Più lavoro e meno soldi: i pm contro la riforma delle intercettazioni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 29 agosto 2020 La riforma delle intercettazioni telefoniche parte in salita. Sono ancora tante le criticità da risolvere a meno di una settimana dall’avvio delle nuove regole. Dopo l’articolo di ieri sul Dubbio con cui venivano illustrate le principali modifiche che entreranno in vigore dal prossimo primo settembre, è esplosa la polemica fra i pm. La riforma, come è stato ricordato, ha avuto un iter alquanto complesso. Il provvedimento originario, voluto dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), risale a maggio del 2017. La modifica principale riguarda la creazione dell’archivio digitale, dove saranno custodite tutte le comunicazioni telefoniche, le captazioni effettuate con il trojan, i video e ogni altro atto, presso ogni Procura. Il compito di vigilare sulla tenuta dell’archivio sarà affidato al procuratore. Al capo dell’ufficio spetterà anche il compito di verificare che nei verbali non vengano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali sensibili o quelle fra il difensore ed il suo assistito. Su tali previsioni il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato, già nel corso del Plenum dello scorso febbraio quando il Csm approvò a maggioranza e con tre astensioni il parere sulla riforma, era stato critico. “La riforma introduce oneri a carico dei procuratori della Repubblica a risorse umane e finanziarie invariate e in assenza di strumenti tecnici adeguati”. Riforma che così rischia di essere inutile perché “i procuratori della Repubblica, che dovranno vigilare direttamente sul registro informatico delle intercettazioni, non sono messi nelle condizioni di farlo, se non vengono dotati di strumenti tecnici adeguati. Per la creazione dell’archivio informatico - sottolinea ancora D’Amato- sono necessarie sale attrezzate e misure particolari, che hanno degli inevitabili costi, di cui la riforma non si fa carico”. “Come faranno i procuratori - si chiede D’Amato - a fronteggiare, a risorse e personale invariato, questo nuovo adempimento? E in quali spazi fisici si custodiranno i documenti cartacei relativi alle intercettazioni inutilizzabili o irrilevanti? Con quale personale si assicurerà la vigilanza e il corretto conferimento delle intercettazioni nel registro informatico? Il rischio è che ancora una volta si finirà per scaricare sull’autorità giudiziaria il peso di una serie di adempimenti che non sono sorretti da un adeguato sostegno economico- finanziario”. Anche il togato di Area Giuseppe Cascini è critico: “Si tratta di una riforma insufficiente che, come spesso accade, scarica sul sistema giudiziario responsabilità improprie, senza dotare gli uffici degli strumenti necessari, cosicché al prossimo, inevitabile, episodio potrà sempre darsi la colpa ai magistrati”. “Ciò di cui il sistema processuale avrebbe urgente bisogno - prosegue il togato Cascini - è l’introduzione nel processo penale di uno “statuto della privacy” che preveda, nel contraddittorio delle parti, lo stralcio e la custodia in un archivio riservato di tutti i dati, comunque acquisiti, che attengano alla riservatezza delle persone e non siano rilevanti per il procedimento”. Per il pm antimafia Nino Di Matteo, infine, si tratta “di una riforma che, nel pur condivisibile intento di evitare la pubblicazione di dati sensibili, rischia di compromettere l’efficacia delle indagini, l’esigenza della conservazione della prova legittimamente acquisita e, in alcuni passaggi, il pieno ed effettivo esplicarsi del diritto di difesa di indagati e imputati”. Nelle Procure le attività sono in progress. Paolo Auriemma, procuratore di Viterbo, dichiara al Dubbio che “si sta lavorando con grande impegno: è in corso una importante interlocuzione con il Ministero della giustizia e con le ditte che forniscono gli impianti per le intercettazioni. È necessario risolvere problemi di natura tecnica, come il riversamento dei dati nell’archivio”. Il fine della “raccolta” di tutto il materiale in un unico archivio è quello di evitare la circolazione e la divulgazione di dati che non rivestono alcuna rilevanza per le indagini o che attengono alla sfera della riservatezza dei soggetti intercettati. Al momento che le intercettazioni verranno conferite nell’archivio digitale la pg ne perderà la disponibilità e potrà riascoltarle solo presso le sale dedicate. Alberto Liguori, procuratore di Terni, interpellato dal Dubbio, evidenzia carenze “nella formazione del personale amministrativo, peraltro sottodimensionato, da dedicare alle nuove incombenze. Gli hardware scelti dal Ministero vengono utilizzati per la prima volta: se qualcosa non dovesse funzionare, cosa succederà ai dati? E la gestione del cartaceo?”, si domanda Liguori. Sarebbe allora auspicabile un “proroga” afferma D’Amato, per “predisporre le misure necessarie o la riforma sarà inutile”. Siamo tutti colpevoli di concorso esterno! di Iuri Maria Prado Il Riformista, 29 agosto 2020 Sistematica attività di delegittimazione della battaglia contro la criminalità organizzata e metodica contestazione della magistratura impegnata a condurla. Incessante azione di turbativa presso le forze politiche, il sistema dell’informazione e i corpi sociali, tesa a demotivarne lo spirito legalitario e anti-mafioso e a pervertirlo nel pregiudizio di un garantismo pretestuoso. Strutturale sodalizio con l’associazionismo forense nel preordinato disegno di favorire, così in ambito processuale come in regime carcerario, la posizione degli esponenti mafiosi e dei loro familiari, quelli e questi oggettivamente avvantaggiati dal temibile clima concessivo determinatosi per effetto di quell’alleanza istigatrice. Sono punibili simili comportamenti? Leggere una qualsiasi motivazione posta a fondamento di una richiesta di arresto o di una sentenza in materia di “concorso esterno” porta a ritenere che sì, comportamenti come quelli potrebbero essere puniti. E allora noi ne siamo responsabili e ci autodenunciamo. Ci autodenunciamo perché abbiamo scritto, e ripetiamo, che non si fanno indagini giudiziarie per avviare una “rivoluzione”, e che una giustizia che vuol smontare una regione come un giocattolo non ci piace perché non protegge ma distrugge la società che vi è sottoposta. Ci autodenunciamo perché riteniamo, e non smetteremo di scrivere, che gli innumeri innocenti in galera non appartengono alla fisiologia di nessun sistema civile. Ci autodenunciamo perché consideriamo il presidio emergenziale antimafia un segno di negazione, non di affermazione della nostra civiltà giuridica. Ci autodenunciamo perché nell’affievolimento del rigore carcerario vediamo il progresso liberale, non l’arretramento connivente del nostro ordinamento di giustizia. Ci autodenunciamo perché se la cultura anti-mafiosa deve essere quella che ha comandato nell’amministrazione della giustizia in questi decenni, allora siamo responsabili di averne desiderato la sconfitta e faremo quel che ci è dato di fare - il pochissimo che purtroppo ci è dato di fare per contribuire a sconfiggerla. Ci autodenunciamo perché non vogliamo abbassare la guardia contro quella cultura, e finché ci sarà possibile lavoreremo per convincere altri ad alzarla con noi. Ci autodenunciamo perché non accettiamo il ricatto - questo sì d’impronta mafiosa - per cui si sta dalla parte dei criminali o da quella di coloro che li combattono, e non lo accettiamo perché parteggiamo altrove e altrimenti: per lo Stato di diritto, questa cosa che non si realizza nell’arresto di una signora che ha concesso troppi minuti d’aria a un sepolto vivo. Difendi i boss? Allora sei mafioso: così hanno lapidato un cittadino di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 agosto 2020 La Cassazione ha demolito molte accuse a suo carico: né rivelazione di segreto né abusi d’ufficio. Ma il legale resta in cella: è lo scalpo di chi considera il magistero difensivo come un intralcio ai pm. Pittelli è stato arrestato per reati asseritamente commessi in ragione dell’esercizio del suo magistero difensivo. Difendendo soggetti accusati di appartenere a cosche, egli avrebbe finito per concorrere nei reati dei propri stessi assistiti. Spero comprendiate la delicatezza della questione. Siamo dentro quella zona grigia che accompagna da sempre il nostro mestiere di difensori, e dentro la quale si annida, certamente insieme al possibile illecito almeno deontologico quando non penale del difensore, il cuore pulsante della più spregevole cultura giustizialista: l’idea che il difensore sia un sodàle del proprio assistito. La drammatica vicenda giudiziaria dell’avvocato calabrese Giancarlo Pittelli, arrestato e da otto mesi in isolamento nel carcere nuorese di Badu e Carros, è gravissima ed allarmante per almeno due ordini di ragioni. La prima è che Giancarlo Pittelli è un avvocato. Non c’entra nulla la solidarietà di categoria. Egli non è accusato di aver molestato una donna, o di aver rapinato una banca, per la qual cosa la sua qualifica professionale non meriterebbe la benché minima considerazione. Egli è stato arrestato per reati asseritamente commessi in ragione dell’esercizio del suo magistero difensivo. Difendendo soggetti accusati di appartenere a cosche ndranghetistiche, egli avrebbe finito per concorrere nei reati dei propri stessi assistiti. Spero comprendiate la straordinaria delicatezza della questione. Siamo dentro quella zona grigia che accompagna da sempre il nostro mestiere di difensori, e dentro la quale si annida, certamente insieme al possibile illecito almeno deontologico quando non penale del difensore, il cuore pulsante della più spregevole cultura giustizialista, quella che nutre istintivamente l’idea che il difensore sia un sodale del proprio assistito. Idea, questa, che segna in realtà la negazione per i cittadini del diritto stesso di essere pienamente, compiutamente e liberamente difesi. Ora, la Corte di Cassazione ha già demolito molta parte di quelle gravissime accuse. Ha annullato senza rinvio, come si fa con la carta straccia, le ipotesi di rivelazione di segreti di ufficio e di abuso in atti di ufficio; e ha derubricato l’accusa di associazione mafiosa nel leggendario, magmatico, imponderabile “concorso esterno”. L’esperienza ci insegna che quando un’accusa così grave nasce prendendo dal giudice di legittimità simili ceffoni già nella culla, è destinata a una assai tormentata sopravvivenza. Dunque è almeno legittimo il nostro allarme: e cioè che le accuse siano figlie, piuttosto che di concreti, gravi e concordanti indizi di reità, di quella cultura poliziesca deteriore che vede nell’avvocato difensore un intralcio alla giustizia, un sodale, appunto, dei propri assistiti. Si vedrà, naturalmente, e non sta a noi giudicare ma le premesse queste sono, e non si può più oltre tacerle. La seconda ragione di allarme è che, a prescindere da ogni considerazione di merito, la vicenda testimonia il grave livello di degrado processuale che ha ormai raggiunto l’istituto della custodia cautelare nel nostro Paese, rispetto ai principi normativi e costituzionali che pure lo regolano. Secondo legge e Costituzione, la privazione della libertà personale prima di una sentenza di condanna è una soluzione estrema, eccezionale, temporalmente da limitarsi quanto più possibile, giustificata non solo da una imponente consistenza indiziaria, ma soprattutto da “concrete ed attuali” esigenze di cautela rispetto alla indagine. Pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato, pericolo di inquinamento delle prove. Concrete ed attuali significa che nessuno può essere incarcerato “altrimenti fugge”, o “altrimenti reitera il reato o inquina le prove”. Occorre che tali pericoli siano sorretti da elementi sintomatici concreti, attuali, tangibili. Giancarlo Pittelli è stato arrestato otto mesi fa, buttato in isolamento assoluto in una delle peggiori carceri italiane dove rischia di perdere il senno, pressoché irraggiungibile dai suoi cari e dai suoi stessi avvocati, nonostante il drastico ridimensionamento del quadro accusatorio e il lunghissimo, interminabile, assurdo arco di tempo trascorso. Le persone non sono sacchi di patate, che prendi e butti in uno scantinato, e poi si vedrà. Siamo ormai assuefatti a questa idea barbara ed incivile di custodia cautelare, e la prevalente coscienza civile del Paese -o ciò che di essa è rimasto- ha smarrito il senso di quanto sia grave, e fonte di inaudite ed ingiustificabili sofferenze, una simile mostruosità. L’avvocato Pitelli è a tal punto pericoloso da non poter essere detenuto nemmeno agli arresti domiciliari, dopo otto mesi di carcere durissimo e di massacro della propria dignità e credibilità professionale? Ed in qual modo egli potrebbe oggi inquinare le prove, o reiterare i reati, o fuggire se almeno detenuto in casa, con divieto di comunicare con altri che con i più stretti familiari? Qualcosa non quadra, in questa vicenda, ed è giunto il momento di dirlo con chiarezza. In questo Paese non ci sono solo i leoni da tastiera, o i forcaioli che organizzano invereconde manifestazioni di plauso per arresti annullati poi a centinaia già nelle settimane e nei mesi successivi. Esiste anche una coscienza civile che orripila di fronte a simili aberrazioni; una coscienza civile che deve riacquistare coraggio, risollevare la testa e far sentire nitida e forte la propria voce, in nome della difesa strenua ed incondizionata della libertà e della dignità di persone che la Costituzione presume innocenti fino a definitiva sentenza di condanna, e con esse della libertà e della dignità di ciascuno di noi. L’ergastolo ostativo davanti ai giudici della Corte Costituzionale di Domenico Turano ladiscussione.com, 29 agosto 2020 È la prima Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione che, con ordinanza n.18518 del 3-18 giugno scorso (2020), ha chiesto, in sostanza, alla Corte Costituzionale, di cancellare dal nostro ordinamento il “fine pena mai”, a cui è sottoposto, di fatto, il detenuto, con ergastolo ostativo, in palese contrasto con fondamentali principi sanciti nella nostra Carta Costituzionale. A sollevare il problema, in effetti, è stata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione I, con sentenza del 13 giugno 2019, con la quale ha affermato, in sintesi, che anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a concrete possibilità di liberazione, attualmente eccessivamente limitate perché subordinate a comportamenti specifici, quali collaborazione con la giustizia o pentimento di dissociazione di appartenere ad organizzazioni criminali di stampo mafioso. È stato un detenuto afflitto da ergastolo ostativo, tramite il suo difensore, a presentare ricorso in Cassazione, per motivi dì legittimità, lamentando che, per concorso di pena per fatti delittuosi di cui all’articolo 416/bis del codice penale, pur avendone maturato i requisiti, non gli erano stati concessi i benefici di legge di cui aveva fatto specifica domanda. La Suprema Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso, ha ravvisato che l’articolo 416/bis del codice penale ed alcuni altri articoli dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975 e successive modificazioni ed integrazioni), quali gli articoli 4/bis, 41/bis ed altri, sarebbero in contrasto con i principi costituzionali di cui all’articolo 3 (eguaglianza e dignità dei cittadini davanti alla legge), all’art.13 (che persegue la violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà), all’art. 27 (pene con trattamenti non contrari al senso di umanità e tendenti alla rieducazione del condannato) ed all’art. 111 (ragionevole durata del processo). La Sezione I penale della Cassazione ha, quindi, inoltrato il tutto, con l’ordinanza di cui sopra, alla Corte Costituzionale per pronunciarsi se vi siano o meno gli estremi della “non manifesta infondatezza di dubbi dì incostituzionalità delle norme suddette”, nelle parti in cui sono di preclusione alla concessione della liberazione condizionale o dei permessi per buona condotta. Nella posizione di aspettativa di benefici come il ricorrente ve ne sarebbero tanti altri, circa 250 ergastolani che sperano nella positiva pronuncia interlocutoria, da parte della Consulta, sull’accoglimento dei dubbi di incostituzionalità evidenziati dalla Cassazione, a cui dovrà seguire la relativa sentenza, salvo che, nel frattempo, non vi siano interventi legislativi specifici, anche su proposta del Ministro della Giustizia. Sono in gioco principi di civiltà giuridica sanciti nella nostra Carta costituzionale, tra cui quello dell’ultimo comma del citato articolo 27 che così recita: “Non è ammessa la pena di morte”. Ma l’ergastolo ostativo è come una condanna a morte mascherata, mentre il comune ergastolano, anch’egli condannato a pena perpetua, ha il diritto di uscire di galera dopo 26 anni di detenzione, riducibili a 21, con il meccanismo di sconti di pena, per buona condotta nella vita carceraria in virtù della sentenza n. 264/1974 della citata Corte Costituzionale, in linea col principio rieducativo del condannato per il reinserimento nella società, il cui percorso è affidato alla guida di esperti, sotto il responsabile controllo del Giudice di sorveglianza. In sostanza, già la Corte di Strasburgo, nella sua giurisprudenza, sostiene che il carcere a vita è possibile in diritto, purché di fatto ci sia la possibilità, ancorché condizionata, di scarcerazione. Diversamente la detenzione a vita viola il divieto di pene inumane o degradanti (articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). È ribadito che la dignità umana non si acquista per meriti nè si perde per demeriti, per cui anche l’ergastolano non collaborante ha diritto di domandare, benché non il diritto di ottenere. La sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale ha, infatti, vanificato la presunzione legale secondo cui chi non parla, non collabora con la giustizia, pur potendolo fare, è socialmente pericoloso. La Corte costituzionale ha censurato tale automatismo che negava, in pratica, rilevanza giuridica al processo dì risocializzazione del detenuto. Il beneficio penitenziario, quindi, si sposta dalla collaborazione alla valutazione del Giudice di sorveglianza. In merito, anche la Commissione Parlamentare antimafia, nella sua relazione del 20 maggio scorso, ha fatto rilevare di aver tenuto conto della giurisprudenza delle due Corti dei diritti, secondo cui la preclusione, in mancanza di collaborazione, non è più compatibile con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sarà una corsa ad ostacoli a chi arriva prima, se la pronuncia della Corte costituzionale o un intervento legislativo. Normalmente, in questi casi, il legislatore prudente attende la pronuncia della Corte Costituzione per meglio colmare i vuoti legislativi che essa crea ed armonizzare, in tal senso, le diverse norme tra loro collegate e, spesso, interdipendenti. Campania. L’effetto Covid si è esaurito e ora le celle scoppiano di nuovo di Viviana Lanza Il Riformista, 29 agosto 2020 Politici, a qualcuno interessa? In Campania, secondo dati aggiornati a ieri, ci sono 6.419 detenuti reclusi tra le 15 carceri sparse sul territorio regionale a fronte di una capienza di 6.050 persone. Il picco è a Poggioreale, arrivato a 2.024 detenuti. Il che vuol dire oltre 200 nuovi ingressi negli ultimi quattro mesi. Nel carcere napoletano l’emergenza sovraffollamento viaggia di pari passo con la crisi sociale ed economica che il Covid ha acuito: se, infatti, durante il periodo di lockdown si era raggiunto il tetto delle 1.800 presenze, un numero che paragonato alle poco più di 1.600 da capienza regolamentare faceva intravedere una luce in fondo al tunnel, le 2.024 presenze attuali fanno ripiombare il penitenziario nelle criticità di sempre. Oltre duemila nuovi detenuti a Poggioreale non sono la dimensione di un fenomeno che deve riguardare soltanto la sfera penitenziaria, ma sono anche il riflesso della realtà che c’è fuori dal carcere e che interessa tutti, sono l’effetto di quel che accade nelle strade, in quelle della periferia della città come del suo centro, sono esempio di drammi familiari o di nuovi alibi criminali. Perché? Perché la maggior parte dei nuovi arrivati in carcere ha raccontato di aver commesso un reato per necessità. Non ci sono, per il momento, statistiche o indagini a confermare la tesi ma, se è vero che il carcere anticipa fenomeni sociali e umani, questo dato diventa un campanello d’allarme da non sottovalutare. Il dato merita attenzione anche perché è tutto napoletano, cioè è strettamente legato a dinamiche e realtà di Napoli e provincia. Non si è registrato lo stesso trend, infatti, negli altri istituti di pena della Campania dove ci sono stati sì aumenti di ingressi in carcere dopo la fine del lockdown, ma non in maniera tanto significativa da suonare come campanello di allarme come accaduto a Napoli. A Napoli, dunque, si teme un’impennata di reati. Se sono vere le storie dei tanti detenuti entrati di recente in cella, si delinque per mancanza di lavoro, per assenza di alternative, perché chi lavorava in nero da quando c’è il Covid non lavora più, perché chi viveva di espedienti e lavori saltuari ora deve vivere di nulla e non ce la fa. La pandemia ha dato un duro colpo all’economia locale, mettendo in ginocchio i piccoli imprenditori e il campo del lavoro sommerso e creando una nuova emergenza. Sullo sfondo, poi, c’è sempre il dilagare della criminalità comune, un dilagare che è un fenomeno dalle origini antiche ma dai risvolti più recenti. Ed ecco che da quando è terminato il lockdown si assiste a un aumento vertiginoso di arresti che si traduce in un aumento di nuovi ingressi nel carcere di Poggioreale. Certo, questo è solo uno degli aspetti di una realtà ben più ampia e complessa. Per cui i numeri sull’impennata di arresti vanno letti anche dalla prospettiva di una presenza criminale che continua a essere una costante per Napoli. Con la fine del lockdown la criminalità, organizzata e non, ha ripreso i suoi affari illeciti. In aumento anche scippi, furti e rapine, espressione di una criminalità scatenata ma talvolta anche disperata, e del nuovo allarme sociale post-Covid. Un allarme sul quale ci sarebbe bisogno di riflessioni illuminate, di interventi mirati, di politica e istituzioni che sappiano fare ciascuno la propria parte, di responsabilità da assumere più che da rimpallare, e di una giustizia efficace e tempestiva più che pronta alle manette facili. Campania. “Chiudiamo le carceri, senza rieducazione non servono” di Viviana Lanza Il Riformista, 29 agosto 2020 Intervista a Raffaele Felaco, presidente dell’associazione “Psicologi per la responsabilità sociale”. “L’ambiente influenza la nostra visione del mondo e il nostro umore. Pensiamo ai nostri neuroni specchio: sono neuroni che si specchiano nella realtà che viviamo, per cui stare in un contesto degradato e lugubre ci trasmette questo tipo di emozioni e la nostra mente produce questo tipo di pensieri. È esperienza umana universale l’emozione che si prova davanti a un panorama, davanti a un paesaggio, a un tramonto o a una veduta marina. Se tutta la specie umana è sensibile a questo tipo di emozioni, è evidente che c’è qualcosa nel nostro cervello che ci fa pensare anche in funzione di quello che viviamo e di quello che sperimentiamo con il nostro corpo”. Raffaele Felaco, presidente dell’associazione Psicologi per la responsabilità sociale e in passato presidente dell’Ordine degli psicologi della Campania, accetta di approfondire con il Riformista la riflessione sull’impatto dell’edilizia penitenziaria e su come quest’ultima condizioni negativamente il percorso di risocializzazione dei detenuti ostacolando, se non addirittura annullando, la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita. Professor Felaco, quanto è importante investire sugli spazi? “È importantissimo. Investire sui luoghi vale sempre, tanto più per il carcere. Con il lockdown c’è stata un’impennata del mercato immobiliare per le case che offrivano spazi esterni, terrazzi, giardini e così via. Vuol dire che ci sono bastati due mesi di chiusura in casa per farci rendere conto di cosa avevamo bisogno nelle nostre case, di cosa ci mancava. È chiaro che il rapporto con lo spazio che si vive è fondamentale per la dimensione e il benessere psicologici di ognuno noi. E ovviamente il discorso vale anche quando si affronta l’argomento carcere”. È un dato che la maggior parte degli istituti di pena della Campania abbia strutture vecchie, in alcuni casi fatiscenti, comunque bisognose di interventi di manutenzione e ammodernamento. Quali sono le conseguenze per i detenuti che scontano la pena in questi istituti? “Queste non sono condizioni di vita umane né sono condizioni riabilitative. Non si può avere alcuna speranza che una persona possa riabilitarsi se sta chiusa in una cella e basta”. Le carceri, quindi, così come sono attualmente strutturate, andrebbero chiuse secondo lei? “Certamente. Le carceri, così come sono, non rieducano e non hanno alcun senso se non quello del contenimento. Sono istituzioni contenitive che non possono che peggiorare la situazione, dal punto di vista psicologico, di chi è recluso. Poi, naturalmente, esiste il problema della pena, il problema della punizione quando si contravvengono le norme, ma resta il fatto che le nostre carceri non sono umane”. Come si potrebbero ripristinare condizioni di umanità? “Se noi crediamo, come crediamo, che il carcere debba essere un luogo di riabilitazione, oltre che di espiazione della pena, dobbiamo creare delle carceri e delle pene che siano in condizione di essere riabilitative”. Come si fa a garantire la rieducazione e la risocializzazione di un detenuto? “Questo è un enorme problema. Ci sono tre cose importantissime da fare. Sicuramente puntare sul lavoro, perché restituisce una dignità; sulla cultura, perché spesso abbiamo a che fare con persone che hanno grandissime lacune sotto quel profilo; sugli affetti, perché il carcere deve essere un’occasione per dare valore agli affetti e alle relazioni. Serve, dunque, uno sguardo sul versante umano e psicologico delle persone. Poi è chiaro che ci sono aspetti che riguardano la sicurezza e l’ordine pubblico da valutare, ma non riguardano una competenza che posso avere io”. Una proposta? “Più che chiuderle, avrei ammodernato le carceri sulle isole dove le persone potevano camminare all’aperto, coltivare un orto, avere spazi ampi. Ecco, una proposta potrebbe essere quella di pensare a carceri con grandi spazi dove, pur stando all’interno di un controllo, i detenuti possono avere la possibilità di svolgere attività e una vita più umane”. Sassari. Detenuto ritrovato morto nel carcere di Bancali, è giallo sardiniapost.it, 29 agosto 2020 La Procura apre un’indagine. Un marocchino di 24 anni è stato trovato morto questa mattina a Sassari, nella sua cella del carcere di Bancali. Sulla sua morte indaga il sostituto procuratore, Beatrice Giovannetti. Il giovane era rientrato ieri dalla colona penale di Isili dove aveva trascorso un periodo di prova di una decina di giorni, e si trovava in una cella del reparto Covid, da solo, dove avrebbe dovuto trascorre i 14 giorni di quarantena così come previsto dalle procedure per il contenimento dei contagi da coronavirus. Questa mattina gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno trovato privo di vita. Sul suo corpo non sono stati rilevati segni di autolesionismo o contusioni di alcun genere. Saranno le indagini della Procura a chiarire i motivi del decesso. “La notizia della morte di un detenuto è sempre una notizia triste”, commenta il Garante dei diritti dei detenuti, Antonello Unida. “Ma quando a morire è un ragazzo così giovane siamo davvero di fronte a una tragedia. Avevo parlato con lui ieri, al suo rientro a Bancali. Era un po’ deluso per non essere potuto rimanere nella colonia penale di Isili, ma per il resto sembrava abbastanza tranquillo. Stamattina quando sono arrivato al carcere per il mio lavoro è stato il direttore a darmi la brutta notizia. La polizia penitenziaria si è attivata subito con la consueta delicatezza e professionalità e ora si sta contattando la famiglia tramite l’ambasciata del suo Paese”. Roma. Ex detenuto trovato morto in una fontana di Villa Pamphili di Andrea Ossino Il Tempo, 29 agosto 2020 L’uomo era uscito da poco di prigione e soffriva di problemi depressivi. Gli investigatori pensano si tratti di un suicidio. Antonio Conti, 53 anni, uscito da poco di prigione dopo aver scontato una condanna per reati contro il patrimonio e legati alla droga. Abitava in zona e già da tempo soffriva di problemi di natura depressiva ed è per questo che gli inquirenti credono possa essersi trattato di un suicidio. Del resto sul corpo non ci sono segni di violenza e nelle sue tasche è stata trovata una fiala contenente antidepressivi. Nessuna traccia invece dei documenti della vittima: risalire all’identità del pregiudicato non è stato semplice. A fare la macabra scoperta è stato un passante, poco dopo le undici e mezzo di ieri mattina. Sconvolto per il ritrovamento, l’uomo ha allertato i carabinieri a cavallo che quotidianamente pattugliano il parco che spesso ospita numerosi clochard. Camicia a quadri, mocassini e pantaloni: l’abbigliamento indossato dalla vittima ha subito fatto capire ai carabinieri della Compagnia San Pietro che non si trattava di un senzatetto. Si sono rivelati inutili infatti i tentativi di identificarlo grazie alle testimonianze di chi “abita” nel parco di Monteverde o nelle vie limitrofe. Il sostituto procuratore Attilio Pisani è riuscito però a risalire alla sua identità grazie ai tatuaggi sul corpo dell’ex detenuto. Inserendoli nell’archivio delle forze dell’ordine il risultato è stato immediato. Ancora da chiarire la dinamica del decesso, anche se sembra essere esclusa l’ipotesi di una morte violenta. Gli inquirenti stanno anche acquisendo le immagini delle telecamere di sicurezza della zona, alla ricerca di elementi utili. E stanno ascoltando i parenti dell’uomo. La salma intanto è stata affidata al medico legale del Policlinico Gemelli per l’autopsia. Non è la prima volta che nel parco dell’area verde di Monteverde viene ritrovato un cadavere. Nel maggio 2017 nella stessa fontana alcuni sportivi avevano visto il cadavere di una donna: si trattava di una signora di 86 anni. Proprio alcuni giorni fa la Fontana del Giglio è divenuta, suo malgrado, protagonista di una nuotata improvvisata da un uomo in cerca di refrigerio dal caldo estivo. “Fa il morto nella fontana”, dicevano i testimoni scherzando. Adesso l’ilarità ha lasciato il posto alla cruda realtà: un uomo è morto proprio in quella vasca. Reggio Calabria. Il caso Morabito riemerge nell’inchiesta sulla ex direttrice di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 agosto 2020 Ufficialmente si sarebbe suicidato nel carcere di Paola il 29 aprile 2016. “Il grido di allarme di Vincenzo Morabito e l’indifferenza della dottoressa Longo”. Così il Gip, accogliendo la richiesta dei domiciliari per l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, ha scritto in uno dei tanti capi d’accusa nei suoi confronti. Tutti da verificare, perché almeno sentendo il suo avvocato difensore, emerge che il suo modus operandi (il non eseguire pedissequamente le disposizioni delle Circolari visto la complessità del carcere) era alla luce del sole, tanto da ricevere l’avvallo del Dap. Dall’ordinanza emerge però un’altra vicenda, nel passato affrontata dalle pagine di questo giornale, che riguarda la morte del 46enne Maurilio Pio Morabito. Una storia tragica che i pm reggini, per trovare consistenza nelle loro accuse, la fanno riemerge colpevolizzando di indifferenza la ex direttrice Longo. Ma nella loro argomentazione, alla fine danno nuovi spunti per riaprire il caso chiuso come suicidio. Ufficialmente Maurilio Morabito si sarebbe suicidato il 29 aprile del 2016 nel carcere calabrese di Paola. Un tragico evento che fu messo in luce grazie all’attivismo del calabrese Emilio Quintieri, da sempre in prima linea per i diritti dei detenuti. Morabito si trovava ristretto in una cella “liscia” nel carcere di Paola quando è stato ritrovato privo di vita. Metterlo nudo in isolamento con a disposizione solo una coperta e un secchio per gli escrementi, non era proprio il massimo per garantire l’incolumità del detenuto. Infatti non è servito a nulla, se non aggravare il problema. Morabito doveva scontare una pena definitiva di quattro mesi di reclusione per un’evasione dai domiciliari denunciata dieci anni prima, quando era stato arrestato per detenzione di stupefacenti e a causa di un malessere si era allontanato da casa per andare dal medico senza avvisare l’autorità giudiziaria. A parte lo psichiatra del carcere, nessuno tra parenti, amici e detenuti ha mai confermato che Maurilio soffrisse di una forte depressione e che voleva togliersi la vita. Anzi. Temeva di essere ucciso e non ne faceva mistero. Ed è questo il punto cruciale che lo ritroviamo poi scritto nell’ordinanza degli arresti domiciliari nei confronti della direttrice Maria Carmela Longo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il motivo? Non avrebbe raccolto la denuncia esposta dal padre di Maurilio, Vincenzo Morabito, durante un colloquio avvenuto con lei. Per comprendere meglio la vicenda, ripercorriamo la cronologia degli eventi. Maurilio viene arrestato il primo marzo del 2016 e tradotto nel carcere calabrese di Arghillà. Durante il primo periodo di permanenza viene allocato alla camera detentiva numero 18 del primo piano del reparto Apollo, in stanza multipla con altri cinque detenuti. In quel momento Morabito fa una denuncia ben precisa, che poi il padre rievoca durante il colloquio con la direttrice Longo. I compagni di cella gli avrebbero chiesto un favore, ma lui avrebbe rifiutato. Ed è lì che iniziò il calvario, perché i suoi compagni di cella avrebbero tentato di ucciderlo. Tutto questo lo raccontò al padre, facendo anche i nomi dei detenuti. Dopo quel presunto tragico evento, il 29 marzo, sempre nel carcere calabrese di Arghillà, viene posto - su ordine della Longo (durante il colloquio con il padre è lei stessa a ricordarlo) - in una cella singola per proteggere la sua incolumità fino al primo aprile, per poi trasferirlo nel carcere di Paola dove in seguito si sarebbe tolto la vita. Durante il colloquio, il padre di Maurilio afferma alla Longo che il progetto di uccidere il figlio iniziò durante la sua detenzione ad Arghillà. Nel prosieguo dello sfogo, l’uomo espone alla Longo tutte le anomalie della vicenda: il rifiuto, mai registrato prima, del figlio di recarsi al colloquio con i familiari; le condizioni in cui gli fu consegnato, dopo cinque giorni del decesso, il corpo (sporco) del figlio; le caratteristiche della cella che, sempre secondo il padre, avrebbero reso impossibile l’impiccagione e il tardivo esperimento dell’esame autoptico. In conclusione, il padre di Morabito, dopo aver esposto i fatti, sciorina alla Longo i nomi dei detenuti che a suo dire, avrebbero sentenziato la morte del figlio. D’altronde, la stessa direttrice, in un dialogo intercettato con un agente penitenziario, dice espressamente che secondo lei non si tratta di un suicidio “perché a Paola… ci sono molti reggini… che abbiamo mandato”. Quindi, come si legge nell’ordinanza per gli arresti domiciliari, alcuni detenuti reggini che sono ristretti nel carcere di Paola si sarebbero occupati dell’uccisione di Morabito per i fatti verificatosi presso il carcere di Arghillà. Secondo il Gip, la Longo - una volta appreso i nomi da parte del padre di Morabito - avrebbe dovuto notiziare i nuovi elementi immediatamente all’autorità giudiziaria con una relazione di servizio riservata. Secondo l’accusa, pur essendo vero il fatto che l’autorità giudiziaria stava già compiendo delle indagini, quanto il padre ha riferito alla direttrice sono elementi nuovi. Ora, se la direttrice abbia commesso un reato non riferendo all’AG questi nuovi elementi, sarà un giudice a stabilirlo. Anche perché, per via di ipotesi, la Longo potrebbe aver dato per scontato che il padre lo abbia già riferito alle autorità competenti. Oppure, più semplicemente, ha preso atto di quello che sostanzialmente era: uno sfogo. Il dato oggettivo è che una procura - per quanto riguarda lo strano decesso del detenuto - ritiene molto valido il movente, la dinamica del primo tentativo di omicidio e l’identità dei responsabili. Alla luce di tutto ciò si riapriranno le indagini sulla morte di Maurilio Morabito liquidata troppo frettolosamente come suicidio? Napoli. Giustizia devastata, senza personale i tribunali non possono funzionare di Alfredo Sorge Il Riformista, 29 agosto 2020 Le fotografie di un tribunale desolatamente vuoto, scattate ieri in orario di punta, testimoniano, meglio di ogni parola, le preoccupazioni per la ripresa dell’attività giudiziaria prevista al termine della pausa feriale di agosto dopo la paralisi causata dalla pandemia che nel settore giudiziario si è protratta oltre ogni ragionevole misura per discutibili scelte legislative che di fatto hanno lasciato ai vertici dei singoli uffici giudiziari ampio spazio per stabilire come e quando effettivamente riprendere le attività. Occorre innanzitutto ricordare come l’avvocatura avesse lealmente manifestato la propria disponibilità perché il periodo feriale di quest’anno venisse impiegato per recuperare quelle attività giudiziarie saltate a causa del Covid-19, ma nei fatti quella proposta è rimasta senza alcun seguito. Così come senza seguito sono rimaste le proposte dell’avvocatura affinché alcune riforme di buon senso - peraltro a costo zero per la pubblica amministrazione - avessero luogo come quella del deposito di qualsiasi impugnazione o istanza mediante posta elettronica certificata: dopo qualche timido passo si è tornati alla normalità che non consente l’invio telematico di tali atti con la garanzia - che non può che promanare dal testo di legge - che gli stessi non vengano mai esaminati dal giudice o addirittura vengano dichiarate irricevibili e inammissibili, con gravi danni per le parti e serie responsabilità per gli avvocati. La verità è che, senza il personale giudiziario inteso anche e soprattutto come personale di segreteria e cancelleria, la macchina giudiziaria non può funzionare. E allora occorre discutere se lo smart working sia compatibile o meno con il sistema giudiziario. Partiamo da una premessa: per la ripresa si attende una volta e per tutte che la macchina giudiziaria viaggi con una organizzazione e una efficienza ben diversa da quella che finora si è registrata tenendo presente che le iniziative e le richieste degli avvocati interpretano uno dei massimi diritti del cittadino che è quello a chiedere e ad avere giustizia, diritto che è non è secondo a nessuno ed è pari a quello alla salute. E allora va bene l’attenzione del Governo per le spiagge e per le discoteche, ma è ora che i nostri amministratori rivolgano la loro attenzione al settore della giustizia, operando le giuste riforme perché la macchina giudiziaria oggi ferma possa riavviarsi. In tal senso ritengo che il lavoro agile ben poco si presti al funzionamento del sistema giudiziario e anzi lo renda impossibile. Anche qui una premessa per non esser fraintesi: non è in discussione la capacità e lo spirito di sacrificio dei singoli operatori giudiziari che anche durante la pandemia hanno operato al meglio in una situazione di oggettiva difficoltà. nessuno ha in mente che durante lo smart working gli operatori giudiziari se ne stiano in poltrona davanti a un computer acceso, magari sorbendo un caffè o navigando su internet. Ma se l’attività giudiziaria richiede la presenza del cittadino (la giustizia è amministrata in nome del popolo Italiano) e dunque dell’avvocato per curare gli affari giudiziari, tale intervento non può essere reso vano o grandemente scemato a causa del cosiddetto lavoro agile che permette l’assenza dell’operatore di giustizia nei tribunali. Sotto questo profilo si attende per la ripresa una risposta chiara che, partendo dai vertici degli uffici, giunga a tutti gli operatori giudiziari: sulla premessa per cui, non avendo accesso per ovvie ragioni di sicurezza, al sistema informativo giudiziario, il personale amministrativo stando a casa e non negli uffici ben poco può svolgere della sua prestazione lavorativa, risulta evidente che lo stesso va riportato al suo posto, cioè all’interno degli uffici giudiziari, a rispondere alle legittime domande di giustizia dei cittadini mediate dagli avvocati. Una risposta che, a ben vedere, già avrebbe dovuto esserci se è vero che mancano poche ore alla ripresa a tutti gli effetti delle attività giudiziarie (e del decorso dei termini processuali) e non è utopico prevedere che la impossibilità di fare oggi - come le foto attestano - i dovuti controlli o di svolgere le ordinarie attività di cancelleria determineranno i temuti assembramenti al momento della effettiva e completa ripresa della macchina giudiziaria che appare non più rinviabile. I lavoratori subordinati del comparto giustizia - dal dirigente al commesso, tutti importanti a seconda della diversità delle mansioni loro affidate - vengano dunque richiamati “al fronte”, in attesa delle “forze fresche” che dovrebbero essere garantite dalle auspicate nuove assunzioni di personale giudiziario dotato di sempre maggiore dimestichezza con i sistemi informativi, per riprendere una volta e per sempre il funzionamento del sistema giustizia, bene primario di uno Stato di diritto. Certamente occorrono interventi a livello legislativo e provvedimenti di tipo organizzativo che escludano oppure riducano al minimo le prestazioni in smart working e dispongano che la giustizia torni a vedere in prima linea i giudici e il personale amministrativo al pari degli operatori sanitari. Consapevoli che in prima linea troveranno sempre e comunque gli avvocati, pur con le loro ben maggiori incertezze reddituali evidenziate dalla pandemia, che attendono una risposta dalla politica che metta mano senza ulteriore indugio a una riforma chiamata a ridurre la pressione fiscale oggi inaccettabile e al di là di ogni limite di sopportazione. Napoli. Spazi all’aperto e librerie, parte da Poggioreale il restyling delle carceri di Viviana Lanza Il Riformista, 29 agosto 2020 Via ai lavori che trasformeranno un cortile del penitenziario in un nuovo luogo di incontro. Il provveditore Fullone promette: entro il 2020 condizioni igieniche migliori in tutte le strutture. Tre detenuti, uno del carcere di Poggioreale e due del carcere di Secondigliano, da alcune settimane sono al lavoro in Procura per aiutare il personale amministrativo ad archiviare fascicoli. L’iniziativa è frutto di un protocollo siglato a dicembre scorso tra il procuratore Giovanni Melillo e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone. È una prima novità, non l’unica. Qualcosa nel mondo del carcere sta per cambiare in Campania. E si comincia proprio dal carcere più grande e più affollato. Si comincia da Poggioreale. Sulla carta ci sono tutti i presupposti. Il primo progetto dovrebbe partire a breve, è stato già finanziato dalla Cassa delle ammende e prevede la trasformazione di un cortile del carcere di Poggioreale in uno spazio di socialità. Il progetto è stato affidato a uno studio privato di architetti con la collaborazione del “Carcere possibile”, la Onlus della Camera penale di Napoli. È un progetto fortemente voluto dal provveditore Fullone, che è stato anche direttore del carcere di Poggioreale. “Il tema dello spazio in carcere - spiega Fullone - ha un’importanza strategica. In questo progetto lo spazio di uno dei cortili dove i detenuti fanno il passeggio e trascorrono quattro ore al giorno è stato ridisegnato in modo da non essere più uno spazio da utilizzare in maniera passiva”. Si prevedono panchine e lampioni, elementi di arredo urbano, qualcosa di simile al mondo di fuori. “Sono elementi pensati per chi dovrà usarli”. Quindi, per i detenuti. Si comincia da un padiglione. “Ma l’idea - aggiunge il provveditore regionale - è quella di fare una sorta di esperimento per generare altre esperienze, testarle e poi replicarle su ampia scala. È una vera e propria sfida”. Da direttore del carcere di Poggioreale, Fullone rese possibile un’altra piccola trasformazione: nel padiglione Genova, attraverso una collaborazione tra il carcere e il dipartimento di Architettura della Federico II, i corridoi furono trasformati da spazi di passaggio a spazi sociali con sedute e librerie. È l’esempio che un carcere diverso è possibile. “Entro fine anno abbiamo in mente anche spazi per gli incontri dei detenuti con i figli minori - annuncia Fullone sottolineando l’attenzione verso le persone più fragili. È necessario ripensare a questi spazi in modo che queste persone abbiano un contatto meno traumatico possibile”. E non è tutto. Fullone punta l’attenzione anche sull’aspetto igienico e sanitario degli istituti di pena. “Al termine del 2020 - assicura - nelle carceri campane ci sarà un miglioramento igienico sanitario sensibile. Stamattina (ieri per chi legge, ndr) si è tenuta una riunione per discutere del rapporto con la sanità, di prescrizioni sanitarie. È importante - aggiunge - garantire condizioni dignitose, acqua calda, luce, sanità, prima di ogni cosa. Entro fine anno, quindi, su scala regionale ci sarà un sensibile miglioramento e un allineamento alle normative penitenziarie”. Un carcere più efficiente e più attento agli spazi è anche un carcere più umano. Ma guai a cedere alle semplificazioni e alle generalizzazioni. Quando si parla di istituti di pena e detenuti è facile cadere in questo errore. “Sarebbe sbagliato sia in un senso che in un altro - osserva Fullone. Purtroppo da tempo il carcere è diventato la risposta più semplice ai problemi anche più complessi della società”. La popolazione carceraria è composta da varia umanità e il carcere è un contenitore che riflette, amplifica e talvolta anticipa fenomeni sociali. “Il percorso di rieducazione dovrebbe essere individuale”, spiega il provveditore evidenziando la difficoltà di pensare a un unico modello di carcere. “I detenuti non sono tutti uguali”, aggiunge raccontando la varietà di storie e percorsi dei detenuti. “Bisogna introdurre il concetto di differenziazione”, spiega parlando anche della possibilità di prevedere strutture differenziate sul territorio. “Non possiamo pensare di dare risposte alle oltre duemila persone che sono a Poggioreale - dice citando l’esempio del più grande penitenziario italiano - ma dobbiamo fare in modo che il carcere offra occasioni, occasioni di ripensamento, occasioni di ricostruzione”. Di qui l’importanza di un legame sempre più stretto con territorio, società, imprese. Con il mondo fuori. Spoleto (Pg). “Ma non è la tana dei lupi”, il carcere attraverso gli occhi di un medico di Lorenzo Monarca sedicigiugnofoligno.it, 29 agosto 2020 Torniamo sul tema carceri con la preziosa testimonianza di un giovane medico di continuità assistenziale del carcere di Spoleto, alla quale abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza e il suo giudizio sul carcere umbro. Come hai trovato la tua esperienza? Assolutamente positiva. È una realtà che da fuori uno non si può immaginare. Eppure quello nel quale lavoro è un piccolo mondo che, seppur con le sue difficoltà e con i suoi limiti, con i suoi angoli aspri per così dire, funziona. Spoleto è una realtà nella quale i detenuti si trovano bene e nella quale in molti casi la funzione riabilitativa ha avuto un deciso successo. Personalmente mi sento arricchito sia a livello personale che professionale. Quella che viene praticata in carcere è una medicina non solo molto diversa da quella che si studia all’università, ma anche da quella che si fa negli ospedali o negli ambulatori dei medici di famiglia. È una medicina molto più ricca di burocrazia: regole, accortezze, certificati. Ha dei target e dei dosaggi completamente diversi da quella classica. Inoltre conoscere delle storie, vedere quello che succede e come le persone possono davvero cambiare o anche non cambiare, sono tutte cose che ti fanno crescere in maniera profonda. È un’esperienza davvero segnante. Tra i miei pazienti ci sono killer seriali: eppure quando li vedo, quando ci parlo e quando li visito tutto vedo meno che dei serial killers. Per me sono persone che hanno sbagliato, magari facendo cose anche piuttosto gravi: vuoi perché il contesto in cui sono nati era di un particolare tipo, vuoi che lo abbiano fatto per necessità o perché non vedevano altra scelta. Personalmente preferisco non sapere i loro crimini e comunque io non li chiedo mai, ma spesso capita inevitabilmente di saperli, magari perché capita quel detenuto con il quale ridi e scherzi e con il quale quindi entri più in confidenza: in quei casi diventa anche normale fare domande più personali anche relative ai loro crimini. Poi non saprai mai se quello che ti raccontano è vero o solo una parte della verità, ma le voci di corridoio o le misure restrittive alle quali sono sottoposti ti danno un’idea di cosa possano aver fatto. Ad ogni modo, anche se preferisco non sapere, conoscere i crimini di queste persone non cambia il modo che ho di approcciarmi con loro: l’unica etichetta che riesco a dare loro quando li visito è quella di pazienti, e solo come tali io li tratto. Hai detto che la medicina in carcere è ricca di burocrazia: che intendi dire? Ogni cosa che facciamo va in triplice copia: una agli archivi, una all’ufficio comando e una in cartella. È tutto super tracciato. Bisogna stare estremamente attenti al linguaggio che si utilizza, perché è molto facile che le tue parole vengano mal interpretate: mille accortezze sul cosa, come e perché scrivi, visto che in qualsiasi momento il detenuto può richiederne la copia e qualsiasi cavillo è un’occasione per una denuncia. Le minacce di denuncia da parte dei detenuti arrivano a pioggia, per motivi sempre più o meno futili. Rispetto ai normali pazienti infatti loro hanno avvocati già sul conto a fine mese, e in più hanno molto più “tempo libero”, quindi muovere una denuncia può essere semplicemente un modo per passarlo nonché per dare fastidio. A proposito: un modo come un altro per ammazzare la noia è ingoiare lamette. Non sono tentativi di suicidio: loro sanno benissimo come farlo senza farsi del male. Le incartano o le impellicolano bene come loro sanno e poi le ingoiano. La prassi è, in base alla radiografia, il pronto soccorso se la lametta è ancora nello stomaco per la rimozione tramite endoscopia. Se invece la lametta ha superato lo stomaco e si trova nell’intestino la si lascia, perché l’intestino ha una mucosa più protetta e quindi alla fine la lametta esce da sola senza fare troppi danni. Di solito questa attività viene intesa come forma di protesta a livelli pesanti, anche se è tutto molto relativo, perché c’è chi lo fa per depressione, chi per rabbia, per noia ecc. Come è stato gestito dall’amministrazione il periodo di lockdown? Hai notato un aumento degli stati depressivi nei detenuti? Nel carcere di Spoleto ci sono stati diversi accordi tra l’amministrazione ed i detenuti, soprattutto in quel periodo dove in molte carceri d’Italia sono scoppiate delle rivolte dovute alle norme anti-Covid. Nello specifico si è trattato di aumentare alcuni benefit, come la chiusura finale allungata di un’ora. Questo per rendere più leggero possibile il periodo di privazione dei colloqui. Inoltre sono state attivate quasi subito le videochiamate, che per motivi logistici all’inizio erano un po’ problematiche, poi però piano piano l’organizzazione è migliorata ed ora le cose funzionano molto bene. Mi viene in mente un detenuto che, a seguito di un tentativo di videocall non andato a buon fine, la sera nella cella ha dato in escandescenze. Oppure penso anche ad un altro detenuto che ha perso il fratello durante questo lockdown, e non ha potuto né stargli vicino, né andare al suo funerale; l’unica cosa che ha potuto fare è una videochiamata per stare vicino alla famiglia. Ricordo che quella sera lui è venuto in infermeria con il preciso scopo di parlare con qualcuno ed avere un po’ di contatto umano. Questo per me è un ricordo molto forte e molto bello. Come funziona la gestione delle emergenze ed il coinvolgimento del 118? È sempre molto difficile, perché anche gli operatori del 118, come me e come tutti quelli che entrano o lavorano qui dentro, non possono portare all’interno il telefono personale, quindi gli è impossibile ad esempio confrontarsi con la centrale. L’emergenza in pratica viene gestita sempre con prontezza ma nel rispetto di tutti i protocolli di sicurezza carceraria: ad esempio delle ambulanze che portano via i detenuti più gravi vanno registrati tutti i dati (numero di targa, dati del veicolo…). Mi è capitato di dover fronteggiare un’emergenza di questo tipo e devo dire che il 118 non è minimamente stato rallentato da tutto questo. Per dire: la stessa apertura dei cancelli è un passaggio che può far perdere dei secondi preziosi, ma l’organizzazione è stata molto efficiente e tutti i passaggi sono stati veloci e senza intoppi. Qual è il rapporto con il resto del personale? La nostra dirigente sanitaria fa un eccellente lavoro, sia dal punto di vista comunicativo con l’amministrazione penitenziaria sia dal punto di vista del servizio, motivo per cui abbiamo scorte di farmaci anche molto difficili da reperire normalmente. Per quanto riguarda i miei colleghi siamo una squadra davvero forte: forse proprio per il contesto nel quale ci troviamo c’è molta empatia tra di noi e si lavora molto bene. La polizia penitenziaria invece ha un grave problema, che è quello della carenza di personale. Nell’arco degli anni sono molto diminuiti e fanno fatica a riempire i turni. Per quello che ho visto riescono comunque a fare un buon lavoro, specialmente quelli che lavorano con noi in infermeria, molto abili nel gestire anche i detenuti più “esigenti” che noi da soli non riusciamo a tenere a bada, magari riprendendoli anche solo con una battuta o con una risposta a tono. Raccontaci un’esperienza particolare... È un lavoro che riserva molte esperienze insolite, ma sicuramente una davvero molto particolare è quella della prima notte. Noi abbiamo la nostra stanza privata dove passare la notte, se c’è un’emergenza ci svegliano con il telefono interno. La prima notte è tosta: ho dormito con un occhio aperto e uno chiuso. Ancora non sai cosa ti aspetta ed è normale essere agitati. Si sentono i cancelli che sbattono, gli ascensori, le voci, gli scarichi, tutto insomma. Poi piano piano ci si abitua ad oscillare tra sonno e gestione dell’emergenza: anche se il telefono che squilla nel cuore della notte è sempre un po’ scioccante. Poi, chiaramente, quella del carcere è in toto un’esperienza particolare dal punto di vista emotivo: lì dentro c’è di tutto, dal ragazzino nato in un contesto sfortunato, all’immigrato che magari l’unica parola di italiano che conosce è il nome di un farmaco o di una droga. Esistono situazioni umanamente impegnative. Da fuori sembra un covo di lupi: da dentro capisci che non è così. Così Basaglia fece la rivoluzione di Aldo Torchiaro e Angela Nocioni Il Riformista, 29 agosto 2020 “Il manicomio era un luogo di degradazione delle condizioni umane, mettervi fine ha cambiato una parte, pur piccola, delle nostre comunità”. Franco Basaglia ha aperto i manicomi. Nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa parla quello che fu il suo braccio destro, il professor Franco Rotelli, poi diventato dirigente della sanità in Friuli. Come inizia il suo rapporto con Basaglia? Ero laureato da poco, sentivo di dover fare qualcosa per cambiare la psichiatria e mi sentivo in asse con la sua carica vitale. Nel 1971 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente della provincia di centrosinistra, Michele Zanetti, risoluto nel cambiare le cose. Io lo seguo. Lei è poi anche stato eletto in Regione. Cosa la affascina della psichiatria, e perché si passa dalla cura del disagio a quella della res publica? La psichiatria mette in gioco tutto: i problemi della giustizia, del libero arbitrio, della diseguaglianza sociale. Si occupa delle dinamiche interne di ciò che accade nelle famiglie, dell’incidenza del lavoro sulla vita delle persone, il rapporto tra istituzioni pubbliche e cittadine, la questione dei limiti della libertà. Questioni politiche, sociali, giuridiche e filosofiche. Il nostro scopo è includere e integrare persone diversissime in una società complessa che tende a escludere gli ultimi. Non c’è professione più politica, forse. Mettere fine al vecchio manicomio fu, di per sé, un atto rivoluzionario. Il manicomio era un luogo di degradazione delle condizioni umane, mettervi fine è stato un gesto che ha cambiato una parte, pur piccola, delle nostre comunità. In quali condizioni vi siete trovati ad operare con Basaglia? Tenga presente che arrivammo a Trieste negli anni in cui vi si riversavano migliaia di esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese. Era una terra di frontiera in tutti i sensi, dove si poteva osare con la ricerca e con la sperimentazione di metodi nuovi, ma dove il contesto storico aveva portato in manicomio la cifra mostruosa di 1300 persone, una struttura al collasso. Le immagini che ci trovammo davanti, al nostro arrivo, furono scioccanti anche per noi: sporcizia, catene, sbarre, elettroshock. Come iniziaste? Il presidente della provincia Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile e forse di irripetibile. Basaglia chiede e ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. La televisione e i giornali danno mano, il successo mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati. Qual era il contesto normativo dei vostri esordi? Era in vigore la legge del 1904: tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico erano da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura. L’anti-autoritarismo dei movimenti incide sul vostro impegno? All’epoca tutto risentiva della forza di quell’ondata libertaria. C’era una energia che cercammo di trasformare in atti concreti. Una piccola legge del 1968 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che - anche se ricoverato - dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero. Quali problemi vede oggi? Ci sono ancora troppe residenze, troppi ospiti dentro. Il mio obiettivo, se devo portare a termine la battaglia di Franco, è quello di residenze zero. Dare una casa a tutti, con servizi che aiutino le persone con disagio psichico - ad alta o a bassa intensità - a condurre una vita dignitosa nello spazio di una propria casa. Costerebbe molto... Le residenze di oggi sono molto costose. Incredibilmente. Ed è più facile dire “dove lo metto” piuttosto che “cosa farà”, “cosa facciamo con lui o con lei”. Quando ci si chiede “dove lo metto”, si finisce per scegliere una soluzione di comodo, dietro alle quali può nascondersi anche chi fa del business. Che cosa chiederebbe Basaglia oggi? Che si torni ad investire sull’assistenza psichiatrica. Ce n’è bisogno. Le autorità sanitarie chiedono 20 miliardi di investimento per la sanità pubblica? Bene. Io dico che ci vuole un miliardo dedicato alla psichiatria. Ed è il momento di stendere nuovi decreti attuativi per la legge 180, senza i quali rischia di rimanere una bella pagina di pura teoria. Insomma, qualcuno porti avanti la sua riforma, mettendoci la faccia. Ci pensi, perché tutte le leggi portano fieramente il nome del ministro, del presidente del consiglio, del deputato che l’ha proposta, e solo la legge 180 è rimasta agli atti come legge Basaglia? Perché nessuno vuol rischiare con il consenso elettorale. Perché i matti non votano e non muovono interessi. I presidenti di regione sono quelli che si occupano di sanità. Io non trovo un presidente di Regione che si sia mai occupato di servizi psichiatrici in modo significativo. C’è stato spesso l’affiorare di una cultura molto muscolare contro i più deboli, contro chi sta ai margini. Il tema di oggi è la ricerca spasmodica di capri espiatori. Se non è il matto, è l’immigrato, se non è l’immigrato è il detenuto. Tutto il welfare di comunità va ripensato nell’ottica di una società integrata, e non fatta di ostilità interne. Reprimere non aiuta mai a pacificare. C’è bisogno di capri espiatori quando si vuole assumere un potere che non si è in grado di meritare. Vale nella vita di ciascuno, ma ancor più nella vita pubblica, nella politica. Quando un politico non ha meriti particolari, cerca di additare dei “nemici sociali”. Storicamente, gli ebrei, i neri, gli zingari, gli omosessuali, i matti e i detenuti sono le categorie messe nel mirino. A rotazione. Attraversiamo un periodo di grande scollamento, segnato dalla malattia, dall’impoverimento. Come vede la trasformazione possibile? Una società impaurita è capace di ripensare sé stessa e manifesta la voglia di ricomporsi. Una società distanziata fisicamente tende a riavvicinarsi socialmente, a tornare comunità, a rivalutare i propri tratti comun. Una volta che si supera il trauma, si è capaci di rielaborare e dunque di ricollocarsi in quest’ottica, cercando i propri simili e riscoprendo la necessità di dare forza alla comunità. Spero che i servizi educativi, culturali, sociali aiutino a ricostruire un welfare di comunità, e non solo una batteria di risposte prestazionali ed emergenziali. Non dobbiamo solo curare le ferite ma tesaurizzare l’esperienza per cambiare il modo di vivere la mente. Noi, con Franco Basaglia, lo avevamo fatto. Un rischio troppo elevato. La Giornata mondiale contro gli esperimenti nucleari di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 29 agosto 2020 Era il 16 luglio del 1945 quando a 56 km dalla città di Socorro nel deserto del Nuovo Messico gli Stato Uniti diedero il via al primo test nucleare della storia. “Trinity”, così venne chiamato l’esperimento, doveva testare la potenza di una bomba al plutonio (chiamata in codice The Gadget) dello stesso tipo di quella che sarà poi utilizzata dalle forze armate statunitensi il 9 agosto del 1945 a Nagasaki. L’esplosione di Trinity liberò un’energia pari a 19-21 mila tonnellate di tritolo. Da allora, sono stati condotti quasi 2.000 test nucleari, mille solo negli Usa fino al 1992, 700 in Unione sovietica fino al 1990 e 45 in Cina fino al 1996. Nel corso degli anni, è diventato chiaro che questi esperimenti hanno conseguenze terribili e tragiche, soprattutto in caso di fallimenti nelle condizioni di attuazione, ma anche perché le attuali armi nucleari sono molto più potenti e distruttive di allora. Dopo Nagasaki e Hiroshima altre tragedie come quella di Chernobyl e Fukushima hanno dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, la pericolosità del nucleare. Per questo le Nazioni Unite hanno varato nel 1996 il Trattato che vieta i test nucleari e istituito la Giornata mondiale contro gli esperimenti nucleari che si celebra il 29 agosto. Dunque mercoledì prossimo alle 10 nella sede delle Nazioni Unite a New York il presidente dell’Assemblea generale, Tijjani Muhammad-Bande, terrà una riunione plenaria di alto livello, che a causa della pandemia sarà virtuale, per incoraggiare gli Stati membri ad adottare il Trattato contro i test e proseguire sulla strada dell’eliminazione totale delle armi nucleari. A firmare il Trattato che vieta i test nucleari (Ctt), adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 settembre 1996 sono stati per primi gli Stati Uniti, seguiti da altre 71 nazioni. Ad oggi, l’accordo è stato firmato da 184 paesi e ratificato da 168. Ma per entrare in vigore, deve ancora essere ratificato da paesi con significative capacità nucleari. Intanto, ad esempio, la Repubblica popolare democratica di Corea ha proseguito a realizzare test nel 2006, 2009, 2013, 2016 e 2017. Secondo gli ultimi dati riferiti dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea), al 31 dicembre 2018, la flotta nucleare mondiale aveva 451 reattori nucleari in circa 30 paesi, mentre 55 nuovi reattori erano in costruzione. Entro la fine del 2018, 13 paesi si affidavano all’energia nucleare per fornire almeno un quarto della loro elettricità. In Francia, Ungheria, Slovacchia e Ucraina, l’energia nucleare rappresenta oltre la metà della produzione totale di elettricità. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha più volte ricordato che “i test nucleari lasciano dietro di sé solo distruzione”, invitando dunque gli Stati che non lo hanno ancora fatto a firmare e ratificare l’accordo, in particolare quelli la cui ratifica è necessaria per l’entrata in vigore del Trattato. “In un mondo in cui le tensioni si intensificano e le divisioni crescono, ne va della la nostra sicurezza collettiva” ha detto. Secondo l’Onu dunque nessuna azione è tanto cruciale per scongiurare la guerra nucleare o la minaccia terroristica quanto l’eliminazione totale delle armi nucleari. La Giornata internazionale contro i test nucleari vuole quindi sensibilizzare il mondo per fermare irreversibilmente le esplosioni e impedire l’ulteriore sviluppo di queste armi. L’uranio contro i civili di Gregorio Piccin Il Manifesto, 29 agosto 2020 Un avvocato italiano e il suo collega serbo insieme nel difendere le vittime civili e militari dell’uranio impoverito utilizzato alla fine degli anni 90 dalla Nato nell’ex Jugoslavia. La responsabilità istituzionale per le “vittime interne” dell’uranio impoverito impiegato nelle “guerre umanitarie” della Nato nell’ex Jugoslavia è stata dimostrata inequivocabilmente dalla relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Gianpiero Scanu e dalle 170 cause di servizio risarcitorie e indennitarie a favore di altrettanti ex militari strappate nei tribunali al ministero della Difesa dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia. Per le responsabilità individuali delle alte cariche istituzionali dovremo invece attendere gli esiti delle indagini aperte dalla procura della Repubblica di Roma e dalla procura Militare grazie ad un esposto depositato recentemente dal generale Roberto Vannacci e supportato dalle dichiarazioni del colonnello Fabio Filomeni. Ma quella che si prospetta come una spallata definitiva al muro di gomma (nazionale ed internazionale) sull’affaire uranio impoverito è la inedita saldatura tra le vittime militari dei Paesi che parteciparono all’aggressione e quelle civili dei Paesi aggrediti. Gli incontri alla base di questa iniziativa epocale si svolgono da oltre un anno, con molta discrezione, nello studio romano di Angelo Tartaglia. L’eco dei ripetuti successi dell’avvocato italiano, che non pochi grattacapi ha procurato e sta procurando al ministero della Difesa, hanno raggiunto il suo collega serbo Srdjan Aleksic il quale, accompagnato da Domenico Leggiero dell’Osservatorio militare, ha voluto assolutamente incontrarlo. Oggi sono pronti a rendere pubblica, in esclusiva per il manifesto, la loro strategia che punta ad ottenere verità e giustizia ai massimi livelli. “Ho incontrato il mio collega Srdjan Aleksic per la prima volta presso il mio studio”, spiega Tartaglia. “Mi raccontò di aver perso la madre a causa dell’uranio impoverito. È uno dei più autorevoli avvocati dei Balcani e si è subito creato fra di noi una grande intesa professionale ed umana. È arrivato il tempo di affrontare questa tematica che in Italia ha colpito e continua a colpire i nostri militari reduci da queste aree contaminate, ad un livello più alto. Affrontare la questione nei tribunali in Serbia significa entrare nel cuore giuridico del problema. Non risparmierò le mie energie, dedicherò tutto me stesso e con me il mio collega finché non avremmo raggiunto lo scopo di tutelare tutti. Mai più un danno così enorme alle persone inermi ed al territorio”. Aleksic è infatti molto noto in Serbia: da anni organizza presso l’università di giurisprudenza di Niš simposi internazionali sull’uranio impoverito coinvolgendo massimi esperti da Russia, Giappone, Francia, Belgio, Germania e Cina. “Il problema delle conseguenze dei bombardamenti è stata la mia ossessione per parecchi anni” spiega Aleksic - “Non solo per la tragedia che ha colpito la mia famiglia ma anche per i contatti personali quotidiani con i miei concittadini e con le persone del sud di Serbia. Il carcinoma ed altre malattie gravi con aumento di mortalità hanno segnato gli anni dopo l’aggressione criminale della Nato. Anzi, queste malattie sono diventate sinonimo dell’aggressione stessa. Grazie all’esperienza accumulata dal mio collega Tartaglia, faremo partire in autunno a Niš, Kragujevac, Belgrado, Vranje e Novi Sad altrettante cause risarcitorie. Si tratta di cause a favore dei malati di carcinoma, con incontestabili prove mediche che la malattia è provocata dall’uranio impoverito sparso durante i bombardamenti della Nato”. OLTRE alla sua esperienza l’avvocato Tartaglia ha messo a disposizione le perizie di istituzioni di riferimento che in Serbia non esistono come la Clinica Universitaria La Sapienza di Roma, l’Istituto di nanotecnologia di Milano e il Politecnico di Torino. “E comunque le cinque cause saranno solo il primo passo”, continua Aleksic. “Nel mio ufficio adesso ho più di duemila casi di persone malate che in quel periodo lavoravano in Kosovo e Metohija. Dobbiamo radunare tutti i malati di carcinoma e altre malattie causate dall’uranio perché ogni singolo caso possa essere giustamente risarcito. Ciò vale anche per le famiglie dei morti che possiedono documentazione medica adeguata con prova della causa di morte. Verificheremo ogni singolo caso presso l’Istituto di nanotecnologia in Italia, presenteremo ogni singolo caso nei tribunali in Serbia e tramite le migliaia di cartelle cliniche chiederemo all’Onu di inviare ispettori indipendenti per fare verifiche sulla contaminazione dei territori a distanza di 21 anni dai bombardamenti. Poi ci rivolgeremo alla Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo e informeremo il Parlamento europeo. Il nostro obiettivo è che in tali processi siano chiamati in causa anche i Paesi che hanno partecipato direttamente o indirettamente ai bombardamenti Nato del 1999 anche mettendo a disposizione le loro basi. Questi Paesi, per la quasi totalità europei, dovranno farsi carico della bonifica totale dell’uranio impoverito presente sui nostri territori”. Mentre la relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta è stata depositata dallo stesso Scanu presso la presidenza del Parlamento europeo, l’internazionalismo giuridico che gli avvocati Tartaglia ed Aleksic stanno mettendo in campo varca i confini del legittimo risarcimento per le vittime militari e civili di questo maledetto metallo pesante ed assume chiari contorni politici: ristabilire finalmente quel diritto internazionale ed umanitario espropriato e fatto a pezzi dalla Nato. Migranti. Sicilia, Crocetta demolisce l’ordinanza di Musumeci La Sicilia, 29 agosto 2020 “Con la stessa logica dovrebbe chiudere le carceri”. L’ex presidente della Regione critica aspramente l’ordinanza del suo successore: “Un inutile manifesto di propaganda”. “Quell’ordinanza di Musumeci sui migranti è un inutile manifesto di propaganda, perché il presidente di una regione non può intervenire nelle aree di sicurezza che sono di competenza esclusiva dello Stato, creando un allarme inutile che non esiste. Insomma, è fatto solo per avere qualche titolo di giornale”. Dalla Tunisia, dove vive ormai da qualche anno, l’ex presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta non risparmia critiche all’ordinanza “bocciata” dal Tar Sicilia dopo il ricorso presentato dal Viminale e da Palazzo Chigi. “Con la stessa logica Musumeci potrebbe chiudere le Carceri per via del Covid”, dice in una intervista all’Adnkronos. “Un provvedimento sanitario non può essere efficace, dentro i luoghi deputati alla sicurezza dello Stato”. “La politica non c’entra un accidenti - dice ancora l’ex governatore- è vero che il Presidente della Regione ha competenze su materia di Sanità, ma il tema che diventa assorbente è un provvedimento sanitario e può essere fatto dal Presidente della Regione in un luogo che è deputato dalla sicurezza dello Stato? Con questa stessa logica potrebbe liberare tutti i detenuti dell’Ucciardone per l’emergenza sanitaria”. “Ma poi - dice ancora Crocetta - questi migranti dove vanno? Nelle altre regioni che fanno, e parlo di quelli che sono positivi al Covid? Se passasse un principio del genere significherebbe che qualsiasi sindaco potrebbe chiudere un carcere - spiega - è inutile fare questi manifesti di propaganda, perché sono solo una cosa inefficace sul piano politico”. “Un’altra questione riguarda l’intera gestione - dice ancora Crocetta - un immigrato positivo è più sicuro in un hotspot oppure in giro? È chiaro che un hotspot non c’è nessun pericolo di contagio, mentre all’esterno è pericoloso”. E ribadisce che “sono più pericolosi i turisti che sono andati a Malta”. “Io al posto di Musumeci mi sarei concentrato su altri provvedimenti, per esempio i test sierologici fatti in aeroporto. Io, ad esempio, sono stato 4 giorni in Italia e sono stato un responsabile perché ho fatto il test sierologico in Italia lo stesso giorno che sono arrivato”. “Non si esce dal Covid in una sola regione - dice ancora - bisogna tutti collaborare, a nessuno fa piacere l’immigrazione irregolare. Nel momento in cui una persona è positiva ha diritto a tutte le tutele. Poche centinaia di migranti non rappresentano un rischio, lo sono le decine di migliaia di siciliani che sono andati in discoteca in vacanza. E poi la Sicilia è stata la prima regione incosciente ad aprire le discoteche”. E conclude: “Se l’ordinanza avesse efficacia sarebbe un precedente pericoloso, il tar l’ha sospesa perché non c’era il carattere d’urgenza”. Migranti. Le voci disperate dai lager libici. Violenze di ogni tipo e ricatti di Paolo Lambruschi Avvenire, 29 agosto 2020 Un breve video ne mostra alcuni. Magrissimi e smarriti dopo la liberazione. Molti con problemi di salute. Ma per loro si sono subito riaperte le porte di un centro di detenzione governativo. Il breve filmato mostra facce scavate, corpi scheletrici seduti sui talloni perché non hanno la forza di reggersi in piedi dopo essere sopravvissuti a tre anni di torture a Bani Walid. Li hanno rilasciati da un lager, dove sono stati torturati e affamati da miliziani perché non fuggissero e, dopo che hanno pagato 15 mila dollari di riscatto, cacciati in un altro gestito sempre da miliziani, ma in divisa da poliziotti. È una testimonianza dall’inferno, racconta la sorte che attende molti di quelli ripresi o salvati dal mare dalla cosiddetta guardia costiera libica. Vengono portati in un centro di detenzione governativo e tenuti in condizioni insopportabili e repressi selvaggiamente se si ribellano. Da lì, con la complicità di poliziotti al servizio dei trafficanti, chi non è registrato nelle liste dell’Unhcr viene spesso venduto e sparisce in un centro informale gestito da uno dei gruppi armati fedeli a Tripoli che hanno avviato da anni un florido mercato di esseri umani. Il video è stato girato da Adam - chiamiamolo così per salvaguardarne l’identità perché è ancora in Libia - un africano occidentale che, dopo aver provato a raggiungere in mare l’Europa, è stato riportato in quello che qualcuno si ostina a ritenere “porto sicuro” e rinchiuso a Khoms, uno dei centri di detenzione governativo dove vengono imprigionate le persone salvate nel Mediterraneo. E dove sono arrivati anche alcuni reduci scheletrici di Bani Walid, la “fabbrica delle torture”, rinchiusi di nuovo, senza pietà. Khoms fotografa su piccola scala la situazione attuale dei migranti detenuti in Libia nei centri statali e in quelli delle milizie. Nel lager, 90 km a est di Tripoli, al momento sono chiusi 170 prigionieri, perlopiù eritrei, 100 dei quali registrati dall’Unchr e 70 provenienti dai salvataggi in mare. Adam vi è stato detenuto alcuni mesi e ha scritto anche un diario per non impazzire. Inizia così: “I prigionieri provano sempre a scappare, ma le guardie sparano per fermarli e quando li riprendono li picchiano con spranghe”. Ai primi di agosto è fuggito e ha consegnato via whatsapp il testo a Giulia Tranchina, avvocato italiano che si occupa a Londra di diritti umani. Abbiamo potuto visionare alcuni estratti del diario dove Adam racconta i continui tentativi di fuga e le proteste quotidiane nel centro per la mancanza di cibo e acqua, le condizioni igienico-sanitarie insopportabili nonostante la pandemia e le brutali violenze della polizia costituita da miliziani fedeli al governo tripolino. Repressioni crudeli cui hanno assistito anche operatori di agenzie umanitarie senza poter intervenire. Il direttore del centro è Mustafa Gamra mentre da gennaio l’Unhcr, sostiene Adam, non visita la struttura. Entrano settimanalmente solo i medici di Msf e l’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni. La sua testimonianza inizia il 19 luglio con l’arrivo di 100 persone. Adam scrive: “Chiedono cibo e la polizia li picchia con crudeltà. Tra loro ci sono 6 donne. Non c’è acqua e qui fa troppo caldo”. Poi nei giorni successivi descrive un tentativo di fuga di massa di giovanissimi sudanesi intercettati in mare. “Ieri 74 prigionieri sono scappati. Ma le guardie li hanno inseguiti. Hanno sparato ammazzando tre minorenni e ferendone due. Ne hanno catturati 25 circa, tra cui 8 bambini. I più grandi sono stati massacrati nel cortile davanti a tutti, con le spranghe gli hanno spezzato gambe e mani”. Il racconto è stato confermato da una denuncia di Medici senza frontiere ai primi di agosto. Una sera di fine luglio varcano la soglia di Khoms altre 30 persone salvate in mare. “Alcuni sono feriti, l’Oim ne ha trasportati alcuni in ospedale. A quelli rimasti le guardie non hanno portato il cibo, mancano acqua e corrente”. Poi un’altra rivolta domata nel sangue dopo l’arrivo di 55 uomini e 5 donne, due delle quali incinte, anche questi salvati da una barca alla deriva. “Picchiavano sulle porte per avere cibo e acqua. Le guardie hanno cominciato a tirare pietre, allora i detenuti hanno cercato di sfondare le porte con pali. La polizia prima ha minacciato le donne incinte, poi ha usato lacrimogeni e spranghe”. Ma lo choc più forte è provocato dall’arrivo di 34 detenuti scheletrici liberati da Bani Walid, ampio centro non ufficiale noto per le efferate torture inflitte ai detenuti divisi per nazionalità. Chi può lavorare diventa schiavo fino a pagarsi la libertà gli altri sono torturati fino a che la famiglia o gli amici non pagano il riscatto. Oppure fino alla morte. “Secondo le testimonianze di molti detenuti - spiega Giulia Tranchina - alcuni poliziotti di Khoms cercano i migranti riportati dal mare non registrati dall’Unhcr e li rivendono ai trafficanti. E chi non ha i soldi per pagare il riscatto finisce a Bani Walid”. Dove comanda il libico Abdallah e gli aguzzini sono l’egiziano Hamza e il somalo Hassen Gali. “Sono scioccato - scrive descrivendo i sopravvissuti a quella che chiama “casa della morte” - sono magrissimi, in condizioni terribili. Mangiavano pochissimo, hanno raccontato di essere stati torturati, le donne venivano spogliate e stuprate davanti a tutti. Sono eritrei e somali, hanno pagato 15 mila dollari a testa per il riscatto dopo tre anni di torture. Mi hanno detto che hanno visto 72 persone morire in 2 mesi. Perché li hanno portati qui? Qualcuno è stato ricoverato in ospedale, ma gli altri non si reggono in piedi”. Adam evade ai primi di agosto. La sua voce dal nulla invoca pietà e rende urgente l’evacuazione umanitaria in Paesi europei e africani almeno dei circa 2.500 prigionieri dei centri di detenzione ufficiali. Turchia. Ebru Timtik muore di digiuno: “Il colpevole è lo Stato turco” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 agosto 2020 Dopo 238 giorni di sciopero della fame, si è spenta l’avvocata turca condannata a 13 anni e mezzo per terrorismo. La polizia attacca la commemorazione a Istanbul con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il collega Unsal prosegue la protesta. “Si colpiscono gli avvocati per limitare il diritto alla difesa degli oppositori: i legali hanno paura di difenderli se poi vengono accusati degli stessi reati”, dice al manifesto Fausto Gianelli, uno dei suoi legali. Il corpo di Ebru Timtik si è assottigliato ogni giorno di più nei 238 giorni di sciopero della fame iniziati il 2 gennaio scorso. L’avvocata turca è morta giovedì sera, il cuore si è fermato alle 21.04: pesava 30 chili. Negli ultimi giorni non riusciva nemmeno a ingerire acqua se non con una siringa. Come i musicisti del Grup Yorum, Helin Bolek e Ibrahim Gokcek, morti tra aprile e maggio scorsi, e Mustafa Kocak, loro sostenitore, anche Ebru si è spenta di protesta: era stata condannata due anni fa a 13 anni e mezzo insieme a 17 colleghi (tutti membri dell’Associazione degli Avvocati progressisti), con l’accusa di appartenenza a gruppo terroristico. Un totale di 159 anni di carcere comminati senza rispetto per il diritto alla difesa degli imputati. Meno di due settimane fa, il 14 agosto, la Corte di Cassazione turca aveva rigettato il ricorso presentato a giugno dal collegio difensivo internazionale contro la sentenza emessa sulla base della sola testimonianza di un anonimo accusatore, un detenuto mai identificato che durante il processo contraddiceva sé stesso e dimenticava dichiarazioni. “Il sistema giudiziario turco non ha niente di indipendente, è stato un processo pilotato - ci spiega Fausto Gianelli, membro del consiglio difensivo - Il vertice del Consiglio giudiziario, che dipende dal ministero della giustizia, ha scelto i giudici del procedimento, sostituendo quelli che avevano inizialmente prosciolto gli avvocati per inconsistenza delle prove. Avevano emesso un ordine di scarcerazione ma la notte successiva, alle 1, il collegio è stato cambiato e il giorno dopo, sabato, i nuovi giudici hanno revocato l’ordine di rilascio su richiesta della procura. Mai visto prima. Dal tentato golpe del 2015, il Consiglio giudiziario non è più indipendente ma risponde direttamente al ministero. Per questo pensiamo che sia un omicidio di stato e accusiamo direttamente il governo ed Erdogan di tutto l’iter processuale”. “Ci si accanisce sugli avvocati perché così si colpiscono due persone, il legale e l’assistito, e si intimoriscono i colleghi. Questi processi sono atti di terrorismo giudiziario: si limita il diritto alla difesa degli oppositori se i legali hanno paura di difenderli. Non è una nostra deduzione, è nelle motivazioni della sentenza di condanna: come se ci fosse concorso di reato, la corte cita le attività difensive di un numero “abnorme” di imputati di terrorismo e la frequenza “sopra la media” delle visite agli imputati, arrivando a considerare l’avvocato non neutro ma “organico” al reato”. La morte di Timtik - che per anni si è spesa per operai e minatori, contadini e donne vittime di violenza, per i manifestanti di Gezi Park e, come scrive Gianelli nel suo ricorso, per “gli abitanti la cui proprietà è stata arbitrariamente espropriata a causa della trasformazione urbana, le vittime di tortura nelle carceri e nelle stazioni di polizia, gli imputati per reati di opinione, lavoratori e militanti politici” - ha riacceso ieri la rabbia. A Istanbul, di fronte all’Associazione degli avvocati, colleghi e attivisti si sono ritrovati per commemorare Ebru: “La sua morte poteva essere evitata”, ha scritto in una nota l’associazione, a cui si sono unite quelle delle principali città turche, Ankata, Antalya, Bursa, Mersin. Nelle stesse ore la polizia aggrediva decine di persone fuori dall’Istituto di Medicina legale dove è stata effettuata l’autopsia. Video mostrano l’arrivo di veicoli blindati, le spinte degli agenti e il lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma. Una violenza simile a quella che accompagnò i funerali di Ibrahim Gokcek. Come lui, Ebru - in una bara avvolta nella bandiera rossa - è stata accompagnata dalla sala di preghiera alevita di Gazi, storico quartiere della sinistra turca, al vicino cimitero dove è stata sepolta accanto alla madre. La polizia anti-sommossa, riportano i giornali locali, ha circondato il cimitero con blindati e cannoni ad acqua, impedito una marcia di protesta e sequestrato il corpo fino al luogo della sepoltura, vietando alla famiglia di portarla sulle spalle. A salutarla non c’era la sorella Barkin, anche lei avvocata detenuta nel super carcere di Silivri: la procura non le ha concesso un permesso per i funerali, usando come giustificazione l’epidemia di Covid-19. La battaglia prosegue. La porta avanti Aytac Unsal, avvocato, anche lui condannato nel maxi processo intentato da una magistratura sempre più erdoganizzata. Unsal non mangia dal 2 febbraio, 205 giorni. Come Ebru, Aytac è stato portato con la forza, il 30 luglio, in ospedale, mentre l’appello per il loro rilascio veniva rigettato dalla Cassazione: “La loro salute non è in serio pericolo”, la risposta del tribunale del 14 agosto. “Il ricorso si può ripresentare - continua Gianelli - se le condizioni mutano. Ma se a Timtik, nella situazione in cui era, non sono stati concessi i domiciliari, credo ci sia poco in cui sperare. Continueremo comunque a denunciare a livello internazionale quanto accade. L’appello di domenica scorsa, con 1850 firmatari dalla Turchia e dall’estero e con l’Italia che ha partecipato in maniera massiccia, è stato importante. Avvocati, giudici, camere penali, tanti ordini si sono mossi, si è allargato il cerchio di interesse nella classe forense. È intervenuto anche l’Ordine nazionale degli avvocati, in centinaia hanno mandato fax alla Cassazione turca per protestare. Una mobilitazione italiana ed europea senza precedenti”. “La lotta continuerà con chi è rimasto e a nome di Ebru, ci stiamo coordinando. Potremmo rivolgerci alla Corte europea dei diritti dell’uomo. I colleghi turchi sono spaventati, la coordinatrice del collegio difensivo Ceren Uysal è scappata all’estero perché teme l’arresto, coordina l’attività da fuori”. Si combatte ancora per gli altri, per Aytac ricoverato in un ospedale penitenziario. È da lì, da una finestra della stanza del Dr. Sadri Konuk Hospital nel distretto di Bakirkoy, che Ebru Timtik è apparsa l’ultima volta, le mani aggrappate alle grate e un sorriso. Turchia. Avvocati, intellettuali, giudici: ecco tutti i nemici di Erdogan di Simona Musco Il Dubbio, 29 agosto 2020 Non c’è spazio per i dissidenti nella Turchia di Erdogan, dove le carceri ingoiano coloro che protestano per i diritti civili spuntadoli fuori, molto spesso, soltanto da morti. Giornalisti, professori, artisti, intellettuali. E, soprattutto, avvocati. Non c’è spazio per i dissidenti nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, dove le carceri ingoiano coloro che protestano per i diritti civili spuntadoli fuori, molto spesso, soltanto da morti. E la repressione continua, nonostante lo stato d’emergenza, durato due anni e proclamato a luglio 2018, sia ufficialmente finito. Ebru Timtik è solo l’ultima vittima: Helin Bölek, solista del gruppo musicale Grup Yorum, è morta il 3 aprile dopo essersi rifiutata di mangiare per 288 giorni in segno di protesta contro l’imprigionamento di altri membri del gruppo, al quale erano stati vietati i Abdullah Öcalan, leader dell’ala armata del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), al quale è stata vietata ogni visita con familiari e avvocati. Molti, tra coloro che hanno preso parte allo sciopero, sono stati accusati di terrorismo. Sono 101 i giornalisti attualmente in carcere e 1546 gli avvocati perseguitati dal 2016, 605 quelli arrestati e 345 quelli condannati arbitrariamente, per un totale di 2145 anni di prigione. Uomini e donne diventati il simbolo della repressione dell’opposizione politica al regime di Erdogan, che il giorno dopo il fallito golpe del 16 luglio 2016 ha licenziato 2.745 giudici, un terzo del totale. Ma non solo: 182.247 funzionari, insegnanti e accademici statali hanno perso il lavoro, 59.987 di loro sono stati arrestati e condotti in carceri dove il diritto alla difesa è una chimera. Una situazione semplificata concerti. Dopo di lei, il 7 maggio, è morto il bassista della band, Ibrahim Gökçek, anche lui stroncato da uno sciopero della fame durato 323 giorni. E prima di loro la stessa sorte era toccata al prigioniero politico Mustafa Koçak, morto il 24 aprile dopo un digiuno di 296 giorni. Sono migliaia, stando al rapporto di Amnesty International, le persone rimaste in custodia cautelare per tempi lunghissimi, senza che a loro carico vi fossero prove di un qualche reato riconosciuto dal diritto internazionale, in carceri dove non di rado è praticata la tortura. Tra gennaio e maggio, migliaia di prigionieri hanno avviato uno sciopero della fame, seguendo l’esempio di Leyla Güven, parlamentare dell’Hdp di Hakkari, che chiede la fine dell’isolamento totale di dal caso dei 20 legali dell’associazione degli avvocati progressisti - della quale faceva parte Timtik - arrestati nel 2017 e condannati il 20 marzo 2019 in violazione di qualsiasi elemento costitutivo del giusto processo: dal diritto alla difesa, a quello al contraddittorio, passando per il diritto ad essere giudicati da un tribunale indipendente. Colpa degli avvocati quella di aver difeso gli oppositori politici di Erdogan, ma non solo: tra loro ci sono anche i difensori delle famiglie espropriate delle loro case a Istanbul, abbattute per far posto ai grattacieli, o di donne che sono state picchiate dai mariti perché rifiutavano di portare il velo. Tra le persone finite in carcere anche il presidente dell’associazione degli avvocati progressisti, Selçuk Kozagaçli, condannato a 19 anni per aver fondato e gestito un’organizzazione internazionale di matrice terroristica, mentre gli altri per averne fatto parte, con pene dai tre anni e un mese in su. Il capo di imputazione si regge sull’aver suggerito ai propri clienti di avvalersi della facoltà di non rispondere, con una percentuale statistica considerata superiore al dato nazionale, ma anche a colloqui con le famiglie troppo lunghi e frequenti. La storia è iniziata con le purghe contro gli accademici, messa in atto da Erdogan dopo il mancato golpe, tra i quali Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, imputati per “terrorismo” per presunti legami con il gruppo di estrema sinistra Dhkp. L’arresto di tutti e venti gli avvocati del collegio difensivo è avvenuto due giorni prima dell’inizio del processo a loro carico, diventato di colpo un processo politico per contrastare l’opposizione. Solo sei mesi dopo l’arresto, a marzo 2018, agli avvocati è stato concesso di prendere visione dei capi d’imputazione, secondo i quali l’associazione degli avvocati progressisti costituirebbe una branca del partito rivoluzionario messo fuori legge da Erdogan. La riforma costituzionale ha poi segnato in via ufficiale una vera e propria fusione tra potere governativo e sistema giudiziario: con la legge antiterrorismo del 25 luglio 2018 è stata infatti istituita una costola del potere che monitora gli istituti pubblici e che ha pieno e completo accesso a tutti gli elementi sensibili di tutti gli ordini degli avvocati della Turchia. Cile. I detenuti mapuche rinunciano anche all’acqua. Il governo Piñera li ignora di Claudia Fanti Il Manifesto, 29 agosto 2020 Il ministro della Giustizia non rispetta l’accordo trovato con i prigionieri politici, che riprendono la loro lotta in carcere. Contro di loro, in campo scendono anche i camionisti “anti-indigeni”. È una corsa contro il tempo quella per salvare gli otto detenuti mapuche del carcere di Angol che, già in sciopero della fame da 117 giorni, hanno smesso da lunedì anche di ingerire liquidi. Una misura estrema - a cui si sono uniti nei giorni successivi anche otto mapuche del carcere di Lebu - adottata per protestare contro l’assenza di risposte da parte dello Stato cileno rispetto all’applicazione effettiva al codice penale della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni. Il 9 agosto il ministro della Giustizia Hernán Larraín si era impegnato a dare risposta, entro 12 giorni, alla richiesta dei mapuche di un dialogo di alto livello mirato a individuare una soluzione per i detenuti già condannati e per quelli in custodia cautelare, in cambio di un’assoluta riservatezza sui negoziati e della sospensione dello sciopero della sete che i prigionieri politici avevano appena intrapreso. Al solito, a fronte del rispetto da parte mapuche delle condizioni dell’accordo, il ministro non ha mantenuto la parola: scaduti i 12 giorni, nessuna risposta è giunta dal governo. Da qui la decisione dei detenuti, tutti in condizioni assai critiche, di riprendere lo sciopero della sete. Grande preoccupazione per la sorte dei 16 mapuche (e anche degli altri 11 in sciopero della fame) è stata espressa dal machi Celestino Córdova che il 18 agosto, dopo 107 giorni, aveva terminato lo sciopero della fame dopo aver raggiunto un accordo, benché parziale, con il governo. Esigendo dallo Stato il rispetto degli accordi, l’autorità spirituale ha ringraziato il popolo mapuche e quello non mapuche per la solidarietà espressa, invitando a promuovere marce e atti di protesta in appoggio ai prigionieri politici. Nella crisi sono entrati a gamba tesa anche i camionisti, che giovedì hanno iniziato uno sciopero per esigere la rapida approvazione, in funzione prevalentemente anti-mapuche, dei progetti di legge repressivi varati dal governo Piñera durante le proteste dei mesi scorsi: dalla cosiddetta legge “anti-incappucciati” a quella sulla presenza di militari a guardia della “infrastruttura critica”, fino a un inasprimento della già severa legge antiterrorismo promulgata durante la dittatura di Pinochet. Uno sciopero che - malgrado la minaccia di paralizzare il paese in piena pandemia e con la disoccupazione alle stelle grazie alla contestatissima legge di “protezione” dell’impiego - ha incontrato la totale comprensione del governo che, descrivendo i potenti camionisti come vittime dei disordini provocati dai mapuche nell’Auracanía, ha già fatto sapere che lunedì “sarà trovata una soluzione”. E si può star certi che in questo caso manterrà fede ai propri impegni. È così, con minacce e pressioni a favore del pugno di ferro contro ogni dissenso, che la destra si sta preparando al plebiscito sull’elaborazione di una nuova Carta costituzionale del prossimo 25 ottobre, non risparmiando alcuno sforzo per blindare lo status quo: non solo attraverso il potere di veto garantito dalla trappola della maggioranza dei due terzi, ma anche limitando il più possibile la portata della discussione, a partire dal divieto di modificare i trattati internazionali e dalla pretesa di impedire anche il dibattito sul modello economico. Si mobilita tuttavia anche il movimento di protesta, che - pur continuando a indicare come vera soluzione la realizzazione di uno sciopero generale continuato e a oltranza per ottenere la caduta di Piñera e imporre un’Assemblea costituente libera e sovrana - è deciso a buttarsi nella mischia, prendendo parte al voto, al fine di aprire quante più crepe possibili nel muro di contenimento innalzato dalle forze politiche per bloccare ogni cambiamento reale. Magari, chissà, creando una forza politica alternativa per presentare i propri candidati al processo costituente. Bielorussia. Quasi 50 i reporter detenuti per le proteste a Minsk progettoitalianews.net, 29 agosto 2020 Sono quasi 50 i giornalisti detenuti ieri durante le proteste a Minsk contro il presidente Aleksander Lukashenko. La maggior parte dei reporter sarebbe nel frattempo rilasciata. Lo riferisce l’associazione bielorussa dei giornalisti. “In tutto sono circa 50 i giornalisti fermati. Praticamente tutti di loro sono stati liberati dopo un controllo dei loro documenti di identità”, si afferma sul sito dell’associazione. A detta della quale quattro dei reporter fermati - Katerina Andreyeva, Maxim Gorchanok, Alexander Vasyukovich e Andrei Yaroshevich - sono stati accusati per partecipazione ad una manifestazione illegale. “Questi giornalisti si sono rifiutati di permettere alla polizia di controllare i loro smartphone e saranno detenuti in una struttura apposita fino all’udienza in tribunale”, continua l’associazione. C’è “almeno un caso” di ordine di espatrio, afferma ancora l’associazione bielorussa dei giornalisti. “Si tratta del reporter svedese Paul Hansen. L’ambasciatrice svedese in Bielorussia, Christina Johannesson, ha effettuato una visita del distretto di polizia di Oktyabrsky dove venivano detenuti i giornalisti”, scrive ancora l’organizzazione. Che aggiunge che “Paul Hansen deve lasciare la Bielorussia e ha il divieto di tornare il nostro Paese per 5 anni”. Un’altra giornalista, Tatyana Korovenkova di Belapan, è stata trasportata dalla stazione di polizia ad un ospedale in seguito ad un improvviso balzo della pressione sanguigna. Iran. Arrestato il musicista Mehdi Rajabian: collabora con donne La Repubblica, 29 agosto 2020 L’accusa: “Incoraggia la prostituzione”. In carcere già altre due volte, è un’importante voce underground nella scena musicale: “Vogliono soffocare la mia voce”. A processo per aver collaborato con cantanti donne e ballerine. Il musicista iraniano Mehdi Rajabian, 30 anni, è stato arrestato, di nuovo. Già incarcerato altre due volte, Rajabian è stato riportato in prigione a causa del suo ultimo progetto. Un album ancora incompleto che include anche cantanti donne, cosa vietata in Iran. Secondo l’accusa, la sua musica incoraggia la prostituzione. Il ministero della Cultura iraniano non ha ancora risposto a una richiesta di commento della Bbc che ha intervistato Rajabian e raccontato la sua storia: “Questo regime vuole soffocare la mia voce”, ha detto, “premono perché smetta di fare musica”. Mehdi Rajabian è un’importante voce underground nella scena musicale iraniana. Vive a Sari, nel nord dell’Iran, ha spiegato di essere stato convocato dalla polizia il 10 agosto, arrestato e portato in tribunale dopo l’uscita, sempre sulla Bbc, di un’intervista sull’album ancora in lavorazione e la pubblicazione di un video con la famosa ballerina classica persiana Helia Bandeh che si esibisce sulla sua musica. È stato rilasciato perché la sua famiglia ha potuto pagare la cauzione: “Se continuo a fare musica, mi riporteranno in carcere, per ora devo aspettare il giorno del processo”. Ma Rajabian non si arrende. Secondo il codice penale iraniano, cantanti e ballerini possono essere perseguiti se le autorità ritengono i loro atti “indecenti” o “immorali”. Le donne sono teoricamente autorizzate a esibirsi in un coro o come cantante solista per un pubblico solo femminile, ma il permesso è raramente concesso. Dal momento del rilascio, le attività di Rajabian sono monitorate dal regime e lui vive quasi in isolamento. “I giorni del coronavirus sono la normalità per me perché sono stato completamente solo a casa per anni”, ha detto, “è come se fossi stato trasferito da una prigione più piccola a una più grande”. Gli altri artisti hanno paura di sostenerlo e all’inizio di questo mese, un giornalista che si occupa di musica è stato arrestato e detenuto a Evin per diversi giorni dopo aver menzionato Rajabian in un articolo. “In generale, il loro piano è la mia completa distruzione”. Ma la pressione non lo ha scoraggiato. L’anno scorso, ha pubblicato un nuovo album, Middle Eastern, con Sony Music in Turchia. Registrato in segreto, ha contributi di quasi 100 artisti di 12 Paesi, tra i quali Siria, Yemen, Giordania, Libano e Iraq. Una delle canzoni è stata registrata durante un attacco aereo, un’altra da un rifugiato in fuga su una barca. Ma è stata la decisione di lavorare con “un certo numero di cantanti donne di vari paesi del Medio Oriente” (anche se nessuna di loro si trova in Iran) ad aver attirato di nuovo le autorità iraniane. “Perché il governo iraniano è così spaventato?” Forse, ha aggiunto, perché ogni arte che fa pensare è considerata pericolosa. Dopo la rivoluzione del 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini vietò la trasmissione di musica in Tv o alla radio, sostenendo che rendeva il cervello umano “inattivo e frivolo”. Solo la musica della rivoluzione e le canzoni religiose restarono ammissibili e quasi tutti i cantanti pop iraniani partirono per gli Stati Uniti. Ma negli anni 90, nel sottobosco delle grandi città, i giovani ricominciarono a suonare costruendo da soli i propri strumenti e componendo canzoni che venivano trasmesse solo su un programma a richiesta persiano della Bbc). All’inizio del 2000, dopo un allentamento sulle leggi, il mercato del pop iraniano si è riaperto e, attraverso Internet, ha cominciato a diffondersi. Le band suonano rock, fusion, rap e folk alternativo. Guatemala. L’impunità è di casa: il Paese è tra i più corrotti del mondo di Vittoria Romanello La Repubblica, 29 agosto 2020 Dopo la revoca del mandato alla Commissione Onu. Un anno fa, il governo dell’ex presidente, Jimmi Morales aveva impedito alla Commissione Internazionale contro l’impunità di proseguire il suo lavoro. Oggi un Report del Global Impunity Index. Il Guatemala è entrato quest’anno nella lista dei paesi con il più alto indice di corruzione. Esattamente un anno fa, il governo dell’ex presidente, Jimmi Morales aveva impedito alla Commissione Internazionale contro l’impunità di proseguire il suo lavoro. A 12 mesi di distanza, un Report del Global Impunity Index (Igi) - il più importante presidio accademico internazionale per misurare, comparativamente, i livelli di impunità nel mondo - ci dice che il Paese centroamericano è salito su questo speciale “podio” tutt’altro che onorevole. Gli attacchi contro chi difende i diritti. Di sicuro non ha aiutato a cambiare le cose il fatto che, giusto un anno fa, il precedente governo del Guatemala era riuscito a chiudere definitivamente la Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig). Del resto, da anni la Commissione era stata ostacolata, ma il governo dell’ex presidente Jimmy Morales è stato ancora più efficace, riuscendo a sbarrarle definitivamente il cammino. Nel frattempo, gli attacchi contro i difensori dei diritti umani sono aumentati in un contesto in cui s’è registrata una progressiva riduzione degli spazi di libertà per la società civile. Alla fine del 2019, ad esempio, il Guatemala non aveva ancora ratificato l’Accordo regionale sull’accesso alle informazioni, l’accesso alla giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi (chiamato anche l’Accordo di Escazú) né tantomeno la Convenzione internazionale per la protezione contro le sparizioni forzate. Individuati 120 casi di corruzione. Le ultime elezioni hanno eletto presidente Alejandro Giammattei, in carica da gennaio 2020. Giammattei si trova a gestire un Paese dove per anni le massime autorità hanno sistematicamente minato i risultati in materia di giustizia e diritti umani, realizzati nell’ultimo decennio. In violazione degli ordini della Corte Costituzionale, il più alto organo giudiziario del Paese, il governo ha continuato ad ostacolare il lavoro della Cicig, ha rifiutato di rinnovare il suo mandato, fino a decretarne la sua chiusura definitiva. Assieme alla magistratura inquirente, la Cicig aveva indagato e identificato più di 70 strutture criminali, in più di 120 casi di corruzione importanti, molti dei quali legati a violazioni dei diritti umani. Il dibattito sull’amnistia. L’inadeguata risposta dei magistrati rispetto alle violazioni del governo e alle sentenze della Corte Costituzionale, oltre all’assenza di un piano di transizione per la chiusura della Cicig, hanno indebolito lo stato di diritto e la lotta contro l’impunità. Intanto continuano i dibattiti sull’eventuale un’amnistia per gli accusati e persino per coloro che sono stati condannati per crimini di guerra, durante il conflitto armato che durò dal 1960-1996. Le tattiche dell’ex ministro latitante. Un ex ministro, Alejandro Sinibaldi, ha comunicato la decisione di arrendersi alla giustizia guatemalteca, dopo quattro anni e tre mesi di latitanza. Cresce il dubbio che l’ex ministro abbia volontariamente deciso di farsi giudicare, anche perché il sistema di giustizia guatemalteco - anche quello - è tra i più corrotti del mondo. Va infatti ricordato che il Guatemala continua ad essere uno dei Paesi dove si registra il più alto tasso di impunità, sempre secondo l’ultimo rapporto del Global Impunity Index 2020, preparato dall’Università di Las Américas Puebla. L’analisi indica che il Guatemala è regredito dopo la chiusura della Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (Cicig). Il caso di Heidi Ku, attivista di Cobán. L’indice misura anche la questione della sicurezza e dei diritti umani, nel report si ribadisce ancora una volta che lo Stato è responsabile della protezione degli operatori della giustizia da attacchi, atti di intimidazione, minacce e molestie, e che ha il dovere di indagare i casi di attacco ai difensori dei diritti umani. Avevamo già denunciato il caso di Heidi Ku, una giovane attivista di Cobán, cittadina del Dipartimento di Alta Verapaz. Una comunità dedicata alla coltivazione del caffè e che da anni è minacciata da gruppi paramilitari che vogliono impossessarsi della terra. Le minacce continuano, tra incendi dolosi e denunce inascoltate. Il caso di Bernardo Caal, in prigione da 2 anni. Amnesty International denuncia intanto il caso di Bernardo Caal Xol, leader indigeno del popolo maya Q’eqchi e difensore dei diritti umani guatemaltechi, imprigionato da oltre due anni. Dal 2015 infatti Bernardo Caal difende i diritti delle comunità di Santa María Cahabón, colpite dalla costruzione della centrale idroelettrica OXEC sui fiumi Oxec e Cahabón nel dipartimento settentrionale, anche lui nella regione dell’Alta Verapaz. Per ritorsione, Bernardo Caal è stato accusato di aver compiuto presunti atti di violenza, e il 9 novembre 2018 un tribunale lo ha condannato a sette anni e quattro mesi di carcere per i reati di rapina. “Purtroppo in Guatemala coloro che parlano per difendere i propri diritti - ha detto Erika Guevara Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International - continuano a essere criminalizzati. Le autorità continuano a usare la giustizia penale per mettere a tacere e imprigionare i difensori dei diritti umani e questa volta è stato Bernardo”. La denuncia di Amnesty International. Un richiamo dell’organizzazione sulla situazione dei difensori dei diritti umani in Guatemala. In una lettera pubblica inviata al procuratore generale María Consuelo Porras, Amnesty International ha espresso la sua preoccupazione per le irregolarità e la negligenza nel procedimento penale contro Bernardo Caal - come l’assenza di elementi oggettivi a sostegno dell’accusa - che coincidono con i modelli di criminalizzazione preventivamente documentati dall’organizzazione nei casi di chi difende il territorio o l’ambiente. Mali. L’imam Dicko: “Il nostro Paese non resterà in mano ai militari” di Pietro Del Re La Repubblica, 29 agosto 2020 Il religioso che ha guidato la rivolta popolare si schiera contro i colonnelli responsabili del golpe: “La transizione non deve durare più di sei mesi, poi serve un presidente scelto tra i civili”. “Ai colonnelli che stanno scippando la vittoria al popolo del Mali dico che siamo pronti a tornare nelle piazze”, avverte l’imam Mahmoud Dicko, 66 anni, autorità morale del vasto movimento di protesta che negli ultimi mesi ha organizzato numerose manifestazioni di massa contro Ibrahim Boubakar Keita, il presidente arrestato la settimana scorsa dai militari golpisti. Predicatore carismatico, a capo dal 2008 al 2019 dell’influente Alto consiglio islamico, Dicko è stato spesso definito un faiseur de roi, un facitore di re, per via del suo forte ascendente sulla politica del Paese, mentre per i suoi reiterati appelli contro le élite c’è chi preferisce chiamarlo “l’imam populista del Sahel”. “Solo Dio ha il potere di fare un re, quanto al mio populismo si confonde con la rabbia che nutro per l’ormai ex regime, che era corrotto e incapace a governare”, spiega Dicko, il cui rigore religioso ispirato al wahabismo saudita gli ha conferito credito anche presso i jihadisti che occupano il 70 per cento del Paese, rendendolo un interlocutore privilegiato tra loro e le autorità di Bamako. Dopo aver atteso per ore il nostro turno dietro una lunga fila di questuanti, tra i quali politici, uomini d’affari ma anche poveri fedeli venuti a chiedergli aiuto, l’imam ci riceve finalmente nel suo salotto, quasi interamente occupato da divani solenni e dove un grosso condizionatore spara aria gelata. Crede che il movimento contestatario riuscirà a esercitare un controllo democratico sulla giunta putschista? “Certo, il popolo ne ha i mezzi perché mai come adesso è consapevole della sua forza. Sa bene che adesso spetta a lui decidere chi deve comandare. Non certo ai colonnelli, che si comportano come se fossero i soli ad aver rovesciato Ibrahim Boubakar Keita, riunendosi con gli inviati dei Paesi dell’Africa occidentale e ricevendo l’ambasciatore francese e il capo dell’operazione militare “Barkhane” senza mai coinvolgere l’opposizione”. Lei scarta l’ipotesi di una lunga transizione, guidata da un leader militare? “È una proposta inaccettabile. Come ho spiegato l’altra sera ai colonnelli la transizione non deve durare più di sei mesi, e a traghettarci verso il futuro dovrà essere un presidente scelto tra i civili”. Che cosa ha pensato due giorni fa, quando i colonnelli hanno rimesso in libertà il presidente? “Sono stato io a farlo eleggere nel 2013, per poi accorgermi quanto fosse incapace a governare. Lo considero un fratello, ma non posso dimenticare i dimostranti che ha fatto uccidere a luglio. Quando gliel’ho rinfacciato, mi ha risposto che non avrei dovuto incitare i giovani a scendere in strada, sebbene manifestare sia un diritto costituzionale. Prima di liberarlo avrei preferito che su quei fatti ci fosse stata almeno un’inchiesta”. Con il suo intervento militare del 2013 la Francia impedì la conquista jihadista del Mali, dove ancora oggi dispiega cinquemila soldati. Eppure i maliani sembrano sempre più ostili alla sua presenza. Perché? “Perché la classe politica non ha fatto altro che addossare tutte le colpe della propria inettitudine sulla Francia, come se fosse la responsabile della corruzione o delle appropriazioni indebite di fondi pubblici che c’impoveriscono. Io sono davvero convinto che la rinascita del Mali si potrà fare solo con la Francia. Da secoli, i destini dei due Paesi sono legati e lo rimarranno ancora a lungo”. Com’è percepita l’operazione “Barkhane”? “La presenza militare straniera in Mali non è mai stata discussa in Parlamento e la maggior parte dei maliani non ne sa nulla. I francesi sono tutti nella base di Gao, nel deserto, a quasi duemila chilometri da Bamako. Nessuno sa quante persone ammazzano né come le ammazzano”. Lo scorso febbraio, con la crescita esponenziale di morti nel Sahel, il presidente Keita aveva deciso di aprire un dialogo con gli emiri di Al Qaeda. Che ne sarà di quell’iniziativa? “Ma erano soltanto parole al vento, a cui nessuno ha dato seguito. Credo che con i jihadisti maliani si possa e si debba negoziare, perché nessun Paese può sopravvivere a una guerra così lunga e così cruenta. Molti di loro li conosciamo, e alcuni hanno in passato perfino rivestito ruoli istituzionali. Gli altri, i terroristi stranieri, vanno invece combattuti. Con chi vuole imporre la religione con il kalashnikov, nessun dialogo è possibile. È gente che non serve né all’Islam né al nostro Paese”. Ma da wahabita non preferirebbe che fosse applicata la sharia e che il Mali diventasse una repubblica islamica come la vicina Mauritania? “Sono un musulmano ma sono anche un uomo realista. Applicare la sharia nel Mali del XXI secolo, con una capitale moderna come Bamako, non avrebbe alcun senso. E poi, il 98% della nostra popolazione è musulmana. Di fatto, siamo già una repubblica islamica”. Che cosa accadrà adesso? “La nazione si sta disintegrando per via della crisi attuale, la più grave della nostra storia recente. Con il bastone del pellegrino attraverserò il mio Paese, che è grande due volte come la Francia, per risvegliare le coscienze e per far capire che dobbiamo fermare le faide tribali e i conflitti intercomunitari. Una volta uniti riusciremo a sconfiggere il nemico jihadista, perché noi siamo venti milioni e loro poche migliaia. Ma a contrastarlo non devono essere solo l’esercito del Mali e le potenze straniere, altrimenti, con il pretesto della guerra, i governanti continueranno a stornare miliardi. Con il rischio di rendere eterno questo conflitto”. E il golpe? “La transizione non deve durare più di sei mesi, poi serve un presidente scelto tra i civili”.