza che però non hanno ravvisato ragioni per il rinvio dell’esecuzione della pena (o domiciliari), “atteso che lo stato morboso, non definibile come grave, non comportava una certa prognosi infausta quoad vitam, né risultava che egli potesse giovarsi, in libertà, di cure e trattamenti sanitari non praticabili in detenzione”. Né tantomeno l’espiazione della pena “si palesava in contrasto con il senso di umanità”. Tutt’altro il quadro offerto dalla difesa secondo cui il Tribunale aveva del tutto ignorato la perizia dello psichiatra che aveva dato conto di una situazione clinica “incompatibile con la protrazione dello stato di restrizione intramuraria”. Secondo la Cassazione, la relazione non è stata presa in considerazione ai fini della doppia valutazione avente ad oggetto il differimento della pena e l’ipotesi di detenzione domiciliare a esso connessa, nonostante che, una volta esteso il “thema decidendum” da parte del magistrato di Sorveglianza in sede provvisoria, anche quel contributo conoscitivo avrebbe dovuto essere valutato in relazione agli ulteriori profili oggetto di decisione, in specie dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza del 19 aprile 2019, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47- ter, comma 1- ter dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, il Tribunale di sorveglianza possa disporre la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di pena. “In proposito - scrive la Cassazione - va, infatti, osservato che per effetto della cennata pronuncia è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare, la cui applicazione deve essere valutata all’esito di un articolato giudizio nel quale devono confluire, alla luce della ratio dell’istituto e della ridefinizione del suo perimetro conseguente alla declaratoria di incostituzionalità, il dato relativo alla incidenza sulle condizioni psichiche della protrazione della detenzione, quello attinente agli interventi terapeutici non efficacemente esperibili all’interno del carcere e, infine, quello concernente la attuale pericolosità sociale”. Per questo motivo la cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza e rinvia al tribunale di sorveglianza de L’Aquila per un nuovo giudizio. Respinta definitamente l’istanza della Romania: non è garantito lo spazio vitale minimo al recluso di Valentina Stella Il Dubbio, 5 agosto 2020 La Corte d’Appello di Brescia lo aveva già deciso nel 2017. Tre anni fa avevamo raccontato la storia di un cittadino rumeno che, sebbene condannato nel suo Paese per una serie di reati, essendo domiciliato in Italia non fu consegnato alla Romania in quanto lo Stato richiedente non garantiva nelle celle lo spazio minimo vitale per un detenuto, ovvero i tre metri quadrati calpestabili. Come appurò la Corte di Appello di Brescia, scontare una pena in quelle condizioni avrebbe significato sottoporre il detenuto a trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’articolo 3 della Cedu e dell’articolo 4 della Carta dei Diritti fondamentali della Ue. “Nel frattempo - dicono i suoi legali Alessandro Bertoli e Mauro Bresciani - la giurisprudenza prevalente è andata in direzione opposta e molti rumeni sono stati rimandati in patria nonostante persistano relazioni negative del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura”. Infatti, come si legge in un report del 2019, “un gran numero di accuse di maltrattamenti fisici (molti dei quali corroborati da prove mediche) da parte di agenti di polizia sono state ricevute dalle persone detenute. Le accuse consistevano principalmente in schiaffi, pugni, calci e colpi di manganello inflitti da agenti di polizia contro sospetti criminali sia al momento dell’arresto o durante l’interrogatorio in una stazione di polizia” per ottenere una confessione. Ciò è dimostrato anche dalla memoria difensiva dei due avvocati in cui si rende noto il contenuto di una videoregistrazione in cui si vede che il loro assistito al momento dell’arresto riceveva “calci al torace e alla testa, schiacciamenti del capo, tirate forti dei capelli” da parte degli agenti rumeni. Inoltre le condizioni di detenzione in alcuni centri vengono definite “inaccettabili” dal Cpt: “Le celle erano generalmente fatiscenti e in uno stato di degrado, scarsamente ventilate, maleodoranti, con alti livelli di umidità e inadeguato accesso alla luce naturale. I servizi sanitari erano anch’essi in cattivo stato igienico e nella maggior parte dei casi non suddivisi dal resto della cella”. Tra i casi più allarmanti osservati direttamente dal Cpt vi è “ad esempio, quello della prigione di Bacu, dove 18 giovani in detenzione preventiva vengono trattenuti in una singola cella fatiscente e sovraffollata di soli 26 m2. Questi uomini sono confinati nella loro cella per 21- 22 ore al giorno per mesi e mesi. La loro situazione è simile a quella degli animali in gabbia”. Nonostante questa situazione “l’autorità giudiziaria rumena ha richiesto nuovamente la consegna del nostro assistito, ma coraggiosamente la Corte d’Appello di Brescia per la seconda volta (e ora definitivamente) ha respinto l’istanza con passaggi motivazionali assai significativi”. Due sono quelli più importanti: il primo è che, come rilevato dalla difesa, nulla è cambiato rispetto allo spazio vitale offerto al detenuto: “le informazioni fatte pervenire a questa Corte sono praticamente sovrapponibili a quelle fatte pervenire nel 2016”, si legge nella motivazione della sentenza del 15 luglio, ora irrevocabile. La stessa Corte di Appello rileva che avrebbe fatta salva l’eventualità di una diversa decisione nel caso in cui, entro un “termine ragionevole”, fossero pervenute nuove indicazioni. Questo ulteriore punto è importante spiegano gli avvocati Bertoli e Bresciani “perché pur essendo possibile in ambito di mandato d’arresto una pronuncia di rifiuto della consegna “allo stato degli atti”, caratterizzata, quindi, dalla precarietà, la Corte ha stabilito che il cittadino straniero non resta con una spada di Damocle sulla testa per un tempo indeterminato, ma può semmai subire per una seconda volta la richiesta di rimpatrio per espiare la pena se le condizioni carcerarie mutano nel suo Paese in un tempo breve. Una distanza di tre anni, per giunta a condizioni invariate, è stata ritenuta di per sé irragionevole dal collegio bresciano”. Il sindaco consulente paga per le violazioni fiscali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2020 Il commercialista, presidente del collegio sindacale e consulente del gruppo societario, paga i danni alla massa dei creditori come corresponsabile dell’evasione fiscale. La Corte di cassazione (ordinanza 11884), conferma la condanna, già disposta a carico degli altri sindaci e degli amministratori per oltre 4,5 milioni di euro. Al ricorrente era stato contestato non solo l’omesso controllo sull’operato del board, ma anche, e soprattutto, il ruolo attivo giocato come commercialista di fiducia del gruppo, in virtù del quale aveva contribuito, in modo determinante, alla strategia gestionale. Una partecipazione all’attività amministrativa, prestata, tra l’altro, in modo incompatibile con la carica formale di presidente del collegio sindacale. Ad avviso della Suprema corte la professione svolta dal ricorrente è motivo di maggiore “riprovevolezza”, considerato che le irregolarità era tali da non poter passare inosservate. Infondate le eccezioni sollevate dalla difesa, rispetto all’inutilizzabilità, ai fini della prova della responsabilità, della relazione del curatore, da considerare solo un elemento presuntivo al pari della consulenza tecnica. Diverso il parere dei giudici, per i quali qualunque documento prodotto in giudizio è sottoposto al contraddittorio delle parti e rientra nella sfera del libero apprezzamento del giudice in un raffronto critico con gli altri elementi. Inutilmente il professionista attira l’attenzione sulla documentazione dalla quale emergeva la costante attenzione al tema del mancato pagamento dei tributi, rispetto ai quali, almeno per un’annualità, era pendente un termine per il condono. E la scelta di avvalersene o meno, era di competenza degli amministratori. Una tesi che non convince, a fronte del fatto che le violazioni tributarie degli amministratori erano evidenti e registrate nei bilanci. Per i sindaci sarebbe stato semplice impedire le irregolarità denunciandole. Via che non era stata seguita. Il primo profilo di responsabilità, rappresentato dal mancato pagamento delle imposte, stava nella scelta degli amministratori di dirottare le risorse finanziarie su impieghi diversi dalla soddisfazione dei debiti tributari, facendo così scattare una lesione agli interessi dei creditori rappresentata dal cumulo di sanzioni ed interessi, sui quali è stato tarato il risarcimento. Un pregiudizio che il ricorrente è stato chiamato a colmare anche per l’anno il cui relativo bilancio era stato approvato l’anno dopo la cessazione della sua carica di sindaco. I danni contestati risalivano, infatti, a condotte illecite commesse dal ricorrente quando il collegio sindacale da lui presieduto era nel pieno delle sue funzioni. Ed era dunque in una condizione in cui avrebbe potuto e dovuto rilevare e contrastare la cattiva gestione. Tenuità del fatto esclusa se l’opera abusiva è in zona sismica senza autorizzazione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2020 Nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche di lieve entità, la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto non si applica se l’intervento abusivo, seppur di scarsa consistenza, sia eseguito in una zona sismica, senza il preventivo avviso all’ufficio tecnico regionale competente e senza le prescritte autorizzazioni per l’inizio dei lavori. Questo è quanto emerge dalla sentenza della Corte d’appello di Roma n. 13181/2019. La vicenda - La decisione ha ad oggetto l’accusa rivolta nei confronti dei proprietari di un immobile sottoposto a vincolo sismico, paesaggistico e facente parte del Parco Regionale dei Castelli Romani, il quale subiva un restyling abusivo che ne determinava un ampliamento della cubatura, mediante la realizzazione di un vano di 15 mq per ciascuna delle due unità abitative di cui si componeva. A seguito degli accertamenti emergeva che le opere erano state eseguite in assenza di qualsivoglia autorizzazione e permesso a costruire, sicché i proprietari venivano tratti a giudizio e condannati in primo grado per la violazione di diverse norme edilizie. La decisione - Il caso finiva così alla Corte d’appello, dinanzi alla quale gli imputati si difendevano sostenendo l’assenza dell’incidenza sul carico urbanistico delle opere eseguite e, soprattutto, ritenevano che la loro condotta potesse essere ricondotta nel fatto di speciale tenuità di cui all’articolo 131-bis cod. pen., posto che la realizzazione abusiva era finalizzata a far fronte alle esigenze familiari, ovvero garantire a tutti i componenti “una vita dignitosa in un ambiente abitativo adeguato”. I giudici non condividono però l’assunto e confermano in toto il verdetto di merito. Ebbene, quanto al punto della particolare tenuità del fatto, il Collegio sottolinea come per l’applicabilità della causa di non punibilità occorre valutare anche altri parametri. Nello specifico, relativamente alle violazione urbanistiche e paesaggistiche, la Corte ricorda come per la giurisprudenza la consistenza dell’intervento abusivo, valutata nelle dimensioni, tipologia e caratteristiche costruttive, costituisce solo “uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali ad esempio, la destinazione dell’immobile, incidenza sul carico urbanistico, eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto dei vincoli”. Ciò posto, nella fattispecie “sebbene certamente la dimensione del manufatto, destinato ad assolvere ad una esigenza di famiglia, sia di modeste dimensioni”, tuttavia si osserva anche che “l’abuso è stato realizzato in violazione dei molteplici vincoli ivi esistenti, non solo del Parco Regionale dei Castelli Romani, ma anche di quello paesaggistico e di quello sismico”. L’insieme di tali circostanze perciò non consentono di ritenere il fatto di particolare tenuità e di applicare la relativa causa di non punibilità. Piemonte. Il Garante: “Le istituzioni rinnovino l’impegno per il mondo carcerario” cr.piemonte.it, 5 agosto 2020 “Al di là della diffusa consapevolezza delle responsabilità e delle difficoltà di gestione dell’Amministrazione penitenziaria, credo sia doveroso che il Consiglio e la Giunta regionale, con gli Enti locali territoriali, rinnovino l’attenzione sul ruolo che essi hanno per la sanità, il lavoro, la formazione e le politiche sociali all’interno del carcere”. Lo ha dichiarato questa mattina il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano intervenendo in Aula per relazionare all’Assemblea sulla situazione delle carceri piemontesi. “Sarebbe davvero ingiustificato - ha aggiunto - lasciare da sola l’Amministrazione penitenziaria a gestire con grande difficoltà momenti di crisi, di sovraffollamento, di pandemia, di violenze tra detenuti e tra agenti e detenuti”. Riferendo sull’emergenza Covid ha illustrato come “dei circa 300 detenuti riscontrati positivi al Covid-19 nelle 190 carceri italiane, più di un terzo, oltre 110,-sono stati riscontrati nelle 13 carceri del Piemonte tra Torino, Saluzzo e la Casa circondariale Don Soria di Alessandria”. “Nello stesso periodo - ha sottolineato - anche operatori di polizia penitenziaria, collaboratori amministrativi ed educatori dell’Amministrazione sono risultati positivi e si è registrato un morto fra i medici dell’assistenza penitenziaria piemontese”. Tra le maggiori criticità, ha denunciato, permangono quelle legate al sovraffollamento: “A ieri, 3 agosto nelle tredici carceri per adulti del Piemonte erano presenti 4.202 detenuti su una capienza effettiva di 3.783 posti, con un sovraffollamento pari al 111%. La situazione è ancora più grave se si considera che, per il mancato recupero e restauro degli ambienti, le carceri piemontesi potrebbero disporre complessivamente di ben 510 posti in più”. In merito ai recenti fatti di cronaca Mellano ha parlato dei casi di Ivrea e di Torino, sottolineando come “entrambi i casi sono nati come inchieste della Magistratura sulla base di segnalazioni dei garanti e a Torino, in particolare, le inchieste sono state fatte dal Nucleo d’investigazione centrale della Polizia penitenziaria”. “Al di là di come sono emerse segnalazioni o richieste di verifica - ha concluso - è importante sottolineare che è il sistema che si deve dare procedure di controllo per riuscire a intercettare le responsabilità, se ci sono”. Una richiesta di chiarimenti al garante è venuta dal M5s sul trattamento dei detenuti malati psichici e sull’assenza nei reparti femminili della parte dedicata agli studi universitari. Per il gruppo Pd è necessario fare di più sul trattamento sanitario: per questo ha chiesto un approfondimento in Commissione Sanità e quali misure di prevenzione siano state prese per una eventuale nuova ondata di pandemia. Per Luv la soluzione al sovraffollamento non è tanto costruire nuove carceri quanto utilizzare le misure alternative già esistenti, lasciando il carcere come extrema ratio. La Lega ha chiesto informazioni sulla riapertura del carcere di Alba e l’apertura di quello cuneese, necessarie per sgravare gli altri istituti piemontesi dal sovraffollamento. Piemonte. Oltre un terzo dei detenuti positivi al Covid è nelle carceri piemontesi La Stampa, 5 agosto 2020 L’allarme del garante regionale Bruno Mellano: “Non si può lasciare l’amministrazione penitenziaria a gestire situazioni delicate quando c’è di mezzo una pandemia”. Il dato è di quelli che fanno riflettere. Perché la statistica è utile anche per far emergere quelle vicende che altrimenti resterebbero sommerse, tra le mille voci e i mille allarmi. Quando dei circa 300 detenuti riscontrati positivi al Covid 19 nelle 190 carceri italiane, più di un terzo - oltre 110 - sono stati riscontrati nelle 13 case circondariali piemontesi c’è qualcosa che non va. Le cifre sono state rese pubbliche questa mattina dal garante regionale per le persone detenute Bruno Mellano nel corso di un intervento al consiglio regionale. “Sarebbe davvero ingiustificato lasciare da sola l’amministrazione penitenziaria a gestire con grande difficoltà momenti di crisi, di sovraffollamento, di pandemia, di violenze tra detenuti e tra agenti e detenuti” ha dichiarato Mellano. E invece è proprio in questi luoghi chiusi e spesso ai margini della società che l’occhio delle istituzioni deve essere più acuto. Perché anche in luoghi come il carcere ci sono vite in gioco. “Nello stesso periodo anche operatori di polizia penitenziaria, collaboratori amministrativi ed educatori dell’amministrazione sono risultati positivi - ha riferito il garante - e si è registrato un morto tra i medici dell’assistenza penitenziaria piemontese”. Uno dei motivi per cui la statistica piemontese risulta tanto diversa da quella del resto del Paese è da ricercare nel sovraffollamento. A ieri nelle 13 carceri piemontesi erano presenti 4.202 detenuti su una capienza effettiva i 3.783 posti disponibili. L’allarme sul coronavirus nelle case circondariali non poteva non tener conto anche dei recenti fatti di cronaca. Il garante ha citato i casi di Ivrea e Torino e le inchieste sulle violenze perpetrate ai danni dei detenuti. Inchieste, ha sottolineato Mellano, nate dalle segnalazioni dei garanti e, a Torino seguite dal Nucleo di investigazione centrale della polizia penitenziaria. “Al di là della nascita delle inchieste - ha dichiarato il garante - è importante sottolineare che è il sistema che si deve dare procedure di controllo per riuscire a intercettare le responsabilità, se ci sono”. Latina. Muore suicida un agente della Polizia penitenziaria Corriere di Latina, 5 agosto 2020 Si è tolto la vita a 59 anni un agente della Polizia penitenziaria. Si tratta di un assistente capo coordinatore che era in servizio nel carcere di Latina. A darne notizia è il sindacato autonomo Sappe. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro corpi di polizia dello Stato italiano - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe - Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, sempre allegro e simpatico. Faceva servizio nel carcere di Latina dopo altre esperienze lavorative (anche al Nucleo aeroportuale della Polizia Penitenziaria di Fiumicino e nel carcere romano di Regina Coeli). Nessuno mai ha percepito un suo disagio”. Nel 2019 sono stati 11 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita: da gennaio ad oggi sono quattro casi. “Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. È necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria - suggerisce il sindacalista - composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Non si perda altro prezioso tempo nel non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio nel Corpo”. Roma. Detenuta uccise i due figli, indagata anche la psichiatra di Francesco Salvatore La Repubblica, 5 agosto 2020 È stata chiamata tre volte dal carcere per sottoporre la detenuta Alice Sebesta ad una visita psichiatrica eppure non si è mai presentata. Finisce indagata per omicidio colposo la psichiatra dell’Asl che due anni fa prestava servizio nel carcere di Rebibbia, quando la donna di 33 anni tedesca (poi riconosciuta incapace di intendere e volere) ha ucciso i due figlioletti, Faith di 6 mesi e Divine di 19, gettandoli dalle scale. Sebesta, infatti, fin dal suo ingresso nel penitenziario, era stata subito notata per i suoi disturbi. Tanto che psicologi, educatori e agenti avevano segnalato quei comportamenti anomali. La donna, infatti, lasciava i suoi bimbi senza mangiare, gridava immotivatamente e toglieva i giochi ai figli delle detenute che condividevano la stanza con lei, e che per questo erano preoccupate. La stessa era stata sottoposta alla “grande sorveglianza” per una settimana, “soprattutto nell’interesse dei minori” (un controllo non a vista ma rigido da parte della polizia penitenziaria). Una volta, tra l’altro, aveva fatto urtare involontariamente la testa di uno dei figli contro una porta, e proprio per questo era stata richiesta una consulenza psichiatrica. Quel colloquio con la psichiatra, però, non è mai avvenuto, sebbene la direzione del carcere lo abbia sollecitato tre volte. La psichiatra, dunque, ora è indagata per omicidio colposo: con la sua condotta omissiva avrebbe causato l’uccisione da parte di Sebesta dei figli. Nelle scorse settimane la psichiatra è stata chiamata dalla procura ma non ha fornito risposte utili. Il prossimo passo da parte del pm Eleonora Fini sarà la chiusura delle indagini. Sebesta era stata arrestata il 26 agosto del 2018 con 10 chili di marijuana in auto e portata a Rebibbia, dove i118 settembre ha ucciso i figli. Per questo era stato aperto un fascicolo per duplice omicidio volontario ed era stata disposta una perizia dal gip, nell’ambito di un incidente probatorio. L’esito ha portato alla luce che Sebesta è incapace di intendere e volere: così è stata archiviata nel processo per l’uccisione dei figli, e assolta perché non imputabile in quello per droga. Il giudice ha disposto anche il trasferimento in una Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza per gli autori di reati con disturbi mentali, per 15 armi. Che la donna non fosse sana di mente era apparso chiaro fin da subito: già le dichiarazioni fatte alla procura, nell’indagine per omicidio, avevano lasciato qualche perplessità: “Ho fatto bene a fare ciò che ho fatto, così i miei bambini sono liberi - aveva detto Sebesta - soffrivano troppo qui. Ora almeno sono in paradiso”. Napoli. Colpito da emorragia cerebrale in carcere, il caso Petrone arriva in Procura Il Roma, 5 agosto 2020 Semiparalizzato dopo il malore in cella, c’è la denuncia: via all’inchiesta. Percorrere a ritroso la catena delle responsabilità per accertare i motivi per i quali nella primavera scorsa il boss Francesco Petrone, alias “‘o nano”, si è ritrovato in fin di vita in una cella di Poggioreale. È questo l’obiettivo dei familiari del 43enne ras del rione Traiano, reduce dalla recentissima condanna a 19 anni di reclusione in appello ma ristretto ai domiciliari in una clinica specialistica proprio in seguito alla gravissima emorragia cerebrale da cui è stato colpito mentre era detenuto nella casa circondariale “Giuseppe Salvia”. Sul punto, la difesa del “padrino” di via Tertulliano, rappresentata dall’esperto penalista Leopoldo Perone, vuole vederci chiaro. E per questo motivo ha appena depositato in Pro-cura una circostanziata denuncia affinché venga valutata la correttezza dell’operato dell’area sanitaria del carcere. Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti rischiano adesso di finire almeno due aspetti: la carenza di documentazione clinica prodotta dai medici di Poggioreale - ad oggi la difesa non avrebbe ancora ricevuto alcuna relazione - e il ritardo nei tempi di intervento. Prima di finire in condizioni critiche al Cto, infatti, Petrone già da alcuni giorni accusava una perdita di sangue dall’orecchio destro: un campanello d’allarme che però, stando a quanto ipotizzato dalla difesa, sarebbe stato ignorato o quantomeno non tenuto sufficientemente in considerazione. Stando a quanto riportato all’interno della denuncia, il ras del rione Traiano nelle settimane precedenti era stato inoltre affetto da alcuni preoccupanti picchi di pressione arteriosa. In attesa che l’inchiesta faccia il proprio corso vale la pena ricordare che a fine aprile “‘o nano”, come anticipato dal “Roma”, era finito suo malgrado prima al Cto e poi al Cardarelli con una gravissima emorragia cerebrale che ne aveva determinato la paralisi degli arti inferiori. Attualmente Petrone si sta sottoponendo a una fittissima e delicata attività di riabilitazione neuromotoria. I tempi per il ritorno alla normalità si profilano però piuttosto lunghi. Ed è proprio su quest’ultimo step che va a innestarsi un ulteriore elemento a sostegno delle argomentazioni della difesa. Il perito nominato dalla Corte di appello di Napoli ha infatti non soltanto riscontrato la complessità del quadro clinico di Francesco Petrone, ma ha anche preventivato che la completa guarigione potrebbe avvenire non prima di sei mesi, forse addirittura un anno. Tornando invece all’odissea di Poggioreale, l’avvocato del 43enne del rione Traiano ha anche chiesto che vengano sentiti in qualità di testimoni i compagni di cella di Petrone, gli stessi che hanno soccorso il ras, salvandogli la vita, il giorno in cui è stato colpito dall’emorragia. L’avvocato Perone prova comunque a gettare acqua sul fuoco: “Non ci interessa puntare il dito contro l’area sanitaria di Poggioreale, ma chiediamo soltanto che si faccia luce sull’ennesimo possibile caso di malasanità carceraria”. Lo stesso disperato appello che da mesi lancia il garante comunale dei detenuti Pietro Ioia. Napoli. Tribunale Sorveglianza, assalto per fissare le udienze: prenotazioni esaurite in 7 giorni di Viviana Lanza Il Riformista, 5 agosto 2020 Sul sito del Tribunale di Sorveglianza un avviso comunica che dal 1 al 31 agosto il servizio prenotazioni è sospeso perché è stato già raggiunto il numero massimo di appuntamenti fino al termine del periodo di sospensione feriale. Vuol dire che per tutto il mese non si potrebbero prenotare udienze per discutere di detenuti ristretti in carcere o sottoposti a misure alternative. I tentativi di accedere al sistema telematico delle prenotazioni impedisce, infatti, la presa in carico delle richieste inviate dagli avvocati per raggiunto limite di richieste. Alcuni penalisti lo hanno subito segnalato alla Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Ermanno Carnevale. In giornata è arrivato il chiarimento, con una nota che ha reso pubblico il più recente ordine di servizio della presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia. È una circolare in cui si dettano un po’ di regole per la ripresa a settembre e si stabilisce l’organizzazione dell’ufficio nel periodo feriale. Andiamo con ordine. Si prova a riprendere il ritmo di sempre, e sempre ricordando le difficoltà e i limiti che hanno caratterizzato questi ultimi mesi. Il Tribunale di Sorveglianza è una sezione del Tribunale ordinario che ha competenza in materia di ordinamento penitenziario e decide sulle richieste di pene, vigila sull’esecuzione della condanna, interviene in materia di applicazione di misure alternative alla detenzione, di esecuzioni di sanzioni sostitutive o misure di sicurezza. Secondo le nuove disposizioni del presidente Pangia, il rischio di uno stop alle prenotazioni già dai primi giorni del periodo feriale è scongiurato. Perché il presidente ha stabilito che fino al 2 settembre l’obbligo di prenotazione non è necessario in caso di situazioni di urgenza e nei casi di procedure non sospese nel periodo feriale. Quanto alla prossima ripresa, ci sono già prime disposizioni che entreranno in vigore dall’8 settembre. Le udienze dinanzi al Tribunale di Sorveglianza e al magistrato monocratico verranno celebrate con la previsione di collegamenti da remoto, salva la necessaria presenza nell’ufficio giudiziario del giudice e dei componenti del collegio. L’accesso agli uffici da parte degli avvocati e degli utenti esterni continuerà ad avvenire solo su prenotazione via mail, ciò vuol dire che l’accesso agli uffici è ancora limitato per via dei rischi legati all’emergenza sanitaria e alla pandemia da Covid-19. Per il resto, è stato stabilito che istanze e atti potranno essere trasmessi solo tramite pec, mentre a mano soltanto previa prenotazione. La mascherina sarà obbligatoria per accedere alle cancellerie che restano, in Tribunale, uffici ancora ad accesso limitato. Per trattare le procedure bisognerà rispettare determinate fasce orarie: tra le 9,30 e le 11,30 sono previste le udienze relative a detenuti che hanno chiesto di presenziare e dalle 11,30 alle 12,30 sarà possibile trattare le procedure per i detenuti che non hanno fatto richiesta di essere presenti. Inoltre è stata prevista una terza fascia oraria pomeridiana, a partire dalle 12,30, per i soggetti in misura alternativa, agli arresti domiciliari o liberi. Riprenderanno, dall’8 settembre, le udienze dinanzi al magistrato monocratico. E da quella data aumenterà, da due a tre giorni, la presenza in ufficio dei magistrati, mentre soltanto un giorno alla settimana gli avvocati potranno essere ricevuti dai magistrati, ovviamente su prenotazione. Padova. Le aule del Liceo Curiel tinteggiate dai detenuti del Due Palazzi padovaoggi.it, 5 agosto 2020 Un intervento programmato grazie al protocollo d’intesa firmato dalla Provincia di Padova, la Casa di Reclusione e l’associazione Onlus “Gruppo operatori carcerari volontari” di Padova. Sopralluogo al Liceo Scientifico Curiel di via Durer a Padova da parte del consigliere provinciale delegato all’Edilizia scolastica Luigi Bisato per i lavori di tinteggiatura eseguiti dai detenuti del carcere di Padova. Un intervento programmato grazie al protocollo d’intesa firmato dalla Provincia di Padova, la Casa di Reclusione e l’associazione onlus “Gruppo operatori carcerari volontari” (Ocv di Padova) per consentire ai detenuti di fare lavori di tinteggiatura e piccola manutenzione negli edifici scolastici di competenza provinciale. “Come amministrazione - ha spiegato il consigliere all’Edilizia scolastica Luigi Bisato - abbiamo individuato il piano degli interventi da realizzare e l’Istituto Curiel è uno dei primi sui quali stiamo intervenendo. Il lavoro viene svolto con grande professionalità, dedizione e impegno. Sicuramente anche quest’anno troveremo collaborazione e molta voglia di fare, sono persone che hanno sbagliato, ma che meritano una chance di riscattarsi di fronte alla comunità. È un progetto che ci ha dato grande soddisfazione anche negli anni scorsi per il messaggio positivo e di rigenerazione verso chi sta scontando una pena in carcere e verso gli studenti che poi utilizzano le classi ridipinte. Ma è anche un’iniziativa che oggi assume ancora più valore visto che gli edifici scolastici hanno bisogno di interventi e migliorie continue per dare ai ragazzi ambienti salubri e curati. L’emergenza sanitaria credo abbia fatto capire a tutti che bisogna avere a cuore la propria comunità e fare ognuno la propria parte per tenere in piedi i servizi e i luoghi pubblici. Ci siamo improvvisamente accorti di quanto importante sia avere una scuola moderna e rinnovata, oltre ad ospedali, strade, mezzi e tecnologie. Ringrazio il direttore del carcere e i volontari carcerari perché credono nel recupero delle persone e nell’importanza di dare una chance anche a chi sbaglia inserendoli in progetti di valenza locale. È una visione che condividiamo e che come Provincia volentieri promuoviamo”. Si tratta di un’iniziativa che viene rinnovata per la terza volta dopo le aule ridipinte dai carcerati al Belzoni nel 2018 e al Fermi nel 2019. Il progetto rientra infatti tra gli obiettivi pedagogici che la Casa di Reclusione porta avanti per offrire, mediante il lavoro all’esterno, opportunità di formazione professionale e di esperienze utili al reinserimento sociale. L’accordo prevede che la direzione del carcere selezioni i detenuti idonei alle attività da svolgere su base volontaria, a titolo gratuito e tra coloro che hanno effettuato il corso di formazione. Il programma del trattamento viene poi vagliato dal Magistrato di Sorveglianza che concede ai carcerati di uscire per recarsi sul luogo di lavoro. La Casa di reclusione effettua i controlli, fornisce i dispositivi di sicurezza e rimborsa i detenuti di eventuali spese sostenute (biglietto del bus, pranzo) nei limiti del contributo erogato dalla Provincia. L’Istituto scolastico individuato accoglie giornalmente i detenuti, consegna materiali e attrezzature, oltre a seguire lo sviluppo dei lavori. La scuola predispone un foglio presenza e comunica eventuali problemi nello svolgimento delle opere. L’associazione Ocv di Padova assiste i detenuti e cura i rapporti tra l’area educativa del carcere, la Provincia e la scuola per far sì che tutta l’attività sia svolta al meglio. Padova. “Per Aspera ad Astra”: riconfigurare il carcere con la cultura fondazionecariparo.it, 5 agosto 2020 La nostra Fondazione ha aderito alla terza edizione del progetto “Per aspera ad astra”. Il Teatro Stabile del Veneto porterà l’arte teatrale all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Per riconfigurare il carcere e dare senso al tempo della detenzione. Dal 2018 il progetto Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza realizza in 12 carceri italiane innovativi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Il progetto coinvolge circa 250 detenuti, che hanno partecipato a più di 300 ore di formazione. Promossa da Acri e sostenuta da 10 Fondazioni di origine bancaria, tra cui la nostra, l’iniziativa nasce dall’esperienza trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo. Ogni anno, al termine del percorso di formazione, i detenuti si esibiscono nei teatri all’interno degli istituti di pena, che per l’occasione accolgono pubblico esterno, ma anche e soprattutto in teatri collocati fuori dal carcere, con spettacoli inseriti nei cartelloni delle stagioni teatrali. La cultura come strumento di rigenerazione - “Per Aspera ad Astra” porta nelle carceri esperti costumisti, designer, attori, registi e studenti, per creare un dialogo tra “dentro” e “fuori”, che smonta molti pregiudizi e delegittima tante paure diffuse. Il progetto prevede anche l’attivazione di borse-lavoro per permettere ad alcuni detenuti di svolgere periodi di formazione fuori dal carcere, presso i teatri. “Per Aspera ad Astra” ha così dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, per compiere una rigenerazione degli individui, favorendo il riscatto personale e avviando percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il contributo della Fondazione Cariparo permetterà al Teatro Teatro Stabile del Veneto di portare il progetto all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Il progetto sta generando inoltre un processo di ripensamento del carcere, delle sue funzioni e del rapporto tra il personale che vi opera e le persone detenute. Un’inedita comunità - Ad alimentare questa iniziativa c’è un’inedita comunità, composta da diversi soggetti, ciascuno con il proprio ruolo: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Anche nel 2020, nonostante le difficoltà causate dalla pandemia, Per Aspera ad Astra non si è fermato: i laboratori sono proseguiti in video-collegamento e gli spettacoli programmati sono stati soltanto rinviati al prossimo autunno. “Per Aspera ad Astra” è un progetto promosso da Acri (l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto da Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna. Melfi (Pz). “Valori oltre le sbarre”, corso per arbitri in carcere organizzato dal Csi di Emilio Fidanzio melfi.news24.city, 5 agosto 2020 Parte oggi il corso per arbitri di calcio a 5, organizzato dal Centro Sportivo Italiano, Comitato di Melfi, per i detenuti della Casa Circondariale di Melfi. Il Corso che durerà tre mesi e sarà dedicato ai detenuti dell’Area Trattamentale è frutto del progetto “Valori oltre le sbarre”, iniziativa questa fortemente voluta dal presidente ciessino Aldo Cilenti, che è stata accolta dalla direzione del penitenziario melfitano, grazie anche ad una convenzione tra la presidenza nazionale CSI ed il Ministero di Grazia e Giustizia. “Valori oltre le sbarre” è quindi un’iniziativa nata appunto da un protocollo d’intesa tra la struttura carceraria di Via Lecce ed il Comitato del presidente Cilenti, il quale ha annunciato che questo importante progetto di carattere sociale, che potrà tornare utile ai detenuti che parteciperanno, una volta riacquistata la piena libertà, sarà solo il primo tassello di un’intensa collaborazione che vedrà impegnate le due realtà cittadine. A tenere il corso, come da prassi del Csi, saranno formatori altamente qualificati ed esperti, che di sicuro sapranno stimolare i corsisti. Da anni il Csi è impegnato nelle carceri italiane con le sue attività sportive e formative e finalmente riesce a portare i suoi servizi anche nell’importante penitenziario di Melfi, che è classificato come carcere di Alta Sicurezza, pertanto si può capire quale certosino lavoro ha impostato il presidente Cilenti per accedere alla struttura melfitana, tra le altre cose colpita lo scorso marzo da una violenta rivolta, che in occasione dell’esplosione della pandemia Covid-19 ha interessato numerose carceri in tutta Italia. “Valori oltre le sbarre” è quindi anche un’importante risposta della Direzione della Casa Circondariale ai citati fatti di cronaca, che vuole testimoniare l’importante funzione rieducativa della struttura lucana e per farlo non a caso è stato scelto un partner qualificato come il CSI di Melfi, che dal lontano 1953 è a servizio della comunità di Melfi e di quella lucana Il razzismo, orrori da non dimenticare di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 5 agosto 2020 È sbagliato valutare le azioni di un’epoca dal punto di vista di un’epoca diversa. Ma neppure si possono rimuovere scelte ed episodi che fanno venire i brividi. “Si avrebbe torto giudicando le azioni di un’epoca dal punto di vista di un’epoca diversa”, scrive Alexandre Dumas, mettendo in bocca la frase a D’Artagnan ne “I tre moschettieri”. Parole d’oro. Come dimostrano anche le polemiche roventi sull’abbattimento delle statue di tanti uomini che a suo tempo pensavano fosse “normale”, per quanto oggi la parola ci faccia orrore, avere degli schiavi. Basti rileggere quanto disse perfino Abramo Lincoln a Charleston, nell’Illinois, il 18 settembre 1858: “Non sono e non sono mai stato favorevole a promuovere in alcun modo l’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; devo aggiungere che non sono mai stato favorevole a concedere il voto ai negri o a fare di loro dei giurati, né ad abilitarli a coprire cariche pubbliche, o a permetter loro matrimoni coi bianchi”. Da brividi. Vale anche, purtroppo, per la Chiesa. Sarebbe ingiusto, proprio perché moltissimi preti e frati e missionari hanno dato battaglia contro la schiavitù, a partire dal grande Bartolomé de Las Casas che arrivò a Santo Domingo da padrone di schiavi e dedicò la vita alla loro liberazione, rimuovere quelle parti della storia che ancora oggi fanno arrossire tanti cristiani impegnati nel volontariato. In particolare in Africa. Da dove, stando agli studi, sarebbero stati rapiti e smistati in Europa, nelle Americhe e nei paesi arabi almeno una ventina di milioni di africani. Almeno. Certo, come rivendicò nel 1992 Giovanni Paolo II nell’indimenticabile visita di perdono a Goré, il porto senegalese da dove salpavano le navi negriere (“Uomini, donne e bambini sono stati vittime d’un vergognoso commercio cui hanno preso parte persone battezzate ma che non hanno vissuto la loro fede: come dimenticare le enormi sofferenze inflitte, disprezzando i diritti umani più elementari, alle popolazioni deportate dal continente africano?”) la Chiesa condannò lo schiavismo già in una lettera del 1462 di Pio II come un crimine: “magnum scelus”. Ma si trattava di affermazioni di principio scontate e tradite. Il silenzio sul tema del Concilio di Trento, aperto nel 1545 quando già le rotte per l’America erano aperte da mezzo secolo e la tratta dei neri era già stata avviata dai cattolicissimi portoghesi (con tanto di battesimo ai rapiti somministrato a bordo), la dice lunga. Così come l’uso di 475 schiavi a bordo delle navi della flotta pontificia con base a Civitavecchia ancora nel 1726. Guai a giudicare col metro di oggi. Ma anche dimenticarcene è insopportabile. Migranti. Il governo fa la voce grossa ma da Salvini nulla è cambiato di Paolo Delgado Il Dubbio, 5 agosto 2020 Qual è la politica dell’Italia e del suo governo attualmente in carica sull’immigrazione? Dipende. Dipende dai giorni, dalle contingenze, dalla percezione degli umori dell’elettorato, dagli equilibri instabili e mutevoli della maggioranza, da quelle che a torto o a ragione vengono considerate come le convenienze a breve e spesso a brevissimo. La politica di Salvini era tutta centrata sulla propaganda: navi fermate di fronte ai porti con gran fragore e abuso di dichiarazioni altisonanti. La propaganda del governo Conte è di segno opposto: capita che le navi restino all’ancora per settimane lo stesso, ma discretamente e sperando che non se ne accorga nessuno. I dl Sicurezza di Salvini sono sempre stati un vessillo. Modificarli doveva essere la pre- condizione per dare vita alla nuova maggioranza, il segno tangibile di quella ‘ discontinuità’ senza la quale, tuonava nell’agosto scorso Zingaretti, non sarebbe stato pensabile un nuovo governo Conte. Il secondo governo Conte c’è da un anno e i dl Sicurezza pure, neppure scalfiti. Prima o poi, inevitabilmente, verranno ritoccati e finalmente il segretario del Pd potrà brindare alla conquistata ‘ discontinuità’. Ma sulla portata effettiva delle modifiche ogni dubbio è lecito. La vicenda libica è particolarmente incresciosa. Si tratta in tutta evidenza di una vergogna nazionale che passa indenne attraverso i marosi di ogni ricambio di governo. La decisione di finanziare i libici e in particolare una Guardia costiera al di sotto il ogni sospetto la prese il ministro Minniti, governo Gentiloni, con gli elogi della Lega che confermò gli accordi durante il primo governo Conte. Il secondo governo Conte li ha rafforzati, stringendoli direttamente con il capo della Guardia costiera, trafficante di esseri umani e torturatore Bija. Nonostante la valanga di testimonianze sulla sistematica violazione dei diritti umani nei lager libici, meno di un mese fa il finanziamento alla Libia è stato non solo confermato ma portato da 4 a 6 milioni l’anno. Impagabile, Zingaretti ha dichiarato che lo si è deciso proprio per difendere i diritti umani: senza le prebende italiane la Guardia costiera farebbe di peggio. Chiaro, no? Il governo oscilla tra dichiarazioni calibrate per accontentare quella parte di elettorato che chiede di invertire la rotta rispetto alla politica di Salvini e affermazioni ruggenti di segno opposto mirate a rassicurare quelli che invece proprio la linea dura di Salvini apprezzano. Salvo il particolare che la stessa linea grintosa del leader leghista era fatta essenzialmente, a propria volta, di parole e messe in scena. Quanto a politiche concrete, invece, cambia pochissimo e di visione strategica è meglio non parlare proprio per carità di patria. I centri di accoglienza continuano a scoppiare, con centinaia di persone stipate in spazi che dovrebbero contenerne meno di cento. Il ritornello sui rimpatri prosegue, anche se tutti sanno perfettamente che i rimpatri di massa sono di fatto impossibili. Di strategie di integrazione non si vede neppure l’ombra: l’orizzonte dei governi, in materia di immigrazione, si ferma ai porti, cioè agli sbarchi. La situazione in Europa non è cambiata e difficilmente cambierà in tempi brevi. La realtà è che l’unica politica concreta e non improvvisata in materia d’immigrazione è proprio la peggiore che ci sia: i pagamenti alla Libia perché freni la migrazione costi quel che costi in termini di diritti umani calpestati. Le migrazioni, però, non sono come il Covid. Non ci si può augurare che passino presto così come sono arrivate. Non si può scommettere sulla scoperta in tempi relativamente brevi di un vaccino. Sono un evento epocale e di lunga durata che imporrebbe di mettere a punto politiche di respiro strategico, europee, pensate con lungimiranza e non con lo sguardo miope di chi tiene d’occhio prima di tutto i sondaggi, la propaganda e le beghe interne alla maggioranza di turno. Ancor più che sulla modifica, pur necessaria, di qualche decreto sbagliato e a sua volta propagandistico, la discontinuità invocata dal segretario Zingaretti avrebbe dovuto realizzarsi in questo cambio radicale di approccio complessivo. Non si può dire che per ora il governo giallorosso ci sia riuscito e neppure che abbia dato qualche segnale di quelli che autorizzano almeno a sperarci. “Sull’immigrazione Conte e Di Maio inseguono la destra” di Simona Musco Il Dubbio, 5 agosto 2020 Intervista Filippo Miraglia presidente di Arcs, ong dell’Arci. “Il governo sta facendo espulsioni di massa, che sono illegali. Consentire ai migranti di fare richiesta d’asilo è un dovere per lo Stato. Ma stanno facendo campagna elettorale per la destra, alimentando il razzismo”. A dirlo al Dubbio è Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci e, dal 2016, presidente di Arcs, la ong dell’Arci che si occupa di cooperazione e solidarietà internazionale. Conte ha annunciato una stretta sugli sbarchi irregolari, affrontando la questione migranti anche in relazione al rischio di nuovi focolai, di fatto replicando le affermazioni più volte fatte da Salvini. Come commenta le sue affermazioni? Come al solito, la paura di perdere consenso o di lasciare spazio alla destra su questo argomento fa fare degli scivoloni a tanti. Che l’immigrazione irregolare sia una cosa negativa è vero, il problema è la soluzione. Perché se l’unica soluzione, com’è stato finora, è impedire alla gente di spostarsi allora si consegnano i migranti nelle mani dei trafficanti. Se non si ha nessuna possibilità di muovermi, per cercare protezione o lavoro, è ovvio che ci si affiderà ai trafficanti. Quali sono le soluzioni praticabili? Nel caso specifico parliamo della Tunisia, un Paese piccolo, di pochi abitanti, con il quale basterebbe fare degli accordi per gli ingressi, con un decreto flussi che consente a qualche migliaio di tunisini di entrare per cercare lavoro, con il proprio passaporto. Ci sono fasce del mercato del lavoro che sono scoperte, nonostante la disoccupazione. Questo toglierebbe soldi ai trafficanti, mentre insistere per impedire la partenza o sui rimpatri equivale solo alimentare traffici di esseri umani, alimentando il razzismo. Continuare a ripetere che c’è un’invasione non fa altro che agevolare Salvini. Insomma, questo governo sta facendo campagna elettorale a Salvini, usando argomenti per i quali la gente si rivolge, naturalmente, alla destra. Se vuoi fermare l’immigrazione irregolare devi favorire quella regolare. Dall’altra parte abbiamo il rinnovo degli accordi con la Libia, con i quali di fatto si finanzia una Guardia Costiera che, anziché salvare, spara sui migranti. Nessuna discontinuità con l’epoca Salvini? Purtroppo completamente nessuna. Abbiamo apprezzato che alcuni parlamentari Pd ma anche del M5s abbiano chiesto una revisione di quell’accordo, noi ne abbiamo chiesto la cancellazione. È bene ricordare che quel memorandum della vergogna, sottoscritto dall’ex ministro Minniti, segue la stessa logica proibizionista di cui dicevo prima, finanziando i trafficanti con soldi del contribuente italiano ed europeo. Soldi che per altro, in gran parte, dovrebbero andare, come ha detto Di Maio, alla cooperazione e allo sviluppo. Ovvero dovrebbero servire, come si dice spesso in maniera ideologica, per aiutarli a casa loro e non costringerli ad emigrare. Nel caso della Tunisia, sappiamo che c’è una crisi fortissima che spinge la gente ad emigrare, ma parliamo di numeri ridicoli. Abbiamo sempre invitato a guardare i dati: in Europa siamo uno degli ultimi Paesi ad accogliere richiedenti asilo, ovvero quelle persone per le quali gli Stati dell’Ue sono obbligati a predisporre anche l’accoglienza e hanno quindi un costo sociale. L’Europa è poi una delle aree del mondo che ha meno arrivi da questo punto di vista: l’Unhcr ha calcolato che 80 milioni di persone sono obbligate a lasciare le loro case, ma nel nostro continente ne arriva un numero ridicolo, circa 600mila, a seconda degli anni. E in Italia meno di 15mila, considerando tutti gli sbarchi e non solo i richiedenti asilo. Noi facciamo le vittime e chiediamo la redistribuzione, ma se fosse fatta in maniera equilibrata e seria ce ne toccherebbero molti di più. Non è l’Europa che lascia da soli noi, ma noi che lasciamo sola l’Europa. E continuiamo a dire queste sciocchezze, che giustificano gli accordi con la Guardia Costiera libica, gli accordi con dittatori del centro Africa e anche pratiche che sono del tutto illegittime, come i rimpatri collettivi, che sono vietati. La domanda d’asilo è individuale e vanno vagliate tutte le posizioni. L’accesso al diritto d’asilo va garantito a tutti e le espulsioni di massa, come quelle che stiamo facendo in questi giorni con i tunisini, sono illegali. Non si può fare, soprattutto in uno dei Paesi che è agli ultimi posti per accoglienza. Certo, ormai anche 100 persone, con il clima di odio che c’è verso i migranti e il mondo della solidarietà, diventano tante. I Decreti Sicurezza sono ancora in vigore, nonostante i rilievi del Colle e le sentenze della Consulta... Su questo sono ottimista, perché abbiamo avuto un’interlocuzione stabile in questi mesi, in particolare con il viceministro dell’Interno Mauri. Non cambia il nostro giudizio sul fatto che il governo non sia stato in grado di modificare subito quelle due leggi propaganda. Abbiamo però letto il testo dell’accordo trovato nella maggioranza per modificarli e ci sembra comunque un passo avanti importante, perché reintrodurrebbe lo Sprar e una forma di protezione speciale che consente di applicare la Costituzione e le convenzioni internazionali, salvaguardando i diritti delle persone. E questo per noi rappresenta un fatto concreto, ma ovviamente aspettiamo che venga votato. Vogliamo anche ricordare che dopo l’intervento di Salvini le domande di asilo accolte sono passate dal 40 al 20%, producendo un numero altissimo di irregolari e disagio sociale, cosa che fa comodo ai razzisti. Ultimo punto: le navi quarantena. Rappresentano una violazione dei diritti dei migranti? Siamo alla follia. In Italia, nel sistema pubblico dell’ex Sprar, ci sono migliaia di posti disponibili, che costano meno e hanno un impatto basso. Non si capisce perché queste persone non vengano trasferite nelle case diffuse, in modo che vengano seguite dalle Asl, senza pesare sullo Stato con una spesa straordinaria. È un ulteriore teatrino per dire alle persone che li teniamo lontani, che bisogna tenerli lontani. Ma quello è territorio italiano e se fanno domanda d’asilo sono comunque a carico dell’Italia e, soprattutto, se ci sono casi di Covid così si rischia di creare focolai enormi. Distribuiti sui territori, invece, eventuali casi potrebbero essere isolati. Ma noi insistiamo a trovare soluzioni che rincorrendo le paure degli italiani finiscono per alimentarle, regalando un nuovo argomento alla destra. Questa soluzione produrrà solo disastri. I fragili confini del nostro Paese di Franco Venturini Corriere della Sera, 5 agosto 2020 Le ondate migratorie incontrollate mettono a rischio i governi, e soprattutto indeboliscono la democrazia. Lo ha riconosciuto anche Papa Francesco, non si può accogliere tutti. Si può avere, però, una vera politica di inserimento e di integrazione. I massicci arrivi dalla Tunisia e il voto parlamentare che ha mandato Matteo Salvini sotto processo hanno riconsegnato al tema dell’immigrazione clandestina un posto privilegiato sulla giostra politica italiana. Salvini punta a una assoluzione, ma ancor più a un dibattimento da usare come rampa di lancio per riconquistare l’antico consenso degli italiani. Di Maio scommette, pensando anche alla leadership nel suo Movimento, che una iniziativa immediata e ferma nei confronti di Tunisi e dell’Europa possa convincere gli elettori più dei proclami spesso inesatti di Salvini o degli inattuabili blocchi navali predicati dalla Meloni. E intanto, tra confusioni e illusioni sul come contenere flussi migratori che ora creano anche un rischio sanitario, l’Italia balneare comincia ad avere paura dell’autunno, non sa bene cosa vuole fare con i denari del Recovery fund, si lacera sui miliardi pronta cassa del Mes, e vede crescere i contagi di un coronavirus che ci stringe a tenaglia dalla Catalogna ai Balcani. Il tema delle migrazioni trans-mediterranee meriterebbe miglior sorte, e anche un approccio più serio che sappia contrapporre al clamore dei populismi e alle scadenze elettorali iniziative non propagandistiche. Anche se è noto a tutti che in Italia come ovunque nel mondo l’arrivo di numeri consistenti di migranti clandestini incide pesantemente sulle scelte degli elettori, favorendo di volta in volta la destra o l’estrema destra che sventolano la bandiera della fermezza. E arrivano a minacciare valori e costumi propri della liberal-democrazia occidentale. Dopo le braccia aperte ai siriani nel 2016 Angela Merkel è sopravvissuta grazie a una leadership personale a prova di errore, ma l’eccezione della Cancelliera conferma la regola: le ondate migratorie incontrollate mettono a rischio i governi, e soprattutto indeboliscono la democrazia. Lo ha riconosciuto l’insospettabile Papa Francesco, non si può accogliere tutti. Si può, però, avere una vera politica di inserimento e di integrazione. Si possono creare forme di immigrazione legale. Si può sconfiggere, anche a casa nostra, i complici dei trafficanti di esseri umani. Si possono contrastare, dicendo la verità, le strumentalizzazioni della destra e la passività della sinistra. Si deve ricordare che le gesta durissime del Salvini ministro non hanno avuto risultati che non fossero di tutta la sponda Nord del Mediterraneo in quel periodo, e che il ministro disertava regolarmente le riunioni europee sulle migrazioni salvo poi accusare a gran voce l’Europa di averci abbandonati. Si può spiegare che il “blocco navale” è un atto di guerra, e funziona soltanto se si è pronti a sparare su chi vuole violarlo. Davvero la nostra Marina o altre Marine europee aprirebbero il fuoco contro i barconi? No, salverebbero i migranti in pericolo come impone il diritto del mare, moltiplicando così le partenze. Efficace per molti versi è stato il ministro Minniti sulla Libia, ma il Pd non ha voluto o saputo valorizzare quei progressi presso l’opinione pubblica. E oggi il segretario Zingaretti, come la ministra Lamorgese, reclamano una evacuazione umanitaria dei campi di prigionia e di tortura che sappiamo esistere in Libia. Ma siamo consapevoli che per fare ciò, visti gli interessi in gioco, serve una massiccia operazione militare? Oppure crediamo di poter convincere l’Onu a impiegare i suoi Caschi Blu? La realtà è che l’unica via forse percorribile nella Tripolitania di oggi per far cessare lo scandalo di quei campi è di rivolgerci ai turchi e di pregarli di esercitare pressioni sui libici di Serraj che a loro tutto devono. Come del resto facciamo in campo energetico, e come dovremmo fare per le partenze dei migranti. La Tunisia è una questione diversa, anche se non raggiungerà mai il potenziale destabilizzante della Libia. Quelli tunisini sono palesemente migranti economici, e non è soltanto un barboncino subito strumentalizzato a dircelo. Il Covid-19 ha dato il colpo di grazia a una congiuntura anche politica molto instabile, e chi può pagarsi il passaggio guarda una carta e prova a raggiungere Lampedusa. Ma con Tunisi l’Italia ha un accordo di rimpatrio, e bene fanno Lamorgese e Di Maio ad annunciarne la stretta applicazione. Non basteranno gli aerei, però. E la minaccia di sospendere lo stanziamento di 6,5 milioni di aiuti già concordati va agitata presso il governo di Tunisi stando attenti a non stuzzicarne il nazionalismo, che potrebbe produrre effetti controproducenti. Anche qui ci vuole chiarezza: la crisi tunisina non passerà dall’oggi al domani, e potrebbe aprire nuove vie alle pressioni migratorie esterne. L’Europa? Certo, anche all’Europa dobbiamo rivolgerci. Magari ricordando ad Angela Merkel, che non poco ci ha appoggiati in tema di Recovery fund, i tempi in cui il suo governo era favorevole a una revisione dei regolamenti di Dublino che tanto ci penalizzano. Niente illusioni, però. Dagli accordi per sostenere le economie più colpite dal virus l’Europa è uscita con nuovi orizzonti ma anche con accentuate debolezze derivanti dalla netta divisione tra franco-tedeschi e meridionali, “frugali” e Gruppo di Visegrad. Una equa e completa ripartizione di chi arriva in Italia non è all’ordine del giorno, per ora ci si dovrà accontentare delle accoglienze volontarie annunciate da gruppi di governi come già accaduto in passato. Perché i migranti, oltre alle nostre democrazie, possono travolgere anche l’Europa. Fuga dalla Tunisia, il Nobel per la pace: “Basta soldi ai carcerieri, aiutateci a casa nostra” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 5 agosto 2020 “Quante volte ho sentito ripetere: aiutiamoli a casa loro. Ebbene, se si vuole farlo seriamente, è venuto il momento di far seguire i fatti alle parole. Prima che quella ‘casa’ bruci. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro. L’Europa non deve finanziare gendarmi o carcerieri a garanzia della sicurezza delle sue frontiere esterne. Se si vuole far desistere decine di migliaia di persone in fuga da guerre e dalla povertà assoluta, occorre offrire loro una speranza di vita, un futuro dignitoso. Per migliaia di disperati l’alternativa concessagli è morire in mare o essere rinchiusi in lager come quelli in Libia. L’umanità sta affogando nel Mediterraneo. Nessuno sogna di fare il migrante, perché quello non è un sogno ma un incubo. Offriamo loro una valida ragione per restare. Perché di fronte alla disperazione di chi sa di non aver più nulla da perdere non esistono muri che tengano”. A sostenerlo, in questa intervista al Il Riformista, è Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace. Dopo la sua missione a Tunisi, lo scorso 27 luglio, riferendo al Consiglio dei ministri, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha definito la situazione in Tunisia come un “vulcano in eruzione”. Siamo a questo punto e ciò sancisce il fallimento della “rivoluzione dei gelsomini” e del modello tunisino? Non sarei così tranchant, anche se questo non significa sottovalutare un fatto allarmante e in continua crescita: da Paese di transito, la Tunisia si sta trasformando sempre più in un Paese di origine dei flussi migratori. Una cosa è certa: quello dei migranti non può essere ridotto a un problema di sicurezza e di attività di polizia. Un approccio di questo genere è destinato al fallimento. Noi abbiamo bisogno di investimenti che diano lavoro ai giovani tunisini, non solo di motovedette. Vede, la grande maggioranza del popolo tunisino continua a sostenere il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. Ad aggravare ulteriormente una situazione già gravida di problemi, è l’instabilità politica e istituzionale: il duello interno tra islamici e laici ha portato tre settimane fa alle dimissioni del premier Elyes Fakhfakh, che ha lasciato il suo nuovo governo varato a febbraio. Se prevarranno logiche di fazione e interessi di parte, il destino della Tunisia è segnato. La speranza è che il premier incaricato Hichem Mechich riesca a dar vita ad un governo di coesione nazionale, senza la quale la Tunisia rischia di precipitare nel baratro. A quanti chiedono lavoro e libertà non si può, non si deve rispondere, con la repressione, riducendo il malessere sociale a un problema di ordine pubblico. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia. Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato” ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro. Un futuro condiviso Resta comunque una crisi economica e un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente aggravati... Purtroppo è così. La crisi pandemica rischia di moltiplicare le disuguaglianze sociali e la distanza tra i Paesi ricchi e i Sud del mondo. Per quanto riguarda la Tunisia, quello compiuto in questi nove anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi. A cosa si riferisce? Al malessere sociale. Il processo di democratizzazione non può dirsi realizzato se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio. Per tornare all’oggi. Chi c’è dietro la “rotta tunisina”? Vi sono organizzazioni criminali che hanno stabilito un patto d’azione con gruppi jihadisti che, dopo essere stati scacciati dalla Siria e dall’Iraq, hanno fatto del Nord Africa la loro nuova trincea, soprattutto ai confini tra Tunisia e Libia. Il loro obiettivo non è la conquista del potere ma destabilizzare i Paesi in cui s’insediano, cercando di controllare territori utilizzati per sviluppare i loro traffici criminali. E lo fanno sfruttando un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente alimentato. La risposta vincente non può essere solo repressiva né, come purtroppo è accaduto, utilizzare la guerra al terrorismo per sospendere libertà fondamentali, individuali e collettive. La Tunisia è nel mirino di questi criminali perché ciò che non tollerano è il consolidamento dello Stato di diritto, l’opposto della dittatura della sharia che vorrebbero instaurare. La tragedia senza fine in Siria, la guerra dimenticata in Yemen, il caos armato in Libia. Il Mediterraneo è in fiamme. In piedi resta, anche se con forti incrinature, solo la speranza tunisina. Cos’è che l’alimenta? La consapevolezza, frutto di ferite ancora aperte, che al dialogo non c’è alternativa. La convinzione che per difendere un bene comune ognuno doveva rinunciare a qualcosa, che nessuno era depositario di una verità assoluta. Nel 2013, con gli assassinii di leader politici della sinistra, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, siamo stati davvero sull’orlo del baratro. Ma, insieme, siamo riusciti ad evitare un bagno di sangue e a scommettere sulla possibilità di realizzare uno stato di diritto, plurale, del quale la nuova carta costituzionale è espressione. Nel far questo abbiamo recuperato il meglio della storia della Tunisia, il primo paese al mondo ad abolire la schiavitù, il primo paese arabo ad accettare e favorire l’emancipazione della donna. Se abbiamo evitato il baratro è anche perché la nostra rivoluzione democratica ha potuto far leva su una società civile matura e organizzata, su un sindacato forte e radicato, su associazioni di categoria, sul protagonismo delle donne, un universo plurale che ha segnato la transizione, dimostrando come sia possibile trovare dei punti di convergenza importanti tra forze di ispirazione laica e di sinistra e quelle espressione di un islam politico che rifugge da una concezione assolutista del potere. Da avvocato e difensore dei diritti umani quale bilancio si sente di trarre, su questo delicatissimo campo, dei nove anni post-rivoluzione? Un bilancio che presenta ancora zone d’ombra da superare se si vuole realizzare pienamente uno stato di diritto. La legislazione non è ancora conforme alla costituzione. Le leggi liberticide sono ancora in vigore in Tunisia. Mentre la costituzione prevede la presenza di un avvocato durante l’arresto di polizia, il codice di procedura penale non è stato ancora modificato. È, tuttavia, una garanzia fondamentale per prevenire la tortura e i maltrattamenti che persistono nelle stazioni di polizia, nelle stazioni della Guardia Nazionale e nelle carceri sovraffollate. Dico questo perché la rivoluzione del 2011, che è stata vincente perché è stata una rivoluzione di popolo, ci ha reso consapevoli che la democrazia non è si esaurisce con il voto. La democrazia è un sistema di regole condivise, un bilanciamento tra i poteri, è l’autonomia della magistratura dal potere politico, è libertà d’informazione, è l’affermarsi della giustizia sociale. Democrazia è regole e sostanza. Questo è il sogno che supporta il modello tunisino. Un sogno realizzabile? Abbattere un regime come quello di Ben Ali non è stato facile, il popolo tunisino ha pagato un prezzo altissimo e ancora oggi piange i martiri della libertà. Ma costruire un sistema democratico è ancora più difficile perché non può essere imposto dall’alto. Bisogna lavorare dentro la società, far crescere una cultura democratica che sia a garanzia del rispetto di ciò che si scrive nella carta costituzionale o nelle leggi. È cambiare mentalità consolidate. Non è facile, ma ci stiamo provando seriamente. Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia? Di continuare sulla strada della cooperazione. Costruire opportunità di lavoro per i giovani tunisini è il modo migliore, più efficace per contenere i flussi migratori e contrastare l’azione dei trafficanti di esseri umani. Abbiamo bisogno di aiuti, non di ultimatum. Piacenza, droga e tortura. Una assuefazione di Sergio Segio Il Manifesto, 5 agosto 2020 Le inchieste per violenze sugli arrestati e illegalità in divisa non sono certo rare, pur costituendo nient’altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno che solo a Genova 2001 è emerso nella sua profondità. Ci risiamo! E vedremo quanto durerà stavolta l’attenzione dei media, lo stupore degli ingenui, l’indignazione degli smemorati. Forse un po’ più del solito, poiché l’accorto magistrato è ricorso al sequestro dell’intera caserma dei carabinieri di Piacenza; il solo arresto dei suoi gestori non avrebbe prodotto la stessa visibilità. Ma se è la prima volta che ciò succede, le inchieste per violenze sugli arrestati e illegalità in divisa non sono certo rare, pur costituendo nient’altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno che solo a Genova 2001 è emerso nella sua profondità. Ai riflettori su Piacenza e alla pubblica esecrazione hanno certo contribuito i risvolti a luci rosse ma, più di tutto, la compresenza di droghe e di spaccio. Argomento così rodato e assorbente ma mandare presto in secondo piano pestaggi e arresti ingiustificati. La violenza istituzionale esercitata su stranieri e marginali pare, e non da oggi, essere considerata meno grave di quella, assai più raramente, esercitata nei riguardi di cittadini inseriti. Del resto, vi è chi, in passato, non ha esitato a teorizzare che i “colletti bianchi” finiti in carcere ne abbiano a soffrire molto di più, non essendo quella prospettiva nell’ordine del previsto e del “naturale”. Ci sarà pure un motivo se carcere e tortura sono storicamente - e impunemente - riservati a poveri, tossicodipendenti e ribelli. Come ebbe a raccontare anni fa un commissario che, pur tardivamente, ruppe il muro dell’omertà, senza peraltro provocare alcuno scandalo o inchiesta: i compiti della squadra di torturatori della polizia, del quale ammetteva di aver fatto parte nella lotta al terrorismo, erano quelli di “applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili”. Insomma, violenze e torture sui fermati erano la norma, ma in quel momento storico, secondo il funzionario semi-pentito, “dall’alto” arrivò l’autorizzazione a fare lo stesso nei confronti dei militanti armati. In quegli stessi anni (primi 80) e luoghi (Veneto) di cui il commissario ha raccontato in un’intervista (“L’Espresso” del 9 aprile 2012), era presente un altro personaggio che, in qualche modo, ci riporta a Piacenza: Gianpaolo Ganzer, ufficiale dei carabinieri del nucleo di Dalla Chiesa, a capo dell’Anticrimine di Padova, poi a sua volta generale e comandante del ROS. Nel 2010, ancora in servizio (andrà in pensione nel 2012), con altri 13 carabinieri venne condannato a 14 anni “per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida” (condanna ridotta nel 2013 a 4 anni e 11 mesi, prescritta nel 2016). In buona sostanza (e qui l’ambivalenza del termine è assai calzante), Ganzer avrebbe fatto in grande quel che i più ruspanti carabinieri piacentini facevano in piccolo. Sono passati pochi anni, ma quella vicenda pare archiviata nella memoria pubblica come tante altre simili, sia pur di minore eclatanza. Tutto dimenticato. O quasi. Tocca infatti ora convenire con un commento Twitter dell’avvocato Carlo Taormina: “In fin dei conti i carabinieri di Piacenza ripagavano i confidenti facendoli spacciare e malmenavano quelli che arrestavano. Routine! Ganzer fu assolto per ben di più”. Anche l’avvocato è invecchiato, tanto da confondere prescrizione e assoluzione, ma il resto dell’affermazione è indiscutibile, a prescindere dal suo autore. Ecco. Questa è la routine. Questo è “quello che fanno tutte le squadre mobili”. Si eccepisce che il crimine non si può affrontare con i guanti bianchi. Più o meno lo stesso disse Vincenzo Muccioli ai tempi del processo per l’omicidio Maranzano, prima ucciso nella comunità di San Patrignano e poi scaricato tra l’immondizia a Napoli. La droga e il proibizionismo sono stati e continuano a essere la comoda coperta per mille nefandezze. Stati Uniti. Floyd visto dagli agenti e un rapporto choc di Marina Catucci Il Manifesto, 5 agosto 2020 Diffuso il filmato della bodycam, si vede l’uomo chiedere agli agenti di non ucciderlo. E Amnesty accusa: 125 casi di abusi sui manifestanti. Amnesty International Usa ha divulgato un rapporto dove si denunciano 125 casi di violenza da parte delle forze di polizia verso manifestanti, medici, giornalisti e osservatori legali, avvenuti in 40 stati e nel Distretto di Columbia, nel periodo tra maggio e giugno, dopo l’uccisione di George Floyd. L’organizzazione ha dichiarato che “ancora e ancora, le forze dell’ordine hanno usato la forza fisica, le sostanze chimiche urticanti, proiettili di gomma, arresti e detenzioni arbitrarie come prima risorsa contro manifestazioni in gran parte pacifiche” e per “imporre il coprifuoco”. Amnesty International ha specificato che tra il 26 maggio e il 5 giugno sono stati documentati 89 casi di “uso non necessario” di gas lacrimogeni in 34 stati, e 21 incidenti relativi a un “uso illegale” di spray urticante in 15 stati e Washington DC da parte della polizia statale e locale, delle truppe della Guardia nazionale e dei funzionari federali. Il rapporto rivela “una preoccupante mancanza di progressi” dalle proteste equivalenti del 2014 a Ferguson. “Solo 3 stati, California, Washington e Missouri, hanno fatto passi importanti e progressivi”, si legge nel rapporto. A poche ore dalla diffusione del rapporto, sono trapelate, per la prima volta, due video registrati dalle bodycam della polizia, e che mostrano l’omicidio di George Floyd dal punto di vista degli agenti. In entrambi i video si sente Floyd chiedere aiuto e chiamare sua madre per diversi minuti; in un video, l’ex agente Thomas Lane si approccia a Floyd cercando di tirarlo fuori a forza dall’auto, puntandogli contro una pistola. Più tardi nel video, Floyd cade a terra mentre gli agenti lo guidano verso un’auto della squadra. “Smetti di cadere”, gli dice uno degli agenti. Non appena Floyd cade sul marciapiede, il video mostra le mani guantate dell’ex ufficiale Derek Chauvin su di lui, e il suo ginocchio sul collo di Floyd. “Per favore, non riesco a respirare - dice a quel punto Floyd - Per favore, amico”. L’agente risponde: “Rilassati. Puoi respirare bene, stai parlando bene ora”. Ma Floyd insiste: “Non riesco a respirare”. Mentre la gente si raduna, il video della bodycam mostra Kueng prendere il polso di Floyd. Ora c’è un’indagine sulla diffusione dei filmati delle bodycam, in quanto finora il tribunale aveva permesso la visione dei filmati solo a persone autorizzate, anche se le descrizioni dei contenuti erano state divulgate. Il video della bodycam dell’agente Kueng non è stato pubblicato. Turchia. Quell’orrendo buco nero delle carceri dove la tortura è il Potere di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 5 agosto 2020 Il paese di Erdogan sempre più lontano dall’occidente, diritti civili e politici stuprati, in carcere anche gli adolescenti. Se devi dire delle carceri turche, uno non sa da dove cominciare, se dalle cose che accadono da decenni o se dalle inchieste più recenti. Che magari da dove cominci sempre lì finisci: a denunciarne gli aspetti drammatici. Puoi partire a esempio dalla malagiustizia: nella top five dei paesi per ricorsi riguardanti violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’Italia c’è ma siamo messi un filo meglio della Turchia (gli altri, nell’ordine sono: Ucraina, Russia, Ungheria, e appunto Turchia - ma ora la Romania ci ha scalzato). Se l’amministrazione della giustizia è “deformata”, le carceri si riempiono. E non sono cose di cui andar fieri. Oppure, puoi partire da un Rapporto di Amnesty del 2003: “Basta alla violenza sessuale nei confronti delle detenute”, un dossier in cui si denunciano le terribili condizioni delle donne detenute nelle carceri in Turchia.? Il Rapporto si basa su interviste a oltre cento detenute a Diyarbakir, Mus, Mardin, Batman e Midyat. “Le vittime degli abusi - si legge - sono soprattutto le donne curde e coloro che hanno idee politiche inaccettabili, dal punto di vista delle autorità o dell’esercito. Vengono spesso denudate, bendate e perquisite da agenti di sesso maschile durante gli interrogatori che si svolgono nelle stazioni di polizia o in prigione. Sono inoltre costrette a sottoporsi a test della verginità, allo scopo di punirle e umiliarle”. Oppure, puoi partire dalle inchieste pubblicate nel 2018 dal centro di giornalismo investigativo tedesco “Correctiv”, che parla dei cosiddetti “Black Sites Turckey”, le “Guantanamo” di Erdogan dove vengono rinchiusi e torturati presunti terroristi e cospiratori. In particolare, a finire nella ragnatela dei servizi turchi sarebbero soprattutto i seguaci di Fethullah Gulen, il magnate predicatore islamico inizialmente vicino a Erdogan ma adesso in esilio negli Usa e che sarebbe l’organizzatore del tentato golpe del luglio 2016. L’inchiesta sui Black Sites della Turchia, i “buchi neri” dove scompaiono le persone, è stata portata avanti sentendo testimoni, sopravvissuti, gente rilasciata ma subito dopo costretta a lasciare la Turchia, da nove testate internazionali, coordinate da “Correctiv”, tra cui “Le Monde”, “El País”, “Haaretz”, “Il Fatto Quotidiano”. Il governo turco non ha mai risposto alle domande dei cronisti. L’unica risposta del presidente turco Erdogan è stata: “Ci dicono che usiamo torture, ma in realtà l’unica tolleranza zero che abbiamo è proprio contro le torture”. Oppure, puoi ricordare quello che diceva Dino Frisullo nel 1999, pochi anni prima di morire, dopo essere stato, l’anno prima, il primo e unico prigioniero politico europeo nelle carceri turche. Era stato arrestato dalla polizia turca a Diyarbakir il 21 marzo 1998. “Ero andato lì - raccontava a “Caffè Europa” - con una delegazione di cento osservatori europei per seguire una manifestazione in occasione del Newroz, il capodanno curdo. C’erano 70mila persone. Sembrava tranquillo. Poi però la situazione è precipitata. Centinaia di feriti, una donna e un bambino finiti sotto i cingoli dei carri armati e ridotti in coma. Dino Frisullo venne arrestato. “Su di me lo stato turco decise di costruire il processo esemplare”, diceva. Durò quaranta giorni, la sua incarcerazione. Un ricordo che rimase indelebile. “C’erano ovunque per il carcere le tracce degli strumenti di tortura. Ho visto gli anelli di metallo sospesi a due metri e mezzo da terra a cui venivano appesi i prigionieri, le vasche in cui venivano immersi in acqua gelida, o nell’orina e gli escrementi, i fili elettrici. La cella di fronte alla mia è stata per decenni uno dei principali luoghi di tortura. Era divisa in veri e propri loculi. Ciascuno aveva un finestrino che dava sul corridoio: da lì i prigionieri ogni giorno dovevano esporre le mani e i piedi per la bastonatura”. Oppure, puoi riportare la relazione della delegazione italiana, guidata da Alessandro Margara, magistrato, già Presidente del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e Giudice di sorveglianza del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che si recò a Istanbul dal 5 all’8 gennaio 2001, invitata dall’Associazione Turca per i Diritti Umani, visitando e incontrando associazioni dei familiari dei detenuti, avvocati, esponenti della società civile impegnati a vario titolo per il rispetto dei diritti umani. “Soltanto nello scorso anno sono state oltre cento le istanze accolte dalla Corte Europea per indagare su casi individuali di maltrattamenti e torture perpetrate su detenuti per ragioni politiche. A questo si aggiunge il conflitto tuttora in atto con la popolazione Kurda che sovente sfocia anche in sconfinamenti militari in territorio irakeno, nonostante la sospensione decretata dal PKK della lotta armata. Permangono poi: lo stato di emergenza determinato dalle leggi antiterrorismo del 1991, i continui attacchi alla libertà di stampa e di associazione, l’esistenza di tribunali speciali, la lunghezza della carcerazione preventiva, l’erogazione di condanne alla pena capitale. La popolazione carceraria in Turchia ammontava fino a poco tempo fa a circa 75.000 detenuti, 13.000 dei quali accusati genericamente di terrorismo o comunque di reati associativi connessi alla propria militanza politica. L’ 80% di questi è accusata di far parte dei movimenti indipendentisti kurdi. A seguito di un recente provvedimento di amnistia condizionale da cui erano esclusi gran parte dei detenuti politici, la popolazione carceraria si riduceva del 50% circa. Tre anni fa, in seguito alle pressioni esercitate da organismi internazionali, il governo turco dava il via a un piano di rimodernamento dell’edilizia carceraria: alle carceri di massima sicurezza di tipo ‘ È, sovraffollati ma che consentivano ai detenuti di condividere spazi comuni si volevano sostituire le carceri di tipo ‘ F’, più piccole, in grado di ospitare circa 400 persone in celle singole o per 3 persone. Contro il trasferimento nei nuovi penitenziari iniziava il 20 ottobre uno sciopero della fame dei detenuti che rapidamente si estendeva a 41 carceri. Nel tentativo di mediare e di sbloccare la situazione nasceva una trattativa fra il governo e i detenuti che vedeva protagonisti intellettuali, uomini di legge, soggetti della società civile turca. Il 19 dicembre, poche ore prima di un incontro fra i mediatori, latori di proposte del governo, e delegazioni dei detenuti, l’esercito irrompeva nelle carceri in sciopero con un’operazione beffardamente chiamata “Ritorno alla vita” che si concludeva con un tragico bilancio: 31 le morti accertate fra i detenuti, due fra i militari, 720 i feriti, alcuni dei quali molto gravi”. Poi, c’è il dramma dei detenuti- bambini in Turchia, di cui parla un report di “Osservatorio Iraq” del 2010: “Sono diverse centinaia i bambini e gli adolescenti arrestati, processati e condannati negli ultimi quattro anni in Turchia, in virtù degli emendamenti alla “Legge anti- terrorismo” (Tmy) approvati dal parlamento di Ankara nel 2006. La contestata norma ha esteso anche ai minori di 18 anni la possibilità di essere puniti per la semplice partecipazione a manifestazioni di protesta, per aver cantato slogan in lingua kurda o per il lancio di pietre contro le forze di polizia, assimilandoli di fatto a “membri di un’organizzazione terroristica”. Per lo più a fare le spese delle legge sono stati ragazzi kurdi, di età compresa tra i 15 e i 18 anni, ma spesso di soli 12 anni, che hanno subito condanne anche a diversi anni di detenzione. Per loro il trattamento è in tutto e per tutto assimilabile a quello destinato agli adulti: periodi di detenzione “cautelare” che possono arrivare fino a un anno; processi “farsa” celebrati davanti ai Tribunali penali speciali (invece che ai Tribunali minorili); reclusione in cella assieme agli adulti; violenze fisiche e psicologiche, maltrattamenti e, in alcuni casi, vere e proprie torture. Sotto la pressione della società civile turca e internazionale, nell’estate scorsa il governo di Ankara guidato dai filo- islamici del Partito di giustizia e sviluppo (Akp) ha deciso di emendare la legge, mitigandone alcuni aspetti. Tutt’oggi, tuttavia, i minorenni incriminati in base alle vecchie norme e rimessi in libertà ammontano a poche decine. A limitare le scarcerazioni, sono alcune contestate norme del Codice penale turco (Tck) rimaste in vigore anche dopo la riforma della Tmy, ma anche la discrezionalità che abitualmente viene lasciata alla magistratura e la lentezza del sistema giudiziario turco. Le condanne - secondo l’organizzazione “Çocuk için adalet çagiricilari” (Coloro che chiedono giustizia per i bambini) - sono state in media di 4 o 5 anni di carcere, mentre l’età dei condannati in alcuni casi era di soli 13 anni. Non essendovi ad Adana Tribunali minorili, tutti i condannati erano stati processati davanti alle Corti penali speciali. A Diyarbakir invece - stando a un rapporto dell’ong “Çocuk Için Adalet Girisimi” (Justice for Children Initiative) - nell’ottobre 2009 erano 159 i ragazzi di età compresa tra 15 e 17 anni in attesa di essere processati davanti ai Tribunali penali speciali, mentre altri 15, di età compresa tra i 12 e i 14 anni, aspettavano di essere giudicati dalle Corti penali minorili. Un rapporto sul carcere di Diyarbakir, redatto dall’Associazione degli avvocati della stessa città, rilevava che nel cibo dato ai ragazzi erano stati trovati chiodi, aghi e insetti; che venivano garantiti solo dieci minuti di acqua calda al giorno e che i ragazzi dovevano lavarsi i vestiti a mano, e le loro celle erano piene di insetti e topi. Ad Adana sono state riscontrate anche prove di torture usate contro I bambini”. Poi uno dice, non è che puoi sempre parlare del passato, come se dovessi raccontare la trama di Fuga di mezzanotte, il film di Alan Parker del 1978, tratto da una storia vera, in cui si racconta il viaggio all’inferno di Billy Hayes, uno studente americano in vacanza in Turchia con la propria fidanzata che viene fermato da guardie turche all’aeroporto di Istanbul, ottobre 1970, mentre sta per imbarcarsi verso gli Stati uniti con addosso due chili di hashish. E qui comincia l’incubo, una condanna prima a quattro anni e poi all’ergastolo - tra pestaggi, torture, violenze, abusi - fino all’evasione di notte, il Midnight Express, come veniva chiamato nel gergo carcerario, che lo porterà prima in Grecia e poi finalmente a casa. Così, decidi di dire dell’attualità. Allora ti guardi l’ultimo rapporto Amnesty (2019- 20): “Sono emerse nuove accuse attendibili di tortura e altri maltrattamenti. A Urfa, nella Turchia orientale, uomini e donne, arrestati a maggio in seguito a uno scontro armato tra le forze di sicurezza e l’ala armata del Pkk, hanno denunciato, tramite i loro avvocati, di essere stati torturati anche con scosse elettriche ai genitali. Gli avvocati hanno denunciato che alcuni ex funzionari del ministero degli Affari esteri, arrestati a maggio dalla direzione della pubblica sicurezza di Ankara, con l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica, aggravata da falso e contraffazione a scopi terroristici”, erano stati denudati e minacciati di essere stuprati con i manganelli. In entrambi i casi gli avvocati hanno denunciato che i loro assistiti non avevano avuto accesso a un consulto privato con un medico”. A aprile di quest’anno Erdogan vara un’amnistia per ridurre l’affollamento delle carceri (sono 300mila i detenuti in Turchia, su una popolazione totale di 80 milioni, in 375 carceri, la cui capienza massima non supera le 120mila unità) temendo l’esplosione di un’epidemia. “L’idea è un rilascio temporaneo, fino a quando l’epidemia sarà più o meno domata, di 90mila detenuti: prigionieri in carceri di minima sicurezza, sopra i 65 anni, malati, donne incinte o con figli con meno di sei anni. Chi resta fuori? I condannati per stupro, omicidio di primo grado, droga e - soprattutto - terrorismo. Una categoria che in Turchia ha le maglie larghe. Sono giornalisti, deputati del partito di sinistra pro- curdo Hdp, attivisti, scrittori, avvocati”. (da “il manifesto”, Chiara Cruciati). Già, gli avvocati. Dai dati emerge che tra i malcapitati coinvolti nella più vasta repressione attuata del Paese, arrestati con accuse di terrorismo, 605 sono avvocati, di cui 345 condannati arbitrariamente per un totale di 2145 anni di prigione. Oltre 1500 gli indagati. “Anni di carcerazione preventiva subita senza avere delle accuse precise da cui difendersi, condanne pesantissime inflitte al termine di processi sommari, svolti al di fuori di ogni regola dello stato di diritto”, denuncia il coordinamento delle Commissioni Diritti umani e Rapporti Internazionali del Consiglio Nazionale Forense italiano. Erdogan in persona avrebbe sollecitato il disegno di legge che prevede l’istituzione di Ordini alternativi a quelli esistenti contro il quale si sono animate proteste dei togati in tutto il paese. Il testo, presentato in Parlamento lo scorso 30 giugno, prevede che il governo assuma il controllo dell’elezione degli organi dirigenti dei vari organismi professionali. “In questo modo Erdogan - sostiene Mehmet Durakoglu, presidente dell’Ordine forense di Istanbul - vuole punire la nostra categoria che ha sempre rappresentato i valori laici della democrazia”. Sembra non cambi niente. In un reportage di Nicolas Cheviron, su “Internazionale” del novembre 2016, si leggeva: “Negli ultimi dieci anni sono state chiuse 187 carceri e sono state inaugurate altre 118 strutture più grandi nelle periferie delle grandi città. Questi trasferimenti hanno permesso di ospitare più detenuti, passando dai 114mila del 2010 ai 189mila dell’ottobre del 2016, come rivelano i dati dell’istituto di statistica turco e della direzione delle prigioni turche (Cte). Dice Burcu Çelik Özkan, una deputata del Partito democratico del popolo (Hdp, filocurdo): “Chiaramente per le autorità turche il carcere è un modo per gestire i problemi politici e sociali”. E Mustafa Eren, del Centro di ricerca sulle prigioni turche: “In Turchia c’è stata una pianificazione. Non si costruiscono nuove prigioni per rispondere a un aumento del numero di detenuti, ma il contrario”. In dieci anni la Turchia è diventata il primo paese per numero di carcerati in Europa (Russia esclusa), staccando Inghilterra e Galles (85mila detenuti) e Polonia (71mila). La Germania, che ha una popolazione di 80 milioni di abitanti, pochi milioni in più della Turchia, nel 2015 contava appena 62mila detenuti. Su scala mondiale il paese guidato da Erdog? an si trova al nono posto, superato solo da paesi più popolosi (Stati Uniti, Cina, Russia, Brasile, India, Messico, Iran) e dalla Thailandia”. Così è. Colombia. L’Onu spiega la linea del silenzio sulla morte di Mario Paciolla di Simone Scaffidi Il Manifesto, 5 agosto 2020 Prima nota ufficiale dopo le accuse della famiglia del volontario assassinato. Via l’immunità ai membri della Missione di verifica per agevolare le indagini. In una nota pubblicata sul sito ufficiale delle Nazioni unite, Farhan Haq, portavoce del segretario generale António Guterres, informa che l’Onu sta “cooperando pienamente con le autorità colombiane incaricate di determinare le cause della morte” di Mario Paciolla affinché “le circostanze vengano pienamente chiarite”. Tra le misure adottate per agevolare le indagini il portavoce ha indicato la revoca dell’immunitá ai funzionari della Missione di verifica in Colombia - che possono dunque da oggi essere sentiti sul caso del volontario italiano - e la disponibilitá nel fornire informazioni e rendere disponibili all’esame delle autoritá competenti gli effetti personali e le attrezzature di lavoro del loro collaboratore. Le Nazioni unite rompono così il silenzio all’indomani delle dichiarazioni della famiglia Paciolla-Motta riportate dall’edizione napoletana de La Repubblica (“l’Onu in realtà non mostra di essere minimamente collaborativa. Dall’inizio di questa tragica vicenda, dalla prima telefonata non è emerso alcun sentimento di vicinanza, umanitá, dolore, nei confronti di genitori che aspettavano un figlio da riabbracciare”). Il portavoce sottolinea inoltre la “stretta comunicazione con il governo italiano”, che durante la commemorazione di Paciolla, attraverso le dichiarazioni del presidente della Camera Roberto Fico e il ministro degli Esteri Luigi di Maio, si è impegnato nella ricerca della veritá e della giustizia. E assicura “piena cooperazione con le autoritá italiane”. La nota si chiude ribadendo la la volontá di non “commentare i dettagli del caso o speculare sull’esito dell’inchiesta, poiché sarebbe inappropriato farlo”. Con queste parole viene riconfermata la linea del silenzio e della “discrezione” adottata fin qui dall’Onu. Mario Paciolla, 33 anni, era stato trovato senza vita lo scorso il 15 luglio a San Vicente del Caguán, in Colombia, dove lavorara dal 2018. Pallottola vagante uccide una dodicenne, la Svezia insorge contro la guerra tra gang rivali di Andrea Tarquini La Repubblica, 5 agosto 2020 Bande criminali si combattono in città affrontandosi con kalashnikov, bazooka o granate. Già venti morti nel primo semestre. Il governo promette il dispiegamento di più poliziotti. Ma la popolazione chiede “più fatti per rendere il Paese di nuovo sicuro”. L’ultima vittima innocente è una ragazza di 12 anni, uccisa sabato sera scorso da una pallottola vagante sparata da un killer e destinata a un criminale di una banda rivale. È avvenuto alla periferia della capitale, e la gente ne ha abbastanza. Nelle grandi città svedesi - soprattutto Stoccolma, Malmö e Göteborg - infuria da anni ormai ogni sera la guerra tra gang rivali. Bande criminali svedesi o straniere si combattono in città affrontandosi in battaglie con armi da guerra, cioè kalashnikov, bazooka o granate, e la polizia pur avendo ricevuto nuovi poteri è semplicemente impreparata e priva delle armi necessarie a fermare il sanguinoso conflitto urbano. Risultato, molte zone di città svedesi, tradizionalmente frequentate da giovani e famiglie, sono divenute pericolosissime. Come il parcheggio dove la giovane è caduta assassinata per errore, ora pieno di fiori e candeline deposti dai suoi compagni di scuola e da semplici cittadini. “Sono sotto shock e senza parole, posso solo essere vicino nel dolore ai familiari della povera giovane”, ha dichiarato il ministro dell’Interno del governo a guida socialdemocratica, Mikael Damberg. “Prometto ai cittadini che rafforzeremo la polizia e puniremo i criminali con pene più severe”, ha aggiunto il titolare del dicastero della Giustizia, Morgan Johansson. Ma alla gente le parole non bastano. “Ci vogliono fatti per rendere di nuovo la Svezia sicura”, chiedono le opposizioni, in particolare il forte partito sovranista SverigeDemokraterna (democratici di Svezia) guidato dal giovane Jimmie Akesson. E dopo il flop nella strategia anti-Covid col rifiuto di lockdown e oltre 5700 morti, e dopo anni di crisi dell’ordine pubblico a causa dell’enorme numero di migranti che rifiutano di integrarsi, il dramma della giovane assassinata è un nuovo colpo mortale all’efficienza e all’immagine del sistema-Paese Svezia, la società solidale inclusiva e competitiva creata decenni orsono dai padri della socialdemocrazia Tage Erlander e Olof Palme. Ancora non sono stati effettuati arresti di sospetti assassini, nota la radio pubblica. L’assassinio della minorenne, di cui non vengono pubblicate le generalità per rispetto alla sfera privata, è avvenuto in un parcheggio di Botkyrka, meno di 20 chilometri dal centro di Stoccolma. La giovane era lì forse per comprare qualcosa alla stazione di servizio, o forse per vedere i suoi amici al McDonald o al PizzaHut vicini. “Era piena di vita, non la dimenticheremo”, dicono alla tv svedese i suoi coetanei. Da un’auto poi partita a tutta velocità qualcuno ha sparato. Secondo le indagini la vittima predestinata era un gangster di un gruppo rivale, ma la pallottola ha colpito a morte la ragazza. La guerra tra gang rivali con armi pesanti ha già causato venti morti nel primo semestre dell’anno in corso. La polizia ha registrato ben 163 sparatorie. L’anno scorso i morti erano stati 42, causati da ben 334 battaglie con armi da guerra in diversi centri urbani. Le gang continuano ad agire, appaiono potenti e invincibili, e la gente comune ha paura. Inevitabilmente la guerra urbana tra bande accende anche timori e diffidenze verso i numerosi migranti. Dalla decisione tedesca di aprire le frontiere ai flussi migratori (2015), nessun Paese dell’Unione europea ha visto arrivare tanti migranti per abitante come il prospero regno nordico. Molti sono maschi soli, adulti o minorenni, facile massa di reclutamento della malavita secondo i rapporti di polizia e Säpo, il servizio segreto.