Funzione rieducativa della pena, “maggiore riconoscimento del ruolo degli educatori” di Dianele Iacopini di redattoresociale.it, 2 agosto 2020 Sergio Santoro (Associazione nazionale funzionari del trattamento): “La nostra figura è sempre più marginalizzata. Chiediamo un incontro al ministro Bonafede”. “Da diversi anni si assiste ad un processo di marginalizzazione dei funzionari dell’area educativa - esecuzione penale per adulti - nei processi gestionali degli Istituti penitenziari, nonostante la previsione di centralità del ruolo di questo funzionario disegnata dal quadro normativo e dalle circolari sulle aree educative al fine dare applicazione al principio costituzionale dell’art. 27 della Carta Fondamentale dello Stato”. A dirlo è l’Associazione nazionale Funzionari del trattamento (Anft) che sul tema ha chiesto un incontro al ministro Alfonso Bonafede. “Evidentemente la politica dimostra - scrive nella nota il presidente dell’Anft, Stefano Graffagnino - da diversi anni, di aver dato ragione a coloro che hanno parlato di ‘crollo del mito della risocializzazionè e dimostra di avere caricato di eccessivo significato dati afferenti alla recidiva dei condannati rappresentati con pretesa di scientificità”. “L’effettività della funzione rieducativa della pena in carcere passa necessariamente dalla funzionalità dell’assetto organizzativo del personale che attende alle attività di osservazione e trattamento dei condannati, nonché dall’impiego di adeguate risorse per dare piena attuazione all’ordinamento penitenziario - continua la nota -, anche con riferimento a quegli organi e quelle attività che concernono i condannati che si approssimano alla dimissione dall’istituto”. “Purtroppo c’è ormai da alcuni anni un processo di marginalizzazione della nostra figura - aggiunge Sergio Santoro, dell’associazione Funzionari del trattamento - che, invece, nell’interesse soprattutto di chi è recluso in carcere, andrebbe valorizzata e non certo sminuita. La nostra è una delicata funzione di equilibrio con riferimento a tutti gli interessi coinvolti nell’esecuzione penale, nel senso che, dopo avere rilevato le carenze personologiche dei reclusi, ne osserviamo pure i punti di forza per potere avviare le attività trattamentali più idonee per colmare le lacune; valorizzando i punti di forza, l’obiettivo è quello di restituire alla società libera delle persone maggiormente capaci di rispettare il patto sociale. Dobbiamo essere messi però nella condizione di potere fare in maniera qualitativamente alta e proficua il nostro lavoro. La partecipazione alle attività di osservazione e di trattamento del detenuto è prevista anche per il personale di polizia penitenziaria con cui va instaurata una relazione funzionale all’approntamento di azioni sinergiche; tale personale è quello che con costanza osserva il comportamento dei reclusi e le dinamiche relazionali tra gli stessi e, quindi, conosce da vicino le persone detenute. Fondamentale quindi è la circolarità di informazioni tra noi e la polizia penitenziaria al fine di approntare un efficace programma di recupero”. “Negli ultimi anni la valorizzazione degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ed in particolare dei Funzionari di tale Corpo, non accompagnandosi ad una parallela valorizzazione della figura del Funzionario dell’Area Educativa - continua Sergio Santoro - ha cambiato notevolmente l’equilibrio dell’assetto organizzativo del personale che cura le attività di osservazione e trattamento dei condannati. Occorrerebbe trovare, invece, le strade per favorire con il corpo della polizia penitenziaria quel comune senso di comune appartenenza e di impegno comune per perseguire efficacemente la risocializzazione dei condannati. Pochi anni fa sono state ridotte pure le piante organiche. Abbiamo chiesto come associazione un incontro con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede da cui attendiamo le prime risposte”. “Fin quando gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria e i funzionari di area educativa non maturano un senso di comune appartenenza, essenziale per il perseguimento della mission del recupero sociale del reo e verso il quale dovrebbe concorrere l’impegno sinergico di tali operatori - continua Stefano Graffagnino nella nota -, si assisterà ad una miope contrapposizione tra istanze di sicurezza e istanze di risocializzazione il cui esito discenderà dal potere contrattuale degli attori istituzionali in campo (...). Ma dove stiamo andando? La mission del reinserimento sociale del reo ha perso la primazia nell’esecuzione penale intramuraria? La sicurezza negli Istituti Penitenziari, da condizione per la realizzazione della finalità del reinserimento sociale del reo (art. 3 D.p.r. 230/2000) deve in modo surrettizio e contra costitutionem, assurgere a finalità esclusiva dell’esecuzione della pena?”. L’associazione nazionale ha presentato una proposta di legge, depositata in Senato in data 04.03.2020 in cui è tecnicamente argomentata la funzionalità di un diverso assetto organizzativo del personale preposto al trattamento penitenziario. Nella proposta normativa, secondo l’Anft “il modello proposto, consiste nella creazione di un apposito ruolo tecnico all’interno del comparto sicurezza che assorbirebbe i funzionari giuridico-pedagogici e contiene accorgimenti tecnici che pur consentendo il mantenimento di adeguati margini di autonomia professionale alle figure coinvolte nelle attività di osservazione e trattamento, al fine di escludere derive securitarie da certi settori paventate, assicurerebbe la maturazione, in tutti gli operatori, del senso di comune appartenenza, di un reciproco riconoscimento dei ruoli, agevolerebbe la circolarità delle informazioni concernenti la personalità del reo e le dinamiche relazionali tra i detenuti nonché l’approntamento di interventi maggiormente sinergici, elementi tutti indispensabili per il perseguimento della mission del reinserimento sociale del reo”. La Costituzione “salva” Davigo dal rischio di lasciare il Csm per raggiunti limiti di età di Liana Milella La Repubblica, 2 agosto 2020 L’articolo 104 della Carta, che parla di “membri in carica per quattro anni”, smonta la tesi di Magistratura democratica e di Nello Rossi. Via chat - che sono tanto di moda tra le toghe - invio un messaggio a Piercamillo Davigo. “Vuole fare un’intervista sul suo futuro al Csm?”. Mi risponde di no, ma l’avevo previsto. Non c’è bisogno di spiegare chi sia Davigo. Ex cattivissimo pm di Mani pulite. Fondatore della corrente di Autonomia e indipendenza dopo una vita passata dentro Magistratura indipendente - la destra delle toghe - ma in polemica al fulmicotone con Cosimo Maria Ferri. Ex presidente dell’Anm nel 2016 super votato dai colleghi (1.041 preferenze personali). Poi ancora en plein di suffragi al Csm due anni fa (2.522). Super toga dalle interviste graffianti in tv. Con pochi sorrisi, anche se chi lo frequenta da amico lo descrive come un gran simpatico. Ebbene, descritto sommariamente l’uomo e il magistrato, adesso Piercamillo Davigo avrebbe un problema per la sua futura permanenza al Csm. Quale? il rischio che il 20 ottobre, allo scadere del suo settantesimo compleanno, debba lasciare dopo due anni palazzo dei Marescialli perché a quell’età le toghe sono costrette dalla legge Renzi ad andare in pensione. Lo sostiene con ampie argomentazioni Nello Rossi, il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica. Sì, proprio l’house organ delle cosiddette “toghe rosse”. La legge sul Csm del 1958 parla di magistrati in servizio da poter eleggere. E solo i giudici in servizio subiscono gli effetti della scure disciplinare se commettono infrazioni più o meno gravi. Davigo non parla. Ma in questi mesi più d’uno gli ha sentito citare un altro puntello, che lui ritiene ben più solido di qualsiasi altra argomentazione. L’articolo 104 della Costituzione sulla magistratura che al quinto comma recita: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Punto. Quindi chi viene eletto resta a palazzo dei Marescialli per quattro anni. Salvo fatti eccezionali come nel caso Palamara che ha poi costretto cinque togati a lasciare il Consiglio. Ma questa è tutta un’altra storia che, direbbe Antonio Di Pietro, “non c’azzecca” con Davigo. Il quale avrebbe anche un’altra freccia al suo arco. Il fatto che, al momento della sua candidatura nel 2016, nessuno ha eccepito la sua età, ovviamente ben nota. E i 2.522 colleghi che lo hanno votato, a loro volta, sicuramente erano ben al corrente dell’età di Davigo e del prossimo scadere dei suoi 70 anni. Eppure l’hanno scelto ugualmente, presupponendo quindi che avrebbe continuato a rappresentarli anche dopo il passaggio alla pensione. Peraltro, un recentissimo caso sembra spezzare un’ulteriore lancia a favore di Davigo. Perché il collegio disciplinare che giudicherà Palamara, presieduto dal laico indicato dalla Lega Emanuele Basile, lunedì ha respinto nettamente la richiesta di astensione avanzata dall’ex pm di Roma accusato di corruzione a Perugia, confermando quindi indirettamente l’assenza di dubbi sul futuro di Davigo. Poiché, al Csm, già il 15 settembre, quando il vice presidente David Ermini costituirà le nuove commissioni in carica durante tutto il prossimo anno, dovrà affrontare subito il problema di Davigo e della sua andata in pensione. Il quale, qualora dovesse lasciare la disciplinare a lavori su Palamara già iniziati, potrebbe dar adito a complicazioni in vista di futuri ricorsi. Infine un ultimo dettaglio. Quando, a maggio, spuntò un emendamento di Fratelli d’Italia alla Camera per riportare da 70 a 72 anni l’età pensionabile delle toghe e qualcuno scrisse che si trattava di una norma ad personam per Davigo, lui si arrabbiò moltissimo e minaccio querele. Convinto com’è sempre stato che nessuna norma in vigore può allontanarlo dal Consiglio superiore della magistratura. La riforma del danno erariale fa infuriare la magistratura di Valeria Di Corrado Il Tempo, 2 agosto 2020 Il procuratore della Corte dei conti del Lazio: “Non ha più senso la nostra presenza”. “Lo svuotamento della giurisdizione contabile proprio nel momento in cui giungeranno molti miliardi di euro costituisce una decisione illogica che potrebbe portare a vedere nei prossimi anni il paesaggio del nostro paese costellato da opere pubbliche inutili, quali cattedrali nel deserto, autostrade verso il nulla, ospedali o reparti inutilizzabili, ecc.”. Il procuratore regionale della Corte dei conti del Lazio, Andrea Lupi, nell’ambito del giudizio di parifica del bilancio della Regione Lazio, ha criticato la modifica normativa, introdotta dall’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, con l’articolo 21 del decreto legge del 16 luglio 2020 (misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), che - fino al 21 luglio 2021 - limita la responsabilità erariale alle condotte dolose “Ora che l’Italia sta ripartendo è certamente necessario semplificare le procedure per far sì che la ripresa dell’economia sia la più rapida ed efficace possibile, ma francamente - commenta il procuratore Lupi - non riesco a comprendere cosa abbia a che fare con la semplificazione, l’eliminazione - ancorché circoscritta ad un periodo temporale - della colpa grave. La ratio della norma sarebbe quella che, in questo momento di grave emergenza, sia giusto limitare l’azione di responsabilità per danno erariale nei confronti di chi omette di fare in modo gravemente colpevole e non anche nei confronti di chi opera, chi agisce, chi non è inerte”. “Sinceramente risulta una giustificazione assai debole, per non dire del tutto incongruente - prosegue il magistrato contabile - Chi fa con imperizia, negligenza e imprudenza può produrre danni non solo ingenti, ma spesso permanenti e irreparabili. Si pensi, esemplificativamente, alla costruzione di un’opera che, a causa di errori progettuali e/o in fase di esecuzione, resti incompiuta e inutilizzata. Ritengo che proprio in questa fase di ripresa in cui saranno tantissimi gli atti gestori di spesa, emessi da tutte le amministrazioni pubbliche, sia necessaria una giurisdizione contabile piena, senza deroghe e vincoli”. Per questo il procuratore della Corte dei conti del Lazio ha sollecitato il Parlamento a provvedere all’eliminazione dell’articolo 21 in sede di conversione del decreto legge n.7/2020. “Con l’entrata in vigore nell’ordinamento di una norma che autorizzerà l’archiviazione della stragrande maggioranza dei fascicoli istruttori che saranno aperti nei prossimi mesi, non riesco a trovare alcun senso alla mia presenza qui”, ha concluso Lupi con una nota polemica. Toscana. Massimo Lensi: “Il Covid ha reso le urgenze improrogabili” di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 2 agosto 2020 L’ondata Covid, in qualche maniera, non ha devastato le prigioni toscane come è accaduto in altri istituti sul suolo nazionale, spiega il radicale Massimo Lensi, fra i fondatori di Progetto Firenze, esperto delle problematiche carcerarie esistenti in Italia. “Problemi di proteste si sono avuti a Sollicciano e a Prato, ma niente di paragonabile alle rivolte avvenute in altre carceri italiane. Del resto, in Toscana gli istituti non presentano dimensioni enormi; il più grande è Sollicciano, alle porte di Firenze, con una popolazione che attualmente oscilla sui 700 detenuti, per una capienza regolamentare di 500”. A livello generale, nei 17 istituti penitenziari toscani, è urgente occuparsi dei problemi strutturali lasciati in sospeso: dalla seconda cucina di Sollicciano, alla struttura per la semilibertà di Pistoia, all’importante centro clinico del don Bosco di Pisa che sta perdendo, a quanto denunciano operatori e associazioni, funzionalità, a San Gimignano, un carcere molto complesso, fino al carcere minorile a Firenze, che ha ancora il piano terra da rifare. Sempre operando i distinguo e non accontentandosi di semplificazioni: il sovraffollamento, ad esempio, è insostenibile in alcune sezioni delle carceri regionali, ma cambia a seconda delle sezioni. Sollicciano, ad esempio, ha delle sezioni “normali” e sezioni sovraffollate. “Il sovraffollamento di Sollicciano - dice Lensi - insiste in particolare nel giudiziario e nel femminile, mentre i livelli del penale si mantengono bassi”. Del resto, i dati cambiano di giorno in giorno: “Ciò significa che a Sollicciano ogni giorno, in tempi normali, entrano 50 detenuti. Ma non si tratta solo di un discorso di quantità. Bisogna pensare al senso dello spazio dentro il carcere. Un carcere costruito con spazi comuni utili per il trattamento, oppure un carcere a sezioni allineate, a pettine, dà l’idea di come l’architettura carceraria torni in ballo facendo cambiare le prospettive da carcere a carcere”. Tuttavia, in questi mesi di lockdown e dell’insediamento del nuovo garante regionale, Giuseppe Fanfani, molto è successo, nel panorama carcere regionale. Ci sono stati 3 (forse 4) suicidi in carcere in circa due mesi (Sollicciano, Prato e Siena), l’emergenza Covid, il peggioramento dei problemi strutturali, l’arrivo delle temperature africane che fanno segnare anche 50 gradi nelle celle all’ultimo piano di Sollicciano, ma anche fatti politici. A ottobre dell’anno scorso, il consiglio regionale ha infatti votato all’unanimità le nuove linee di indirizzo della funzione del garante per uniformare il garante toscano a tutti gli altri garanti d’Italia, un piccolo passo in avanti verso una normalizzazione delle funzioni e dei poteri dei garanti stessi, rendendoli uguali per ogni regione. La mozione, presentata dalla consigliera Spinelli, fu approvata all’unanimità. Nell’attesa del nuovo consiglio regionale, dice Lensi, “vanno fatte le necessarie esplorazioni politiche affinché la mozione sia tradotta in legge, sostituendo la legge 69”. Un altro dato scatena una serie di interrogativi fondamentali per la questione carceraria. A Sollicciano, il più grande carcere della Toscana, l’area trattamentale, vale a dire quella in cui si dovrebbero realizzare i progetti per la funzione rieducativa della pena, vede in attività 6-7 operatori. Ricordiamo che la popolazione del carcere fiorentino è abitualmente sulle 700 unità. E le cose stanno peggiorando. “Oggi la funzione rieducativa della pena è una chimera, buona solo per i convegni, non esiste in carcere - dice Lensi - il carcere è afflittivo, è punitivo. Ieri è stata divulgata un’ulteriore circolare del Dap che parla addirittura di isolamento preventivo in casi di urgenza per alcuni detenuti”. Misure dal sapore ottocentesco, che riportano alla mente le rivolte del mese scorso. “Per fortuna in Toscana non ci sono stati episodi gravi - ricorda il nostro interlocutore - ma a livello nazionale ci sono stati 14 morti. È un’esigenza normale in una democrazia sapere cosa è accaduto durante quel periodo e averne la percezione. Per ora, risultano tutti morti per overdose di metadone. Qualche domanda bisognerà, onestamente, porsela”. Sul punto specifico della funzione rieducativa della pena, il problema è, secondo Lensi, ab origine. “Non ha senso parlare di funzione rieducativa della pena in un luogo desocializzante. Come si fa a introdurre programmi di socializzazione in un’istituzione totale? Dov’è il punto di caduta quando alla base c’è l’infantilizzazione del detenuto e la sua deresponsabilizzazione? La funzione rieducativa della pena può sussistere là dove c’è l’autodeterminazione del detenuto, la sua responsabilizzazione, nei paesi del Nord Europa, dove il detenuto ha un suo lavoro al di fuori della struttura. Ma qui da noi, dal momento in cui si è deciso di puntare sull’infantilizzazione del detenuto e sulla sua deresponsabilizzazione, i processi della carcerizzazione hanno provocato l’annullamento di qualsiasi tentativo positivo di introdurre la funzione rieducativa della pena”. Un punto che si ritrova pari pari in Toscana e che, unito alla logica della premialità (misure alternative se fai il buono, punizioni se fai il “cattivo”), produce un fenomeno psicologico molto pesante, vale a dire la uniformazione dei processi vitali-esistenziali ai meccanismi della carcerizzazione. Una patologia, combattuta da psicologi specializzati, che ovviamente diventa profonda e via via sempre più difficile da estirpare col prolungarsi della pena. E che, secondo analisi e studi, come riporta Lensi, è anche responsabile dell’innalzamento del fenomeno delle recidive, ovvero del ritorno a delinquere una volta scontata la pena. E ora, anche le ipocrisie della funzione rieducativa stanno scomparendo. Rimane solo l’afflizione tout court. Allora, cosa dev’essere il carcere? “Utile - risponde l’esperto - il carcere non dev’essere né rieducativo né punitivo, deve essere utile, deve essere in qualche maniera legato a una visione di possibilità di convertire la propria vita al futuro. Il carcere dev’essere efficace. Cosa vuol dire efficace? Abbattere la recidiva, dare l’opportunità a un detenuto, attraverso il percorso che deve fare in esecuzione di pena, di una nuova vita”. Insomma, il carcere sta diventando invece un contenitore multiuso, la soluzione finale di problemi sociali complessi, che accoglie sia il barbone che chi viola la quarantena da covid, come auspicato pochi giorni fa dal governatore Zaia. Il concetto che sfugge, dice Lensi, è quello del carcere come luogo di cura. “Il carcere dovrebbe essere come un ospedale, è una struttura dello stato in cui sei sotto custodia dello stato. Vi si finisce non per essere puniti, ma per essere curati e tornare alla socializzazione. In tutto questo i garanti regionali sono fondamentali. Sono la rete territoriale su cui tutte le associazioni che si occupano di carcere possono appoggiarsi per costruire, ognuno nel proprio territorio, programmi nuovi e innovativi, fino ad arrivare anche alla revisione dei luoghi dello spazio carcerario”. Questione solo apparentemente ininfluente, quella dell’architettura carceraria. “Chi conosce Sollicciano sa che è un carcere molto particolare, che nacque con il Panopticon di Jeremy Bentham nella testa degli architetti, fatto a forma di giglio dall’alto - dice l’esponente di Progetto Firenze - ci sono degli spazi dentro il carcere allucinanti. Bisogna valorizzare alcuni spazi comuni dove poter reintrodurre la realtà associativa, fare una battaglia sulla sorveglianza dinamica, cioè a celle aperte, e avere la possibilità di innestare in luoghi comuni programmi che siano realmente di risocializzazione. Curarsi di tutto ciò è lo scopo della figura del garante”. In Toscana tutto questo si trova ai minimi termini, come nelle altre regioni. La realtà toscana, costituita da 17 istituti penitenziari non eccezionali a livello di numeri ma molto complessi a livello trattamentale, vede tutta una serie di problemi annosi irrisolti. È questo il vuoto, l’assenza che secondo quanto spiega a Stamptoscana Massimo Lensi, il nuovo garante regionale dovrebbe riempire. “Non vorrei che fosse intimidito dalla mole di problemi che ha di fronte e magari non si sentisse all’altezza di chi ha occupato prima quel ruolo, che è stato il ruolo di Alessandro Margara”. Alessandro Margara, ovvero un monumento per il “nuovo corso” che, dagli anni 70 agli anni 80 si cercò di dare all’idea stessa di reclusione, al concetto di carcere. “Una figura di riferimento per chiunque vada a ricoprire il ruolo di garante regionale - sottolinea Lensi - portatore di idee ancora illuminanti, in cui si coglie una lucidità e un’attualità incredibili. Fu il primo di quel nucleo bello che nacque a Firenze con Meucci, Gozzini, Michelucci, che dette il via a una stagione di riforme poi arrivata, negli anni 70-80, al regolamento penitenziario del 2000. Ebbene, tutto è stato tradito. C’è stato un tradimento collettivo. Il movimento fiorentino, che si ritrovava con padre Balducci, portava avanti una riflessione sul carcere dei cui risultati ancora noi godiamo. Una fantastica stagione che ha prodotto testi importanti tutti traditi, uno dopo l’altro. Il garante su questo può fare tanto, specialmente in una città come Firenze”. Ma di tutto questo, la politica parla? “Siamo all’inizio della campagna amministrativa regionale, ma del carcere la politica non si occupa. Il carcere non porta voti. Eppure c’è un problema vero, che è il problema dei problemi, su cui il ruolo della politica è fondamentale e che un garante dovrebbe affrontare di petto, ovvero la salute in carcere. “La sanità in carcere è una competenza squisitamente regionale, passata alle regioni con il dpcm 2008 che, dall’amministrazione carceraria, l’ha fatta transitare al servizio sanitario nazionale, il che significa Regioni, tant’è vero che la direzione carcere si trova nell’assessorato regionale alla sanità - dice Lensi - Quindi il centro clinico del Don Bosco, i presidi dentro Sollicciano e San Gimignano, la prevenzione della salute in carcere sono temi che riguardano la Regione. L’Ars toscana produce ogni due anni un dossier sulla salute in carcere. Oltre alle malattie psichiche, le più problematiche, si calcola che uno su due detenuti soffra di problemi di salute. Aggiungo malattie psichiche sopravvenute, perché se si è malati psichici prima della detenzione non si va in carcere, si va nelle Rems”. Il detenuto è adeguatamente curato? No. Di chi è la competenza? Della Regione. “Il problema è urgente, non può aspettare. Quando arriva il caldo, preventivamente, il garante dovrebbe capire se per esempio è possibile aprire le celle, perché non si può rimanere in cella 22 ore, con temperature che raggiungono i 50 gradi agli ultimi piani di Sollicciano e rimanere sani”. Celle aperte, sorveglianza dinamica, ma anche ventilatori nelle celle (non si è ancora spento l’eco della battaglia 4 anni fa), docce nei passeggi. “Il garante li ha visti i passeggi nel carcere di Sollicciano? Sono luoghi dove ci sono pozze con escrementi di piccione, piccioni morti, rifiuti che arrivano da ogni dove, a parte pochi, ristrutturati, nel penale. I passeggi del giudiziario sono da inferno”. Capitolo a parte, la psichiatria in carcere. Le strutture che sono chiamate Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) riguardano i folli rei, non i rei folli. “I primi sono persone che sono state assolte per vizio mentale totale o parziale, ma sottoposte a misure di sicurezza per pericolosità sociale. Queste persone, assolte, non sono detenuti, o come si chiamavano ai tempi delle Opg, internati. Sono pazienti in cura”, spiega Lensi. Per loro la legge 81 ha introdotto le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le Rems appunto. Ne è stata inaugurata tre giorni fa una al Pozzale in provincia di Firenze, che era l’ex femminile, adibita a 17 maschi e tre femmine. Ma c’è un’altra battaglia aperta, che riguarda la previsione, nel codice penale, del cosiddetto “doppio binario”: si sgancia l’imputabilità delle persone assolte per vizi di mente più o meno gravi dando l’assoluzione, ma nello stesso tempo sottoponendole alle misure di sicurezza. Mantenendo questo meccanismo, che è quello del codice Rocco di epoca fascista, dove la devianza era comunque già di per sé sinonimo di “colpa”, il proliferare di Rems rischia di diventare il proliferare di piccoli Opg, in definitiva piccoli manicomi criminali. “È necessario potenziare strutture piccole, di secondo livello, con percorsi individuali, ma manca la volontà politica - dice Lensi - Bisogna riprendere in mano il concetto di imputabilità, come aveva cominciato Corleone, l’ultimo garante prima di Fanfani. Il garante ha infatti competenza anche sulle Rems”. Per i rei folli, invece, vale a dire per coloro che sono detenuti (non sono stati assolti) e c’è una sopravvenuta esigenza psichiatrica, non c’è più, come un tempo, l’internamento negli Opg, bensì rimangono in osservazione psichiatrica in carcere, e per i casi in cui è stabilita la malattia, son previsti i trasferimenti nelle cosiddette Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm). Ne è stata aperta due anni fa una a Sollicciano. Sono i cosiddetti repartini. “Vecchia eredità - ricorda Lensi - perché anche negli anni ‘70 c’erano i vecchi repartini psichiatrici”. Infine c’è il famoso “carrello”. Si tratta del carrello delle medicine che di solito vengono somministrate ai detenuti “normali”, per richiesta da parte di loro stessi o per ricetta medica, o per prescrizione da parte del medico curante. Per la maggior parte, si tratta di medicinali psichiatrici. Quasi sempre richiesti dal detenuto. “Se si deresponsabilizza la persona detenuta, questa, per superare la giornata, ha bisogno del carrello. E il bisogno del carrello, è il fallimento del carcere. La carcerazione non ha più nessun senso. Perciò non lamentiamoci se aumentano le recidive, i suicidi, le rivolte”. “Capisco, e lo dico con sincerità, che il nuovo garante - conclude Massimo Lensi - abbia ammesso, nella sua prima e unica intervista, di non avere molta esperienza sul campo, di non aver mai visitato un carcere toscano e che nel suo programma ci sia l’intenzione di visitare tutti gli stabilimenti penitenziari regionali. Da parte mia gli offro quella che è la mia esperienza e la mia disponibilità, un sentimento senz’altro comune a quello di tutte le associazioni”. Piemonte. Martedì in Consiglio regionale la relazione del garante dei detenuti agenzianova.com, 2 agosto 2020 L’informativa dell’assessore all’Istruzione sulla ripresa dell’anno scolastico e dei servizi educativi e la relazione del Garante regionale dei detenuti sulla situazione delle carceri piemontesi sono tra gli argomenti all’ordine del giorno del Consiglio regionale del Piemonte, convocato dal presidente martedì 4 agosto (dalle ore 10 alle 18). L’ordine dei lavori d’Aula prosegue con un nutrito elenco di atti d’indirizzo e comprende il sindacato ispettivo alle 9.30 e il question time alle 14. Come stabilito dalla Conferenza dei capigruppo, questa è l’ultima seduta prima della pausa estiva. Per quanto riguarda le Commissioni permanenti. Lunedì 3 agosto: alle 10, il gruppo di lavoro per lo svolgimento dell’indagine conoscitiva sull’emergenza Covid, si riunisce per la programmazione dei lavori; alle 14, la prima Commissione si riunisce in sede legislativa per esaminare la proposta di legge 108 di modifica della legge 57/1981. Si prosegue in ordinaria, alle 15, per le prime determinazioni sul Documento di economia e finanza regionale (Defr) e le modifiche al cosiddetto, “Riparti Piemonte”; giovedì 6 agosto, con orario da definire, audizione congiunta della terza e della sesta di Cai, Mountain Wilderness, Arpiet ed Enac sulle Pdl 66 e 72 (Modifiche l.r. 2/2009 su volo alpino e piscine naturali). La ripresa dell’attività istituzionale è programmata a settembre. Fermo. Giovedì scorso ha perso la vita un giovane che si trovava detenuto in carcere Corriere Adriatico, 2 agosto 2020 Giovedì scorso ha perso la vita un giovane che si trovava detenuto in carcere a Fermo. Si è tolto la vita a soli 23 anni. “Circa il 50% delle morti in carcere (in totale rappresentano una media di circa 160 all’anno) avvengono per suicidio - sottolinea Renzo Interlenghi, candidato sindaco del centrosinistra #FermoFutura intervenendo sulla questione - a dimostrazione che il sistema penitenziario non è in grado di fornire risposte adeguate a soggetti che non hanno bisogno della detenzione per potersi riabilitare, poiché spesso, invece, hanno bisogno di strutture socio sanitarie che li aiuti, innanzitutto, a sopravvivere al senso di abbandono i cui si sentono. Mi sto candidando a sindaco della città di Fermo per il centrosinistra, ma sono innanzitutto un avvocato che, quindi, ha un osservatorio privilegiato su determinate problematiche. Durante il lockdown, come coordinatore della Protezione civile e con la collaborazione del sindaco di Monte Vidon Combatte, abbiamo donato mascherine ai detenuti perché, per affrontare determinati problemi è necessario unire le forze e fare quadrato. Questi gesti, però, non bastano perché chi sta dentro vive in un’altra dimensione e, spesso, quella dimensione produce crisi di rigetto che si materializzano in gesti insani che lasciano un vuoto, nelle famiglie, nelle amicizie (anche carcerarie) e nella società. Gli operatori penitenziari fanno il massimo e questo lo comprese l’allora ministro alla Giustizia Oliviero Diliberto che dette dignità al corpo della Polizia penitenziaria ma è il sistema penitenziario che deve essere riformato. Manifesto, pertanto, la mia più sincera solidarietà alla famiglia del giovane che è venuto a mancare - la conclusione di Interlenghi - affinché non si senta sola e possa avvertire la presenza della persona e della istituzione che andrò a rappresentare”. Venezia. “Giudecca, il carcere va chiuso” di Virginia Grozio Il Gazzettino, 2 agosto 2020 Lo ha chiesto la Lega lamentando problemi strutturali e di sicurezza. Aree dismesse, problemi strutturali e di sicurezza, grandi difficoltà logistiche. E tanto altro ancora. Questo è il bilancio della visita di ieri effettuata alla Casa di reclusione femminile della Giudecca dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria del Triveneto e da una delegazione di deputati veneziani della Lega, composta da Giorgia Andreuzza, Alex Bazzaro e Sergio Vallotto. “Il carcere femminile di Venezia Giudecca ha fatto il suo tempo. È ora di pensare una buona volta ad una struttura idonea, funzionale ed in terraferma. Investire massicciamente su un edificio vecchio e con limiti evidenti sul piano della sicurezza e della logistica è anacronistico e oltremodo dispendioso per i cittadini”, hanno dichiarato i deputati della Lega. Il sopralluogo è stato finalizzato alla verifica delle condizioni di igiene, salubrità e sicurezza degli ambienti e luoghi di lavoro del personale all’interno della struttura. Le criticità del carcere femminile della Giudecca emerse sono molte e su diversi fronti. Nell’antico edificio vi sono zone pericolanti, aree non utilizzate, parti recintate, cavi a vista ed è stata anche riscontrata la presenza di topi, malgrado le operazioni di derattizzazione. I fatiscenti ambienti del carcere risultano essere inadatti al lavoro degli agenti della polizia penitenziaria, ogni giorno impegnati in lunghi turni a contatto con persone dalle situazioni estremamente complicate. Inoltre la collocazione dell’antico stabile veneziano, in passato sede di un convento, rende davvero difficoltoso il raggiungimento del luogo di lavoro. A causa della mancanza di spazi in caserma, alcuni agenti sono costretti a lavorare da pendolari. “Le postazioni destinate per i posti di lavoro degli agenti, non sono conformi a quelle previste dalla legge 81/2008. La soluzione è pensare a una location diversa sia per gli ospiti, sia per gli agenti. Per coloro che vi lavorano, la struttura è diventata una sede di passaggio dove non si ci ferma perché non sussistono le condizioni abitative e lavorative”, ha dichiarato Leonardo Angiulli, Segretario Generale Uil-Pa Polizia Penitenziaria del Triveneto. “Alle donne e agli uomini in divisa che ogni giorno vi lavorano occorre garantire sicurezza”, hanno sottolineato gli esponenti leghisti. Per poi aggiungere: “C’è un evidente problema per l’incolumità del personale, con le detenute a contatto diretto con le donne della polizia carceraria. Per il personale della polizia carceraria, inoltre, raggiungere il luogo di lavoro è a dir poco difficoltoso, tant’è che molte candidate al ruolo optano per altre sedi. È ora di adottare provvedimenti concreti. L’acqua alta ha evidenziato le difficoltà di mantenere in laguna un edificio storico e sottoposto a vincoli della Sovraintendenza. Già nel 2012 la Lega si era battuta per lo spostamento in terraferma della struttura penitenziaria, ma l’amministrazione di sinistra bocciò la proposta. Questi sono i risultati”. Lecce. La vita dietro le mura di Borgo San Nicola di Toti Bellone Gazzetta del Mezzogiorno, 2 agosto 2020 Dall’attività di panificazione, al teatro e alla pittura, nel segno della riabilitazione. Ogni ambiente del carcere è pulito e sanificato e tutte le attività avvengono nel rispetto delle misure anticontagio. In confronto al mandamentale reso famoso dalla rocambolesca fuga del bandito sardo Graziano Mesina e del giudiziario di san Francesco, il supercarcere di borgo san Nicola fa la parte dell’albergo che si contrappone alla locanda d’altri tempi. Te ne accorgi già dalla strada che si percorre per raggiungerlo: asfaltata a dovere e nel primo tratto dotata anche di marciapiedi su entrambi i lati. Nell’immensa costruzione realizzata più di vent’anni fa anche per consentire lo svolgimento dei grandi processi di mala nell’attigua aula bunker, ci entriamo al seguito degli animatori del laboratorio teatrale Ama, l’Accademia mediterranea dell’attore, che per l’occasione mette in scena tre rappresentazioni de “Le pupe di pane”. Un lavoro su come nei decenni scorsi, le massaie dei paesi pugliesi preparavano il pane. “Il pane lo fanno qui anche i detenuti - ci dice Franco Ungaro, il direttore dell’Ama. Alla fine delle rappresentazioni, ci doneranno una treccina che è proprio a forma di pupa”. Nella fortezza nata per ospitare 600 detenuti con l’opportunità di allargare la forbice sino a mille, tanti quanti ce ne sono oggi, quello del fornaio non è l’unico lavoro. Come ci racconta il coordinatore del personale educativo, Fabio Zacheo, lo è anche servire i pasti trasportati di cella in cella sui veloci carrelli di metallo. Ce lo dice per pura cortesia, perché glielo domandiamo a bruciapelo, mentre percorriamo un lungo corridoio, poco prima di mezzogiorno, allorché ci imbattiamo in due giovani impegnati giusto in tale servizio. In quel corridoio ci siamo finiti dopo averne attraversati altri due dello stesso tipo e dopo aver notato una mezza dozzina di controllori. Lungo il percorso, due cose ci impressionano favorevolmente. La pulizia che molti anni prima non avevamo riscontrato nel giudiziario di san Francesco, dov’eravamo entrati con una commissione regionale capeggiata dal mai dimenticato assessore Emanuele Capozza, ed una serie di grandi dipinti dai colori sgargianti. In uno riconosciamo Villa Sticchi di santa Cesarea. “Sono di un detenuto ucraino tornato libero tre o quattro anni fa”, ci risponde Zacheo. E quando insistiamo con le domande ed in particolare con “per quale reato era detenuto?”, così taglia corto: “Credo per immigrazione clandestina”. Avremmo voluto fotografarli, quei dipinti, ma il cellulare ci è stato requisito all’ingresso, dopo il deposito del tesserino professionale, la compilazione di una sorta di questionario ed il rilevamento anti Covid della temperatura. Per un attimo dimentichiamo di trovarci in un carcere, anzi un supercarcere, visto che c’è anche una “sezione sicurezza”. A farci tornare alla realtà, è la vista di alcuni detenuti, molti dei quali a torso nudo, che in un ampio cortile camminano avanti e indietro, probabilmente ognuno impegnato con i propri pensieri. Rivolti alla famiglia, ai figli, alla libertà, che qualcuno sicuramente non riavrà mai perché condannato a “fine pena mai”. Per noi è una scena già vista. Nel san Francesco ricavato da un antico convento, dove lo spazio era molto più ristretto, ma non al punto da non farci riconoscere e salutare un conoscente. Un dee jay rimasto impigliato nella rete della droga, dalla quale è poi riuscito a liberarsi definitivamente. Per tornare ai detenuti, uno, del Brindisino, lo troviamo fra gli spettatori del lavoro teatrale al quale ci accingiamo ad assistere. Senza sapere con chi abbiamo a che fare - un altro ristretto, una guardia carceraria, un educatore? - azzardiamo la domanda la cui risposta è, appunto “fine pena mai”, con l’aggiunta di un “ma lui continua a dire di non aver ucciso nessuno, ed in attesa di tempi migliori, se ne sta quasi sempre a studiare in biblioteca”. Magari vorrà prendere il diploma o addirittura laurearsi, sussurriamo sottovoce; ma quello non può più sentirci. Il teatro ha alzato il sipario. Il lavoro, interpretato da cinque attrici, scorre sicuro ed in mezz’ora si chiude con successo. Almeno nella sezione maschile dove ci troviamo. Ma a tarda sera apprendiamo che in quella femminile è andata ancora meglio. Non poteva essere diversamente: donne che si rivolgono a donne. Durante la mezz’ora, con un occhio seguiamo il mimo ed i dialoghi e con l’altro i detenuti, una ventina, che vi assistono. Il più magnetico è proprio l’ergastolano. A guardarlo stentiamo a credere, per via della grave accusa di cui è gravato, che possa avere la serenità d’animo di assistere all’evento. Ma evidentemente, la forza per farlo gli deriva proprio dalla convinzione di considerarsi innocente. Dietro di noi, che siamo in prima fila, un volto ci appare conosciuto. Ma sì, è quello dell’onorevole Lorenzo Ria, già presidente della Provincia di Lecce. “Pupe di pane” è solo per i giornalisti ed i detenuti. Che ci farà qui? Forse, in qualità di politico, è in veste di osservatore? “Sono un volontario della Caritas di Campi Salentina - ci illumina quando riusciamo a parlargli. Con altri come me ci vengo due volte a settimana”. Caspita - ci viene spontaneo replicare. È un bell’impegno”. E pensando più a noi stessi che ad altri, aggiungiamo: “Non tutti hanno il coraggio di farlo”. Ai detenuti, Ria e gli altri volontari, Caritas diocesana compresa, sono di grande aiuto. All’inevitabile conforto umano, aggiungono il disbrigo di pratiche burocratiche: dalla richiesta di prodotti per l’igiene personale, alla sistemazione in alloggi. Ingresso, corridoi, spazi per l’ora d’aria, il salone dove si tiene la rappresentazione teatrale. Altro non abbiamo potuto vedere, nel supercarcere di borgo san Nicola. Più di tutto, è le celle che avremmo voluto visitare. Per cancellare, finalmente, l’immagine di quanto visto al san Francesco. Una grande stanza al pianoterra, che a considerare i letti a castello, doveva aver ospitato quindici, di più, venti detenuti. Un dettaglio, al cospetto delle sue quattro mura, che grondavano umidità come fosse sudore, all’ombra di un piccolo quadrato piastrellato sul quale campeggiava, sorretto da un treppiede di ferro, un grosso tegame per cuocere il sugo. Sulmona (Aq). Caldo asfissiante dietro le sbarre, appello al direttore del carcere e al Garante reteabruzzo.com, 2 agosto 2020 Gravi disagi, con rischio anche di malori, all’interno del penitenziario sulmonese. A segnalare la condizione che a causa del caldo afoso si fa sempre più difficile dietro le sbarre, per polizia penitenziaria e per i detenuti, è Mauro Nardella, segretario territoriale Uil-Pa, che fa appello al direttore del carcere e al garante regionale dei detenuti. “Nella struttura di Piazzale Vittime del Dovere la situazione riferita al caldo opprimente spesso, anche se più di qualche volta la supera, rasenta la drammaticità più assoluta. Le temperature asfissianti si fanno sentire e con tutti gli svantaggi che esse comportano in termini di salute sia per i sempre più anziani operatori costretti a ivi prestare servizio in uniforme di servizio che per i detenuti” sottolinea Nardella. “Fortunatamente il nuovo padiglione che sta per essere ultimato, seppur messo su con moduli prefabbricati di cemento, dovrebbe avere, da quel che è dato sapere, un apparato climatizzante generalizzato che abbatterà, si spera, l’insostenibile calura” prosegue l’esponente Uil. “Attualmente ad aggravare ancor di più la situazione vi è l’impossibilità per i detenuti di poter ricorrere a docce ristorative direttamente nelle loro camere detentive che bene avrebbero fatto alla loro persona e che inevitabilmente si sarebbero positivamente riverberate sul personale di servizio. Quello che è incredibile è che a distanza di 20 anni dal varo del nuovo regolamento penitenziario ci ritroviamo ancora a dover denunciare, nella parte in cui si parla di docce, la non applicazione di un Dpr qual è il 230/2000 e chiedere dell’implementazione di docce in ciascuna camera detentiva” precisa Nardella. Una nota al riguardo è stata inviata al direttore del carcere peligno e al Garante Regionale delle persone detenute o private della libertà personale Abruzzo, ciascuno secondo le rispettive competenze, di farsi promotori di iniziative volte a rendere vivibili le condizioni all’interno delle sezioni detentive, ivi compreso il box agenti del reparto infermeria e in tutti quei posti non ancora raggiunti da una politica, che pur riconosciamo all’attuale Direzione, di riequilibrio climatico attraverso la messa a punto di condizionatori” fa sapere il sindacalista che propone, “visto l’avvento oramai prossimo del nuovo padiglione, di cogliere l’occasione per ristrutturare gli altri reparti chiudendoli e conformandoli alle normative in tema di sicurezza e salubrità assicurando la giusta dignità nei confronti di chi in carcere ci sta non solo perché deve scontare una pena ma anche e soprattutto per guadagnarsi il pane”. Crotone. Avviato servizio gratuito di supporto per detenuti e loro familiari wesud.it, 2 agosto 2020 Da ieri, 1 agosto 2020 è attivo anche nel territorio di Crotone il Servizio gratuito di Ascolto e Mediazione. “Non sei solo, non sei sola”, rivolto alla comunità carceraria, ai familiari dei detenuti e ad i loro congiunti. Lo rende noto il Garante Comunale per i diritti dei detenuti Federico Ferraro. Per far fronte all’emergenza Covid-19, l’AIMePe - Associazione Italiana Mediatori Penali e l’Associazione Noi & Voi Onlus in collaborazione con gli Istituti Penitenziari e gli Uffici di Esecuzione Penitenziaria Esterna Taranto ed il partner aderente Volontariato Penitenziario SEAC, presentano il Servizio di Ascolto e Gestione dei conflitti, già in altre strutture carcerarie italiane. L’iniziativa a Crotone è stata possibile grazie alla collaborazione con il garante comunale dei detenuti avv Federico Ferraro. Per esprimere vicinanza e supporto alla comunità carceraria, in ottemperanza all’emergenza Covid-19, causa di preoccupazione per i detenuti per quanto sta accadendo fuori alle loro famiglie, il Servizio si configura come uno spazio di accoglienza e sostegno per i detenuti, le famiglie e i congiunti degli stessi di problematiche di tipo personale, affettivo o relazionale, che si svolge in un clima positivo, teso alla prevenzione del disagio e alla promozione del benessere. Il servizio di ascolto è dedicato a: • Detenuti, in particolar modo coloro che non hanno legami familiari o che fanno fatica ad avere contatti con i familiari; • I condannati affidati ai servizi sociali e/o agli uffici di esecuzione personale esterna, UEPE, privilegiando coloro i quali hanno una rete familiare in difficoltà; • Famiglie dei detenuti. Per fronteggiare: • Disagio, tensioni in famiglia, lutti, malattie; • Difficoltà economiche; • Integrazione; • Disagio nei rapporti con gli altri detenuti e/o con le loro famiglia. Da qui l’appello lanciato da Garante Comunale per i diritti dei detenuti, Federico Ferraro: “Se conosci qualcuno che potrebbe usufruire di tale aiuto o ti riconosci in uno di questi punti o ancora hai bisogno di un confronto e supporto, il servizio telefonico è attivo dal lunedì al venerdì dalle 09.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 18.00. I referenti del progetto di volontariato sono i seguenti professionsti: Dott.ssa Maria Cristina Ciambrone, Mediatore familiare A.I.Me.F.; Mediatore scolastico e mediatore penale, Presidente A.I.Me.Pe; Maria Spizzirri, Mediatore penale A.I.Me.Pe, Tesoriere A.I.Me.Pe, Mediatore Scolastico; Bina Salvati Mediatore penale A.I.Me.Pe, Mediatore Scolastico. “Nessuno nasce Caino”, le voci dal carcere nel racconto di De Simone di Antonio Lamorte Il Riformista, 2 agosto 2020 Verranno a chiedere dell’amore, della solitudine, del dolore, del delitto e del castigo, di anni persi e gioventù bruciate. Verranno e vengono e sono la coscienza, il rimorso, il senso di colpa: giudici che non lasciano scampo all’indulgenza. Il documentario Caine, prodotto per Doc 3 - Il cinema del reale e disponibile su Raiplay, ha raccolto le voci femminili di dentro nelle carceri di Pozzuoli e Fuorni-Salerno. L’autrice, Amalia De Simone, è giornalista con l’abitudine a scandagliare nel gorgo: cronaca nera, narcotraffico, rifiuti, guerra; il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha nominata Cavaliere al merito della Repubblica per i suoi lavori sulle mafie. E nonostante tutto ciò non è rimasta indifferente a queste vite devastate: lo diceva Ryszard Kapu?ci?ski che questo di raccontare storie non è un mestiere per cinici. “È stata un’esperienza sorprendente - dice - sono entrata tante volte in carcere, ma quando vivi le situazioni con questa intensità stabilisci un contatto più profondo”. Il lavoro è partito a settembre scorso. Lo stile: quello del racconto immersivo, con la telecamera in mano, tra le celle e i corridoi. Anni di nera hanno messo davanti alla giornalista persone e storie che aveva raccontato quando si erano consumati i reati, e che quindi si è ritrovata davanti. “Questo aspetto - osserva - ha abbattuto muri, cancellato le finzioni, fatto venire meno molti filtri: avevo raccontato gli arresti di qualcuna, o di famigliari, in certi casi mi hanno perfino riconosciuta”. Il resto del pudore lo ha tolto di mezzo la musica: perché De Simone si è portata dietro Assia Fiorillo, cantautrice, che ha scritto suonato e cantato con le detenute fino a tirare fuori Io sono un altro. Sono 301 le donne nelle carceri campane (2.663 in tutta Italia). I principali reati sono quelli contro il patrimonio, la persona, la pubblica amministrazione e spaccio di stupefacenti. L’ICAM di Lauro (Avellino) ospita sei donne con sei figli, tipologia tra le più delicate. “Era mia intenzione rendere uno spaccato della realtà dentro - spiega De Simone - ma anche di quella fuori: ci sono Ponticelli, il pallonetto di Santa Chiara, il casertano. E quanto può essere dura la vita in alcuni contesti. Entrare nelle storie degli altri serve a comprendere meglio anche da un punto di vista sociologico”. C’è, nel documentario, chi ha tolto ai figli il cognome del padre perché vicino al clan dei Casalesi; chi ha spacciato per non prostituirsi; chi era affiliata; chi era rapinatrice per noia; chi smerciava borse contraffatte e poi si giocava tutto al bingo; chi vuole restare dentro perché non si sente ancora pronta al mondo fuori; chi non sa più nulla dei suoi figli dopo l’arresto; chi ha dovuto lottare per via della sua omosessualità. Caine non è Vis a vis, e non è neanche Orange is the new black; non c’è splatter ma neanche fiction: gli aneddoti sono tutti storia di vita vissuta. “Io credo che Caino non nasce Caino: ci si diventa per l’ambiente, le circostanze, le situazioni”, commenta l’autrice. A unire tutte queste storie è l’assoluta mancanza di indulgenza da parte delle protagoniste: tutte sentono forte il peso dei loro anni persi, dell’esistenza segnata, degli sbagli fatali. “Vivono il carcere in maniera diversa - dice De Simone - per esempio quando sono scoppiate le proteste durante l’emergenza covid, le donne di Fuorni hanno subito pensato a cucire mascherine: pensavano a fuori, ai figli, alle famiglie”. Ed è forse anche per questo che solo il 15% delle detenute è recidivo. Serve comunque fare di più, come denuncia anche il Garante dei detenuti Campania Samuele Ciambriello: “Va potenziato il personale qualificato: all’Icam di Lauro l’80% del personale è maschile; e poi c’è bisogno pediatri, medici, educatori come implementare le case famiglia protette come legge 62 del 2011; vanno implementati gli studi, percorsi di qualità, oltre ai corsi di formazione professionale”; che renderebbero il carcere meno castigo e più rieducazione. Anche per i tormenti e le possibilità delle Caine. Legge sulla omotransfobia, l’equilibrio dei diritti di Luigi Manconi La Repubblica, 2 agosto 2020 Il dibattito sulla legge in materia di omotransfobia è assai importante, sia per la coesione sociale del nostro Paese, sia per la sua temperatura morale e per ciò che possiamo chiamare la vitalità delle idee condivise. Sullo sfondo c’è il tema che poneva Karl Popper quando (nel 1945: si badi alla data) affermava, proprio “nel nome della tolleranza” il “diritto a non tollerare gli intolleranti”. È possibile che molti tra i parlamentari che si definiscono spensieratamente liberali e, tuttavia, osteggiano quel disegno di legge, non conoscano il pensiero del grande liberale Karl Popper, e magari lo confondano con il sergente Pepper dei Beatles. Ma il problema va ben oltre i tradizionali schieramenti ideologici e lo sciocchezzaio di giornata e richiama una grande questione: quale è il rapporto tra l’affermazione della più ampia libertà di opinione e la tutela della dignità e della reputazione di individui, gruppi e minoranze? Ancora: la piena manifestazione del pensiero e della parola, deve arrivare fino a proteggere opinioni antidemocratiche, ignobili, che esprimono odio, disprezzo e discriminazione? Infine, tutte le parole sono innocenti oppure c’è un limite, superato il quale, diventano pietre? Qui pietre significa proprio materia contundente, capace di fare male e ledere corpo e anima. La giurisprudenza sembra orientata oggi su una posizione così riassumibile: tutto sta nel rapporto tra parola e comportamento. Ovvero, le idee (le parole conseguenti) incontrano limiti - e dunque meritano sanzioni - quando determinano una situazione di pericolo concreto e attuale (non proiettato nel futuro) di condotte offensive: suscettibili, cioè, di ledere terzi. Se le parole, insomma, sono direttamente correlate ad atti e a comportamenti che abbiano conseguenze materiali su altri, allora limitarle e sanzionarle in caso di violazione, corrisponde a un diritto di legittima difesa esercitato dalla società. Certo, esiste anche il rischio di “eccesso di legittima difesa”, ma è proprio qui che va esercitata un’azione intelligente di bilanciamento tra due beni entrambi meritevoli di tutela: appunto, la più ampia libertà di parola e la protezione della dignità delle minoranze (in questo caso quella omosessuale e transessuale). Quell’opera di mediazione tra due diritti costituzionalmente riconosciuti è tutt’altro che facile e richiede molto equilibrio. Per questo, la soluzione approvata dalla commissione giustizia della Camera dei deputati appare saggia. Sulla base di un emendamento proposto dal deputato di Forza Italia, Enrico Costa (eccolo, infine, un liberale coerente, accompagnato dalle sole Carfagna, Bartolozzi e Polverini), si è arrivati, grazie alla mediazione dei parlamentari del Pd, Alessandro Zan e Walter Verini, alla riformulazione dell’articolo 3. Oggi esso recita: “Ai sensi della presente legge, sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Non è un dispositivo retorico. È, piuttosto, la risposta efficace alle preoccupazioni in buona fede per esempio di chi, cattolico osservante, paventa che la propria convinzione sull’esclusività del matrimonio eterosessuale, possa ricadere sotto sanzione perché considerata come discriminatoria nei confronti di altre forme di sessualità o coppia o famiglia. La nuova formulazione dell’articolo 3, a mio avviso, già risponde positivamente ai timori di un giurista pacatamente critico come Filippo Vari che, su Avvenire (25 luglio del 2020), ha chiesto una più puntuale precisazione del “nesso tra atti discriminatori e violenza”. L’articolo in questione, evidentemente, non risolve una volta per tutte questioni che si manifestano su un terreno sdrucciolevole, ma credo si possa dire che sono stati indicati confini precisi e limiti nitidi. Si può legittimamente sospettare, dunque, che non tutte le resistenze che permangono nei confronti della legge, si debbano a una autentica preoccupazione per la libertà di opinione; e che, invece, possano dissimulare una scarsa attenzione verso le troppe forme di disprezzo correlate ad atti aggressivi così diffusi, e non solo nel web. Infine, è istruttivo ricordare, come suggerito dal parlamentare e giurista Stefano Ceccanti, un passaggio dei lavori preparatori della Costituente, che vide protagonista Palmiro Togliatti. Il leader comunista, la cui principale fonte di ispirazione non era esattamente John Stuart Mill, trattando di tali temi e in dialogo con Giuseppe Dossetti, sosteneva che il movimento anarchico andasse “combattuto sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee”. Ma “non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi”. Quale lezione per tutti: i tiepidissimi liberali e i democratici autoritari. Migrante, rifugiato, rispetto: le parole tradite, le parole vuote di Francesca Mannocchi L’Espresso, 2 agosto 2020 E poi diritti umani. Democrazia. Altro. Senza un contenuto autentico questi termini nascondono solo la nostra ipocrisia. “Lei non m’interessa. Un uomo non può rivolgere queste parole a un altro uomo senza commettere crudeltà e ferire la giustizia”. Così inizia “La persona e il sacro”, l’ultimo saggio di Simone Weil, scritto nel 1943, poco prima della morte. Lei non m’interessa. Come possiamo dimostrare interesse all’Altro, che abbiamo con determinazione allontanato dal nostro sguardo, e dunque dalla nostra attiva responsabilità? È la domanda specchio delle politiche che il nostro paese ha inaugurato in Libia nel 2017 e rinnova di anno in anno. La forma più alta di attenzione, oggi, è cominciare a tradurre in riguardo le parole che usiamo per descrivere i fenomeni che ci circondano. Le parole che usiamo e determinano la nostra comprensione del mondo, lo delimitano, lo amplificano o sintetizzano. Lo rendono spazio di conflitto costruttivo, o al contrario sterile tifoseria. Siamo chiamati a riportare il discorso pubblico sul fenomeno migratorio a un livello di realtà che significa uscire dalla gabbia delle parole vuote, o meglio svuotate del loro significato. Rispetto dei diritti umani non significa nulla se parte da un presupposto di inapplicabilità. Così come la parola trafficante non significa nulla se non inserita in un’analisi realistica delle condizioni di partenza, di un potere gestito dalle milizie, da gruppi armati che non si superano trasformandoli per decreto in forze di sicurezza legittime, o in Guardia costiera, quanto piuttosto inserendoli in un processo di transizione democratica. Ma democratica. Così come la parola migrante e la parola rifugiato sono diventate parole vuote. A furia di difenderli, con l’arma della buona fede applicata maldestramente, abbiamo smesso di ascoltare “quel grido, che sgorga sempre per la sensazione di un contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore”, scriveva ancora Weil. Anche questa è, deve essere, la forma di attenzione all’Altro. Non renderlo vittima, schiavo, abusato e torturato. Usare la lingua, la Parola, per renderlo uguale. Simile e vicino. Pari. Migranti. Linea dura di Di Maio e del governo: “Bloccare le partenze” di Giovanna Vitale La Repubblica, 2 agosto 2020 Nel piano del ministro condiviso con Lamorgese per fermare gli arrivi dei tunisini rimpatri con le navi e sequestro dei gommoni. Ma il Pd vuole nuovi accordi con la Libia. Non ha preso un colpo di sole, Luigi Di Maio. Né ha ripreso a flirtare con Matteo Salvini: anzi semmai è l’esatto contrario. Il pugno duro sui migranti sfoderato dal capo della Farnesina - che, a costo di sfiorare l’incidente diplomatico con la collega Lamorgese, ha minacciato di bloccare i fondi della cooperazione se il governo tunisino non aiuterà l’Italia a fermare le partenze all’origine - è tutto un gioco delle parti interno all’esecutivo giallorosso. Obiettivo: smontare la propaganda del leader leghista, che sulla nuova emergenza in Sicilia ormai punta per riguadagnare il consenso perduto. Suonando lo spartito che i due architravi della maggioranza, M5S e Pd, sentono più congeniale. In una studiata divisione dei compiti che, stavolta, non prevede improvvisazioni. Nel silenzio voluto del premier Giuseppe Conte. Il quale, sebbene coinvolto in tutti i passaggi (almeno due i vertici riservati tenuti in settimana con i ministri dell’Interno e degli Esteri) ha deciso di girare al largo dello scoglio su cui già i gialloverdi rischiarono di incagliarsi. Facendo però trapelare che “la linea di Di Maio è quella di tutto il governo”. Nel giorno del grande sbarco, con 250 migranti approdati a Lampedusa nell’arco di 24 ore e il sindaco Martello pronto ad ammutinarsi se non verrà dichiarato lo stato d’emergenza, è l’ex capo politico dei 5S a prendersi la scena. Artefice di una strategia che gli serve, innanzitutto, per riconquistare il grosso del Movimento tendente sull’immigrazione a destra, ma costretto a ingoiare la revisione dei decreti Sicurezza, malvista pure da Alessandro Di Battista (“Forse alcuni li vogliono modificare per dare soldi alle cooperative più che diritti ai popoli” tuona in tv l’aspirante capo politico). E però anche per rintuzzare l’assalto di Lega e Fratelli d’Italia, schierati contro “un governo incapace e pericoloso” che “vuole tenere i clandestini in Italia”. In stretto contatto con il segretario del Pd Nicola Zingaretti, col quale Di Maio tiene ormai un filo diretto. Come diretto è pure il filo intrecciato con Lamorgese. Appena incrinato dalla sortita, non concordata, sul blocco dei 6,5 milioni destinati alla Tunisia: minacciato negli stessi minuti in cui l’inquilina del Viminale affrontava il nodo degli sbarchi con l’omologo francese Darmanin. Una sbavatura vissuta come scorrettezza istituzionale. Che il giorno dopo obbliga il titolare degli Esteri a una rapida correzione di rotta. E così, mentre Zingaretti lanciava il suo ultimatum sul memorandum con la Libia - “Va riscritto e in tempi brevi” perché “c’è un tema di diritti umani da risolvere” spingendo “l’Europa a promuovere corridoi umanitari, quote di accoglienza, a chiamare l’Onu” - Luigi Di Maio dettava su Fb il suo programma per “fronteggiare il fenomeno migratorio”, analizzato “nel dettaglio con il ministero dell’Interno”. Una sottolineatura non casuale. “Abbiamo le idee chiare, non servono slogan o urla, ma bisogna agire con determinazione” scandisce il capo della Farnesina. “Per questo stiamo già lavorando a un piano specifico che prevede di fermare le partenze dal paese d’origine” mediante “un nuovo accordo di cooperazione migratoria: sequestrare e mettere fuori uso i gommoni; rimpatri più veloci, anche via nave e non solo in aereo; riattivare la redistribuzione dei migranti in tutta Europa; fermare i fondi per la cooperazione se non c’è collaborazione con l’Italia”. Toni più sfumati rispetto a quelli perentori di 24 ore prima. E anche la Ue “deve rispondere concretamente. Non c’è tempo da perdere”, l’esortazione finale. Che consente a Di Maio di chiudere l’incidente con il Viminale. Il Pd è con lui. Guerini, responsabile della Difesa, è pronto a schierare l’esercito per impedire la fuga dei migranti in arrivo. La prima nave quarantena ancorerà a Lampedusa in serata. Tappe di un disegno condiviso. “Ha fatto bene Di Maio a invocare la linea dura”, approva il responsabile Sicurezza del Nazareno, Carmelo Miceli. “Il tema non è chiudere i porti, ma fermare i barchini, i trafficanti di uomini che speculano sulla disperazione. Noi non siamo per l’accoglienza indiscriminata, chi non ha diritto di restare in Italia va rimpatriato subito e gli altri redistribuiti nei in Europa”. Musica per le orecchie del ministro degli Esteri. Che già prepara l’ultimo colpo a sorpresa: una missione in Tunisia con Lamorgese, la commissaria Ue Johansson e l’Alto rappresentante per gli affari esteri Borrell. Il sigillo del suo ingresso tra i grandi d’Europa. Migranti. I decreti sicurezza dietro il focolaio dell’ex caserma di Treviso di Riccardo Bottazzo Il Manifesto, 2 agosto 2020 Covid-19. I migranti hanno manifestato per il rischio contagi. Ora la Lega li accusa. E già a giugno le ong denunciavano il sovraffollamento nel centro, dovuto all’abolizione degli Sprar. Succede quando l’accoglienza finisce in caserma, quando il Covid non esiste e, se esiste, lo diffondono i migranti. Succede al centro di accoglienza situato nell’ex caserma Serena di Dosson di Casier, piccolo borgo a ridosso di Treviso, oggi trasformatosi in uno dei più pericolosi focolai di infezione del Veneto. Gli ultimi tamponi effettuati dall’Ulss tra venerdì e sabato mattina hanno accertato la presenza di 137 positivi su 297 ospiti testati della struttura. Il forte rischio di diffusione della pandemia tra i migranti ammassati nei dormitori comuni dell’ex caserma era già stata denunciata dalle associazioni per i diritti umani sin da metà giugno. Un operatore della struttura appena rientrato dal Pakistan era stato spedito a lavorare senza fargli rispettare il periodo di quarantena. Per paura di perdere il lavoro, nella mensa della struttura, l’uomo nascondeva la febbre con le Tachipirine. Solo al momento del suo ricovero in ospedale, è stato scoperto positivo al Covid-19. I migranti hanno organizzato anche alcune manifestazioni di denuncia del rischio di diffusione della pandemia, ma non sono stati ascoltati dal sindaco di Treviso, il leghista Mario Conte, che si è opposto a qualsiasi ipotesi di trasferimento e di smistamento degli ospiti in strutture più piccole, minimizzando la questione, invocando un impossibile coprifuoco e tacciando gli ospiti di ingratitudine. Il risultato è quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. L’infezione si è propagata e ora quasi metà degli ospiti dell’ex Serena sono stati contagiati. “Ma i migranti costretti a vivere in quel posto orribile che è l’ex caserma Serena non sono untori - ha commenta Monica Tiengo dell’Adl Treviso - Sono le vittime dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Le vittime di un sistema che li vuole prigionieri in uno dei più grandi hub della regione. Fin dalla sua apertura chiediamo che quel posto venga chiuso e che i richiedenti asilo vengano distribuiti in strutture più piccole e dignitose. E invece hanno fatto di tutto per favorire la diffusione del virus, così che oggi possono dare la colpa del Covid ai migranti e trasformare la paura in voti”. Il centro situato negli spazi dell’ex caserma Serena è gestito dalla srl Nova Facility, una società sorta sulle ceneri dell’impresa di costruzione Pio Guaraldo spa, chiusa nel 2017 per fallimento con un buco di svariati milioni di euro dopo aver gettato nel lastrico centinaia di creditori. Un anno fa, la gestione del centro gli era stata soffiata da una cooperativa napoletana, la Marinello. La faccenda finì in tribunale. Il giudice diede ragione alla Nova Facility che tornò a gestire l’ex caserma. La nuova amministrazione di Treviso le ha affidato anche tutti i servizi sociali della città. I migranti positivi dell’ex Serena sono diventati in Veneto un fertile terreno di battaglia elettorale e hanno scatenato nei social la rabbia delle destre che imputano la diffusione del contagio ai migranti. Lo stesso presidente della Regione, Luca Zaia, ha dichiarato: “All’ex caserma Serena c’è un focolaio di coronavirus perché ci sono delle persone che hanno dato vita al focolaio”. Il presidente uscente ha invocato l’immediata chiusura del centro, dimenticandosi che la struttura era stata fortemente voluta da una amministrazione comunale leghista, da una giunta regionale leghista e da un ministro leghista. Glielo ha ricordato il suo antagonista alla carica di presidente del Veneto, Arturo Lorenzoni: “L’abolizione del sistema Sprar, per cui vanno ringraziati Salvini e la Lega, ha creato i presupposti per questi mega centri di assembramento e le condizioni per potenziali situazioni di conflitto. Io credo sia urgente lo svuotamento in sicurezza della caserma Serena, che rappresenta un modello di accoglienza superato e foriero di problemi per chi è accolto e per chi accoglie. Mettiamo in atto un’accoglienza diffusa, gestibile e a misura della dignità delle persone che è anche l’unica capace di fermare la diffusione del virus”. Migranti. Sommersi e salvati, la piazza contro i soldi alla Libia di Angela Stella Il Riformista, 2 agosto 2020 La questione migrazione torna prepotente nella cronaca e nel dibattito politico: in 24 ore due fughe di massa in Sicilia dove centinaia di migranti si sono allontanati dalle strutture che li stavano ospitando. Nel tardo pomeriggio di ieri il Ministro Luciana Lamorgese ha reso noto che quasi tutti quelli che si erano allontanati dalla struttura di Porto Empedocle erano stati rintracciati. Intanto è stato previsto l’invio dell’esercito dell’operazione Strade sicure per i controlli sui centri dei migranti. Il Ministro Luigi Di Maio poco prima aveva lanciato l’allarme: “i migranti in fuga sono questione di salute pubblica. I cittadini italiani, come il sottoscritto naturalmente, devono continuare a rispettare le regole che ci siamo dati e vale lo stesso per i turisti o per chi ha diritto alla protezione internazionale”. Intanto ieri a Roma si è tenuto il flash mob “Sommersi e salvati” promosso in primis da Roberto Saviano e Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto che così ha aperto la manifestazione: “Non vogliamo restare immobili, vogliamo manifestare il nostro dissenso contro la decisione del Governo di rifinanziare per la quarta volta la guardia costiera libica. Non tutta l’Italia si riconosce in questa sciagurata decisione. Serve un ribaltamento della politica finora attuata, fallimentare dal punto di vista dei diritti umani e che neanche ha regolamentato i flussi di migranti”. Centinaia le persone riunitesi a Piazza San Silvestro per chiedere anche di chiudere i centri di detenzione trasferendo i migranti fuori dalla Libia e di promuovere corridoi umanitari per garantire le persone in fuga. Tra i promotori anche Riccardo Magi, deputato di +Europa, che al Riformista ha detto: “è sconcertante il fatto che se il Partito Democratico un anno fa era uscito dall’Aula al momento del voto sulla missione di supporto alla guardia costiera libica sostenendo che l’azione di quella guardia costiera era diventata, come disse Fassino, equivoca, quest’anno di fronte ad una situazione che è peggiorata e dinanzi anche ad un aumento del finanziamento di questa missione ha votato a favore, tranne alcuni colleghi del Pd che sicuramente vanno ringraziati se non altro per avere tenuto una coerenza. La situazione in Libia poi meriterebbe la consapevolezza che la strategia italiana degli ultimi anni non ha prodotto alcuna stabilizzazione, nessuna transizione democratica”. E tra i parlamentari del Pd che non hanno votato con la maggioranza c’è Matteo Orfini che prima dell’inizio della manifestazione ci ha detto: “Qui si sta manifestando una strategia alternativa a quella messa in atto da questo e altri governi. Questo flash mob non è solo un evento culturale, ma un fatto politico che aiuta chi come me sta cercando nel proprio partito e in parlamento di attuare una battaglia per cambiare le politiche migratorie”. Sul fatto che Nicola Zingaretti non abbia spiegato come mai qualche settimana fa l’assemblea del Pd, all’unanimità, aveva deciso di votare contro il rifinanziamento alla guardia costiera libica e poi il voto in aula è stato opposto: “Questo va chiesto a Zingaretti che non ha rispettato il voto unanime dell’Assemblea che lo ha eletto segretario”. E sulla marcia indietro sui valori, quali quello dell’accoglienza, fondanti il Pd, Orfini ha aggiunto: “C’è qualcosa di più in gioco, ossia il rispetto dei diritti umani perché finanziare la guardia costiera libica significa finanziare torturatori e stupratori. Stiamo negando un principio base della sinistra, ossia che dove c’è una violazione dei diritti umani si combatte per sconfiggere quella violazione”. Sul palco è intervenuta anche la senatrice di +Europa Emma Bonino: “Per la terza volta il Senato dovrà decidere sul processo all’ex ministro Matteo Salvini per il caso Open Arms. Nella giunta per l’autorizzazione a procedere è passata la tesi di non autorizzare, adducendo una serie di scuse, già usate le altre due volte. La situazione è complicata. L’ago della bilancia sta a Italia Viva e Renzi, che ci dice oggi (ieri, ndr) di non aver ancora deciso perché le carte non sono chiare”. Sulla questione delle ong, molte delle quali hanno patrocinato l’evento, la Bonino ha aggiunto: “Rispetto ai processi denigratori che hanno subito, ci sono state cinque archiviazioni e nessun rinvio a giudizio, quasi tutte le barche sono state dissequestrate”. A margine dell’evento abbiamo raccolto anche la testimonianza di Ascanio Celestini: “Questo Paese è diventato più razzista che nel passato ma in maniera diversa: siamo un Paese che ha già vissuto i flussi migratori degli italiani che sono andati all’estero ma anche di quelli del sud che si sono spostati al nord. Oggi ci troviamo a vivere come se un pezzo della nostra storia non ci fosse più. E ciò ci fa comodo per commettere gli stessi errori di sempre. Uno su tutti proprio sull’uso delle parole: continuiamo a usare il termine clandestino come se non ci fosse più una persona dietro la parola. Azzeriamo la persona per la sua condizione di vita. Ciò è tipico dei totalitarismi: pensiamo ai nazisti che quando chiudevano le persone nei campi di sterminio li chiamavano pezzi”. Migranti. Tra i poliziotti tunisini: “Anche noi tentati dalla fuga in Italia” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 2 agosto 2020 Viaggio a Sfax, frontiera della migrazione verso il nostro Paese, con un ufficiale della Guardia Nazionale: “Sui barconi troviamo di tutto, anche le armi”. “Su certi barconi troviamo di tutto, hashish, coltelli, spade: la novità di 3 giorni fa è che abbiamo iniziato a vedere anche bombe molotov che gli scafisti erano pronti a lanciare sulla nostra motovedetta. Sono i barconi dei criminali, dei trafficanti, quelli che fanno salire decine di migranti. Ogni barca un guadagno anche di 50/60 mila euro. Poi invece ci sono i barconi delle famiglie. È questa la sorpresa drammatica e dolorosa delle ultime 3 o 4 settimane: papà, mamma, i figli anche piccoli che si imbarcano tutti insieme, di notte con altre famiglie per provare a scappare. Che cosa facciamo allora? Nei casi più drammatici li facciamo tornare a casa, tiriamo da parte i capi famiglia e facciamo loro una lavata di testa come Allah ci impone, una notte in guardina, ma la moglie e i figli li lasciamo andare. Agli altri ci pensano i giudici, i tribunali: li denunciamo tutti, con i criminali nessuna pietà, chi ha precedenti va in carcere sicuro per rimanerci”. Una strada dopo Sfax, dopo una giornata interminabile. In auto è salito il colonnello W., un ufficiale della Guardia Nazionale. Prima in auto da Tunisi, 4 ore fin dentro questa che è la seconda città ed era la capitale industriale del Paese. Adesso l’economia tunisina è malata, avrebbe bisogno della terapia intensiva. Attorno al porto, complice il secondo giorno di festa dell’Aid al Adha, il deserto di cemento e di metalli, la devastazione e l’abbandono sono brutali. Un colpo al cuore e allo stomaco. Sembra una pustola infetta, una cancrena al centro della città e di quello che era il suo business principale, il porto. Sfax è come un ventaglio aperto e disteso sul mare. Al centro c’è il porto. La caserma della Guardia Costiera, che in Tunisia è gestita dalla Guardia Nazionale, di mattina è deserta. Le motovedette sono tutte ormeggiate dopo i servizi della notte. “Parlate con il portavoce a Tunisi”, dice il piantone al cancello. Ma poi arriva il colonnello, è un amico di famiglia di qualcuno, lavora in un altro porto, e sale in auto sull’autostrada al ritorno. “Si, è vero, tutto quello che si dice sulle famiglie tunisine che partono, è vero”, dice il giovane ufficiale vestito in bermuda e maglietta firmata nel giorno di festa. “La migrazione ha ormai due facce: quella dei vari tipi di criminalità che abbiamo conosciuto per anni, i cui capi sono tutti in galera, mentre poco alla volta individuiamo i capi dei nuovi gruppi e proviamo a metterli in carcere. Siamo sempre troppo lenti rispetto alle nuove mafie, ma li inseguiamo e prima o poi li catturiamo. Poi ci sono le famiglie, la gente di un villaggio, che si unisce, compra la barca da un pescatore, e prova a partire. I ragazzi di un bar, che fanno lo stesso con un piccolo fuoribordo. Rotta Nord Est per l’Italia”. Il colonnello racconta qualcosa di drammatico: “Il momento peggiore sono i salvataggi notturni: quando le barche, i gommoni si sfasciano o finiscono in avaria, e loro che non sanno nuotare, annaspano, urlano, bevono affogano. È la morte ogni giorno e ogni notte quella che inseguiamo, che proviamo a tenere lontana dai nostri fratelli tunisini e dagli africani che troviamo sulle barche”. Chiediamo: in Italia sono girati video di “propaganda”, di tunisini collegati agli scafisti che invitano chi è a casa a partire. Che assicurano i servizi dei loro colleghi trafficanti. “No, io non ne so niente ancora: possono esserci, ma non serve la pubblicità. È la crisi economica che spinge a partire, insieme alla crisi politica. La rivoluzione è stata bellissima, ma con la rivoluzione non si mangia. E loro sperano di mangiare nel Paradiso Europa”. Cosa dice del governo italiano che blocca i fondi di aiuto al vostro governo, che vi chiede di fare di più? “Che qui da noi vige la legge del più forte, i discorsi gentili non pagano, quindi fanno bene a essere duri. Ma che cosa possiamo fare? Siamo senza governo, la politica litiga, la rivoluzione sta perdendo la sua forza e il sostegno del popolo. Il popolo più povero non crede più a nulla, e parte”. Il bar “La Calma”, uno dei mille, di Sidi Mansour. Rispetto a Sfax, Sidi è una specie di Ostia, un quartiere gigante della città, soltanto più a Nord. È da questa costa che partono i migranti, il primo punto di imbarco di tutta la Tunisia. In questo bar e in tutti gli altri non si parla di altro: calcio, crisi economica e voglio di scappare. Cinque ragazzi: tre hanno 17 anni, uno 18, l’ultimo 21. Il più grande racconta: “Sono elettricista, ho iniziato a lavorare, il padrone non mi ha pagato, mi ha preso in giro per mesi. Ho litigato, sono senza lavoro”. Gli altri: nessuno di loro sa perché continua a studiare (se e quando le scuole riapriranno) e cosa faranno nella vita. “Partire? Tre di noi non vogliono, due ci stanno pensando. Ma non te lo diciamo, nessuno lo dice a nessuno: il giorno prima sei qui a prendere il caffè, la notte sei sulla spiaggia per partire”. “Io ci ho provato tre volte, la terza sono caduto, mi sono fratturato una caviglia e adesso aspetto. Io provavo a inserirmi nei grupponi che si imbarcano di notte, aspettavo con loro, provavo a confondermi fra gli altri, per partire senza pagare. Al primo segnale di luce si esce dalla casa, dal rifugio in cui aspetti la notte. Il secondo segnale di luce vuol dire che la barca è arrivata, che devi correre per imbarcarti”. Ma se avete capito che è così rischioso, che tutto è così disastroso, perché ci provate ancora? “Un cugino era un Sdf, senza domicilio fisso. Non aveva nulla. Ha provato, ha sofferto, ci è riuscito, adesso è in Italia, ha una moglie e un figlio, lavora come pittore nell’edilizia”. Racconta un altro: “Il mio amico era minorenne, è partito, è arrivato in Italia: la sorella è venuta a prenderselo dal Belgio, ce l’ha fatta. Adesso vive”. Vive, come se prima non avesse una vita, perché questa non è una vita. Il colonnello W., di cui conosciamo il nome, si passa una mano sul volto sudato. Chiude gli occhi. “Ho idee che non sono le mie, ho il ricordo della Tunisia sotto la dittatura, qualcuno la rimpiange, non io, ma dimmi, giornalista, dove andremo a finire con questa democrazia? Partiremo anche noi poliziotti?”. Droghe. Proibizionismo, fabbrica di illegalità di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 2 agosto 2020 Federico Varese, ordinario di Criminologia all’Università di Oxford e studioso di mafie internazionali, spiega la ‘funzionè della caserma Levante di Piacenza. Non certo un unicum. Il caso della Caserma Levante di Piacenza non è certamente il primo in Italia. Episodi di “devianza” all’interno delle Forze dell’ordine ne abbiamo conosciuti tanti. A partire da quello del Generale Ganzer, del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, risultato prescritto in Cassazione solo per l’applicazione della “lieve entità”. A livello internazionale conosciamo in Messico la potenza dei grandi cartelli che hanno di fatto sotto controllo le polizie locali. Nelle Filippine il capo della polizia di Duterte si è dovuto dimettere per aver coperto la rivendita al mercato nero di circa 100 chili di metamfetamine sequestrate. Come i mercati illegali pervadono le Istituzioni e perché la domanda di regolazione di questi è preferibile sia soddisfatta dallo Stato piuttosto che dalle mafie e dai corrotti? Ne parliamo con Federico Varese, professore ordinario di criminologia all’Università di Oxford e autore di numerosi studi e libri sulle mafie internazionali; l’ultimo è Vita di Mafia, pubblicato da Einaudi. Che impressione le ha fatto vedere le foto dentro la caserma di Piacenza? È una storia veramente grave. Drammatica per come mina la fiducia che si dovrebbe avere nelle istituzioni. Va detto subito che questa vicenda mostra come la mafia non sia l’unico attore importante nel mercato della droga. Laddove le mafie non sono forti entrano in campo altri soggetti, in questo caso purtroppo autorità deviate. Non so se sia un caso isolato, di certo le notizie dell’inchiesta ci svelano un presunto tentativo di controllare in maniera monopolistica il mercato della cannabis a Piacenza: secondo l’accusa, questi carabinieri non si dedicavano solo allo spaccio, ma volevano “controllare” il mercato, decidere chi poteva spacciare chi no. Questo è un ruolo tipico delle mafie: infatti, cosa sono le mafie? Organizzazioni che danno il permesso ad altri di operare, organizzazioni di governo dei mercati. I mercati illegali quindi non solo producono mafia e la arricchiscono, ma producono anche forti opportunità di corruzione per le istituzioni. Un mercato illegale genera domanda di mafia, che può essere soddisfatta da soggetti diversi dalle mafie. Siamo quindi al paradosso che anche il mercato illegale debba essere “regolato”... Certo. E non dimentichiamo che è un mercato vastissimo. Il vero salto di qualità per le mafie nostrane è stato l’ingresso nel mercato della droga. Fino ad un certo punto la mafia siciliana ebbe un ruolo limitato nel contrabbando di sigarette (anche in questo caso cercando di controllare il mercato in Sicilia). Poi entra nel traffico di eroina tra Oriente, Turchia e Usa, sfruttando i contatti con i cugini americani, e tutto cambia. La guerra di mafia degli anni Ottanta (1981-1984), detta come La Mattanza, che fece centinaia morti, nacque da dispute tra mafiosi relative a partite di droga mandate negli Usa, come racconta bene Salvatore Lupo. Quella guerra segnò l’ascesa dei Corleonesi. Sì è parlato forse più dello spaccio e dei festini, che delle ben più gravi violenze che sarebbero state perpetrate dai Carabinieri. Come se lo spiega? La stampa italiana mi sembra non abbia sottolineato a sufficienza l’efferatezza della violenza nei confronti di persone completamente innocenti. Ci si è focalizzati appunto sul fatto che i carabinieri fossero coinvolti nello spaccio di droga, mentre i magistrati sembrano intenzionati ad usare la legge sulla tortura. Ripeto: presunti atti di tortura in una caserma dei Carabinieri. Va aggiunto che le vittime non sono scelte a caso. Nel caso di Piacenza si arrestano immigrati, si impauriscono, minacciandone l’arresto, persone che lavorano nel mondo della prostituzione. Migranti e persone “deboli” sono gli obiettivi, che diventano ancora più deboli grazie ad un contesto politico e un dibattito pubblico che criminalizza queste persone. In Italia c’è un clima politico tale che rende più facile prendersela con questi soggetti, e quindi si genera una sorta di colpevolezza presunta e una certa impunità mediatica a priori. Passa l’idea che gli immigrati siano sempre violenti. Al di là del clima politico italiano quello degli arresti discriminatori è un tema diffuso in tutto il mondo, Usa in testa, come abbiamo avuto modo di parlarne su Fuoriluogo più volte... C’è l’impressione che in alcuni Paesi gli arresti legati alle droghe facciano parte di un sistema di repressione sociale che attraverso la scusa dell’arresto per piccolo spaccio o consumo di droghe perpetuino antiche discriminazioni nei confronti delle minoranze. Queste politiche repressive riducono la fiducia di queste minoranze nei confronti dello Stato e creano delle enclave sociali ed etniche. Poiché non si fidano più dello Stato, questi cittadini non si rivolgono alle autorità per denunciare reati. Pensi che ci sono alcune zone dell’Inghilterra dove non viene denunciato alcun reato nel corso di un anno: o vivono in un mondo utopico dove il crimine non esiste, oppure il crimine esiste eccome ma la sua repressione sfugge completamente alle istituzioni legittime. In questi casi la funzione di “polizia” viene svolta dalle gang e dalle famiglie criminali. Leap, l’associazione di operatori di polizia per la riforma delle politiche sulle droghe, sottolinea sempre che, oltre a generare corruzione in sé, il proibizionismo crea opportunità anche quando è efficiente e fa il suo lavoro: arrestando uno spacciatore libera quel mercato (che esiste prima ed esisterà anche dopo) per un altro (più furbo o più potente). Cosa che non avviene quando si arresta un ladro o un violentatore. Che ne pensa? Sono d’accordo. Arrestare uno spacciatore non serve a nulla. Va aggiunto che chi spaccia è di fatto il venditore di una merce, e quindi di norma evita di usare la violenza (questa viene invece usata da chi vuole controllare il mercato e ingaggia guerre per il controllo del territorio). In Inghilterra il 69% dei detenuti hanno commesso crimini non violenti, e costano circa 50 mila sterlina l’anno all’erario. In prigione poi imparano a diventare violenti per sopravvivere, o diventano a loro volta vittime. Il carcere non può essere una soluzione per chi commette reati non violenti. Molto meglio che queste persone continuino a lavorare, pagare il mutuo, andare a scuola, e lo Stato può controllarli senza arrestarli. Anche nel caso di Piacenza abbiamo scoperto poi che la supposta violenza di questi spacciatori pare fosse inventata per giustificare l’arresto. La caserma Levante sembra quindi essere un’esemplificazione plastica del Darwinian Trafficker Dilemma. Il proibizionismo è utile ai consorzi criminali più potenti e organizzati: ripulisce il mercato dai competitor meno esperti e permette quindi ai primi, anche grazie alla loro capacità corruttiva, di operare in una situazione di oligopolio... Sì, questo mi permette di sottolineare un’altra cosa: mi sembra incredibile che il numero di arresti sia considerato un criterio per avere premi o far carriera. L’idea che dal numero di arresti derivi più sicurezza è pura follia, che genera degli incentivi perversi nelle organizzazioni preposte alla repressione. Bisogna ripensare immediatamente questi criteri. Cambiare i vertici dei carabinieri o costituirsi parte civile nei processi non serva a nulla se non si modificano gli incentivi per fare carriera. Va aggiunto che più persone vengono arrestate, più si rafforzano le gang che controllano le prigioni, come dimostrano gli studi sulla carcerazione di massa negli Usa e in America Centrale. Oltre un certo limite, la teoria della deterrenza (non delinquo perché ho paura di essere arrestato) perde ogni senso se la probabilità di essere arrestato cresce a dismisura! In questo periodo sto studiando come nacque nei gulag sovietici la fratellanza criminale alla base della mafia russa. Beh, nacque proprio perché il regime sovietico arrestava in maniera indiscriminata sotto Stalin, e per gestire il gulag l’amministrazione si rivolse ai criminali stessi. L’Unione Europea è solo una questione di soldi di Massimo Cacciari L’Espresso, 2 agosto 2020 Nessuna ambizione di grande politica, nessun destino comune. Rimane solo uno spazio economico di convenienze reciproche. E di questa Unione Giuseppe Conte è espressione perfetta. Dalle defatiganti giornate di Bruxelles si esce con un quadro finalmente chiaro di ciò che è ancora Europa e di ciò che aspetta noi italiani. Un utile e definitivo esercizio di disincanto. In Europa non esistono più famiglie politiche, capaci di riconoscersi da una patria all’altra, e di esprimere strategie comuni. Esistono forze politiche e leader che amministrano, bene o male, gli interessi della loro nazione, o quelli che ritengono tali. Attenti, certo, a non far saltare il banco, poiché comunque quegli interessi sono legati alla sopravvivenza dell’unione monetaria, del libero mercato. La Gran Bretagna può far da sé, “facendo” con gli Stati Uniti e l’ex Commonwealth, nessun altro Paese europeo lo potrebbe. L’integrazione economica è ormai pura e semplice necessità per tutti. Ed è rimasto l’unico collante. Capitolo chiuso su politica estera “in grande”, su difesa comune, su convergenza in politiche sociali e fiscali. Chi oserà più toccare l’Olanda frugale, paradiso fiscale, su tali questioncelle? Quale socialdemocratico oserà porre problemi riguardanti i diritti agli Orban di turno? La storia europea come “battaglia di idee”, confronto tra visioni diverse sulla “missione” del nostro continente, non solo dopo le grandi tragedie novecentesche, ma anche dopo le discussioni su “radici e costituzione”, è finita. Va detto con sobrietà e senza vacue nostalgie. Vivremo in uno spazio di mercato, e in questo spazio ognuno è necessario all’altro. La nostra miseria culturale e politica sarà la nostra forza. Conte lo ha compreso e credo se la sia giocata bene: nessun “virtuoso” poteva ammazzare l’Italia senza suicidarsi. Conte è l’espressione perfetta, più di Macron, infinitamente più della Merkel (i decisori in ultima istanza), di questa fase storica dell’Unione, in cui più nulla valgono idee o ideologie, visioni o strategie, destre o sinistre, ma soltanto l’amministrazione di uno spazio economico che deve restare comune per resistere nella competizione globale. “Resilienza” è diventata la parola chiave; il “regno dei fini” non è di questo mondo, può darsi torni ad esserlo in futuro, ma chissà attraverso quali catastrofi. E veniamo a noi, forti di questa leadership perfettamente “all’altezza” dei tempi. Anche nel mascherare la dura realtà e nel far apparire pieno il bicchiere mezzo vuoto. Il pubblico viene ubriacato da qualche mese con piogge di miliardi, che si fanno apparire come un’abile scoperta del tesoro. Gli aiuti diretti, in attesa del Mes, e a fondo perduto sono 81 miliardi, il resto sono prestiti che dovremo rimborsare (naturalmente, dicendo “noi” intendo in grandissima misura i nostri figli e nipoti). A questi andranno aggiunti tutti quelli già decisi e destinati a aumentare drammaticamente il nostro debito, che ha continuato a crescere, impavido, malgrado proclami e promesse, dalla nascita dell’euro in poi, e non certo per colpa del Covid. Conte dice: cambieremo volto all’Italia. È da temere sia abbastanza inevitabile almeno tentare di farlo, se quei quattrini europei si vogliono davvero ottenere. In autunno dovremo infatti presentare un piano nazionale di riforme per accedere al Recovery Fund, o altrimenti, per quanto il dispositivo dell’accordo sia abbastanza lasco, e non preveda certo interventi tipo Grecia, le procedure potrebbero seriamente incepparsi, aggravando ulteriormente il costo del nostro debito. Dubito che gli “olandesi” di ogni parte si accontenteranno di documenti tipo “stati generali” e del loro scatenato “occorrismo”. Dubito che basteranno ancora le task forces. Forse sarà necessario passare dai compromessi e rinvii alle scelte e decisioni. Bisognerà cambiare il volto all’Italia per la semplice ragione che la Commissione deciderà come sviluppare il Recovery Fund in base alla nostra virtù nel perseguire i ben noti obbiettivi che da anni ci vengono invano indicati, e che riguardano pensioni, lavoro, pubblica amministrazione e semplificazione, sanità, scuola. Il Governo sarà chiamato a provvedere con atti concreti su queste materie. E l’Europa - quella Europa economico-mercantile di cui ho parlato - ha perfettamente ragione nell’esigerlo. È vero che non può fare a meno dell’Italia, ma è altrettanto vero che non può permettersi di affogare con lei. Insomma, l’Europa chiederà di realizzare quegli interventi di riforma di struttura che non siamo riusciti neppure ad abbozzare nell’ultimo trentennio, pur declamandone sempre la necessità. Su ognuno di questi argomenti le forze politiche dell’attuale coalizione, per non dire del Parlamento, sono fraternamente divise al loro stesso interno. Su alcuni in modo addirittura clamoroso. In autunno si dovrà decidere, o tutto a Bruxelles potrebbe tornare in discussione. Potrà essere Conte a guidare l’inevitabile fase 3, dopo emergenza virus e trattative per il Fondo? Sulle pensioni è d’accordo con Boeri o con Salvini? Sul lavoro pensa che il modello sia il reddito di cittadinanza alla Di Maio e navigators? E sulla scuola, università, formazione è favorevole all’attuale modello burocratico, centralistico, statalistico? Pensa di dover riprendere o meno un disegno di riforme istituzionali, discussione che sembra molto astratta e invece è alla base di ogni semplificazione amministrativa e rafforzamento delle procedure decisionali? Con chi e come darà vita a un’effettiva spending review? Impossibile rinviare ancora, tergiversare, nuotare lungo costa, assecondando le correnti. O avverrà una “trasfigurazione” dell’attuale Governo, o si aprirà una crisi dai rischi enormi. O questo Governo saprà rifondarsi come un’autentica coalizione, con energie e personalità nuove al suo interno, o anche la pura e semplice gestione delle nostre finanze finirà fuori controllo e ci troveremo costretti a interventi di emergenza con conseguenze sociali di imprevedibile gravità. Niente paura - dove cresce il pericolo possono crescere anche le condizioni per la “salvezza”. Libia. Il racconto choc dall’hangar della morte: “Sevizie e sadismo: poi la rivolta nel sangue” di Filippo Rossi L’Espresso, 2 agosto 2020 Un gruppo di bengalesi in un centro di detenzione illegale vicino Tripoli dopo giorni di torture senza fine reagisce contro il criminale libico che li teneva prigionieri. Con esiti terribili. Hanno ucciso il “maledetto”, hai sentito il colpo di pistola, no? Ora siamo in pericolo..., grida affannata Amandine, in una registrazione telefonica. Si trova nel mezzo di una rivolta di migranti in Libia. Qualche minuto prima, una trentina di loro si sono ribellati alle continue e insopportabili sevizie subite da un criminale libico (soprannominato “maledetto”), in un centro di detenzione illegale, un hangar nei pressi di Tripoli. Amandine è una migrante camerunese. Per giorni è rimasta imprigionata insieme ad altre 300 persone ammanettate, continuamente torturate e testimoniando atti di rara crudeltà. “La situazione è degenerata”, racconta Anne, altra testimone camerunense: “Quando un bengalese, che non ne poteva più di soffrire e urlare dal dolore, ha strappato una frusta dalle mani del libico che lo continuava a picchiare imperterrito”. La rivolta, secondo Amandine, è partita per un errore del torturatore libico, si chiamava Mohamed: “Essendo il giorno di Eid, la fine del Ramadan, a tutti i musulmani, e quindi anche ai bengalesi, sono state tolte le manette in segno di compassione. Ma si sono dimenticati di rimetterle. I bengalesi hanno neutralizzato Mohamed, picchiandolo a sangue, mentre lui cercava di prendere la pistola e sparare. Gli hanno strappato anche la pistola dalle mani, prima di prendere un cavo da un ventilatore e strangolarlo, squarciandogli lo stomaco e infilandogli un manico di doccia nelle interiora. In seguito hanno sparato a uno dei ragazzini somali che lo aiutavano a torturarci, obbligati perché non potevano pagare il riscatto. Non ho mai visto tanta crudeltà”, commenta Anne. Amandine si ferma per respirare, prima di continuare il racconto: “È entrata una guardia e l’hanno uccisa, prendendogli il kalashnikov. Poi è toccato al cuoco, un altro ragazzino somalo, entrato nell’hangar per vedere cosa stesse succedendo. Bam. A terra. Freddato con un colpo di pistola in testa. Altre guardie però sono riuscite a rinchiuderci. Eravamo in trappola”. I bengalesi erano arrivati nell’hangar due giorni prima dell’Eid. “A noi facevano molto male, picchiandoci ovunque con fruste e bastonate sulle mani aprendoci le piaghe infette e piene di pus. Le manette scavano nella pelle. Ma ai bengalesi, beh… non saprei come spiegarlo… Noi, in confronto, non avevamo visto nulla”, rivela Amandine con voce spezzata. Le torture, secondo le ragazze, erano talmente dure nei loro confronti che molti perdevano conoscenza. A Amandine e Anne, come agli altri subsahariani presenti, avevano chiesto 5mila dollari di riscatto, continuando a torturarle per giorni. Ai bengalesi invece, 15mila. Anche loro, come tutti gli altri, erano costrette a chiamare continuamente le loro famiglie supplicando di mandare il denaro, mentre venivano seviziate. Ma una somma del genere, in Africa subsahariana, non è facile da raccogliere in poco tempo. “Sapevamo benissimo che non avremmo mai potuto avere quei soldi” - dice Anne - “Mi ero già rassegnata a morire”. Il libico, secondo le loro voci, veniva ogni sera dopo le 10 e fino alla mattina continuava a torturare tutti. “Lui chiamava le nostre famiglie, inviando fotografie di noi ammanettate o vocali minatori”. Le famiglie camerunensi, hanno registrato tutto. “Il “maledetto” chiedeva sempre di pagare su conti in Somalia, Egitto, Dubai”, riferisce Amandine, dicendo che ogni volta che qualcuno pagava, cambiavano il destinatario. Le famiglie però, hanno mantenuto tutti i documenti con nomi e cognomi dei destinatari delle somme. “Il giorno prima della rivolta, ci hanno persino detto di mandare i soldi a questo nome - Hawo Omar Roble, con il numero whatsapp +46722882620. Diceva che era in Svezia, a Stoccolma”. Un nome che non può essere falsificato visto che chi ritira i soldi, tramite agenzia come Moneygram o Western Union, deve presentare un documento originale. A dimostrazione che i traffici sono controllati anche da paesi dell’Unione Europea tramite agenzie ufficiali. Ma ricordare fa male. Anne e Amandine piangono ancora. Perché quello che hanno vissuto il giorno della rivolta, ha preso una piega ancora più macabra. “Dopo aver ucciso il libico, i bengalesi hanno preso il suo telefonino. Abbiamo potuto chiamare persone per dire dov’eravamo e cosa stava succedendo. Avevamo un contatto a Tripoli, un fratello. Ingenuamente, abbiamo chiamato anche la polizia”, riferisce Amandine. Il contatto a Tripoli, L., ha registrato la conversazione come prova. “Presto però, altre guardie hanno accerchiato l’edificio e hanno cominciato a sparare ininterrottamente verso di noi. Dopo ore, ci hanno costretti ad uscire”, continua Amandine. “I bengalesi dicevano che era una trappola. Cercavano di convincerci a non farlo. Ma rimanere era firmare la propria morte”, ribatte poi Anne: “Solo chi era ferito e non poteva farcela, è rimasto dentro con i bengalesi. C’erano molti feriti per via delle continue torture. Avevamo tutti piaghe infette e aperte da giorni. Alcuni avevano subito talmente tante torture, frustate, bastonate, che non ragionavano più. Un sudanese, per aver nascosto qualche soldo, aveva incassato talmente tante botte che alla fine abbaiava come fosse un cane. Il libico lo ha ucciso, innervosito, lasciando il suo cadavere imputridire per tre giorni di fianco a noi. E non è stato l’unico. Altri avevano proiettili nel corpo e non riuscivano più a ragionare dal dolore”. Dopo essere uscite dall’hangar, Amandine e Anne hanno confermato che “solo cinque bengalesi dei circa trenta sono usciti insieme a noi. Una volta fuori, i libici hanno chiesto chi avesse ucciso il “maledetto”. E tutti hanno gridato che erano stati i bengalesi”, afferma Anne. Amandine ricorda i dettagli: “Ci hanno portati in una casa, a un centinaio di metri. Stipati, avevamo una finestrella per vedere cosa accadeva fuori. All’improvviso, una serie ininterrotta di boati e colpi di mitragliatore. Senza fine. Per ore. Dal buco della finestra vedevamo che stavano lanciando delle granate nell’hangar dove erano rimasti i bengalesi e i feriti”. Le due migranti faticano a spiegare quello che è toccato loro vedere nei minuti a seguire. “I bengalesi sopravvissuti in qualche modo al bombardamento sono stati portati fuori. I libici, di fronte ai nostri occhi, li hanno fatti a pezzettini. Letteralmente, li hanno mutilati ancora vivi, prima di ucciderli”. La polizia, secondo Amandine, è venuta nella stanza dove erano rinchiusi. “Ci hanno gridato addosso. In seguito se ne sono andati. Abbiamo capito che erano complici”. Quella di Amandine e Anne è una storia raccapricciante. Si sono conosciute quando sono arrivate in Libia, nel sud, insieme a un gruppo di persone. “Pensavamo di avercela fatta. Soprattutto perché i primi giorni, quando dei libici ci hanno trovati in una casetta sperduta, ci trattavano bene, spostandoci ogni giorno per ore e ore con la macchina”. Fino a quando arrivano nell’hangar della morte. Il benvenuto, questa volta, è servito con la frusta. “L’ambiente era diverso”, ricorda Amandine. “La puzza di cadavere e di marcio penetrava nelle narici, era insopportabile. Ci hanno preso tutti i nostri averi chiedendoci un numero di telefono di un parente. Non abbiamo opposto resistenza perché ci picchiavano”. Dopo cinque o sei giorni di permanenza e di sofferenza sono entrati i bengalesi. Poi la rivolta. Amandine e Anne sono riuscite a sopravvivere. Nascoste in un ghetto della capitale Tripoli, oggi la loro volontà è sempre la stessa: raggiungere l’Europa. Ma per ora, traumatizzate, devono usare la cenere delle sigarette per curarsi le piaghe, viste le scarse risorse. Forse una cura più sciamanica che con un effetto reale. Stati Uniti. Il 26 agosto la prima esecuzione federale di un nativo-americano di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 agosto 2020 Lezmond Mitchell, giudicato colpevole di un duplice omicidio, verrà messo a morte il 26 agosto negli Usa. Una brutta notizia, anche c’è ancora tempo per fermare il boia, e purtroppo la conferma che le tre condanne a morte federali eseguite in meno di una settimana a luglio dopo una moratoria di 17 anni, hanno segnato una chiara inversione di rotta. L’aspetto particolare è che Mitchell è l’unico nativo-americano presente nei bracci della morte federali e sarebbe il primo nativo-americano nella storia moderna degli Usa a subire l’iniezione letale per un reato federale. Mitchell fa parte della Nazione Navajo. Sulla base delle leggi federali, il governo statunitense non può chiedere la condanna a morte per un reato capitale commesso su terre native senza il consenso della tribù di appartenenza. Eppure la condanna a morte è stata confermata in ogni fase della procedura. Siria. Prove di fuga verso l’Europa per le vedove combattenti del Califfato di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 agosto 2020 Dal campo di Al Hol, dove la guerra santa non è mai finita, storie di donne e bambini fra tende e filo spinato: una polveriera pronta ad esplodere. Qui potrebbe nascere una nuova Isis. Mentre i familiari superstiti dei “martiri” meditano di tornare a combattere. “Al Hol: il più pericoloso campo di detenzione al mondo”. Così lo definirono gli operatori Onu e delle altre agenzie umanitarie internazionali al momento della caduta dell’ultima roccaforte territoriale di Isis nella cittadina siriana di Baghouz, nel marzo 2019. Sono trascorsi sedici mesi. Ma ben poco è cambiato. Anzi, Al Hol resta un inferno, una polveriera pronta ad esplodere, il cuore pulsante di nuove generazioni di estremisti potenziali abituate a considerare “santi martiri” i kamikaze dell’Islam. Tende e baracche circondate da fili spinati, condizioni igieniche a dir poco precarie per una popolazione che era parte del folle progetto di rifondazione radicale dell’universo musulmano sunnita. Certo un dramma preoccupante per le forze curde di guardia e soprattutto per i loro prigionieri. Il mondo, distratto dal coronavirus negli ultimi mesi, si è largamente dimenticato di loro. Ma la tragedia umanitaria sta ponendo le basi per un Isis-bis. A popolarlo sono soprattutto bambini. Giocano irrequieti tra la polvere afosa d’estate pronta a trasformarsi in un mare di fango sporco con le prime piogge. Assieme a loro migliaia di donne sigillate dalla testa ai piedi nelle abaya lunghe e nere, con i visi coperti che lasciano liberi solo gli occhi a lanciare sguardi variabili dall’implorare aiuto e libertà ai lampi d’odio. Sono per lo più gli orfani e le vedove delle migliaia di jihadisti caduti nelle lunghe battaglie combattute in nome del “Califfato”. Spesso neppure loro sanno comunque se i padri, i fratelli più grandi e i mariti siano morti, feriti, oppure prigionieri a loro volta nelle carceri dure di Rojawa (la regione autonoma curda nel Nord-est siriano). La maggioranza in quello di Hasakeh, non lontano da Al Hol, ma in realtà irraggiungibile per loro. Quante sono le persone che vivono nel campo? “Il numero va verificato. Tante sono scappate, ci provano quotidianamente e ogni settimana qualcuna ci riesce”, rispondono le autorità curde. Dal 10 giugno stanno tentando di condurre un censimento tra mille difficoltà. Negli ultimi due anni abbiamo visitato il campo quattro volte. La penultima al momento della caduta di Baghouz e più di recente, il 27 ottobre scorso, solo poche ore dopo il blitz americano nella zona di Idlib che condusse all’uccisione del leader indiscusso di Isis, Abu Bakr al Baghdadi. Allora si parlava di circa 75.000 prigionieri, tra i quali 29.000 bambini e di loro almeno 9.000 figli di volontari stranieri. I dati più aggiornati su Al Hol riportano adesso una popolazione diminuita a circa 70.000 persone. “I più pericolosi sono i volontari stranieri, in tutto 14.000, isolati in un campo separato da siriani e iracheni. Arrivano da una sessantina di Paesi, compresi Francia, Germania, Belgio, Stati Uniti, Cecenia, Algeria, Tunisia, Indonesia. Pochi governi accettano di rimpatriarli. Ma noi qui non siamo in grado di gestirli”, denunciano i dirigenti di Rojawa. Secondo il colonnello Myles Caggins, portavoce del piccolo contingente americano (meno di 800 soldati) di stanza nella regione, “parecchie donne assieme ai loro figli non hanno affatto abbandonato l’ideologia di Isis e vorrebbero rifondarlo”. Visitando il campo non è difficile trovare bambini tetraplegici che cercano di partecipare in carrozzella ai giochi dei compagni. Ogni spazio libero diventa un campo da pallone. Tanti sono senza scarpe, hanno i vestiti sporchi. Piccoli feriti di battaglie che non hanno scelto. Altri si industriano in commerci al dettaglio, vendono carte di ricariche telefoniche, frutta, verdura, aiutano la madre che accovacciata a lato della tenda cerca di improvvisarsi lavandaia utilizzando l’acqua raccolta in secchi dalle latrine impiantate dall’Onu. Qualcuno si è costruito un fucile di legno e giura di vendicare con le armi la morte del padre. In fondo non è strano, tutto il loro mondo è racchiuso nella guerra santa. Suicidarsi contro gli “infedeli” fa parte della loro educazione. “Non importa quali colpe abbiano commesso i loro genitori. Questi bambini restano vittime innocenti e vulnerabili, vanno salvati da Al Hol”, sostiene tuttavia Dareen Khalifa, funzionario del International Crisis Group. Quando incontrano un giornalista arrivato “da fuori” molte donne chiedono di poter essere aiutate a partire. “Qui non ci vogliamo più stare. Potete dare i nostri nomi all’agenzia per i profughi?”, domandano. Ma capita anche di incontrare giovani cecene che assolutamente non vogliono tornare a casa nel timore di essere chiuse in carcere o peggio. “Isis risorgerà. Abbiamo subito una sconfitta solo temporanea. Non sappiamo se al Baghdadi sia stato davvero ucciso. Potrebbe essere solo propaganda. E comunque poco importa, un altro Califfo prenderà presto il suo posto per condurre la missione della guerra santa”, sostengono sprezzanti un paio di loro parlando in inglese corretto. La novità sta però nel traffico crescente di donne e bambini che bande di contrabbandieri riescono a fare fuggire da Al Hol. Prezzo medio tra i 3.000 e 4.500 dollari a persona. Secondo le autorità curde, centinaia di straniere tutt’ora radicalizzate sarebbero già scappate verso la Turchia alla volta dell’Europa. Sembra che tra le cellule europee di Isis ancora attive sia nata una rete di raccolta fondi per pagare le loro fughe. I loro nomi sono rivelatori: “Giustizia per le sorelle”, oppure “Luna di miele a Vienna”, o ancora “Liberiamo le donne prigioniere”. Tra quelle scappate vi sarebbe anche la 32enne Hayat Boumedienne compagna di Amedy Coulibaly, uno dei massimi responsabili nel gennaio 2015 dei sanguinosi attentati terroristici a Parigi contro Charlie Hebdo e una macelleria kosher, poi ucciso dalla polizia francese. Si credeva che Hayat fosse morta a Baghouz, ma lo scorso ottobre era stata vista tra le baracche di Al Hol e sarebbe fuggita assieme a 13 donne francesi decise a rientrare in Europa. Pakistan e Afghanistan, al confine ora si spara anche per il coronavirus di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 agosto 2020 Un piccolo incidente ha causato un assurdo scontro armato. Una delle conseguenze più gravi del protrarsi per anni di un sanguinoso conflitto è il permanere della logica della violenza. Si ricorre alle armi anche quando non servirebbe. Al sorgere della prima difficoltà diventa normale pensare che la soluzione stia nella forza. Come è avvenuto tra giovedì sera e venerdì mattina a Spin Boldak, uno dei più importanti passaggi doganali tra l’Afghanistan meridionale e il Belucistan pachistano. Causa misure precauzionali contro il coronavirus, la frontiera era chiusa. La gente ha iniziato a manifestare. Improvvisamente, la scintilla della guerra. Un bombardamento gravissimo da parte delle artiglierie pachistane: sembra abbiano causato almeno 15 morti e oltre 80 feriti tra i civili afghani. Un massacro. Gli alti comandi a Kabul sono in allarme rosso. Erano giorni che migliaia di civili si accalcavano, specie nella parte afghana, per attraversare. Non è strano. Siamo nel cuore delle regioni pashtun. Bandiere diverse ma stessa etnia, stessa lingua, stessi cibi, stessi abbigliamenti e stessa fede religiosa in entrambi i Paesi. Questo era e resta terreno di reclutamento dei talebani. A Kandahar, appena più a Nord, il Mullah Omar aveva invitato Osama bin Laden negli anni Novanta. Ed entrambi poi fuggirono in Pakistan passando da queste parti più volte per non essere catturati dopo l’invasione americana dell’ottobre 2001. Oggi i due governi cercano disperatamente di far fronte all’epidemia. Da marzo i confini vengono aperti a singhiozzo. In Pakistan sono confermati 278.305 casi positivi e quasi 6.000 decessi. Ma il virus appare del tutto fuori controllo specie nel disastro afghano. Si parla di circa 36.700 casi positivi e 3.000 morti. In realtà, le organizzazioni umanitarie internazionali sostengono che i numeri potrebbero essere molto più alti. Lo Stato non funziona, la corruzione impazza. Sembra che molti medicinali e apparecchi per la cura del virus donati dall’Onu a Kabul siano già stati contrabbandati nelle cliniche private a Peshawar e Quetta. Per reazione gli afghani tendono sempre più a ignorare il virus, contestano le misure preventive. E i soldati del Belucistan rispondono come sono abituati a fare: sparano. Afghanistan. La corsa a ostacoli del negoziato governo-Talebani di Giuliano Battiston ispionline.it, 2 agosto 2020 Cominciato venerdì 31 luglio in occasione della festività islamica dell’Eid al-Adha, l’ultimo cessate il fuoco tra i Talebani e il governo di Kabul apre una finestra d’opportunità inedita sull’inizio del negoziato intra-afghano, ma mostra anche i limiti dell’accordo tra i Talebani e gli Stati Uniti firmato a Doha lo scorso febbraio e i tanti ostacoli lungo la strada verso la pace. Annunciato nei giorni scorsi da Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, Qatar, il cessate il fuoco di tre giorni è stato subito accolto dal presidente Ashraf Ghani, che a sua volta ha annunciato l’imminente liberazione di 500 detenuti talebani dalle carceri governative. Si tratta però di altri detenuti rispetto a quelli indicati in una lista di 5.000 detenuti, fornita dagli studenti coranici ai rappresentanti istituzionali afghani dopo l’accordo di Doha con gli americani. Siglato il 29 febbraio 2020 da mullah Baradar, uomo della vecchia guardia a capo della delegazione talebana, e da Zalmay Khalilzad, inviato speciale del presidente Usa Donald Trump, l’accordo prevede 4 punti principali: il ritiro delle truppe straniere dal Paese e dalle basi militari; l’impegno dei Talebani a rompere con al-Qaeda e a impedire che il territorio venga usato da gruppi jihadisti contro la sicurezza degli Usa e degli alleati; l’inizio dei dialoghi intra-afghani e la discussione su un cessate il fuoco prolungato. Per facilitare il negoziato interno, l’accordo prevede uno scambio di prigionieri tra Kabul e i Talebani. Avrebbe dovuto iniziare e concludersi entro il 10 marzo scorso, ma è stato più volte rimandato a causa delle diverse interpretazioni del testo dell’accordo. Meglio, di due testi. L’accordo tra Usa e Talebani - “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan” - prevede il rilascio fino a 5.000 detenuti talebani dalle carceri governative e fino a 1.000 “governativi” dalle prigioni dei militanti. Ma la dichiarazione congiunta firmata lo stesso 29 febbraio 2020, ma Kabul, tra il governo Usa e quello afghano prevede soltanto un generico impegno di quest’ultimo a favorire il rilascio dei Talebani, senza spiegare quanti, come, quando. Sulla diversità dei due testi si è molto discusso e polemizzato. La situazione si è sbloccata soltanto quando, l’11 marzo 2020, due giorni dopo la cerimonia di inaugurazione del suo secondo, contestato mandato presidenziale, il presidente Ghani ha firmato un decreto autorizzando il rilascio dei primi Talebani. Giovedì 30 luglio i Talebani hanno dichiarato di aver completato il rilascio di 1.005 detenuti governativi, mentre il governo di Kabul ha liberato finora 4.600 Talebani circa. Ai quali vanno aggiunti i 500 di cui ha parlato il presidente Ghani nel discorso di celebrazione della festività dell’Eid, venerdì 31 luglio. Il nodo politico rimanda però a quei 400 detenuti che fanno parte dell’originaria lista talebana ma che per ora sono stati esclusi dallo scambio-prigionieri. Ghani sostiene infatti che si tratti di detenuti che hanno commesso gravi crimini, anche contro gli interessi stranieri in Afghanistan, rimandando la decisione sulla loro scarcerazione a una Loya Jirga, un’assemblea di notabili. Politicamente la scelta di Ghani è scaltra, ma rischiosa. Sostenendo di non avere l’autorità per rilasciare questi 400 detenuti “speciali”, rimettendo la decisione finale nelle mani di una Loya Jirga, il presidente scarica su altri il peso di una rilevante responsabilità morale e politica, legata alle richieste di giustizia degli afghani, fin qui negate. Ma fa finta di dimenticare che lo scorso novembre si era già assunto la responsabilità di liberare tre esponenti della rete Haqqani, l’ala più oltranzista della galassia degli insorti, in cambio della liberazione dei due docenti dell’American University of Kabul sequestrati dai Talebani. Uno scambio funzionale alla ripresa del negoziato tra Washington e Talebani, interrotto bruscamente il 7 settembre 2019 dal presidente Trump che accusava gli studenti coranici di violenza ingiustificata contro i soldati americani. In quel frangente Ghani aveva avallato lo scambio voluto dagli Stati Uniti con esibita riluttanza - “un boccone amaro da ingoiare per la pace” -, ricevendo critiche dalla società civile. La decisione più recente di rilasciare 500 detenuti ma non gli ultimi 400 della “lista talebana” è rischiosa perché potrebbe allontanare dal tavolo negoziale i Talebani, i quali hanno sempre sostenuto e ribadito - fino a poche ore fa - di considerare il rilascio di tutti i detenuti della lista come condizione preliminare al negoziato. Che i Talebani siano ora disposti a cedere sui rimanenti 400 detenuti è da vedere, anche se in un recente messaggio il leader supremo, mullah Haibatullah Akhundzada, ha adottato toni particolarmente ecumenici, e gli americani, con Khalilzad in prima fila, premono affinché il negoziato intra-afghano abbia finalmente inizio, 5 mesi in ritardo rispetto alla data prevista dall’accordo di Doha. Un accordo che ha funzionato per gli aspetti relativi al rapporto tra americani e Talebani, molto meno invece per quelli che rimandano alle relazioni con il governo di Kabul, escluso da quel negoziato e ancora alla ricerca di un posto al tavolo negoziale. Sul fronte Usa-Talebani, il Pentagono recentemente ha rivendicato di aver rispettato gli impegni assunti a Doha: come previsto dal testo dell’accordo, entro 135 giorni dalla firma i soldati statunitensi sono passati da 13.000 a 8.500 circa e 5 basi militari sono state consegnate agli afghani. Il resto del ritiro, recita l’accordo, è condizionato al rispetto degli impegni assunti dai militanti islamisti. Che hanno smesso di attaccare le truppe straniere, ma ai quali viene contestato di non rispettare altri termini dell’accordo, o di non sembrare veramente disposti alla pace. Sono due i punti più controversi: il primo è il rapporto con al-Qaeda, che secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite sarebbe ancora “stretto, basato su amicizia, una storia di battaglie condivise e simpatia ideologica”. Una tesi che lo stesso inviato speciale di Trump, Zalmay Khalilzad, non condivide, e che è stata rigettata al mittente dai Talebani, i quali ricordano (come fanno alcuni ricercatori) che simili rapporti esprimono le posizioni dei servizi di informazione degli Stati membri, non necessariamente imparziali. Rimane il fatto che la leadership talebana non ha mai dichiarato in modo esplicito di voler rompere il legame formale, per quanto problematico e spesso frainteso, con al-Qaeda. L’altro punto è il livello della violenza. Secondo il generale Kenneth McKenzie, a capo dello U.S. Central Command (Centcom), i Talebani non avrebbero soddisfatto gli impegni. “Ci aspettavamo di vedere una riduzione della violenza. Mentre i Talebani hanno evitato scrupolosamente di attaccare le forze americane o della coalizione, la violenza contro gli afghani è la più alta da molto tempo a questa parte”. Secondo il Consiglio di sicurezza nazionale afghano, nella settimana 14-21 giugno, per esempio, i Talebani avrebbero compiuto 422 attacchi in 32 delle 34 province, uccidendo 291 membri delle forze di sicurezza afghane e ferendone 550, facendo di quella settimana “la più mortale degli ultimi 19 anni” per i soldati afghani. Il presidente Ghani ha ricordato invece che tra il 29 febbraio - giorno della firma dell’accordo di Doha - e il 21 luglio sarebbero stati 3.560 i membri delle forze di sicurezza uccisi, 6.781 i feriti. I Talebani sostengono al contrario di aver ridotto le operazioni contro le forze di sicurezza afghane del 40%, di aver evitato di colpire Kabul e altre città importanti, e hanno accusato a loro volta gli Stati Uniti di aver violato l’accordo di Doha con operazioni con droni in zone di non-combattimento nelle province di Helmand, Ghazni e Zabul. Come nel caso delle percentuali di territorio controllate dagli insorti o dalle forze pro-governative, sempre diverse a seconda che ne parli l’uno o l’altro attore del conflitto, le oscillazioni anche qui dipendono dai criteri adottati nel registrare le operazioni militari. Ma rimane un fatto: i Talebani non hanno rinunciato alla violenza come strumento di condizionamento politico e strategico-diplomatico, ai danni non solo delle forze di sicurezza, ma anche della popolazione civile. La valutazione del Pentagono, riportata nell’ultimo rapporto Sigar, appare più realistica :”i Talebani stanno calibrando l’uso della violenza per disturbare e danneggiare le forze di sicurezza afghane e il governo, ma rimangono su un livello percepito come compatibile con i vincoli dell’accordo, probabilmente per sollecitare il ritiro delle truppe americane e costruire condizioni favorevoli per l’Afghanistan post-ritiro”. La diatriba sul livello di violenza “accettabile” da parte dei Talebani illumina dunque un aspetto cruciale: la riduzione della violenza verso le forze afghane non fa parte del testo dell’accordo di Doha, ma delle rassicurazioni verbali a margine del negoziato. La natura bilaterale, non trilaterale dell’accordo di Doha ha finito inevitabilmente per produrre delle controversie tra i Talebani, che quell’accordo hanno potuto negoziare per mesi a Doha con gli americani, e il governo di Kabul, escluso dalle negoziazioni ma destinatario delle decisioni che ne derivano. Lo stesso vale per la questione dello scambio dei prigionieri e dei due differenti testi che ne definivano modi e condizioni. Eppure, alla fine della tregua iniziata venerdì 31 luglio i Talebani e i rappresentanti governativi potrebbero finalmente cominciare a negoziare. Lo faranno da posizioni diverse: i Talebani sono forti della legittimità politica riconosciutagli dagli americani, che li considerano ormai interlocutori diplomatici tout court, sullo stesso piano dell’amministrazione di Kabul, come dimostrano le dichiarazioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo e dell’inviato speciale Khalilzad, pronti a bacchettare Ghani e Abdullah per i continui dissidi e le inadempienze, ma cauti verso i Talebani. Mentre il fronte governativo continua a essere frammentato, nonostante l’accordo politico raggiunto lo scorso maggio, dopo mesi di estenuanti polemiche e accuse reciproche, tra il presidente Ghani e Abdullah Abdullah, suo sfidante alle elezioni e ora a capo della Commissione che deve condurre il negoziato con i Talebani, anche se è il presidente Ghani a dettare ancora l’agenda. Ora sia i Talebani sia il governo di Kabul devono dimostrare di saper rinunciare a qualcosa, se vogliono che il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri portino al negoziato vero e proprio. In parte lo hanno fatto, ma non basta: il presidente Ghani è tornato sui suoi passi cedendo sui tempi di rilascio dei detenuti della lista dei Talebani, anche se senza i 400 di “alto profilo” su cui deciderà la Loya Jirga, ma ha incassato un nuovo cessate il fuoco, parziale per ora; i Talebani hanno ceduto sul cessate il fuoco, che avrebbero voluto posticipare dopo l’inizio del negoziato, ma incassano il rilascio dei detenuti, anche se incompleto. Concessioni reciproche che potrebbero finalmente condurre al negoziato intra-afghano. Si tratterebbe in ogni caso soltanto dell’inizio di un lungo, delicatissimo processo diplomatico dagli esiti molto incerti. Marocco. La rivoluzione a tempo di rap delle giovani donne di Karima Moual La Repubblica, 2 agosto 2020 Sfidano le regole e la società maschilista. Con parole e musica inedite nei Paesi arabi. Chi ha detto che il mondo dovrà continuare ad essere dominato soltanto dagli uomini? Il guanto di sfida viene lanciato da un Paese e da un’area tutt’altro che generosa nel concedere spazi alle donne - anche se da nazione a nazione ci sono differenze - e il Marocco in questione dimostra di fare comunque la differenza, adibendo un palcoscenico di volti e voci femminili in un genere musicale, quello del rap, da sempre “maschiaccio” anche a livello internazionale, dove rimangono comunque ancora poche le eccezioni. Il verbo del rap è il linguaggio della strada, che predilige violenza e volgarità, anche se mischia poesia, sentimenti e amore. La sua cifra, poi, resta sempre quella del maschio alfa: non è un caso che il rap targato Usa sia tutto sparatorie, armi e vittime vere e proprie e non solo nei videoclip. La novità che ci arriva dunque dal Marocco, con sempre più giovani donne che rappano da sole o insiema ai big del rap del Paese, è sintomo di qualcosa di più profondo e di un cambiamento sociale non da poco. Volendo fare un passo indietro, c’è da dire che sulla scena musicale nordafricana - ma ormai oggi con importanti collaborazioni anche in quella europea - il rap negli ultimi anni ha conquistando la scena musicale in Nord Africa e il Marocco è diventato il grande laboratorio dal quale è uscito un linguaggio e uno stile inedito, perché originale e autentico nella sua identità di provenienza, ma che si lascia contaminare in linguaggi nuovi e musicalità, trovandosi a proprio agio con una libertà che si respira in ogni nota. Un linguista sarebbe di fronte alla nascita di una nuova lingua. Paradossalmente questo rap rinchiuso in un continente dal quale per un giovane africano viaggiare in libertà verso l’Occidente è illegale, risulta comunque saldo alle proprie radici e al proprio linguaggio della strada, con gli aneddoti, la retorica, le denunce impegnate ma allo stesso tempo è molto più contaminato e aggiornato dal mondo che lo circonda che viceversa. Da quell’Orizzonte che segue soltanto dal web il risultato è la creatività di una musicalità di lingue, suoni, balli che si mescolano in un solo spartito, dove si viaggia con lo stesso equilibrio e velocità dall’arabo marocchino al francese, all’inglese, allo spagnolo e all’italiano. Sono i pezzi de El Grande Toto, 7liwa, Dizzy Dros, solo per fare qualche esempio, ai quali si sono aggiunte le voci e i corpi femminili ma non meno potenti di Khtek, Manal, Krtas Nssa, Ily, che lasciano senza fiato, soprattutto per l’audacia e quella definitiva rottura di un equilibrio tra il maschile e il femminile che da un luogo come il Marocco non può che essere definito come un vero atto rivoluzionario. Lo è anche perché si rivolge a una platea immensa di giovani, ragazzi e ragazze, ma anche perché non si nasconde ai propri genitori e a quella parte di società conservatrice e vendicativa. I loro video su Youtube sono visualizzati da milioni di spettatori e non da qualche migliaio di seguaci. Un pubblico enorme che da un Paese di 30 milioni di abitanti viaggia ovunque anche verso l’Europa dettando un genere nuovo e lanciando una nuova sfida di cambiamento. L’ascesa nel rap marocchino al femminile ci mette la faccia, il linguaggio della strada senza sconti, nella sua volgare violenza, ancora più forte non senza conseguenze in un contesto conservatore, patriarcale, misogino, dove ancora oggi c’è una narrativa e una educazione e costruzione del profilo delle figlie tra bint addar (la ragazza di casa) e bint ezzanqa (la ragazza della strada). Tra un profilo e l’altro (la casa e la strada) c’è una linea rossa, di regole, aspettative e libertà, dove bent ezzanka, la ragazza della strada, è detta così semplicemente perché è libera, fuori dalla porta. In un ideale di donna, di famiglia e di Paese, pur sempre conservatore e islamico. Ecco la straordinarietà di quanto sta avvenendo a Sud del Mediterraneo. Dietro al rap, a quell’alibi che nel rap si può dire l’indicibile, queste nuove eroine hanno trovato quella opportunità facendo un taglio netto senza alcuna diplomazia. Ma c’è poco da biasimarle, il femminismo fatto di compromessi è troppo vecchio per loro e si adegua poco alla velocità del loro tempo. Meglio la strada. Dove cantano ritmando con leggerezza di diritti, libertà, femminilità, sesso, droghe e alcol, come se non ci fosse un domani e non manca la forza di rompere anche quella sacralità del super-uomo. A lui una dedica speciale: dito medio alzato, sguardo prepotente e minaccioso.