Misure alternative. Obiettivo inclusione per i detenuti di Giovanni Galli Italia Oggi, 31 agosto 2020 Enti e Associazioni chiamati a raccolta dal Ministero della Giustizia per accogliere persone detenute che potrebbero teoricamente fruire di misure alternative alla carcerazione ma non sono in grado di farlo a causa della mancanza di una casa o di risorse familiari o economiche. Il progetto di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa, presentato in pieno lockdown, fa parte del documento di programmazione generale per il triennio 2020-2022: gli Uffici di esecuzione penale esterna nel prossimo triennio, come spiega la scheda di sintesi del progetto, lavoreranno per rafforzare il proprio ruolo di coordinamento delle relazioni con gli attori istituzionali e con le agenzie pubbliche e private del territorio, in modo da offrire all’utenza reali opportunità di reinserimento sociale. Nello specifico, un graduale reinserimento del detenuto all’interno del tessuto sociale. Il progetto si propone di offrire, alla persona detenuta, un sostegno diretto al superamento degli ostacoli che ne impediscono l’immediato e adeguato reinserimento nel contesto sociale, attraverso azioni di accompagnamento nella delicata fase della conclusione della pena. Tali azioni vanno dall’individuazione, accoglienza e conoscenza della persona alla predisposizione di un piano d’intervento condiviso, dal rinnovo di permesso di soggiorno, pratiche burocratiche, visite mediche fino al reinserimento post pena con azioni di accompagnamento e orientamento. I destinatari sono detenuti privi di risorse economiche ed affettive (riferimenti familiari, alloggiativi, lavorativi ecc.), in condizioni psicofisiche di autosufficienza e che abbiano i requisiti per essere ammessi ad una misura alternativa. Tra questi, detenuti con fine pena non superiore ai 18 mesi e che possono accedere alla detenzione domiciliare quelli per i quali il rischio di contagio per Covid-19 possa considerarsi, a causa delle condizioni pregresse di salute, un grave pregiudizio. I partner sono enti e associazioni che aderiscono a un progetto di inclusione sociale e disponibili all’accoglienza globale delle persone, delle quali dovranno favorire processi di inclusione sociale per ridurre il sovraffollamento detentivo e la recidiva e processi di apprendimento e sperimentazione di nuovi e diversi stili di vita. Il progetto prevede anche la fornitura di un kit sociale per assicurare un minimo di beni, strumenti e risorse di prima necessità atti a soddisfare le imprescindibili esigenze di vita quotidiana, kit che potrebbe comprendere anche una modica somma di denaro al fine di sperimentare la gestione economica autonoma e responsabile di talune spese giornaliere basilari. Si prevede un contributo finanziario complessivo di 20 euro al giorno per ciascuna persona accolta per un periodo di sei mesi e, comunque, non oltre i 18 mesi, nel limite della disponibilità finanziaria, contributo che dovrà essere utilizzato per sostenere le spese di vita quotidiana necessarie per il buon esito dei programmi. I penalisti italiani contro la irresponsabile paralisi della giustizia di Gian Domenico Caiazza* camerepenali.it, 31 agosto 2020 A tutti i Presidenti delle Camere penali territoriali italiane, per il rilancio delle iniziative dell’Unione per la piena ripresa delle attività giudiziarie, con la richiesta di monitoraggio in ogni singolo ufficio giudiziario dell’attività, e delle relative modalità, delle cancellerie e delle segreterie, e della celebrazione o meno delle udienze e delle eventuali motivazioni ed entità del rinvio delle stesse. Cara Presidente, Caro Presidente, le premesse della (formale) ripresa dell’attività giudiziaria sembrano replicare, se non peggiorare, quanto ci siamo appena lasciati alle spalle. Il sintomo più significativo è che si parli della ripresa di ogni possibile attività - scuola, discoteche, trasporti pubblici, alberghi, ristoranti - fuorché di quella giudiziaria. Ed anzi i segnali di aumento dei contagi (ma forse sarebbe più corretto dire: di aumentato numero dei contagi rilevati con tampone) preludono al peggio. Il Ministro della Giustizia tace, e dunque tempi, modi e numeri della ripresa sono letteralmente affidati, come fino ad oggi, all’arbitrio dei singoli uffici giudiziari, e soprattutto alle determinazioni dei sindacati del pubblico impiego. Non possiamo consentire che questo scempio accada, e che si confermi nella considerazione generale della pubblica opinione la marginalità del “servizio Giustizia”. Il Paese ha maturato una idea talmente ancillare rispetto alla Magistratura, una delega fiduciaria a tal punto incondizionata, da considerare il servizio giustizia questione sulla quale non vi è da discutere: se le cose vanno così, vorrà dire che così devono andare, e di più non si può pretendere. La Giunta dell’UCPI intende rilanciare fortemente la propria iniziativa sul tema della piena ripresa delle attività giudiziarie, le quali non possono e non devono sottrarsi alla doverosa presa d’atto della necessaria convivenza endemica con l’infezione che attende l’intera comunità sociale (mondiale!) almeno per il prossimo anno. Si adottino le più efficaci misure di precauzione sanitaria, che ormai ben conosciamo e che in realtà sono anche banali e poco dispendiose se rispettate con rigore, ma si riprenda senza più riserve ed indugi a pieno regime. Ti chiediamo dunque di monitorare con grande accuratezza ciò che accade nel Tuo Foro di appartenenza a partire da martedì 1° settembre. Ti invitiamo anzi a richiedere subito un incontro con i vertici degli Uffici Giudiziari del Tuo Foro per avere contezza dello stato dell’arte e delle prospettive di ripresa. Ti invitiamo a raccogliere dati con molta accuratezza, di verificare quali cancellerie e segreterie hanno ripreso, quali no ed in tale ultimo caso perché e con quali formali motivazioni. Ti invitiamo anche a monitorare se le udienze già fissate si celebrino regolarmente, e se rinviate con quali motivazioni e con quale entità di rinvio. La preghiera è di relazionarci già entro la sera di venerdì 4 settembre o al più tardi sabato 5 settembre, già tuttavia predisponendoTi, con il Tuo direttivo e con tutti gli iscritti che riterrete di coinvolgere, per analogo monitoraggio anche nella settimana successiva. Ti prego di considerare questa nostra iniziativa come assolutamente prioritaria, e meritevole del massimo impegno. Le 131 Camere Penali italiane sapranno raccontare alla pubblica opinione la verità e la straordinaria gravità di questo autentico scandalo che si sta consumando nel Paese: la deliberata, irresponsabile paralisi della giurisdizione. Con l’augurio di buon lavoro, Ti giungano i saluti più cordiali della Giunta e miei personali. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Distanze, prenotazioni e telematica: le mosse dei tribunali dopo le ferie di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2020 Sarà una ripresa complessa quella di giovedì 3 settembre, quando gli uffici giudiziari usciranno dalla sospensione feriale e torneranno, in teoria, a funzionare a regime. La sfida è quella di recuperare i ritmi di lavoro pre-Covid e i ritardi accumulati durante il lockdown ma rispettando le prescrizioni sanitarie per evitare la diffusione del virus, a partire dal distanziamento. Ad aumentare le preoccupazioni c’è la fiammata dei contagi di questi giorni: il problema - dicono da molti uffici - è che se si scopre un positivo al Covid si rischia di dover chiudere interi settori. La fine dell’emergenza - Il periodo di emergenza per la giustizia, in realtà, è terminato prima delle ferie, dopo un ping-pong sulla data, prima fissata al 30 giugno, poi spostata al 31 luglio e poi di nuovo anticipata al 30 giugno. Allora si sono esauriti i poteri organizzativi straordinari attribuiti durante la fase 2 ai capi degli uffici giudiziari, che hanno dovuto individuare le modalità per riprendere l’attività dopo la sospensione delle udienze e dei termini nella fase 1 del lockdown. Una scelta che ha prodotto misure diverse da un ufficio all’altro, anche se a tenere banco un po’ dovunque sono stati gli interventi di prevenzione (mascherine, pannelli, disinfettanti), gli accessi regolamentati (udienze per fasce orarie, cancellerie su appuntamento) e soprattutto i processi a distanza (per iscritto o in collegamento video), autorizzati dalle norme dell’emergenza. Luglio, poi, “è stato un mese di rodaggio - spiega il presidente del Tribunale di Catania, Francesco Mannino - perché molte udienze saltate durante il lockdown erano state rinviate a dopo l’estate. Adesso si riparte ma il vero banco di prova sarà novembre, quando terminerà la possibilità di celebrare le udienze civili a distanza e cartolari”. Il decreto legge Rilancio (34/2020) ha infatti sdoganato fino al 31 ottobre, con l’accordo delle parti, la possibilità di sostituire le udienze civili cui devono partecipare solo i difensori con il deposito di note scritte e di ricorrere, in alcuni casi, a collegamenti audiovisivi. Chance, soprattutto la “trattazione scritta”, che anche al Tribunale di Milano “sfrutteremo finché possibile”, afferma il presidente, Roberto Bichi, per cui “la possibilità di tenere alcune udienze a distanza, come quella di precisazione delle conclusioni, si potrebbe stabilizzare”. “Intanto - prosegue - stiamo cercando di ampliare gli spazi dove celebrare le udienze in presenza: abbiamo recuperato un’aula bunker, che ha una capienza di 40 persone, e stiamo lavorando su altre due, che possono arrivare a 60. E abbiamo chiesto agli enti territoriali se hanno sale convegni da mettere a disposizione”. Bichi non pensa solo ai grandi processi penali, ma anche al settore del lavoro, dove in udienza, oltre ai lavoratori, ci sono spesso i sindacati, e alle azioni collettive. Garantire il distanziamento - Quello di evitare l’affollamento negli spazi, spesso ridotti, dei tribunali è un problema comune. Per arginarlo, molti uffici hanno confermato le fasce orarie per le udienze, previsto la possibilità di celebrarle anche al pomeriggio e mantenuto l’accesso alle cancellerie su appuntamento. Al Tribunale di Torino, dice il presidente, Massimo Terzi, “abbiamo mantenuto tutte le novità sperimentate nei mesi scorsi che si sono rivelate più efficienti e non hanno mostrato controindicazioni, dalla cancelleria virtuale ai servizi su appuntamento. E almeno il 30% delle udienze civili si celebra con modalità telematiche”. A far saltare il sistema - dicono in molti - potrebbe essere la scoperta di un positivo. È successo dieci giorni fa ad Ancona: “Siamo intervenuti subito - spiega il presidente del Tribunale, Giovanni Spinosa -: abbiamo sanificato gli spazi, dirottando le udienze in Corte d’appello, e il giorno dopo abbiamo riaperto. Si è potuto fare perché l’attività era ridotta per il periodo feriale. Ora una situazione di questo tipo sarebbe difficile da gestire. Stiamo pensando di creare dei punti di appoggio presso gli uffici del giudice di pace da usare in caso di emergenza”. Ad Ancona si sta sperimentando anche un co-working per superare i limiti dello smart working del personale amministrativo, che da casa non può accedere ai registri: sono stati aperti punti rete presso le sedi del giudice di pace, per evitare il viaggio verso il tribunale. Soluzioni diverse, quindi, ma “adesso bisogna ripartire: non possiamo più aspettare”, osserva il presidente dell’Unione delle Camere civili, Antonio De Notaristefani: “È indispensabile tenere le udienze - aggiunge - e siamo favorevoli a stabilizzare le norme attuali sulla celebrazione a distanza”. Meno cause e decisioni ma il digitale “salva” il civile di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2020 Se la giustizia, nei mesi difficili dell’emergenza Covid, non si è fermata del tutto, il merito è soprattutto della digitalizzazione: non solo delle udienze, ma anche degli adempimenti. E il settore civile, dove il processo telematico esiste dal 2014 e la trattazione per iscritto è stata ben accolta, ha rallentato meno di quello penale, in cui, peraltro, la possibilità di celebrare le udienze a distanza è stata vincolata al consenso delle parti. Meno cause civili - Lo dimostrano i dati diffusi dal ministero della Giustizia, che monitorano l’arretrato negli uffici giudiziari. La fotografia è ferma al primo trimestre dell’anno e include, quindi, solo il primo mese di emergenza, ma già segnala, dopo anni di calo, un minimo aumento dei procedimenti penali pendenti (+0,3%, quasi 1,6 milioni dal giudice di pace alla Cassazione), mentre i procedimenti civili mantengono una piccola riduzione (-0,2%, quasi 3,3 milioni di cause). Un’istantanea più aggiornata e focalizzata sui flussi l’ha scattata il Tribunale di Milano, dove i procedimenti civili iscritti dal 1° gennaio al 30 giugno 2020 sono stati 38.390, il 30% in meno dei 55.800 dello stesso periodo del 2019, mentre ne sono stati definiti 33.480, contro i 56mila dell’anno scorso. “La produttività è diminuita - commenta il presidente del Tribunale, Roberto Bichi - ma tutto sommato il sistema ha retto”. Più in sofferenza il penale: i nuovi procedimenti di competenza del tribunale monocratico sono stati 5.250 (erano 9.186 l’anno scorso) e i definiti 5.167 (contro 8.329); nel tribunale collegiale gli iscritti sono stati 221 (425 fino al 30 giugno 2019) e i definiti 257 (421 nel 2019); ma il più in affanno è l’ufficio Gip (dopo l’incendio che l’ha colpito a marzo), con 6.040 procedimenti iscritti (erano 17.817 nel 2019) e 5.450 definiti (contro 17.677). Rafforzata la telematica - Con l’emergenza è stato necessario rafforzare la presenza della telematica nell’amministrazione della giustizia. Così, ad esempio, nel processo civile è stato reso obbligatorio depositare in via telematica anche gli atti introduttivi e la digitalizzazione è arrivata anche in Cassazione. I canali telematici sono stati, in alcuni casi, anche più usati rispetto al 2019. In base ai dati del ministero della Giustizia, nel settore civile, le notifiche e le comunicazioni dal 1° marzo al 30 giugno sono state quasi 10,7 milioni, il 10% in più dello stesso periodo del 2019. Sono aumentati anche gli atti depositati in via telematica dai magistrati (2,6 milioni, il 6% in più del 2019). Sono invece calati del 13% i depositi telematici degli avvocati e degli altri utenti (3,5 milioni nel 2020 contro 4 milioni nel 2019). Ma a essere crollati sono i numeri direttamente collegati alle udienze, spesso rinviate, (-68% di verbali telematici) e alla decisione delle cause (-41% di sentenze depositate telematicamente). Commissioni tributarie in ordine sparso, inapplicata la norma sui dibattimenti a distanza di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2020 Con la conclusione oggi della pausa feriale, dovrebbero riprendere le ordinarie attività che caratterizzano il processo tributario. Il condizionale è d’obbligo perché in questi mesi il contenzioso fiscale, rispetto agli altri tipi di processo, è stato certamente quello maggiormente caratterizzato da incertezze, non solo normative ma anche - e soprattutto - operative e organizzative. Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt) aveva emanato, nel periodo emergenziale, indicazioni abbastanza univoche esortando i presidenti delle commissioni di valutare la possibilità di: 1. tenere con le modalità a distanza (trattazione scritta mediante presentazione di memorie) le udienze camerali che non richiedevano la presenza dei difensori e delle parti nonché quelle originariamente iscritte con istanza di discussione in pubblica udienza per le quali i difensori vi avessero rinunciato espressamente; 2. precisare nell’avviso di trattazione che qualora non fosse intervenuta una rinuncia espressa alla richiesta di pubblica udienza già formulata, la causa sarebbe stata rinviata a data successiva al 31 luglio 2020. Il fai da te - A fronte di tali indicazioni alcune commissioni tributarie si sono comportate in modo del tutto differente. Così si è verificato che alcuni collegi hanno “imposto” la trattazione a distanza (cioè con deposito di memorie scritte) nonostante l’iniziale richiesta di pubblica udienza, cui le parti non avevano mai espressamente rinunciato; altre hanno dato un termine per rinunciare alla pubblica udienza e in caso di silenzio la trattazione sarebbe stata rinviata a nuovo ruolo; altre ancora, nell’avviso inviato alle parti hanno introdotto una sorta di silenzio assenso per la rinuncia della pubblica udienza e quindi senza un esplicito dissenso era automaticamente trasformata in udienza a distanza, non come teleconferenza, ma semplicemente attraverso memorie scritte da depositare per il collegio. Vi sono stati poi casi di commissioni che hanno sistematicamente rinviato le udienze in cui era controparte l’agenzia delle Entrate perché aveva precedentemente comunicato (per asserite questioni organizzative conseguenti all’emergenza sanitaria) che nessuno dei propri funzionari avrebbe partecipato all’udienza. Per inciso, sarebbe interessante verificare se questa (condivisibile) attenzione tanto da decretarne il rinvio, venga osservata anche quando analoghe decisioni siano assunte dalle parti private e non unilateralmente dall’agenzia delle Entrate. In altri casi, i collegi hanno lodevolmente comunicato l’orario esatto di svolgimento, in modo che gli interessati potessero organizzarsi di conseguenza, assicurando così il distanziamento previsto. Per analogo fine, altre commissioni facevano attendere fuori dalle aule, altre ancora fuori dagli uffici, con un addetto che avvisava dell’imminenza dell’udienza. Salvo poi, in alcuni casi, come si è detto, apprendere del rinvio perché l’agenzia delle Entrate non era presente. L’emergenza - Sperando che da domani buona parte di tali questioni sia stata superata, sotto il profilo organizzativo la maggiore attesa nelle prossime settimane concerne l’effettivo avvio a regime delle udienze. In tale contesto, è senz’altro singolare che nonostante a differenza di altri processi in quello tributario esista già da quasi due anni una norma ad hoc per le udienze “telematiche”, a oggi ciò ancora non sia possibile. Si pensi per tutti al processo penale, per il quale nell’arco di pochi giorni a seguito dell’emergenza Covid è stato possibile effettuare udienze in teleconferenza con giudici e parti interessate. Udienze a distanza latitanti - In ambito tributario, invece, già il decreto legge 119/2018 aveva introdotto le udienze a distanza, attraverso sistemi di teleconferenza, rinviando le specifiche tecniche a uno o più provvedimenti. Non solo: in occasione dell’emergenza sanitaria (articolo 135 del Dl 34/2020) è stato previsto l’utilizzo del collegamento da remoto per le parti processuali, i giudici e il personale amministrativo. Non è noto il perché di tale ritardo, ma sta di fatto che appare veramente singolare che dopo decreti, provvedimenti, pareri - consegnati anche agli organi di stampa, quasi a preannunciare un imminente avvio delle udienze in teleconferenza - ancora non sia possibile tale attività. La circostanza non è di poco conto perché le problematiche sul distanziamento sociale ancora sussistono. Inoltre, poiché spesso nelle udienze si discute di svariate centinaia di migliaia (se non milioni) di euro, oltre che del futuro delle imprese e dei propri lavoratori, forse il processo tributario meriterebbe ben altra attenzione da parte degli organi competenti. Liti fiscali, dopo la pausa feriale si riparte con il rischio di rinvii a catena di Ivan Cimmarusti e Marcello Maria De Vito Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2020 Il contraddittorio “documentale” previsto per il processo civile allo scopo di evitare gli assembramenti nelle udienze pubbliche è applicabile anche alla giurisdizione tributaria? È questo l’interrogativo al centro di uno scontro interpretativo sull’articolo 221 del Dl Rilancio - quello che prevede lo svolgimento delle udienze civili attraverso il deposito di memorie scritte - che rischia di ostacolare la ripresa del contenzioso fiscale. Di fatto si tratterebbe di una problematica facilmente aggirabile se la video-udienza, messa a punto dal Mef ma per la quale si attende da luglio il parere del Garante della privacy e dell’Agid, fosse operativa. E invece magistrati e professionisti si ritrovano a discutere sull’applicabilità della norma, figlia di questa fase emergenziale, e degli effetti che potrebbe avere sul contenzioso. Perché, nel caso in cui le Commissioni optassero per lo svolgimento dell’udienza “documentale”, i difensori, da sempre a favore della discussione orale, chiederebbero un rinvio della trattazione con il conseguente accumulo dei carichi giudiziari. Le disposizioni - Di fatto l’ordinamento prevede all’articolo 1, comma 2, del Dlgs 546 del 1992(Disposizioni sul processo tributario) che “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del Codice di procedura civile”. Il tema, dunque, è se questa norma debba essere letta in modo ampio, ricomprendendo tutte le statuizioni relative al processo civile (quindi anche l’articolo 221 del Dl Rilancio) o se invece l’interpretazione debba essere restrittiva, facendo riferimento esclusivamente alle norme contenute nel Codice di procedura civile. Gli stessi presidenti delle Commissioni tributarie provinciali e regionali, nel licenziare i provvedimenti organizzativi delle udienze per la ripresa dell’attività dopo la pausa feriale, non hanno raggiunto una interpretazione uniforme. C’è da dire che la tesi dell’inapplicabilità dell’articolo 221 al processo tributario prevarrebbe di misura: si stima che sia d’accordo il 60%. Ma andiamo per gradi. L’applicabilità - I fautori dell’applicabilità ritengono che l’articolo 221 non abbia un contenuto autonomo, ma abbia modificato l’articolo 83(disposizioni sul contenimento del Covid in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare) del Dl 18/2020. Ne conseguirebbe che - poiché il comma 21 dell’articolo 83, che espressamente sancisce l’applicabilità delle disposizioni anche al processo tributario, è rimasto invariato - l’articolo 221 varrebbe anche per i procedimenti relativi alle Commissioni tributarie. Alcuni autori osservano, inoltre, che la tesi dell’inapplicabilità al processo tributario dell’articolo 221 determinerebbe un irragionevole vuoto normativo, mancando ancora le disposizioni di attuazione per la concreta operatività dell’udienza da remoto. L’inapplicabilità - I fautori dell’inapplicabilità, invece, ritengono che l’articolo 221 abbia un contenuto autonomo essendo privo di uno specifico richiamo di applicabilità al processo tributario, al contrario di quanto previsto dall’articolo 83 stesso, comma 21. Ne conseguirebbe che la portata modificativa dell’articolo 83 è limitata alla sola disposizione contenuta nel primo comma dell’articolo 221. Pertanto, le disposizioni dei commi da 2 a 10 di quest’ultima norma riguarderebbero il solo ambito civile regolando la trattazione scritta, le udienze da remoto e il processo telematico avanti la Corte di Cassazione. Il presidente della Ctp di Pesaro, nel proprio provvedimento organizzativo, ha opportunamente puntualizzato che non è neanche possibile ricorrere all’articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992 per richiamare le norme del codice di procedura civile, ivi comprese quelle emergenziali. L’estensione analogica dell’articolo 221 sarebbe in contrasto con la natura eccezionale della disposizione, stante la previsione dell’articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale (cosiddette preleggi), secondo cui “le leggi ... che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Pertanto, l’articolo 221 recherebbe un riferimento all’articolo 83 al solo primo comma e disporrebbe per il solo ambito civile regolando la trattazione scritta, le udienze da remoto e il processo telematico avanti la Corte di Cassazione. Il rinvio - Nell’ipotesi in cui il giudice ritenesse comunque applicabile l’articolo 221 e, quindi, la trattazione scritta, la questione della possibile nullità della sentenza appare più teorica che pratica. Infatti, lo stesso articolo 221, comma 4, terzo periodo, concede a ciascuna delle parti la facoltà di presentare istanza di trattazione orale entro 5 giorni dalla comunicazione del provvedimento che sostituisce l’udienza con lo scambio di note scritte. I giudici, almeno in questa prima fase, rinviano a una data successiva al 31 ottobre 2020, togliendo portata sostanziale al problema. Il rischio, dunque, è che un danno ricada direttamente sui professionisti del Fisco, che si vedrebbero rinviare le cause per mesi. La posizione del Cpgt - Allo stato il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria sta valutando di mettere a punto linee guida per una procedura unica per tutte le Commissioni. Il presidente Antonio Leone non nasconde l’intenzione di sostenere la tesi dell’applicabilità dell’articolo 221: “Sarebbe auspicabile che la trattazione orale delle controversie venisse sostituita con il deposito di brevi note scritte. Ovviamente si tratta solo di un invito”. La particolare tenuità riduce sempre di più i reati punibili di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 31 agosto 2020 Gli effetti della sentenza n. 156/2020 della Consulta sull’art. 131-bis del codice penale. Sempre più reati non punibili. Si allarga la fascia degli illeciti penali, che, se particolarmente tenui, possono essere perdonati. Non conta se il reato è grave e se ha una pena, sulla carta, elevata, cioè più di cinque anni. Conta, invece, se, nella realtà, il fatto è stato trascurabile e se l’imputato è meritevole. Il giudice penale, infatti, può ritenere non punibile qualunque reato, per cui il codice o la legge penale speciale non prevede una sanzione minima (e usa la formula della punizione “fino a” seguito dal massimo della pena). Il principio è stato formulato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 156/2020, nella quale ha dichiarato illegittimo l’articolo 131bis del codice penale nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva. Il codice penale. Per comprendere a pieno di che cosa si stia parlando, va ricordato che, in base all’articolo 131-bis del codice penale, un reato (punito in astratto dalla legge nel massimo fino a 5 anni), non è in concreto sempre punibile. È il giudice che deve valutare l’offensività in concreto del singolo fatto, oltre ad altri presupposti che riguardano le caratteristiche soggettive e comportamentali dell’autore del fatto. In relazione al fatto, bisogna considerare se è di “particolare tenuità”. Se il reato è particolarmente tenue, allora il giudice (che deve accertare la tenuità) può assolvere l’incolpato. Anche chi ha commesso un fatto, che coincide esattamente con il divieto/obbligo previsto dalla legge penale, avrà la possibilità di sostenere che, per le caratteristiche del fatto specifico e per il suo curriculum di vita e per la sua personalità, il suo comportamento è inoffensivo e, quindi, la punizione penale è esagerata. La Consulta. La Corte costituzionale è intervenuta per dire che la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” è applicabile a tutti i reati per i quali, pur essendo previsto un massimo di pena superiore a cinque anni, non sia, però, previsto il minimo edittale di pena. La Consulta ha motivato lo sforamento della soglia massima dei cinque anni ragionando sul fatto che il solo fatto che non sia prevista una pena minima significa che alcune condotte possano essere della più tenue offensività. Per esse, quindi, dice la Corte costituzionale, è irragionevole escludere a priori l’applicazione dell’esimente. In sintesi. Abbiamo una legge che non punisce chi commette un reato sanzionato nel massimo fino a cinque anni. La Consulta ha, in maniera ineccepibile, allargato le maglie e conseguentemente evita la punizione chi commette un reato che non ha una sanzione minima. Ciò innegabilmente rafforza la constatazione che, ormai, in questi casi, il codice penale e le leggi penali non predeterminano più le conseguenze dei comportamenti illeciti. Questo perché avere commesso un fatto descritto da una norma incriminatrice non basta per essere puniti. È come se tutte le disposizioni penali avessero un’aggiunta che più o meno suona così: “A condizione che il fatto non sia di particolare tenuità”. Questo sistema, in un’organizzazione statuale che pretende di ispirarsi al principio di uguaglianza, per diventare effettivo deve costruire e diffondere una casistica di situazioni in cui la collettività sociale avverte la sussistenza della particolare tenuità del fatto. Inoltre, la percezione collettiva deve basarsi su un alto grado di condivisione sociale dei valori della convivenza. A ciò si aggiunge che al fatto tenue deve conseguire una risposta tenue e non una inerzia (altrimenti la tenuità diventa un’abrogazione parziale della norma penale). Impossibile, infine, prescindere da un sistema di responsabilizzazione del giudice togato e/o da un diverso meccanismo di assunzione della decisione sulla colpevolezza (non basato solo su un raffronto tecnico tra condotta del reo e norma incriminatrice astratta). Acquisto di cose di sospetta provenienza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2020 Contravvenzioni - Acquisto di cose di sospetta provenienza (incauto acquisto) - Configurabilità - Condizioni. Ai fini della configurabilità del reato contravvenzionale di cui all’art. 712 cod. pen. non è necessario che l’acquirente abbia effettivamente nutrito dubbi sulla provenienza della merce, dovendosi invece ritenere che il reato sussista ogni qualvolta l’acquisto avvenga in presenza di condizioni che obiettivamente avrebbero dovuto indurre al sospetto, indipendentemente dal fatto che questo vi sia stato o meno. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 24 luglio 2020 n. 22478. Reati contro il patrimonio - Delitti - Ricettazione - Elemento soggettivo (psicologico): dolo - Dolo eventuale - Elemento psicologico del reato di acquisto di cose di sospetta provenienza - Differenze - Fattispecie. In tema di ricettazione, ricorre il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza. (Nella fattispecie, relativa all’esposizione al pubblico, da parte dell’imputato, di merce contraffatta adagiata in terra su un lenzuolo, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, secondo cui le modalità di presentazione degli oggetti consentivano di escludere che il medesimo ignorasse la loro illecita provenienza, quantomeno a titolo di dolo eventuale). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 22 maggio 2017 n. 25439. Reati contro il patrimonio - Delitti - Ricettazione - In genere - Acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata - Illecito configurabile - Ragioni. L’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla l. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648 cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall’avvenuta eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca reato”, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell’oggetto della condotta nonché dalla rinuncia legislativa alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 8 giugno 2012 n. 22225. Reato - Estinzione (cause di) - Oblazione - Modifica dell’originaria imputazione disposta con la sentenza - Derubricazione di reato non oblabile in reato oblabile - Richiesta di oblazione - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie. Nel caso in cui il giudice, al momento della deliberazione finale, abbia derubricato un reato non oblabile in altro oblabile, l’imputato ha il diritto di chiedere l’oblazione soltanto se, entro il momento della formulazione delle conclusioni, abbia proposto la relativa istanza per l’ipotesi di derubricazione dell’originaria imputazione. (Fattispecie nella quale la difesa dell’imputato, nelle conclusioni, aveva espressamente proposto istanza di oblazione nell’ipotesi in cui il reato di ricettazione fosse derubricato - come poi accadde - in quello di cui all’art. 712 cod. pen.). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 7 novembre 2011 n. 40037. Benevento. Detenuto marocchino si impicca: sarebbe uscito tra un anno fanpage.it, 31 agosto 2020 Un detenuto di 34 anni si è suicidato la notte scorsa nel carcere di Benevento, impiccandosi. Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021. Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, ha parlato di “una strage silente”. Tragedia nel carcere di Benevento dove un detenuto di 34 anni si è tolto la vita nella notte tra ieri, sabato 29, e oggi, domenica 30 agosto. A denunciare l’accaduto è Samuele Ciambriello, garante campano per i carcerati, che descrive così l’amaro episodio: “Ancora una volta disagi psicologici personali, sommati alle condizioni di vita nelle carceri, all’isolamento affettivo, al clima ambientale psicologicamente usurante delle carceri, alla mancanza di progettualità specifiche portano a morire di carcere e in carcere”. Il detenuto in questione è Omar Araschid, cittadino marocchino, arrivato nel centro di detenzione beneventano il primo agosto da Carinola. Prima delle due case circondariali, era stato nel carcere di Poggioreale e quello si Santa Maria Capua Vetere. Era nel reparto “sex offenders” insieme ad altre diciotto persone. Dopo il suicidio dell’uomo, arrivato tramite impiccagione, il magistrato ha liberato la salma, mentre la direzione del carcere ha avvisato l’Ambasciata del Marocco di Roma poiché nessuno, nel suo periodo di detenzione, era andato a visitarlo. A quanto pare Araschid non aveva parenti né conoscenti reperibili. Il 34enne avrebbe concluso la sua reclusione nel 2021. L’ultimo suicidio da parte di un detenuto registrato nel carcere di Benevento risaliva al maggio del 2019. Ciambriello ha continuato la sua denuncia spiegando che “in Campania siamo all’ottavo suicidio dall’inizio dell’anno, quaranta in tutta Italia”. Il garante dei detenuti campano ha dichiarato che si tratta di una “strage silente, nell’indifferenza generale, anche degli addetti ai lavori, della politica, del ministero della Giustizia, delle Istituzioni ai vari livelli”. Ciambriello è tornato quindi sul tema della prevenzione dei suicidi che “non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere”. Per questo motivo le sue richieste sono semplici ma diverse: “Invoco più personale di figure sociali, di progetti, di attività anche in questo periodo”, ha detto, aggiungendo che “nel mese di settembre a cura del mio ufficio di garante inizieranno una serie di progetti, di iniziative nelle carceri campane. Proprio a Benevento, è stato previsto un progetto per i detenuti e le detenute in carcere per reati sessuali”. Caltanissetta. Tensione in carcere: protestano i detenuti, personale in difficoltà Il Sicilia, 31 agosto 2020 Protestano da due giorni i detenuti del reparto Alta sicurezza della casa circondariale di Caltanissetta sbattendo oggetti contro le inferriate delle celle. La contestazione, che dura da due giorni ed è ripresta stamattina alle 7, sarebbe riconducibile a problemi nei colloqui con i familiari e potrebbe continuare ad oltranza. Lo rende noto Mimmo Nicotra segretario generale aggiunto del sindacato Osapp della polizia penitenziaria. “Purtroppo il personale è in difficoltà - aggiunge Nicotra - la struttura è fatiscente, ed è presente un solo poliziotto nei piani per il controllo dei detenuti perché a Caltanissetta mancano dall’organico 20 unità di polizia penitenziaria. Nella casa circondariale ci sono complessivamente 220 detenuti, cento dei quali nel reparto di Alta sicurezza”. Roma. Furti e risse, tutti i processi fermi di Giulio De Santis Corriere della Sera, 31 agosto 2020 Circolare ai pm: i fascicoli per le citazioni dirette a giudizio non devono essere scansionati. Riprendono le attività giudiziarie dopo la fine del lockdown. Ma con l’emergenza sanitaria sono fermi i processi per furto aggravato, ricettazione ma anche per resistenza a pubblico ufficiale e rissa. Il tribunale riapre domani ma i pubblici ministeri, in seguito ad una circolare del 3 luglio scorso che aggiorna procedure già in vigore, non devono inoltrare agli uffici i fascicoli scansionati per le citazioni dirette a giudizio. La conseguenza: un’enorme mole di arretrati, recuperare il tempo perduto non sarà semplice. La procura ha chiesto di fissare le udienze, per le inchieste rimaste ferme, da gennaio a dicembre 2021 per razionalizzare le (scarse) risorse disponibili. Dal furto aggravato alla ricettazione, passando per resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, per finire alla rissa aggravata: sono alcuni esempi di tipologie d’inchieste, con tanto d’indagati, ferme nelle stanze dei pubblici ministeri a causa dell’emergenza Covid-19. I pm in seguito a una circolare datata 3 luglio del procuratore Michele Prestipino che aggiorna procedure già in vigore da marzo - non devono, infatti, inoltrare all’ufficio scansione questo tipo di fascicoli poiché riguardano procedimenti che prevedono la citazione diretta a giudizio. Tradotto: migliaia d’inchieste si trovano in un limbo poiché gli atti non vengono scansionati. Il blocco è causato dall’emergenza Covid, dalla quale nasce la decisione del presidente del Tribunale di congelare la fissazione delle udienze monocratiche per il 2020. Il Tribunale domani riaprirà dopo la chiusura estiva e l’unica certezza è che per recuperare il tempo perduto per l’emergenza Covid, la procura ha chiesto di fissare le udienze, proprio per le inchieste rimaste ferme negli ultimi mesi, da gennaio a dicembre 2021, in modo da “razionalizzare le scarse risorse disponibili”. Ma accelerare adesso non sarà semplice perché, in seguito a quanto previsto dalla circolare, e a meno di nuove future disposizioni, si potrà tornare a scansionati gli atti, per metterli a disposizione di avvocati e imputati, solo al termine dell’emergenza. Ogni fascicolo di un’inchiesta contiene decine, se non centinaia, di pagine d’interrogatori, d’informative delle forze dell’ordine, di sommarie informazioni, di consulenze. A oggi gli atti di queste inchieste sono solo stampati su carta. Ma, prima o poi, avranno bisogno di essere scansionati per lo svolgimento dei processi. Un lavoro già impegnativo in tempi normali. Sui numeri dell’arretrato non ci sono statistiche ufficiali. Alcune stime prudenti è però possibile farle. L’organico della procura è, infatti, composto da 87 pm. Secondo stime orientative ogni pm ha dovuto trattenere da marzo in poi, negli scaffali della propria segreteria, almeno cinquanta fascicoli inerenti a inchieste a citazione diretta. Per adesso pertanto potrebbero essere migliaia i procedimenti nel limbo. Quantità peraltro destinata a crescere nel corso dei prossimi mesi se l’emergenza da pandemia non terminerà. I pm, infatti, continuano la loro attività ordinaria. Mettono le accuse nero su bianco. Le stampano. E poi le mettono sugli scaffali. Dove giorno dopo giorno si formano pile sempre più alte. All’elenco dei fascicoli da non scansionare, vanno aggiunte anche le centinaia di richieste di archiviazione della procura alle quali hanno diritto di opporsi le persone offese. È lo stesso procuratore a spiegare le motivazioni della decisione, quando scrive nella circolare: “La situazione d’emergenza ha molto rallentato l’attività di scansione degli atti che solo in data 4 giugno ha ripreso con la stessa dotazione di personale esterno che vi provvedeva in febbraio; tale contingente tuttavia era già stato ridotto dal Dgsia (Direzione generale sistemi informativi automatizzati) di circa il 30 percento dallo scorso 10 febbraio con l’inevitabile conseguenza di rendere quasi impossibile esaurire il carico ordinario”. Al momento, secondo la circolare, la procedura prevede che siano lavorati solo i procedimenti per cui è stabilità l’udienza preliminare. Pertanto l’iter rimane invariato per le inchieste di corruzione, abuso d’ufficio, colpe professionali, omicidi o lesioni causate da incidenti stradali. Anche gli atti urgenti, che riguardano detenuti o i procedimenti con sequestri preventivi, proseguono a essere trattati con le modalità pre-emergenza. La situazione non è rosea nemmeno per questo tipo d’inchieste, come rimarca lo stesso procuratore quando sottolinea come ci siano “enormi difficoltà anche nello smaltimento del carico urgente”. Livorno. Pecore nere a caccia della meta, la squadra di rugby delle Sughere riparte Il Tirreno, 31 agosto 2020 Si torna a giocare grazie al via libera del direttore del carcere. Decisivo il nulla osta firmato dal Direttore dell’istituto penitenziario de ‘Le Sughere’ Carlo Alberto Mazzerbo: le ‘Pecore Nere’, dopo il lockdown ed il periodo più critico dell’emergenza legata al Covid-19, hanno ripreso ad allenarsi. Per tale squadra del tutto speciale, composta da detenuti del carcere labronico de ‘Le Sughere’, le sedute sono in programma una volta alla settimana, la domenica mattina, sul sintetico posto all’interno del carcere labronico. Già raggiunta una buona condizione fisico-atletica, sui livelli di quella evidenziata prima della sospensione dettata dalla pandemia, quando la rappresentativa de ‘Le Sughere’ stava disputando il suo primo campionato federale (aveva inanellato nel torneo amatoriale Old toscano, girone 2, un’eccellente striscia di tre vittorie ed un pareggio su quattro partite disputate). Non manca il tempo per migliorare ulteriormente la forma: prima del mese di ottobre ben difficilmente si giocheranno gare ufficiali, con punti in palio. La storia di un pallone ovale da far rotolare all’interno dell’istituto penitenziario cittadino si è materializzata grazie all’opera dei Lions Amaranto e, soprattutto, grazie al vero promotore dell’iniziativa, Manrico Soriani, già tecnico delle giovanili Lions (nonché capitano dei Rinocerotti, la rappresentativa Old dei Lions stessi), scomparso prematuramente, ad appena 55 anni d’età, lo scorso 5 luglio. Il progetto del rugby in carcere è nato circa 6 anni fa - sabato 27 settembre 2014 per la precisione - quando 22 giocatori amaranto, accompagnati da Soriani, dal presidente dei Lions Mauro Fraddanni e dai rappresentanti del comitato toscano della FIR, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, dettero vita, sul terreno di gioco situato all’interno della casa circondariale, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Fu grande l’entusiasmo mostrato dai circa cento detenuti presenti sugli spalti. Da quel giorno, grazie ai Lions, grazie all’Associazione Amatori Rugby, grazie all’opera di Manrico Soriani e degli altri due allenatori attivi a guidare la squadra, Michele Niccolai e Mario Lenzi, e grazie alla sensibilità ed alla concreta collaborazione della direzione e del personale de ‘Le Sughere’, sono scattati, ‘veri’ allenamenti per i detenuti. Ben presto è stata allestita una squadra di rugby composta, appunto, da atleti reclusi nel carcere livornese. Direttore di San Vittore, ci vuole cuore e coraggio di Francesca Brunati ansa.it, 31 agosto 2020 “Non devo trattare il carcere da carcere, altrimenti qui dentro diventiamo tutti carcerati e carcerieri”. E’ il principio che ha illuminato percorso professionale e umano di Giacinto Siciliano e che viene a galla in “Di cuore e di coraggio”, un libro autobiografico in cui l’attuale direttore del carcere milanese di San Vittore ripercorre le tappe della sua “vita normale, ma non troppo” a contatto con quel “mondo dentro il mondo” in cui si intrecciano storie e drammi di detenuti, dagli stranieri arrestati per spaccio o per furto, agli ergastolani, fino ai mafiosi più irriducibili detenuti in regime di 41 bis tra cui Totò Riina, Giuseppe Graviano o Michele Zagaria. Il volume, edito da Rizzoli e in libreria dal primo settembre, attraverso le tappe della carriera di Siciliano e i suoi ricordi personali, offre uno spaccato, seppur da dietro le sbarre, della storia d’Italia a cui si aggiunge la riflessione di un uomo di Stato che ha dedicato la vita a dirigere penitenziari con l’obiettivo di cercare di far ritrovare il senso dello Stato in chi lo ha perduto. La prima esperienza di Siciliano risale al 1993 con Busto Arsizio e poi la casa circondariale di Monza. Da lì il trasferimento al supercarcere di Trani dove, l’incontro con i brigatisti detenuti fa venire a galla la vicenda di suo padre, in passato uno degli obbiettivi, fortunatamente mancato, delle Br. Dopo di che Sulmona, Opera - periodo in cui è stato costretto a vivere sotto scorta per le minacce dell’allora boss dei boss - e San Vittore. I capitoli di questo libro aprono una finestra su realtà delicate e dolorose come le rivolte - anche quella scoppiata sempre a San Vittore nel marzo 2020 a seguito della diffusione del Coronavirus - e dei suicidi in cella. Al tempo stesso si comprende cosa voglia dire gestire e tentare sempre, anche nei casi estremi, di avviare un percorso di recupero. Perché quello del direttore penitenziario - come lo interpreta Siciliano - è un lavoro “di cuore e di coraggio”: non si tratta di fare sconti, anzi al contrario occorre impegnarsi quotidianamente per dare fiducia a ogni detenuto e aprire un dialogo che lo porti a comprendere i propri errori e a riappropriarsi del valore delle regole e, appunto, del senso dello Stato. Per Siciliano ogni uomo è una storia, ma è anche un futuro. Il suo dovere è indicargli la via per riappropriarsi di una vita solida e libera. “Gli intravisti”, di Jacopo Santambrogio. Storie da manicomio criminale di Laura Badaracchi Avvenire, 31 agosto 2020 Un volume dedicato “a chi soffre di una malattia mentale, perché c’è sempre una speranza”. Fausto racconta di essere stato in coma farmacologico, per essere curato. “Sembra faccia ridere, ma mi sono addormentato che ero 68 chili e mi sono svegliato che ero 106”. In una delle sue poesie scrive: “Ora, dopo cinque passi, lascio lo stupore e i trofei al Dio che mi ha creato e non mi ha colto”. È uno dei 18 pazienti intervistati dallo psichiatra Jacopo Santambrogio negli Ospedali psichiatrici giudiziari, i cosiddetti “manicomi criminali” aboliti dal 31 marzo 2015 (ma l’ultimo ha chiuso definitivamente i battenti tre anni fa). Strutture avversate da Franco Basaglia, di cui oggi ricorre il 40° della morte, promotore della legge 180 per una presa in carico dei pazienti psichiatrici autori di reato da parte di personale sanitario specializzato, non dalla polizia penitenziaria. Dei volti di chi ha vissuto la realtà drammatica degli Opg racconta Santambrogio nel volume “Gli intravisti”, edito da Mimesis (pp. 294, euro 20), mix fra saggio e reportage con le prefazioni di Eugenio Borgna e Massimo Clerici, impreziosito dagli scatti della fotogiornalista Caterina Clerici e dedicato “a chi soffre di una malattia mentale, perché c’è sempre una speranza”. Non è scontato né retorico evocare la speranza “non di una guarigione, spesso non possibile, ma di qualche miglioramento e in alcuni casi di un’autonomia ritrovata”, fa notare l’autore, dando voce a persone emarginate a cui viene restituito il nome proprio che potrebbe essere quello di chiunque: Matteo, Luigi, Virginio, Francesco e altri accettano di esporsi, senza mediazioni narrative. A emergere non sono “elementi scandalistici” legati ai reati commessi, ma “storie di drammi personali e familiari, di episodi che avevano alterato equilibri sociali fino a gesti estremi e violenti quali l’omicidio”. Ed è anzitutto il titolo a squarciare il velo sugli “scarti” nascosti allo sguardo altrui perché problematici, imprevedibili. “Il mandato custodialistico, ovvero di separazione e allontanamento dei soggetti pericolosi dalla società, è sempre presente nei luoghi psichiatrici e, per questo, queste persone rimangono ai più misteriose”, puntualizza l’autore. Questione che non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma l’approccio generale al diverso, quella “logica dell’esclusione” che persiste anche nei confronti di persone autistiche e disabili intellettive gravi, con cui Santambrogio lavora al Presidio Corberi di Limbiate, mentre si occupa di riabilitazione psichiatrica alla Fondazione Adele Bonolis onlus di Vedano al Lambro (Monza e Brianza). Nel gennaio 2012, ancora studente, decise di fare un viaggio sulle orme di Franco Basaglia a partire da Trieste, visitando poi gli Opg che avrebbero chiuso i battenti. Gradualmente ha preso forma “un saggio che, a partire da quelle vite, offre riflessioni sul disturbo, il disagio e l’inserimento di pazienti complessi nelle nuove strutture di cura”, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Inoltre dalle testimonianze emerge che nel baratro della malattia mentale si finisce molto spesso per l’uso di sostanze stupefacenti, e purtroppo i danni cerebrali sono irreversibili. Il binomio droghe-psicopatologia, quindi, “è tutt’altro che raro”, ribadisce lo psichiatra, consapevole che i farmaci potranno soltanto lenire i disturbi “e stabilizzare l’impulsività, ma non portare alla guarigione. Però l’obiettivo è la guarigione sociale”. In cui non entrano in gioco solo le famiglie dei pazienti, ma l’intera comunità. Gestire il disagio sociale evitando le astrazioni di Mauro Magatti Corriere della Sera, 31 agosto 2020 Il Covid colpisce società nelle quali gli effetti di lungo termine della globalizzazione avevano già determinato una significativa erosione del ceto medio. Gli effetti economici e sociali del coronavirus rimangono in larga parte sotto traccia. Almeno in Europa, gli strumenti di protezione hanno per il momento consentito di attenuare l’impatto del blocco dell’economia. Ma tutti sanno che questa situazione non può durare a lungo. A ragione ci si chiede quale evoluzione possa seguire la questione sociale nei prossimi anni, quale forma possa prendere il conflitto, quali risposte possano essere messe in campo fin d’ora. Occorre tenere presente che il covid colpisce società nelle quali gli effetti di lungo termine della globalizzazione avevano già determinato una significativa erosione del ceto medio. Con un conseguente impoverimento, assorbito per lo più scaricando i costi o sulle minoranze (soprattutto - ma non solo - negli Usa), sulle donne e le nuove generazioni (specie in Italia). I riflessi sulla dinamica politica sono quelli che conosciamo. Da un lato, i partiti di sinistra hanno visto crescere la loro distanza dai ceti popolari. I “progressisti” (con i loro elettori) - per lo più identificati con i gruppi sociali acculturati ed economicamente vincenti - sono i paladini della crescita economica, della scienza, delle li-bertà individuali. Insomma, di una modernizzazione positiva e attraente. Le poche forme spurie di populismo di sinistra - di cui alcune anime del M5S sono espressione - pensano, a loro volta, di salvaguardare il “diritto al benessere” garantendo sussidi per tutti. In una visione in cui lo Stato può disporre di risorse infinite senza preoccuparsi troppo di costruire il futuro. La ridefinizione post-thacheriana dei partiti di destra è avvenuta invece attorno alla pulsione sicuritaria. A partire dall’idea che tocca allo Stato chiudere i confini, difendere l’identità nazionale, proteggere i perdenti della globalizzazione. Tuttavia, questa posizione è ora in difficoltà: il covid ha reso evidente che la chiusura ermetica, oltre a non proteggerci dai fenomeni globali, ci fa morire per asfissia. Di certo, il disagio del ceto medio, in particolare i giovani, è destinato ad acuirsi. La distanza tra le reali condizioni di vita dei più ricchi e dei più poveri tenderà a crescere. La disillusione sulle promesse del progresso sono destinate ad aumentare. E ciò proprio mentre il controllo e la regolazione delle nostre attività quotidiane - a causa del virus - diventano sempre più invasivi e pervasivi. In questa situazione, si intravvedono segnali preoccupanti di una nuova possibile mutazione. Nei comportamenti scriteriati di quest’estate non si è espressa solo, da parte di moltissimi ragazzi, la voglia di tornare a vivere. Si é visto anche l’embrione di una reazione di chi (giovane o meno) rifiuta ogni costrizione alla propria libertà individuale proveniente dalla cattedra di una tecno-scienza troppo compromessa con gli interessi che dominano il mondo. Nelle discoteche e nelle spiagge agostane, al di là del divertimento, traspariva il fascino di un vitalismo - eccitato da una potente pulsione di morte - che, per principio, rigetta ogni controllo e ogni legge. Al centro dell’attenzione non c’è più la sicurezza, ma il suo contrario: la sfida a tutto ciò che può bloccare la vita libera. Nel rifiuto di vedersi parte del mondo circostante e quindi nel sentirsi fieramente irresponsabili per ciò che accade e per ciò che può seguire dai propri comportamenti. La legge in quanto legge - vista come ostacolo alla vita - è dunque rifiutata in toto. Con un atteggiamento che, nell’incapacità di un pensiero, non accetta la frustrazione, l’attesa, l’assenza e per questo reagisce assumendo una posizione radicale di difesa del diritto a vivere. Il rischio è che questi sintomi - per il momento ancora destrutturati - possano prendere piede. Soprattutto se dovessero trovare forme, parole, soggetti in grado di aggregarli e di favorirne la radicalizzazione. Se ciò accadesse, il malcontento potrebbe incanalarsi den-tro un alveo inedito: da un lato esprimendo la ribellione a ogni sorveglianza in nome di una idea radicale di vita libera; dall’altro, recuperando istanze identitarie di tipo religioso e/o razzista. Espressione di un irrazionalismo speculare a quell’eccesso di razionalismo tecnocratico nel quale rischiamo di finire ingabbiati. Non sarebbe la prima volta. Come sappiamo, la modernità ha già conosciuto momenti in cui, di fronte ai suoi fallimenti, sono emerse vie alternative tanto pericolose quanto irrealistiche. Là si sono combinati diversi degli ingredienti che oggi vediamo riaffiorare.Per questo parlare di ripartenza non è sufficiente: tra i tanti che sono in difficoltà c’è la consapevolezza che non è da lì che arriverà la risposta ai loro problemi. Alla politica, alla cultura, alla comunicazione, all’imprenditoria spetta allora il compito di confrontarsi a viso aperto con le tante sfide che il tramonto della globalizzazione trionfante ci consegna. La crisi delle ideologie della fine del XX secolo ci ha insegnato quanto sia sbagliato affidarsi a visioni del mondo campate per aria. Ma, al tempo stesso, occorre riconoscere che, senza una rinnovata capacità di realismo critico, sarà impossibile gestire il disagio delle nostre società. L’ avvenire che non riusciamo più a vedere può riaprirsi se proveremo a non rimuovere, ma a confrontarci con onestà con la realtà che ci circonda. Tentando risposte concrete e adeguate ai problemi reali che il coronavirus ci consegna. Senza sconti, senza scorciatoie, senza astrazioni. La sicurezza e il compito dei professori di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 31 agosto 2020 Sono sei mesi che bambini e giovani mancano dalle lezioni. E ciò ha causato disagio in tutti i bambini e i ragazzi e un aumento delle disuguaglianze nell’apprendimento non indifferente. Non sono pochi i minori che non hanno un pc in casa, un quinto al Sud e sono proprio quelli che vivono in contesti più disagiati, con genitori con basso titolo di studio e maggiori difficoltà a seguirli negli studi. Non sono pochi i minori che vivono in sovraffollamento, il 40% del totale. Come si saranno sentiti questi bambini e ragazzi? Come si saranno sentiti i loro genitori? Molta solidarietà si è sviluppata, con scuole che si sono attivate per alleviare le difficoltà, mamme più esperte e a volte anche papà che hanno cercato di aiutare i meno esperti, insegnanti con più abilità che hanno supportato gli altri e si sono inventati forme nuove di didattica, associazioni e terzo settore che si sono attivate in aiuto. Un preziosissimo lavoro di donne, soprattutto, maggioranza tra gli insegnanti, e fondamentali nel seguire i figli nei compiti, in un gioco incrociato che è servito molto durante il lockdown e subito dopo, ma che può andar bene solo per un periodo limitato. Bisogna riaprire le scuole. È doveroso. In sicurezza. Per i bambini in primis, che perdono opportunità di socializzazione fondamentali, essenziali per l’apprendimento e la crescita. Per le donne lavoratrici che non possono più sostenere il carico di lavoro retribuito e non retribuito seppure in molti casi in smart working, con uno che si sovrappone all’altro. Per gli stessi docenti che hanno bisogno a loro volta di ripristinare la normalità dell’insegnamento. E lo raccomanda anche l’Organizzazione mondiale della sanità. Come dice Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità, “c’è bisogno di lezioni frontali perchè dobbiamo formare i ragazzi come cittadini, insieme”. Ma dobbiamo essere coscienti che ognuno deve fare la sua parte per raggiungere l’obiettivo, il governo in primis. Le critiche in questo senso sono state precise da parte della società civile e in particolare dell’Alleanza per l’infanzia, anche per il ritardo con cui è stata affrontata la questione. Ma l’azione di governo non basta. Dobbiamo rivitalizzare il senso civico e di comunità che ci ha caratterizzato nel periodo di lockdown e che ci ha permesso di uscire dalla fase critica. Abbiamo visto che con il periodo di vacanza il numero di casi è aumentato, la situazione epidemiologica è peggiorata: 1411 nuovi casi nelle ultime 24 ore. 490 focolai nuovi registrati dall’Istituto Superiore di Sanità, età media che scende a 29 anni, con un cambiamento delle dinamiche di trasmissione, con una maggiore associazione con attività ricreative. Era prevedibile, direte, ma se tutti, giovani compresi, avessimo avuto un atteggiamento di maggiore rispetto delle regole fondamentali, ciò non sarebbe successo. Per essere liberi veramente dobbiamo essere cauti e responsabili. Non possiamo permetterci che con l’apertura delle scuole possa succedere qualcosa di simile. I danni per i bambini disabili, per i più poveri, sarebbero enormi. Per questo un appello alla responsabilità di tutti è d’obbligo anche per quegli insegnanti che non vogliono sottoporsi al test sierologico. Certo, non è obbligatorio. Ognuno decide come crede. Ma non riesco proprio a capire perché un insegnante debba rifiutarsi. Serve a sé stesso, ai propri cari, alla propria classe e a tutta la comunità. E’ un’opportunità e al tempo stesso un elemento di protezione per la comunità intera. Superiamo i dubbi e le dietrologie. Non siamo ancora usciti dal pericolo. Siamo in una fase di transizione, dobbiamo seguire le regole. Ma dobbiamo sapere che avremo alti e bassi. Che potremo interrompere le lezioni e poi riprenderle, e così anche il lavoro. Dovremo saper essere flessibili e vigili. L’importante è tornare insieme, al più presto, alla normalità, liberi. Più saremo responsabili, prima ce la faremo. Migranti, oltre l’emergenza di Gianluca Di Feo La Repubblica, 31 agosto 2020 Gli ultimi sbarchi nascono da contesti diversi, ma pongono il governo davanti allo stesso problema: la latitanza di una politica estera che gestisca le crisi del Mediterraneo. Il picco di sbarchi del fine settimana nasce da contesti molto diversi, ma pone il governo Conte davanti allo stesso problema: la latitanza di una politica estera che permetta di gestire le crisi del Mediterraneo. In Tunisia le istituzioni sono a un passo dal collasso e la pandemia ha dato il colpo di grazia al turismo, già amputato dal terrorismo islamico, e alle ultime attività imprenditoriali: scappare in Europa è l’unica speranza per chi non vede più un futuro. Fuggono cittadini tunisini ed è molto più difficile convincere le forze dell’ordine locali a fermare i loro stessi connazionali, perché l’emigrazione fa parte della cultura nazionale e non è percepita come una violazione di legge. In Libia proprio due giorni fa è stato rimosso il ministro dell’Interno di Tripoli, sotto la cui autorità ricadono le spiagge dei barconi, aprendo l’ennesima turbolenza nell’esecutivo Serraj. La decisione ha minato gli equilibri tra le milizie, molte delle quali finanziate dal traffico di esseri umani, e ha comunque creato una fase di incertezza nei controlli. Ma dopo l’insediamento dei turchi in Tripolitania e la tregua nel conflitto con la Cirenaica del maresciallo Haftar, la nostra capacità di influenzare le scelte libiche appare sempre più ridotta. Roma sembra avere perso il contatto con l’altra sponda del Mediterraneo. Nonostante l’impegno del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e dell’intelligence, il nostro governo continua a essere privo di una strategia globale: ogni iniziativa è dettata dall’emergenza, come se cercassimo di rabberciare le falle che si aprono di volta in volta. Una linea che inevitabilmente ci espone al periodico riproporsi degli stessi allarmi e delle ondate di sbarchi, affrontati alla stregua di questioni di ordine pubblico mentre sono la manifestazione di un cambiamento geopolitico che non si fermerà in tempi brevi. La stabilità della Tunisia e la pacificazione della Libia sono argomenti vitali per l’Italia e dovrebbero essere prioritari nell’agenda dell’esecutivo Conte: siamo noi a dovere prendere in mano la situazione e assumere una leadership che convinca l’Europa a intervenire con decisione. Invece il governo non riesce nemmeno a risolvere l’ambiguità di fondo nell’approccio all’immigrazione, con il Movimento 5 Stelle ancora legato a quell’impostazione securitaria che assieme a Matteo Salvini partorì il blocco dei porti e il Pd incapace di imporre una svolta. I decreti leghisti restano formalmente in vigore, anche se spesso inapplicati, mentre la loro revisione - chiesta anche dal capo dello Stato - viene rinviata di volta in volta: l’ultima scadenza - come scrivono Tommaso Ciriaco e Alessandra Ziniti - è slittata a dopo le regionali. Nel frattempo questa ambiguità pesa a Bruxelles: ha determinato la fine della missione navale Ue Sophia e sta frenando la partenza dell’operazione Irini, entrambe destinate al controllo delle acque libiche. Ma soprattutto ci impedisce di essere protagonisti nel determinare un nuovo impulso europeo ai problemi dell’Africa, che riesca a garantire il rispetto dei diritti e una regolamentazione dei flussi migratori. Alle incertezze del passato adesso si è aggiunta quella generata dalla pandemia, che aumenta la paura per chi arriva dal Maghreb e offre altri pretesti all’intolleranza: il coronavirus, però, in quei Paesi sta esasperando la disperazione di chi non ha nulla da perdere. E rischia di aprire la strada a un esodo di dimensioni mai viste. Migranti. Lampedusa, ferita dell’Europa di Luigi Manconi La Stampa, 31 agosto 2020 Mai come ora, di fronte a quanto va accadendo nel Mediterraneo, si avverte un bisogno di “più Europa”. Perché, è palese, una soluzione per la tragedia che si consuma davanti alle nostre coste, non potrà venire, certo, dalle motovedette della guardia costiera libica e nemmeno di quella italiana, bensì solo da una politica sovranazionale e da una strategia complessiva dell’Unione. Prima ancora, una premessa. Comunque la si pensi si deve partire da un principio di realtà: siamo in presenza di uno stato di necessità. I movimenti degli esseri umani, di cui in questo nostro angolo di mondo vediamo appena una modesta espressione, dipendono da processi planetari così profondi e di antica data che immaginare di arrestarli con i “blocchi navali” o con la “chiusura dei porti” è utopia. Cattiva utopia, appunto, disegno velleitario e demagogico; e in grado di funzionare solo illusoriamente: mentre il precedente governo sosteneva di aver “fermato gli sbarchi”, cresceva in misura assai rilevante il flusso lungo la rotta balcanica. Altrettanto inevitabile è che - di fronte ai quattro naufragi e ai più di cento morti tra il 17 e il 20 agosto - ci sia chi, come l’artista Banksy, decida di prestare soccorso. La sua motivazione è tanto elementare quanto inconfutabile: se le autorità europee ignorano il grido di aiuto dei non europei qualcuno dovrà pur intervenire. La risposta dei sovranisti da condominio e dei moderati con la bava alla bocca è avvilente: si ricorre alla bolsa invettiva contro i radical chic che alimenterebbero il “traffico di esseri umani”. Sfugge, evidentemente, che anche questo movimento di solidarietà è manifestazione dell’attuale livello di civiltà giuridica, del diffondersi dei valori della democrazia e del liberalismo e di quel sentimento di cittadinanza universale che è una felice invenzione proprio dell’Occidente. Insomma, ci saranno sempre, e provvidenzialmente, filantropi e uomini di mare, organizzazioni non governative e giuristi, intellettuali e anonimi cittadini e magari ammiragli e funzionari dello Stato, oltre che amministratori e governanti, che soccorreranno chi sta per affogare, che offriranno riparo ai fuggiaschi e che apriranno le porte a chi insegue una possibilità di salvezza. D’altra parte, va compresa e trattata con saggezza l’insofferenza che si manifesta tra gli abitanti di Lampedusa e tra tutti coloro che patiscono il peso di una convivenza, assai malamente gestita, tra residenti e migranti. Tutto ciò è, come si è detto, inevitabile e prescinde dalla miseria delle speculazioni elettorali (mancano giusto venti giorni al voto per le regionali) e delle guerricciole tra partiti. Ma il fatto che lo scenario appena descritto sia segnato dalla ineludibilità, non significa che non si debbano adottare strategie razionali e intelligenti, capaci di governare il fenomeno. L’Italia ha oggi una grande occasione. Proprio oggi, in questo giro di giorni e settimane, non tra sei mesi o un anno. E l’opportunità è rappresentata dal buon risultato ottenuto in occasione del negoziato sul Recovery Fund e sulla distribuzione delle risorse comunitarie contro la pandemia. Se è vero, come è vero, che il nostro paese è uscito da quel passaggio cruciale con maggiore prestigio e più forza contrattuale, è esattamente questo il momento per mettere a frutto la sua nuova e più affidabile identità. Magari fragile, ma comunque considerata. Ciò potrà avvenire se l’Italia sarà in grado di far accettare quanto è già nelle cose: la politica sanitaria europea, così come non può essere disgiunta nemmeno per un attimo da una generale strategia di sviluppo economico, non può, tanto meno, pensare l’immigrazione come un tema circoscritto e separato. Quasi fosse un problema di ordine pubblico o, al più, di filantropia. Quella dell’immigrazione è, in primo luogo, una questione che riguarda la demografia e l’economia e che attraversa le diverse agende e i diversi dossier della politica europea, gli accordi bilaterali e quelli continentali, le intese regionali e quelle comunitarie. Di conseguenza, se oggi l’Italia è maggiormente rispettata, questa sua nuova autorevolezza si misurerà nella capacità di tradurre, finalmente, in una strategia condivisa quella esigenza, finora rimasta sulla carta, di fare del Mediterraneo una questione europea. Se così non sarà, ci meriteremo Matteo Salvini o un altro come lui. Migranti. Decreti sicurezza: la riforma slitta a dopo le regionali di Tommaso Ciriaco e Alessandra Ziniti La Repubblica, 31 agosto 2020 Le Ong allarmano il governo. Il premier: rinvio a ottobre per i nuovi decreti sicurezza. Una prima telefonata, allarmata. Poi un sms e nuovi contatti telefonici. Nel giorno più difficile dell’era giallorossa sul fronte migratorio, Luciana Lamorgese marca a uomo Giuseppe Conte. La ministra dell’Interno sollecita una strategia chiara sulla gestione degli sbarchi. Avverte il premier che le Ong sono tornate in campo. Chiede come gestirle. Ha bisogno di una linea chiara, perché gli arrivi rischiano di aumentare e Salvini già cavalca la crisi. E tutto questo, mentre il premier pensa di far slittare a ottobre le modifiche ai decreti sicurezza. Sono ore complesse, a Palazzo Chigi. C’è la pandemia, la ripartenza scolastica, la crisi economica a togliere il sonno al capo dell’esecutivo. E adesso il boom di migranti, anche se con numeri assai lontani dalle fasi davvero acute. Il dossier va gestito, comunque, e non basta più l’approccio tecnico del Viminale. Occorre un’indicazione politica per decidere, ad esempio, come alleggerire la pressione sulla Sicilia, smistando altrove i migranti senza creare “incidenti” con altri amministratori. È quello che chiede Lamorgese a Conte, consapevole che a tre settimane dalle Regionali i giallorossi non possono permettersi incidenti. Fossero soltanto i 1.500 migranti già sbarcati, il problema sarebbe gestibile. Il punto, fa presente il Viminale, sono le imbarcazioni delle Ong, tornate in campo e pronte a intervenire. C’è la Sea Watch 4, che la notte scorsa si è fatta carico delle persone soccorse dalla nave di Banksy. Ha a bordo 370 persone e chiede all’Italia un porto, dopo aver incassato il no di Malta. Ma non basta. In zona Sar, oltre alla Louise Michel (adesso di nuovo vuota) stanno per arrivare anche la Mare Jonio di Mediterranea e la Open Arms, in team con Emergency. Se i trafficanti continueranno a far partire tante barche, in pochi giorni le navi umanitarie potrebbero ritrovarsi con più di un migliaio di persone a bordo. Un problema, per il governo. Come gestirlo? Fino ad ora l’Italia, forte dell’accordo di Malta sulla redistribuzione dei richiedenti asilo, ha sempre concesso un porto alle Ong. Il problema è che la Sicilia è sovraccarica. Chiedere ad altre regioni un approdo per le imbarcazioni di soccorso potrebbe generare altre tensioni. L’opinione della ministra è che la pressione sull’Isola vada alleggerita. Ma il timore, trasmesso al premier, è che gli amministratori - già in allarme per la ripresa dell’epidemia Covid - possano alzare barricate. E a fare resistenza potrebbero essere non solo i governatori leghisti, ma anche quelli di centrosinistra impegnati in campagna elettorale. Eppure, l’alternativa sembra essere ancora peggiore: può il governo chiudere i porti alle Ong mentre si discute di riscrivere i decreti Salvini? Per questo, Lamorgese chiede a Conte di battere un colpo. Lo fa dopo settimane complesse, spese a difendersi dagli attacchi delle opposizioni, senza uno straccio di difesa pubblica. Ha bisogno di una strategia condivisa sulla gestione dei flussi, che vada al di là delle toppe. E vuole evitare che a causa della mancanza di posti nei centri per il rimpatrio si verifichino scene come quelle dei giorni scorsi, quando centinaia di tunisini, scesi da una delle navi-quarantena, si sono regolarmente allontanati con in mano un semplice foglio di via che impone loro di lasciare l’Italia entro cinque giorni. Conte, però, sembra come in stand by. Travolto dai problemi. Preoccupato, soprattutto, dalle imminenti Regionali. È questo cruccio che l’ha spinto a sostenere nelle ultime ore la linea del Movimento, che si batte per rinviare ancora la modifica dei decreti sicurezza grillo-leghisti. La paura è che qualsiasi intervento, ad esempio quello di cancellare le multe milionarie alle Ong (peraltro mai inflitte sotto questo governo), generi un nefasto “pull factor” e incentivi nuove partenze. E così, il premier sembra intenzionato a comprare altro tempo, sperando che il semestre di Presidenza tedesco dell’Unione produca una riforma complessiva del dossier migranti. Il decreto con le nuove norme, è la conseguenza, potrebbe slittare almeno fino a ottobre, comunque dopo le Regionali. Un modo per raffreddare la situazione e non regalare a Salvini benzina elettorale. È esattamente quello che Nicola Zingaretti avrebbe voluto evitare: l’ennesimo nulla di fatto. Per questo, reagisce. E si rivolge direttamente a Conte e ai grillini. “Quanto sta avvenendo nel Mediterraneo dimostra che i decreti Salvini non servono a niente. Siamo mesi che diciamo che vanno cambiati: se i nostri alleati ci avessero dato retta, staremmo meglio. Ora, però, per favore, sbrighiamoci”. Il testo, in realtà, giace a Palazzo Chigi. E nessuno scommette sul fatto che il risultato delle Regionali aiuti davvero ad approvarlo. Migranti. Incendio su barcone, quattro morti e due dispersi di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 31 agosto 2020 Tragedia in mare al largo delle coste di Crotone, si incendia uno scafo con decine di persone. Feriti due finanziarie a bordo. La Caritas calabrese: necessarie vie sicure di ingresso. Sono stati recuperati i corpi senza vita di quattro migranti, tra cui una donna, che erano a bordo del barcone sul quale si é sviluppato un incendio seguito da un’esplosione. Altri due risultano tuttora dispersi. I feriti sono cinque: due sono stati portati all’ospedale di Catanzaro con gravi ustioni, mentre altri 3 sono ricoverati a Crotone, dove si trovano anche i due finanzieri feriti. Stavano soccorrendo i migranti quando l’imbarcazione è esplosa: la deflagrazione ha causato la frattura di una gamba e l’altro per ustioni. Presso il Centro di accoglienza di Crotone sono state trasferite invece dodici delle persone che si trovavano a bordo della imbarcazione esplosa. La Caritas diocesana di Crotone esprime il proprio cordoglio per le vittime del tragico incidente avvenuto sulla costa ionica del crotonese. E manifesta grande apprensione per i dispersi e i feriti: “Ancora una volta si ribadisce con forza come siano necessarie vie sicure e legali di ingresso” dice ad Avvenire il direttore della Caritas diocesana crotonese, don Rino Le Pera, che ritiene sempre più necessario “predisporre attività di soccorso nelle emergenze del mediterraneo” perché “l’assenza di coordinamento internazionale sui fenomeni migratori causa tragedie come questa o come quelle di cui si sente eco dalle coste del Nordafrica. Come ha detto papa Francesco domenica scorsa, Dio chiederà anche a noi conto dei morti durante i viaggi della speranza”. Come Caritas impegnata in attività di sostegno, accoglienza e supporto ai fratelli migranti, conclude don Le Pera, “mettiamo a disposizione le nostre risorse per intervenire in questo momento di estrema difficoltà”. Migranti. Maxi sbarco a Lampedusa, l’isola prepara lo sciopero generale di Fabio Albanese La Stampa, 31 agosto 2020 Il Viminale annuncia nuovi trasferimenti e tre nuove navi-quarantena. Il vecchio peschereccio fa il suo ingresso nel porto di Lampedusa intorno a mezzanotte. Lo scortano le motovedette di Guardia costiera e Guardia di finanza. Nel buio, si intravvedono corpi e volti di persone ammassate sul ponte. Alla fine si conteranno 370 migranti di diverse nazionalità, partiti da un porto della Libia vicino al confine con la Tunisia. Non accadeva da anni uno sbarco così imponente. E a Lampedusa d’un tratto la tensione è salita alle stelle. Non tanto e non solo per il gruppo di manifestanti guidato dall’ex senatrice leghista Angela Maraventano che per ore ha tentato di impedire il trasferimento dei migranti al grido di “chiudete l’hotspot”, ma perché in molti, a partire dal sindaco Totò Martello, ritengono che la misura sia colma e che l’isola non possa sopportare oltre questa enorme pressione. A Lampedusa, semi svuotata di migranti appena tre giorni prima, con l’arrivo del barcone e di tre dei “soliti” barchini dalla Tunisia, fino a ieri sera c’erano 1526 migranti. Non solo nell’hotspot, che in queste ore accoglie per dieci volte la sua capienza ufficiale, ma anche nella Casa della fratellanza, i locali della parrocchia di don Carmelo La Magra divenuti ormai valvola di sfogo in caso di sovraffollamento. Il sindaco ha convocato per oggi gli imprenditori, le associazioni e le parti sociali per proclamare lo sciopero generale dell’isola. Una misura che vuol essere un segnale forte verso il governo nazionale, accusato di essersi disinteressato della situazione dell’arcipelago. E a poco è servito l’annuncio del Viminale, arrivato in serata, che molti dei migranti saranno trasferiti nelle prossime ore in Sicilia: i primi 128 già nella notte, con le motovedette di Guardia di finanza e Guardia costiera; altri 200 oggi con nave Dattilo, una delle “gloriose” imbarcazioni della Guardia costiera che erano state varate proprio per il soccorso in mare e che, come la Diciotti, per mesi è rimasta ferma nei porti. Entro domani dovrebbe arrivare anche una terza nave-quarantena; per altre due stamattina verrà completata la procedura di gara e, promette il Viminale, entreranno in servizio entro mercoledì. Ma a Lampedusa preoccupazione e delusione restano. I dati del turismo, vero motore economico dell’isola, sono di molto inferiori alle aspettative: “La rabbia sta montando - dice Martello - e le fake news e il bombardamento mediatico stanno facendo un danno enorme perché non fanno arrivare i turisti. Chi li ripaga questi danni? Il silenzio del governo sulla situazione che stiamo vivendo è umiliante e la pazienza ha un limite che stiamo per oltrepassare. E in questo caso i rischi per l’ordine pubblico ci sono”. Lo sa pure la Regione Siciliana che, come Martello, da tempo invoca lo stato di emergenza per l’isola. Il governatore Nello Musumeci ieri ha chiesto a Roma un Consiglio dei ministri ad hoc, al quale è suo diritto partecipare perché lo Statuto speciale gli assegna in questi casi il rango di ministro. Gli sbarchi continuano e non solo a Lampedusa: ieri mattina in 67 sono sbarcati da un gommone sulla spiaggia di Punta delle formiche, a Pachino, davanti ai bagnanti; altri sbarchi ci sono stati in Calabria e Sardegna. L’emergenza però, nonostante la martellante propaganda dell’opposizione, riguarda solo la sovraffollata Lampedusa. I numeri complessivi degli arrivi di migranti, infatti, restano molto al di sotto di quelli degli anni precedenti al 2018. Turchia. Ebru Timtik, si chiamava così di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 agosto 2020 Cerchiamo di scolpire nella memoria il nome di questa martire turca della libertà, della cui morte è responsabile il tiranno Erdogan: Ebru Timtik. Cerchiamo di non dimenticarla subito, come facciamo di solito noi europei che declamiamo ipocritamente princìpi di libertà ma poi per quieto vivere facciamo finta di niente e lasciamo sola un’attivista dei diritti umani morta dopo 238 giorni di sciopero della fame, in carcere, per ottenere un processo equo e non la tragica farsa che l’aveva condannata. Cerchiamo di ricordarci almeno per un po’ di Ebru Timtik: magari qualche coraggioso potrebbe dedicarle una piazza, ribattezzare con il suo nome un festival, un teatro, una rassegna di libri. Cerchiamo di non essere orribilmente ipocriti come sempre: un paio di giorni di indignazione per la dittatura in Bielorussia e poi silenzio, qualche titolo di giornale per i democratici di Hong Kong poi censura e omertà per non rovinare i proficui rapporti con Pechino, la dittatura che tanto piace al nostro governo nella cui maggioranza c’è un partito che si fregia addirittura del nome “democratico”. Lo sappiamo, l’Europa deve riverire il sultano Erdogan perché riempiendolo di soldi teniamo custoditi nei campi turchi, noi che siamo sempre così umanitari, generosi, accoglienti, tutti i profughi che potrebbero darci qualche fastidio. Facciamo finta che non esista il dispotismo di Erdogan che forse potrà aiutarci a stabilizzare la Libia, questa spina nel fianco con la quale non sappiamo come comportarci. E cerchiamo di ignorare la presenza di Ebru Timtik, che si è permessa di protestare contro la violazione dei diritti umani in Turchia e che perciò, non solo lei, è stata condannata in modo assurdo senza nessuna delle garanzie previste da uno Stato di diritto. Ricordiamo ancora una volta il suo nome, così fastidioso per noi che non vorremmo che il sultano Erdogan si innervosisse troppo: Ebru Timtik. Ebru Timtik è lo specchio della coscienza sporca di un’Europa senza dignità che non merita alcun rispetto. Per questo si fa a gara per dimenticarla. Per questo ci gireremo dall’altra parte, come facciamo con la Cina davanti alla quale si prostrano i governi e l’Oms. Come facciamo con la Russia dove gli oppositori sono avvelenati. Ebru Timtik, morta assassinata nel silenzio generale: si chiamava così. Pisapia: “Avvocati e giornalisti nel mirino, la Turchia di Erdogan cancella il diritto” di Marco Ansaldo La Repubblica, 31 agosto 2020 Parla l’ex sindaco di Milano, ex difensore del leader curdo Ocalan e ora parlamentare europeo: “La morte di Ebru Timtik dimostra che c’è una chiara volontà intimidatoria. Ora chi avrà il coraggio di difendere chi viene accusato dal regime?”. “Da parte di Erdogan c’è una chiara volontà intimidatoria. Ora chi avrà il coraggio di difendere chi viene accusato dal regime, se rischia a propria volta di finire in carcere per anni? E, ripeto, questo vale anche per i giornalisti”. Il caso dell’avvocatessa turca Ebru Timtik, 42 anni, morta dopo 238 giorni di sciopero della fame nonostante la sua richiesta di “un processo equo” per sé e per tutti in Turchia, muove le coscienze di molti nel mondo. In Italia, nel giro di due giorni, sono tante le associazioni di avvocati, o gli organismi dei magistrati, a prendere posizione e chiedere giustizia per i loro colleghi a Istanbul e ad Ankara, da anni in carcere con l’accusa di difendere terroristi, e ancora senza processo. Un’ondata che sta promuovendo dibattiti e iniziative di conferenze, ma anche pressioni sulla diplomazia e sul governo italiano perché si esprimano in maniera ferma verso Ankara. Giuliano Pisapia, parlamentare europeo, già sindaco di Milano, è un uomo di legge che in Italia il diritto lo conosce come pochi. Figlio d’arte, è stato l’avvocato di politici e imprenditori, ma anche della famiglia di Carlo Giuliani, e a livello internazionale difese una ventina di anni fa il leader curdo del Pkk, Abdullah Ocalan, piombato all’improvviso a Roma: un caso che per due mesi sconvolse le relazioni fra Italia e Turchia. Pisapia ora è impegnato a Bruxelles, alla commissione Affari Esteri, dove proprio nei primi giorni della settimana si parlerà di Turchia e di diritti umani. Repubblica lo ha intervistato. Giuliano Pisapia, com’è possibile che si processino gli avvocati in Turchia? E che non ottengano, come chiedeva Ebru Timtik, un “processo equo”? “In Turchia la negazione e la violazione dello stato di diritto e dei diritti umani è purtroppo sistematica ormai da tempo. Negli anni ‘80, da giovane avvocato ho assistito a Istanbul a processi contro deputati accusati, e condannati, solo per aver parlato in curdo in Parlamento. E da allora le cose sono cambiate solo in peggio, la repressione si è estesa: linguistica, etnica, religiosa, politica, di orientamento sessuale... Da parlamentare europeo mi chiedo come sia possibile che un Paese che è sull’uscio dell’Europa calpesti i valori più elementari del nostro comune vivere civile e non sia sottoposto a pesanti sanzioni, come sta accadendo al Venezuela o alla Bielorussia. E mi viene un dubbio atroce: è il ricatto sui migranti l’arma che permette l’impunità a un Paese guerrafondaio che ha bombardato la Siria e ha fomentato la guerra in Libia. O, e spero che non sia così, anche l’Europa e gli Stati democratici sono deboli con i forti e forti con i deboli?”. Tutto questo mentre la repressione post golpe fallito del 2016 non accenna a diminuire, e viene anzi attuata verso ampie schiere di oppositori al governo. “In Turchia da tempo stanno accadendo dei fatti terribili sul piano della repressione e non c’è alcuna forma di rispetto di regole anche minime dei diritti dei cittadini. Il caso di Ebru Timtik è drammatico per le sue modalità. Ma, purtroppo, non è certamente isolato. Ci sono violazioni quotidiane e sistematiche dei diritti umani. Avvocati, magistrati, giornalisti, uomini di cultura e tante altre categorie di persone vengono arrestate arbitrariamente e tenute in carcere per anni, con o senza processo che comunque spesso è solo una farsa. Nei mesi scorsi siamo rimasti sconvolti dalle tre morti dei componenti della band musicale Grup Yorum: 323, 288 e 228. Sono le giornate totali di sciopero della fame da loro condotto per denunciare le politiche di Recep Tayyip Erdogan che li ha portati alla morte”. Tra gli elementi delle accuse contro gli avvocati c’è il fatto che parlino con i loro assistiti, accusati di terrorismo, e perciò vengono considerati collusi. Non è aberrante? “Certo che lo è. Solo nelle dittature gli avvocati sono funzionali agli obiettivi politici e processuali dei regimi ed è quello che Erdogan vorrebbe. C’è una chiara volontà intimidatoria; chi avrà il coraggio di difendere chi viene accusato dal regime se rischia a propria volta di finire per anni in carcere? E, ripeto, vale anche per la stampa. Se vengono arrestati i giornalisti critici si manda un segnale chiarissimo a tutti: se si critica il governo si andrà in carcere a tempo indeterminato. La libertà, o addirittura la vita, dipendono dalla volontà del regime. Basti ricordare che, con la scusa di un tentativo di colpo di stato, sono stati arrestati anche centinaia di magistrati, giornalisti e di funzionari pubblici che credevano nella democrazia”. Il caso di un avvocato che digiuna fino alla morte dimostra fino a che punto arriva la considerazione del diritto oggi sotto l’attuale governo turco? “I casi purtroppo sono tanti. il 21 settembre inizierà il processo di avvocati turchi detenuti da oltre due anni e accusati di terrorismo per il solo fatto di aver difeso persone accusate di terrorismo. L’unica forma di ribellione a questa ingiustizia estrema è quella di lasciarsi morire di fame dopo aver rifiutato il cibo per molti mesi senza che questo portasse a nessun risultato. Il regime è stato sordo a questi gesti disperati. Una scelta drammatica presa da migliaia di persone. Quando i giudici decidono la scarcerazione vengono immediatamente sostituiti”. In Europa, e soprattutto in Italia, ci sono ovunque, da Torino a Roma, da Ancona al Sud, decine di associazioni e ordini di avvocati, di magistrati anche, che si stanno muovendo con iniziative a sostegno dei loro colleghi turchi. Possono davvero essere efficaci, o niente fermerà Erdogan? “È importante che ci siano reazioni in tutta Europa e che ci siano voci di sostegno a quanti soffrono. Ma Erdogan in questi anni ha dimostrato di essere del tutto indifferente a qualsiasi appello internazionale. Oltretutto la comunità internazionale è divisa e ha anch’essa molte colpe. Compresa l’Europa: penso in particolare alla gestione dell’arrivo dei migranti dal confine turco. Nel frattempo il progetto egemonico del leader turco prosegue senza sosta. L’intervento in Libia, il bombardamento della Siria, le esercitazioni navali vicino alla Grecia. Una politica sprezzante, muscolare e arrogante. Tutto questo va avanti e certo non ci sono segnali di un qualche intervento efficace da parte dell’Europa, di qualsiasi attore internazionale, per non parlare della Nato”. Con Ebru Timtik c’è in sciopero della fame un altro suo collega dell’Associazione avvocati contemporanei: Aytac Unsal. Risulta allo stremo. Che cosa fare? “È necessario fare quello che non è stato fatto in questi anni. Una mobilitazione immediata, e sanzioni anche economiche dell’Europa e dei singoli governi. Questo vale anche per il governo italiano e per questo mi aspetto che venga promossa una efficace azione diplomatica in tal senso”. Lei la Turchia la conosce bene. Vent’anni fa era, assieme a Luigi Saraceni, l’avvocato di Abdullah Ocalan, il leader curdo del Pkk, rifugiatosi per due mesi in una villa all’Infernetto di Ostia. Apo (come veniva chiamato Ocalan), infine cacciato dal governo italiano, finì catturato in Kenya dalle teste di cuoio turche, e da allora vive confinato all’ergastolo nell’isola prigione di Imrali, sul Mare di Marmara. Era una terrorista o no? “Ocalan è venuto in Italia con la volontà vera e concreta di una pace duratura. La questione curda è antica e drammatica. Dico solo che il popolo curdo ha combattuto, spesso isolato, contro l’Isis. Le donne curde hanno combattuto per la giustizia e la libertà e, quando la Turchia le ha bombardate, l’Occidente le ha abbandonate, come purtroppo è accaduto troppe volte nella storia di quel popolo”. C’è un episodio che ricorda in particolare della sua difesa di Ocalan? “Con Saraceni avevamo acquistato un biglietto aereo per partire verso Istanbul, e andare a difenderlo dopo il suo arresto. L’ambasciatore italiano ad Ankara ci aveva avvertito mentre eravamo quasi sulla scaletta: è meglio che non partiate, perché rischiate che vi rimandino indietro o addirittura l’arresto. Intervenne Oscar Luigi Scalfaro, allora presidente della Repubblica, ma soprattutto uomo di diritto. Era allibito. Ci disse: “È inaccettabile che vi impediscano di vedere e di parlare con il vostro assistito, e che non possiate esercitare il diritto di difesa. Parlerò con le autorità turche”. Una settimana dopo ci richiamò: “Mi dispiace - ci disse deluso - non c’è proprio niente da fare. Evidentemente il diritto di difesa non vale per tutti”. Salvatore Mancuso, gli Stati Uniti bloccano l’estradizione in Italia del signore della guerra di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 31 agosto 2020 Era pronto a parlare con i pm calabresi dei traffici con la ‘Ndrangheta, ma gli Usa hanno accontentato Bogotá: l’ex capo dei paramilitari di destra, figlio di un italiano e accusato di centinaia di omicidi, sarà estradato in Colombia. Tra molte incognite. Dai e dai, la Colombia ce l’ha fatta. Voleva riprendersi a tutti i costi Salvatore Mancuso, paramilitare, trafficante e signore della guerra (figlio di un italiano) che per vent’anni seminò il terrore con le sue Autodefensas Unidas de Colombia, sterminando interi villaggi, muovendo tonnellate di cocaina, torturando civili e guerriglieri filo-marxisti, spesso in combutta con i militari di Bogotá. E pare esserci riuscita quando la battaglia per riaverlo sembrava persa: El Mono, “la scimmia”, era riuscito a ottenere l’estradizione in Italia dagli Usa, dove ha appena finito di scontare 12 anni di carcere per narcotraffico. L’ex capo della guerriglia di destra “pacificata” nel 2004, nato a Montería 56 anni fa, padre emigrato da Sapri (Salerno) e madre colombiana, una vita in mimetica tra le coltivazioni di coca con cui finanziava la sua guerra ai rivoluzionari, aveva promesso che davanti ai pm di Catanzaro e Reggio Calabria avrebbe parlato dei suoi legami con la ‘ndrangheta, con cui fece grossi affari tra gli anni Novanta e i Duemila: il suo nome era comparso in diverse inchieste su enormi traffici di cocaina dal Sudamerica all’Europa (le operazioni “Decollo” e “Galloway Tiburon”). I giudici statunitensi gli avevano dato ragione: la richiesta del suo avvocato di trasferirlo in Italia era stata accolta qualche giorno fa, proiettando Salvatore Mancuso Gómez su un volo da New York a Roma entro la fine di settembre. Ieri la retromarcia con inversione a U: le autorità americane hanno deciso a sorpresa di estradarlo in Colombia, dopo forti pressioni (non solo dell’opinione pubblica) di Bogotá, sostenendo - svela El Tiempo - che portarlo in Italia “pregiudicherebbe gli interessi del governo di Trump”. Agli Usa non conveniva creare un incidente diplomatico col suo alleato più stretto in Sudamerica, il Paese che ospita la seconda sede al mondo della Dea, l’agenzia federale antidroga americana. E l’Italia in ogni caso non avrebbe potuto opporsi: da Roma non era mai partita alcuna richiesta di estradizione di Mancuso, dato che al momento non c’è un’ordinanza di custodia cautelare per lui. Il legale dell’ex paramilitare italo-colombiano ha ancora una carta da giocare, nei prossimi 14 giorni: chiedere l’applicazione della legge Usa contro la tortura e i trattamenti crudeli, sostenendo che il suo cliente in Colombia sarebbe in pericolo di vita e che per questo debba restare dov’è. In effetti il Mono si è fatto moltissimi nemici nel suo Paese quando ai magistrati americani, davanti a cui era finito per traffico internazionale di stupefacenti, ha cominciato a raccontare molto di più: i rapporti tra le Auc e il parlamento di Bogotá, quelli con la presidenza di Álvaro Uribe, gli intrecci con l’esercito nella lotta alle Farc e all’Esercito di Liberazione Nazionale durante il conflitto armato. Confessioni che migliaia di famiglie di vittime vorrebbero ascoltare per avere qualche forma di giustizia: Mancuso in patria è stato condannato a 40 anni, poi diventati 8 grazie alla legge di “smobilitazione” dei guerriglieri del 2005, ma dev’essere ancora processato per circa 600 omicidi. Alcune Ong sospettano che il governo di Iván Duque, ex delfino di Uribe, non ci tenga a riaverlo come dice in pubblico. Il presidente aveva minacciato di ricorrere “ai principi di giurisdizione universale per crimini contro l’umanità” se Mancuso fosse stato mandato in Italia. Eppure la richiesta ufficiale di estradizione era arrivata tardi e con errori procedurali, segno - aveva denunciato il direttore di Human Rights Watch in America latina, José Miguel Vivanco - “di sforzi mediocri e gravi negligenze da parte delle autorità colombiane”. La prima di tutte, forse, fu proprio estradare Mancuso nel 2008 negli Stati Uniti assieme ad altri 13 capi dei paramilitari che si erano arresi. Proprio quando la Corte costituzionale stava indagando sulle complicità degli apparati dello Stato (e degli alleati di Uribe al Congresso). Egitto. Patrick Zaki visitato in carcere dalla madre Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2020 “è in buona salute ma è preoccupato per gli studi e per la sua detenzione”. Dopo oltre 5 mesi di detenzione nel carcere di Tora a Il Cairo, lo studente egiziano dell’Università di Bologna Patrick Zaki ha finalmente potuto incontrare la madre. A darne notizia sono stati gli stessi familiari del ragazzo di 29 anni. Patrick è apparso in buona salute, ha spiegato la madre, anche se avrebbe perso un po’ di peso e il suo aspetto sarebbe cambiato leggermente. Zaki si è mostrato preoccupato per lo stato dei suoi studi, oltre che per la sua detenzione. Lo studente è stato arrestato sette mesi fa al controllo doganale dell’aeroporto de Il Cairo al suo arrivo dall’Italia. Il fermo è stato poi trasformato in arresto e via via prorogato, l’ultima volta a fine luglio, senza che sia ancora stata fissata una scadenza per la detenzione. L’accusa è di diffusione di informazioni dannose per lo Stato e incitazioni ad azioni contro il medesimo ed è legata ad alcuni post su Facebook pubblicati da Zaki dopo le proteste di piazza del settembre 2019. Dopo un periodo di reclusione nel carcere di Mansoura, Patrick Zaki è stato spostato nella prigione de Il Cairo durante il periodo del lockdown e qui rimane in attesa di giudizio. Dopo un incontro lo scorso febbraio, la famiglia e i legali non hanno avuto notizie sulla sua detenzione, né, fino a ieri, hanno potuto incontrare Patrick. Le parole della sorella su Facebook - Cinque giorni fa su Facebook la sorella di Patrick, Marise, ricordava che sono passati oltre 200 giorni, 7 mesi, dal suo arresto. “Patrick - ha scritto la sorella - mi manchi tu, mi manca ogni minuscolo dettaglio di te, ogni tuo punto di vista sui piani della mia vita, le tue parole che mi motivavano a perseguire nei miei progetti. Il tempo passa e io faccio sempre più fatica a vivere la quotidianità senza di te. Sono 200 giorni e tu non sei qui al mio fianco, non possiamo parlare non possiamo condividere le piccole cose. Ti sogno sempre, rivedo davanti a me il tuo splendido sorriso e sento nitida la tua voce. A presto, fratello mio”. Nelle ultime settimane due detenuti di Tora, uno nella stessa sezione di Zaki, sono morti in circostanze poco chiare. Prima il leader della Fratellanza Musulmana, Essam al-Erian, stroncato da un attacco cardiaco durante un’accesa discussione, poi un tassista morto il 10 agosto folgorato in cella da un bollitore, ma la notizia comunicata ai suoi familiari soltanto otto giorni più tardi. A maggio era toccato al giovane regista e blogger Shady Habash. Egitto. Dopo l’esilio, 15 anni di carcere per il più noto difensore dei diritti umani di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2020 Bahey el-Din Hassan meriterebbe un premio internazionale per tutto quello che ha fatto in favore dei diritti umani, cui ha dedicato una vita intera, come ricorda chi lo conosce bene in questo articolo. Invece, alla “condanna” dell’esilio forzato, il 25 agosto la quinta sezione del tribunale antiterrorismo del Cairo ha aggiunto una condanna reale a 15 anni di carcere per accuse del tutto false di “offesa al potere giudiziario” e “diffusione di notizie false tramite i social media che possono mettere a rischio la sicurezza pubblica e il benessere pubblico”. Le “notizie false” erano un paio di tweet sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. La Procura speciale per la sicurezza dello stato ha aggiunto ai capi d’accusa anche dei post pubblicati su Facebook, su un profilo fake che non era quello di Hassan. Direttore e cofondatore, nel 1993, dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, Hassan aveva lasciato l’Egitto nel 2014 dopo aver ricevuto minacce di morte. Una scelta dolorosa, che ha significato la separazione dalla madrepatria e soprattutto dalla famiglia. Anche l’Istituto da lui fondato ha dovuto andare in esilio, trasferendo la sua sede dal Cairo a Tunisi. Ma la giustizia del presidente al-Sisi non si è accontentata di vedere l’ennesimo difensore dei diritti umani finire in quella che ormai è una diaspora globale di protagonisti della società civile egiziana. Dopo il congelamento dei conti bancari e l’iscrizione nella black-list delle persone da arrestare se dovessero presentarsi agli Arrivi dell’aeroporto del Cairo, nel settembre 2019 Hassan era stato già condannato in absentia a tre anni di carcere e a una multa di 20.000 sterline egiziane (circa 1200 euro) per “offesa al potere giudiziario”. Ancora una volta, dunque, le autorità egiziane hanno mostrato la loro spietata intolleranza nei confronti di chi esprime critiche e denuncia le violazioni dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia