Riguardo al progetto del nuovo carcere di Nola di Cesare Burdese* Ristretti Orizzonti, 30 agosto 2020 Stimolato dalla lettura dell’articolo intitolato “A Nola il progetto che renderà il carcere più umano”, a firma di Viviana Lanza comparso su Il Riformista del 27 agosto 2020, essendo da decenni parte attiva nel nostro paese del dibattito sul tema della pena detentiva e dei suoi spazi architettonici, mi preme puntualizzare quanto segue. In quell’articolo, sulla base di un’intervista a Luca Zevi, emerge un quadro sviante ed irreale della dimensione architettonica del nostro carcere, ancorché - se mai si farà - del futuro carcere di Nola. Dalle parole dell’intervistato infatti, parrebbero esistere nel nostro paese tutte le condizioni per dare corso ad una nuova stagione progettuale in grado di fornire edifici carcerari rispondenti alle esigenze della gestione penitenziaria più avanzata ed alle istanze costituzionali in materia di esecuzione penale; ma anche rispettosi dei bisogni materiali e psicologici dell’utenza (persone detenute, operatori penitenziari, visitatori ecc.) attraverso soluzioni architettoniche di avanguardia. Questo purtroppo non è. Le condizioni avverse a tale corso sono rappresentate dalla mancanza di veri strumenti culturali - derivanti dalla teoretica e dalla sperimentazione sul campo - in grado di affrontare coerentemente il tema della progettazione carceraria, cui si affianca l’insensibilità politica e della cultura architettonica al tema e la farraginosità burocratica. La vicenda progettuale del carcere di Nola è emblematica in tal senso; ripercorrerne la vicenda progettuale consente di chiarire la fondatezza di tali affermazioni. Il progetto al quale si fa riferimento nell’intervista è quello del bando ministeriale per la costruzione del nuovo istituto penitenziario di Nola (Napoli) del 2017, elaborato dagli uffici tecnici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Nelle intenzioni il nuovo istituto doveva essere il primo in Italia scaturito da quanto pensato e stabilito dai tecnici del Tavolo n.1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale “ Spazio della pena: Architettura e Carcere” nel 2015; un tavolo composto da architetti (tra i quali lo scrivente), operatori penitenziari e della Giustizia - coordinato dall’Architetto Luca Zevi - chiamati dall’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando per individuare interventi architettonici negli istituti esistenti e per elaborare nuove configurazioni degli spazi della pena in linea con le istanze internazionali più progredite in materia di trattamento penitenziario. Quel progetto ministeriale palesò sin da subito una netta discontinuità rispetto alle indicazioni del Tavolo N.1, caratterizzandosi negativamente in termini di localizzazione, capienza e soluzioni architettoniche. Gli stessi elementi di negatività furono rilevati e stigmatizzati in occasione del dibattito che si tenne il 22 marzo 2017 presso l’Università degli studi di Roma Tre dal titolo “Spazio della pena e architettura carceraria, il caso Nola dopo gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale”, alla presenza, tra gli altri, dell’allora Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri. Lo stesso Sottosegretario in quella sede prese atto e ammise che nel caso del Progetto del carcere di Nola, era venuto a mancare il rispetto delle linee guida e degli indirizzi fondamentali previsti per quel tipo di struttura. In quella circostanza lo stesso rappresentante dell’Ordine degli Architetti di Roma evidenziò giustamente anche l’errata scelta dell’Amministrazione penitenziaria, la quale, invece di bandire un concorso di idee progettuali, preferì ricorrere ad una gara più sbrigativa, sostanzialmente basata su di una offerta tecnica ed economica al ribasso. Nonostante tutto, oggi come allora, quel progetto continua da qualcuno ad essere decantato pur contraddicendo i contenuti del lavoro portato avanti dall’apposito tavolo ministeriale. L’attuale Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, succeduto all’On. Andrea Orlando, sembrerebbe aver sconfessato quel progetto esprimendo l’intenzione di annullarne la realizzazione. L’iter procedurale per la realizzazione di quell’opera, in carico al Provveditorato Regionale delle O.O.P.P della Campania, avviato nel 2014, però non risulterebbe al momento interrotto. Lo stato di sovraffollamento cronico delle nostre carceri, tutt’ora presente e ulteriormente aggravato dalle drammatiche circostanze del Coronavirus, la cui soluzione sarebbe riconducibile alla realizzazione pressoché immediata di almeno 10.000 posti letto (singoli), richiederebbe ben altre risposte e tempistiche, ma anche apporti culturali. Alle le vicende descritte potremmo attribuire senza tema di smentita, l’espressione “Miseria delle nostre carceri”, che, con riferimento allo stato materiale delle infrastrutture penitenziarie del nostro paese, il Presidente Giorgio Napolitano a Camere riunite nel 2013 proferì, a seguito della nota condanna della Corte europea dei diritti umani, per violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). *Cesare Burdese, architetto libero professionista. Animatore del dibattito nazionale sull’Architettura penitenziaria, svolge attività didattica seminariale sul tema. È l’autore del progetto della Riorganizzazione spaziale dell’istituto Penale Minorile Ferrante Aporti di Torino, del progetto Nuovo Istituto detentivo della Repubblica di San Marino, dell’Istituto detentivi Icam di Torino, del Giardino degli incontri parentali dalla C.C. di Vercelli, degli arredi “Spazi Gialli” per le sale di attesa nelle carceri italiane. È l’autore delle Linee Guida e Spunti progettuali per il Nuovo Carcere di Bolzano nell’ambito della ricerca Caritas Diocesi di Bolzano e Bressanone “Dentro le mura, fuori dal carcere”. È stato componente della Commissione del Ministero della Giustizia italiano per l’elaborazione degli interventi in materia penitenziaria del (nomina del Ministro della Giustizia con Decreto 13 giugno 2013), è stato membro del Tavolo Tecnico N.1 Gli spazi della pena: Architettura e Carcere degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale (2015). Pescara. Il giudice gli nega il permesso di lavorare fuori dal carcere, lui si impicca Corriere Adriatico, 30 agosto 2020 Aspettava un premio, un premio che l’avvocato Gennaro Lettieri aveva fatto di tutto per farglielo giustamente avere: quello di poter ottenere di lavorare fuori dal carcere. Ci sperava, era convinto di meritarlo. Ma l’altro ieri mattina è arrivato il diniego del magistrato dell’Ufficio di sorveglianza di Pescara. Per il 63enne caldaista di Mosciano, Dante Di Silvestre, accusato dell’omicidio di Paolo Cialini, all’epoca dei fatti 40enne, operatore informatico di Giulianova, è stata una mazzata tremenda. Ed è da quel momento che nella sua mente ha cominciato a pensare al suicidio. E da come si è comportato successivamente si poteva intuire che la tragica fine era stata programmata. Ha messo da parte alcune chiavi e altri effetti personali con un biglietto e una frase semplicissima: “Da riconsegnare a mia moglie”. E giovedì verso le 18,30, approfittando dello stato di semilibertà che gli era stato da tempo concesso proprio per il suo esemplare comportamento, si è riparato in un angolo del cortile e con una corda, di cui aveva la disponibilità per i lavori che svolgeva, si è impiccato a una sbarra del cortile del carcere di Castrogno, a Teramo, e quando un altro detenuto, che godeva dello stesso privilegio, lo ha trovato riverso a terra, ha subito dato l’allarme. Sono arrivati gli agenti della polizia penitenziaria ed il medico del carcere ma per Dante Di Silvestre non c’era più niente a fare: è morto per soffocamento, anche la risposta finale spetta all’autopsia che il magistrato ha già disposto. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semi libertà. “Gli volevano bene tutti in carcere - spiega l’avvocato Lettieri, che vorrà approfondire le motivazioni del diniego al lavoro esterno - e questo perché aveva sempre lavorato sin dal primo giorno in cui era entrato a Castrogno ed aveva sempre offerto la disponibilità a fare tutto. Non meritava una fine così, ma su quanto accaduto ci sarà da approfondire”. Verrà coinvolto anche il pm Laura Colica. Intanto è stato deciso l’esame autoptico che è stato fissato per oggi e che dovrebbe essere affidato all’anatomopatologo Pino Sciarra, anche se le cause della morte appaino evidenti Sassari. Detenuto trovato morto, disposta l’autopsia La Nuova Sardegna, 30 agosto 2020 Vittima un 22enne, era in quarantena perché arrivava da Isili. Il garante: lo avevo visto il giorno prima Sarà l’autopsia disposta dal sostituto procuratore di Sassari Beatrice Giovannetti a far luce sulle cause della morte di un detenuto marocchino di 22 anni. Il giovane era rientrato a Bancali due giorni fa dopo un breve periodo di prova - una sorta di “premio” - trascorso nella colonia penale di Isili. Come vuole la prassi, i detenuti che arrivano da altri luoghi devono trascorrere i canonici quattordici giorni di quarantena in una apposita sezione che è stata allestita nel carcere sassarese nel periodo dell’emergenza Covid per prevenire eventuali contagi nell’istituto penitenziario. Formula che ha funzionato pienamente. Ieri mattina gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato senza vita. Apparentemente sul suo corpo non ci sarebbero segni di autolesionismo né di violenza ma solo dopo l’autopsia si potrà fare maggiore chiarezza sull’accaduto. Addolorato il garante dei diritti dei detenuti, Antonello Unida: “Avevo parlato con lui proprio il giorno prima - ha spiegato - era un po’ agitato e deluso perché avrebbe voluto trascorrere ancora del tempo nella colonia di Isili. Ho comunque provato a tranquillizzarlo e prima di andare via gli ho detto che ci saremmo visti l’indomani”. Ieri, quando Unida è andato in carcere, ha saputo dal direttore della morte del ragazzo. “La Polizia penitenziaria - ha aggiunto il Garante - si è attivata subito con la consueta delicatezza e professionalità e ora si sta contattando la famiglia tramite l’ambasciata del suo Paese per informarla di quanto è successo”. Al momento è prematuro fare ipotesi anche se quella più accreditata e plausibile è che il giovane marocchino sia stato colpito da un malore improvviso. Augusta (Sr). Ergastolano di 39 anni muore dopo il ricovero per un malore di Ferdinando Perricone corriereelorino.it, 30 agosto 2020 Era stato ricoverato d’urgenza per “addome acuto” ma dopo una serie di complicanze e un’operazione chirurgica, è deceduto nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale “Di Maria” di Avola. È morto ieri sera il rosolinese Sebastiano Iemmolo. Aveva 39 anni. Da circa due anni era stato condannato all’ergastolo per il “femminicidio” nei confronti della compagna Laura Pirri, un caso che ha avuto una vasta eco mediatica avvenuto nelle case popolari di via Eloro, stesso immobile in cui è recentemente avvenuto l’omicidio del piccolo Evan. In carcere, dove era detenuto, ha accusato un malore all’addome, e in codice rosso era stato ricoverato all’ospedale di Augusta. A causa dell’aggravarsi della situazione clinica è stato trasferito a Siracusa dove è stato sottoposto ad una operazione chirurgica. Subito dopo era stato trasportato in terapia intensiva ad Avola. Ieri sera, però le sue condizioni sono peggiorate fino all’arresto cardiaco. La Spezia. Covid: contagiato un detenuto, rientrava da un permesso di Daniele Mannocchi La Nazione, 30 agosto 2020 L’uomo è risultato positivo durante i controlli fatti in carcere dopo un’uscita. È stato isolato già all’ingresso, prima che potesse contattare altri ospiti. C’è anche un detenuto del carcere della Spezia tra i nuovi positivi al Coronavirus. Si tratta di un cittadino di 54 anni di origine dominicana uscito dal carcere in virtù di un permesso. L’uomo, al rientro nella struttura, è stato sottoposto al tampone da cui è risultato il contagio da Covid-19. La situazione, comunque, è sotto controllo. Dal carcere fanno sapere che il detenuto ha contratto il Coronavirus dopo il contatto con la famiglia e, come da protocollo vigente, al ritorno non ha avuto modo di stare vicino ad altre persone. Ha fatto subito il tampone ed è stato messo in isolamento in attesa dei risultati. Ora, con il verdetto in mano, seguirà tutta la trafila del caso. Per sicurezza, anche il suo compagno di cella è stato sottoposto al tampone, ma i due non si sono comunque incrociati da quando il cittadino dominicano ha ottenuto la possibilità di beneficiare del permesso. Il sindacato della polizia penitenziaria, in ogni caso, invita a non calare la soglia di attenzione. E anzi chiede all’Asl misure più stringenti per scongiurare l’eventualità che il Covid-19 possa diffondersi in carcere. “Abbiamo chiesto di non abbassare la guardia - spiega Fabio Pagani della Uilpa Polizia penitenziaria - e l’adozione di opportune misure d’informazione, prevenzione e controllo al fine di scongiurare, per quanto possibile, i rischi di contaminazione da nuovo Coronavirus negli ambienti carcerari e in quelli ad essi strettamente connessi”. “La situazione complessiva si è fa innegabilmente più seria e pur senza voler ingenerare allarmismi - continua - nuovamente abbiamo chiesto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria interventi mirati, l’adozione di utili misure di prevenzione e monitoraggio, specie in occasione di trasferimenti di detenuti e, in generale, in ogni ambiente di transito in cui opera personale del corpo di polizia, nonché la predisposizione di appositi protocolli da attivare per ogni nuovo ingresso in carcere. Riteniamo sia necessaria la costituzione di un’apposita cabina di regia, presieduta dalle Asl di competenza, che informi, istruisca e guidi operatori e detenuti”. Anche perché, spiega ancora Pagani, i rischi restano alti. “Se il Coronavirus entra tra le mura del carcere siamo finiti -, speriamo che quello di oggi (ieri per chi legge; ndr) sia una sorta di messaggio fortunato per far comprendere a chi di dovere che bisogna essere rigidi sull’isolamento fiduciario. Stavolta abbiamo rischiato davvero. È andata bene, e comunque faremo partire dei controlli sull’intero istituto per toglierci definitivamente ogni dubbio residuo”. Alba (Cn). Lavori al carcere Montalto, è ancora tutto fermo di Francesca Pinaffo gazzettadalba.it, 30 agosto 2020 Una Fase 2 che in realtà non è mai cominciata del tutto, all’interno di spazi molto ristretti nei quali nella maggior parte dei casi non è stato possibile riprendere le normalità attività: se per tutti il lockdown ha rappresentato una brusca frenata alla vita di tutti i giorni, per chi si trova in carcere il cambiamento è stato ancor più diverso. A differenza di altri istituti piemontesi, nel carcere Giuseppe Montalto di Alba non sono stati registrati contagi di Covid-19, come illustra il garante per i detenuti Alessandro Prandi nella sua relazione annuale: “Da gennaio a giugno, a fronte di una capienza effettiva di 33 posti, il numero dei detenuti è sceso in modo drastico per via dei provvedimenti adottati, passando da 49 a 34, abbassando così il tasso di affollamento. A differenza di altre strutture, ad Alba non ci sono state proteste collettive, ma la situazione è stata tenuta sotto controllo grazie a una costante informazione, anche nelle situazioni più complesse”. Dopo la fase di lockdown ora sono ripresi i permessi premio, le attività dello sportello del lavoro e del corso di formazione professionale di addetto al giardinaggio e ortofrutticoltura, mentre viene consentito l’ingresso di un solo volontario per espletare pratiche burocratiche, ma non le altre attività di solito portate avanti dai volontari che ruotano attorno alla struttura. A preoccupare, però, è soprattutto il futuro del carcere: il 30 giugno sembrava essere arrivata la svolta con la pubblicazione, sul sito del Ministero della giustizia, della determina relativa all’avvio della procedura per l’affidamento dell’appalto per la realizzazione dei lavori nella parte abbandonata del Montalto, ma ad oggi non ci sono notizie incoraggianti in merito. Spiega Prandi: “Il 7 agosto ho scritto al funzionario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria responsabile del procedimento del carcere albese, come ha fatto anche il sindaco Carlo Bo, scrivendo direttamente al Ministero della giustizia. A quanto sembra, a oggi, l’avviso del 30 giugno era solo una sorta di comunicazione di inizio procedura per emettere il bando, ma non sembra essere stata ancora indetta alcuna gara: rimaniamo in attesa di una risposta dal Ministero”. Massa. Cofrancesco interviene sulle problematiche del carcere cittadino ilsitodimassacarrara.it, 30 agosto 2020 Sabato mattina il candidato al Consiglio Regionale nella lista in appoggio alla candidata Susanna Ceccardi, Toscana Civica per il cambiamento Antonio Cofrancesco, ha fatto visita al personale della Casa di Reclusione di Massa, dall’incontro sono emerse alcune problematiche che hanno bisogno di attenzione e che sicuramente porterà al vaglio dell’amministrazione comunale nella persona del sindaco Francesco Persiani. “Ho incontrato la Direttrice Dr.ssa Bigi e la Comandante della Polizia Penitenziaria Dr.ssa Cucca, la problematica emersa, sopra accennata, riguarderebbe la strada di via P. Pellegrini, percorsa giornalmente da centinaia di mezzi alcune volte a velocità sostenuta. Questa strada ha bisogno in entrambi i sensi di marcia di dissuasori di velocità, segnaletica verticale che indichi l’uscita dei mezzi di Polizia Penitenziaria. Va sottolineato che il pericolo reale potrebbe concretizzarsi nei giorni di colloquio, quando i famigliari dei detenuti attraversano la strada, in questo caso sarebbe opportuno indicare l’attraversamento pedonale con impianto semaforico”. C’è una forte sinergia da parte del Consigliere Comunale e Provinciale Cofrancesco ora candidato al Consiglio Regionale della Toscana, l’amministrazione comunale di Massa e i vertici dell’Istituto di Pena. Cofrancesco ha sempre sostenuto e lo ribadisce oggi, che il carcere “è un quartiere della città e va trattato in quanto tale”. In questo quartiere cittadino vivono circa 180 detenuti a cui va sommato l’intero personale di Polizia Penitenziaria, il personale sanitario, amministrativo contabile, assistenti sociali ed educatori. Cofrancesco tiene a sottolineare che la buona politica è quella che si fa in mezzo alla gente, ascoltando tutte le categorie dei lavoratori, cercando di risolvere le problematiche evidenziate, ascoltando le persone svantaggiate, proprio per questo la settimana prossima visiterà l’intero istituto di pena dove incontrerà i detenuti. Trapani. A Mazara, Salemi, Vita e Gibellina 50 borse lavoro a ex detenuti e tossicodipendenti Giornale di Sicilia, 30 agosto 2020 Al via la seconda annualità del progetto “Insieme con dignità - Supporto all’inserimento lavorativo” promosso all’interno dei comuni di Mazara, Salemi, Vita e Gibellina. Il progetto prevede l’assegnazione di 50 borse lavoro a soggetti in difficoltà, come ex detenuti e tossicodipendenti. I soggetti destinatari delle borse lavoro saranno impegnati in un’attività programmata per due semestralità: 25 in un semestre (con probabile avvio dai primi di novembre) e 25 nell’altro. Saranno impegnati 5 giorni la settimana, tre ore al giorno, e si occuperanno di manutenzione ordinaria del verde pubblico degli edifici pubblici. Napoli. Una pizza che sa di riscatto sociale di Valentino Maimone L’Osservatore Romano, 30 agosto 2020 Progetto dell’arcidiocesi di Napoli a Poggioreale. Quella che vi stiamo per raccontare è la storia di un progetto di rinascita e ricatto, in un contesto troppo spesso legato a dolorose vicende umane di costrizione, tristezza e assenza di prospettive. Anche i detenuti del carcere “Poggioreale - Giuseppe Salvia” di Napoli potranno mangiare una vera pizza napoletana, preparata all’interno del penitenziario da loro compagni di sventura aspiranti pizzaioli, che impareranno un mestiere, studieranno per ottenere il relativo diploma, e avranno un’opportunità in più, una volta tornati liberi, per reinserirsi nel mondo del, lavoro. È questa l’idea totalmente innovativa venuta in mente ad Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro dell’arcidiocesi di Napoli e da circa quindici anni volontario nelle carceri. “Tutto nasce circa cinque anni fa, in occasione di un convegno che organizzai a Poggioreale sul tema della salute dei detenuti”, racconta Mattone. “Avevo invitato l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che a margine di quell’evento mi spiegò che, grazie ai fondi del ministero, avrebbe preso in considerazione un progetto per far lavorare i detenuti. Fu a quel punto che mi si accese la lampadina: qual era il settore più logico e adatto a creare uno sbocco lavorativo nella nostra città? Quello delle pizzerie, che sono tante, lavorano molto e assicurano un buon ricambio di dipendenti”. Tutto il resto venne quasi di conseguenza. C’è voluto molto tempo, cinque anni in tutto, ma alla fine il progetto ha preso corpo fino all’inaugurazione avvenuta nelle scorse settimane. La chiave del successo è stata il coinvolgimento di quanti più soggetti istituzionali possibili: “Università, Regione Campania, le associazioni dei pizzaioli, il ministero della Giustizia, per citarne solo alcuni. Tutti insieme per cercare di dare un futuro a queste persone che hanno fatto degli errori, ma che vogliono rimettersi in gioco. Insomma, un bel progetto di riscatto e di rinascita”, sottolinea Mattone. “Gli atenei Federico II e Suor Orsola Benincasa si occuperanno delle selezioni per individuare i detenuti più adatti e motivati, quelli che davvero vogliono cambiare vita - precisa il responsabile - mentre le tre associazioni che riuniscono tutti i pizzaioli della città si preoccuperanno invece di favorire la collocazione degli aspiranti maestri della pizza presso i locali dei propri associati, una volta che saranno pronti”. Già, perché il progetto non vuole limitarsi a fornire attestati, ma punta ad accompagnare i detenuti anche lungo un percorso lavorativo. I finanziamenti arriveranno per la maggior parte dalla Cassa delle ammende, i cui fondi sono destinati a migliorie delle strutture carcerarie o a progetti per i detenuti, e per il resto da fondi della Regione. Ogni anno verranno individuati quindici detenuti, più tre cosiddette “riserve” nel caso di eventuali forfeit o liberazioni anticipate, che seguiranno un corso da 65o ore per apprendere il mestiere, ma anche imparare gli elementi di base per mettersi in proprio: “Ci piacerebbe formare non solo futuri pizzaioli in grado di lavorare nelle pizzerie di Napoli, ma anche piccoli imprenditori di sé stessi”, osserva Mattone. All’interno del carcere è stato allestito un laboratorio attrezzato con due forni a legna da cui escono ogni giorno almeno cento pizze, in due o tre varietà diverse, tra cui ovviamente l’immortale “Margherita”: “Appena sfornate, una piccola squadra di corrieri comincia a fare su e giù per i bracci in modo da esaudire le ordinazioni in pochissimi minuti, perché le pizze devono arrivare nelle celle ancora calde”, racconta. “Abbiamo fissato un prezzo molto basso, 2,5-3 euro per ciascuna, e i detenuti fino a oggi sembrano gradire moltissimo la novità, se è vero che le ordinazioni sono in continuo aumento”. Tra circa un anno potrà scattare la seconda fase del progetto: “Una seconda pizzeria, gemellata con quella di Poggioreale, ma all’esterno del carcere e quindi accessibile a tutti. Qui gli ex detenuti pizzaioli potranno effettuare il proprio tirocinio o lavorare regolarmente retribuiti, finché non saranno in grado di entrare a titolo definitivo nel mercato del lavoro. Grazie all’intervento della diocesi di Napoli, che è stata decisiva sia come spinta propulsiva sia per la tenacia con cui ci ha aiutato a risolvere i mille intoppi burocratici, abbiamo ottenuto la possibilità di utilizzare i locali di una chiesa non più adibita per il culto. Si tratta dell’ex chiesa di Santa Caterina al Pallonetto di Santa Chiara, in pieno centro storico. Ed è proprio da qui che prende il nome l’intero progetto, “Brigata Caterina”, conclude il direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro dell’arcidiocesi di Napoli. Milano. La Caritas ambrosiana per i detenuti L’Osservatore Romano, 30 agosto 2020 Contro il sovraffollamento delle carceri, divenuto ancora più drammatico con il diffondersi del coronavirus, Caritas ambrosiana e arcidiocesi di Milano hanno elaborato un progetto destinato ai detenuti nei penitenziari del territorio: la possibilità, per coloro che possono scontare gli ultimi ventiquattro mesi di detenzione all’esterno del carcere ma non hanno un domicilio, di trovare alloggio in una delle strutture individuate dall’organismo assistenziale. Il numero dei reclusi ammessi al programma, non più di venti e indicati dal magistrato di sorveglianza, vedrà un aumento di pari passo con l’individuazione di nuovi locali. “La pandemia sta facendo venire al pettine tanti nodi”, ha commentato il direttore di Caritas ambrosiana, Luciano Gualzetti. “Tra questi, quello del sovraffollamento del carcere, che a causa dell’epidemia in corso, potrebbe assumere caratteristiche tragiche. Con tale iniziativa vogliamo dare ai detenuti la possibilità di scontare la pena al di fuori dei penitenziari, misura già prevista dal nostro ordinamento, ma ancora troppo poco praticata”. Bologna. Il teatro torna nel carcere minorile di Massimo Marino Corriere di Bologna, 30 agosto 2020 Il Teatro del Pratello torna nel carcere minorile con “Le orme dei figli”, uno spettacolo già presentato in gennaio all’Arena del Sole, quasi completamente rinnovato. A inizio anno in scena c’erano ragazzi affidati ai servizi della giustizia minorile esterni al carcere, giovani attrici e una coppia di anziani che rappresentavano i padri orchi, i Chronos che divorano i figli. Gli attori si incontravano e si toccavano scivolando su un piano inclinato. Ma il contatto non è più possibile in scena ora, dopo l’emergenza sanitaria, e non è stato possibile far entrare in carcere estranei. Quindi sarà formato interamente da ragazzi reclusi il cast di questa nuova edizione, in scena nell’istituto di via del Pratello da domani al 3 settembre alle 21, con accesso al cortile dove sarà costruito lo spazio scenico da via de Marchi 5/2 (info: teatrodelpratello@gmail.com). Ci sarà solo l’apporto esterno di Maddalena Pasini, che ha condotto i laboratori in carcere e che farà da narratrice. “Persa gran parte della cornice, rimane una memoria della storia, che si appoggia sulla favola di Pollicino e dei suoi fratelli abbandonati dai genitori” spiega il regista Paolo Billi. “Abbiamo anche modificato la scenografia di Irene Ferrari e le strutture sceniche di Gazmend Llanaj, realizzate in un laboratorio con i ragazzi reclusi” continua Billi. “Non sarà più un unico piano inclinato, ma un pendio frantumato in tante sezioni che si incastrano l’una nell’altra, consentendo agli interpreti un distanziamento che eviti i contatti. L’idea che dà la scena è quella di un grande sommovimento, un caos”. Diventa ancor più importante che nella prima versione il video di Simone Tacconelli e Elide Blind, che fa risaltare immagini e voci da una foresta di foglie, da sentieri di fango segnati da orme per seguire strade, per perderle, per inventarle. Questa edizione ancora di più della prima sgretola la trama e si affida agli archetipi, alle visioni, a voci giovanissime che emergono da una scena arsa, rocciosa. Chi entrerà nel cortile del carcere vedrà una scatola magica chiusa da un tulle lattiginoso che rivelerà volti e visioni illuminato dal di dentro, in emersione e contrappunto con le immagini del video. In scena 11 ragazzi del Pratello, Adam, Anas, Andrea, Andrea, Daniel, Jonathan, Ionut, Larry, Manuel, Mehdi e Kevin. “Ci sono molti italiani e molti ragazzi di famiglia straniera nati in Italia” precisa Billi. “Alcuni di loro seguono i nostri lavori da vari anni e stanno diventando bravi. Quasi tutti parlano un ottimo italiano e hanno un livello di scolarizzazione alto. Siamo usciti da una fase in cui i ragazzi si esprimevano stentatamente e negli spettacoli a volte apparivano spersi. Ci sono giovani soggetti a detenzioni lunghe: con loro si può impostare un lavoro più costante”. Il direttore dell’istituto Alfonso Paggiarino alla presentazione dello spettacolo racconta come il teatro sia stata una delle prime attività a riprendere dopo il lockdown. All’inizio con qualche incontro da remoto, poi con i primi incontri in presenza all’aperto e in piccoli gruppi, infine con la ripresa delle attività quotidiane, seppure con varie limitazioni che hanno anche influito sulla forma finale. E rivela: “Un ragazzo si è tanto appassionato che vuole continuare il percorso nel teatro iscrivendosi al Dams”. Commenta Billi: “Sarebbe molto positivo: per la prima volta si accenderebbe un percorso universitario nel Pratello”. Quell’onda nera del negazionismo di Donatella Di Cesare La Stampa, 30 agosto 2020 Un’onda di oscura inquietudine pervade in queste ore l’Europa. La tensione aumenta, l’incertezza sembra prevalere. Le immagini che giungono da Londra, ma soprattutto da Berlino ne sono quasi l’emblema. Migliaia di manifestanti alla Porta di Brandeburgo urlano “aprite i cancelli”. Denunciano la “follia del virus”, pretendono lo stop immediato alle misure anti-Covid. E passano già alle vie di fatto: non rispettano le distanze e sono senza mascherina. Sì, perché la mascherina non sarebbe che una museruola buona solo per gli schiavi. E così i No-Mask arrivano alla dimostrazione. L’ha organizzata un ambiguo gruppo che si chiama non per caso Querdenken 711 (pensiero trasversale 711). Ma al corteo spuntano bandiere del Reich ed è ormai chiaro che i gruppi di estrema destra, radicati e agguerriti, tentano di cavalcare la protesta. È qui che occorre vedere per tempo il pericolo. La situazione sta precipitando anche da noi. Ormai si dà del “terrorista” a chi osi parlare del coronavirus con la serietà che richiede la situazione. Tutto sarebbe falso o comunque sopravvalutato. Un’emergenza inventata dai “politici”, gonfiata e ingigantita dai media. Tra spavalderia menefreghista e complottismo dell’ultima ora i negazionisti aumentano, spalleggiati da personaggi pubblici che giocano a proporsi come novelli capi-popolo dei sovranisti anti-virus. Non bastavano Salvini e poi Briatore. Adesso Vittorio Sgarbi, sindaco di Sutri nel Viterbese, ha vietato l’uso all’aperto della mascherina. “Solo ladri e terroristi si mascherano il volto”. Ordinanza sfrontata che, oltre alla sfida evidente, indica l’assoluta mancanza di rispetto verso i cittadini che ogni giorno, pur tra tante difficoltà, portano la mascherina. D’altronde Sgarbi già da tempo si presenta nei talk show che lo ospitano facendosi apertamente beffe di ogni senso civico - e questo in un momento delicato, dove ogni gesto minimo conta nella comunicazione e chi ha influenza dovrebbe dare prova di responsabilità. Non si prenda questo per l’ennesima volta come folklore. Non lo è. Piuttosto è un atteggiamento antidemocratico, che diffonde il sospetto, trasmette paura, semina rancore, propaga l’ossessione del complotto. Ecco: il coronavirus sarebbe lo strumento nelle mani di forze occulte che vorrebbero sottrarre al popolo la sua sovranità. Ma la semplificazione, le scorciatoie esplicative non favoriscono - si sa - la democrazia. I negazionisti del virus aumentano per la facile tendenza alla rimozione e per quella fraintesa libertà che non guarda in faccia a nessuno e si traduce nel “faccio quello che mi pare”. Ma non si può sottovalutare quell’individualismo italico condito spesso di gretto localismo, terreno fertile per i sovranisti nostrani. La sovranità dell’io fa tutt’uno con la sovranità territoriale, anzi regionale. La vera (nascosta) epidemia sarebbe infatti portata dagli immigrati. Sarebbe un errore sottovalutare i fiancheggiatori dei No-Mask, i capipopolo che fiutano il disagio, annusano la stanchezza. E si ripropongono di trarne tutto il vantaggio possibile. Che cosa c’è di più facile di una crociata contro la mascherina-museruola, di una guerra contro il virus sopravvalutato o addirittura inventato? Il preteso capopopolo alla Sgarbi non si limita ad articolare il malessere; fornisce già direttive. In Spagna, in Inghilterra e soprattutto in Francia i contagi aumentano e la possibilità del lockdown è alle porte. Nel nostro Paese la tensione è palpabile e cresce l’attesa per la riapertura della scuola e dell’università. Qui non si può fallire. Non sono più lecite confusioni, incertezze, indicazioni contraddittorie. È invece assolutamente indispensabile che la politica dia messaggi chiari e si rivolga direttamente ai cittadini per affrontare questa prova che ha ormai assunto un alto valore simbolico. La crisi raddoppia i nuovi poveri. Caritas: “Colpiti gli invisibili” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 30 agosto 2020 Crescono i disoccupati. Dalla Caritas aiuti a oltre 19 mila persone. Emergency: stessa paura del futuro che vediamo lontano da qui. Arca: richieste raddoppiate. Il lockdown non è praticamente mai finito per una popolazione quasi invisibile, dispersa tra quartieri della cintura periferica e condomini semicentrali, storicamente fuori degli schermi radar di qualsiasi servizio sociale. È soprattutto lì, dietro le porte chiuse di appartamenti insospettabili, che abitano alcuni tra i nuovi poveri di Milano, da quasi sei mesi precipitati in una battaglia quotidiana con i conti e con le bollette. Il “loro” mercato del lavoro è come un lago prosciugato. Perché anche nella metropoli del business, nelle acque dell’economia informale, per quanto torbide, fino all’8 marzo scorso decine di migliaia di persone hanno trovato occasioni di reddito. Poi è arrivata la paralisi totale per l’emergenza sanitaria, e col passare dei giorni, a gruppi, a fasce, a categorie, hanno iniziato a bussare alle porte della rete di solidarietà. Dalle prostitute ai parcheggiatori abusivi, dai facchini in nero alle colf, e poi camerieri e commessi dai contratti a chiamata e tante altre persone che hanno sempre lavorato, ma senza tutele. Soltanto la Caritas Ambrosiana è entrata in contatto complessivamente con più di 19 mila persone. E sulla scena milanese, oltre al Comune e al volontariato cattolico, si sono impegnati anche soggetti abituati a muoversi in ben altri contesti. Come Emergency: “Non eravamo abituati a ricevere qualcuno che aveva bisogno di una mano direttamente negli uffici dove progettiamo i nostri interventi - spiega Marco Latrecchina, responsabile del progetto “Nessuno escluso”. E nemmeno loro erano abituati a chiedere”. Lo sguardo di chi è abituato a operare in Paesi come l’Afghanistan, il Sudan o la Sierra Leone, aiuta a capire cosa sia accaduto a Milano: “È una povertà che l’aiuto tradizionale fatica a raggiungere, perché è eterogenea e spesso non possiede nemmeno i requisiti formali per accedere a misure di sostegno pubbliche. Magari il loro ultimo Isee non è così basso, perché l’anno scorso lavoravano in modo precario ma continuativo. Altri hanno diritto alla cassa integrazione ma in attesa di riceverla si sono ritrovati senza un euro. E poi ci sono le partite Iva, i giovani che lavoravano per gli eventi, per la ristorazione, i precari… Oggi molte di queste persone si sono di colpo scoperte vulnerabili e nei loro occhi vediamo lo stesso smarrimento e la stessa paura del futuro che purtroppo abbiamo visto tante altre volte lontano da qui”. Ma anche chi è impegnato da anni sul terreno milanese ricava la stessa impressione: “Registriamo un raddoppio, da mille a duemila, delle famiglie in difficoltà che si sono rivolte a noi - osserva Alberto Sinigallia, presidente di Fondazione Progetto Arca. Hanno bisogno, anche per la prima volta, di un sostegno economico per pagare l’affitto o di un sostegno alimentare perché i soldi non sono più sufficienti per fare la spesa. E dal Social market di Rozzano e dagli assistenti sociali con cui siamo in contatto le richieste di aiuto continuano ad arrivare. Alcune sono da considerare temporanee, cioè provengono da famiglie in cui gli adulti sono in cassa integrazione ma dove la speranza è di una ripresa; altre invece entreranno in povertà, in particolare a causa della perdita del lavoro”. Le nuove povertà, tuttavia, si sommano a quelle già individuate. Secondo stime elaborate un paio di anni fa dalla Fondazione Cariplo, a Milano ci sarebbero oltre 33 mila famiglie (più di oltre centomila persone) in povertà assoluta. E tra loro 21 mila bambini privi di “un’alimentazione regolare ed equilibrata, una casa adeguata e riscaldata, cure mediche e l’accesso ad attività di svago”. L’allarme del Banco Alimentare: “Sempre più persone senza cibo, l’autunno sarà critico” di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 30 agosto 2020 Donazioni record, ma non basteranno. Con la pandemia le richieste di cibo sono aumentate del 40 per cento. Risorse aggiuntive da parte del governo e della Ue. Rimangono attive le iniziative di Spesa Sospesa. Poveri e indigenti in aumento e previsioni preoccupanti per l’autunno. L’emergenza del Paese è spiegata dai numeri e dalle previsioni del Banco Alimentare, fondazione nata nel 1989 per contribuire a dare una soluzione al problema della fame nel nostro Paese. Dall’inizio della pandemia al 24 giugno 2020 il Banco Alimentare ha assistito 2,1 milioni di persone in Italia, rispetto ai 1,5 milioni prima dell’arrivo del Covid-19. Un incremento di quasi il 40 per cento. Le richieste di prodotti da parte delle strutture sono aumentate del 40% con picchi del 70% in alcune regioni del Sud. Da metà marzo è aumentato anche il numero di strutture accreditate, +320 su un totale di 7.994. Per quanto riguarda il recuperato, nei primi 6 mesi del 2020 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno sono saliti sia i quantitativi (oltre 2.700 tonnellate in più) sia il numero di donatori, con circa 500 nuove aziende in più. “Sono nuovi contatti da stabilizzare - spiega presidente della Fondazione Giovanni Bruno - ed è un lavoro che devono svolgere soprattutto i singoli banchi locali (in totale sono 21 sul territorio nazionale) perché molti sono operatori locali e i quantitativi anche se relativamente piccoli sono importantissimi per il sostegno agli indigenti”. Numeri che raccontano la realtà di un bisogno cresciuto con lo scoppio dell’emergenza sanitaria e che sono attesi in ulteriore crescita nei prossimi mesi. “Si sa che il peggio arriverà da settembre in poi - analizza Bruno - e in autunno ci aspettiamo un peggioramento della situazione dal punto di vista economico e sociale. La cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti non dureranno in eterno, tante attività e Pmi che hanno provato a riaprire probabilmente non ce la faranno e i risparmi di molte famiglie non saranno sufficienti”. Il Paese si sta preparando per fronteggiare la situazione. “Già in marzo attraverso un decreto legge - spiega Bruno - il governo ha aumentato di 50 milioni di euro il fondo destinato all’acquisto di cibo attraverso bandi per assicurare la distribuzione delle derrate alimentari”. In agosto il decreto Rilancio ha incrementato di altri 250 milioni di euro le risorse destinate alla distribuzione di alimenti agli indigenti. Anche la Commissione Ue ha deciso di dare risorse aggiuntive al Fondo di aiuti europei agli indigenti (Fead) che sostiene gli interventi promossi dai singoli Paesi. Risorse che sono già entrate nel sistema e il Banco Alimentare conferma che, per quanto riguarda gli alimenti, hanno cominciato ad affluire nei magazzini molti dei prodotti provenienti dagli stanziamenti aggiuntivi sia per il sostegno alla filiera agroalimentare sia per l’aiuto agli indigenti: sono arrivati o arriveranno nelle prossime settimane tonno, olio di semi, farina, omogeneizzati, prosciutto, succhi frutta, polpa di pomodoro, carne in scatola. Nel frattempo, rimangono attive le varie iniziative di Spesa Sospesa, molte locali e partite spontaneamente nella prima metà di marzo. “La spesa sospesa - spiegano dal banco Alimentare - può anche virtuale: anziché lasciare in cassa un chilo di zucchero, si possono lasciare due euro trasformati in gift card”. Le richieste principali restano per gli alimenti in genere più “costosi” e più difficili da recuperare, in particolare prodotti per l’infanzia, tonno, olio d’oliva, carne in scatola. Migranti. Riammessi in Italia dopo essere stati respinti in modo irregolare di Matteo Marcelli Avvenire, 30 agosto 2020 Cinque eritrei “riportati” in Libia nel 2009, oggi atterrano a Roma: una “sentenza storica” condanna il governo per il respingimento senza verifica alcuna. Una sentenza “di portata storica”, per usare le parole di Amnesty International, che oggi troverà piena applicazione con il rientro in Italia di 5 migranti respinti dalle nostre autorità nel 2009, e che potrebbe avere ripercussioni rilevanti in tema di politiche di immigrazione. Si tratta della condanna ai danni del governo italiano emessa nel novembre del 2019 dal Tribunale civile di Roma, che ha ordinato il rilascio di un visto di ingresso nel nostro Paese per accedere alla procedura di richiesta di asilo in favore di 14 profughi eritrei e ha imposto all’esecutivo di Roma il risarcimento dei danni materiali causati per quel respingimento. Una vicenda complessa, iniziata più di dieci anni fa. È il 29 giugno 2009, a palazzo Chigi c’è Berlusconi e il Viminale è in mano a Roberto Maroni. 89 persone in fuga da gravi persecuzioni e violazioni dei diritti umani partono dalle coste libiche a bordo di un’imbarcazione fatiscente con l’obiettivo di arrivare in Italia. Come da prassi tristemente consolidata, i trafficanti che hanno organizzato il viaggio abbandonano al proprio il destino il gommone carico di disperati a poche ora dalla partenza. Il motore va in avaria dopo tre giorni di navigazione e i migranti lanciano un primo Sos. A bordo la situazione è estremamente critica: l’acqua scarseggia, la fatica del viaggio si fa sentire e le condizioni igieniche e di salute sono pessime. Solo nel tardo pomeriggio del 1 luglio, arrivarono i soccorsi: prima un elicottero e poi alcune motovedette, seguite da un’imbarcazione della Marina militare italiana. Il personale della nave rassicura i profughi: presto saranno arrivati in Italia. Alle prime luci dell’alba del giorno seguente, però, qualcuno si accorge che l’imbarcazione sta per raggiungere nuovamente le coste della Libia. Senza che a nessuno sia stato consegnato un provvedimento di respingimento né consentito di esprimere o lasciare una traccia legale della propria volontà di richiedere asilo in Italia, le 89 persone vengono ammanettate e riconsegnate alle autorità di Tripoli, anche mediante l’uso della forza. Particolare non di poco conto: a bordo delle motovedette libiche è presente anche personale della Guardia di finanza italiana. Alcune delle persone, a causa della violenza subita, hanno bisogno di cure mediche e vengono portate in ospedale, tutte le altre tornano nei “lager”, nei centri di detenzione per gli immigrati irregolari. Dopo mesi di prigionia, alcune delle 89 persone ritentano la traversata in mare. Qualcuno riesce ad arrivare in Italia, qualcun altro muore durante il viaggio o in naufragi successivi. Sedici di loro, tutti cittadini eritrei, decidono invece di raggiungere l’Europa via terra. Dopo aver attraversato l’Egitto e il deserto del Sinai, arrivano in Israele. Per anni rimangono bloccati nello Stato ebraico e viene negato loro il diritto a richiedere asilo. Passa ancora molto tempo prima che Asgi (l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e Amnesty International riescono a rintracciarli e a promuovere un’azione legale presso il Tribunale civile di Roma nei confronti della presidenza del Consiglio e dei ministeri degli Affari esteri, della Difesa e dell’Interno. Qusta domenica, finalmente, le prime 5 persone del gruppo faranno ingresso in Italia e saranno accolti dai rappresentanti di Asgi e Amnesty International. Rimangono ancora bloccati sul territorio israeliano 3 dei respinti, che nel frattempo si sono costruiti una famiglia e hanno fatto richiesta di poter entrare in Italia con moglie e figli minori a causa della situazione di pericolo in cui si trovano. Al momento sono in attesa della decisione dell’autorità consolare. Intanto continuano ad essere assistiti da Amnesty International e dall’organizzazione non governativa israeliana Assaf (Aid Organization for Refugees and Asylum Seekers) che ha fornito sostegno materiale. “La portata storica della sentenza è evidente - commenta con Avvenire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - il dispositivo stabilisce che hanno titolo a chiedere asilo anche persone che non sono sul territorio italiano. Ciò comporta un’enorme espansione nel campo di applicazione della protezione internazionale”. Le autorità italiane, insomma, hanno commesso un fatto illecito e “se questo è vero, sulla base della sentenza, in teoria, tutti coloro che sono stati vittime di respingimenti devono poter usufruire di queste disposizioni”. Non è ancora chiaro il destino degli altri nove ricorrenti, perché le singole situazioni vanno ancora valutate. Certamente, mentre Asgi offrirà il supporto legale necessario, Amnesty International Italia continuerà a dare il proprio contributo, fornendo materiale e continuando le ricerche. Migranti. L’odissea di Hachim Hikim nelle strutture detentive di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 agosto 2020 Cpr. Il 34enne marocchino rimarrà a Ponte Galeria probabilmente fino al 9 settembre, nonostante il 12 agosto la procura di Piacenza gli ha rilasciato un nulla osta per motivi di giustizia relativo alla vicenda della caserma Levante. Il 12 agosto la procura di Piacenza gli ha rilasciato un nulla osta per motivi di giustizia, ma fino al 9 settembre probabilmente rimarrà nel Cpr di Ponte Galeria (Roma). L’odissea di Hachim Hikim sembra senza epilogo. Il 34enne marocchino era finito in carcere a Piacenza nell’autunno scorso, condannato per spaccio. Ad arrestarlo i carabinieri della caserma Levante, finiti a loro volta in carcere il 22 luglio con accuse gravissime. Esploso il caso e riconosciuto in tv l’appuntato Montella, presunto capo del sodalizio criminale, Hikim ha deciso di raccontare la sua versione: l’imputazione contro di lui era state una ritorsione dopo il rifiuto a vendere droga per conto dei militari. Nel frattempo, scontata la condanna, l’uomo era stato portato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, perché senza documenti. L’11 agosto è stato trasferito a Ponte Galeria. Rischiava il rimpatrio, ma il giorno seguente la procura di Piacenza ha comunicato all’avv. Barbara Citterio, che lo difende, di aver disposto il nulla osta: Hikim deve rimanere in Italia perché persona informata sui fatti (nonché presumibilmente offesa). Il 17 la legale ha presentato una richiesta di riesame al giudice di pace. Ancora nessuna risposta. Per il rilascio l’uomo dovrà attendere verosimilmente il 9 settembre, giorno delle udienze di convalida. “In carcere ci sono più garanzie e un soggetto viene liberato quando finisce la pena”, afferma Citterio. “Sparizioni forzate”: i Paesi nella lista nera di Silvia Camisasca Avvenire, 30 agosto 2020 Il mondo fa i conti con gli scomparsi in Siria, Iraq, Messico, Egitto, Bosnia. Iniziavano con un arresto, nel buio della notte o in pieno giorno, da parte di forze di sicurezza o corpi che agivano per conto dello Stato”: Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, descrive la prassi con cui nel Cile di Pinochet, come nell’Argentina di Videla, oppositori, reali e presunti, venivano ridotti al silenzio. Ben presto, però, i generali al potere a Buenos Aires decisero di cambiare strategia. Compresero che i prigionieri non dovevano essere esibiti per non suscitare scomode critiche nell’opinione pubblica internazionale. Dovevano, al contrario, “sparire”, ingoiati nel buco nero della repressione. Fu così che negli anni 70 il mondo conobbe il termine, ma non la sorte, dei “desaparecidos”: reportage e biografie documentarono torture e stupri di centinaia di migliaia di persone, grazie alle denunce delle organizzazioni per i diritti umani e alle testimonianze dei parenti in esilio nacquero movimenti di protesta che, a loro volta, sensibilizzarono e mobilitarono l’opinione pubblica. Poi, con il ripristino di una certa stabilità democratica, la questione desaparecidos è stata archiviata tra le pagine di storia. “È calato il silenzio sul capitolo delle sparizioni forzate, come se il fenomeno si fosse concluso con la fine dei regimi sanguinari dell’America del Sud - commenta ancora Noury - ma la sua adozione, per silenziare le voci critiche e incutere paura alla popolazione, prosegue incontrastata in tante regioni del pianeta: anzi oggi il termine “desaparecidos” non è associato solo a realtà ispanofone, ma indica una violazione dei diritti umani globalmente praticata e, purtroppo, terribilmente efficace”. Così efficace che le Nazioni Unite nel 2010 hanno scelto di dichiarare il 30 agosto Giornata internazionale per le vittime delle sparizioni forzate. Un crimine a cui si accompagna la violazione di una serie di altri diritti internazionalmente riconosciuti e per il quale è impossibile avere giustizia: le infinite ed estenuanti ricerche si svolgono in un clima ostile e intimidatorio per le famiglie e le organizzazioni di supporto, contrastate da una narrativa ufficiale tesa a screditare ogni denuncia. “Pochissimi sono stati i casi risolti di decine di migliaia del conflitto tra l’esercito dello Sri Lanka e le Tigri tamil, terminato nel 2009, e della campagna di contro-insurrezione del biennio 1989-90 - prosegue Noury - mentre in Iran le autorità continuano, dopo 32 anni dal “massacro delle prigioni”, a tacere sulla sorte di migliaia di dissidenti politici e a negare l’esistenza di già identificate fosse comuni”. Circa tremila persone mancano all’appello in Bosnia Erzegovina, presumibilmente assassinate nel genocidio del luglio 1995 a Srebrenica. In Iraq oltre 16mila. Altri 85.000 oppositori politici, attivisti, operatori di pace e dell’informazione, semplici cittadini, insegnanti, medici sono stati inghiottiti dal nulla nei nove anni di guerra in Siria: tra loro anche padre Paolo Dar Oglio. I desaparecidos, tuttavia, non riguardano solo i Paesi in guerra: come dimostra il Messico con oltre 73.000 scomparsi dal 2007. Un fenomeno conosciuto dal mondo solo 6 anni fa per la sparizione nello Stato di Guerrero di 43 studenti diretti ad una manifestazione: solo di uno di loro furono ritrovati i resti in un sacco della spazzatura. Mentre in Egitto si contano due o tre sparizioni al giorno. Cambia la geografia, il contesto, gli attori. Non la raccapricciante messa in scena. Libia alla fame. Il popolo urla la sua rabbia di Domenico Quirico La Stampa, 30 agosto 2020 Le manifestazioni in Tripolitania represse nel sangue dagli uomini del presidente Al Sarraj. Dietro ai giochi di potere di Russia, Egitto e Turchia, la disperazione dei cittadini abbandonati. Ci siamo preoccupati dei migranti in transito, delle loro moleste sollecitudini. Ci siamo preoccupati del petrolio, degli oleodotti, dei jihadisti di Sirte, dei conti dell’Eni, dei turchi impiccioni e imperialisti, degli egiziani arroganti, dei mercenari di Putin troppo presenti e degli americani troppo assenti, degli equilibri geopolitici e delle medagliette postcoloniali di Caneva, Graziani e del quadrunviro, “la quarta sponda è nostra, francesi giù le mani…”, eccetera eccetera. E i libici? Quando mai ci siamo preoccupati dei libici nella nostra taccagna realpolitik occidentale? Di cosa pensano, cosa vogliono, cosa sognano... i libici che prendono fiato appena quel che basta per restar vivi. La rivoluzione opaca - Dieci anni dopo la opaca rivoluzione tutte le piazze della Tripolitania si riempiono da giorni di gente furibonda, esausta, i libici appunto, che protestano chiedono invocano maledicono, bruciano copertoni e sfasciano qualche auto. Li prendono a fucilate, con metodo, i miliziani, il torpidume di Al Sarraj, il nostro uomo laggiù. Nella zona di Al Asaba testimoni raccontano di case saccheggiate e civili uccisi. Eppure sono loro che dovrebbero appassionarci, non i parolai della guerra: l’elemento umano, la resistenza dell’indifeso uomo comune contro i corrotti, i fanatici, gli assassini. Non ci bastano i loro slogan, che sono puro linguaggio rivoluzionario: “Stiamo morendo senza luce acqua cibo”, “no ad Haftar no a Sarraj”, “basta guerra, via i mercenari siriani e turchi dalla Libia”. Disperazione e ragione - In qualche città i manifestanti hanno sventolato perfino le bandiere verdi del Colonnello e invocato come soluzione uno degli inutili, torbidi figli del Raiss. La disperazione con le sue ruvide suole calpesta davvero ogni ragione. Stupore sconcerto silenzio da questa parte del mare. Questi chi sono? Si chiedono le cancellerie abituate ai volti di Haftar e di Al Sarraj, sbiadite comparse, ai ghirigori di Putin, di Al Sisi, di Erdogan, i burattinai. Il mimetismo di un cessate il fuoco a cui nessuno crede pieno come è di opportuni distinguo, di punti interrogativi, di fughe in avanti seminate apposta come tagliole (il voto il prossimo anno!) ci basta. Mentre è solo la guerra che ha raggiunto il suo limite critico e deve essere riprogrammata per riprendere e continuare. Gli uomini della guerra - Sono già pronti gli uomini che la guideranno. Eppure i nostri libici dovrebbero essere proprio loro, i manifestanti. Non sappiamo da dieci anni capire andando oltre le rughe superficiali. Pagliacci e complici: ecco a cosa son ridotte le arti della occidentale diplomazia, di quando in quando li preghiamo di portare pazienza, preso vi salveremo. Intanto pompate petrolio e non lasciatevi sfuggire i migranti. Dopo il Colonnello - C’è una storia? Sì c’è, inizia proprio nove anni fa, è eliminato il tiranno ma la democrazia fa l’asilo. Il 7 luglio 2012 i libici corrono ai seggi, per la prima volta. Non sanno che si è deposto il potente per ereditarne il potere. Che si consegnano a gente che fiuta il denaro. Che le milizie sono il veleno che nessuno ha eliminato. Questo è un paese di corrosioni, niente di unanime, si reagisce a spugna assorbendo tutto, un posto approssimativo per ogni cosa, ogni cosa si presenta con gli spigoli lacerati. Non posso scordare quello che ho visto nove anni fa, la fatica la dedizione il coraggio il sudore. Materiale eccellente per una occasione sciupata. Dei libici volevano uccidermi, dei libici mi hanno salvato. Equazione perfetta, tutto era possibile. Domanda: chi ha stuprato la grande avventura della solidarietà e della ricostruzione? C’è chi si è dato al sacco? Intanto la Libia mese dopo mese anno dopo anno assomigliava sempre di più al caos primigenio, quello delle nebbie della fabbricazione; solo che ne segue non il principio del principio ma il principio della fine. I numeri di telefono di loschi criminali e capobanda sono finiti sulle riverite agende di ministri e ambasciatori occidentali come interlocutori. Il disordine vissuto dai libici invece assomigliava sempre più a quello che conclude le malattie gravi, già prima della morte, quando l’unità della carne si dissipa e scompare. L’odissea infinita - Ogni notte (c’è connessione a Internet) nel racconto di amici la odissea dei libici aggiungeva nuovi capitoli, altre stazioni: “Oggi solo un’ora di corrente elettrica, manca l’acqua... riso pasta latte le bombole del gas per i generatori… tutto sta aumentando… funziona solo il mercato nero tutto si paga in dollari e dobbiamo fare file di ore per tentare invano di ritirare il denaro in banca”. I libici: seduti su un mare di petrolio e alla ricerca di una latta di benzina diventata introvabile... contrappasso? Beffa della Storia? Punizione? In una manifestazione a Tripoli, nella piazza dove Gheddafi arringava dal balcone promettendo la terza via verso il paradiso, sfila una donna anziana, piccola, vestita di nero, che sembra uscita da un romanzo di Deledda. Cammina compunta in mezzo a ragazzi scatenati e scandisce con calma, metodicamente una frase, sempre la stessa: “Noi moriamo di fame e voi pagate con i dollari del petrolio i mercenari siriani”. I padroni di Tripoli - Già i siriani e i turchi. I veri padroni di Tripoli. Il grande azzardo di Al Sarraj assediato dal suo rivale, rivolgersi al sultano di Istanbul. Era lì che cercavano aiuto, un tempo, i notabili delle grandi famiglie tripoline per i loro tortuosi maneggi. Le fotografie dei mercenari, lanzichenecchi siriani arruolati tra le bande dei jihadisti che la Turchia ha assunto ad Idlib, che sventolano mazzi di denaro ricevuto come paga dal governo libico ha umiliato i libici. Che ora si chiedono: se arriverà la pace chi avrà la forza di mandarli via? Continueranno a imporre la loro “sicurezza” o passeranno sotto le bandiere degli apostoli del Califfato della Sirte? Il pericolo della solitudine - Perché non abbiamo imparato dai nostri errori, qui ma anche in Niger o in Somalia o in Siria: aiutare la gente che ha imparato a vivere sulle rive della disgrazia? Non è misericordia, è efficace scelta politica: è sul terreno morale che si avvertono le differenze di posizione, nello schierarsi non a parole con chi ha la sofferenza in sé. Perché è cammino odioso, pericolosissimo quello della solitudine. I popoli come quello libico attorno a cui per anni la disgrazia la corruzione la guerra fluiscono, proliferano, trasbordano sono naufraghi abbandonati su uno scoglio. Pensavamo di aver scoperto la pietra filosofale per fermare i migranti, convulsa ossessione, affidarli alle milizie libiche, gli scafisti assicurando un guadagno maggiore. E adesso sulle barche salgono proprio i libici, disperati come le loro vittime, e sbarcano sempre più numerosi in Sicilia e in Calabria. A Tripoli gira la propaganda di un numero di telefono: si chiama e si affitta un passaggio. Turchia. Non si spengono rabbia e dolore per la morte di Ebru Timtik di Michele Giorgio Il Manifesto, 30 agosto 2020 Piovono le condanne, anche dall’Italia, contro il regime di Erdogan per l’avvocata dei diritti umani deceduta dopo 238 giorni di sciopero della fame in carcere. E ora si teme per la vita del suo collega Aytac Unsal. Sono come un fiume in piena le reazioni di cordoglio e di condanna della Turchia per la morte dell’avvocata dei diritti umani Ebru Timtik che si è spenta giovedì dopo aver fatto un lungo digiuno di protesta perché condannata al carcere solo per aver esercitato la sua professione. Timtik aveva difeso negli ultimi anni più di un oppositore del regime e agli occhi dei servizi segreti aveva la “colpa” di mantenere legami con associazioni e organizzazioni di sinistra. Arrestata nel settembre 2018, era stata condannata a 13 anni e 6 mesi di prigione. A febbraio aveva iniziato lo sciopero della fame che l’ha uccisa dopo 238 giorni. Tanti in Europa puntano il dito contro il regime di Erdogan mentre in Turchia amici, parenti e compagni di Timtik devono fare i conti con le intimidazioni e gli avvertimenti della polizia che già venerdì aveva attaccato con spray al peperoncino e gas lacrimogeni il corteo funebre. Si teme intanto per la vita di un altro avvocato, Aytac Unsal, che, come Ebru Timtik, fa lo sciopero della fame in carcere da oltre 200 giorni. L’Unione europea, ha fatto sapere ieri il portavoce della Commissione per gli affari esteri Peter Stano, segue la vicenda. “Timtik ha fatto lo sciopero della fame per avere un processo giusto”, ha sottolineato Stano “e questo esito tragico illustra dolorosamente la necessità urgente che le autorità turche affrontino in modo credibile la situazione nel Paese per quanto riguarda i diritti umani e le serie carenze osservate nel sistema giudiziario”. In Italia tante le prese di posizione. Significativa quella dell’Associazione nazionale giuristi democratici che “si impegnano a continuare la lotta per il diritto alla difesa, per un giusto processo e contro la tortura dei detenuti politici per la quale la collega (Timtik) ha dato la vita, e condannano le dichiarazioni del ministro dell’interno turco che su Twitter ha criticato l’Ordine degli avvocati di Istanbul per aver esposto l’immagine di Ebru”. I giuristi democratici chiedono l’immediata liberazione di Aytac Unsal e di tutti gli avvocati ingiustamente detenuti in Turchia. Turchia. Morta per il digiuno, parlano gli amici: “Lotteremo fino alla fine. Come lei” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 agosto 2020 “Non siamo riusciti a far vivere Ebru, ora speriamo di salvare Aytaç ma il tempo sta scadendo”. Çigdem Akbulut ha 33 anni e un peso enorme sulle spalle. È lei l’avvocata di Ebru Timtik, la collega, condannata nel 2018 a 13 anni di reclusione per appartenenza a un’organizzazione criminale, morta giovedì scorso dopo uno sciopero della fame durato 238 giorni. “Le abbiamo tentate tutte. Ma quello che è accaduto non ha nulla a che fare con la giustizia, è stata una decisione politica”. Akbulut fa parte dello studio legale del popolo (Haikin Hukuk Burosu) come Didem Baydar Ünsal, la moglie di Aytaç Ünsal, l’altro avvocato compagno di digiuno di Timtik, che ora giace nell’ospedale Kanuni Sultan Süleyman di Istanbul in condizioni disperate. Non mangia dal 2 febbraio. “Mi ha detto: “Questo potrebbe essere il nostro ultimo incontro”. Sta perdendo peso molto rapidamente e non è seguito adeguatamente” dice con un filo di voce Didem, 32 anni, dopo aver incontrato il marito. “Non riesco a parlare, le parole mi si fermano in gola. Mia “sorella” Ebru è morta. Ma devo essere forte. Se cedo io perderanno tutti”. I due si sono incontrati all’università e si sono sposati sei anni fa, “ma lui è in prigione da tre! - esclama lei - La lotta per i diritti e per la libertà è parte del nostro matrimonio”. A differenza di quel che si potrebbe pensare Aytaç, 32 anni, non vuole che la moglie sia al suo fianco nella stanza d’ospedale dove sta perdendo le forze: “Quando ha saputo che Ebru era morta si è infuriato. Ha detto che ora è ancora più convinto di quello che sta facendo. E vuole che io corra fuori e porti avanti la nostra battaglia. Ma io temo che muoia, il mio cuore non regge. Vorrei essere degna di loro, mi sento egoista”. Una cosa è certa. Il decesso di Timtik poteva essere evitasa to. “Le autorità turche - dice Akbulut - volevano la morte della mia assistita e stanno aspettando quella del mio collega visto che hanno ignorato il rapporto dell’Istituto di medicina legale che, lo scorso 29 luglio, aveva stabilito l’incompatibilità con la prigione. Invece di rilasciarli il 30 luglio il tribunale li ha trasferiti in un ospedale che era ed è molto peggio della prigione. Non ci è stato permesso di far seguire i miei assistiti da medici indipendenti. Così le condizioni di Ebru sono precipitate: era in una stanza gelida a caudell’aria condizionata, con la luce sempre accesa, senza la possibilità di aprire una finestra. Non le davano zucchero e l’acqua era razionata. In questo modo è morta molto prima che se fosse rimasta in cella”. Aytaç, Didem, Çigdem, Ebru fanno parte dell’Associazione contemporanea degli avvocati, un gruppo specializzato nella difesa di casi politicamente delicati. Cause perse, direbbe qualcuno: operai e minatori, contadini e donne vittime di violenza, manifestanti arrestati ingiustamente, come quelli di Gezi Park, vittime di tortura nelle carceri e nelle stazioni di polizia, imputati per reati di opinione, lavoratori e militanti politici. Alla fine sotto processo ci sono finiti loro, gli avvocati: in diciotto sono stati condannati a un totale di 159 anni, 1 mese e 30 giorni di reclusione per “appartenenza a un’organizzazione terroristica”. “È incredibile a dirsi - dice Akbulut, la voce indignata - ma tra le prove d’accusa c’è il fatto che gli avvocati abbiano parlato con i loro clienti, gli abbiano ricordato che avevano il diritto a non parlare. Quello che prevede il nostro lavoro! I testimoni, poi, erano tutti anonimi e già in carcere, quindi ricattabili. Le loro dichiarazioni non erano supportate da alcuna prova. In più, quando lo abbiamo fatto notare, ci hanno cacciato dall’aula. E poi è stato clamoroso il cambio dei giudici che, in una prima udienza, avevano decretato il rilascio. Basta questo a dimostrare che non è stato un processo equo”. Il “digiuno fino alla morte” è una forma di protesta estrema. Ad iniziarlo erano stati in otto ma sei lo hanno interrotto in primavera per motivi di salute. È veramente l’unico modo? “Sì. Ebru e Aytaç non hanno chiesto un processo equo solo per loro ma per tutti - spiega Didem -. Purtroppo non sono l’eccezione ma la regola. Persino il presidente della Corte Costituzionale dice che il 52,9 per cento delle sentenze in Turchia si basa su procedimenti ingiusti. Per questo continueremo a lottare. Ebru si aspetta questo da noi”. Può servire a qualcosa la pressione internazionale sul governo turco? L’Unione Europea ha invitato Ankara ad intervenire sulle gravi carenze del sistema giudiziario: “Purtroppo nulla viene preso in considerazione. L’unica cosa che conta per i tribunali è seguire i voleri del partito politico che è al potere. Il fatto che degli avvocati digiunino fino alla morte rivela il punto in cui l’illegalità è arrivata in questo Paese”. Austria. “Ripensare il sistema carcerario”. la Chiesa denuncia il duro trattamento dei reclusi L’Osservatore Romano, 30 agosto 2020 La Chiesa austriaca ha denunciato il trattamento “spietato” dei detenuti permesso dal mondo politico e mediatico nel paese, ritenendo invece che si dovrebbe privilegiare un “approccio più umano”. Incoraggiando “punizioni più dure”, ha accusato il vescovo ausiliare di Vienna, monsignor Franz Scharl, responsabile della pastorale penitenziaria dell’arcidiocesi, in un’intervista all’agenzia di stampa “Kathpress”, si rende sempre più difficile la riabilitazione dei criminali. Oggi, ha affermato il presule, che partecipava a un webinar organizzato dalla Coalition of faith based organizations - un’associazione di rappresentanti religiosi, accademici e professionisti nel campo della giustizia penale fondata dalle Nazioni Unite a Vienna nel 2019 - le prigioni sono spesso “fabbriche di criminalità” che non preparano i detenuti a reintegrarsi nella società dopo il loro rilascio e a non ricadere più in una spirale negativa. Per il vescovo, bisogna invece “preferire la grazia alla severità e la prevenzione alla reclusione”, promuovendo per esempio un uso più frequente della cavigliera elettronica. “Piuttosto che un “ricovero” delle persone in carcere”, ritiene monsignor Scharl, si potrebbe indirizzarle verso lo svolgimento, sotto controllo, di un’attività lavorativa, il che eviterebbe un’umiliazione. Mediante le cappellanie carcerarie, le comunità religiose in Austria, tra le quali la Chiesa cattolica, sono testimoni di queste tragedie umane causate dal sistema attuale e negli ultimi anni il loro lavoro è diventato sempre più difficile, ha aggiunto il vescovo ausiliare di Vienna, ritenendo necessario un processo di ripensamento all’interno della Chiesa su questo tema: “Siamo ancora troppo egocentrici nei confronti dei gruppi sociali emarginati e dobbiamo diventare più pratici per difenderli in modo credibile. La cooperazione e il buon esempio sono più importanti dei grandi discorsi”. Durante il webinar è intervenuto anche don Brian Gowans, presidente dell’International commission of catholic prison pastoral care (Iccppc), che ha ricordato il sostegno di Papa Francesco agli sforzi di reintegrazione dei prigionieri, citando in particolare le parole rivolte dal Pontefice 1’8 novembre 2019 ai partecipanti all’Incontro internazionale per i responsabili regionali e nazionali della pastorale penitenziaria, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale sul tema “Lo sviluppo umano integrale e la pastorale penitenziaria cattolica”. In quell’occasione, ha ricordato il sacerdote scozzese, il Papa aveva ribadito che spesso i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere processi di reinserimento, in parte perché mancano di risorse sufficienti per affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari vissuti dai detenuti. Anche monsignor Franz Scharl ha citato le parole del Pontefice nella sua intervista a “Kathpress”. Impedendo alle persone di riacquistare il pieno esercizio della loro dignità, ha affermato Francesco l’8 novembre dell’anno scorso, appena scarcerate “sono nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, tra violenza e insicurezza”. All’incontro online hanno partecipato esperti di tutto il mondo e di ogni religione, tra i quali gli avvocati penalisti Karin Bruckmiiller, dall’Austria, e Yitzhak Ben Yair, da Israele, l’imam Sheikh Mohammad Ismail, dalla Gran Bretagna, e suor Alison McCrary, avvocato statunitense. L’evento si sarebbe dovuto svolgere a Kyoto in primavera ma le esigenze sanitarie dovute alla pandemia di coronavirus hanno costretto a rimandarlo e a ricorrere alla modalità webinar. Bielorussia. Il bavaglio di Lukashenko alla stampa straniera di Giuseppe Agliastro La Stampa, 30 agosto 2020 Il presidente ha tolto gli accrediti ai reporter che lavorano per testate estere. Diversi giornalisti sono finiti in carcere e alcuni hanno raccontato i trattamenti disumani riservati ai manifestanti. Aleksandr Lukashenko non vuole giornalisti scomodi fra i piedi. Le proteste in Bielorussia stanno mettendo a dura prova il suo regime e lui vuole che la gente ascolti solo la versione falsata che ne danno i media fedeli al governo. Per raggiungere il suo scopo, l’”ultimo dittatore d’Europa” ha preso ad annullare gli accrediti dei reporter che lavorano per testate straniere: giornalisti della Bbc, della Deutsche Welle, delle agenzie di stampa Reuters, France-Presse e Associated Press, di Radio Liberty e della tv tedesca Ard sono stati privati del diritto a informare, e i cittadini bielorussi del diritto a essere informati. Alcuni di questi reporter lavoravano infatti in lingua russa e si rivolgevano quindi anche al pubblico bielorusso. Ma Lukashenko non vuole testimoni: per restare al potere ha deciso di dipingere come pericolosi estremisti le persone che a decine di migliaia protestano contro il suo “trionfo bulgaro” alle presidenziali del 9 agosto e non vuole essere contraddetto. Il regime ha già usato il pugno duro contro i manifestanti pacifici. La polizia ha spesso represso i cortei a colpi di manganello e ha arrestato migliaia di dimostranti. I feriti negli scontri sono stati centinaia e almeno tre persone sono morte. In queste settimane, diversi giornalisti sono finiti in carcere e alcuni hanno raccontato i trattamenti disumani riservati ai manifestanti dietro le sbarre. Ora pare che Lukashenko stia preparando un secondo giro di vite contro la stampa. Negli ultimi giorni, decine di cronisti sono stati infatti fermati dalla polizia e tre reporter della tv tedesca Ard hanno trascorso una notte al fresco prima di essere rilasciati. Sotto la spada di Damocle ci sono ovviamente anche le testate bielorusse non allineate. Il co-fondatore dei giornali online Kyky.org e The Village Belarus, Aleksandr Vasilievich, è stato arrestato e non si sa quando tornerà in libertà. Secondo l’associazione bielorussa dei giornalisti, inoltre, quattro reporter che si erano rifiutati di cancellare dai loro cellulari alcuni materiali raccolti sono stati portati in un penitenziario e accusati di aver partecipato a una manifestazione non autorizzata. Non è chiaro quanti siano esattamente i giornalisti privati dell’accredito. La Bbc riferisce di “almeno dieci cronisti locali e diversi russi” che lavorano per testate internazionali. “È un altro segnale che questo regime è assolutamente privo di principi morali”, ha commentato Svetlana Tikhanovskaya, la leader dell’opposizione che tanti ritengono la vera vincitrice delle presidenziali e che è stata costretta a emigrare in Lituania dopo il voto. La nuova stangata di Lukashenko contro la libertà di stampa è stata criticata anche dall’ambasciata americana in Bielorussia e da Paolo Gentiloni: “Quando un governo manda via i giornalisti stranieri c’è da preoccuparsi”, ha scritto su Twitter il commissario Ue all’Economia. Nessuna condanna è arrivata invece dalla Russia, che nel timore che Minsk possa uscire dalla sua sfera di influenza si è al momento schierata dalla parte del suo vecchio alleato Lukashenko minacciando addirittura di intervenire con la forza “se necessario”. Putin è stato tra i primi a congratularsi con Lukashenko per la controversa rielezione e oggi ha ribadito che il Cremlino considera “valide” le tanto contestate presidenziali di tre settimane fa. Lukashenko è al potere da 26 anni. Putin da 20, e secondo alcuni osservatori teme come non mai che in Russia si verifichino proteste di massa come quelle di Minsk. Tra emergenza coronavirus e problemi economici, il leader del Cremlino ha toccato il suo minimo storico di popolarità, 60%. Non è un dato bassissimo, ma è ben lontano dal 90% sfiorato sei anni fa, dopo l’annessione della Crimea. Il momento è delicato, al punto che c’è chi sospetta che il presunto avvelenamento di Aleksey Navalny, il trascinatore delle più importanti proteste anti-Putin degli ultimi anni, non sia avvenuto adesso per caso. A settembre si svolgono le elezioni locali in diverse regioni del Paese e ora in Russia le manifestazioni antigovernative non sono più circoscritte a Mosca e San Pietroburgo. Da oltre un mese e mezzo a Khabarovsk, nell’estremo oriente russo, migliaia di persone scendono in strada scandendo slogan contro Putin per contestare l’arresto di Sergey Furgal: l’ormai ex governatore regionale accusato di aver ordinato l’omicidio di alcuni imprenditori 15 anni fa, ma secondo i suoi sostenitori vittima di un complotto politico. A Khabarovsk però adesso si protesta anche contro il sospetto avvelenamento di Navalny, forse avvenuto con una tazza di tè che il dissidente ha bevuto in un aeroporto siberiano. “Putin, beviti un tè”, urlavano ieri i manifestanti in coro. Non un bel segnale per il presidente russo.