Minori, mani legate ai giudici di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 3 agosto 2020 Esclusa la facoltà di ammissione alla messa in prova. Al finalismo rieducativo della pena si abbina l’obbligo di favorire lo sviluppo della personalità del minorenne. Valida la norma che esclude la facoltà per il giudice di ammettere il minore alla messa in prova nel corso delle indagini preliminari. L’art. 28, dpr. n. 488/1988 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) che esclude per il giudice la facoltà di ammettere il minore alla messa in prova nel corso delle indagini preliminari è conforme alla Costituzione. Lo afferma la Corte costituzionale con la sentenza n. 139/2020 depositata il giorno 6/7/2020. Il caso di specie trae origine dall’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte emessa da parte del giudice del Tribunale per i minorenni di Firenze. Ad essere oggetto del rilievo d’illegittimità costituzionale era l’art. 28 del dpr n. 488/1988, nella parte in cui non prevede per il giudice la facoltà di ammettere il minore alla messa in prova, nel corso delle indagini preliminari. Osservava il giudice remittente l’evidente contrasto con gli articoli 3, 27, comma 3, 31 comma 2 della Costituzione che pongono due precisi principi: quello dell’uguaglianza e del finalismo rieducativo della pena, nonché un obbligo costituito per le istituzioni repubblicane di prevedere istituti che favoriscano lo sviluppo della personalità del minorenne. La conformità al dettato costituzionale della norma, viene ricavata da parte dei giudici remittenti dalla comparazione con una norma analoga dettata per gli imputati maggiorenni. Sul punto l’ordinamento prevede per il giudice una facoltà più estesa nel procedimento penale a carico di un imputato maggiorenne, dato che al giudice è consentita tale possibilità sin dall’inizio dell’esercizio dell’azione penale, estendendola sin dal momento in cui l’indagato viene sottoposto ad indagini preliminari. I rilievi dei giudici remittenti vengono ritenuti infondati sulla base di un esame comparato tra le norme che regolamentano il trattamento per l’imputato minorenne e quello maggiorenne. La necessità di diversificare il trattamento normativo, emerge con tutta evidenza da due considerazione l’una relativa al tipo di reati per i quali viene ammessa la messa in prova, la seconda relativa invece alla composizione dell’organo deputato alla sua applicazione. Gli illeciti infatti presentano caratteri diversi, nel caso infatti di imputati minorenni la messa in prova viene ammessa per reati anche molto gravi, ipotesi ben diversa invece nel caso di imputati maggiorenni per i quali l’istituto è previsto solo per i reati meno gravi. Pertanto la meno estesa facoltà per il giudice minorile trova una prima ragione di essere nella maggiore gravità degli illeciti contestati al minore che, come ovvio, necessita di una più approfondita valutazione della personalità dell’imputato possibile solo nel caso di procedimento iniziato. Non solo, ma la limitazione della facoltà di messa in prova trova una seconda giustificazione, fondata sulla natura e sulla diversa composizione dell’organo deputato all’esecuzione della misura. Infatti se essa fosse attribuita al giudice competente per la direzione delle indagini preliminari l’ordinamento devolverebbe la scelta circa l’effettiva applicazione della misura della messa in prova a un organo di carattere monocratico, composto da un solo magistrato togato. Al contrario l’affidamento della scelta circa l’applicabilità della misura all’organo competente a gestire l’udienza preliminare, determina una ben precisa conseguenza derivante dalla composizione di tale organo. Il giudice dell’udienza preliminare infatti è un organo di carattere collegiale, composto pertanto da più magistrati. Si tratta di magistrati togati e componenti laici questi ultimi esperti in materie quali la psicologia o la pedagogia. Tale composizione e le specifiche competenze dei componenti laici consentono una più efficace valutazione della personalità del minore ed una maggiore rispondenza della situazione di fatto alle finalità di una misura quale la messa in prova, tesa al recupero dell’imputato. Minori tolti alle mafie. “Liberi di scegliere” aiuta decine di ragazzi di Marzia Paolucci Italia Oggi, 3 agosto 2020 Dalla Calabria alla Sicilia il progetto afferma il diritto all’infanzia. Tra i cinquanta e i sessanta minori strappati alla ‘ndrangheta dal 2013 ad oggi grazie anche al coraggio, in una buona metà dei casi, di mogli e madri che hanno detto il loro no a quella forma di criminalità organizzata che più di ogni altra si fonda proprio sul vincolo familiare. In nome di un’intangibile diritto all’infanzia e all’adolescenza dei figli delle ‘ndrine, è nato otto anni fa “Liberi di scegliere”, il progetto che taglia le gambe alla mafia strappandole la sua manovalanza migliore, quei figli che nel tempo l’Ufficio dei minori di Reggio Calabria è riuscito ad allontanare da crimini efferati e dall’ignominia di cognomi “pesanti” da portarsi dietro per la vita. È la scommessa fatta otto anni fa da Roberto Di Bella, 56 anni, presidente uscente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, sua l’idea di un progetto rivoluzionario che si propone di sradicare il fenomeno allontanando i minori a rischio di indottrinamento mafioso dalla famiglia con la prassi della decadenza o sospensione dalla potestà genitoriale così come previsto dagli articoli 330 e 333 del codice civile. Il 21 luglio scorso il comune di Reggio Calabria ha conferito la cittadinanza onoraria al magistrato che lascia la città dove ha lavorato 25 anni per presiedere da settembre il Tribunale dei minori di Catania. A ripercorrerne il cammino c’è Giuseppe Marino, avvocato di diritto di famiglia minorile e giudice esperto del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, tra i fondatori dell’Unione nazionale delle Camere minorili. “Il progetto, raccontato anche in un libro edito dalla Rizzoli e in un film Rai del 2019, nasce nel 2012 in Calabria su intuizione di Roberto Di Bella, che ritornato nel 2011 alla presidenza di un tribunale in cui aveva già esercitato anni prima da giudice minorile, si ritrovava spesso in giudizio i figli delle famiglie di `ndrangheta condannate 15 anni prima”. È nata così la prassi di allontanare i minori dalle famiglie d’origine, inizialmente incompresa e osteggiata internamente ed esternamente, a cominciare dal peso dei quotidiani nazionali. I magistrati minorili si sono visti trattare in più di un caso come avventurieri del diritto con il pallino degli esperimenti di ingegneria sociale ma con il tempo, il senso del loro lavoro è stato capito incontrando in molti casi la solidarietà di colleghi. “Il progetto ha così indicato allo Stato una strada alternativa per combattere il fenomeno: quella dello sradicamento dei legami familiari. Utilizzando il combinato disposto tra gli artt. 3 e 29 della Costituzione con la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989 e quella di Strasburgo del 1992, il tribunale dei minori reggino ha cominciato a disporre l’allontanamento dei minori dalla famiglia. In caso di reati commessi da minori, sono stati individuati procedimenti di recupero in rete con Libera, Unicef e i servizi sociali: affidamenti a reti di associazione come quella di “Addio pizzo”, a famiglie affidatarie o a comunità, in caso di minori con procedimenti penali a carico che avessero chiesto di essere ammessi al procedimento di messa alla prova”. Importante, in questo quadro di recupero sociale, anche la figura del curatore speciale, ricorda Marino: “Avvocati in grado di equilibrare il procedimento in corso perché in grado dialogare sia con il minore che con la famiglia di origine”. Ed è così che il progetto reggino è diventato dal 2018 un protocollo nazionale firmato da Tribunale e Procura dei minori di Reggio Calabria, Direzione nazionale antimafia, associazione Libera e presidenza del Consiglio. All’art. 3, alla voce “impegni delle parti”, l’impegno a definire un programma coraggioso per “garantire pari opportunità ai minori provenienti da contesti familiari mafiosi aiutandoli a riconoscere i bisogni compressi dall’educazione malavitosa e a rivisitare in maniera critica le proprie esperienze di vita al di fuori della famiglia e del gruppo”. Nel 2019 il protocollo è stato rinnovato e allargato anche ai ministeri dell’Interno, della Giustizia e alla Cei che ne ha finanziato il progetto. E anche il Csm ha indicato la procedura del Tribunale di Reggio come best practice da recepire tra i 22 tribunali dei minori del paese. La giustizia e i tre nodi da sciogliere di Alessandro De Nicola La Stampa, 3 agosto 2020 L’entrata nel linguaggio politico la brutta espressione “giustizia alla Palamara” popolarizzata dal leader della Lega Matteo Salvini. Con questa locuzione si intende in modo spregiativo far riferimento ad una magistratura traffichina (se non corrotta) e politicamente motivata, rifacendosi ai noti scandali che hanno visto coinvolto, tra gli altri, l’ex presidente dell’Anm. Ovviamente non siamo più ai tempi di Tangentopoli, quando i giudici godevano di un forte consenso popolare. Però la caduta di prestigio e il dileggio che si indirizza verso il Terzo Potere è molto pericoloso: in primis perché la sfiducia nell’autorità giudiziaria imbarbarisce la società e spaventa gli investitori. In secondo luogo perché tende a far di ogni erba un fascio screditando migliaia di magistrati perbene e competenti. Tuttavia, che in Italia ci sia una “questione giustizia” è innegabile e credo si possa ricondurre ad un triplice ordine di problemi. Il primo è l’inefficienza: la lunghezza dei processi e l’imprevedibilità delle sentenze affliggono sia la giustizia civile che quella penale benché la colpa non sia solo dei togati. Il secondo è l’autoreferenzialità che ha trasformato il Csm in un organo costituzionale dove si parla troppo di promozioni non legate al merito ma all’appartenenza correntizia e che viene percepito come lento o distratto nel sanzionare i magistrati incapaci o maliziosi. Il terzo è la commistione tra magistratura inquirente e giudicante, che non assicura a quest’ultima quantomeno la necessaria “imparzialità d’animo” rispetto a dei colleghi con i quali si frequentano, ad esempio, le stesse correnti, sindacati e organi costituzionali. Naturalmente non parliamo di problemi ignoti alla politica italiana, ma ora siamo forse a un momento di tale gravità e di iniziative che prescindono da scontri politici (tipo le epiche tenzoni Berlusconi-Pool di Milano) che si potrebbe arrivare ad una svolta. Partiamo dalla separazione delle carriere. L’Unione delle Camere Penali ha proposto una modifica costituzionale, in discussione in Parlamento, che pur mantenendo l’assoluta indipendenza dell’ordine giudiziario, istituisce però due percorsi di carriera separati e due Csm, uno per i Pm, l’altro per i giudicanti. Il disegno di legge si può migliorare laddove prevede che metà del Consiglio sia composto da giuristi nominati dalla politica: prima di tutto poiché in un organo come il Csm, che determina nomine e trasferimenti, non c’è bisogno solo di pandettisti ma anche di esperti di organizzazione e risorse umane. Inoltre, si può fare ricorso alla società civile senza passare solo perla politica. Un componente nominato dalla conferenza dei rettori, uno dal Consiglio Nazionale Forense, uno dal Consiglio del Notariato e così via, ad esempio, assicurerebbe competenza e meno politicizzazione. Sull’autoreferenzialità è ottima la recente proposta del Partito Democratico (lo so, sembra strano, ma è così) che prevede di separare la sezione disciplinare dal Csm ed istituire un’Alta Corte indipendente che deliberi sui procedimenti disciplinari riguardanti i magistrati. Basta con accuse di favoritismi o tolleranza: chi si onora di essere terzo, deve poter essere giudicato con terzietà. Quanto alle promozioni, oggi non ci sono i requisiti per esaminare efficacia e competenza dei togati, se non una revisione quadriennale del loro operato dal quale solo il 2% esce con una valutazione negativa: una stortura, tanto che qualche anno fa l’allora ministro Orlando propose di integrare i consigli giudiziari che emettono le valutazioni perlomeno con degli avvocati: bocciato. Infine l’efficienza. Su queste colonne con Carlo Cottarelli abbiamo illustrato una serie di correttivi, rivolti alla giustizia civile, ma che potrebbero funzionare per tutti: preparazione gestionale dei giudici; potere direttivo del Presidente del Tribunale che possa avere dirigenti-manager; spazio a esperti di amministrazione; rientro dei magistrati in forza ai ministeri; criteri di valutazione degli uffici. Abbiamo bisogno di una magistratura imparziale e competente, autorevole e rispettata: è la base di ogni ordinamento civile, prospero e democratico. Speriamo che non prevalga lo spirito corporativo, il migliore alleato del populismo dileggiante. La giustizia civile punta sui fondi Ue di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2020 Riformare la giustizia civile per renderla più efficiente e ridurre i tempi dei processi, come raccomanda l’Unione europea. È un programma di cui si parla da anni, ma che ora ha la chance di diventare concreto, dato che le risorse del Recovery plan per la ripresa dell’Europa (il Next generation Eu) sono condizionate proprio all’elaborazione di un piano con le riforme che stanno a cuore a Bruxelles. Tanto che dal ministero della Giustizia è arrivata l’apertura ad avvocati e magistrati a pensare a una riforma ad ampio raggio, più coraggiosa di quella contenuta nel testo approvato dal Consiglio dei ministri a fine 2019 e all’esame del Parlamento. L’ambizione degli operatori è di poter ragionare, dopo tanti anni di riforme a costo zero, su un progetto che possa contare sui fondi Ue. Processi con tempi lunghi e incerti - Che la giustizia civile italiana abbia bisogno di interventi lo si legge nei dati. Secondo il rapporto sulla giustizia della Commissione europea (Eu Justice Scoreboard 2020, basato su dati 2018), i nostri uffici giudiziari occupano l’ultima posizione in classifica sia per durata dei procedimenti che per arretrato. Sono mali noti della giustizia italiana, su cui da tempo si sta cercando di intervenire. Con risultati apprezzabili visto che in dieci anni (dal 2011 a marzo 2020) proprio l’arretrato è diminuito di quasi il 40 per cento. Ma sullo smaltimento potrebbero pesare i rallentamenti dovuti alla sospensione delle udienze e dei termini del lockdown: per la giustizia civile le udienze “a distanza” hanno funzionato, grazie anche all’esperienza del processo telematico, ma non hanno garantito i ritmi usuali. Le proposte - È su questa situazione che l’Europa chiede all’Italia di intervenire. Le raccomandazioni formulate dal Consiglio Ue lo scorso maggio mettono l’accento sul fatto che una Pa efficace è cruciale per non rallentare l’attuazione delle misure adottate per affrontare l’emergenza e sostenere la ripresa. E tra le maggiori carenze del nostro Paese viene individuata proprio la lunghezza delle procedure della giustizia civile. Alcuni spunti sulle riforme per ridurre i tempi della giustizia civile sono arrivati a giugno con il rapporto del comitato presieduto da Vittorio Colao: rafforzare gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, disincentivare le cause di modesto valore o pretestuose, risolvere sul piano legislativo le cause seriali, digitalizzare i procedimenti e rendere più efficaci i filtri per l’accesso alla Cassazione. A mettere sul tavolo idee per rendere più efficiente la giustizia è anche l’avvocatura. L’Unione delle Camere civili, in una relazione inviata nei giorni scorsi al ministro, ha suggerito di implementare l’ufficio del processo (una struttura di staff a supporto del giudice), introdurre incentivi per la produttività dei magistrati e sezioni stralcio per materie per smaltire l’arretrato: “Non dobbiamo perdere l’opportunità di ragionare su una riforma della giustizia a 360 gradi, sostenuta dalle risorse europee”, incalza il presidente dell’Unione, Antonio De Notaristefani. L’Organizzazione congressuale forense (l’organismo di rappresentanza politica dell’avvocatura) sta lavorando a proposte che puntano sul potenziamento infrastrutturale, sia logistico (edilizia giudiziaria) che tecnologico (strumenti telematici). “Le presenteremo a settembre - dice il coordinatore Giovanni Malinconico -. Ora i fondi ci sono e vanno usati per una riforma più ampia che coinvolga anche l’aspetto infrastrutturale e permetta di superare problemi logistici (come lo spezzatino delle sedi nelle città) e tecnologici, perché l’idea che la giustizia da remoto sia a costo zero non ha senso. Servono mezzi e formazione del personale”. Anche il Consiglio nazionale forense sta lavorando a un progetto di riforma da presentare al ministero per modernizzare e rendere più efficiente la giustizia. Il compito di elaborare una proposta da presentare in autunno a Bruxelles spetterà al ministro della Giustizia che, da tempo, tra l’altro, ha avviato l’iter per ampliare le piante organiche dei magistrati. La giustizia civile dopo il Covid di Rita Tuccillo interris.it, 3 agosto 2020 Sentiamo spesso parlare di crisi della giustizia, di collasso del sistema giudiziario. I problemi della giustizia italiana sono davvero molteplici, ma possono ricondursi ad uno prioritario: la insufficienza di risorse economiche e di personale. Solo nel 2019 presso il Tribunale civile di Roma sono stati iscritti oltre 126 mila nuovi procedimenti, per i quali il nostro codice di rito prevede lo svolgimento di almeno tre udienze, ovviamente in presenza. Ebbene in un sistema già in crisi, i calendari per lo svolgimento delle udienze e per la chiusura di un procedimento civile si allungano notevolmente, sino a, talvolta, pregiudicare l’efficacia del provvedimento pronunciato. E diciamolo pure una giustizia intempestiva, per quanto possa essere il frutto di un lavoro attento, corretto e preparato di chi la amministra, non può mai essere giusta. Questo problema tutto italiano, che ha preoccupato e occupato tante legislature (tra cui anche l’odierna) e i cui tentativi di riforma e soluzione hanno causato la crisi di altrettanti governi, con la emergenza epidemiologica da Covid ha assunto dimensioni preoccupanti. Credo che chiunque abbia avuto l’occasione di avvicinarsi alla giustizia, per lavoro o per necessità, concorderà sulla imprescindibile opportunità di trovare soluzioni per velocizzare i tempi della giustizia e per assicurare il rispetto della ragionevole durata del processo, espressione del giusto processo civile, garantito dall’art. 111 della Carta Costituzionale. Questo è uno dei principi cardine di uno Stato di diritto, come si evince dal recepimento dello stesso nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (all’art. 6). Un processo ragionevolmente celere è volto a tutelare non già il soccombente, ma il vincitore della lite; o più in generale potremmo dire che tutela la certezza dei diritti e dei rapporti processuali: attore e convenuto; soccombente e vincitore non possono essere vincolati sine die ad un processo dall’incerto esito e dall’incerta durata. I lunghi tempi a cui noi avvocati ci siamo abituati - più difficilmente a ciò si abituano le parti del processo - si sono notevolmente dilatati a causa dell’emergenza epidemiologica che ha costretto tutti a casa, e quindi ovviamente anche gli operatori della giustizia. Molti sono stati gli strumenti messi in campo per cercare di rimediare a questa difficoltà: circolari, decreti, linee guida, fiumi di pagine per assicurare la continuità delle attività processuali ma al contempo assicurare l’incolumità a tutti i cittadini. Tra gli strumenti adottati nei tribunali vi è lo svolgimento delle udienze da remoto: avvocati distanti da giudici, da clienti, da cancellieri, per assicurare l’ormai noto distanziamento sociale. Ebbene il sistema è stato da molti criticato, ad onor del vero non entusiasma neanche me, ma bisogna riconoscere che era l’unico strumento in grado di assicurare il rispetto della stringente normativa, allora in vigore. Esistono cause in cui la presenza fisica di avvocati, giudici e parti è indispensabile perché è l’unico mezzo in un cui può esplicitarsi efficacemente il contraddittorio, ma esistono cause o anche solo udienze che ben possono svolgersi da remoto e che è probabilmente giusto che rimangano così. Se c’è una cosa che dobbiamo aver imparato dalla situazione di emergenza è che necessitiamo di semplificazione, di deburocratizzazione e riduzione del superfluo. Anche la nostra giustizia necessita di questo: semplificazione. Eppure il nostro legislatore ci ha fornito tanti strumenti semplici e veloci per tutelare i nostri diritti. Uno fra tutti, che in questo periodo ho avuto occasione di studiare, è la European Small Claims Procedure (disciplinata dal Regolamento CE n. 861/2007 - come modificato dal Regolamento UE 2015/2421 del 16 dicembre 2015): una procedura che si applica alle controversie civili e commerciali transfrontaliere, ossia che coinvolgono parti con residenza o sede in paesi diversi dell’unione Europea, di modesta entità, ossia di valore non superiore a 5.000 euro. L’utilizzo di questo strumento potrebbe essere molto frequente, basti pensare a tutte le volte in cui non siamo stati soddisfatti di un viaggio aereo verso un paese dell’Unione Europea o di un acquisto on line da un venditore europeo. Ebbene i punti di forza di questa procedura sono proprio la celerità, la semplicità, la riduzione dei costi e la possibilità di tutelarsi senza l’assistenza di un avvocato. Il cittadino da solo comodamente seduto dinanzi al proprio pc potrebbe redigere la propria domanda, spiegare le ragioni dell’accaduto e inoltrarlo all’ufficio competente. Questo sistema che in alcuni paesi europei funziona molto bene, supportato da strutture tecnologiche e sistemi informatici, in Italia opera molto poco. La domanda infatti dovrebbe essere inoltrata all’ufficio del Giudice di Pace, territorialmente competente, che è ad oggi un ufficio di giustizia privo di un processo telematico, privo anche, molto spesso, di una connessione alla rete internet. Allora forse il sistema giustizia necessita di un intervento, in termini di risorse strumentali ed economiche, ma non certo di un’altra, l’ennesima riforma: l’impegno dovrebbe dirigersi verso il fornire agli operatori della giustizia le risorse necessarie per poter efficacemente utilizzare gli strumenti già esistenti. Strage di Bologna. 40 anni dopo di fronte alla verità di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 3 agosto 2020 L’anniversario e la nuova inchiesta. Pier Paolo Pasolini scriveva: “Io so.. io so i nomi dei responsabili... della strage di Milano del 12 dicembre 1969, della strage di Brescia... ma non ho le prove”. Stavolta le prove decisive sono sotto i nostri occhi. Come ricorda la Camera del Lavoro di Bologna è indimenticabile l’immagine del presidente Sandro Pertini, accorso nel 1980 tra le macerie della strage del 2 agosto, che piangendo disse: “Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”. Dopo 40 anni l’immagine del presidente Mattarella che incontra i parenti delle vittime della strage della stazione di Bologna rappresenta in modo paradigmatico l’anomalia democratica vissuta dall’Italia nel suo primo trentennio di vita democratica. In nessun paese d’Europa, infatti, si è mai vista una scena simile: le associazioni dei familiari delle vittime di una “strage di Stato” che incontrano il capo dello Stato anch’egli con un fratello ucciso dal terrorismo. La strage di Bologna segna un punto di congiunzione, un architrave di vicende storiche centrali per la vita del Paese. Essa connette, attraverso personaggi di spicco del terrorismo neofascista, degli apparati di forza dello Stato e delle organizzazioni eversive come la P2, la prima fase della strategia della tensione, nell’arco di tempo che va dal 12 dicembre 1969 fino all’attentato sul treno Italicus del 4 agosto 1974 alla delicata e drammatica transizione dell’Italia nella fase post-Guerra Fredda. Nell’ultima inchiesta della magistratura, infatti, i rinvii a giudizio coinvolgono, tra gli altri, da un lato Paolo Bellini, ex fascista di Avanguardia Nazionale, reo confesso dell’assassinio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile e poi implicato nelle cupe vicende delle stragi di mafia del 1992-93 che lo videro a contatto con il boss Antonino Gioè in Sicilia; dall’altro Domenico Catracchia, amministratore degli immobili di proprietà dei servizi segreti di via Gradoli a Roma dove nel 1978 (in pieno sequestro Moro) le Brigate Rosse avevano costituito la loro base operativa ed in cui poi nel 1981 trovarono alloggio esponenti dei gruppi fascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, condannati per la strage alla stazione del 2 agosto 1980. Le accuse per coloro che vengono considerati i mandanti della strage di Bologna, se confermate, chiamano in causa gli apparati dello Stato e soprattutto quella classe dirigente di governo dell’epoca. Che con esponenti come Federico Umberto D’Amato, Licio Gelli, Pietro Musumeci, Francesco Pazienza e Giuseppe Santovito ha “fatto politica” per decenni in chiave anticomunista e contro la Costituzione della Repubblica. La condanna del gennaio 2020 dell’esponente dei Nar Gilberto Cavallini, aggiungendosi a quelle definitive di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, conferma non solo la sostanza della pista nera ma apre scenari finalmente importanti sulle responsabilità di più alto livello istituzionale che permisero ai neofascisti di colpire di nuovo il cuore democratico del Paese. È questo il punto centrale, oltre che alla individuazione degli esecutori materiali, in cui si concentra il nodo storico-politico intorno alla strage di quarant’anni fa che si colloca in quel peculiare contesto italiano descritto senza mezzi termini dall’ex capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Mario Arpino che di fronte ad una commissione parlamentare dichiarò: “Piaccia o non piaccia, ancora negli anni Ottanta, per noi un terzo del Parlamento italiano era il nemico”. Il progressivo approfondirsi di ricerca storica e indagini giudiziarie segnano in questo modo il venir meno di ogni ipotesi “alternativa” come la cosiddetta “pista internazionale” alimentata in primis da articoli di quel Mario Tedeschi, direttore de Il Borghese e poi senatore del Msi, che oggi viene indicato dalla Procura come uno dei mandanti-organizzatori dell’attentato e poi dal depistaggio tentato nel 1981 (la “operazione terrore sui treni”) per il quale sono stati condannati in via definitiva Gelli, Musumeci, Belmonte e Pazienza. Una falsa pista mirante ad attribuire le paternità della strage ad un “anello debole” che sia l’ex leader libico Gheddafi, ormai morto, o gruppi palestinesi, oggi politicamente isolati - dimenticando chissà perché di chiamarla casomai “pista del Mossad”, visto il fatto, come ha ben raccontato Eric Salerno, che in quegli anni l’Italia diventa la “base operativa” di quel servizio segreto. Comunque una pista estera funzionale ad una campagna volta ad affrancare dalle responsabilità di quella stagione, grazie ad una mescolanza di omissioni, oblii pubblici e convenienze politiche, non solo gli esecutori materiali ma soprattutto quei settori niente affatto marginali della società italiana delle classi dirigenti, militari e proprietarie responsabili del tradimento della Repubblica. Pier Paolo Pasolini scriveva: “Io so... io so i nomi dei responsabili… della strage di Milano del 12 dicembre 1969, della strage di Brescia… ma non ho le prove”. Stavolta le prove decisive sono sotto i nostri occhi. 40 anni dalla strage di Bologna, Mattarella: “Esigenza di verità e giustizia” di Davide Varì Il Dubbio, 3 agosto 2020 La presidente del Senato, Casellati: “Basta coi segreti di Stato”. “In occasione del quarantesimo anniversario della strage della stazione, che provocò ottantacinque morti e oltre duecento feriti, desidero - a distanza di pochi giorni dalla mia visita a Bologna e dall’incontro nel luogo dell’attentato - riaffermare la vicinanza, la solidarietà e la partecipazione al dolore dei familiari delle vittime e alla città di Bologna, così gravemente colpiti dall’efferato e criminale gesto terroristico. Riaffermando, al contempo, il dovere della memoria, l’esigenza di piena verità e giustizia e la necessità di una instancabile opera di difesa dei principi di libertà e democrazia”. A dirlo, in occasione del 40esimo anniversario della Strage di Bologna, è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Durante cerimonia del ricordo della strage del 2 Agosto 1980, celebrata in Piazza Maggiore, sono stati letti ad alta voce i nomi e l’età delle 85 vittime dell’attentato. In piazza un maxischermo ha trasmesso in streaming alle 10 e 25, ora dell’attentato i tre fischi del locomotore che simboleggiano il ricordo della strage, la deposizione di corone in sala d’aspetto, da dove, non più tardi di giovedì scorso ha parlato il presidente della Repubblica, sulla lapide che ricorda le vittime. E poi il minuto di silenzio chiuso dal fragoroso e commosso applauso della gente presente: mille i posti a sedere disponibili in piazza e altrettanti in piedi. Parcheggiato su un lato della piazza, l’autobus 37 che, la mattina del 2 agosto 1980, trasportò i morti e feriti. Dopo gli interventi in piazza Maggiore, si sono recati in stazione il presidente dell’Associazione tra le vittime, Paolo Bolognesi, la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, il sindaco di Bologna, Virginio Merola e il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini che hanno deposto corone sulla lapide delle vittime. Casellati: “Basta segreti” - “Basta segreti su Bologna - ha commentato Casellati -. Diamo finalmente risposte ad una città che in questi quarant’anni non si è mai data per vinta, non ha mai smesso di farsi domande e di credere nella strada della giustizia. È tempo di aprire i fascicoli, di toglierli dai cassetti - ha detto ancora Casellati - Bologna non è più soltanto un caso giudiziario: è diventata un argomento storico! E la storia non si scrive con i segreti di Stato, con i silenzi o con gli “omissis”. La storia si scrive con l’inchiostro indelebile della verità!”. Casellati si è poi chiesta quale memoria vogliamo lasciare alle future generazioni rispondendo: “Non certo una memoria di depistaggi, una memoria di mandanti occulti o di interrogativi non risolti”. Bolognesi: “Finalmente la verità si avvicina” - “Sono passati 40 anni da quel torrido sabato di agosto e finalmente le speranze di ottenere una completa verità sull’episodio più atroce della storia del nostro Paese cominciano a realizzarsi”, ha dichiarato Bolognesi nel corso del suo intervento sul palco. “Nel corso dell’ultimo anno, infatti - spiega Bolognesi - nuovi importanti tasselli si sono aggiunti. Il processo per concorso in strage contro il neofascista Gilberto Cavallini non ha portato solo alla sua condanna di primo grado come quarto esecutore materiale, insieme agli altri Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, ma ha anche fatto emergere preziosi elementi che collegano gli attentatori ai Servizi segreti italiani”. “I risultati della maxi-indagine sui mandanti confermano che quel vile attentato fu una bomba nera, pensata dai vertici della P2, eseguita dalla manovalanza fascista dei Nar, protetti da uomini della P2, inseriti nei punti nevralgici dei Servizi segreti”, ha aggiunto Bolognesi. “Si voleva colpire Bologna la rossa. Ma nel loro progetto criminale di potere, esecutori e burattinai fecero un solo errore. Non tenere conto della reazione dei cittadini di Bologna”. Su Twitter è arrivato anche il messaggio del premier Giuseppe Conte: “40 anni dalla #StrageDiBologna. Siamo al fianco dei familiari, di chi crede nello Stato, dei magistrati impegnati a squarciare definitivamente il velo che ci separa dalla verità. Lo dobbiamo alle 85 vittime innocenti, lo dobbiamo a noi stessi”. 40 anni fa la strage di Bologna, il mio ricordo di quei giorni di fuoco e sangue di Giuliano Cazzola Il Riformista, 3 agosto 2020 Sono passati quarant’anni anni da quando, il 2 agosto del 1980, una carica di esplosivo, all’interno di una valigia lasciata nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, fece crollare un’intera ala dell’edifico, investì i passeggeri assiepati sul primo binario e gli avventori del buffet. Erano le 10:25, i morti furono oltre ottanta, più di duecento i feriti. Il 2 agosto del 1980 ero segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna. Ero stato eletto il 2 maggio di quello stesso anno. Mi pregio di essere stato l’unico socialista dal dopoguerra ad oggi ad aver ricoperto quell’incarico in una regione in cui il Pci governava, dal dopoguerra, praticamente ovunque, spesso con la maggioranza assoluta. Ero tornato a Bologna, in famiglia, all’inizio del 1974 dopo una esperienza alla Fiom di ben nove anni, di cui circa quattro nella segreteria nazionale. Ed ero entrato a far parte della segreteria regionale della confederazione, dove conobbi un grande dirigente sindacale come Giuseppe Caleffi, il cui insegnamento fu molto importante per la mia formazione. Divenuto prima segretario generale aggiunto, se ben ricordo nel 1978, arrivai al vertice di una organizzazione che aveva più di 800mila iscritti ed era il “granaio” della Cgil. Ricordo quegli anni con orgoglio per il fatto di appartenere ad un’organizzazione che, nonostante l’uso di una sorta di Manuale Cencelli delle correnti, sapeva riconoscere il merito. Basti pensare che mentre io dirigevo l’Emilia Romagna un altro socialista, Alberto Bellocchio - un carissimo amico - era segretario generale della Lombardia. Mantenni quell’incarico (sostanzialmente ad personam perché dopo venne riconsegnato al comunista Alfiero Grandi) fino al 1985, quando, eletto segretario generale della Federazione dei Chimici (l’acronimo, Filcea, sembrava il nome di una fanciulla), tornai a Roma. Il mio vice era Sergio Cofferati. Negli undici anni trascorsi nella mia ragione ne capitarono di tutti i colori: la strage del treno Italicus nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974; le sommosse del 1977 dopo l’uccisione dello studente Francesco Lorusso (nel settembre Bologna fu persino teatro di una manifestazione internazionale contro la repressione); la strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e, per finire con le bombe, l’attentato al Rapido 904, la cosiddetta strage di Natale del 23 dicembre 1984. Poi - sul piano politico - dovetti affrontare, da separato in casa con i compagni comunisti, il tormentone della scala mobile tra il decreto del 1984 e il referendum dell’anno successivo. Tornando al 2 agosto, quel giorno del destino cadeva di sabato. Io ero agli sgoccioli del mio periodo feriale sulla riviera romagnola. Sarei rientrato il giorno dopo per essere in ufficio il lunedì. La notizia mi raggiunse in spiaggia udendo una signora che la stava attraversando piangendo e gridando: “Hanno messo una bomba. Ci sono tanti morti”. Pensai subito alla mia città; mi precipitai dal bagnino (allora non c’erano i cellulari) e chiesi di telefonare in sede. Mi rispose Adelmo Bastoni, il responsabile organizzativo, un grande compagno modenese, che era già sul posto. Capii dalle sue sommarie informazioni quanto fosse grave la situazione. Sistemate alcune questioni di carattere famigliare (mio figlio aveva 12 anni e doveva essere accudito) rientrai a Bologna in serata. I giorni immediatamente successivi li impiegai a partecipare ad incontri con le istituzioni, ad organizzare iniziative di protesta, a tirare le fila delle azioni di protesta che il sindacato poteva e doveva promuovere in quel momento. Ricordo soltanto che la domenica sera, insieme con Roberto Alvisi (mio storico collaboratore), incontrai Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo, i quali erano in stazione il giorno precedente ed erano scampati miracolosamente all’esplosione. Parlammo anche della vertenza Fiat - Sabattini era il segretario della Fiom per il settore auto - che era in corso da mesi e che finì nell’autunno dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza e lo shock della Marcia dei Quarantamila. Un esito che cambiò la storia del sindacato ed anche la vita di Claudio (a cui fu attribuita l’intera responsabilità di una sconfitta che pure aveva tanti altri padri). Alcuni giorni dopo si tenne, a Bologna, la prima manifestazione commemorativa in piazza Medaglie d’Oro, a fianco della stazione ferita a morte, a cui mancava un’intera ala. Parlò Renato Zangheri, allora sindaco della città. Un discorso che andrebbe letto ancora oggi nelle scuole. Ricordo che, alla fine, chiese scusa alle vittime e ai loro parenti, perché le sue “ultime parole non erano di commiato, ma di lotta”. Erano tempi fatti così. I politici e i sindacalisti dei nostri giorni hanno sentito scoppiare solo i mortaletti la notte di Capodanno. Condotte criminose risalenti nel tempo, le esigenze cautelari vanno motivate di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 luglio 2020 n. 19890. L’attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l’attualità e la concretezza delle condotte criminose, onde il pericolo di reiterazione può essere legittimamente desunto dalle modalità delle condotte contestate, anche nel caso in cui esse siano risalenti nel tempo, ove persistano atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza 2 luglio 2020 n. 19890. In tema di misure cautelari, il riferimento in ordine al “tempo trascorso dalla commissione del reato”, impone al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché a una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (cfr. sezioni Unite, 24 settembre 2009, Lattanzi). Per l’effetto, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, è necessario indicare gli elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’indagato/imputato, verificandosene l’occasione, potrà commettere reati della stessa specie, mentre non assolve a tale obbligo la motivazione che valorizzasse il tempo trascorso esclusivamente per scegliere una misura cautelare meno afflittiva (cfr. sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino, nonché, sezione IV, 28 marzo 2013, Cerreto). Ergo, ne deriva che la necessità di uno specifico apprezzamento in punto di “attualità” impone una “motivazione rafforzata”, per giustificare positivamente l’esigenza di cautela, in caso di fatto risalente nel tempo. Ciò perché, esemplificando, nella normalità dei casi l’attualità del rischio di recidiva, pur in presenza di un pregiudicato e di un fatto grave, sarebbe difficilmente ipotizzabile nel caso di condotta risalente nel tempo (cfr. sezione VI, 13 ottobre 2010, Brunella: in tema di esigenze cautelari, ai fini dell’apprezzamento del rischio di recidiva, quanto più ci si distacca dal momento di consumazione del reato e dal contesto che lo ha caratterizzato, tanto più è stringente l’esigenza di una motivazione relativa alla permanenza di una concreta ed effettiva attualità del pericolo di reiterazione, idoneo a giustificare la misura cautelare, che consideri anche aspetti differenti e ulteriori rispetto a quelli propri del fatto in sé considerato e tenga conto, in particolare, delle condotte, dei comportamenti e degli eventi successivi). È in questa ottica che va letto il novum normativo introdotto dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove, quanto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga e a quella del pericolo di recidiva è stata prevista l’“attualità”, oltre che la concretezza del pericolo, non dissimilmente a quanto già previsto per l’esigenza cautelare correlata al pericolo di inquinamento probatorio. Infatti, se la concretezza significa esistenza di elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute “occasioni prossime favorevoli”, accreditanti o il rischio della fuga o quello della reiterazione del reato. È chiaro che tale sforzo motivazione deve essere particolarmente stringente proprio rispetto a vicende risalenti nel tempo; e argomento importante a supporto può rinvenirsi proprio negli elementi qui valorizzati dalla sentenza massimata: acclarata persistenza di atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e/o dimostrata esistenza di collegamenti con l’ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato (si veda anche sezione VI, 29 novembre 2017, Desiderato e altri, nonché sezione II, 12 luglio 2019, Scarfò). Abnorme ordinanza Gup che trasmette atti al Pm per decreto di citazione a giudizio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2020 Cassazione -Sezione III penale- Sentenza 16 giugno 2020 n. 18297. È abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio. Infatti, il provvedimento - pur in astratto frutto di un potere conferito dalla legge al giudice - determina uno “stallo” del procedimento, dovendo, altrimenti, il pubblico ministero porre in essere un atto viziato da nullità, vale a dire l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare. Così la sezione terza penale della Cassazione con la sentenza 16 giugno 2020 n. 18297. In termini, sezione V, 19 aprile 2016, Branca, nonché sezione III, 18 settembre 2014, Longhi. La Corte argomenta l’abnormità del provvedimento sul rilievo che questo - pur in astratto frutto di un potere conferito dalla legge al giudice - determina uno “stallo” del procedimento, dovendo, altrimenti, il pubblico ministero porre in essere un atto viziato da nullità, vale a dire l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare. Su argomento analogo, la Cassazione ha parimenti ritenuto abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare, investito della richiesta di rinvio a giudizio [nella specie in ordine al reato di cui all’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309], modifichi l’imputazione elevata dal pubblico ministero (nella specie, ritenendo ravvisabile il reato di cui al comma 5 del citato articolo 73, per il quale si doveva procedere a citazione diretta), disponendo la restituzione degli atti a quest’ultimo, perché proceda a citazione diretta (sezione IV, 22 maggio 2018, Procura della Repubblica Tribunale Napoli in procedura Angri; si veda. anche sezione V, 10 luglio 2008, Pm in processo Ragazzoni, nonché, sezione V, 22 febbraio 2012, Pm in proc. De Cicco). A supporto, in tale occasione, la Cassazione ha evidenziato che è pur vero che l’articolo 33-sexies del Cpp consente al giudice dell’udienza preliminare, che ritenga che per il reato debba procedersi con citazione diretta a giudizio, di trasmettere con ordinanza gli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione ex articolo 552 del Cpp. Tuttavia, il giudice deve restare nell’ambito dell’imputazione formulata dal pubblico ministero, non potendo, ai fini dell’adozione del provvedimento ex articolo 33-sexies del Cpp, modificare i termini fattuali dell’imputazione. In definitiva, secondo il ragionamento della Corte di legittimità, l’articolo 33-sexies del Cpp presuppone un’erronea formulazione della richiesta di rinvio a giudizio in relazione al reato così come contestato dal pubblico ministero e non trova invece applicazione allorché il fatto-reato venga riqualificato autonomamente dal giudice dell’udienza preliminare. Per l’effetto, il giudice, nel caso in cui ritenga l’imputazione formulata in modo non corretto o infondata, può procedere alla sua modifica provvedendo ad una riduzione dell’imputazione o ad un proscioglimento dell’imputato ma a tali esiti può pervenire esclusivamente seguendo i percorsi previsti dagli articoli 429 o 425 del Cpp e non già quello delineato dall’articolo 33-sexies del Cpp. Mentre laddove procedesse erroneamente restituendo gli atti al pubblico ministero, l’abnormità del provvedimento deriverebbe dal fatto che un tale modus procedendi determinerebbe una stasi processuale, perché il pubblico ministero, che dovrebbe attenersi alla indicazione del giudice, non potrebbe più elevare l’imputazione ritenuta più corretta in base ai dati fattuali a disposizione, con inevitabile stallo del procedimento. Determinazione della pena e obblighi di motivazione del giudice. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2020 Pena - Determinazione - Pena al di sotto della media edittale - Motivazione specifica in ordine ai criteri adottati - Necessità - Esclusione. In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 luglio 2020 n. 21939. Pena - Determinazione - Pena inferiore alla media edittale - Motivazione specifica in ordine ai criteri adottati - Necessità - Esclusione - Metodo di calcolo. Non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga applicata una pena al di sotto della media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale e aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 luglio 2019 n. 29968. Reato - Reato continuato - In genere - Pena base nella misura edittale - Aumento esiguo per la continuazione - Necessità di motivazione esplicita - Esclusione - Ragioni. In tema di reato continuato, nel caso in cui il giudice, inflitta la pena nella misura minima edittale, l’abbia aumentata per la continuazione in modo esiguo, non è tenuto a giustificare con motivazione esplicita il suo operato, sia perché deve escludersi che abbia abusato del potere discrezionale conferitogli dall’art. 132 cod. pen., sia perché deve ritenersi che egli abbia implicitamente valutato gli elementi obbiettivi e subiettivi del reato risultanti dal contesto complessivo della sua decisione. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 giugno 2018 n. 24979. Pena - Determinazione - Graduazione degli aumenti e delle diminuzioni previsti per le circostanze - Discrezionalità del giudice di merito - Obbligo di motivazione - Contenuto. La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 luglio 2017 n. 36104. Pena - Determinazione - Graduazione degli aumenti e delle diminuzioni previsti per le circostanze - Discrezionalità del giudice di merito - Criteri - Sindacato di legittimità - Limiti. La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 4 febbraio 2014 n. 5582. Pena - Applicazione - Potere discrezionale del giudice: limiti - Pena alternativa - Applicazione della pena pecuniaria in misura prossima al massimo - Motivazione. La sentenza che irroga la pena pecuniaria, in caso di previsione alternativa con la pena detentiva, in misura prossima al massimo edittale, non deve esporre diffusamente le ragioni, essendo sufficiente che dalla motivazione risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 ottobre 2009 n. 40176. Torino. L’eleganza del ruolo del Garante dei detenuti di Bruno Ferragatta* La Stampa, 3 agosto 2020 In questi giorni sto seguendo con apprensione la cronaca di quanto accaduto nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. La particolare attenzione è dovuta ad un mio coinvolgimento personale risalente al 7 giugno 2004 quando, in qualità di Consigliere comunale durante l’amministrazione Chiamparino, avevo sottoposto al voto del Consiglio comunale la delibera di istituzione del “Garante dei diritti delle persone private della libertà” proposta dal sottoscritto e condivisa da tutta l’Assemblea. Era un periodo pieno di fervore e grandi aspettative per l’organizzazione olimpica senza per questo dimenticare le fasce più fragili del nostro tessuto sociale. Non nascondo come vi fosse qualche preoccupazione intorno a questa nuova figura affinché non fosse letta come “ingerenza” su quella parte di Città in cui vengono giustamente sottratti alla libertà individuale coloro che commettono reati. Quando ho presentato il testo in Aula, ho pensato proprio alla potenzialità che avrebbe avuto questa nuova figura istituzionale ad operare in nome della dignità di ogni persona e della sua difesa contro ogni sopruso anche nei luoghi più oscuri come il carcere. Nella delibera abbiamo considerato il carcere soprattutto come luogo di sviluppo della riabilitazione sociale dei suoi ospiti. Faccio un plauso pubblico alla dottoressa Monica Gallo perché ha interpretato bene questo ruolo senza assolvere nessuno, né chi ha commesso reati e neppure coloro che avevano il compito di rappresentare le istituzioni, ma richiama con determinazione il dovere di ciascuno (soprattutto di chi rappresenta l’autorità) di fermarsi quando il proprio comportamento si trasforma in umiliazione dell’essere umano. *Ex consigliere comunale Venezia. “Nel carcere femminile sicurezza a rischio” La Nuova Venezia, 3 agosto 2020 “Il carcere femminile di Venezia Giudecca ha fatto il suo tempo. È ora di pensare una buona volta ad una struttura idonea, funzionale ed in terraferma. Investire massicciamente su un edificio vecchio e con limiti evidenti sul piano della sicurezza e della logistica è anacronistico e oltremodo dispendioso per i cittadini”. Lo hanno detto i deputati veneziani della Lega Giorgia Andreuzza, Alex Bazzaro e Sergio Vallotto durante la conferenza stampa a margine della visita istituzionale alla Casa Reclusione Donne di Venezia Giudecca su iniziativa della segreteria regionale dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria del Triveneto per verificare le condizioni di igiene, salubrità e sicurezza degli ambienti e luoghi di lavoro del personale anche alla luce dell’emergenza sanitaria. “Alle donne a gli uomini in divisa che ogni giorno vi lavorano occorre garantire sicurezza - hanno sottolineato gli esponenti leghisti - C’è un evidente problema per l’incolumità del personale, con le detenute a contatto diretto con le donne della polizia carceraria. Per il personale della polizia carceraria, inoltre, raggiungere il luogo di lavoro è a dir poco difficoltoso, tant’è che molte candidate al ruolo optano per altre sedi”. “È ora di adottare provvedimenti concreti. L’acqua alta ha evidenziato le difficoltà di mantenere in laguna un edificio storico e sottoposto a vincoli della Sovraintendenza - proseguono i deputati leghisti ne loro intervento dopo la visita dei giorni scorsi nel carcere della Giudecca - Già nel 2012 la Lega si era battuta per lo spostamento in terraferma della struttura penitenziaria, ma l’amministrazione di sinistra bocciò la proposta. Questi sono i risultati”. Roma. Dentro il carcere: ecco per chi pregano i detenuti romani di Milena Castigli interris.it, 3 agosto 2020 Le lettere dei detenuti ai volontari della comunità di sant’Egidio rivelano uno spaccato di umanità inaspettato contro tutti i pregiudizi. “Cocomerate della solidarietà” per i detenuti nelle carceri romane. È la bella iniziativa ideata e organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio in risposta al forte isolamento vissuto dai detenuti durante il coronavirus. “La pandemia da coronavirus - spiega in una nota l’associazione dalla parte degli ultimi - ha creato nei mesi scorsi grandi difficoltà nelle carceri, per l’accentuato isolamento e la mancanza di contatti con l’esterno”. La Comunità di Sant’Egidio, che da anni visita con regolarità numerosi istituti penitenziari italiani, è così riuscita ad organizzare anche per questa estate post Covid l’annuale campagna di solidarietà e di sostegno nelle carceri romane. Con nuove precauzioni e molti più limiti degli scorsi anni. Il programma - La prima cocomerata si è svolta lo scorso 30 luglio - nel pieno rispetto delle precauzioni sanitarie - nel carcere romano di Regina Coeli. I prossimi appuntamenti sono: il 5 agosto a Rebibbia femminile. Il 20 agosto a Rebibbia maschile. Cocomeri in dono - Le “Cocomerate della solidarietà” sono possibili grazie alla collaborazione e al generoso contributo del Car (Centro Agroalimentare Roma) che regala le angurie per i detenuti e le detenute di tre istituti penitenziari. Seicento chili di cocomeri solo per il carcere di regina Caeli. Un semplice gesto di solidarietà per non far sentire invisibili quelle migliaia di persone confinate dietro un muro. In Terris ha intervistato Stefania Tallei, animatrice del settore carceri della comunità di Sant’Egidio a Roma. “A causa del Covid quest’anno noi, come Sant’Egidio, non siamo potuti entrare a visitare i detenuti né abbiamo potuto fare i consueti colloqui per il reinserimento sociale. L’assenza dei volontari si è sommata allo stop alle visite familiari che non sono ancora riprese in presenza. Questo ha significato per i detenuti un ulteriore isolamento rispetto a quello che già vivono normalmente dietro quel muro che li divide dal resto del mondo”. Solitudine estrema - “Una delle paure maggiori dei detenuti e delle detenute - spiega a In Terris Stefania - è infatti quella di venire dimenticati da tutti. Dietro quel muro, ci sono tante persone che non hanno nessuno che li contatti, che scriva loro una lettera o una semplice cartolina. Nessuno che telefoni per sapere come stanno, nessuno che li aspetterà fuori una volta scontata la pena. Una solitudine estrema che può portare le persone anche a compiere gesti inconsulti, dall’autolesionismo al suicidio”. Il duplice valore della presenza - “In carcere le persone vivono la stessa povertà, affettiva e spesso anche materiale, che vivevano fuori. La vicinanza ai carcerati ha dunque un grande valore. Non solo pratico, nel portare loro quegli oggetti quotidiani che fanno fatica a reperire in carcere, sia a causa del sovraffollamento sia a causa delle poche risorse economiche che hanno a disposizione le strutture detentive. Ma, principalmente, ha un valore umano: queste persone hanno bisogno di comunicare e di sentirsi ascoltati: in definitiva, di esistere per qualcuno”. La via del Vangelo - “Per questo, la presenza di volontari della Comunità Sant’Egidio è così sentita e apprezzata dalle persone. Molti di loro sono finiti dietro le sbarre perché sono cresciuti in contesti difficili dove l’unica proposta di vita era quella data loro dalla criminalità organizzata. Noi invece proponiamo una strada nuova, quella del riscatto, quella del Vangelo. ‘Ero in carcere e siete venuti a trovarmi’, dice Gesù. Sul suo esempio noi cerchiamo di portare una speranza a persone considerare ‘senza speranza’. Ma, per noi, nessuno è irrecuperabile”. Legalità e fede - “Grazie alla nostra vicinanza, morti detenuti - forse per la prima volta in vita loro - si sentono amati, apprezzati, non giudicati. E scelgono così di cambiare per cercare di costruirsi una vita diversa, nella legalità e spesso anche nella fede. Noi della comunità di Sant’Egidio - racconta Stefania - in questi anni abbiamo assistito a tanti piccoli e grandi ‘miracoli’ di rinascita”. Lontani ma vicini - “Ne sono un esempio - prosegue Stefania - le lettere pervenuteci durante il lockdown. Non potevamo andare a visitare fisicamente i detenuti e perciò rimanevamo in contatto scrivendo loro delle lettere alle quali rispondevano con gioia. Anzi, chi di loro riceveva qualche lettera o cartolina in più, le condivideva con quelli - sempre troppi - che invece non avevano nessuno che scrivesse loro. Un gesto di umanità da parte di chi la solitudine e il senso di abbandono lo paga sulla propria pelle, ma ha quella delicatezza d’animo che gli fa tendere una mano a chi sta messo peggio di lui. Sono cose che chi non vive la realtà del carcere, fatta di grosse privazioni - nonostante il grande lavoro che compiono quotidianamente degli operatori giudiziari - fa fatica ad immaginare”. Le preghiere per anziani e clochard - Anche dietro quel muro che divide i due mondi - quello ‘libero’ da quello ‘ristretto’ - il senso di umana pietà (o, in senso cristiano, di pietas) non è morto. Anzi…è forse più vivo che in tanti cittadini cosiddetti liberi. Lo dimostrano le lettere ricevute da Stefania durante il lockdown. “Quello che maggiormente mi ha stupita - dice Stefania Tallei - è che i carcerati, nonostante la loro situazione difficilissima, ascoltando i telegiornali si sono preoccupati per gli anziani e per i clochard che erano maggiormente esposti al rischio di ammalarsi di coronavirus e di morire”. Le lettere dei detenuti - Riportiamo il testo di alcune lettere di detenuti, ricevute dalla stessa Stefania, che spiegano meglio di ogni commento la pietà di queste persone, troppo spesso etichettare come “delinquenti” senza cuore. Un cuore, invece, ce lo hanno, e batte forte per gli ultimi. Forse, da questa storia, potremmo imparare qualcosa anche noi … “onesti”. “Carissima Stefania di sant’Egidio - scrive un detenuto italiano del carcere di Roma - ho ricevuto una lettera da una persona anziana e mi ha commosso, sono rimasto colpito dalla discrezione e dalla delicatezza delle sue parole. Scusami se non ho fatto gli auguri per la Pasqua né a te né agli altri volontari, ma ero inerte, quasi disilluso, meglio dire avulso da tutto. Poi, leggendo e rileggendo mi sono quasi vergognato del mio stato d’animo pensando al dramma che vivono gli anziani in quanto categoria ad alto rischio per il Covid-19. Gli anziani sono a rischio molto più di tutte le altre categorie sociali ed io mi deprimevo pensando solo a me e alla mia condizione di detenuto! È stato come un brusco risveglio, le parole contenute nella lettera non le dimenticherò mai”. “Ho appena finito di leggere la tua lettera e ti ringrazio perché come sempre come per magia dal mio cuore svanisce quel senso di solitudine e di abbandono - scrive un altro carcerato - Per quanto riguarda il carcere, come sai i volontari non vengono più, il cappellano non dice più neanche la messa, è un periodo davvero nero per tutti, qui siamo noi e le guardie e basta tutto il giorno. Ma anche la gente fuori soffre, prego per tutte quelle persone che sono in mezzo alla strada. Non posso non esprimere preoccupazione per quello che sta accadendo e per tutte le persone indifese che si ritrovano di fronte a un’ennesima guerra. Naturalmente parlo degli anziani, che soffrono più di tutti. Riguardo ai nonnetti sono successi tanti casini, mi dispiace, però non mi hanno risposto alle lettere, rimango male, quando vai a trovarli abbracciali anche da parte mia. Grazie per quanto fate per tutti noi, solo chi è cieco non capisce che voi siete la strada che ho tanta voglia di percorrere. Spero che presto possiate rientrare tutti, c’è bisogno del sostegno morale. Almeno per me, riguardo al mio rapporto con la fede è buono e ho la consapevolezza che accanto a me c’è qualcosa di divino che mi prende per mano, altrimenti da solo non riuscirei. È vero che c’è la solitudine e la tristezza, ma c’è anche molto di buono che come sempre non fa rumore ma c’è e me lo tengo stretto, perché senza l’amore di Gesù ci sarebbe l’oscurità che mi fa schifo. Ti lascio con la penna ma non con il cuore”. La vita nel villaggio? Non è per tutti di Gioacchino Criaco Il Riformista, 3 agosto 2020 Se arriveranno i soldi dall’Europa, una parte dovrebbe essere utilizzata per rimodellare economicamente e socialmente le periferie, fra le discussioni più percorse, gli slogan più utilizzati, il ripopolamento dei borghi e delle aree interne è il progetto più in voga. “L’Italia la si rimodella sui villaggi”, afferma il ministro per gli affari regionali Boccia, e Provenzano parla da tempo di un piano per il Sud che è appunto il ripopolamento, umano ed economico. Ma il borgo bisogna rammentarlo ai più: la puzza acida del sugo finto, acqua colorata con qualche cucchiaio di concentrato di pomodoro. L’odore pesante dei fagioli e il profumo ingannevole del pane appena sfornato che di buono aveva solo l’aroma ed era una cottura abbrustolita delle parti meno nobili del grano. Le pluriclassi a scuola, le corse affannose per raggiungere un ospedale sempre troppo lontano. Il borgo era soprattutto questo, e il borgo per eccellenza è stato il Sud dei paesini, e da questo si scappava, si è scappati. Dalla fame, dalle fatiche. Il tempo ne ha offuscato il sentore vero, ha costruito un mito che risorge potente e ora, dagli architetti famosi, dagli imprenditori di successo, dalla politica del nuovo corso: in risorgenza dal covid con i soldi dell’Europa, se ne esalta il valore. È l’inumanità delle conurbazioni esagerate che spinge verso i luoghi piccoli, i concentrati di un umanesimo vago. Il villaggio è fallito quando dalla sopravvivenza si è passati al voler altro che il solo vivere, e le città erano la promessa luminosa: scuole, ospedali, cinema, teatri, lavoro meno duro. Per chi veniva da un ritenuto niente il poco era tanto. Ora da quel tanto si vorrebbe fuggire, per un salto che sa solo di buio. Ma non è la rivincita del villaggio, solo la sconfitta della città. Si materializza già da tempo, le restrizioni della pandemia l’hanno solo accelerata. Non è la grandezza il problema, anche se le dimensioni contano: il benessere, i soldi, più se ne hanno meno si sente il bisogno dell’altro. Non è la centralità dell’uomo la soluzione, ma il suo contrario: fondare tutto sull’elemento umano, lasciare ogni elemento che non sia umano a solo contorno dell’esistenza forse è il vero errore. L’uomo padrone e non partecipe del contesto, magari è la causa scatenante della disumanità. In fondo la città è questo, il protagonismo di chi ha, di chi riesce, di chi ha successo, con una marginalizzazione cinica degli spiriti tenui, poco adeguati e competitivi. La città è un ciclo continuo di marginalizzazione, di disumanizzazione, si mette all’angolo chi non ce la fa, l’umanità diventa periferia con la centralizzazione del riuscito. E tutto va bene fino a quando la solitudine non atterrisce i più bravi. La ricerca mitologica del villaggio è questo: spezzare l’isolamento degli adeguati, dei ricchi, di quelli che si sono tenuti per loro i soldi, il cinema, i teatri, i libri e tutte quelle cose che chi scappava dai borghi andava cercando. Ecco, forse la soluzione è anche costruire i borghi dentro le città, far rientrare i margini nel centro, trascinando dentro quella umanità di cui sono portatori. E se davvero ci si sposta verso il villaggio, non ci si può portare dietro lo spirito, e la comodità, e la concorrenzialità del cittadino, replicando in piccolo la città con la sua disumanizzazione. Nasce fra gli architetti, gli imprenditori, gli uomini di successo, il mito del borgo, senza comprendere che nel villaggio devi essere fabbro, muratore, elettricista, contadino, devi avere un tipo di sapere vasto o essere disposto ad acquisirlo. Vivere in un paese vuol dire adattarsi alle regole di una natura che a volte è madre, altre matrigna. Se davvero arriverà un Recovery Plan a rimodellare i villaggi e le aree interne, la politica dovrà rimuovere gli inganni del tempo, l’addolcimento della nostalgia, ricordarsi e cancellare tutti quei problemi che hanno fatto scappare le persone dai luoghi piccoli e lontani, contenere dentro un villaggio i servizi, da scuola a sanità, minimi, le opportunità, la possibilità di uno spostamento rapido. Stando sempre attenti a non replicare in piccolo le città. Non sarà facile, perché vivere in un bosco non è per tutti. Migranti. A Lampedusa oggi arriva la nave quarantena di Romina Marceca La Repubblica, 3 agosto 2020 “L’hotspot verrà svuotato dei 678 migranti”, dice il sindaco Martello che parla di “emergenza sull’isola”. In due settimane 5.500 arrivi. Arriverà oggi a Lampedusa la nave quarantena inviata dal governo e che ospiterà i 678 migranti attualmente presenti nell’hotspot. A confermarlo è il sindaco Totò Martello. “In poco meno di due settimane sono arrivati sull’isola di Lampedusa oltre 5.500 migranti in 250 sbarchi, molti dei quali di piccolissime entità. Ormai è una vera e propria emergenza”, aggiunge il sindaco di Lampedusa che fa un quadro della situazione attuale sulla maggiore delle isole Pelagie. Soltanto la notte scorsa ci sono stati tre diversi sbarchi per un totale di una quarantina di arrivi. Tutti tunisini, come avviene ormai da quasi un mese con la rotta tunisina. “L’ultima imbarcazione, molto piccola - spiega Martello - è arrivata poco dopo le nove di stamattina con una dozzina di persone a bordo”. “Entro questa sera è attesa la nave quarantena a Lampedusa”. Al momento, come conferma lo stesso sindaco ci sono all’hotspot 678 persone, quasi tutti tunisini e uomini, ma ci sono anche famiglie. In poco meno di 24 ore sono state trasferite oltre 300 persone, così come era stato chiesto ieri dal primo cittadino al premier Giuseppe Conte. Oltre cento sono stati trasferiti a bordo del traghetto per Porto Empedocle. Nelle vie di Tunisi: “Migrare in Europa è un nostro diritto” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 3 agosto 2020 Donne e famiglie in viaggio, e i populisti cavalcano gli addii di massa: “Si è creata una mitologia della partenza. Apriteci le porte in Italia”. Una vecchia canzoncina a volte spiega molto più di un rapporto sociologico. Bendir Man, un cantante popolare tunisino, nel 2011 aveva adattato Bella Ciao alla rivoluzione “dei gelsomini”, la rivolta che ha fatto fuggire il presidente Ben Alì. Poi aveva rimesso mano alle parole del testo. Ha cantato la Bella Ciao dei migranti, Habiba Ciao. “Domani, quando ti sveglierai, non mi troverai/ habiba ciao ciao ciao/ Metti Rai Uno, forse mi vedrai saltellare in terra italiana / ti chiedo scusa a nome di mamma, mi puoi salutare alzando la mano verso Lampedusa. Farò tanti soldi, mi comprerò una Lamborghini e al matrimonio ti porterò”. Quale è il sentimento di buona parte del popolo tunisino, oggi? Cosa pensano? In avenue Bourghiba, la via del Corso di Tunisi, guardiamo con qualcuno la canzone sul telefonino: “L’ho vista da tempo, si è vecchia ma è giusta: io penso che se vogliamo, dobbiamo poter emigrare”, dicono Ahmed, 17 anni, e i suoi compagni. Il padre di Ahmed faceva il giardiniere in un grande albergo: è stato licenziato, in casa nessuno lavora. Gli altri giovani sono tutti d’accordo: emigrare è un diritto: “Perché questa che abbiamo di fronte è diventata una fortezza Europa? Dovete aprire”. C’è di più. “Oltre alla crisi economica, alla crisi politica che fa urlare a tanti che ‘tutti i politici sono corrotti’, cresce quasi una mitologia popolare della migrazione”, dice Khaled Tababi, sociologo del Forum tunisino dei diritti umani e sociali. Tutti in Tunisia parlano da tempo di quello che noi in Italia abbiamo visto solo da qualche settimana. Non solo crescono i migranti, non solo partono le famiglie, ma tutto diventa “diritto alla migrazione” (e quindi cresce la parallela tolleranza). Tatabi aggiunge che migrare diventa anche una “forma di contestazione, come sempre succede nei momenti di crisi dei sistemi politici”. Ma iniziano a farlo le famiglie e le donne proprio perché partire è sempre meno tabù, non è più anti-sociale, men che meno è percepito come illegale. “Si, mitologia della migrazione come la chiamate voi è qualcosa che vediamo anche noi. Significa che i migranti illegali che arrestiamo in mare non capiscono perché li blocchiamo; loro sanno di fare qualcosa di illegale, ma trattano noi poliziotti come dei traditori, qualcuno che nega loro diritti e che agisce per conto dell’Europa ricca”, diceva l’altro giorno a Sfax un ufficiale della Guardia costiera. In parallelo nel paese si confermano i segnali di una crescita di “populismo tunisino” che insabbia la politica e le istituzioni. Da qualche giorno nel Sud, ad Al Kamour, 120 manifestanti hanno bloccato nel deserto le valvole dei pozzi di petrolio. La Tunisia produce poco, circa 40 mila barili al giorno. Ma tutto è fermo. “Protestano perché il governo non ha applicato un accordo sull’occupazione locale del 2017”, dice il deputato Sami Ben Abdelaali, eletto nella circoscrizione Italia per il partito “Il Futuro”. “Anche il premier appena dimesso, Fakhfakh, non ha rispettato l’accordo, e loro bloccano il petrolio”. L’esercito è schierato nella zona, il ministro dell’Energia ha lanciato un allarme, anche quei pochi proventi del poco petrolio servono all’economica tunisina, e soprattutto servono a far capire agli investitori stranieri che la legge viene rispettata. Ma nessuno fa nulla. Un’altra mossa che in Italia definiremmo populista l’ha votata il 29 luglio il parlamento: “È un provvedimento per circa 60 mila laureati disoccupati da più di 10 anni: dovranno essere assunti dalla pubblica amministrazione”, dice il deputato Abdelaali. Ma se non c’è lavoro e non ci sono soldi come farete? “Dobbiamo trovare i soldi: non ci sono nel bilancio 2020? Li troveremo in quello del 2021”. I molti partiti e partitini tunisini sono divisi: certo un grande merito della democrazia tunisina è che pochi giorni fa Fakhfakh si è dovuto dimettere per un conflitto di interessi. La democrazia c’è. Ma adesso le trattative fra i partiti sono insabbiate. Il presidente Kais Saied ha incaricato un tecnico senza ascoltare i partiti (il ministro dell’Interno Hichem Mechichi). Ma tutto sembra molto lento, molto lontano dalla velocità che chiede il popolo. Indebolisce la democrazia nata nel 2011. In questo contesto troppi dicono che gli sbarchi sono l’unica possibilità per il futuro. Molti sono pronti a rischiare la morte. Bendir Man, il cantante, chiudeva così la sua Bella Ciao: “Sia che vediamo quel paradiso (l’Italia) coi nostri occhi / bella ciao / sia che affoghiamo e moriamo senza sepoltura, la mia anima tornerà da te a nuoto”. È il dramma di un popolo. Anzi anche il nostro. L’Europa della Difesa si mette in marcia. Tank, satelliti e forze armate in comune di Alberto D’Argenio La Repubblica, 3 agosto 2020 La svolta nel semestre tedesco, in sintonia con la Francia: per la prima volta un piano strategico. Nel budget 16 miliardi per sistemi militari e spazio. Sarà il semestre della Difesa europea, quello iniziato il primo luglio con la presidenza di turno tedesca dell’Unione. Su spinta di Germania e Francia, l’Europa per la prima volta si dota di un bilancio comune per le spese militari. Tra la fine dell’estate e l’autunno, poi, Berlino lancerà lo Strategic Compass continentale con l’obiettivo di identificare entro un paio d’anni le minacce alla sicurezza europea e concentrare le risorse comuni e nazionali sulle spese necessarie a dare loro una risposta. A spingere Merkel e Macron verso una sovranità militare europea il temuto disimpegno dell’America trumpiana dalla Nato, concretizzato dal ritiro di 12 mila soldati dalle basi tedesche, tenendo però sempre conto che ciò che è utile alla costruzione di forze continentali è utile anche all’Alleanza atlantica che gli europei certo non vogliono smantellare. Nel budget dell’Unione 2021-2027 approvato all’alba del 21 luglio dai leader europei insieme al Recovery Fund, compare una voce di bilancio inedita, specifica per le spese militari: 3 miliardi per la Difesa e 13 miliardi per lo Spazio. Un primo passo importante anche se gli stanziamenti sono dimezzati rispetto a quanto chiedeva la Francia, che puntava fino a 9 miliardi per la Difesa. Anche lo “Schengen militare” è stato corretto al ribasso. Meglio noto come “Mobilità militare” il progetto che dovrebbe facilitare il movimento delle forze armate all’interno dell’Unione è passato dai 6,5 miliardi di euro ipotizzati in un primo tempo a 1,5 miliardi di euro nel compromesso del vertice. Al Fondo europeo per la pace, lanciato dalla precedente Commissione per finanziare le missioni di sicurezza e di difesa comune, andranno 5 miliardi di euro in sette anni rispetto a una prima ipotesi che andava fino a 10,5 miliardi di euro. Contro il ridimensionamento delle somme alcuni parlamentari ed ex ministri europei si erano mobilitati prima del vertice con un appello per evitare quello che hanno definito un “grave errore strategico”. Se è vero che i tagli erano già stati proposti dalla presidenza finlandese, la crisi del Covid ha accelerato la tendenza. “È profondamente sbagliato perché sappiamo che le minacce già esistenti non sono scomparse e anzi rischiano di aggravarsi” sottolinea Hélène Conway-Mouret, vicepresidente del Senato francese e tra le promotrici dell’appello sottoscritto in Italia anche da Laura Garavini, responsabile Pd alla commissione Difesa e dall’ex ministra Roberta Pinotti. “L’emergenza del Covid aumenterà l’instabilità alla periferia dell’Unione in Paesi con sistemi politici già fragili - spiega Conway-Mouret - e aggrava il confronto tra Stati Uniti e Cina, mentre le istituzioni di governance globale sono denigrate e messe da parte”. Anche se con stanziamenti inferiori a quello che speravano alcuni, l’Europa della Difesa entra finalmente nel vivo. Per accedere ai fondi, serviranno progetti industriali che comprendano almeno tre soggetti provenienti da tre partner Ue differenti. L’obiettivo di Bruxelles è il superamento della frammentazione delle forze armate del continente con lo sviluppo di una di capacità comuni armonizzate, senza doppioni e sprechi, alla ricerca di una autonomia strategica della Ue. Insomma, si parte da ricerca e competitività dell’industria europea per arrivare a forza armate dei vari stati membri perfettamente interconnesse e complementari tra loro. Appunto, la nascita della Difesa europea. Le incognite sono molte basta vedere gli ostacoli che ha dovuto superare il primo embrione di difesa europea, quello lanciato nel 2017 e ufficializzato con il trattato di Aix-la-Chapelle firmato da Merkel e Macron nel 2019. Lo sviluppo di uno due progetti pilota (Fcas, Future Combat Air System), che in prospettiva vuole creare una piattaforma militare di comunicazione integrata, tra caccia, satelliti, missili e droni, al quale si è aggiunta la Spagna, è stato a lungo bloccato dalla rivalità tra i vari protagonisti industriali, tra cui il colosso francese Dassault e la componente militare di Airbus in cui i tedeschi hanno un peso rilevante. Ulteriore ritardo è stato causato dalle reticenze nel Bundestag ad approvare le varie tranche di finanziamento. Alla difficoltà di trovare compromessi tra Parigi e Berlino - si pensi anche all’embargo deciso dalla Germania sulla vendita di armi verso l’Arabia saudita - si sono aggiunti i problemi legati all’altro progetto pilota dell’accordo franco-tedesco, lo sviluppo del “tank del futuro” oggetto di tensioni tra costruttori come il gruppo Rheinmetall e Knds, la joint venture tra il tedesco Krauss Maffei Wegmann e il francese Nexter. Intanto, fuori dallo schema franco-tedesco, avanza il progetto europeo rivale al Fcas, il Tempest a cui partecipano Regno Unito, Italia e Svezia. “Credo che sarebbe logico accordarsi per evitare che in futuro l’Europa si ritrovi con due piattaforme concorrenti”, commenta la senatrice francese Conway-Mouret. Nel nuovo piano europeo quello industriale sarà il primo passo verso la creazione di una vera sovranità militare continentale. Premessa fondamentale affinché questo accada, il salto politico con lo “Strategic Compass”. Sarà lanciato a breve dal governo tedesco in quanto presidente di turno dell’Unione e coinvolgerà istituzioni e capitali per identificare tutti insieme le minacce e le sfide strategiche alle quali l’Unione dovrà dare risposta. Ciò che ne conseguirà sarà la definizione della priorità dei progetti e delle iniziative sulle quali far convergere le risorse del nuovo bilancio per la Difesa Ue. Anche sullo “Strategic Compass” si addensano ombre. L’urgenza di creare “un’autonomia strategica europea”, secondo le parole di Macron, potrebbe svanire in caso di un cambio alla Casa Bianca nel prossimo novembre. “La finestra di opportunità aperta con la presidenza di Trump potrebbe allora richiudersi”, teme il senatore francese Jean-Marc Todeschini già sottosegretario alla Difesa. Il salto politico finale sarebbe quello di una vera politica estera e di difesa comune, raggiungibile solo eliminando l’unanimità, e dunque il diritto di veto, sulle decisioni internazionali dei governi europei. In autunno partirà la Conferenza sul futuro dell’Ue con l’obiettivo di tracciare l’identikit delle riforme istituzionali con le quali rilanciare il progetto europeo. L’introduzione del voto a maggioranza in politica estera è tra le priorità dei governi e dei gruppi dell’Europarlamento favorevoli alla nascita di quell’Europa politica e geopolitica cara a Ursula von der Leyen e Macron. Ma resta l’incertezza sulla possibilità che la Conferenza sfoci in un vero e proprio processo di revisione dei trattati Ue che in molti vorrebbero completare entro il primo semestre del 2022, quando a guidare l’Europa ci sarà la presidenza di turno francese. Quell’Europa debole sui diritti di Lucrezia Poggetti La Repubblica, 3 agosto 2020 I rapporti tra l’Ue e la Cina: il timore di ritorsioni economiche ha spesso prevalso su tesi a favore di linee più dure nei confronti di Pechino, specialmente su questioni di democrazia e diritto internazionale. Hong Kong è una di queste. Salvo rare eccezioni, i governi europei hanno sempre trattato la Cina con i guanti di velluto. Il timore di ritorsioni economiche ha spesso prevalso su tesi a favore di linee più dure nei confronti di Pechino, specialmente su questioni di democrazia e diritto internazionale. Hong Kong è una di queste. Dopo alcuni tentennamenti iniziali, i Paesi Ue hanno finalmente trovato un accordo su un pacchetto di misure a sostegno dell’autonomia dell’ex colonia britannica in risposta alla legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino. Tra le azioni previste dal Consiglio europeo del 28 luglio ci sono controlli più stringenti sulle esportazioni di tecnologia e attrezzature che possono essere utilizzate in maniera repressiva dalle forze di polizia, la revisione di trattati di estradizione e altre forme di cooperazione giudiziaria con il governo della città e un ripensamento dei sistemi di visti e asilo per chi proviene dalla regione ad amministrazione speciale. Grande assente fra le misure è l’imposizione di sanzioni. Indubbiamente l’iniziativa, proposta il 13 luglio da Francia e Germania, è un passo nella giusta direzione. L’elaborazione di posizioni comuni richiede un consenso fra i 27 Stati membri non semplice da raggiungere. Tuttavia, la gravità della situazione di Hong Kong - a cui dovevano essere garantite libertà speciali fino al 2047 e dove pochi giorni fa sono stati squalificati in massa candidati democratici dalle elezioni del Consiglio legislativo - richiede posizioni che, al di là del simbolismo, mostrino a Pechino le ripercussioni che la violazione di accordi internazionali e diritti possono avere sui rapporti con le democrazie europee. Finora i governi europei sono stati restii nell’utilizzare, per esempio, il peso economico del blocco Ue - principale partner commerciale della Cina - nei rapporti con Pechino. La creazione di sanzioni per la violazione dei diritti umani discussa a dicembre 2019 dai ministri degli Esteri a Bruxelles è in fase di stallo. Europarlamentari di Renew Europe hanno così chiesto all’Alto Rappresentante Josep Borrell di velocizzare la stesura del “Magnitsky Act” europeo in risposta alle violazioni dei diritti umani a Hong Kong e in Xinjiang. Dal canto suo, la diplomazia cinese sta lavorando assiduamente per scoraggiare prese di posizione più dure. Il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, ha condannato le nuove misure su Hong Kong come un’interferenza negli affari interni alla Cina. Il governo cinese sta inoltre cercando di dipingere posizioni a sostegno della democrazia come uno schieramento con i “falchi” della Casa Bianca. L’appello del ministro degli Esteri Wang Yi all’omologo Luigi Di Maio a mantenersi indipendente da “certi Paesi” va letto in tal senso. I governi europei farebbero bene a non lasciarsi confondere dalla retorica cinese e continuare a lavorare insieme per la protezione dei diritti a Hong Kong. Anche l’Italia - dove sono in vigore un trattato di estradizione con Pechino e uno di assistenza giudiziaria con Hong Kong - ha il suo ruolo da giocare. È stata appena approvata alla Camera una mozione a sostegno delle libertà della città. Dopo lunghi silenzi, è tempo che il governo italiano traduca in azione gli impegni a fare di più per la salvaguardia dei diritti, in Cina e a Hong Kong. Libia, migranti uccisi: “Hanno sparato loro mentre scappavano per evitare di finire nei lager” La Repubblica, 3 agosto 2020 La testimonianza dell’équipe di Medici Senza Frontiere che ha assistito i sopravvissuti. Racconti di prima mano indicano che le tre vittime facevano parte di un gruppo di 73 profughi sudanesi. I tre migranti uccisi e i due gravemente feriti nella sparatoria a Khoms martedì notte, dopo essere stati intercettati e riportati nel paese da cui stavano cercando di fuggire, avevano un’età compresa tra i 15 e i 18 anni. È un nuovo tragico sviluppo che dimostra ancora una volta quanto i migranti in Libia subiscano violenze e brutalità che mettono a rischio la loro vita. Subito dopo la sparatoria, avvenuta nel sito di sbarco, le équipe di Medici Senza Frontiere (Msf) ha organizzato il trasferimento d’urgenza dei due sopravvissuti feriti in un ospedale vicino e ha supportato le loro cure. Entrambi sono stati feriti da colpi di arma da fuoco e sono ancora profondamente sotto shock. Uno dei due è un parente di una delle vittime, colpito a morte davanti ai suoi occhi. I tre facevano parte di un gruppo di 73 persone. Testimonianze di prima mano raccolte da MSF indicano che le tre vittime e i due feriti facevano parte di un gruppo di 73 persone intercettate in mare dalla Guardia Costiera Libica, riportate indietro e fatte sbarcare a Khoms. Decine di loro, tutti sudanesi, hanno cercato di fuggire per evitare di finire in detenzione, e in quel momento è stato aperto il fuoco. Alla fine 26 persone sono state portate in un centro di detenzione mentre altre sono riuscite a fuggire. Le équipe di MSF, che danno assistenza ai migranti vulnerabili nei centri di detenzione, li hanno visitati. Molti di loro erano ancora sotto shock e sofferenti. Tra le 26 persone rinchiuse nei lager ci sono 8 bambini. Il gruppo era composto prevalentemente da giovanissimi: i tre uccisi e i due feriti avevano tra i 15 e i 18 anni e ci sono almeno 8 minori tra le 26 persone portate al centro di detenzione. “Quanto accaduto martedì è scioccante e inaccettabile. Persone disarmate sono state colpite e uccise solo perché fuggivano disperatamente per evitare la detenzione arbitraria. Tutto questo è inconcepibile - dice Sacha Petiot, capo missione di MSF in Libia - come molti altri rifugiati e migranti in Libia, questi giovani sono stati trascinati in una spirale di brutalità e repressione mentre avrebbero bisogno di umanità e protezione”. Gli altri episodi di sangue avvenuti. Non è la prima volta che accadono eventi tragici di questo genere in Libia. In un episodio simile, un cittadino sudanese è stato ucciso in un sito di sbarco a Tripoli nel settembre 2019. Recente anche un’atroce uccisione di massa, in cui i trafficanti di esseri umani hanno ucciso 30 migranti del Bangladesh detenuti in un capannone a Mizdah. Allo stesso tempo, nell’ultimo mese, si è registrato un aumento delle partenze e dei ritorni forzati, e una rinnovata tendenza a trasferire le persone nei centri di detenzione. Poiché percorsi legali come voli umanitari e piani di reinsediamento sono attualmente sospesi a causa della pandemia di Covid-19, tentare il pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo è l’unica possibilità che hanno queste persone di fuggire da tali brutalità e abusi. “Ripetiamo di nuovo: la Libia non è un luogo sicuro”. “Per l’ennesima volta ripetiamo che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare - è invece un luogo in cui violenza, brutalità, repressione e privazioni sono condizione quotidiana per migliaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo - aggiunge Sacha Petiot di Msf - aspettiamo da tempo che vengano bloccate le politiche di rimpatrio forzato in Libia. L’UE deve supportare un meccanismo di ricerca e soccorso efficace nel Mediterraneo e un sistema sostenibile di sbarco in porti sicuri, invece che incoraggiare respingimenti illegali, e vanno riattivate urgentemente vie legali e sicure come il programma di evacuazione e reinsediamento dell’Unhcr”. Msf lavora in Libia dal 2011. Oggi i team di MSF forniscono supporto a migranti, rifugiati e richiedenti asilo in sei centri di detenzione nelle regioni occidentali e centrali della Libia, nonché a Tripoli. I servizi forniti dai team di MSF comprendono assistenza sanitaria di base, trasferimenti negli ospedali, salute mentale, servizi di protezione e supporto per l’accesso ai bisogni di base, attraverso la distribuzione di cibo e beni di prima necessità, acqua e servizi igienico-sanitari. Colombia. Per la morte di Mario Paciolla indagati quattro poliziotti di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 3 agosto 2020 I genitori del cooperante napoletano: mai creduto al suicidio. Il corpo di Mario Paciolla adesso riposa nel cimitero della sua città, Napoli. Mario sarebbe dovuto tornare il 20 luglio scorso, e sarebbe dovuto tornare come tornava sempre: con l’entusiasmo per il lavoro fatto fino al giorno prima e con il desiderio di ripartire per ricominciare, in qualche parte del mondo, a lavorare per aiutare gli altri. Invece è rientrato in una bara, e sulla sua morte, avvenuta il 15 luglio in Colombia, a San Vicente de Caguan, si addensano ombre che non solo fanno pensare sempre più a un omicidio, ma fanno anche temere inquietanti tentativi di ostacolare la ricerca della verità. Mario Paciolla aveva 33 anni e a San Vicente lavorava con un contratto di collaborazione con le Nazioni Unite in un progetto mirato ad agevolare il processo di pacificazione tra ex guerriglieri delle Farc e lo Stato colombiano. La mattina del 15 luglio fu trovato in casa, impiccato e con il corpo martoriato da molte ferite da lama. Aveva anche profondi tagli ai polsi, ma che si sia ucciso non lo hanno mai creduto i suoi genitori, il papà Giuseppe e la mamma Anna Motta, e l’ipotesi viene sempre più esclusa anche dalle indagini delle autorità colombiane, mentre un fascicolo è stato aperto pure dalla Procura di Roma, competente sulle morti sospette di cittadini italiani all’estero. E i sospetti aumentano alla luce degli ultimi sviluppi investigativi. Secondo il quotidiano colombiano El Espectador, che segue da vicino il caso, quattro agenti della polizia locale sono finiti sotto inchiesta per aver consentito ad alcuni funzionari dell’Unità indagini speciali del dipartimento Salvaguardia e Sicurezza delle Nazioni Unite di raccogliere e portare via dalla casa di San Vicente una parte degli effetti personali di Mario, sottraendo quindi alle indagini materiale che si sarebbe potuto rivelare prezioso. Perché lo avrebbero fatto? Se lo chiede il senatore Sandro Ruotolo, che sollecita un intervento chiarificatore del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Ma soprattutto se lo chiedono il papà e la mamma di Mario. Che al suicidio non hanno mai creduto - spiegano tramite le loro legali Alessandra Ballerini e Emanuela Motta - “per il suo grande ottimismo, per la sua voglia smodata di amore per la vita, per l’attaccamento alla famiglia, agli amici, alla sua città. E per i progetti che con noi aveva fatto per il suo ritorno a Napoli: stava studiando il francese per poi prendere qui il titolo per l’insegnamento”. Ma il pensiero fisso di Giuseppe e Anna è a una videochiamata che il figlio fece a casa l’11 luglio. “Chiamò a un orario insolito. Era preoccupato per alcuni dissapori nati con l’organizzazione, ci raccontò di aver discusso con alcuni colleghi e ci annunciò di volere rientrare subito in Italia, aveva molta fretta di uscire dalla Colombia e ci disse di voler chiudere definitivamente con l’Onu. Nei giorni successivi ci siamo sentiti quotidianamente, ci è sempre apparso molto preoccupato, a tratti impaurito. Il giorno 14 ci ha detto di aver ricevuto la documentazione necessaria per partire e in quella stessa notte aveva acquistato un biglietto per Parigi per il giorno 20”. Ora l’attenzione massima spetta alle autorità italiane. I genitori di Mario ci contano: “Il ministro degli Esteri Di Maio, la Farnesina, il presidente della Camera Fico, il sindaco di Napoli de Magistris. Tutti ci hanno promesso di adoperarsi alla ricerca della verità per poter dare giustizia a Mario. È l’unica cosa che desideriamo”. Afghani uccisi a sangue freddo, i raid dei soldati britannici e quelle mail che li accusano di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 agosto 2020 La scoperta di messaggi riservati tra alti ufficiali: 33 uccisioni sospette. All’una di notte del 16 febbraio 2011 gli elicotteri neri Chinook delle squadre speciali britanniche (Sas) atterrano presso il villaggio di Gawahargin. Abitazioni d’argilla basse, circondate da mura e attorno campi coltivati, molti dei quali a papaveri per la produzione dell’oppio. Siamo nel distretto di Helmand, nell’Afghanistan meridionale, che negli ultimi cinque anni è diventato il cuore combattente della rinascita del movimento talebano. I soldati sono il meglio dell’esercito di Sua Maestà: addestrati per l’antiguerriglia, combattono spesso a fianco dei Marines americani. Sembra una missione di routine. Cercano armi, esplosivo e soprattutto vorrebbero catturare il 22enne Saddam assieme al fratello 24enne Atta Ullah. Specie Saddam è sospettato di costruire le famigerate bombe improvvisate, che tante vittime stanno causando tra le file della coalizione Nato-Isaf in tutto il Paese. L’intelligence è accurata, negli ultimi tempi sono entrate in azione le nuove forze di difesa afghane, armate a addestrate dalla coalizione internazionale (di cui è parte importante anche il contingente italiano tra Kabul e la provincia di Herat) e posseggono una buona rete di informatori locali. Però pare che qualche cosa non vada per il verso giusto. A sentire il racconto dell’oggi quasi trentenne Saifullah Yar, fratello più giovane dei due ricercati, i britannici sparano. E lo fanno con il chiaro intento di uccidere, di eliminare il massimo numero di uomini in età da poter partecipare alla guerriglia. Prima fanno uscire le famiglie di due abitazioni limitrofe. Possiamo immaginarlo. Nel cuore della notte. Gli uomini vengono subito bendati con uno straccio nero, le mani legate dalle manette di plastica. Le donne che si coprono in fretta, i bambini che piangono spaventati in braccio. Il racconto di Yar nella prima fase coincide con i rapporti interni delle Sas. Gli ufficiali ordinano al padre di Saifullah, il 55enne Abdul Khaliq, di rientrare nell’abitazione vuota per aprire le finestre e facilitare la perquisizione. Ma da qui le versioni divergono. Secondo le Sas l’uomo obbedisce, entra in casa, però poi da dietro una porta prende una granata e cerca di tirarla contro i soldati. L’ordigno non esplode. I militari lo uccidono con una decina di colpi di mitra tirati alla testa e al collo. Saifullah invece parla di esecuzione mirata. E lo stesso ribadiscono gli uomini delle forze afghane arrivate con i britannici. “Non c’è stata alcuna aggressione da parte di Khalik. È stato ucciso a sangue freddo”, ribadiscono agli avvocati, che adesso cercano giustizia presso l’Alta Corte di Londra. Lo stesso pare sia avvenuto per gli altri tre uomini assassinati nei minuti seguenti: i due fratelli più anziani e un cugino di Saifullah. Il resoconto dell’unità coinvolta, redatto subito dopo, li accusa di aver cercato di prendere il mitra e reagire. Ma anche per loro il dubbio è che fossero del tutto innocenti. Da allora Saifullah ha cercato più volte di portare il caso a processo. E in verità gravi sospetti che tra le Sas si fosse imposta una cruda politica di eliminazione preventiva di nemici potenziali nelle aree “calde” dell’Afghanistan erano sorti sia ai loro comandi a Kabul che al quartier generale in Gran Bretagna. Come segnala ora la stampa inglese, inclusi Bbc e Sunday Times, le prime inchieste si erano annacquate nei “non ricordo” e nei casi di “amnesia collettiva” tra gli uomini delle unità sospette. Ora però la scoperta di un file di mail riservate tra alti ufficiali delle Sas operativi in quel periodo rischia di portare in tribunale a testimoniare lo stesso Segretario alla Difesa, Ben Wallace. Emerge che addirittura 33 persone innocenti potrebbero essere state eliminate senza motivo nel corso di undici raid notturni nei tre mesi compresi tra l’8 gennaio e 2 aprile 2011. Un sospetto che getta fango sull’intera coalizione e necessita di essere chiarito.