Al reparto speciale Gom la gestione totale del 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2020 Il 30 luglio ministro Bonafede ha firmato il Decreto di riorganizzazione del Gruppo. Autonomia amministrativa e contabile, obbligo di relazionare solo una volta l’anno (prima era ogni 3 mesi) al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Con il decreto del 30 luglio firmato dal ministro Bonafede, il Gruppo Operativo Mobile (Gom) della Polizia penitenziaria diventa sempre di più un corpo del tutto autonomo, dove può compiere una vera e propria gestione totale dei 41bis. L’articolo 11 del decreto è dedicato alla gestione amministrativa e contabile. Non è un piccolo dettaglio. Se prima la gestione delle finanze passava attraverso il capo del Dap, da ora in poi è tutto in mano al direttore del Gom. In coerenza con la programmazione della spesa e nei limiti delle risorse di bilancio, il capo del Gom - come recita il decreto - è ora “delegato alle spese di gestione, esercizio e manutenzione degli automezzi e del relativo equipaggiamento, nonché delle dotazioni strumentali, tecniche e logistiche; alle spese accessorie per il personale e per ogni altra necessità tecnico-operativa”. In soldoni, il direttore del Gom, oltre a gestire le finanze con tutto ciò che ne deriva, può spostare uomini e mezzi in autonomia. Un potere, come detto, che prima non aveva. L’articolo 4, invece, è dedicato alla nomina e funzioni del direttore del Gom. C’è il passaggio che recita testuali parole: “Il Direttore fornisce pareri ed elabora proposte al Capo del Dipartimento e alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento. Trasmette al Capo del Dipartimento una relazione annuale sulle attività gestionali e operative svolte”. Prima aveva l’obbligo di relazionare ogni tre mesi, da oggi in poi solo una volta l’anno. Un dettaglio che non è sfuggito a Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, il quale aveva invece proposto che le relazioni fossero almeno semestrali. Non è una questione peregrina. Il rischio che il Gom diventi totalmente distaccato dal Dap si fa sempre più concreto. I vertici del Dap dovrebbero essere aggiornati frequentemente rispetto all’attività di questo “reparto specializzato”. Perché? I Gom dovrebbero mantenere una costante visione di insieme anche rispetto alle strategie e i percorsi. Come potrebbe avvenire, se questa struttura autonoma dovrà relazionarsi annualmente? Durante il resto dell’anno a chi risponde? Durante il periodo dell’amministrazione guidata dall’allora capo del Dap Santi Consolo, c’è stato il tentativo di riformare il ruolo dei Gom, il corpo d’élite della polizia penitenziaria, che ad agosto del 2017 ha avuto un ampliamento ulteriore delle sue funzioni come la sorveglianza dei detenuti accusati di terrorismo islamico. Il Gom, ricordiamo, fu istituito nel 1997 con un provvedimento firmato dall’allora capo del Dap, Michele Coiro, ma soltanto due anni dopo con il Decreto ministeriale del 19 febbraio 1999, firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto - ebbe il suo definitivo riconoscimento. Il Gom nasce per provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis, il carcere duro. Tale norma legislativa venne introdotta nel 1992, nel “super decreto antimafia”. Ufficialmente lo scopo del 41bis sarebbe quello di recidere ogni possibile contatto del detenuto con l’esterno, e quindi, con l’organizzazione criminale di riferimento. Proprio per far sì che ciò avvenisse, venne creato il Gruppo operativo mobile. Il Gom raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp” (Coordinamento delle attività operative di Polizia penitenziaria), istituito nei primi anni 90 soprattutto per consentire la sicura esecuzione dei processi, e del “Battaglione Mobile” dell’allora corpo degli Agenti di custodia, che operò a cavallo fra gli anni 70 e 80. Il Gom, nel passato, si è trovato al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il suo passaggio, come quello nella struttura di San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera (da presidente della commissione Giustizia della Camera, Giuliano Pisapia aveva denunciato senza mezzi termini gli “episodi di brutalità” avvenuti, parlando del passaggio di “un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa”), fino alla gestione della caserma Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001. Ora non è più così da anni, perché operano gente qualificata e professionale. Ma il rischio di un ritorno al passato è sempre in agguato, soprattutto se rischia di diventare un “corpo estraneo” al Dap e quindi relativamente fuori controllo. Droghe e carcere in Italia, prospettive e soluzioni per un ponte fra sanità e giustizia di Katya Maugeri e Sandro Libianchi* sicilianetwork.info, 4 agosto 2020 La persona che fa uso stupefacenti è portata normalmente nella sua storia a commettere reati, proprio perché deve procacciarsi a tutti i costi il denaro per acquistare la sostanza. E finirà per spacciare per lo stesso motivo. Un quadro che delinea l’anticamera di un percorso giudiziario che diventerà, inevitabilmente, penitenziario in tempi successivi. Il 70-80% delle persone che consumano stupefacenti avrà nel corso della propria una vita almeno un episodio giudiziario al quale molto spesso ne conseguirà un altro di tipo penitenziario. Un percorso simile - seppure con motivazioni differenti - avviene con le persone con disagio mentale, specie nel caso che questo si accompagni a un consumo di droghe e in queste situazioni è massima la possibilità di recidiva di reati. Alcuni dati, seppur parziali, della Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia riportano informazioni utili ad alcune considerazioni. Nella Relazione che si riferisce al 2018 (e pubblicata nel 2019) ben il 27,9 dei detenuti risulta essere tossicodipendente. Se poi si valuta l’intero capitolo dei disturbi psichici tra le persone detenute, questi raggiungono (tossicodipendenza inclusa) la percentuale del 41,3 % rappresentando la parte più rilevante delle patologie che si riscontrano in carcere (progetto Ccm 2012 - https://www.ars.toscana.it/collana-documenti-ars/pubblicazioni-2015/2977-la-salute-dei-detenuti-initalia-i-risultati-di-uno-studio-multicentrico-2015.html). Nel caso delle persone tossicodipendenti o con una storia di consumi di sostanze stupefacenti, le ripetute carcerazioni rappresentano bene anche la difficoltà della c.d. ‘ritenzione in trattamento’ da parte dei servizi specialistici territoriali delle Asl (Ser.D.) che, nonostante la loro grande professionalità a fronte dei poveri mezzi a loro disposizione, spesso non riescono ad essere sufficientemente ‘attrattivi’ su queste persone che non interrompono i loro comportamenti additivi, anche in concomitanza delle terapie erogate. Quindi ad una prima difficoltà da parte del sistema sanitario di intercettare (intake) queste persone ed avviarle verso percorsi di riabilitazione, si aggiunge la criticità della commissione di reati che li porta giocoforza ad interrompere i trattamenti in corso ed iniziare una carcerazione con possibilità terapeutiche diverse ed in genere meno efficaci di quelle condotte in libertà. Il contesto carcerario di certo non facilita percorsi virtuosi di riabilitazione. A livello di effetto globale delle azioni di contrasto al consumo di sostanze stupefacenti che sono messe in gioco da parte della società e possono interferire con la riabilitazione del tossicodipendente, rientrano senz’altro fattori diversi: quanto e come funzionano le forze di Polizia; quanto e come funzionano i tribunali penali; e soprattutto quanto e come i Tribunali di Sorveglianza riescono a irrogare misure alternative alla carcerazione e autorizzare il ricovero nelle comunità terapeutiche. Anche il come e quanto funzionano i servizi sanitari del territorio risulta essere un determinante di esito in queste persone ed i fattori che incidono sul fenomeno della recidiva sono la somma di questi fattori. Proprio per questi motivi l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già molti anni addietro, definì la tossicodipendenza come una “malattia cronica di tipo recidivante che comporta numerose complicanze di tipo diverso, quali infettivologiche, psichiatriche, ecc.”. Questa definizione, a tutt’oggi ben accetta dalla comunità scientifica seppure con qualche distinguo, evidenzia come ci sia una stretta connessione tra la malattia tossicomanica e aspetti psichiatrici e come, d’altra parte, nei consumatori di sostanze stupefacenti specialmente per via venosa, sia molto frequente il riscontro dell’infezione da epatite C o dell’HIV. Lo scenario che cambia, la dipendenza resta - Un’altra osservazione che può essere condotta sulle persone che sono in carcere e risultano essere consumatori di sostanze stupefacenti è il cambiamento delle fasce di età coinvolte. Negli anni 70 eravamo in presenza di soggetti per lo più giovani della terza decade che iniettavano eroina; oggi lo spettro di età si è allargato e sono coinvolte più fasce, da quelle giovanili (seconda e terza decade) fino a quelle della maturità (4°, 5° e 6° decade) con sporadiche presenze anche della 7° decade proprio a causa della tipica ‘cronicità’ della tossicodipendenza che non permette in molti casi di uscirne. A testimonianza della estrema variabilità ed evoluzione della problematica tossicomanica è il continuo riscontro dei nuovi consumi e nuove droghe; dai sequestri che sono fatti sul territorio europeo e italiano si può vedere come ci si trovi di fronte a sintesi di centinaia di sostanze (soprattutto nel settore degli stimolanti tipo anfetaminici). Da qualche anno poi è comparso prepotentemente sullo scenario metropolitano il consumo di crack, sconosciuto fino a pochi anni fa in Italia, ma molto diffuso in tutti gli Stati Uniti d’America sin dagli anni 90. Questa è una delle sostanze (cocaina modificata) oggi in circolazione più potenti e dannose per il rapido e rilevante danno che crea sulle strutture cerebrali della persona che ne fa uso. Accanto a queste considerazioni è necessario mettere in conto le differenze di genere che pongono importanti interrogativi sulle forme più opportune di intervento terapeutico. È noto infatti che nel genere femminile l’uso di sostanze stupefacenti più frequentemente si accompagna (o determina) forme di patologia psichiatrica, anche gravi. Di conseguenza l’intervento terapeutico dovrà essere maggiormente calibrato sulle specifiche problematiche della donna. Ugualmente, anche nell’ambito della devianza, si assiste ad una percentuale di donne che delinquono nettamente diversa ed inferiore a quella degli uomini (4,19% al 30 giugno 2020). Inoltre è necessario porre anche un particolare accento alla devianza minorile dove, pur riscontrandosi anamnesticamente una frequente realtà di policonsumi specialmente di alcolici associati a sostanze stupefacenti, nell’ambito della giustizia minorile risulta ancora scarso il potenziale diagnostico dei sistemi di rilevazione e uptake. Infatti, raramente vengono poste in maniera circostanziata vere e proprie diagnosi di consumo di sostanze ed i termini utilizzati per indicare questa popolazione raramente sono quelli di tossicodipendente o alcoldipendente, bensì’ quello di assuntore. Questa assunzione è rilevata nella massima parte come dato anamnestico e quindi non dimostrata da specifici esami diagnostici (urine, saliva, sangue). Questi dati illustrano in maniera esaustiva il perché dell’importanza e la difficoltà di una successiva terapia personalizzata quale obiettivo primario degli interventi intra e post-carcerari e chiarisce anche la motivazione della frequente recidiva di questi soggetti. La recidiva tossicomanica, quale esito di interventi frammentati, interrotti o cambiati del tutto nel corso delle diverse prese in carico sanitarie nei vari istituti di pena, determina una recidiva anche giudiziaria e penitenziaria in un circuito che di frequente innesca un meccanismo denominato ‘delle porte girevoli’ per il quale un soggetto entra e esce di continuo da un carcere all’altro. Oltre a ciò spesso si assiste, nel tempo, ad un aggravarsi della tipologia di reato, sicché dal semplice furto si passa alle rapine con reati, oltre che contro il patrimonio, diretti anche contro le persone e con l’uso di armi. La valutazione giudiziaria di questi reati, spesso aggravati dallo spaccio di sostanze stupefacenti, conduce a pene assai rilevanti. A tale proposito, in questi ultimi anni si assiste ad un rapido e regolare incremento del reato di spaccio: le grandi organizzazioni hanno ramificato le attività di marketing favorendo la vendita e questo meccanismo si somma a quello degli altri reati. Settore giustizia e sanità - Nell’ambito delle patologie da dipendenza il settore della giustizia e il settore della sanità percorrono binari paralleli ma diversi. Infatti nel testo unico sugli stupefacenti (Dpr 309/90) si assiste a uno scollamento tra le esigenze terapeutiche e il residuo della pena da scontare in concreto. La norma prevede, infatti, che una persona detenuta possa accedere alle misure alternative e finire di scontare il periodo di condanna in una comunità terapeutica dopo la presentazione di una dettagliata documentazione. Purtroppo però si constata che alla scadenza del corrispondente periodo da scontare come carcerazione alternativa, gli affidati - che necessitano inevitabilmente di un periodo più lungo di recupero in tali strutture - interrompano il loro ricovero da queste comunità o da un servizio pubblico per le dipendenze, come se il periodo di pena e quello di terapia coincidessero quando in realtà sono diversi. Questa percezione di coincidenza rafforzerebbe negli utenti anche un senso di ‘prolungamento della pena’ e ciò finisce per confondere i due livelli, quello di cura e quello di pena, decrementando fortemente il senso dell’intervento terapeutico e della presa di coscienza del problema tossicomanico personale. Nella comune esperienza dei sanitari che lavorano in carcere spesso si è potuto constatare come soprattutto la prima carcerazione di una persona tossicodipendente potesse rappresentare un’occasione unica e, sperando, irripetibile per un contatto con la realtà, interrompendo l’assunzione di stupefacenti ed avviando un percorso di cura. In questi casi, anche se estremi, il carcere si pone come reale ed immediato luogo di avvio di cura e, se si intensificassero gli sforzi, questo potrebbe diventare una reale anticamera di recupero, creando e rafforzando una motivazione al cambiamento sino ad allora insufficiente o assente assieme ad una assistenza medica professionale che riesca ad agganciare terapeuticamente l’individuo. Oggi purtroppo la debolezza dei servizi sanitari in carcere aumenta la possibilità che ci sia una mancata o scarsa presa in carico con conseguente rischio di fallimento e di ritrovare le stesse persone dopo anni che entrano ed escono dal carcere. Oltre ciò si pensi anche agli stranieri che in carcere hanno frequentemente la loro prima visita medica della propria vita. L’importanza della presa in carico e di una adeguata terapia non dovrebbe permettere ricadute o quanto meno ne dovrebbe ridurre l’incidenza. A tale proposito bisogna ricordare che la maggiore incidenza di overdose fatali da sostanze stupefacenti si ha proprio all’uscita dalle situazioni protette quali il carcere o le comunità terapeutiche, a testimonianza che la dipendenza è e resta un fattore intrinsecamente cerebrale e che troppo spesso l’uscita da queste strutture rappresenta la libertà di poter consumare nuovamente ed in totale libertà. Ciò testimonia che in questi casi sia la presa in carico che il successivo trattamento sono stati inefficaci. Inoltre, dopo un periodo di astinenza o di forte diminuzione del consumo come si ha in queste occasioni, l’organismo riduce la propria capacità di sopportare dosi di stupefacenti, elevando la sua sensibilità agli effetti di queste; le stesse quantità che si usavano in precedenza diventano pertanto eccessive e si può instaurare overdose. La droga in carcere - Non “circola a vagoni”, come spesso si dice, ma è abbastanza presente e con prezzi elevatissimi, rappresentando una fonte di introito non indifferente per chi fa questi commerci. Ci si chiede come sia possibile che entri in carcere sostanza stupefacente? Chi riesce a fare questi traffici? Qui purtroppo la risposta è molto semplice, perché gli unici che possono creare questi commerci sono proprio le persone che entrano ed escono dalla struttura penitenziaria in virtù della loro professione o della loro parentela. Quindi, la droga in carcere esiste e si consuma. Le stesse considerazioni seppur con qualche distinguo possono essere fatte anche per i superalcolici che però avendo volumetrie maggiori sono più difficili da trasportare. Le misure alternative - Le misure alternative per le persone alcol-tossicodipendenti sono di una fondamentale importanza alla condizione che siano applicate in maniera utile alle loro specifiche finalità. In particolare devono poter essere applicate il più precocemente possibile; il programma terapeutico deve essere personalizzato (no ai programmi fotocopia) e multimodale prevedendo anche modalità terapeutiche diverse. Un programma terapeutico dovrebbe essere evolutivo e tenere conto di un graduale reinserimento nella comunità di appartenenza ed evolvere di pari passo con i progressi della persona. Inoltre sarebbe molto utile se in essi fosse contenuta una parte relativa ad attività lavorative. Infine non bisogna dare per scontato che la fine della carcerazione alternativa debba necessariamente coincidere con la fine del programma. Nel “patto terapeutico” che si dovrebbe instaurare con il paziente tutte queste osservazioni ed esigenze andrebbero espressamente menzionate e concordate. *Presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.), dirigente medico presso il Complesso Polipenitenziario di Rebibbia Il diritto alla salute negli istituti penitenziari ai tempi del Covid-19 di Serena Mazza salvisjuribus.it, 4 agosto 2020 Il diritto alla salute, è un tema di grande attualità, accentuato maggiormente in questo particolare periodo di pandemia, è fondamentale, garantire la salute del detenuto, dall’ex boss al 41bis, al cosiddetto “detenuto ignoto”, ciò è un atto che ha un’ efficacia antimafia immediatamente misurabile, perché un carcere che non è democratico, rischierebbe di diventare, un carcere dove comandano le mafie, dove non essere picchiato, abusato, ricevere pacchi, avere una cella più decente diventano concessioni dei boss. Quando i diritti iniziano ad essere ignorati nelle carceri, pensiamo che a pagarne le conseguenze in fondo siano categorie umane che non meritano nessuna cura. Ragionando così, vincono le persone oneste? Tutt’altro! sono proprio “le persone disoneste”, a vincere che in questo modo ribadiscono che solo con il potere dell’intimidazione, della corruzione ci si impone, ci si difende e ci si fa largo. Tutti i detenuti vanno curati, non perché siamo caritatevoli, anzi al contrario perché il diritto garantito ai detenuti ci salva dalla discrezionalità del potere in ogni altro ambito, dall’essere salvati o dannati a seconda dell’etnia, della classe sociale, dell’appartenenza politica. Il diritto ci garantisce la libertà e la dignità, ciò significa che rispettare la salute dei detenuti comporta una maggiore garanzia per i nostri stessi diritti. Difatti, in seguito all’entrata in vigore del Dpcm del 9.03.2020, pubblicato sulla G.U. n. 62 del 9.3.2020, sono state introdotte ulteriori misure urgenti al fine di controllare la diffusione dell’emergenza del Covid-19 (Corona Virus); poiché la situazione appare veramente grave, il rischio di contagio aumenta esponenzialmente in luoghi, come i penitenziari, dove il notorio sovraffollamento e le condizioni igienico sanitarie impediscono l’osservanza da parte dei reclusi delle norme comportamentali prescritte, ai fini della tutela della salute pubblica, in primis la distanza tra gli stessi; tale quadro allarmante pone in pericolo la salute dei detenuti e si aggrava giorno per giorno, nonostante gli sforzi dell’Amministrazione Penitenziaria che ha ridotto i contatti con l’esterno, per cercare di impedire, la diffusione del virus in un contesto chiuso, quindi estremamente rischioso, com’è l’istituto penitenziario, limitando i colloqui visivi con i familiari ed i terzi autorizzati: tuttavia, tali misure non eliminano assolutamente il rischio di epidemie all’interno del carcere, dati i c.d. “ nuovi ingressi”, nonché i quotidiani accessi del personale di Polizia Penitenziaria, medico ed infermieristico; il pericolo si acuisce particolarmente nel caso per esempio, di detenuti affetti da gravi patologie, con carenze immunitarie, dato anche lo stato igienico sanitario a dir poco precario degli Istituti penitenziari, inoltre, è notizia recente quella della diffusione del contagio all’interno di varie case Circondariali italiane, da Nord a Sud, isole comprese (si veda il caso di Voghera, Sassari e Lecce. Al fine di fronteggiare la pandemia è stato emanato il decreto c.d. “Cura Italia”, che prevede, la possibilità per la Magistratura di Sorveglianza di disporre la detenzione domiciliare per i detenuti con un residuo di pena sino a 18 mesi; il carcere, è un istituto di pena regolamentato dall’ordinamento penitenziario italiano, tutte le misure previste sono da ritenersi come un insieme di dettami finalizzati ad rieducare i soggetti con la prospettiva di una reintegrazione sociale, al fine di raggiungere tale obiettivo, lo Stato deve riconoscere ai detenuti il rispetto della loro dignità e dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni essere umano. Difatti all’art. 1 della Legge del 26 luglio 1975 n° 354, il legislatore dispone che: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. […] Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”; in correlazione all’articolo 27 comma 3 della Costituzione. Il diritto alla salute sancito dall’art. 32 Cost., va parimenti, assicurato ad ogni persona indipendentemente dalla condizione di libertà o detenzione, la salute nelle carceri è un tema che suscita discussioni, è fondamentale, garantire il diritto alla salute a chi è privato della libertà, nonostante gli studi in materia di assistenza sanitaria progrediscano, le problematiche negli istituti penitenziari sembrano essere irrisolte, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) afferma che :”Il concetto di salute subisce un forte ridimensionamento quando si inserisce nel contesto carcerario. Carcere e salute sono antitetici perché il carcere è la negazione della salute intesa come stato di benessere psicofisico”. Ai fini, di una corretta disamina, ebbene cercare di evidenziare, la tematica della sanità penitenziaria, localizzata nell’art. 11 della legge n. 354/1975, che prevede: un servizio medico e un servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; almeno uno specialista in psichiatria; il trasferimento in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura dei condannati e degli internati che necessitino di cure o accertamenti diagnostici non effettuabili in istituto; la collaborazione dell’amministrazione penitenziaria con i pubblici sanitari locali, ospedalieri ed extra ospedalieri, d’intesa con la Regione e secondo gli indirizzi del Ministero della Sanità, la tutela del diritto dei detenuti alla salute in maniera uguale a quella dei cittadini liberi è frutto di un percorso non ancora giunto a termine. Nello specifico del contesto carcerario è prevista, dal Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, la Carta dei Diritti e dei Doveri dei detenuti e degli internati che viene consegnata al detenuto durante il colloquio iniziale, affinché possa esercitare i suoi diritti nel miglior modo possibile e per rendere note le regole della vita carceraria. È chiaro che nonostante sulla carta il trattamento sanitario deve essere uguale a quello che appartiene ai cittadini liberi, ci sono molteplici problematiche che rallentano l’applicazione di tale diritto. Si parte proprio dall’ambiente, che è ovviamente un luogo deprimente e di alienazione fatto di spazi chiusi, angusti e carenti di luce, che generano una inevitabile difficoltà all’adattamento e un senso di insicurezza. Dunque, il contesto, spesso deprimente, e la scarsità di attività volte al miglioramento si riversa anche sulla salute psichica. Circa 9 milioni di persone sono detenute negli istituti penitenziari del mondo e almeno la metà di questi è affetto dal disturbo di personalità, e circa 1 milione di detenuti soffre di gravi psicosi, depressione e stress. Più specificatamente, circa il 4% dei detenuti soffre di psicosi, il 10% degli uomini incarcerati e il 12% delle donne detenute ha una depressione maggiore, e circa l’89% dei detenuti ha sintomi depressivi, mentre il 74% presenta segni somatici correlati allo stress. Ruolo fondamentale per aiutare i detenuti e per garantire standard adeguati di trattamento sanitario è quello dell’infermiere. La sua figura, infatti, non opera esclusivamente sul piano medico ma anche su quello umano. L’infermiere, infatti, è il primo a ricevere informazioni sullo stato di salute, accoglie il disagio e instaura una relazione umana con il detenuto - paziente. La nota sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 4°, n° 25576/2017, affronta il tema del diritto alla salute del detenuto, evidenziandone, in particolare, i fondamenti normativi. Orbene, in via del tutto preliminare risulta opportuno precisare in questa sede che la Legge n° 354 del 26 luglio 1975, definita Legge sull’Ordinamento Penitenziario (d’ora in poi O.P.), disciplina la figura del soggetto detenuto-condannato, all’esito della trattazione del processo penale a suo carico, definito con sentenza divenuta irrevocabile, evidenziando, pertanto, diritti, doveri e benefici del medesimo. L’art. 39 co. 2 O.P. sancisce espressamente l’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto, garantendo, di tal guisa, la propria tutela alla salute. In particolare, la norma de qua impone due dettami cautelari: la prima, che consiste nell’obbligo in capo al sanitario di una certificazione, attestante il regime di compatibilità del detenuto con il sistema carcerario, la seconda, che impone al medico di sottoporre a costante controllo sanitario il detenuto, nel corso del periodo di espiazione della pena. Ne consegue, dunque, che il sanitario del carcere deve sottoporre a visita medica il detenuto sia all’atto dell’ingresso in carcere, sia nel corso della detenzione, anche se manca una espressa richiesta del detenuto, e segnalare l’eventuale sussistenza di malattie che richiedono particolari cure, anche in strutture esterne all’istituto penitenziario. Ancora, nella vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte, che coinvolge medici in servizio presso la struttura penitenziaria, imputandoli di omicidio colposo, a causa del decesso di un detenuto, gli Ermellini hanno indicato le fonti normative che garantiscono il diritto alla salute del detenuto. In particolare, oltre all’art. 39 co. 2 O.P., il diritto alla salute della persona in carcere risulta garantito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione Edu, che sancisce espressamente il divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti. La notissima sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, il sistema penitenziario non pare aver intrapreso l’inversione di rotta sperata. Le misure poste in essere a seguito della messa in mora dei giudici alsaziani, infatti, hanno ancora una volta rivelato l’incapacità del legislatore italiano di elaborare una seria rivisitazione dell’anacronistico sistema sanzionatorio carcero-centrico. Tra le conseguenze delle opinabili scelte legislative vi è certamente la constatazione che il problema del cronico ed ingovernabile sovraffollamento carcerario può dirsi tutto tranne che superato, infatti la popolazione detenuta, a seguito di un decremento rilevante tra il 2013 e il 2015, è ora nuovamente in rapido aumento, come evidenziato ripetutamente dalla dottrina e recentemente anche dal Cpt nel rapporto annuale sul nostro Stato. Il fenomeno del over-crowding, con il peggioramento delle condizioni detentive che questo comporta, rendono sempre più difficile la garanzia di quel nucleo fondamentale di diritti che, in quanto spettanti a ciascun individuo, devono essere assicurati anche al soggetto privato della libertà personale, come la Corte Costituzionale ha più volte ripetuto. In siffatta situazione, non pochi sono i problemi di compatibilità della pena detentiva con il dettato costituzionale: la garanzia dei diritti fondamentali del detenuto, discendente dal principio di umanità della pena (art. 27 co. 3), si pone, infatti, al tempo stesso come limite all’esecuzione della pena e come condizione di legittimità della stessa. All’interno di questo contesto, il presente lavoro si propone di analizzare la normativa e la giurisprudenza in materia di diritto alla salute del detenuto, unico diritto ad essere definito fondamentale dalla Costituzione e la cui analisi può costituire una sensibile cartina tornasole, da un lato del livello di garanzie che sono riconosciute ai diritti del soggetto in vinculis, dall’altro lato delle forti criticità del sistema attuale. La Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10) - adottata l’8 gennaio 2013 con decisione presa all’unanimità - ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso, come è noto, riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Inoltre, la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani - definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota” che ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano - troverà applicazione in futuro in relazione alla generalità dei reclami pendenti davanti alla Corte e non ancora comunicati alle parti riguardanti l’Italia e aventi ad oggetto analoghe questioni di sovraffollamento carcerario, nonché a quelli che le saranno sottoposti nei prossimi tempi relativi allo stesso problema. “La carcerazione - hanno affermato i giudici di Strasburgo - non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. “La grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi - costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione - sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante”. In conclusione, preso atto del fatto che il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti, la Corte europea ha deciso di applicare la procedura della sentenza pilota al caso di specie, tenuto conto del crescente numero di persone potenzialmente interessate in Italia e delle sentenze di violazione alle quali i ricorsi in questione potrebbero dare luogo. Riforma della Giustizia: nella bozza tutti i limiti alle toghe in politica di Valeria Di Corrado Il Tempo, 4 agosto 2020 Dopo la crisi di credibilità abbattutasi sulla magistratura con il “caso Palamara”, che ha svelato al grande pubblico la prassi consolidata della spartizione tra le correnti delle poltrone al vertice di procure e tribunali italiani, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prova a porre un argine alla deriva che ormai, sempre più spesso, porta i magistrati a fare politica, svestendo e rivestendo la toga. Nel pre-Consiglio dei ministri convocato per oggi pomeriggio, tra i punti all’ordine del giorno, c’è anche la discussione del “Disegno di legge recante deleghe al governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”. Tante le novità che si vorrebbero introdurre. I magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari “non sono eleggibili alla carica di membro del Parlamento europeo, senatore o deputato o a quella di presidente della giunta regionale, consigliere regionale, presidente delle province autonome di Trento e di Bolzano o consigliere provinciale nelle medesime province se prestano servizio, o lo hanno prestato nei due anni precedenti la data di accettazione della candidatura, presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente, in tutto o in parte, nella circoscrizione elettorale”. La stessa limitazione si applica ai magistrati che vogliono candidarsi a sindaco di un comune con più di centomila abitanti, per l’assunzione dell’incarico di assessore e sottosegretario regionale e di assessore di comuni capoluogo di regione. “Non sono in ogni caso eleggibili - si legge nel ddl - i magistrati che, all’atto dell’accettazione della candidatura, non siano in aspettativa da almeno due mesi”. Per quanto riguarda i magistrati in aspettativa candidatisi ma non eletti alle medesime cariche, nei successivi tre anni “non possono essere ricollocati in ruolo con assegnazione ad un ufficio avente competenza in tutto o in parte sul territorio di una regione compresa in tutto o in parte nella circoscrizione elettorale in cui hanno presentato la candidatura”, né possono tornare nell’”ufficio del distretto nel quale esercitavano le funzioni al momento della candidatura”. È vietato, inoltre, sempre per 3 anni, esercitare le funzioni di pm, giudice delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, di ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. Fatto sta che, in direzione opposta, va la decisione della V commissione del Csm presa all’unanimità di nominare capo della Procura di Lucca Domenico Manzione, ex sottosegretario di Stato da maggio 2013 a giugno 2018. Un’altra criticità è che nella bozza del ddl non viene affrontato il “nodo” dei magistrati che si candidano alle primarie di partito, vengono sconfitti e poi tornano tranquillamente al loro ufficio. L’altra novità voluta da Bonafede, per “limare le unghie” al potere delle correnti, è quella di “individuare tramite sorteggio” i consiglieri del Csm che dovranno comporre la commissione incaricata di valutare il curriculum dei magistrati candidati agli uffici direttivi. In direzione opposta, invece, va la decisione di aumentare le “poltrone” a Palazzo Marescialli - 20 togati invece degli attuali 16 e 10 laici invece di 8 - e quella di introdurre il meccanismo del doppio turno o del ballottaggio nell’elezione dei consiglieri togati. Ciò porterebbe infatti le due correnti più forti ad accordarsi per il secondo turno, tagliando fuori le altre. Giustizia o ingiustizia. È urgente investire nell’amministrazione di Vincenzo Donvito imgpress.it, 4 agosto 2020 Siamo messi proprio male con la giustizia. Il problema principale è che lo Stato dovrebbe investire nella amministrazione della giustizia per garantire che i cittadini possano fruire di questo strumento. Sembra una riforma semplice, ma probabilmente noi utenti della giustizia parliamo una lingua diversa da quella dei decisori e di chi ci governa: a noi interessano garantismo, tempi rapidi, economicità. Il primo. Garantismo. Fa parte di una lotta eterna dove, al momento, visto anche il ministro della Giustizia in carica, hanno la meglio i giustizialisti. Tant’è che il partito del ministro in carica (M5S), grazie a questa impostazione, è anche riuscito a diventare maggioranza nel Paese. Non solo ma, incredibile e pur vero, ha stretto alleanza con quelli che dicono di essere garantisti (PD)… come? Semplicemente (miracoli della politica) facendo a questi ultimi continuare a dire che sono garantisti ma di fatto accodandoli alle loro riforme giustizialiste (ultima quella sull’allungamento dei tempi della prescrizione). Tempi rapidi. Un velo pietoso è bene che sia steso. Un riferimento: si provi a fare un ricorso in appello, quando sarà comunicata la data della prima udienza, si capirà perché, mediamente, ogni legale di buon senso fa di tutto per consigliare il suo cliente a risolvere tutto prima, magari anche avendo ragione, e nonostante questo, adeguandosi ad un accordo extragiudiziale. Altro esempio: i tempi dei ricorsi degli immigrati contro decisioni ritenute ingiuste nei confronti del loro status di soggiorno: situazioni che ritengono interventi molto veloci ma che di fatto favoriscono il permanere dello status di illegalità dei ricorrenti in attesa delle udienze. Altro esempio: cause civili per questioni di separazione con figli. Questi ultimi rimangono ostaggi delle attese giudiziali in situazione di disagio che, chi ha o meno un figlio, è facile comprendere possa essere molto incidente sulla vita del minore. Economicità. I contributi unificati sono la pena. Un solo esempio dalla nostra esperienza, e su quei ricorsi che si fanno in genere senza avvocato: se si riceve una multa considerata ingiusta, per esempio di 80 euro, conviene pagare subito con lo sconto del 30% (concepito proprio per stimolare a pagare subito) oppure fare ricorso pagando un contributo unificato di 43 euro? Domanda pleonastica, considerato il fatto che oltre ai soldi si deve mettere in conto la compilazione del ricorso (magari dando un contributo all’associazione di consumatori a cui si è chiesta consulenza), prendersi una mattinata libera per il giorno dell’udienza… 2+2 fa 4… rimane solo l’azione per motivi di principio. È evidente che, senza voler togliere i necessari contributi economici perché la giustizia possa funzionare, che per tante questioni (quella da noi citata ne è una) ci vorrebbero metodi diversi di giustizia, non di semplice conciliazione. Infine, se a qualcuno è capitato di dover fare un ricorso al Tribunale amministrativo regionale (Tar), che è il solo strumento per rivalersi giudizialmente contro l’amministrazione locale, sa che l’onere economico per farlo è l’elemento essenziale che scoraggia (contributi unificati e costi degli avvocati amministrativisti). Tutti e tre gli aspetti che abbiamo sollevato sono connessi, in generale, alle maggioranze politiche, quindi spetta agli elettori decidere. Ma, a parte la questione garantismo/giustizialismo, le questioni di tempi ed economicità potrebbero essere affrontate da qualunque maggioranza. Crediamo infatti che nessun legislatore o esecutivo non possa non avere a cuore una riforma della giustizia in questi termini. E allora, perché non si procede? Annuiamo già le risposte del tipo “la cosa non è tanto semplice rispetto a come voi avete posto il problema”… tipica risposta “politichese”. Noi poniamo il problema da utenti del servizio giustizia, ne siamo vittime e, spesso, utenti mancati. Che si fa? *Presidente Aduc Il nuovo Csm: doppio turno e parità di genere Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2020 La riforma del Csm approderà al prossimo Consiglio dei Ministri. Sono previsti 19 collegi e 2 turni di votazione. Al primo turno si possono esprimere fino a 4 preferenze - alternando candidati di genere diverso - e, per ogni collegio, almeno 10 candidature suddivise equamente per genere. Se il numero è inferiore, o non è rispettata la parità, si procede al sorteggio delle candidature mancanti. Passa al primo turno chi ottiene il 65% dei voti, altrimenti si va al ballottaggio tra i 4 candidati - anch’essi suddivisi per genere - più votati. Il numero dei consiglieri torna a 30. Venti togati e 10 laici che non potranno essere scelti tra chi, negli ultimi due anni, è stato al Governo, anche di una Regione. Sorteggio annuale per i componenti delle Commissioni. Chi è membro del Disciplinare non potrà far parte delle Commissioni che si occupano di nomine, valutazioni di professionalità e trasferimento d’ufficio per incompatibilità dei magistrati. Per combattere la degenerazione correntizia sarà vietato costituire gruppi all’interno del Csm. Le nomine avverranno secondo le esigenze di copertura degli uffici - per evitare quelle “a pacchetto” - con obbligo di audizione dei candidati e la raccolta dei pareri di avvocatura, magistrati e dirigenti amministrativi degli uffici di provenienza. Gli ex consiglieri non potranno candidarsi a incarichi direttivi per 4 anni (i fuori ruolo per 2). Chi entra in politica non potrà più indossare la toga - sarà inquadrato al ministero della Giustizia o altri ministeri - e chi non viene eletto sarà assegnato a una regione diversa da quella in cui s’è candidato e non con funzioni inquirenti. Verini: “La riforma del Csm sia discussa subito in Consiglio dei ministri” di Errico Novi Il Dubbio, 4 agosto 2020 Il pressing del responsabile Giustizia Pd sul ddl stranamente bloccato a Palazzo Chigi, dove il guardasigilli Bonafede l’ha inviato già da dieci giorni. Intanto la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli sospende il “processo” a Ferri e invia gli atti alla Cassazione. Qualcosa potrebbe essere cambiato, rispetto alle prime ipotesi cruente istigate dal caso Palamara. Nella congerie politico-legale in cui è ormai avvolto il Csm si devono registrare due novità. Innanzitutto la dichiarazione rilasciata nel fine settimana da Andrea Orlando, vicesegretario dem, al festival del giornale online Tpi.it: “Non sono tra coloro che criminalizzano Palamara, e credo che la magistratura non possa fare come la politica degli anni 90, quando si diceva ‘è una questione limitata’: se ci sono patologie sistemiche”, ha fatto notare Orlando, “più che creare un caso individuale bisogna capire cosa non funziona”. L’altra notizia è di stamattina e viene dal processo disciplinare destinato a viaggiare in parallelo con la riforma del Csm, quello che vede come principale incolpato proprio Luca Palamara ma che riguarda anche Cosimo Ferri, ora deputato di Italia viva ma fino a poco tempo fa leader di “Magistratura indipendente”: ebbene, la sezione disciplinare del Csm dinanzi alla quale si svolge il procedimento ha deliberato di sospenderne gli effetti per il parlamentare, e sottoporre alle sezioni unite della Cassazione una delle istanze di ricusazione presentate dallo stesso Ferri. In particolare quella relativa ai due componenti Stefano Cavanna e Michele Cerabona, che sarebbero anche parti lese rispetto ai presunti illeciti di Ferri. Dovrebbero insomma giudicare su vicende di cui secondo l’accusa sarebbero in parte vittime, il che crea notevoli problemi di compatibilità, sui quali dovrà pronunciarsi la Suprema corte. Sono due faccende diverse, che però raccontano la stessa cosa: la partita sulle toghe non è chiusa, né sul piano legale né in termini strettamente politici. Il Pd vuole un approccio rigoroso ma non sbrigativo, comunque rispettoso anche del pluralismo interno alla magistratura. E al Dubbio, il responsabile Giustizia del Nazareno Walter Verini dice, a proposito del ddl sul Csm: “Auspichiamo una rapida discussione e approvazione in Consiglio dei ministri, che darà modo al Parlamento di compiere un confronto serio per una riforma che potrà aiutare la magistratura a ritrovare piena credibilità”. Come ha detto anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, su una riforma così delicata è necessario adottare un metodo costituente: anche se non si modifica la Carta, si interviene comunque su un organo di rilievo costituzionale, e sarebbe opportuno procedere con la partecipazione più ampia possibile, anche delle forze di opposizione. Il Pd ne è altrettanto convinto e considera i possibili conflitti sul sistema di voto un terreno su cui confrontarsi a viso aperto, senza il timore che alcuni settori della stessa maggioranza, cioè Matteo Renzi, possano recitare ancora una volta la parte della voce fuori dal coro. Si vedrà dunque se davvero il Consiglio dei ministri di questa settimana sarà l’occasione propizia per l’atterraggio della legge delega sui magistrati, tenuta un po’ curiosamente nel cassetto nonostante il testo sia ormai “chiuso”. È nelle mani del dipartimento degli Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi da una decina di giorni, con gli ultimi ritocchi sul sistema per l’elezione dei togati (compresi i meccanismi che dovrebbero assicurare parità di genere, sollecitata sempre da Verini e dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis) e con la modifica in extremis del micro-sorteggio residuale. In pratica il guardasigilli ha accolto la “riforma elettorale” modellata sul sistema simil-australiano (copyright Stefano Ceccanti e Alfredo Bazoli) ma ha ottenuto di prevedere che se in qualcuno dei 19 collegi non si raggiungesse la soglia minima di 10 candidati volontari, i mancanti verrebbero individuati per sorteggio. Non è ovviamente la soluzione ipotizzata un anno fa da Bonafede, quando la selezione random dei “candidabili” era finita a tutti gli effetti nell’articolato della riforma, poi accantonata per la rottura con Salvini. Ma è comunque il segnale che quello è l’approccio più gradito al guardasigilli e al suo Movimento. Dopodiché non si tratta di un dettaglio capace di allarmare più di tanto i dem, contrari alla soluzione basata sul sorteggio perché incostituzionale e poco compatibile col pluralismo della rappresentanza, a cui il partito di Zingaretti non intende rinunciare. Fatto sta che l’approccio del Pd e le difficoltà rispetto all’idea del maxiprocesso lampo a Palamara - indebolita anche dalle critiche di Md sulla presenza di Davigo nel collegio disciplinare - autorizzano un pronostico: nei confronti della magistratura non dovrebbe consumarsi quella sorta di vendetta intravista da Eugenio Albamonte, segretario di “Area” e pm a Roma, anche in un’intervista al Dubbio. Non dovrebbe ripetersi cioè quell’errore commesso 27 anni fa con i partiti, quando l’improvvisa scoperta della in realtà arcinota prassi tangentizia demolì un intero sistema politico. Nel caso della magistratura non si dovrebbe assistere a un sistema politico-associativo improvvisamente raso al suolo. Anche se nella riforma del Csm c’è una norma che impedisce la formalizzazione dei gruppi all’interno del plenum, la vita dell’Anm e delle correnti non dovrebbe uscirne sconvolta. E, nonostante 27 anni fa, con i partiti, tutto si sia risolto con metodi assai meno rispettosi, non è detto che per la democrazia e per la giustizia si tratterebbe di un irrimediabile fallimento. Abuso d’ufficio, “depenalizzata” l’area della discrezionalità amministrativa di Ida Blasi Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2020 Il sindacato incidentale attribuito al giudice penale sull’atto amministrativo e sull’esercizio della discrezionalità dell’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, pur in presenza di una fattispecie sufficientemente tipizzata dall’art. 323 c.p. nella formulazione già novellata dall’art. 1 della legge n. 234 del 16 luglio 1997, si è tradotto in una produzione di interpretazioni “sostitutive” del precetto penale che ne hanno esteso oltre misura l’ambito di applicazione. Che tale sia il sostrato in cui si inserisce la novella dell’art. 323 c.p., attuata dall’art. 23 del Decreto - Legge n. 76 del 16 luglio 2020, è comprovato dalle statistiche riguardanti l’ingente numero di procedimenti penali annualmente iscritti per tale reato ed il numero, assolutamente esiguo, di condanne che in ultima analisi li definiscono. Nel contesto del cosiddetto Decreto Semplificazioni, che sotto numerosi aspetti interviene a semplificare in un’ottica di speditezza e maggiore efficienza l’azione della pubblica amministrazione e ad incidere anche sui presupposti della responsabilità contabile, si innesta una nuova definizione del delitto di abuso d’ufficio. La fattispecie di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p.è stata oggetto dalla sua entrata in vigore nel Codice Rocco sino alla pubblicazione del Decreto - Legge n. 76 del 16 luglio 2020, di tre significative novelle - oltre ad una modifica concernente il trattamento sanzionatorio - tutte dichiaratamente orientate a rimediare ad una strutturale carenza di tipicità della norma ed alle conseguenti ambiguità radicatesi nell’ambito del cosiddetto diritto vivente. La discussa disposizione incriminatrice, nella sua terza formulazione risalente alla legge n. 234/1997, si inseriva (come del resto anche in precedenza) tra i delitti contro la Pubblica Amministrazione con funzione sostanzialmente sussidiaria rispetto a fattispecie più gravi, sussumendo al suo interno condotte che avrebbero dovuto assumere valenza residuale. A dispetto della sua teorica “marginalità” nel sistema dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, il numero di procedimenti iscritti per il delitto di cui all’art. 323 c.p. proliferava a dismisura, con esiti punitivi però molto modesti. Mentre la norma de qua sopravviveva per oltre un ventennio ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati (si vedano tra le più recenti, Corte Cost., ordinanze n. 251/2006 e n. 177/2016), il complesso scenario dei delitti contro la Pubblica Amministrazione subiva a sua volta nuove importanti riforme, a partire dalla legge n. 190/2012, sino alla legge n. 3/2019, cosiddetta “Spazza-corrotti”, senza alcuna specifica incidenza sull’abuso d’ufficio. Quest’ultimo è stato ora modificato, in un contesto storico in cui la legislazione d’urgenza si produce quasi quotidianamente, con risultati di dubbia efficacia rispetto alle finalità astrattamente perseguite. Alla vigilia e nell’immediatezza della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto legge n. 76 del 16 luglio 2020, si sono susseguiti alcuni preliminari commenti di segno non univoco particolarmente in ordine alla tecnica descrittiva adoperata per ridefinire la fattispecie e sulla sua coerenza rispetto alla pretesa paralisi dell’azione della Pubblica Amministrazione asseritamente dovuta al timore di incriminazioni a titolo di abuso d’ufficio. Prima di svolgere alcune riflessioni al riguardo, merita rilevare come, esattamente un giorno prima, sia stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legislativo n. 75 del 15 luglio 2020, che nel dare attuazione alla direttiva (UE) 2017/1371 relativa alla “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale” apportava alcune modifiche al codice penale, ed in specie al trattamento sanzionatorio per i delitti di cui agli artt. 316, 316 ter, 319 quater, 322 bis, nei casi in cui i fatti offendano gli interessi finanziari dell’Unione Europea e il danno o il profitto siano superiori ad euro 100.000,00, oltre a modificare all’art. 5, il Dlgs n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, inserendo nel catalogo dei delitti presupposto, tra gli altri, proprio il delitto di abuso d’ufficio. Lo stesso delitto - come si è detto - riformato un giorno dopo, con diretta necessaria incidenza proprio sul neo-modificato art. 25, comma 1, Dlgs n. 231/2001. Dato atto di tale singolare sequenza cronologica, va osservato come il Legislatore d’urgenza abbia ritenuto di agevolare la ripresa dell’ordinario andamento dell’attività della Pubblica Amministrazione attraverso un processo di semplificazione di alcune procedure, all’insegna dell’emergenza sanitaria da Covid 19, al cui interno la rimodulazione di un segmento di fatto tipico della norma incriminatrice di cui all’art. 323 c.p. assumerebbe una funzione strategica. In particolare, il previgente precetto puniva il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, procurasse intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecasse ad altri un danno ingiusto. L’abuso d’ufficio, dunque, presupponeva una violazione di legge o di regolamento o la mancata astensione in presenza di un conflitto di interesse, direttamente ricollegabile alla realizzazione dell’evento costituito dall’acquisizione di un ingiusto vantaggio patrimoniale o dalla causazione di un danno ingiusto; comportamenti sorretti dal dolo cosiddetto intenzionale. Le criticità insite in siffatta formulazione, si ricollegavano innanzitutto alla esatta delimitazione del concetto di violazione di legge o di regolamento, a fronte di interpretazioni estensive del dictum normativo tali da ricomprendervi la violazione dei valori costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione, riferibili all’art. 97 della Costituzione (principi, del resto, analogamente evocati dalla giurisprudenza di legittimità anche ai fini dell’individuazione, in materia di corruzione, delle nozioni di atto d’ufficio ed atto contrario ai doveri d’ufficio). Accedendo a tale interpretazione estensiva propugnata dal diritto vivente, l’accertamento della violazione di legge si risolveva in alcuni casi in una valutazione “incidentale” - e non solo, da parte del giudice penale sul “merito amministrativo” o addirittura in un sindacato di illiceità di atti anche ove ritenuti legittimi ad opera della giurisdizione amministrativa. È però altrettanto vero che la violazione di legge, anche nella sua più vasta accezione, non integrava ex se il delitto di abuso d’ufficio richiedendosi, oltre all’elemento soggettivo del dolo intenzionale, il requisito ulteriore della cosiddetta “doppia ingiustizia”, cioè a dire dell’obiettiva ulteriore ingiustizia del vantaggio patrimoniale ovvero del danno arrecato a terzi. È interessante osservare come proprio il criterio dell’accertamento del requisito della doppia ingiustizia, sembrasse poter assurgere a momento selettivo dell’area di rilevanza penale della condotta eventualmente non conforme ai principi regolatori dell’azione dalla Pubblica Amministrazione, pur con l’ovvia difficoltà di discernere concretamente l’ingiustizia della condotta dall’ingiustizia dell’evento del delitto di abuso d’ufficio. Ancora, la necessaria “patrimonialità” del vantaggio, in una prima fase intesa come vantaggio avente diretta rilevanza patrimoniale aveva finito per estendersi ad incrementi di carattere economico indiretti o addirittura potenziali, così dilatando anche i confini dell’evento del reato. Ebbene, i deficit di tipicità sin qui commentati, pur rendendo auspicabile un intervento idoneo a tracciare con sufficiente determinatezza la sfera applicativa del delitto di abuso d’ufficio, avrebbero probabilmente meritato un’opera di approfondimento maggiore e meglio ponderata. In primo luogo, il novellato testo dell’art. 323 c.p., vede la violazione di norme di legge o di regolamento, sostituita dalla “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge dalle quali non residuano margini di discrezionalità”, con conseguente espunzione dall’area di rilevanza penale delle condotte ricollegate ad attività di natura discrezionale. Invero, a meno di non voler immaginare che il futuro diritto vivente ricondurrà l’interpretazione del novum genus di “violazione” ancora una volta alla generale lesione dei principi costituzionali dettati dall’art. 97 della Costituzione, deve constatarsi come il Legislatore d’urgenza abbia relegato il delitto di abuso d’ufficio ai soli casi di violazione di norme sostanzialmente imperative nell’individuazione delle condizioni di esercizio della pubblica funzione, con conseguente impunità dei pubblici funzionari le cui attribuzioni si esprimano attraverso la formazione o l’adozione di atti che presuppongano l’esercizio della discrezionalità. Tuttavia, la concreta verifica processuale in ordine alla violazione di norme attributive di funzioni di carattere non discrezionale e la distinzione tra queste e quelle che invece riconoscano al pubblico funzionario poteri che necessitano l’esercizio di una discrezionalità, potrebbe imporre al giudice penale di dover (e saper) discernere specificamente le peculiarità dell’atto o del procedimento amministrativo. L’interprete, dunque, dovrà padroneggiare le opportune nozioni di diritto amministrativo e la sua valutazione potrebbe porsi in contrasto con eventuali paralleli pronunciamenti del giudice amministrativo. Accanto alla apparentemente rigida e rigorosa definizione di violazione di regole di condotta non discrezionali, resta invece inalterata la ulteriore tipologia di condotta rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., vale a dire quella consistente nella violazione di obblighi di astensione in presenza di interesse privato proprio o altrui che, con ogni evidenza si pone in antitesi con il compimento di atti dell’amministrazione privi di profili di discrezionalità. Pur non potendo sfuggire la complessità delle questioni che ruotano intorno alle esigenze di conferire maggiore determinatezza alla fattispecie in esame ed alle evidenti connesse difficoltà, è lecito chiedersi se l’intento del Legislatore d’urgenza fosse realmente quello di pervenire, come chi scrive ritiene, ad una sostanziale “depenalizzazione” di una delle preesistenti modalità di condotta previste dalla norma derivante dalla espunzione di buona parte dell’area della discrezionalità amministrativa dalla fattispecie delittuosa, con plausibili effetti retroattivi. In secondo luogo, la scelta di intervenire - come di frequente accaduto nei mesi dell’emergenza sanitaria - con Decreto Legge, in materia penale, desta non poche perplessità, tra l’altro, sul fronte del diritto costituzionale. Da un primo punto di vista, se è vero che il proliferare di procedimenti iscritti per il delitto di abuso d’ufficio può avere inciso sull’attività dei pubblici amministratori, non può escludersi che l’evocata paralisi possa essere stata sensibilmente amplificata anche dalla riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione del 2012, oltre che dall’intervento marcatamente repressivo - al punto da esporsi a profili di palese incostituzionalità - operato dalla legge n. 3/2019. Tuttavia, che l’attuale condizione di ritardo sistemico, su cui hanno in ultimo influito anche le chiusure degli uffici pubblici e le significative carenze di informatizzazione tali da non consentire la prosecuzione dalle attività da remoto, integri i presupposti di straordinarietà ed urgenza (art. 77 Cost.) in rapporto alla specifica necessità di incidere sulla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 323 c.p., appare a chi scrive controvertibile. Ma anche ammettendo la conformità dello strumento normativo adoperato ai suoi presupposti costituzionali, non può tacersi del fatto che una eventuale mancata conversione del Decreto Legge, contenente una norma penale di favore produrrebbe gravi ripercussioni nonché incertezze ben maggiori di quelle che avrebbe dovuto sanare. Cutolo lascia il carcere. È detenuto in ospedale, la moglie: “Salvatelo” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 4 agosto 2020 Ha lasciato il carcere ed è stato trasferito in ospedale. Guardato a vista, in un padiglione riservato ai detenuti, ma non più all’interno della cella nella quale è rimasto recluso negli ultimi anni al carcere duro. Da venerdì scorso Raffaele Cutolo non è più recluso nel penitenziario bunker di Parma, ma è stato condotto in ospedale in seguito ad un aggravamento delle sue condizioni di salute. È la seconda volta che accade nel giro di pochi mesi, in relazione a una condizione di salute ritenuta incerta, precaria. Un caso che solleva reazioni da parte della famiglia, che lamenta mancanza di informazioni certe da parte del carcere e della stessa struttura ospedaliera nella quale Cutolo è stato tradotto quattro giorni fa. Spiega al Mattino Immacolata Iacone, moglie del fondatore della Nco: “Vogliono ammazzare mio marito. Non ci danno informazioni sulle sue reali condizioni di salute, si sono limitate a dire che è finito in ospedale solo per qualche colpo di tosse, cosa poco credibile. L’ultima volta che l’ho visto, al colloquio mensile, era spento, indifferente, incapace di qualsiasi reazione emotiva. È la prima volta che accade dopo tanti anni di detenzione”. Poi l’affondo, che ricalca una denuncia sostenuta anche in un convegno organizzato dall’associazione Nessuno tocchi Caino: “Vogliono uccidere Cutolo, vogliono sbarazzarsi di lui, come hanno fatto per Rana, Fabbrocino. Provenzano: vogliono farlo uscire morto dal carcere”. Ma da cosa trae spunto una denuncia tanto grave? Assistita dall’avvocato Gaetano Aufiero, Immacolata Iacone fa riferimento alla decisione del carcere di Parma di negare la visita di un geriatra di fiducia in cella. Spiega al Mattino il penalista Aufiero: “Abbiamo indicato un medico di Parma di riconosciuta esperienza professionale, per altro noto anche alla struttura carceraria in questione, ma ci è stato risposto che non veniva autorizzata la visita per “motivi di opportunità”, che francamente faccio fatica a comprendere. Rimaniamo in attesa di capire per quale motivo Cutolo è stato trasferito in ospedale, non potendo accontentarci di quanto è stato riferito a voce alla famiglia da qualcuno del reparto, a proposito di non meglio precisati colpi di tosse”. Un caso che torna a sollevare attenzione, anche alla luce di quanto avvenuto la scorsa primavera, con l’intervento del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che negò il beneficio degli arresti domiciliari al capo e fondatore della Nuova camorra organizzata. Un provvedimento, quello dei giudici emiliani, che prese in considerazione anche il frutto delle indagini condotte su Ottaviano e altri comuni vesuviani dalla Dda di Napoli. Ricordate il caso della scorsa primavera? Stando al collegio di giudici bolognesi (presieduto dal magistrato Antonietta Fioraio), Cutolo deve restare in carcere, dove resta ben curato, sulla scorta di un principio di fondo: “Resta un simbolo per la camorra e la sua scarcerazione potrebbe dare forza ai gruppi “eredi” della Nco”. In sintesi, potrebbe essere vista come una sorta di riscatto da parte di chi vive ancora nel “mito” del professore di Ottaviano. Un ragionamento da sempre respinto da parte della difesa, che in questi mesi aveva anche chiesto la possibilità di tradurre il detenuto ai domiciliari, ma in una località lontana rispetto al comune di Ottaviano. E invece sullo spessore criminale di Cutolo, i giudici bolognesi non hanno avuto dubbi: “Si può ritenere che la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che sì rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”. Condannato in via definitiva a 14 ergastoli (tra cui quelli comminati per gli omicidi del vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe Salvia e del politico Marcello Torre), Cutolo è affetto da patologie respiratorie (ma è risultato negativo al Covid), in uno scenario che sembra essersi improvvisamente aggravato. Spiega ora la moglie del padrino della Nco: “E un essere umano, abbiamo diritto a conoscere il suo quadro clinico e a chiedere tutela per le sue condizioni di salute”. Raffaele Cutolo, un moribondo torturato dallo Stato fino alla morte di Angela Stella Il Dubbio, 4 agosto 2020 In carcere da 57 anni. Raffaele Cutolo, ex capo della Nuova Camorra Organizzata, sta morendo? E lo Stato lo lascerà morire in una condizione di umanità? Le domande sono lecite mettendo in fila una serie di elementi che ci illustra il suo avvocato Gaetano Aufiero, il quale proprio ieri ha presentato al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia una integrazione urgente all’istanza del 30 luglio in cui chiedeva un differimento della pena per motivi di salute per l’uomo detenuto in regime di 41bis a Parma. Cutolo ha quasi 80 anni, è recluso da 57 anni, e fin dagli anni 90 è tra i sepolti vivi del regime di carcere duro. “Venerdì - ci racconta l’avvocato Aufiero - abbiamo saputo che il mio assistito è stato condotto in ospedale la sera precedente. Informalmente dall’ospedale ci hanno detto per un colpo di tosse ma sappiamo che invece la situazione è ben più grave”. Innanzitutto un quadro clinico compromesso da tempo: lo scorso febbraio Cutolo infatti era stato ricoverato per una crisi respiratoria. L’uomo assume circa quindici pillole al giorno, soffre di diabete, prostatite e artrite ed è fortemente ipovedente. Nonostante questo, le condizioni di “Don Raffaè”, come cantò Fabrizio De André, il 10 giugno sono state considerate compatibili con la detenzione dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna che aveva respinto la precedente istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute. Il 22 giugno sua moglie Immacolata Iacone, come ha raccontato qualche giorno fa al Consiglio Direttivo di Nessuno Tocchi Caino, era stata a trovare il marito insieme alla loro figlia: “mio marito non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire con me e nostra figlia. Il carcere di Parma è un cimitero di vivi: stanno solo aspettando di farlo uscire morto da lì. Facciamo prima a mettere la sedia elettrica”. La testimonianza della donna è stata al termine così commentata dal segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia: “Da Caino che è stato, Cutolo è diventato vittima di uno Stato che ha abolito la pena di morte ma pratica la tortura e la pena fino alla morte. Nessun diritto, nessuna pietà per i nemici dello Stato. Non si fanno prigionieri, Cutolo deve morire in galera, come sono morti Riina e Provenzano”. Dopo l’episodio del 22 giugno “ho chiesto - prosegue Aufiero - all’avvocato Monica Moschioni di recarsi a trovare Cutolo per verificare effettivamente come fosse la situazione. La collega mi ha riferito che il colloquio è durato pochissimi minuti perché Cutolo, portato nella sala colloqui su una sedia a rotelle, è rimasto immobile, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni a qualsivoglia sollecitazione”. Ciò appare, ci dice l’avvocato, “in netto contrasto sia con due rapporti del diario clinico dello stesso periodo in cui leggiamo che per la direzione sanitaria del carcere Cutolo è “vigile, orientato nel tempo e nello spazio e collaborante”; sia con una nota della Polizia Penitenziaria secondo cui il detenuto “è riuscito, pur con un eloquio essenziale” a rispondere sia alla moglie che alla figlia”. L’avvocato Aufiero non riesce a dare una spiegazione logica a queste opposte rappresentazioni della situazione di Cutolo che provengono dal carcere; inoltre non si comprende perché a Cutolo sia stato negato il permesso di essere visitato da un medico specialista in geriatria, individuato dalla difesa per constatare il suo stato di salute: “Dalla direzione del carcere mi è stato risposto che il diniego sussiste per ‘ragioni di opportunità’ ma non mi si spiega quali siano. Avrei compreso il diniego se il medico da noi scelto fosse stato di Ottaviano, dove risiede la famiglia di Cutolo, ma si tratta di un geriatra in pensione della Asl di Parma che in passato è già entrato in carcere”. Chiediamo all’avvocato se questa situazione possa essere dettata dal fatto che Cutolo sia stato sotto i riflettori durante l’emergenza Covid e che una “scarcerazione”, seppur per motivi di salute, possa minare la credibilità del Ministro Bonafede: “Quello che posso dire è che in 28 anni di professione questa è la prima volta che mi viene negata la possibilità di far entrare un medico di parte a visitare un mio assistito. So che il direttore del carcere di Parma conosce bene la legge e non è né un folle né uno stupido. Mi chiedo se il suo rifiuto sia dettato da un libero e autonomo convincimento o se abbia ricevuto indicazioni dall’alto, ad esempio dal Dap”. Sta di fatto che, date le nuove circostanze, l’avvocato Aufiero con l’istanza di ieri chiede che venga effettuata una perizia terza sul quadro clinico di Cutolo e ribadisce la sua richiesta, per motivi di salute, di detenzione domiciliare e in subordine di ricovero presso idonea struttura ospedaliera o presso centro clinico penitenziario: “Mi auguro che questa volta a valutare le carte ci sia un giudice che faccia il giudice” Uccidetelo come l’orso in fuga: è meno crudele di Gioacchino Criaco Il Riformista, 4 agosto 2020 Alessandro de Guelmi, veterinario, ha affermato, riguardo a M49 l’orso in fuga da qualche giorno, che “se l’orso è veramente pericoloso va abbattuto” dato che “non è dignitoso rinchiuderlo a vita, prima in una gabbia, poi in un recinto”. Sì, ammazzate M49, ha detto proprio questo, scatenando maledizioni che gli sono arrivate addosso dai social. Una fiera irredimibile per non nuocere all’uomo può essere solo uccisa. Un ragionamento estremo, cinico, ma non ipocrita: la sicurezza totale rispetto a un pericolo la si ottiene con la cancellazione della minaccia. In fondo è ciò che ha chiesto per sé stesso il carcerato catanese Turi Cappello, da più di vent’anni ingabbiato negli esigui metri quadri del 41bis. In fondo è ciò che ha chiesto la signora Immacolata per il marito, Cutolo, che sta squagliando tutta la cera della sua candela: goccia a goccia, in una sofferenza bollente e lentissima. È un tema antico questo, dell’uomo: sul suo diritto di controllare i fattori di disequilibrio, sulla sua propensione a cautelarsi dagli eventi che ne minacciano la tranquillità. Il sogno è vano, perché ci sarà sempre un prodotto della natura che sfuggirà al controllo. Ma l’uomo insiste, tenta il dominio su fatti ed esseri viventi. Il dottor De Guelmi svela una verità bruciante: le ripetute fughe dell’orso M49 testimoniano la sua insofferenza per la prigionia, per lui la vita dietro le sbarre è senza dignità, meglio morire. Forse, davvero, se l’orso avesse voce, chiederebbe di essere ucciso se per vivere deve stare ai ceppi. E forse gli uomini in fuga lanciano lo stesso messaggio. Chissà Grazianeddu Mesina, il re del Supramonte, che messaggi lancia con le sue innumerevoli fughe? Nascosto in qualche grotta a dire che è meglio di Papillon. Comunque la si pensi, qualunque delitto si sia commesso, c’è qualcosa che commuove nel tentativo di esalare l’ultimo respiro all’aria aperta. Comunque la si pensi, ci sono occasioni di umanità in cui il controllo diventa disumano e ci si potrebbe abbassare dalla statura di Dio, prendendosi il rischio, correndo il pericolo. L’orso M49, intanto, scappato dal recinto di Casteller, dopo aver abbandonato la Marzola si trova ora sulla catena del Lagorai, il radiocollare che lo spia testimonia che da 24 ore staziona in Alta Val dei Mocheni, fra il lago di Erdemolo e la Valcava, la zona la conosce bene perché ci era passato durante la prima fuga. Il sindaco di Palù del Fersina, Stefano Moltrer, ha chiesto per lui la morte. Per contenere i suoi istinti di libertà gli sono stati somministrati farmaci castranti. Un po’ ha cominciato a morire quando, essendolo, ha deciso di assecondare la sua natura di orso. E forse in questa società amare l’aria libera è un delitto che segna l’esistenza, per tutti, bestie e uomini. E per tutti, bestie e uomini, pochi metri quadri di cella non ci somigliano nemmeno alla dignità. Detenuti psichiatrici, dopo la Consulta la Cassazione apre ai domiciliari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2020 Corte di cassazione - Sentenza 3 agosto 2020 n. 23474. Prima decisione a favore dei detenuti psichiatrici da parte della Cassazione, dopo che la Corte costituzionale, nell’aprile scorso (sentenza n. 99/2020), ha dichiarato illegittimo l’art. 47-ter, co. 1.ter, Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, il Tribunale di sorveglianza possa disporre la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di pena. La Prima Sezione penale, sentenza 23474/2020, ha così accolto, con rinvio, la richiesta di un uomo recluso, per un cumulo di pene, da 5 anni e mezzo ed affetto da una grave disturbo ossessivo compulsivo accertato da un medico psichiatra ed in precedenza riconosciuto anche da un altro tribunale di sorveglianza che gli aveva concesso di scontare il residuo pena ai domiciliari. Tornato in carcere per altri reati, si era nuovamente rivolto al giudice ed al Tribunale di sorveglianza che però non hanno ravvisato ragioni per il rinvio dell’esecuzione della pena (o domiciliari), “atteso che lo stato morboso, non definibile come grave, non comportava una certa prognosi infausta quoad vitam, né risultava che egli potesse giovarsi, in libertà, di cure e trattamenti sanitari non praticabili in detenzione”. Né tantomeno l’espiazione della pena “si palesava in contrasto con il senso di umanità, attesa la adeguatezza delle cure apprestabili in regime detentivo” Tutt’altro il quadro offerto dalla difesa secondo cui il Tribunale aveva del tutto ignorato la perizia dello psichiatra che aveva dato conto di una situazione clinica “incompatibile con la protrazione dello stato di restrizione intramuraria “. Era stata invece privilegiata la Relazione del Presidio medico interno alla Casa circondariale di Teramo, in tal modo “obliterando le carenze dell’offerta sanitaria dell’istituto, non compensate da una irragionevole somministrazione di psicofarmaci, inidonea a curare le patologie del detenuto, che sarebbero peggiorate in maniera pesante e incontrollata”. Il ricorso è stato accolto dalla Suprema corte che ricorda come la Relazione del medico collimi con il giudizio cui era pervenuto, alcuni anni prima, il Magistrato di sorveglianza di Vercelli, il quale aveva concesso di proseguire la espiazione della pena residua in regime di detenzione domiciliare. Dopo la sentenza della Consulta, afferma la Corte, “è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare, la cui applicazione deve essere valutata all’esito di un articolato giudizio nel quale devono confluire, alla luce della ratio dell’istituto e della ridefinizione del suo perimetro conseguente alla declaratoria di incostituzionalità, il dato relativo alla incidenza sulle condizioni psichiche della protrazione della detenzione, quello attinente agli interventi terapeutici non efficacemente esperibili all’interno del carcere e, infine, quello concernente la attuale pericolosità sociale (da apprezzare non soltanto in base ai precedenti penali e al residuo fine pena, ma anche all’incidenza della patologia sul grado di efficienza psico-fisica e sulla connessa capacità di porre in essere condotte criminose di una qualche gravità)”. Per il reato di omesso pagamento delle ritenute non conta il numero di lavoratori coinvolti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 30 luglio 2020 n. 23185. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali scatta a prescindere dal numero di lavoratori coinvolti. Partendo da questo presupposto è ininfluente il controllo a campione su 10 dipendenti su 200 dal quale è risultato che, per tutti i lavoratori controllati, erano state pagate le retribuzioni, circostanza che consente di affermare il reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 23185, respinge il ricorso del legale rappresentante della società contro la condanna. Ad avviso della difesa, infatti, il controllo limitato a soli 10 dipendenti non avrebbe consentito di provare il pagamento delle retribuzioni, anche per gli altri rimasti esclusi dalla verifica parziale. Per la Cassazione però non è così. I giudici chiariscono come prima cosa che il motivo non sarebbe trattabile, in quanto nuovo, ma detto questo lo considerano comunque non decisivo. La prova dell’omissione stava, infatti, sia nella testimonianza dell’Ispettore dell’Inps sia nella trasmissione della documentazione all’ente di previdenza. Tuttavia, precisano i giudici di legittimità, anche se la Corte d’appello avesse considerato la verifica a campione non sufficiente, non essendo la testimonianza l’unica prova prodotta, questo non sarebbe stato comunque sufficiente ad incidere sulla decisione. In caso di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, infatti, “è irrilevante il numero di lavoratori ai quali si riferisce la condotta omissiva, penalmente sanzionata, la quale si perfeziona nella entità della somma annualmente non versata, indipendentemente dal numero dei lavoratori cui l’omissione è riferita”. In tal caso, precisa la Suprema corte, sarà al massimo, onere della difesa, e non dell’accusa come affermato dal ricorrente, provare il mancato pagamento delle retribuzioni ad alcuni lavoratori e “dedurre la specifica circostanza impeditiva del perfezionamento del reato”. Toscana. Il Garante regionale Fanfani: “Costruire alternative alla detenzione sociale” di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 4 agosto 2020 Abbiamo raggiunto il nuovo Garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani, insediato poco prima del lockdown, ponendo alla sua attenzione alcune delle questioni più urgenti nel panorama carcerario regionale. D. Insediamento e lockdown, sicuramente la pandemia ha frenato l’attività del ruolo cui lei è stato chiamato. Con la ripartenza, quali sono le urgenze che pensa di dovere immediatamente affrontare? R. La pandemia ha frenato la possibilità e l’opportunità di accesso alle carceri, questo certamente. In generale, più che frenare le attività la pandemia le ha orientate, ha dettato l’agenda. Appena nominato mi sono subito rapportato con i Garanti locali, che sono stati molto attivi durante tutto il periodo del lockdown. Con loro ho condiviso le problematiche presenti, carcere per carcere. Come la difficile riduzione delle presenze, fatta via via, misura per misura decisa sul caso singolo grazie all’azione dei magistrati di sorveglianza, visto che la misura generale predisposta dal Governo, parlo dell’art. 123 del DL 18/2020, non ha contribuito granché alla riduzione delle presenze in carcere. Come anche il monitoraggio delle condizioni di salute in carcere durante la pandemia, perché non dimentichiamoci che in Toscana è andata bene, grazie al lavoro costante della Asl, del personale penitenziario e all’occhio vigile dei garanti, ma avrebbe potuto non andare così: l’ufficio del garante ha seguito passo passo l’attività di screening e ha sollecitato l’Assessorato alla salute perché si procedesse celermente. Per la ripartenza: le urgenze sono molte. Prima di tutto il carcere dovrebbe ripartire riaprendosi all’esterno: dovete considerare che, mentre nel mondo esterno le attività sono in gran parte riprese, nel mondo penitenziario solo poche attività hanno ripreso il loro svolgimento come prima. Proprio in questi giorni ho inviato, insieme alla Conferenza toscana del Volontariato penitenziario (abbiamo avuto un incontro, via web, con le associazioni del volontariato penitenziario operanti in Toscana, che mi hanno dato un quadro delle loro attività e del loro grande lavoro) una sollecitazione al Provveditore perché s’impegni per riapertura di tutte le attività. A settembre vorrei confrontarmi, e mi auguro sia possibile farlo in presenza, anche con le altre associazioni che si occupano di carcere, con cui ritengo importante la collaborazione per far sì che la ripartenza sia anche un modo per capitalizzare i miglioramenti ottenuti in questo periodo, per quanto pochi possano sembrare; penso al tema delle videochiamate, su cui credo dovremo batterci insieme, associazioni e garanti, perché siano ripristinate e rese permanenti nei confronti di tutta la popolazione penitenziaria, atteso che hanno dimostrato la grande utilità nel superare l ‘isolamento che la situazione pandemica rendeva inevitabile, nel consentire colloqui con la famiglia, nell’evitare spostamenti che non sarebbero stati possibili altrimenti, ed infine nel contribuire al mantenimento di un equilibrio psichico in un momento difficile per tutti, soprattutto per i reclusi più deboli. È proprio verso questa categoria dei “più deboli” che deve essere incentrato il nostro impegno alla ripresa post-epidemica, quando non sarà più possibile a nessuno trincerarsi dietro la necessità contingente per non perseguire obbiettivi più nobili. I bisogni e gli interventi da fare saranno tanti, e per realizzarli v’è necessità di consapevolezza, di impegno e di consenso politico. Il carcere è un tema che piace poco alla maggioranza delle persone, ma io chiederò ai consiglieri che verranno eletti di essere presenti nel carcere della loro zona elettorale, perché tutti possano rendersi conto di persona e si sentano coinvolti ed impegnati. L’impegno di rappresentanza politica deve essere svolto anche a favore dei reclusi, anche se sappiamo che nella maggioranza dei casi i detenuti non votano e quindi non vengono considerati un elettorato a cui rivolgersi. Vorrei che facessero, insieme a me, delle visite in carcere e che se ne occupassero come una parte integrante del loro territorio. E poi dovremo occuparci della salute mentale, della detenzione femminile, dell’affettività dei detenuti, del lavoro, di tutti quegli aspetti che qualificano la vita come tale e che spesso ai detenuti sono negati e dei quali parliamo nelle righe seguenti. D. Fra le varie, complesse criticità cui lei è chiamato a occuparsi, il problema dei 3 suicidi e un morto avvenuti in poco meno di tre mesi nelle carceri toscane, richiede senz’altro un ulteriore sforzo per fronteggiare un malessere che sta diventando esplosivo, come hanno dimostrato le rivolte che per fortuna hanno avuto ricadute minime, rispetto alle carceri nazionali, in Toscana. Qual è il suo progetto su questo tema? R. Credo che quanto è accaduto sia gravissimo. Come sapete i tre suicidi avevano manifestato disagi psichici. Il tema del disagio psichico è dilagante in carcere: a quelli che vi entrano già con problematiche manifeste, si aggiungono quelli che sviluppano i sintomi durante la detenzione come “effetti collaterali” dell’essere reclusi. Credo sia necessario riflettere ed incidere in modo organico sulla problematica attraverso provvedimenti normativi cogenti, poiché sembra che tutti accettino il suicidio quasi come componente eventuale della vita carceraria, tanto che aldilà del dibattito che ne segue negli ambienti specializzati, alla gente non fa né caldo né freddo. Inoltre, atteso che tutti i soggetti vittime di suicidio hanno manifestato direttamente o indirettamente problemi psichici, bisogna che il sistema carcerario, fino a quando drammaticamente esisterà anche nei loro confronti, si atteggi in maniera del tutto diversa, diagnosticando tempestivamente il problema e gestendolo come fase clinica, e curandolo per come merita. In questa logica di sicuro è importante garantire il servizio medico e psichiatrico in carcere, ma soprattutto cercare il più possibile di andare verso misure esterne, seguendo la direzione indicata dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 99 dello scorso anno. Va da sé, come abbiamo detto, che, inoltre, per evitare o almeno contenere gli “effetti collaterali” della detenzione, bisogna rendere il carcere più vivibile soprattutto nei confronti dei soggetti più fragili; le relazioni con i propri cari sono determinanti, le videochiamate durante il lockdown hanno cambiato la vita di molte persone che da anni vivevano nell’isolamento affettivo; e poi gli incontri dal vivo: lo scorso febbraio il Consiglio regionale della Toscana ha approvato la proposta di legge al Parlamento (grazie al mio predecessore Franco Corleone) per permettere incontri intimi, cioè senza sorveglianza, in apposite unità abitative da realizzare in carcere; mi auguro che il Parlamento provveda presto e che la legge passi, sarebbe un grande gesto di civiltà. Noi nel frattempo lavoreremo per dare suggerimenti operativi. D. Problemi strutturali annosi, come la seconda cucina a Sollicciano o il centro clinico del Don Bosco a Pisa, che, secondo gli operatori e le associazioni, sta andando in malora, al carcere minorile di Firenze, il cui pian terreno è ancora tutto da rifare, sono moltissimi i problemi strutturali che attendono risposta. Quali sono le risposte che intende dare? E quali sono le risorse spendibili? R. I problemi strutturali sono tali, purtroppo, anche nel senso che sono sempre presenti, e questo dovrebbe cambiare. La loro risoluzione dipende dagli interventi pianificati dal MIT che ha uno specifico Piano per gli interventi sugli istituti penitenziari. Ho intenzione di incontrare il Provveditore alle Opere Pubbliche della Toscana per avere un aggiornamento in merito ai lavori programmati. La risposta che intendo dare è di monitorare e stimolare l’azione del Provveditorato. D. La deriva dell’istituzione carcere, da sistema rieducativo e di “cura” a luogo di pena e punizione, è tema sollevato da molte associazioni e specialisti del tema. Quale potrebbe essere una risposta concreta che conduca a limitare l’aspetto punitivo incentivando invece quello che potremmo chiamare il profilo non tanto rieducativo, ma almeno di utilità del carcere nella reintroduzione del detenuto nella società, con qualche speranza di combattere le recidive sempre più alte? R. Il tema riflette una esigenza tanto diffusa quanto inattuata, poiché dei detenuti importa poco alla maggioranza delle persone. Soprattutto il tema è figlio di una concezione vecchia della pena come retribuzione e del carcere come momento esecutivo di essa. Ma per quanto la necessità di superare questo assunto sia intuitiva esso è difficile da estirpare sia perché attuato in tutto il mondo, sia perché la sua sostituzione con strumenti diversi è impegnativa e meno accettata di quanto non sia la facile e diffusa reazione … “buttiamo via le chiavi”. Siamo in un momento difficile in cui il tema della sicurezza si pone come predominante. Dovremmo invece cercare di far passare il messaggio che il carcere è popolato in gran parte da quella che Sandro Margara chiamava “detenzione sociale”, poveracci, miseria economica e culturale. Dovremo lavorare concretamente per costruire delle alternative al ritorno nel circuito dell’illegalità. In questo difficile cammino è necessaria una maturazione culturale ed una determinazione politica che oggi non c’è in nessuno degli attori principali. Basterebbe che questa classe politica anche senza slanci culturali, facesse un po’ di conti, e capisse che se non si recuperano alla vita civile, i detenuti escono dal carcere peggiori di come sono entrati, ed i danari spesi per la loro detenzione son danari buttati via! Mi sono domandato in questi giorni a cosa servono 10-12 anni di carcere inflitti ai giovani che hanno determinato la strage di Corinaldo, ovvero le severe condanne che subiranno gli organizzatori, ovvero ancora quelle che seguiranno le violenze e le devastazioni di oggi a Ponza effettuate da giovani senza cultura, senza formazione sociale, senza responsabilità, figli di una “devianza del benessere”, propria di generazioni che non hanno conosciuto né la guerra, né l’emigrazione, né il lavoro dei campi o delle fabbriche del primo 900, se lo stato non sarà fortemente impegnato al loro recupero. La domanda è diversa e si sintetizza: serve il carcere o serve qualcosa di diverso? Bisogna aver chiaro che queste situazioni non sono casuali e che la segregazione sociale, non è lo strumento per riparare ai danni che questa società ha determinato. Ma far capire queste cose alla politica è come predicare la calma al vento. Cosa fare. Il cammino sarà lungo e forse senza meta, perciò bisogna operare per come si può nella situazione data, iniziando dalla formazione e dalla cultura che alla fine è alla base di tutto, perché è metodo di comprensione. Solo esemplificativamente, in Toscana abbiamo l’esperienza del Polo universitario penitenziario, una bella opportunità che ha permesso a molti detenuti di laurearsi, cosa che prima di entrare in carcere non avrebbero mai pensato. E poi serve il lavoro, dobbiamo sfruttare al massimo le opportunità offerte dalla Legge Smuraglia, una legge di vent’anni fa non abbastanza utilizzata, e le cui opportunità devono essere rese ancor più appetibili attraverso una globalizzazione dei benefici. Mi adopererò alla ripresa perché la Regione Toscana si faccia promotrice di una iniziativa legislativa di supporto. Un altro punto decisivo per migliorare le opportunità di reinserimento e ridurre la recidiva è avere una casa, o almeno un posto in cui stare. Dovremo aumentare l’offerta in questo senso, e potremmo farlo anche utilizzando la progettazione sui fondi della Cassa delle Ammende. D. Rems, ovvero psichiatria e carcere. Continua il doppio binario dell’imputabilità del codice Rocco: assolti per vizio mentale, costretti però a misure restrittive. Una contraddizione che porta fatalmente le nuove Rems a somigliare a piccoli Opg. Come si potrebbe fare per prospettare un percorso di cura reale per questi soggetti, che in concreto li porti a essere considerati pazienti e non detenuti? R. L’esperienza delle Rems è molto positiva: i soggetti che vi entrano in gran parte escono verso programmi di riabilitazione sul territorio, il lavoro fatto all’interno dagli psichiatri è un vero lavoro di cura che niente ha a che vedere con l’OPG. Anche alla pandemia le Rems hanno retto bene, con esperienze di crescita all’interno delle strutture. I problemi non stanno nelle Rems, ma intorno ad esse. Per esempio il numero enorme e crescente delle misure di sicurezza provvisorie, che in alcune strutture occupano la metà dei posti disponibili e che creano liste d’attesa lunghissime. La prima cosa che ci dovremmo domandare è: perché così tante misure provvisorie? Ci sono in realtà dubbi anche sul loro conteggio effettivo. Ma la questione di fondo è: perché i gip ordinano così tante misure provvisorie? Misure detentive intendo. Sappiamo che la riforma per il superamento degli Opg non ha voluto sostituire l’Opg con le Rems, ma con un sistema di misure e servizi sul territorio, tra cui le Rems, che devono essere, come dice la Legge 81/2014 l’extrema ratio. Né deve trarre in inganno la questione di costituzionalità recentemente sollevata dal Tribunale di Tivoli, essendo limitata a problema della competenza a decidere “dove” collocare una persona autore di reato con problemi psichiatrici, mentre il tema principale resta invece la tutela della salute di persone per definizione malate, come la Corte Costituzionale ci ha insegnato con la sua giurisprudenza sulle misure di sicurezza. In Toscana c’è stata l’inaugurazione della nuova Rems di Empoli il 24 luglio scorso. Ha 9 posti letto, con previsione di espansione a 20, che si aggiungono a quelli già presenti a Volterra. La pluralità di strutture permetterà di gestire la complessità dei problemi e le molteplici fattispecie cliniche e terapie, attraverso un confronto utile tra strutture differenti, che potranno sviluppare prassi diverse. Bergamo. “In & Out”, progetto inclusivo per i detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 agosto 2020 Un progetto che punta a dare una nuova opportunità ai detenuti. Si chiama “In & Out” e con esso giunge alla sua fase operativa il protocollo d’intesa sottoscritto il 30 aprile dalla casa circondariale di Bergamo e dal Comune, insieme con Ambiti Distrettuali, Fondazioni, Caritas e da numerosi altri soggetti coinvolti in attività di risocializzazione di persone in esecuzione penale. Intento dell’accordo, portare a sintesi l’esperienza di tante realtà operanti nel settore per ottimizzarne i contributi e individuare un piano comune da realizzare grazie a un bando di 150 mila euro, frutto delle erogazioni di numerosi partner, a cui si aggiungono altri 30mila euro finanziati dalla Fondazione MIA (Congregazione della Misericordia Maggiore). “Grazie a quest’importante esperienza messa in campo da soggetti pubblici e privati sarà possibile superare la frammentazione degli interventi - ha spiegato Marcella Messina, assessore alle politiche sociali del Comune di Bergamo e presidente del Consiglio di rappresentanza dei sindaci -, spesso causa d’inefficacia delle politiche a sostegno delle fasce più fragili, e raggiungere con maggiore determinazione ciò che ci siamo posti come obiettivo”. Quattro i settori d’intervento cui saranno destinate le azioni d’inclusione sociale dei detenuti: accoglienza e inserimento abitativo attraverso percorsi individuali protetti; accompagnamento e inserimento lavorativo; sostegno alle reti familiari e relazionali di persone in esecuzione penale che hanno figli minori; attività interne al carcere quali progetti socio-educativi, lavorativi, sportivi, culturali e musicali. Capofila e cabina di regia del progetto sarà la Fondazione Opera Bonomelli insieme al Comitato Carcere e Territorio che si occuperà di raccogliere fondi. Diversi e complementari i contributi degli altri partner come l’associazione Diakomia che metterà a disposizione una rete di appartamenti “protetti” o come il centro servizi aziendali Coesi che individuerà percorsi di formazione sulla base dei bisogni espressi dal mondo del lavoro. Secondo Teresa Mazzotta, direttrice del carcere di Bergamo, “il protocollo d’intesa rappresenta il coronamento della collaborazione tra l’Istituto e i firmatari che, a vario titolo, operano nel settore dell’esecuzione penale per adulti. Si tratta di una vera e propria galassia di attori che, per la loro specificità, professionalità e competenza garantiscono importanti progetti rivolti alla rieducazione del condannato”. Lucca. Gruppo Volontari Carcere: i frutti dell’orto alla mensa per i poveri toscanaoggi.it, 4 agosto 2020 Silvana Giambastiani (Gruppo Volontari Carcere di Lucca) racconta la nuova iniziativa messa in campo da detenuti ed ex-detenuti con l’orto della Casa San Francesco. Prodotti coltivati, messi a dimora anche durante il lockdown, ora vengono infatti donati a una mensa per i poveri. “Il gruppo volontari carcere è un’associazione che da oltre trenta anni si dedica alla accoglienza, presso la Casa san Francesco, di persone detenute, ammesse a misure alternative, o comunque di persone, uscite dal carcere e in difficoltà”. Già nel mese di marzo, nel periodo di confinamento a casa, causa pandemia, la Casa san Francesco aveva raccontato sulle pagine del settimanale diocesano di Lucca le proprie attività quotidiane, “nel trascorrere Lento delle ore, scandito dalle occupazioni di casa, del pollaio, dell’orto e dalle Lunghe chiacchierate degli ospiti con l’educatore Massimiliano Andreoni” scrive ancora Giambastiani che racconta: “come per ciascuno di noi, attenuatesi le misure di sicurezza sanitaria, anche nella casa si è respirato il lento ritorno a una quasi normalità. Forse il “restate a casa” forzato dagli accadimenti ci ha fatto sperimentare, fortunatamente per poco, quale pena ci sia nell’essere reclusi”. “L’impegno degli ospiti della Casa nell’orto, dei mesi scorsi, ha dato oggi i suoi frutti. Possiamo ammirare a fianco della Casa san Francesco, posta nella comunità di san Pietro a Vico, un orto-giardino, curato e rigoglioso. Si un orto-giardino perché accanto alle verdure sono disposti filari di fiori, (le zinie), dei giganteschi girasoli e uno spaventapasseri che i bambini che passano dalla strada si fermano a guardare, con stupore. La vita delle persone ospiti, segnata da esperienze dolorose, si prospetta ancora molto difficile per la mancanza del lavoro, (mancanza che colpisce oggi anche molte nostre famiglie, purtroppo), e dunque del futuro. Ma anche laddove c’è poco c’è comunque spazio per il dono” Infatti spiega ancora: “Ancorché piccolo il dono è capace di moltiplicarsi, di dare dignità a chi dona anche il poco. e di dare senso di gratitudine a chi riceve. È così che è nata l’idea di offrire i prodotti dell’orto coltivato dagli ospiti della casa, da Mose in primis, per ‘la mensa di solidarietà’ che vede impegnate varie Caritas parrocchiali, tra cui quelle della comunità parrocchiale Santa Gemma. La mensa provvede a procurare, anche attraverso benefattori, e a cucinare cibo, per persone di Lucca e dintorni, tutte le domeniche sera. In più occasioni quanto rimaneva dalla mensa, non consumato, veniva portato alla Casa san Francesco. È nata dunque spontanea l’idea di donare le verdure dell’orto della Casa San Francesco alla “mensa di solidarietà” nello spirito che donare si può, sempre, anche nel poco, con gioia” conclude Silvana Giambastiani. Roma. “I colori dolenti” i detenuti del nuovo complesso di Rebibbia diventano artisti di Rossella Avella interris.it, 4 agosto 2020 In mostra nel carcere opere degli ospiti di Rebibbia “Chi è in una condizione carceraria anche così dura non può non avere una prospettiva”. “I colori dolenti” è il nome della mostra che si terrà nel nuovo complesso del carcere di Rebibbia. I protagonisti sono proprio i nove detenuti oggi artisti e pittori della sezione alta sicurezza Francesco, Vincenzo, Luca (1) e Luca (2), Giuseppe, Ivano, Luigi, Santo e Mario. Insieme, questa mattina, hanno per la prima volta presenziato all’esposizione dei loro lavori nella sala teatro del penitenziario romano. Una passione che parte da lontano - I nove animano il laboratorio artistico di Rebibbia nato nel 2015 su richiesta di alcuni degli stessi detenuti. “Agli inizi - racconta Francesco - non avevamo materiali e mancavano le tele. Disegnavamo su quello che ci capitava come i pacchetti di sigarette”. “Qui ho toccato i pennelli per la prima volta - aggiunge Vincenzo. Con noi c’era un compagno di cella che sapeva dipingere. Poi è tornato in libertà. Gli abbiamo di fatto rubato il mestiere. Quello che oggi abbiamo esposto è frutto soprattutto dei nostri sbagli, non solo in senso metaforico. La pittura ci permette di raccontare quello che non riusciamo a esprimere con le parole”. Il significato del nome della mostra - È proprio Vincenzo, in carcere da 17 anni, a spiegare all’Ansa: “L’idea è nata dopo lo spettacolo teatrale che abbiamo messo in scena nel 2009. Era l’Inferno di Dante e ci colpirono i passaggi in cui il Sommo Poeta scrive “Per me si va nella città dolente” e “lasciate ogni speranza oh voi che entrate!” Noi non siamo stati d’accordo: qui a Rebibbia la speranza non ce la toglie nessuno. I “colori dolenti” sono le nostre esperienze personali, certo, ma non per questo perdiamo la speranza di vita”. Le prospettive di chi vive il carcere - Dei quadri esposti questa mattina a Rebibbia, il critico d’arte Claudio Strinati ha scritto in una lettera letta in teatro: “Chi è in una condizione carceraria anche così dura non può non avere una prospettiva, come ogni altro essere vivente. Questa prospettiva è presente nelle opere che vediamo oggi nella mostra”. “La crescita artistica dei detenuti - spiega Alessandro Reale, direttore del laboratorio artistico -, è sempre stata costante e lo testimoniano i tanti lavori eseguiti che segnalano oltre alla perseveranza nel frequentare il corso”. La realizzazione delle tele - Le tele nate nel laboratorio sono state tutte realizzate con la tecnica ad olio. La mostra è stata introdotta da un video, realizzato dal sostituto commissario di polizia penitenziaria Luigi Giannelli, che entra nelle celle di alta sicurezza e fa parlare i protagonisti. Presenti all’iniziativa, la direttrice del carcere, Rossella Santoro, la senatrice Valeria Fedeli, Luigi Ardini commissario capo comandante, Angela Salvio, magistrato di sorveglianza, Antonella Rasola, direttrice sezione alta sicurezza, e Paolo Masini, presidente BPA - Mamma Roma e i suoi figli migliori, che ha consegnato un premio ai detenuti. La tortura nell’Italia di oggi: dopo la legge è necessario creare anche una nuova cultura di Marta Rizzo La Repubblica, 4 agosto 2020 L’Associazione Antigone diffonde un e-book sulla Tortura nell’Italia di oggi. Lo fa per approfondire un reato in vigore in Italia solo dal 2017 e per il quale è necessario creare una cultura di formazione e informazione. La tortura, in Italia, è diventata reato solo tre anni fa. Fatti attualissimi e ammazzamenti del passato, più o meno recente, manifestano a gran voce la necessità di costruire una vera cultura a tutela delle persone abusate da parte delle forze dell’ordine, per necessità di giustizia e per tutelare chi gestisce l’ordine pubblico con rispetto della vita. Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, e Mauro Palma, Garante nazionale delle Persone Private delle Libertà Personali, chiariscono i rispettivi ruoli nella battaglia giuridica, empirica, sociale contro la tortura. Tortura, un reato troppo recente in Italia. Nel 1989 l’Italia ratifica la Convenzione contro la tortura, già votata il 10 dicembre 1984 dall’Assemblea Generale dell’ONU. La Convenzione impone l’obbligo, per i Paesi aderenti, di inserire nei codici penali una norma specifica che individui e punisca il reato di tortura. L’ Italia ha rimandato questa legge per quasi trent’anni. Fino a 3 anni fa, si è dovuto ricorrere a termini come ‘lesioni’, o “abuso di mezzi di correzione”. E per questi reati, le pene non erano proporzionate ai fatti. Il 14 luglio del 2017, il Parlamento vota una norma che inserisce il reato di tortura, punibile dai 4 ai 10 anni, secondo l’articolo 613bis del Codice Penale (c.p.) L’e-book di Antigone ha lo scopo di valutare le possibilità di miglioramento di una legge che ha molti limiti, ma finalmente esiste. Procedimenti penali in corso contro le torture nelle carceri d’ Italia. Ad oggi, secondo i documenti forniti dall’Associazione Antigone, i procedimenti penali in cui i fatti sono compresi nel reato di tortura e che hanno a che fare con il contesto penitenziario, sono i seguenti: 1. Monza: nell’agosto 2019 si registra un’aggressione fisica subita da un detenuto da parte di più agenti di polizia penitenziaria. A fine settembre, Antigone presenta un esposto, che si affianca alla denuncia della vittima. Il magistrato acquisisce le videoregistrazioni relative al fatto. Nel febbraio 2020 è stato avviato il procedimento per tortura contro gli agenti. Le indagini sono attualmente in corso. 2. San Gimignano. A ottobre 2018 un detenuto tunisino avrebbe subito pestaggi brutali. La Procura di Siena, nell’ottobre del 2019, ha contestato il reato di tortura a 15 agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione. Nei confronti di 4 poliziotti, il Dap dispone la sospensione dal servizio. Al termine del periodo, i 4 rientrano in servizio. Antigone è nel procedimento perché a dicembre 2019 ha presentato un proprio esposto sui fatti. L’udienza preliminare è stata fissata il 23 aprile 2020, ma a causa dell’emergenza Covid 19 è rinviata al 10 settembre prossimo. 3. Torino. I fatti sono del 2017: decine di episodi di violenza denunciati dalla Garante comunale. Sono coinvolti 25 agenti e il comandante di Reparto e il direttore del carcere. Antigone presenta un suo esposto per le vicende della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, dopo quello presentato dal Garante nazionale. L’inchiesta è condotta dal Nic, gruppo investigativo della Polizia Penitenziaria. Le indagini sono in corso. Gli agenti sono indagati per tortura. Per altro titolo di reato sono indagati il direttore della Casa Circondariale, il Comandante di reparto, un leader sindacale. Il Dap, a fine luglio 2020, ha assunto nei confronti di tutti provvedimenti disciplinari. Direttore e comandante sono stati spostati in altro istituto. 4. Palermo. A gennaio 2020 Antigone viene a conoscenza di maltrattamenti verso un detenuto, il quale in Corte di Assise di Appello di Palermo, rende dichiarazioni spontanee, denunciando le violenze subite all’arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura. Antigone presenta un esposto contro gli agenti per tortura e contro i medici per non avere accertato le lesioni. Le indagini sono attualmente in corso. 5. Milano. A marzo 2020, durante l’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del Covid19, Antigone viene contattata da familiari di persone detenute nel Carcere di Opera, per le violenze, gli abusi e i maltrattamenti, subiti dai familiari in data il 9 marzo 2020, come punizione per la rivolta scoppiata nel I Reparto. Antigone presenta un esposto per tortura. 6. Melfi. A marzo 2020 Antigone viene contattata dai familiari di persone detenute nel carcere di Melfi, le quali denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni per d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito loro di andare in bagno e avrebbero dovuto firmare dichiarazioni in cui attestavano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone presenta un esposto contro polizia penitenziaria e medici per violenze e torture. 7. Santa Maria Capua Vetere. Nell’aprile 2020 Antigone viene contattata dai familiari di persone detenute nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere per abusi, violenze e torture subite dai familiari. Le violenze sarebbero avvenute il 6 aprile 2020 come ritorsione per la protesta del giorno precedente dopo la notizia secondo cui nell’istituto ci fosse una persona positiva al coronavirus. I medici avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. A fine aprile 2020 Antigone presenta un esposto per tortura e percosse contro gli agenti di polizia penitenziaria e per omissione di referto, falso e favoreggiamento contro i medici. 8. Pavia. A marzo 2020 Antigone è contattata dai familiari di alcuni detenuti nel carcere di Pavia che hanno denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari subiti dai familiari a seguito delle proteste di qualche giorno prima. La polizia avrebbe usato violenza e colpito e insultato diversi detenuti, privandoli degli indumenti e lasciandoli senza cibo. Ai detenuti in trasferimento non sarebbe stato permesso di portare nulla dei propri effetti personali, né di avvisare i familiari. A fine aprile Antigone presenta un esposto contro la polizia penitenziaria per violenze tortura. Le indagini sono in corso. “Nessun Paese è indenne dalla tortura”. “La Tortura - dice il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - non riguarda solo i Paesi in guerra e nessuno Stato è indenne da questo crimine contrario alla dignità umana. Per prevenire la tortura, chi governa deve essere costantemente vigile e consapevole del fatto che è necessaria una grande rete di prevenzione, da attuarsi attraverso l’informazione e la formazione del personale delle forze di Polizia, affinché tutti siano consapevoli che la connivenza con l’estorsione di confessioni, l’umiliazione, l’esaltazione del proprio ruolo di poliziotto, sono reati gravissimi. Va costruita una cultura della legalità, che diventi ‘Sistema’. Senza dimenticare che tra le forze dell’ordine vi sono persone che lavorano in modo coerente con la loro funzione. Deve essere però chiaro a tutti che per fare carriera non si lavora sulla quantità degli arresti, ma sulla qualità del proprio lavoro. Inoltre, bisogna dare un messaggio forte: in ogni procedimento penale per tortura, in carcere o nelle caserme, lo Stato deve chiedere la propria costituzione di Parte Civile, dimostrando di essere dalla parte delle vittime, non dei carnefici”. “Reato insopportabile nella contemporaneità”. “In Italia - conclude Gonnella - siamo arrivati con drammatico ritardo all’introduzione del reato di Tortura nel c.p. e abbiamo una legge non approvata all’unanimità: il che dimostra una non reale attenzione ai diritti umani. L’articolo 613bis del c.p, per quanto ancora involuto, viene applicato dai giudici. Ma bisogna costruire un’idonea giurisprudenza intorno a questo tema e una precisa comunicazione tra i cittadini. Alcuni casi di tortura arrivano più facilmente all’attenzione dei media. Questo perché ci sono inchieste con prove evidenti (come la recente vicenda della Caserma di Piacenza, o, anni fa, ad Asti, a Torino). Le intercettazioni alle volte sono prove nette e, quindi, la ricostruzione è facile e con una inevitabile ammissione di reato di tortura. Altre volte, sono i parenti delle vittime a portare avanti un faticoso percorso di ricostruzione della verità, per i propri cari morti ammazzati. Antigone si pone al centro di alcuni procedimenti penali contro la tortura perché crediamo nella giustizia, internazionale e interna, che è una garanzia per tutti. Le forze di Polizia stesse devono farsi portavoce di come la tortura sia un reato insopportabile nella contemporaneità”. Garante e Antigone: ponte tra istituzioni e società. “La figura del Garante nazionale delle Persone private delle Libertà Personali ha uno sguardo intrusivo - dice Mauro Palma, Garante nazionale - Possiamo cioè avere accesso a ogni documento. Per esempio, sto richiedendo, nei casi di segnalazioni di violenza e maltrattamenti, le videoregistrazioni di tutte le telecamere presenti all’interno degli istituti coinvolti. Dopo le visite e l’acquisizione di tutti i documenti, il Garante nazionale produce raccomandazioni: verificare quanto queste abbiano poi trovato realizzazione, è un’attività che gli osservatori di Antigone possono e devono svolgere, stabilendo così un rapporto tra Garante e società civile”. “Non concedere nulla all’impunità”. “Un rapporto molto utile a noi - ha detto ancora Palma - per sapere se e come le cose siano cambiate dopo la nostra visita e il Rapporto su di essa inviato alle autorità responsabili; e molto utile, più in generale, per la costruzione di una rete di osservazione. Rete di osservazione che è l’ultimo tassello di un atteggiamento preventivo. Perché mentre guardiamo positivamente alla capacità di reagire, anche facendo ricorso a una fattispecie penale così forte come è la previsione dell’articolo 613bis del codice penale, dimostrando la volontà di non concedere nulla all’impunità, non dobbiamo perdere l’obiettivo di costruire un sistema dove non ci sia bisogno di ricorrere a tale fattispecie, perché siamo riusciti a prevenire simili comportamenti e a fare in modo che maltrattamenti e offese alla dignità delle persone ristrette non si verifichino”. Stato di eccezione o stato di confusione? di Alberto Leiss Il Manifesto, 4 agosto 2020 Il Covid, l’estate, la voglia di muoversi per andare in vacanza e l’improvvisazione della politica. Tutto concorre a creare “confusione”, la vicenda dei treni ne è un fulgido esempio. Amici in vacanza in Campania mi dicono che a Capri, contro le trasgressioni alle regole anti-coronavirus, sono intervenuti persino i cani poliziotto nelle aree delle varie tumultuose movide. In rete trovo conferma della notizia, solo che le operazioni - condotte dai Carabinieri in effetti con un certo dispiegamento di mezzi, dell’aria e del mare, e di uomini accompagnati dai fedeli segugi a quattro zampe - erano dirette a intercettare traffici di droga. Qualcosa è stato trovato, compresi - a quanto leggo - guidatori di imbarcazioni in “stato di ebbrezza”. Siamo tutti più o meno stressati dal caldo e dalle notizie sul virus e a volte facciamo confusione. Ma come non confondersi per come stanno andando le cose? Confusione, antica parola latina, dal significato chiaro: se le cose si fondono insieme non si distinguono più le une dalle altre, e “il discernimento pare impossibile”, scrive il bel sito Una parola al giorno: quindi non si tratta di “un semplice sbalestramento perché ho preso una botta in testa, anzi è estremamente specifico e complesso: lo stato confusionale è un’impossibilità di organizzare la massa variegata di stimoli che si ricevono”. I fatti si accavallano sotto i nostri stanchi occhi, le informazioni si contraddicono da un medium all’altro. Anche voi state pensando alla faccenda dei treni di questi giorni? Dunque - a quanto, forse, ho capito - c’era una volta un decreto governativo che impone in tutti i luoghi chiusi, compresi mezzi di trasporto, distanziamento e mascherine. Il famoso metro, più o meno “statico” (per citare una delle cangianti invenzioni normative diffuse dal ministero dell’istruzione). Il decreto però, come quasi tutte le italiche leggi, prevede “deroghe”. Quindi l’affollamento dei treni era perfettamente legale. Ma il ministro della sanità, dopo severi rimbrotti del Comitato tecnico scientifico, e telefonate forse burrascose con la collega dei Trasporti, emette l’ordinanza: immediato dietrofront, sui treni distanziamento obbligatorio! Non è nemmeno chiaro, altresì, quanto può ordinare l’ordinanza, e le Regioni del Nord - quantomeno sui trasporti pubblici locali - si guardano dall’applicarla. Trenitalia si affanna a promettere rimborsi dei biglietti e viaggi alternativi ai malcapitati che si accalcano nelle stazioni. Italo invece sopprime addirittura numerosi convogli. Ma come, verrebbe da pensare, se i posti diminuiscono obbligatoriamente per difendersi dal virus, e un sacco di gente vorrebbe andare in vacanza, i treni, semmai, dovrebbero poter essere moltiplicati! I capi dell’azienda si difendono dicendo che sarebbero stati “illegali”. L’osservatore incredulo si domanda: ma era proprio impossibile trovare una soluzione un po’ diversa? Che so, concordare un periodo di qualche giorno per tornare alla “normalità” del distanziamento, lasciando magari ai cittadini la scelta di rinunciare al viaggio (ma con rimborso del biglietto) e non creare, o almeno limitare, questa specie di pandemonio? Lo “stato di emergenza”, appena prorogato, forse non prevede l’uso del buonsenso. L’ottimo Sabino Cassese si affanna a ripetere - ieri sulle pagine del Corriere della sera - che le riforme più urgenti, e persino poco costose, sarebbero quelle in grado di rimettere un pochino in funzione il variopinto apparato tardo bizantino dello Stato. Anche lui, però, ha ceduto alla tentazione di confondersi con i Salvini e i Bocelli anti-mascherine in un convegno al Senato un tantino confuso. Si temeva una cupa deriva autoritaria della cara Repubblica verso lo “stato di eccezione”. Siamo invece precipitati in un originale “stato di confusione”, temo permanente. Esiste ancora chi prova pietà di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 agosto 2020 Quello che colpisce e indigna però è chi, di fronte a un corpo in fiamme, invece di correre ad aiutare, si è messo a registrare l’orrore. Primo agosto. A Ombriano, quartiere suburbano di Crema, poco lontano da un ristorante, una donna si cosparge di benzina e si dà fuoco. Un uomo che passa in auto, frena e corre cercando di aiutarla. Ma è tardi. La donna muore soffocata. Quando il soccorritore, scoraggiato, sudato e nero di fumo, si rivolge verso il ristorante per chiedere che chiamino una ambulanza, si accorge che gli avventori stanno fermi in piedi a filmare con il cellulare la scena. A questo punto l’uomo scrive una lettera alla sindaca di Crema, Stefania Bonaldi e lei la rende pubblica. “Mentre passavo in auto con mia moglie, ho visto la donna bruciare, sono corso cercando di spegnere quello che potevo con un asciugamano da palestra. La signora bruciava e io ero l’unico che cercava di fare qualcosa. In compenso una ventina di persone con il telefonino, riprendeva la scena”... La sindaca commenta sbigottita “Ma cosa siamo diventati!”. Non sappiamo perché la povera donna abbia voluto morire in questo modo orribile. La sua disperazione doveva essere grande, il suo dolore di vivere, senza rimedio. Ma questo succede storicamente alle donne disperate: se la prendono con se stesse anziché con chi le fa stare male. Hanno introiettato con tanta costanza i sensi di colpa da trasformarsi spesso in aguzzine di sé stesse. Che il fuoco sia un modo di cancellare un corpo odiato ce lo dice la cronaca, e il passato è carico di notizie su donne bruciate vive, cominciando dalle streghe della Controriforma, alle Yazide di questi giorni: 19 donne che avevano rifiutato di diventare schiave sessuali e sono state messe al rogo dalla famigerata e impietosa Isis. Quello che colpisce e indigna però è chi, di fronte a un corpo in fiamme, invece di correre ad aiutare, si è messo a registrare l’orrore. Non sono mai stata convinta delle teorie di radicale pessimismo di Baudrillard, ma in questo caso non si può non concordare con la sua idea che nell’era della comunicazione virtuale i fatti scompaiono cedendo il posto a una apparenza che è la mistificazione del vero. Insomma non distinguiamo più la realtà dalla rappresentazione. E l’abitudine alla contraffazione sistematica del racconto pilotato dai media ci ha definitivamente allontanati dalla conoscenza del dolore. Per fortuna una persona c’è stata che ha reagito umanamente e su di lui e su coloro come lui si basa la speranza di un futuro non del tutto morto. Il legislatore intervenga sul suicidio assistito e non deleghi più ai giudici di Cristiano Cupelli* Il Dubbio, 4 agosto 2020 Dopo l’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby per il caso di Davide Trentini. L’assoluzione dal reato di istigazione e aiuto al suicidio pronunciata nei giorni scorsi dalla Corte di Assise di Massa nei riguardi di Marco Cappato e Mina Welby - accusati di avere accompagnato a morire, in una clinica svizzera, Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo, ormai invalido e con necessità di assistenza continua - spinge a riflettere su come il dibattito odierno sull’autodeterminazione individuale in ambito terapeutico si sia spostato dal versante del rifiuto di cure vitali ai nuovi spazi di liceità di talune condotte di agevolazione al suicidio, così come riconosciuti dalla Corte costituzionale nella doppia pronuncia (ordinanza n. 207 del 2018 e sentenza n. 242 del 2019) con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità dell’art. 580 c. p., per violazione degli artt. 2, 13 e 32, co. 2, Cost. Come si ricorderà, la sentenza n. 242 - originata, nell’ambito della ben nota storia di Fabiano Antoniani, dai dubbi di legittimità sollevati, con ordinanza 14 febbraio 2018, dai giudici della Corte di Assise di Milano nel processo a carico sempre di Marco Cappato - ha escluso “la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Al fine di scongiurare il rischio di abusi per la vita di persone in situazioni di estrema vulnerabilità, la Corte ha altresì individuato alcune garanzie procedimentali legittimanti la decisione di alcuni pazienti di liberarsi dalle proprie sofferenze attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte (delineando, sul fronte penalistico, un meccanismo di esclusione della responsabilità penale fondato su una giustificazione procedurale); la verifica di tali condizioni è stata affidata, “in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore”, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, cui spetterà vagliare anche “le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. L’inevitabile residuare di significative incertezze - nonostante le sentenze assolutorie dapprima della Corte di Assise di Milano e ora di quella di Massa - conferma l’indifferibilità di un intervento del legislatore, chiamato a portare a compimento il percorso aperto in sede giurisprudenziale. Non va dimenticato come la prima decisione assunta dalla Corte costituzionale nel 2018 fu quella di rinviare la trattazione, mossa dal proposito di consentire al Parlamento, in nome dell’invocato “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, l’esercizio delle proprie prerogative. Già all’epoca, dettando le coordinate di razionalità dell’auspicato intervento legislativo, la Corte aveva intrapreso una preziosa opera di bilanciamento di interessi e beni contrapposti (autodeterminazione individuale da una parte e protezione della vita dall’altra) che ora il legislatore è chiamato a completare; è questo il significato dell’auspicio conclusivo contenuto nella sentenza n. 242 a che “la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente annunciati”. Seppure i segnali non siano incoraggianti, una ripresa del cammino parlamentare appare ineludibile e non potrà che muovere dal contributo offerto dai giudici costituzionali, a partire dalle condizioni in presenza delle quali ritenere lecita l’assistenza al suicidio e dal loro grado di vincolatività. Sul fronte penalistico, in particolare, la valutazione andrà estesa alla “soluzione tecnica” da prediligere per concretizzare l’esigenza di adeguamento costituzionale: esclusione della tipicità ovvero, come pare preferibile, scriminante procedurale? Nel primo caso, intervenendo direttamente sull’articolo 580 c. p.; nel secondo, coerentemente col percorso argomentativo seguito dalla Corte, operando nel corpo della legge n. 219 del 2017 (in particolare sull’art. 2): ciò che è certo è che occorrerà meglio tipizzare condizioni e presupposti di liceità e individuare adeguati rimedi per scongiurare eccessi di burocratizzazione che possano spersonalizzare e ridurre a mere formalità le procedure da seguire per legittimare agevolazioni al suicidio. Oltre a garantire un effettivo potenziamento del sistema di cure palliative, non si potrà non affrontare poi il tema dei “casi analoghi” diversi da quelli sottratti dalla Corte costituzionale alla punibilità ex art. 580 c. p.; fra questi, anche l’ipotesi di chi - come Davide Trentini - versi in condizioni di malattia grave e irreversibile (sovrapponibili a quelle di Antoniani), ma non sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (come il respiratore artificiale) in quanto supportato unicamente da presidi farmacologici. Occorrerà chiarire se davvero, come ritenuto dai giudici di Massa, possa accedersi a un’interpretazione estensiva di quei “trattamenti di sostegno vitale” evocati dalla Corte costituzionale tale da ricomprendervi anche le terapie farmacologiche antidolorifiche e antispastiche. L’auspicio è che il legislatore vinca la tentazione di tergiversare ulteriormente accontentandosi delle decisioni dei giudici e superi la ritrosia sin qui manifestata nell’affrontare una questione tanto fondamentale quanto percepita, a livello politico, come elettoralmente non redditizia. *Professore di Diritto penale, Università Tor Vergata Omotransfobia, la legge in aula alla Camera dopo vent’anni di tentativi mancati di Monica Rubino La Repubblica, 4 agosto 2020 Nel 1999 la prima iniziativa del parlamentare Ppi Paolo Palma. Che cosa prevede il ddl Zan, le obiezioni di una parte del mondo femminista e l’opposizione della destra e del Family day. La legge contro l’omofobia è approdata oggi nell’aula della Camera per la discussione generale ma è solo l’ultimo di una serie di sforzi andati a vuoto nell’arco di un ventennio per arginare le discriminazioni e le violenze fondate su sesso e orientamento sessuale. Se le ultime tre legislature hanno visto impegnati soprattutto militanti del mondo gay (da Franco Grillini a Sergio Lo Giudice, da Paola Concia fino all’attuale relatore del Pd Alessandro Zan), il primo tentativo fu affidato nel 1999 ad un relatore cattolico, il deputato del Ppi Paolo Palma, incaricato di tessere rapporti con la Cei per evitare una guerra di religione. Alla Camera erano state depositate due proposte di legge, una da Nichi Vendola, allora esponente del Prc, ed una da Antonio Soda, giurista dei Ds. Nell’ottobre 1998 il governo D’Alema era nato con una rottura a sinistra proprio con il Prc e la maggioranza voleva “coprirsi” a sinistra mandando avanti temi sui diritti civili. Il primo luglio del ‘99 Palma presentò dunque il testo unificato in commissione. Come l’attuale testo Zan, si estendevano le sanzioni penali della legge Mancino ai comportamenti violenti o discriminatori motivati da ragioni di “orientamento sessuale”. In più vi erano norme sulla privacy e misure antidiscriminatorie sul lavoro e nella scuola. Il testo ebbe l’appoggio del governo e il sostegno della maggioranza (Ppi, Ds, Verdi, Socialisti) e del Prc. Ma la destra oppose un netto rifiuto, seguito a settembre da una bocciatura senza appello da parte della Cei. Successivamente il governo preannunciò un proprio ddl che bloccò l’iter della legge Palma. Ma, dopo la sconfitta del centrosinistra alle regionali del 2000, l’esecutivo D’Alema cadde. E la legge contro l’omofobia venne accantonata. Che cosa prevede la legge Zan - Il testo Zan che arriva oggi nell’aula di Montecitorio si riallaccia, come accennato, alla legge Mancino che contrasta i reati di razzismo e prevede il carcere da uno ai quattro anni per chi istiga alla violenza omofobica intervenendo sull’articolo 604 bis del codice penale. C’è poi una parte non repressiva ma che mira a diffondere una cultura della tolleranza. In particolare viene istituita una data italiana, il giorno 17 maggio, quale “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia” e un emendamento approvato in commissione Giustizia ha reso meno impegnativo il riferimento alle scuole. Le critiche della destra e del Family day - Restano nettamente contrari al ddl Zan Lega e Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia ha sin dall’inizio lasciato libertà di scelta ai propri parlamentari. Per rispondere alle accuse di Lega e FdI secondo cui la legge rappresenta “un bavaglio alla libertà d’espressione e di opinione” che apre la strada a “pericolose derive liberticide”, Pd, M5S e Italia Viva, appoggiati anche da Forza Italia, hanno votato in commissione la cosiddetta “clausola salva idee”, che esclude cioè dal reato di omotransfobia e misoginia affermazioni e frasi che rappresentino “la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio e alla violenza”. Il popolo del Family day leva gli scudi contro la legge. Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente di Pro Vita e Famiglia onlus annunciano di aver “sporto una denuncia-querela contro l’onorevole Alessandro Zan per aver pronunciato le seguenti frasi a Verona: ‘Piazze dell’odio, dell’esclusione, della violenza’ riferite alle nostre pacifiche manifestazioni”. Migranti. Conte: “Non tolleriamo ingressi irregolari” di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 4 agosto 2020 A Lampedusa barchini e una nave per la quarantena. Il presidente del consiglio ribadisce la linea già tracciata dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese. Nella notte arrivati in 200. Arrivano anche le unità per la quarantena. “Non possiamo tollerare che si entri in Italia in modo irregolare”: il premier Giuseppe Conte ribadisce la linea già annunciata alcuni giorni fa in materia di immigrazione dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese. E annuncia l’aumento dei rimpatri rapidi verso la Tunisia e il rafforzamento delle misure di contenimento. Le parole del governo arrivano nel giorno in cui l’isola di Lampedusa assiste a nuovi sbarchi nella notte e attende l’arrivo della nave da mille posti che ospiterà gli stranieri in quarantena dando respiro all’hotspot dell’isola. Le parole di Conte - “Non possiamo tollerare che si entri in Italia in modo irregolare. Tanto più non possiamo tollerare che in questo momento in cui la comunità internazionale intera ha fatto tantissimi sacrifici, questo risultati siano vanificati” ha detto Conte nel Foggiano a margine di un incontro sulla legalità. “Addirittura ci sono migranti che tentato di sfuggire alla sorveglianza sanitaria. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo essere duri e inflessibili”, aggiunge il premier. “Stiamo collaborando con le autorità tunisine. È quella la strada. Io stesso ho scritto una lettera al presidente tunisino e sono contento che abbia fatto visita ai porti per rafforzare la sorveglianza costiera”. Nella notte arrivati in 200 - Intanto a Lampedusa gli arrivi proseguono: nella notte si sono succeduti otto sbarchi per un totale di 200 persone; alcune imbarcazioni sono approdate autonomamente, altre hanno avuto bisogno dell’aiuto della Guardia costiera. Nel centro di accoglienza si trovano adesso 1050 stranieri fronte di una capienza dieci volte inferiore. Due navi per la quarantena - La situazione dovrebbe migliorare a partire da domani. nella notte è previsto infatti l’arrivo a Lampedusa di una nave da adibire a quarantena. Lo ha confermato l’assessore alla sanità della Regione Sicilia Ruggero Razza: “Mi è stato confermato dal Dipartimento dell’immigrazione - ha detto - che questa notte verrà portata una nave, vedremo come questo protocollo affidato alla Croce rossa potrà realizzarsi”. Una seconda nave, sempre destinata a ospitare migranti per il periodo di quarantena è attraccata a Porto Empedocle. Si tratta della “Azzurra” appartenente alla compagnia Grandi navi veloci. Proprio a Porto Empedocle oggi si è registrata un’altra fuga di migranti: circa 50 di loro hanno lasciato la tensostruttura che funziona da centro di accoglienza. Le ricerche sono scattate immediatamente ma nel frattempo una parte dei fuggitivi è rientrata spontaneamente. Migranti. La nave quarantena arriva a Lampedusa. A Porto Empedocle esplode la rivolta di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 agosto 2020 Nuova polemica tra alleati di governo, Crimi: “Proporre lo Ius culturae è inopportuno”. Orfini: “I 5S sono sconcertanti”. In circa 200, quasi tutti tunisini, sono approdati a Lampedusa su otto barchini tra domenica notte e l’alba di ieri, inclusi i 65 segnalati da Alarm phone. Metà delle imbarcazioni hanno raggiunto la costa in modo autonomo, gli altri sono stati agganciati dalle motovedette. I migranti sono stati trasferiti nell’hotspot di contrada Imbriacola, dove gli ospiti sono risaliti a 910, a fronte dei 95 posti previsti. In 3 hanno provato la fuga ma sono stati ripresi. Il sindaco Totò Martello nel Cpa ne contava 1.050: “Se non c’è il maltempo, l’emergenza non l’arresta nessuno - ha commentato ieri -. Il governo deve intervenire, l’Europa è assente. È brutto che tutto il peso dell’immigrazione debba ricadere sulla popolazione”. I trasferimenti non riescono a tenere il ritmo degli sbarchi così il Viminale ha inviato Azzurra, la nave per la quarantena noleggiata dal ministero con una procedura lampo. L’arrivo è previsto per stamattina, dopo aver superato ieri i controlli a Porto Empedocle, dove la gestione dell’accoglienza resta difficile. Ieri mattina nel comune dell’agrigentino si è diffusa la notizia di una seconda fuga dal centro: circa 50 persone su 370 (la capienza è di 100), anche in questo caso soprattutto tunisini, hanno scavalcato la recensione per dileguarsi. Partite le ricerche, in serata ne mancavano ancora 25. La tensione era altissima al punto che i migranti hanno protestato con il lancio di oggetti verso i carabinieri. “Qualcuno non ha mai visto la tensostruttura di Porto Empedocle e non ha dunque la piena consapevolezza di come non si possano tenere centinaia di persone sotto il sole siciliano. A Lampedusa non ci sono rivolte. Cosa che invece accade a Porto Empedocle”, ha spiegato la sindaca Ida Carmina. Nel pomeriggio la prefettura ha cercato di ridimensionare l’accaduto: “Non risultano migranti fuggiti, c’è stata una protesta perché fa molto caldo, hanno rifiutato il cibo. Sono stati fatti uscire sul piazzale antistante la struttura, seduti a terra nel recinto vigilati dalle forze dell’ordine”. Altri quattro sono scappati dal centro di accoglienza di Bisconte a Messina. Stamattina i migranti di Porto Empedocle verranno trasferiti, probabilmente verso Caltanissetta. Mentre Azzurra, del gruppo Grandi navi veloci, arriva a Lampedusa: il mega traghetto può accogliere 700 migranti più il personale di bordo, forze di polizia e Croce rossa. La nave servirà ad allentare la tensione nell’hotspot. Spetterà alla Capitaneria di porto stabilire se rimarrà in rada o se tornerà verso le coste siciliane. I numeri dicono che comunque non basta. È stata avviata una nuova gara per il reperimento di una seconda nave, che potrebbe ugualmente andare in Sicilia. Il governo ha predisposto anche un’altra soluzione. Tra Vizzini e Militello in provincia di Catania, la Croce rossa sta costruendo, su disposizione del Viminale, una struttura d’emergenza per i migranti in quarantena. Il centro è stato sistemato all’interno di un deposito in disuso dell’Aeronautica militare, in contrada Salonia. E un altro sarebbe in via di realizzazione, ma non in Sicilia. “Pensare che si possa creare una tensostruttura o una tendopoli con centinaia di migranti in un sito Unesco è un controsenso” il commento dell’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza. Ancora sul fronte migranti, prosegue la polemica tra alleati di governo. La scorsa settimana il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, aveva dichiarato: “Sullo ius culturae non mollo, sono sicuro che arriverà anche questo risultato”. Ieri il ministro per i Rapporti con il parlamento, Federico D’Incà, ha liquidato l’idea: “Come M5S siamo concentrati sul rilancio economico”. Più drastico il reggente Vito Crimi: “La proposta del Pd è inopportuna e intempestiva”. Ma il dem Matteo Orfini ha replicato: “Delrio non ha detto nulla di sconvolgente. È la reazione dei 5s a essere sconcertante. Le Camere possano fare più cose insieme. Credo si debba procedere su questo”. Giornata di tragedie nel Mediterraneo. Almeno 7 migranti (5 donne) sono morti davanti alle coste marocchine, nei pressi di Tarfaya, cercando di raggiungere le Canarie. Tre corpi senza vita sono stati trovati su una spiaggia nella zona di Ghot Romman a Tajoura, a est della capitale libica Tripoli. Quattro i cadaveri recuperati nelle acque turche al largo di Foca, in provincia di Smirne, dopo che un’imbarcazione di fortuna con a bordo nove migranti si è ribaltata nell’Egeo. Egitto. “Io, esiliato dopo il carcere e le torture, oggi aspetto Patrick” di Alice Facchini redattoresociale.it, 4 agosto 2020 Ibrahim Heggi è il portavoce europeo del Movimento 6 Aprile: dopo 21 giorni di detenzione, nel 2008 si è trasferito a Milano, e oggi non può tornare nel suo paese perché sarebbe troppo pericoloso. “Stesso destino potrebbe capitare a Patrick dopo la liberazione”. “Molti prigionieri politici, dopo la liberazione, vengono lasciati espatriare, poi a processo vengono condannati con accuse talmente pesanti che non possono più tornare in Egitto. Di fatto, quindi, sono esiliati. È quello che probabilmente accadrebbe a Patrick se venisse rilasciato”. Attivista per i diritti umani, 37 anni, una laurea in ingegneria meccanica, Ibrahim Heggi oggi vive a Milano e lavora come mediatore culturale. È il portavoce europeo del Movimento 6 Aprile, nato per sostenere gli operai di El-Mahalla El-Kubra nel grande sciopero generale del 2008 contro il governo Mubarak. Da allora il movimento lotta al fianco dei cittadini egiziani per chiedere maggiore libertà e tutela dei diritti: tra le altre cose il gruppo rivendica la liberazione dell’ennesimo prigioniero politico del regime, Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna detenuto dal 7 febbraio nel carcere di Tora del Cairo, con le accuse di terrorismo e sovversione. “Anche io ho trascorso 21 giorni nelle carceri egiziane, dopo la grande manifestazione del 2008: sono stato minacciato, picchiato, torturato - racconta Ibrahim -. Ho vissuto un’esperienza devastante a livello psicologico, ma niente in confronto alle torture che avvengono oggi sotto il regime di Al-Sisi, che è molto più feroce. Rispetto a ora, il clima che c’era sotto Mubarak era più aperto e in un certo senso libero. Da quando è al potere Al-Sisi, tutti quelli che hanno qualcosa contro il regime militare devono pagare: islamisti, comunisti, nazionalisti, giornalisti, avvocati, ricercatori… non importa chi sia, chiunque parli di diritti umani viene massacrato”. Una volta libero, Ibrahim ha lasciato l’Egitto, prendendo la via dell’esilio volontario. “Ricordo che mio padre mi disse: ‘Stai andando avanti in modo sbagliato: se vuoi davvero cambiare il mondo devi andare via da questo paese”. Così ha fatto le valigie e si è trasferito in Italia, dove viveva già sua sorella. Da allora è tornato in Egitto solo una volta, nell’agosto del 2011, per seguire da vicino il fermento rivoluzionario di piazza Tahrir. “Avevo deciso che era arrivato il momento di tornare - spiega -. Mi mancava la piazza, mi mancava quel pezzo nella vita. Eppure, subito mi sono reso conto che in quei tre anni la situazione era peggiorata ulteriormente: le violazioni dei diritti umani erano più gravi, la repressione più dura, e l’esercito sparava sui giovani per strada”. Così l’11 settembre 2011 Ibrahim torna in Italia, questa volta per non tornare più: “È da allora che non vedo i miei genitori - afferma -. La mia famiglia non è al sicuro, so di essere controllato anche a distanza e così sui social tengo sempre un basso profilo. Continuo a fare attivismo ma restando nell’ombra, non cerco visibilità”. Ibrahim non ha capi di accusa pendenti su di sé, ma ha ricevuto consigli di amici e avvocati che gli hanno suggerito di non tornare. Soprattutto dopo l’omicidio di Giulio Regeni, dato che ha collaborato alle indagini. “È la stessa cosa che potrebbe succedere a Patrick dopo la liberazione: il regime ha questa strategia - spiega -. Gli egiziani vengono arrestati, vivono un’esperienza molto traumatica in carcere, poi vengono liberati come se fosse un gesto di grazia del presidente. Quando sei fuori, cominci a ricevere messaggi più o meno diretti che ti ‘invitano’ ad andartene all’estero: spingono il tuo capo a licenziarti, montano campagne mediatiche contro di te, ti estromettono dal partito, danneggiano la tua attività economica… Insomma, ti fanno terra bruciata intorno. A volte ci sono anche attacchi fisici, pestaggi, o minacce telefoniche: ‘O te ne vai o verrai ucciso’. Così finisci per espatriare, e intanto il processo giudiziario va avanti: dopo qualche mese arriva la condanna, di solito pesantissima, e così non puoi più tornare in patria”. È quello che è successo a Ahmed Samih, direttore dell’Andalus institute for tolerance and anti-violence studies, che nel 2012 durante un viaggio in Uganda è stato avvertito di non tornare in Egitto, perché avrebbe rischiato l’arresto. Nel 2016 è stata poi la volta del medico Taher Mokhtar, che dopo mesi di carcere è dovuto scappare in Libano e poi in Francia: su di lui pesa una condanna a 10 anni di detenzione. Sempre nello stesso anno è toccato anche a Ahmed Said, poeta e difensore dei diritti umani, che è uscito dal carcere con un’amnistia presidenziale e si è trasferito in Germania. Da allora non è potuto tornare più, ma ha continuato a essere molto attivo sui social. Presto però sono arrivate le ripercussioni: hanno arrestato sua madre e l’hanno rilasciata solo dopo qualche giorno, dopo che Ahmed ha smesso di pubblicare contenuti scomodi in rete. “Di storie come queste ce ne sono ahimè tantissime, e Patrick Zaki potrebbe diventare l’ennesimo - conclude Ibrahim -. Comunque, noi egiziani che viviamo all’estero continuiamo a lottare, come possiamo, anche da lontano: per gli italiani razzisti io sono uno straniero che dovrebbe tornare a casa sua, per gli egiziani invece sono una spia degli italiani che racconta la repressione del regime. Io mi sento solo un cittadino internazionale, che difende i diritti umani al di là dei confini e delle nazioni”. Libia. Giornalista condannato a 15 anni di carcere, l’Onu chiede il rilascio ansa.it, 4 agosto 2020 Un giornalista libico, Ismail Abuzreiba, è stato condannato a 15 anni di carcere da un tribunale militare di Bengasi. Lo ha reso noto l’Onu, chiedendone la “liberazione immediata”. Le autorità nella parte orientale del paese, controllata da Khalifa Haftar, non hanno fornito dettagli sulle accuse ma, secondo i media locali, il giornalista è stato giudicato colpevole di essere in contatto con canali e agenzie vietate nella regione. Abuzreiba è detenuto da due anni. Unsmil, la missione Onu in Libia, si è detta “sconvolta” dopo l’annuncio della condanna a 15 anni, sottolineando che “la detenzione e il processo sembrano violare le leggi libiche e gli obblighi internazionali in materia di diritto a un processo equo e di libertà di opinione ed espressione”. Anche l’ambasciatore dell’Unione europea in Libia, Alan Bugeja, ha dichiarato di essere “estremamente preoccupato” per la sentenza della corte militare di Bengasi ed ha invitato le autorità a “rilasciarlo immediatamente” e “a garantire il rispetto dei suoi diritti fondamentali e la libertà di espressione”. La Libia è al 164esimo posto su 180 nella classifica mondiale 2020 dell’indice di libertà di stampa pubblicato da Reporter senza frontiere. In Cirenaica, nei 14 mesi di offensiva di Haftar su Tripoli, il conflitto ha coinvolto anche i giornalisti, vittime di detenzioni arbitrarie e minacce, che in gran parte li hanno fatti fuggire dal Paese. Afghanistan. L’Isis ha attaccato un carcere di Jalalabad, ci sono almeno 29 morti ilpost.it, 4 agosto 2020 L’Isis (o Stato Islamico) ha rivendicato un attacco compiuto nella notte tra domenica e lunedì in un carcere di Jalalabad, la capitale della provincia di Nangarhar, che si trova nell’est dell’Afghanistan. Gli scontri all’interno del carcere hanno provocato almeno 29 morti e diverse decine di feriti tra miliziani, detenuti, civili e guardie, ma secondo le autorità afghane il numero delle vittime potrebbe aumentare. Alcuni miliziani dello Stato Islamico hanno aperto il fuoco contro le forze di sicurezza, dopo che, domenica sera, un attentatore suicida si era schiantato con la sua auto sull’ingresso del carcere, che ospita circa 1.500 detenuti, diverse centinaia dei quali sono sospettati di essere affiliati allo Stato Islamico. Finora sono stati uccisi tre assalitori, ha detto Attaullah Khogyani, un portavoce del governatore della provincia di Nangarhar, mentre alcuni detenuti sono evasi durante gli scontri. Lunedì mattina gli spari sono continuati a intermittenza. L’attacco è avvenuto a un giorno di distanza da quando le autorità afghane avevano annunciato di aver ucciso un importante comandante dello Stato Islamico vicino a Jalalabad. Al Jazeera ha scritto che secondo un rapporto delle Nazioni Unite in Afghanistan ci sono ancora circa 2.200 miliziani affiliati allo Stato Islamico. Nonostante lo Stato Islamico abbia perso coesione, i miliziani sono ancora in grado di eseguire attacchi terroristici significativi. Gli attacchi dello Stato Islamico nella provincia di Nangarhar sono particolarmente frequenti. Uno dei maggiori attentati rivendicati di recente dallo Stato Islamico è quello dello scorso 12 maggio, quando un attentatore suicida aveva ucciso 32 persone al funerale di un poliziotto. Ecuador. Scontri tra bande rivali in carcere, almeno dieci detenuti morti agenzianova.com, 4 agosto 2020 È di almeno dieci detenuti morti e sei agenti di pubblica sicurezza feriti il bilancio degli scontri registrati all’interno di un carcere nei pressi della città di Guayaquil, in Ecuador. Sulle cause, la prima ipotesi rilanciata dagli inquirenti è quella di uno scontro tra bande rivali per il controllo della prigione. In un messaggio pubblicato sul proprio profilo twitter, a procura generale del paese andino ha riferito dell’avvio delle indagini del caso, con agenti della polizia che hanno acquisito le prove sul posto. Secondo quanto riferito da Patricio Carrillo, comandante generale della polizia nazionale, due delle vittime sono state trovate carbonizzate, ci sono circa venti altri detenuti feriti, di cui almeno tre in stato grave. “La guerra tra bande richiede una revisione della gestione penitenziaria e dei procedimenti interni”, ha scritto Carrillo su Twiter. Le autorità, riferisce il quotidiano “El Universo”, hanno identificato attività di diverse bande criminali note in città per le loro attività di traffico degli stupefacenti, “Los Lagartos”, “Los Choneros”, “Los Rusos” e “Los Cubanos”.