La nuova “resistenza” per un carcere più giusto e aperto al mondo esterno di Roberto Sensi Il Dubbio, 28 agosto 2020 Viaggio negli istituti penitenziari della penisola: tra strutture obsolete e affettività negata, il racconto della solitudine di chi ci vive e ci lavora. Come lo immagini il carcere tra vent’anni? È questa la domanda che è stata posta alla chiusura delle interviste, nelle tappe del mio tour attraverso le carceri. A viaggio terminato, io invece mi chiedo cosa penseranno di noi le persone tra vent’anni. A Lamezia Terme Sandra Berardi, dell’associazione Yairaiha, è convinta che le attuali condizioni detentive possano essere paragonate a dei moderni campi di concentramento. Il confronto, ovviamente, è azzardato, ma rende bene il senso di oppressione, ingiustizia e solitudine che avverte chi dietro le sbarre ci vive o ci lavora quotidianamente. L’articolo 27 della nostra Costituzione nasce dalle atroci sofferenze anche di chi, internato nei lager, si era ripromesso che nessuno avrebbe mai più dovuto subire quegli orrori e che quindi le pene non potessero consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ma se penso a Poggioreale, così come lo descrive Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli, non sono certo che questo principio venga rispettato: sovraffollamento e strutture fatiscenti offendono la ratio dell’articolo 27. In queste condizioni, la rieducazione del condannato, pur prevista dalla nostra Carta, resta una chimera. E l’alto tasso di recidiva non fa che confermarlo. Don Vincenzo Russo, Cappellano del carcere di Sollicciano, sostiene che il condannato si senta in credito nei confronti della società per tutto ciò che subisce durante la detenzione e che alla fine non ne esca una persona migliore. E come potrebbe riabilitarsi, ad esempio, chi ha subito il carcere duro? Può il 41 bis non essere considerato un trattamento contrario al senso di umanità? Roberto Cavalieri, garante dei detenuti a Parma, ci racconta le rigide regole che scandiscono la vita dei reclusi nella sezione speciale. Se l’intento del legislatore, figlio di una stagione emergenziale, era recidere le ramificazioni mafiose all’interno delle carceri, mi chiedo oggi quale sia la ragione per la quale le persone soggette a tale regime non possano leggere un quotidiano o guardare la televisione o augurarsi buon pranzo. Qual è il ruolo dello Stato? Il braccio vendicatore o il difensore della Costituzione? Carmelo Musumeci, in carcere per la maggior parte della sua vita, è convinto che un comportamento vendicativo da parte delle istituzioni nei confronti dei mafiosi non faccia che crearne il mito. Non sarebbe allora il caso di ripensare drasticamente un concetto ormai obsoleto del carcere? La Costituzione parla di pene al plurale. E invece, come sostiene Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la Campania, in Italia la pena è una sola: la prigione. In periodo di Covid molti magistrati di sorveglianza, applicando le norme dello Stato, hanno accelerato l’iter per l’ammissione a pene alternative a circa 400 persone. Per gran parte dei media la semplificazione è la scorciatoia più efficace e il messaggio che passa è: “Covid libera tutti. In galera non ci va mai nessuno”. Eppure, sono talmente “pochi” i detenuti in Italia, che la Cedu fa un copia incolla ogni anno per scrivere la sentenza con cui ci condanna al pagamento di una sanzione per il sovraffollamento. Il carcere deve essere l’estrema ratio, anche per Bernardina Di Mario, direttrice del penitenziario di Perugia. Attraverso l’organizzazione di eventi aperti ai familiari dei detenuti e alla cittadinanza, Di Mario si adopera affinché le galere non siano percepite come monadi isolate, ma come reti interconnesse con la “vita di fuori”. Ne è fermamente convinta anche Fiammetta Borsellino, a cui viene in mente una sola parola: apertura. Apertura all’esterno, apertura mentale della società civile per favorire percorsi di incontro e reinserimento sociale. Ma il carcere non è solo obsoleto come concetto, anche le strutture cadono a pezzi. Davanti a Regina Coeli, chiacchierando con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, scopro che originariamente la costruzione ospitava un monastero e solo successivamente venne trasformato in carcere. L’architettura e la disposizione degli spazi interni stride con la visione futuristica di Alessandro De Rossi, vice presidente del Centro Europeo Studi Penitenziari, che pone l’accento sull’importanza dell’affettività dietro le sbarre, per non privare di questo diritto anche i familiari dei detenuti che non hanno commesso alcun reato. La stanza dell’amore, però, resta un’utopia per il sistema penitenziario italiano. L’amore non oltrepassa le spesse pareti degli istituti. Anzi, il carcere quasi sempre è un luogo invisibile, dove rinchiudere emarginazione e devianza. Paola Cigarini, volontaria a Modena, lo descrive come collettore di ogni disagio: dalla tossicodipendenza al disturbo psichico. Un contenitore chiuso che, come una pentola a pressione, può scoppiare da un momento all’altro. Come purtroppo è successo a marzo, quando durante le rivolte alcuni tossicodipendenti sono riusciti a entrare in possesso del metadone e ne hanno abusato, per qualcuno l’overdose è stata fatale. Tossicodipendenti, migranti, persone con disturbi psichici. È questo il grosso della popolazione carceraria. E nella maggior parte dei casi, in cella ci finisce chi non ha subito alcuna condanna, vittima di un uso disinvolto delle misure cautelari: la percentuale di detenuti in attesa di giudizio è troppo alta per un Paese civile. A volte lo sprone per le carcerazioni preventive è dato dai pregiudizi: sei calabrese allora sei mafioso. È il caso di Platì, dove in una notte del 2003 migliaia di uomini in divisa cingono d’assedio il paese nell’ambito dell’operazione “Marine”: oltre cento gli arresti e alla fine solo otto le condanne. Tra questi anche l’ex sindaco, che nel cuore della notte viene svegliato e tratto in arresto. Verrà rimesso in libertà dopo 15 giorni in sede di convalida del Tribunale del riesame. Ma il calvario giudiziario durerà anni. La colpa più grave? Essere nati a Platì. Più grave ancora, il caso di Gaetano Santangelo, arrestato sedicenne con l’accusa di omicidio e assolto dopo 37 anni, passati tra detenzione e latitanza. Una vita distrutta da una giustizia iniqua e persecutoria. Nel corso del mio viaggio ho incontrato persone con cui sono entrato immediatamente in sintonia. Donne e uomini che, azzardando un paragone, possono essere considerati la moderna “resistenza”: quotidianamente impegnati per rendere più dignitosa la vita di migliaia di detenuti. E così fra 20 anni a chi mi chiederà cosa ho fatto per arginare questa vergogna, potrò rispondere: ho pedalato. Suicidi in carcere, Antigone Sicilia: “La realtà carceraria va rivista” redattoresociale.it, 28 agosto 2020 Tre detenuti e un agente penitenziario si sono tolti la vita al Pagliarelli di Palermo e a Caltagirone. Pino Apprendi: “L’impatto con il carcere è ancora troppo duro e punitivo e poco orientato invece ad una organizzazione detentiva che investa molto sugli aspetti rieducativi”. Due suicidi di detenuti e uno di un agente penitenziario in una settimana dentro il carcere palermitano di Pagliarelli ed un altro al carcere di Caltagirone. Erano tre detenuti in attesa di giudizio. È un bollettino drammatico quello che emerge questa estate. A fronte di questi tragici episodi, il presidente di Antigone Sicilia Pino Apprendi auspica che il sistema organizzativo carcerario venga rivisto affinché da realtà punitiva possa accrescere la sua impronta detentiva nell’ambito soprattutto rieducativo e di reinserimento sociale. “A chi può interessare la morte di tre persone che sono finite in galera? - dice Pino Apprendi -. Il disagio nelle carceri non é solo ‘un problema loro’ ma è un problema di tutta la società che ha la responsabilità di tutelare la vita di tutti. I detenuti riconosciuti colpevoli devono scontare la pena soprattutto in condizioni di vita dignitose. La detenzione non deve trasformarsi in tortura psicologica come in un girone dell’inferno dantesco”. “Considerato che si è trattato di persone che erano in attesa di giudizio e che quindi vivevano quella delicatissima fase di primo impatto drammatico con il mondo carcerario, - sottolinea Apprendi - occorrerebbe rivedere molte cose. Sicuramente ci vuole soprattutto in questa fase di ingresso iniziale, una maggiore disponibilità dei servizi trattamentali attivando subito educatori, assistenti sociali, psicologi e, se sono necessari, pure psichiatri. Solo in questo modo se la persona viene ascoltata, non si sente drammaticamente sola ed isolata da tutti. Considerato, poi che, il filo rosso che legava più o meno i reati delle tre persone che si sono tolte la vita era quello dei maltrattamenti e delle violenze familiari, forse sarebbe opportuno avviare degli approfondimenti sul tema da parte dell’area psichiatrica”. Secondo il presidente di Antigone Sicilia “l’impatto con il carcere è ancora troppo duro e punitivo e poco orientato invece ad una organizzazione detentiva che investa molto sugli aspetti rieducativi del detenuto. La persona deve scontare la pena in condizioni di vita dignitose che gli consentano di lavarsi, scrivere, studiare e intraprendere un percorso nuovo in chiave di opportunità. Alla società va restituita una persona diversa che eviti la recidiva e che non esca soprattutto abbrutita dal sistema. Per incentivare tutti questi aspetti, un grande spazio deve essere riconosciuto al personale dell’area trattamentale cioè agli educatori. Questi, oltre ad essere numericamente pochi e sottodimensionati rispetto ai detenuti, non sempre riescono ad avere quell’autonomia di ruolo rispetto alla polizia penitenziaria che gli permetterebbe di raggiungere obiettivi significativi. I funzionari educativi dovrebbero pure essere in grado di accedere alle cariche dirigenziali. Questo è sicuramente un nodo grosso da sciogliere a livello nazionale”. Un altro aspetto significativo su cui occorrerebbe lavorare di più è quello degli affetti. “La vita affettiva dei detenuti va curata trovando strade idonee affinché possano mantenere in maniera serena i legami familiari - prosegue ancora Pino Apprendi -. Vanno studiate le misure per favorire la relazione con i figli ancora di più se sono minori e adolescenti. Bisognerebbe pure favorire dove ci sono figli la permanenza del detenuto nella città di origine. In alcuni casi, ci sono familiari che non possono affrontare il viaggio per la visita al loro detenuto. Ricordo il caso di una bambina che soffriva il mal d’auto ogni volta che doveva affrontare il lungo viaggio per incontrare suo padre. Inoltre, un tema sempre importante è quello che, per i reati meno gravi vanno favorite pure le misure alternative alla detenzione carceraria”. “Ricordiamoci anche la morte della donna agente penitenziario. Sicuramente, detenuti e popolazione carceraria, compresa la Polizia Penitenziaria che è pure logorata dal sistema, hanno sopportato, nel periodo della quarantena per il Covid, più degli altri l’isolamento anche dai propri familiari durante il periodo dei divieti per evitare i contagi”. Infine, un contributo significativo ai bisogni dei ristretti, potrebbe essere dato dall’aumento del numero dei garanti dei diritti dei detenuti. “Sarebbe necessario nominare un garante per ogni città in cui esiste un carcere. Nel caso della Sicilia ci vorrebbero 23 garanti comunali che potrebbero rispondere meglio ai bisogni specifici in coordinamento con il garante regionale e poi con quello nazionale. A Palermo, il comitato ‘Esistono i Diritti’ con il suo presidente Gaetano D’Amico, già da tempo, lo chiede e il Consiglio Comunale presto ne approverà il regolamento”. Intercettazioni: pronti, via! Ma le procure sono in ritardo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 agosto 2020 Trojan, video e captazioni. L’1 settembre al via la riforma. Il giorno tanto atteso è arrivato. Da martedì prossimo, scaduta l’ultima proroga, entra dunque in vigore la nuova disciplina delle intercettazioni. La riforma degli ascolti ha avuto un iter alquanto complesso. Il provvedimento originario, voluto dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), risale a maggio del 2017. Più volte modificato, il testo introduce significative innovazioni. La principale riguarda, certamente, la creazione dell’archivio digitale delle intercettazioni presso ogni Procura. In questi grandi hard disk dovranno essere custodite tutte le comunicazioni telefoniche, le captazioni effettuate con il trojan, i video e ogni altro atto al riguardo. Il fine della “raccolta” di tutto il materiale in un unico archivio è quello di evitare la circolazione e la divulgazione di dati che non rivestono alcuna rilevanza per le indagini o che attengono alla sfera della riservatezza dei soggetti intercettati. Sul punto il dovere di vigilanza del pm sarà fondamentale. Al pm spetterà, infatti, il compito di accertarsi che nei verbali non vengano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali sensibili o quelle fra il difensore ed il suo assistito. Al momento che le intercettazioni vengono conferite nell’archivio digitale la pg ne perde la disponibilità e potrà riascoltarle solo presso le sale dedicate. Tale modalità di ascolto, con collegamento da remoto all’archivio digitale, varrà per tutti i soggetti interessati: il giudice che procede con i suoi ausiliari, il pubblico ministero, i difensore delle parti, gli assistiti, gli interpreti. Ogni Procura dovrà prevedere un congruo numero di postazione per poter procedere agli ascolti. L’accesso alle sale sarà controllato, con distribuzione di password temporanee. Ultimate le operazioni di ascolto la polizia giudiziaria avrà cinque giorni di tempo per depositare il tutto. La pg dovrà dare atto “di non aver trattenuto nulla nei propri uffici”. Si dovrà quindi provvedere anche alla cancellazione di quanto contenuto sui server delle aziende che hanno fornito gli impianti per l’ascolto alle forze di polizia. Appare di tutta evidenza che le dotazioni tecnologiche avranno un ruolo importante. Le intercettazioni costituiranno un pezzo del futuro processo penale telematico. Con un decreto del ministro della Giustizia si dovranno stabilire al riguardo le modalità telematiche del deposito degli atti e dei provvedimenti. Fino a quel momento, i brogliacci resteranno in forma cartacea per la successiva digitalizzazione. La riforma degli ascolti, va ricordato, è a “costo zero”. Non sono stati previsti stanziamenti ulteriori. E proprio su tale aspetto, in sede di votazione del parere del Csm sulla riforma, il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato aveva espresso “forti perplessità”. Non tutte le Procure sono al momento pronte. La nuova norma varrà per tutti i procedimenti iscritti dal primo settembre. L’abuso d’ufficio e le nuove regole senza il comune senso di giustizia di Carminantonio Esposito* Il Mattino, 28 agosto 2020 La recente riforma contenuta nel “decreto semplificazioni” del governo ha modificato il testo originario dell’articolo 323 del Codice penale che prevede e punisce l’abuso d’ufficio. Si tratta della quarta modifica, seguita a quella che - nel 1997 - indicava nella “violazione di legge o di regolamento”, o nell’inadempimento dell’obbligo di astensione le condotte tipiche del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio costitutive del delitto di abuso di ufficio. L’articolo 23 del decreto legge ha sostituito all’espressione “violazione di legge odi regolamento” la frase “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. E dunque è stato ristretto il quadro delle condotte rilevanti per legge, essendo stata da esso espunta la violazione delle norme regolamentari. L’iniziativa governativa desta non poche perplessità, sia per la natura del procedimento (decretazione d’urgenza) scelto per l’adozione della riforma, sia per il contenuto della riforma stessa. La nostra Costituzione attribuisce la produzione delle norme legislative ad un organo (il Parlamento) il cui potere deriva direttamente dal popolo. In deroga alla regola generale posta dall’art. 70 Costituzione (“la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”), il governo può adottare provvedimenti con forza di legge solo in due ipotesi (“delegazione delle Camere”; oppure “casi straordinari di necessità ed urgenza”), nessuna delle quali è configurabile nella fattispecie in esame. In particolare, l’urgente necessità di rilanciare la nostra economia (danneggiata dalla pandemia da Covid-19) giustifica l’adozione con decreto legge di norme giuridiche idonee a semplificare l’organizzazione della pubblica amministrazione ed a snellire i procedimenti amministrativi connessi con le molteplici e varie attività produttive del nostro Paese. Invece, il ricorso alla decretazione d’urgenza per modificare la struttura del delitto di abuso di ufficio suscita dubbi di costituzionalità per il semplice motivo che tale modifica non rappresenta un caso straordinario di necessità e di urgenza. Passando al merito, va rilevato che modificare l’art. 323 del nostro codice penale, eliminando la violazione dei regolamenti ed attribuendo rilevanza penale alla violazione delle sole leggi vincolanti per l’attività amministrativa, significa decretare l’abolizione di fatto del delitto di abuso di ufficio. E ciò per un duplice motivo. Da un lato, a causa dell’ampio processo di delegificazione in atto nel nostro ordinamento, le “specifiche regole di condotta” sono espressamente previste soprattutto (o quasi esclusivamente) da norme regolamentari. Dall’altro lato, “favoritismi”, anche gravi, possono nascondersi nelle pieghe dell’esercizio non corretto dei poteri discrezionali attribuiti dalla legge alla pubblica amministrazione. La scelta compiuta dall’art. 23 del decreto legge di escludere la rilevanza penale di entrambe le sopraindicate ipotesi non sembra condivisibile. All’obbligo di imparzialità posto a carico della Pubblica amministrazione dalla Costituzione corrisponde il diritto soggettivo all’uguaglianza di trattamento spettante ad ogni persona. La Pubblica amministrazione non può violare la regola inderogabile dell’imparzialità perché la discrezionalità amministrativa deve essere esercitata sempre nell’interesse pubblico e mai in funzione dell’interesse privato. In questa seconda ipotesi l’esigenza di difendere la discrezionalità amministrativa dall’intervento del giudice penale diventa recessiva rispetto all’obbligo di imparzialità gravante sulla pubblica amministrazione. Peraltro l’esigenza di fronteggiare la “burocrazia difensiva” o la “sindrome della firma” già trovava valido riconoscimento nella formulazione dell’art. 323 c.p., della quale fu autorevole relatore in commissione alla Camera dei Deputati l’illustre avvocato Vincenzo Siniscalchi. Quella legge, infatti, aveva inserito nella struttura del delitto di abuso d’ufficio il requisito della ingiustizia (riferita sia alla condotta sia all’evento) ed il dolo intenzionale dell’evento (vantaggio patrimoniale o danno). Questi elementi sono totalmente estranei alla nozione di illegittimità dell’atto amministrativo. E dunque va detto chela gestione dell’emergenza epidemiologica non può giustificare, in assenza di ragionevole bilanciamento con altri interessi di rango costituzionale, limitazioni alla tutela penale del diritto soggettivo di fonte costituzionale all’ imparzialità della pubblica amministrazione. Resta un’unica speranza: l’approvazione in sede di conversione in legge di un emendamento soppressivo dell’art. 23. L’eventuale modifica dell’art. 323 c.p. dovrà seguire il procedimento legislativo ordinario e potrà avvalersi del contributo degli addetti ai lavori, seguendo l’esempio della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati che, nel 1996, procedette all’audizione di giuristi, magistrati, avvocati ed associazioni di enti locali. Contrasta con il comune senso di giustizia non ravvisare l’abuso di ufficio nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, violando norme previsti da regolamenti (per esempio, un regolamento edilizio), intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. *Già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Dopo il ciclone Palamara, la messa alla prova piace anche alle toghe. Il caso di Luigi Spina di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 agosto 2020 L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, indagato dalla Procura di Perugia nell’ambito del caso Palamara, ha chiesto la messa alla prova, un istituto nato nel 2014 a tutela dei minori, utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, attuale procuratore facente funzioni di Castrovillari (Cs) ed indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto nei confronti dell’ex numero uno dell’Anm Luca Palamara, ha chiesto nei giorni scorsi la messa alla prova. I pm umbri titolari dell’indagine Mario Formisano e Gemma Miliani hanno già dato, con il visto del procuratore Raffaele Cantone, parere favorevole. Esce, dunque, di scena il primo degli indagati eccellenti nell’inchiesta che lo scorso anno terremotò l’organo di autogoverno delle toghe, causando le dimissioni di ben cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Spina era accusato di aver informato Palamara che la Procura di Perugia lo aveva iscritto nel registro degli indagati per il reato di corruzione. Il magistrato aveva appreso la notizia in quanto all’epoca era componente della Prima commissione del Csm. L’atto era pervenuto a Palazzo dei Marescialli da Perugia in forma “secretata”. Analoga informazione era stata fornita dal pm di Piazzale Clodio, anch’egli poi indagato per rivelazione del segreto, Stefano Rocco Fava. Spina e Fava avevano comunicato a Palamara anche l’avvenuto deposito di un esposto, redatto dallo stesso Fava, contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo relativo a loro incompatibilità e mancate astensioni nella conduzione di alcune indagini. Palamara aveva successivamente ricevuto anche dal procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio l’informazione della sua avvenuta iscrizione a Perugia per il reato di corruzione. La posizione dell’ex pg è stata però al momento stralciata. La notizia dell’indagine di Perugia a carico di Palamara era stata riportata da Fatto Quotidiano a settembre del 2018, pochi giorni prima che terminasse la scorsa consiliatura del Csm. Spina, già gip del Tribunale di Potenza, è stato per lungo un esponente di primo piano di Unicost, la corrente di centro delle toghe. Nel 2018 era stato eletto al Csm con 1770 voti. Esploso lo scandalo a maggio dello scorso anno, fu il primo a dimettersi. I vertici di Unicost, il presidente Mariano Sciacca e il segretario Enrico Infante, successivamente uscito dal gruppo, appresa la notizia dell’indagine, diramarono un duro comunicato. “Sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa. Parimenti chiediamo alle istituzioni di intervenire tempestivamente”, il contenuto della nota. Con la messa alla prova il procedimento sarà dunque sospeso e Spina verrà affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) per lo svolgimento di un programma di trattamento che preveda delle attività obbligatorie. Ad esempio, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività, lo svolgimento di condotte riparative, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. Il programma può prevedere l’osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali, oltre a quelli essenziali al reinserimento dell’imputato e relativi ai rapporti con l’ufficio di esecuzione penale esterna. È previsto un minimo di ore da effettuare al giorno. Concluso il trattamento, l’Uepe trasmette al giudice le risultanze. Non c’è una affermazione di responsabilità ed il reato viene quindi dichiarato estinto per l’esito positivo della prova. Nato nel 2014, inizialmente previsto per i minori, è utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. Può essere chiesto una sola volta e per reati che abbiano una pena non superiore ai quattro anni. Le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che il limite sia calcola solo sulle fattispecie base, escluse le aggravanti. Non avere alcuna condanna potrà essere per Spina un fattore positivo in vista del procedimento disciplinare al Csm. Procedimento che, ironia della sorte, era stato iniziato proprio da Riccardo Fuzio. La prima udienza davanti alla sezione disciplinare è fissata per il prossimo 15 settembre. Con Spina ci saranno anche gli altri quattro consiglieri del Csm che si era dimessi lo scorso anno, nessuno di loro è indagato, e Palamara. L’ex presidente dell’Anm ha chiesto l’ammissione di oltre 100 testimoni. Sospeso, infine, il giudizio per Cosimo Ferri. Sicilia. Sovraffollamento carcerario, istituti regionali a rischio di Serena Giovanna Grasso Quotidiano di Sicilia, 28 agosto 2020 Ministero della Giustizia: ad Augusta presenti oltre 120 detenuti in più rispetto al consentito (484, su un limite di 357). Nell’Isola in 9 dei 23 istituti penitenziari si registrano presenze superiori alla capienza regolamentare. Torna il rischio di affollamento nelle carceri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, sono 53.619 i detenuti presenti nelle carceri italiane allo scorso 31 luglio, quasi il 7% in più rispetto ai 50.558 posti consentiti dalla capienza regolamentare (si tratta esattamente di 3.061 posti in esubero). Nel dettaglio, le regioni maggiormente sofferenti sono la Campania (con una capienza stimata in 6.035 unità ed una presenza effettiva ammontante a 6.424 detenuti), il Lazio (con una capienza di 5.212 unità e presenze pari a 5.779), la Puglia (con 3.413 detenuti a fronte di una capienza regolamentare ammontante a 2.683), ma soprattutto la Lombardia che all’interno delle mura carcerarie accoglie quasi 1.300 detenuti in più rispetto al limite massimo consentito (7.418 presenze, rispetto alle 6.156 limite). Al contrario, la situazione siciliana è abbastanza regolare nel complesso: infatti, nella nostra regione il numero complessivo di detenuti (5.896) è inferiore di 550 unità rispetto al numero massimo di detenuti definito dalla capienza regolamentare (6.446). Ma le apparenze ingannano: infatti, se scendiamo nel dettaglio dei singoli istituti penitenziari tutto cambia. Due strutture siciliane su cinque ospitano un numero di detenuti superiore rispetto alle proprie capacità (si tratta esattamente di nove dei ventitré penitenziari complessivi). La situazione peggiore si rileva presso l’istituto penitenziario di Augusta, con oltre 120 detenuti in più presenti rispetto al limite massimo consentito (484, rispetto ad una capienza regolamentare di 357). Male anche al Pagliarelli di Palermo, in cui sono presenti quasi cento detenuti in più rispetto al consentito: infatti, l’istituto ospita 1.278 detenuti, rispetto ai 1.182 massimi da legge. La capienza regolamentare viene calcolata sulla base del criterio dei nove metri quadrati per singolo detenuto, più cinque metri quadrati per gli altri (lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni). Naturalmente la superficie si riduce notevolmente nel momento in cui si verificano delle eccedenze. Valori ben oltre il consentito si riscontrano anche al “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento (364 rispetto ai 283 consentiti, ovvero 81 in più), a Catania Bicocca (196, rispetto ai 138 massimi consentiti, ovvero 58 in più). Al contrario, presso gli istituti penitenziari di Barcellona Pozzo di Gotto (241 rispetto ai 414 consentiti, ovvero 173 in meno), Messina (176 rispetto al massimo di 292, quindi 116 in meno) e all’Ucciardone di Palermo (447 rispetto ai 545, corrispondenti a 98 in meno) è presente un numero di detenuti di gran lunga inferiore rispetto alla capienza regolamentare. Sui 5.896 detenuti presenti all’interno delle carceri siciliane, 3.408 hanno già ricevuto la condanna definitiva, in 1.270 sono stati condannati in modo non definitivo e in 1.182 sono in attesa di primo giudizio. Gli stranieri sono in 1.104 e rappresentano il 18,7% del totale regionale (un’incidenza nettamente più contenuta rispetto al 32,5% osservato in Italia, dove sono stranieri 17.448 dei 53.619 detenuti complessivi). In generale, in Sicilia si osserva il terzo valore di detenuti complessivamente più elevato a livello nazionale, dopo Lombardia e Campania, corrispondente all’11% del totale. Teramo. Muore suicida detenuto semilibero di 63 anni di Roberto Almonti emmelle.it, 28 agosto 2020 Dante Di Silvestre era in semilibertà: si è impiccato in un cortile. Tragedia nel carcere di Castrogno nel tardo pomeriggio di ieri, quando un detenuto si è tolto la vita impiccandosi. A trovare il corpo di Dante Di Silvestre, 63enne caldaista di Mosciano Sant’Angelo, è stato un altro detenuto che, come lui, godeva del regime della semilibertà per buona condotta. I soccorsi sono stati inutili: il corpo era ormai senza vita e al medico di guardia del reparto sanitario interno alla casa circondariale non è rimasto altro che constatarne il decesso. Dante Di Silvestre era in carcere dal novembre 2018, quando era rientrato a seguito della condanna definitiva emessa dai giudici della Corte d’Appello dell’Aquila a 12 anni, due mesi e 20 giorni (in riduzione dai 14 inflitti in primo grado), per l’omicidio volontario dell’imprenditore giuliese di Giulianova Paolo Cialini, 41 anni, al termine di un diverbio scoppiato per motivi stradali. La Cassazione aveva rigettato il ricorso con cui la difesa dell’artigiano tendeva a trasformare l’omicidio da volontario in preterintenzionale. Il delitto, nel giugno del 2016, fece scalpore. Di Silvestre colpì la vittima con una coltellata al cuore, sotto gli occhi della figlioletta di 6, rimasta nell’auto del papà, all’incrocio tra viale Orsini e via Verdi. Di Silvestre dopo la condanna di primo grado era agli arresti domiciliari. Si è sempre detto pentito di quanto accaduto, non volendo uccidere Cialini, bensì difendersi nel corso della discussione per futili motivi di traffico. In questi quasi due anni di detenzione si era mostrato un detenuto-modello, al punto da ottenere la semilibertà: poteva uscire dai padiglioni di detenzione ma non dall’area del carcere e lavorava in attività di manutenzione, con l’obbligo di rientro in cella attorno alle 23. Reggio Calabria. “Il modus operandi della direttrice era conosciuto e approvato dal Dap” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2020 Parla Giacomo Iaria, difensore dell’ex dirigente del carcere di Reggio Calabria. “Nel caso porterò a testimoniare i passati dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - a partire dall’ex consigliere Ardita, Piscitello e l’ex capo del Dap Basentini - che hanno avuto a che fare con lei e hanno sempre approvato il suo approccio nella gestione dell’istituto”. Così spiega a Il Dubbio il penalista Giacomo Iaria del foro di Reggio Calabria, avvocato che assiste l’ex direttrice del carcere reggino di lungo corso Maria Carmela Longo con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’avvocato Iaria ha appena assistito la Longo durante l’interrogatorio di garanzia durato ben cinque ore. L’accusa, ricordiamo, è grave. Ha scritto infatti il gip Domenico Armaleo: “L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ ndrangheta cittadina e non solo”. Ma davvero ha agevolato le consorterie ‘ndranghetiste concedendo “inqualificabili” favori? L’avvocato Iaria è chiaro su questo punto. “Verissimo che non ha rispettato alla lettera la normativa o l’ultima circolare che arriva, ma ritenere che questo si sia verificato con l’intento di favorire qualcuno ci passa il mondo”. L’avvocato spiega che la Longo ha per tantissimi anni diretto il penitenziario reggino (dal 2016 si è aggiunto un secondo, quello di Arghillà) senza mai aver ricevuto lamentele da parte dei provveditorati e dal Dap. Non solo. Durante le innumerevoli visite ispettive, la direttrice ha sempre apertamente detto come gestiva i detenuti, favorendo - quando era possibile - il benessere di tutti i reclusi. “La dottoressa Longo ha gestito un carcere sovraffollato - spiega l’avvocato Ilaria - prevalentemente costituito da soggetti di caratura mafiosa e che si trova immerso in un contesto ambientale dove determinate relazioni sono state inquinate e prontamente denunciate da lei stessa”. L’avvocato sottolinea che la gestione di una realtà carceraria del genere non può essere fatta sotto un punto di vista formale. “Le circolari che dettano determinate regole non possono ad esempio essere univoche per tutte le carceri, per questo - continua l’avvocato Iaria - una persona come la dottoressa Longo che ha diretto quel penitenziario per 16 anni, ovviamente non ha potuto rispettarle alla lettera”. L’avvocato, però, dice qualcosa di più. “Peraltro - aggiunge il penalista - determinate cose non sono state fatte senza che i superiori non ne siano informati, quindi se dovessimo credere alle accuse, dovremmo estendere il concorso esterno anche nei confronti di tutti i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria fino ai massimi livelli”. L’avvocato sottolinea che i vertici non solo hanno appreso le modalità della Longo, ma addirittura hanno approvato questo suo modus operandi. Il legale Ilaria spiega che ha ricevuto così tanti apprezzamenti per la sua gestione, tanto che a fine anno del 2018, alla ex direttrice è stato inizialmente anche offerto un posto come vicecapo del Dap. Per l’avvocato non c’è nessuna condotta di favoritismo, “semmai si può parlare di una gestione di un carcere con delle problematiche difficili e dove non si può gestirlo solo dal punto di vista formale”. Dalle accuse sembrerebbe che l’ex direttrice facesse di tutto per far stare i detenuti legati dallo stesso sangue insieme. “L’accusa è che l’avrebbe fatto per farli comunicare, ma - spiega l’avvocato - lo sanno tutti che nelle carceri anche di alta sicurezza non serve stare nella sezione cella per comunicare. Esiste l’ora d’aria, i luoghi di socialità o di culto come durante la messa”. L’ex direttrice, in sostanza, ha dato questa possibilità semplicemente per facilitare i colloqui durante le visite dei familiari. Tutto qui. “Viene stigmatizzata anche la disponibilità che la direttrice ha dato nell’avere colloqui con i familiari dei detenuti - denuncia il legale -, davvero vogliamo anche in questo caso parlare di connivenza con la mafia. Ma quale sarebbe il reato qui? Per i magistrati evidentemente è uno scandalo che i familiari possano andare a parlare con la direttrice del carcere”. Resta il fatto che le accuse rimangono pensanti, eppure si trattano di violazioni di regole scritte che teoricamente sarebbero infrazioni punite con una sanzione disciplinare. Nulla più. “Si dà il caso - ribadisce l’avvocato Iaria - che quando la Longo non rispettava le circolari, scriveva al Dap motivando perché non le osservava. Come mai non c’è stato nessun procedimento disciplinare?”. Per questo l’avvocato, nel caso, porterà in aula come testimoni tutti i dirigenti del Dap che conoscevano molto bene il modus operandi della Longo. Reggio Calabria. Storia di una carceriera e di due detenuti accusati di un reato che non esiste di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 agosto 2020 Che cosa avrà mai in comune la vicenda dell’oggi di una direttrice di carcere con quella di due avvocati calabresi, e con quelle di ieri che riguardavano un ex alto dirigente della polizia, un altrettanto famoso giudice di cassazione, oltre a un ministro democristiano e a un dirigente di Publitalia poi entrato in politica, tutti siciliani? La laurea in giurisprudenza? Il fatto che - lo possiamo dire persino sulla base di atti processuali - nessuno di loro abbia mai partecipato ad alcuna associazione criminale di tipo mafioso? No, sono accomunati dal fatto di aver commesso il reato che non c’è. Il concorso esterno in associazione mafiosa. Inesistente nel codice penale. Di loro sappiamo per certo che hanno svolto o svolgono (o svolgerebbero, se non fossero in carcere) ruoli e professioni di una certa delicatezza. Come la dottoressa Maria Carmela Longo, illuminata e stimatissima direttrice della sezione femminile di Rebibbia, a lungo con lo stesso ruolo nell’istituto di pena di Reggio Calabria, portata a esempio in convegni e trasmissioni tv per la sua visione di un carcere moderno in cui sia applicabile il principio costituzionale del reinserimento del detenuto. Una dirigente la cui cultura giuridica e riformistica non poteva che apparire sospetta al nuovo corso del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, all’interno del quale è nata non a caso l’inchiesta che l’ha portata agli arresti domiciliari. Un orientamento di stretta sulle carceri, proprio nel momento in cui il mondo medico e scientifico sta mettendo in guardia per il rischio di nuovi contagi da Covid-19, e che pare persino un messaggio nei confronti del ministro Alfonso Bonafede e del suo decreto “Cura Italia” che aveva sollecitato a svuotare le prigioni e a ricorrere alle misure alternative. L’arresto della dottoressa Longo, accusata di eccessiva benevolenza e confidenza con i detenuti calabresi, in particolare con quelli indagati o condannati per i reati più gravi, manda come prima indicazione il fatto che con il nuovo corso del Dap sono più importanti i lucchetti e le porte sprangate che non la Costituzione, la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Del resto il trattamento riservato all’avvocato Giancarlo Pittelli, sbattuto in un angolo della Sardegna e privato del diritto a essere interrogato dal “suo” pm, quello che ha sollecitato e ottenuto il suo arresto, è perfettamente in linea con la nuova filosofia Dap del dottor Petralia. E non parliamo dell’altro avvocato calabrese, pure messo in ceppi nell’inchiesta Rinascita-Scott, fiore all’occhiello del procuratore Gratteri, cioè Francesco Stilo, che ancora non riesce a vedere il proprio difensore. Prima lo hanno messo in isolamento nel carcere di Opera dopo che il suo compagno di cella era risultato positivo al test sierologico, poi, benché il suo tampone sia negativo, hanno fatto sapere ai suoi difensori che risiedono in Calabria che, se pure si metteranno in viaggio, sapranno solo sulla soglia del carcere se potranno vedere o meno il proprio assistito. Ma perché abbiamo accomunato due avvocati e una direttrice di carcere calabresi con i siciliani Bruno Contrada, Corrado Carnevale, Marcello dell’Utri e Calogero Mannino? Perché identico è lo strumento usato nei loro confronti che è servito per colpire, per arrestare, per processare, per annientare. Non è un reato, è un po’ come l’isola che non c’è, quella che non può esistere se non nella nostra fantasia o nelle nostre speranze. Analogamente, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dal 1994 prodotto di fantasia e di giurisprudenza, non fa sognare, come nella canzone di Bennato, un’oasi senza guerre e senza violenza, ma al contrario, un mondo dove si possa qualificare come mafioso chi mafioso non è, ma lo è un pochettino, perché i suoi comportamenti comunque aiutano le organizzazioni criminali. Oddio, nel codice esisterebbe già il reato di favoreggiamento, ma è troppo poco. Vuoi mettere con un bel reato associativo, che ti consente di intercettare, arrestare e sputtanare. Era già successo, con esiti drammatici, ad altre persone celebri, come Mannino, Dell’Utri, Cuffaro, Contrada, Carnevale. Quando ti infilzano così puoi solo lottare per sopravvivere, il diritto devi dimenticarlo. Del resto, mentre nel mondo giuridico, dopo la prima clamorosa sentenza Demitry, che nel 1994 per la prima volta distinse l’associato alla criminalità dal concorrente esterno, scoppiavano critiche e contestazioni, e una successiva sentenza Villecco sostenne il contrario, fu la Cassazione a sezioni riunite a dare con la propria giurisprudenza il sigillo di autenticità al reato che non c’è. Quasi per un capriccio della storia, la prima di queste sentenze riguardava il caso Carnevale e la seconda quello di Mannino. E agli effetti del risultato dottrinale, poco rileva il fatto che poi ambedue siano stati poi assolti dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. A poco è valso, finora, se non per il condannato, il fatto che la Corte Europea dei diritti dell’uomo abbia aperto la strada all’annullamento della sentenza nei confronti di Bruno Contrada, in quanto condannato per reati degli anni precedenti alla famosa sentenza del 1994. La Cassazione a sezioni riunite non ha ritenuto applicabile a Marcello Dell’Utri né a nessun altro dei “fratelli minori” di Contrada quel provvedimento il quale “non costituisce sentenza pilota e neppure può ritenersi espressivo di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea”. Tombale. Una bella mitraglietta nelle mani di pubblici ministeri e giudici. Soprattutto perché, senza bisogno di sporcarsi le mani con la ricerca di fatti specifici che si configurino come reati concreti, si può arrestare con facilità senza dover dimostrare che la persona indagata abbia dato all’organizzazione criminale un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario. Basta invece il fatto che “oggettivamente”, come nei processi staliniani, l’abbia sostenuta dall’esterno. Il reato non c’è. Ma le manette, che scattano ogni giorno nei confronti di persone che, proprio come Mannino e Carnevale, poi verranno assolte, oppure, come nel caso di Contrada e Dell’Utri, condannate senza fondamento, quelle ci sono e sono molto concrete. E oggi riguardano gli avvocati Pittelli e Stilo e la direttrice Longo. Reggio Calabria. “Scusate, sapete dirmi di cosa mi accusate?” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 28 agosto 2020 Torchiata per 5 ore come un boss, Longo ha risposto al gip. “Sì, ho tardato a trasferire un detenuto per motivi logistici. Sì, ho concesso visite ai familiari. Quindi? Che cosa avrei ottenuto dalle ‘ndrine?”. Cinque ore sotto torchio, strizzata come si fa con i boss della mafia. E lei, Maria Carmela Longo, finita sotto la lente della Dda di Reggio Calabria, da sempre in prima fila nella giurisdizione, ha risposto punto su punto. A capo del carcere di Reggio dal 30 maggio 1991 al 18 febbraio 2019, poi a Roma, Rebibbia, nella sua carriera Longo ha ricevuto note di merito ed encomi in quantità. Ma non solo. A quanto apprende Il Riformista, nel 2018 venne fatto il suo nome come nuovo Vice Direttore del Dap. Una nomina alla quale la diretta interessata avrebbe replicato con sorpresa: si tratta di un incarico tradizionalmente riservato ai magistrati, avrebbe fatto notare lei stessa. Poi non ebbe quel posto - sappiamo dalle parole di Di Matteo che vi furono diversi ripensamenti - ma fu promossa sul campo, mandata nella capitale a dirigere il più grande centro detentivo femminile del Paese. Il gip Domenico Armaleo ieri ha ripercorso per tre ore e mezzo i fatti riportati nell’ordinanza d’arresto, che si prestano a una duplice lettura. Da un punto di vista formalistico, delle circolari e delle normative secondarie, ci sarebbero stati dei punti non rispettati dalla direttrice. A fronte di questo, ha fatto notare la difesa, condotta dall’avvocato reggino Giacomo Iarìa, nessuna volontà di favorire singoli detenuti, meno che mai gli appartenenti a consorterie ndranghetistiche. “Su questo la dottoressa Longo ha dato prova di come l’atteggiamento che spingeva la stessa a eseguire o non eseguire alla lettera quanto dettato dalle circolari era dovuto alla ragionevolezza e al senso pratico della dirigente, forte di tanti anni di esperienza”, dichiara l’avvocato Iarìa. Armaleo punta il dito sulla pagina che riguarda il ritardato trasferimento di Paolo Romeo, che ha atteso prima di essere tradotto nel carcere di Tolmezzo. “Vi erano diversi detenuti da trasferire nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, quattro o cinque. Ho atteso di accorparli per realizzare un’economia di scala in base al budget e agli agenti disponibili”, gli ha replicato l’ex direttrice del carcere. “Il primo ha dovuto attendere di più, il secondo di meno, il quarto è partito subito”, spiega. Ma dove si anniderebbe il concorso esterno, con quali finalità, quali benefici, non è dato sapere. “Un patto invisibile con le ‘ndrine”, si avventura a scrivere il Corriere. Anche più che invisibile: non percepibile. Ancora presto per articolare la stesura di una memoria di difesa, ma il legale ha preannunciato l’intenzione di impugnare il provvedimento di arresto davanti al Tribunale della libertà. “Io posso anche aver sbagliato non applicando sempre alla lettera i regolamenti”, avrebbe concesso Maria Longo, “ma non c’era alcuna intenzione di favorire qualcuno in particolare, né ho mai tratto alcun vantaggio o permesso ad alcuno di realizzarne”. E per chi da vent’anni ha ricevuto encomi, incoraggiamenti e avanzamenti di carriera, appare contraddittorio questo improvviso abbattersi della tempesta giudiziaria. Come se qualcuno avesse improvvisamente deciso di imporre un cambio di passo culturale nella gestione carceraria. O semplicemente, è la lettura del Foro reggino, la Dda ha deciso di alzare l’offensiva verso la criminalità organizzata, lanciando segnali muscolari. A monte del provvedimento di arresto, spiccato due giorni fa, le parole di tre “pentiti” (Mario Gennaro, Stefano Tito Liuzzo e Francesco Trunfio) ai magistrati antimafia. E poi acquisizioni documentali, intercettazioni ambientali e telefoniche e attività di controllo della Polizia giudiziaria. Un quadro che il gip Armaleo dipinge a tinte forti: “L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ndrangheta cittadina e non solo”. La replica: “Se noi dobbiamo pensare che gli istituti penitenziari debbano essere regolamentati attraverso una puntuale osservazione delle circolari, probabilmente otteniamo risultati formali ma non raggiungiamo esiti sostanziali. Se ci si dice che la gestione di quel carcere ha consentito il prodigarsi della criminalità, in assenza di prove noi non lo accettiamo e non lo accetteremo mai”, dice ancora l’avvocato Iarìa. “Nel concreto, in che termini c’è stato un inquinamento di dati processuali? Nessuno. In che termini c’è stato un contributo ai soggetti mafiosi? Nessuno. Non è accordando un colloquio in più con i famigliari che si favorisce la ‘Ndrangheta. Perché allora, se il colloquio è volto a favorire la criminalità organizzata, va abolito di tutto punto. Il diritto riconosciuto non è mai un favore”. Si legge che la ‘Ndrangheta di fatto comandava nel carcere. “Ma non è così - replica l’avvocato -. Il direttore ascolta tutte le esigenze, sul piano pratico, in fatto di coabitazione. Chi vuole rendersi utile in cucina, chi vuole essere trasferito di cella. E quando non ci sono condizioni ostative, accordava il permesso”. Agire diversamente avrebbe significato negare tutte le domande, con grande rigidità. E sembra la direzione non solo auspicata ma incoraggiata vivamente da via Arenula. Dopo il manganello usato con l’arresto Longo, quale altro direttore di penitenziario si azzarderà a prodigarsi per rendere la pena della detenzione meno afflittiva e più umana? San Severo (Fg). “Da 10 giorni in carcere mentre va trasferito in una comunità” Gazzetta del Mezzogiorno, 28 agosto 2020 Questa la denuncia del legale di un detenuto con problemi psichiatrici. “Il mio assistito doveva essere scarcerato 10 giorni fa, il 17 agosto, e riportato in un centro di recupero del Gargano, avendo ottenuto la detenzione domiciliare per gravi problemi psichiatrici; invece è ancora detenuto nel carcere di Foggia e per questo mi sono rivolto anche alla Gazzetta, oltre a segnalare il caso al procuratore capo di Foggia, al presidente del Tribunale di sorveglianza di Bari, al magistrato di sorveglianza, al direttore della casa circondariale del capoluogo dauno”. A parlare è l’avvocato Ettore Censano, noto penalista di San Severo, difensore di Leonardo Cicilano, quarantenne che sconta una condanna per l’omicidio di un cognato ucciso a pistolettate nel giugno del 2008 (l’arresto avvenne qualche giorno dopo) nella città dell’alto Tavoliere. “Fino al 9 giugno scorso Cicilano era detenuto a Lecce: quel giorno” racconta l’avv. Censano “ha ottenuto la detenzione domiciliare dal Tribunale di sorveglianza di Lecce che ha riscontrato le gravi patologie psichiatriche da cui è affetto, disponendo la detenzione domiciliare presso una “crap” (comunità riabilitativa assistenziale psichiatrica) del Gargano dove il mio assistito fu trasferito. Cicilano dopo qualche giorno si allontanò per raggiungere la casa di un parente e venne arrestato per evasione dai carabinieri, che peraltro diedero atto dello stato di confusione in cui si trovava il paziente”. In seguito all’arresto per evasione, “lo scorso 15 luglio il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Foggia” prosegue l’avv. Censano “ha disposto la temporanea sospensione dei domiciliari. Sta di fatto che il provvedimento di sospensione della misura alternativa della detenzione domiciliare ha perso efficacia dopo un mese, il 17 agosto. Il che significa che quel giorno Cicilano doveva essere scarcerato da Foggia e ricondotto presso il “crap” del Gargano, previa esecuzione del tampone faringeo per il Covid come da disposizioni della Regione Puglia”. Invece “sono passati 10 giorni e Cicilano è ancora rinchiuso in carcere a Foggia. Mi sono recato in carcere per lamentare l’inaccettabile ritardo nell’esecuzione del tampone, e mi è stato detto che sarebbe stato eseguito nel giro di poche ore. Il dato di fatto che voglio portare all’attenzione dell’opinione pubblica” conclude l’avv. Censano “è che Cicilano a oggi” (ieri per chi legge ndr) “è in carcere a causa di evidenti e non scusabili ritardi che hanno determinato il protrarsi della situazione detentiva di una persona che ha invece bisogno di cure specialistiche e di essere sottoposta a costante monitoraggio con somministrazione di medicinali idonei a compensare la sintomatologia psicotica e delirante”. Ascoli. Orto sociale per i detenuti, il carcere raddoppia ilrestodelcarlino.it, 28 agosto 2020 Ampliamento degli spazi al Marino: ieri sono state consegnate e messe a dimora le piante invernali che verranno coltivate. L’orto sociale per il recupero dei detenuti: una realtà già presente al carcere del Marino del Tronto, che adesso raddoppia con un ampliamento degli spazi dedicati a questa iniziativa. Dopo la positiva esperienza avviata dalla Regione e dall’amministrazione penitenziaria nel 2019, con la piantumazione di alberi di olivo, essenze ornamentali e l’avvio dell’orto, l’attività ricreativa dei detenuti può contare ora su una superficie orticola ampliata dall’Assam, l’agenzia regionale per i servizi agricoli, e irrigata grazie alla collaborazione del Consorzio idrico Piceno, coinvolti nel progetto. Nella struttura penitenziaria ascolana, ieri sono state consegnate e messe a dimora le piantine invernali (cavolfiori, broccoli, verze, cavoli cappucci, finocchi e insalata) che verranno coltivate nei nuovi spazi. Erano presenti la vicepresidente della Regione, Anna Casini, e la direttrice del carcere, Eleonora Consoli. Tutti i presenti hanno evidenziato come l’iniziativa dell’orto sociale in carcere abbia una finalità educativa, consentendo ai detenuti la gestione autonoma di uno spazio da coltivare e poi il consumo dei prodotti ottenuti con questo lavoro: l’attività agricola si presta bene a responsabilizzare e a riabilitare i detenuti grazie a un impegno lavorativo creativo e non ripetitivo. La vicepresidente regionale ha detto che il progetto avviato rientra nel contesto dell’agricoltura sociale che vede le Marche all’avanguardia in Europa, con l’assegnazione del coordinamento delle Regioni impegnate nell’innovazione dello sviluppo rurale. La direttrice Consoli, dal canto suo, ha auspicato una continuità del programma che consenta all’attività agricola di andare avanti all’interno dell’istituto di Ascoli. L’orto sociale in carcere è stato realizzato con un protocollo siglato insieme all’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna-Marche: il progetto è in corso nelle strutture di Ascoli e Ancona Barcaglione, con l’obiettivo di estenderlo anche ad Ancona Montacuto e Pesaro. A Marino del Tronto gli interventi realizzati hanno riguardato la predisposizione dell’orto, la realizzazione di un impianto irriguo autonomo (con riciclo e sanificazione delle acque reflue), interventi formativi per i detenuti sui temi dell’orticoltura. Il prossimo obiettivo sarà quello di completare le attività con un corso sull’utilizzo culinario degli ortaggi autoprodotti dai detenuti e dal personale dell’amministrazione penitenziaria coinvolto. Reggio Calabria. Diritti dei detenuti, film in regalo per le carceri reggine avveniredicalabria.it, 28 agosto 2020 L’attività è voluta dall’Ufficio del Garante Metropolitano coordinato da Paolo Praticò. Nell’ambito delle attività volte a garantire il rispetto della dignità della persona, l’ufficio del Garante Metropolitano, composto dal garante dott. Paolo Praticò e dai componenti l’ufficio avv. Cristina Arfuso, avv. Giovanni Montalto, avv. Giuseppe Gentile, ha consegnato un congruo numero di film in Dvd agli Istituti “Pansera” dono del Soroptmist di Reggio Calabria. La proiezione di film è tuttora l’unica attività rimasta all’interno degli Istituti penitenziari dopo la chiusura per Covid-19. Da sempre sosteniamo che la pena debba essere utile ad un reinserimento nella società e non può essere considerata come una “vendetta” da parte dello Stato, nei confronti di chi ha sbagliato. Se un comportamento emotivo può essere compreso e giustificato da parte delle vittime o dei familiari, lo Stato deve applicare la legge in maniera asettica e con l’obbiettivo di recuperare chi ha sbagliato, perché se esistono delle responsabilità oggettive in chi commette un reato, tuttavia, la società non può essere esente da colpe e omissioni. Bologna. “Le orme dei figli”, torna in scena al carcere minorile fondazionedelmonte.it, 28 agosto 2020 Le orme dei figli, regia di Paolo Billi, torna in scena dal 31 agosto al 3 settembre, dopo il debutto di gennaio 2020. La nuova versione vede in scena una compagnia formata esclusivamente da giovani in carico all’Istituto Penale Minorile di Bologna: Adam, Anas, Andrea, Andrea, Daniel, Jonathan, Ionut, Larry, Manuel, Mehdi e Kevin. La struttura è in via De Marchi 5/2. Le orme dei figli, prodotto da Teatro del Pratello, s’inserisce infatti nel progetto Stanze di teatro carcere del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, che vede per il triennio 2019-2021 sei registi impegnati in sette carceri della regione. Lo spettacolo nasce tra difficoltà e limitazioni imposte per la pandemia. Il laboratorio teatrale di PraT è iniziato a maggio online per poi proseguire con incontri all’aperto. Le orme dei figli rappresenta una condizione in cui non esistono più tracce di padri da seguire. Si fa metafora di questa condizione la scenografia di Irene Ferrari. Le strutture di scena sono di Gazmend Llanaj, realizzate nel percorso di formazione professionale per l’inclusione socio lavorativa a cura di Iiple con i ragazzi dell’Ipm di Bologna. Il video che completa la scenografia è di Simone Tacconelli e Elide Blind ed è stato realizzato con i ragazzi dell’Area Penale Esterna nell’ambito del progetto I.C.E. - Incubatore di comunità educante. Per info teatrodelpratello@gmail.com oppure amaranta.capelli@teatrodelpratello.it Clima di restaurazione sulla riforma psichiatrica di Maria Grazia Giannichedda Corriere della Sera, 28 agosto 2020 Quarant’anni senza Basaglia. 40 anni fa, il 29 agosto 1980, moriva Franco Basaglia. Una lontananza ora ancora maggiore: si è spenta infatti anche l’eco delle lotte e delle discussioni sulla “legge 180” del 1978. Lavorava, contro la logica dei manicomi, perché nella medicina entrassero corpi, cittadini e diritti; perché nascessero servizi di comunità nel sociale capaci di cura. Oggi siamo al contrario Sono passati quarant’anni da quel 29 agosto 1980 in cui Franco Basaglia se n’è andato quasi all’improvviso, ma la lontananza sembra, se possibile, ancora maggiore. Si è spenta infatti anche l’eco delle discussioni non di rado feroci e delle lotte che hanno animato i primi vent’anni della riforma psichiatrica, la “legge 180” del 1978. Basaglia ha avuto il tempo di partecipare alle prime fasi: gli ultimi testi degli Scritti mostrano il suo sguardo lungo sulla portata e il futuro della “180” e della riforma sanitaria; le Conferenze brasiliane (1979) ne raccontano il nascere; interviste e articoli sui quotidiani testimoniano l’instancabile disponibilità di Basaglia al dibattito e anche alla polemica, quando i primi detrattori della “180” presero la parola mentre la maggioranza remava contro in silenzio, dai direttori di manicomio che organizzavano le “dimissioni selvagge” alle lobby di psichiatri comunisti che osteggiavano il suo incarico nella Regione Lazio. Con la morte di Basaglia lo scontro culturale e politico si fece più duro, Basaglia stesso fu accusato delle peggior cose, in Parlamento decine di disegni di legge cercarono di disfare la “180” ma era ancora molto forte il movimento di psichiatri e amministratori locali che già prima della legge avevano cercato di organizzare alternative al manicomio, e poi c’erano quelle che all’epoca si chiamavano “esperienze esemplari”, che divennero il riferimento del movimento dei familiari, anzi delle familiari, madri e sorelle di persone internate in quei manicomi che non offrivano buoni argomenti a chi si riprometteva di restaurarli. Sarebbe certo utile ripercorrere gli anni dimenticati in cui la riforma guadagnò terreno e consistenza fino ai governi Prodi e D’Alema, che avviarono le prime e in fondo le sole politiche di salute a livello nazionale e sembrò davvero possibile una riforma sostanziale della psichiatria. Ma riandare a quella fase non aiuta a capire più di tanto l’estraneità di Basaglia ai sistemi sanitari che abbiamo sotto gli occhi e ai linguaggi attuali della psichiatria. Per capire l’oggi dobbiamo andare soprattutto ai primi dieci anni del nuovo secolo, quando dilagarono con poche resistenze i processi che hanno immiserito e pervertito i servizi di salute mentale fino al degrado attuale, evidenziato, forse accresciuto, certo non causato dalla mazzata del Covid-19. Quei primi anni Duemila hanno segnato la vittoria e insieme la normalizzazione della riforma, e anche la compromissione, forse non definitiva, della capacità della legge “180” di orientare in senso realmente anti-manicomiale il sistema della salute mentale e le professioni “psy”, psichiatri, psicologi, infermieri e affini. Con il Duemila sono stati chiusi gli ultimi ospedali psichiatrici: centomila letti smobilitati in trent’anni in un processo avviato prima della riforma e che tutti i paesi ricchi hanno poi intrapreso. Tutta la psichiatria, anche l’establishment, si intestò questo risultato, e si disse che la psichiatria entrava finalmente a pieno titolo nella medicina. Ma è proprio questo il problema. Basaglia immaginava - lo scrisse, e il lavoro di Trieste lo dimostra - che la psichiatria della riforma avrebbe potuto portare dentro la medicina corpi vivi, uomini e donne, storie di persone e di luoghi, pezzi di società, cittadini con diritti, bisogni, parola. Questo avrebbe chiesto la creazione di servizi di comunità, permeabili al contesto sociale e capaci di prendersene cura tramite la cura delle persone. È accaduto l’esatto contrario. La medicina del posto letto e della diagnosi, interessata più alla malattia che al malato, ha continuato a riprodurre sotto le bandiere della riforma una psichiatria di ambulatori, assediati dalle liste d’attesa e gestiti da operatori che non hanno mai visto le case dei pazienti; una psichiatria di servizi ospedalieri di diagnosi e cura che comminano dure quanto per fortuna brevi esperienze di internamento, in locali chiusi dove si usano contenzione meccanica e farmacologica e le persone sono private degli oggetti personali e della possibilità di comunicare; una psichiatria che ha fatto crescere una pletora di “residenze” variamente denominate, dove il tempo passa senza progetto né senso, focolai di infelicità e talvolta di virus. I medici, gli infermieri, gli psicologi che oggi lavorano in questo sistema, in gran parte malpagati e precari, di Basaglia non sanno nulla, né della legge “180” né della riforma sanitaria né di cosa siano un servizio di comunità e una politica pubblica di salute, o se ne sanno è per scelta propria, dal momento che le facoltà di medicina e di psicologia non si occupano di questi temi, ignorano del tutto Basaglia ed evitano ogni discorso critico su salute, malattia, medicina. Sta qui, in questa restaurazione, la radice del degrado di oggi, nel quale hanno influito le ideologie dell’aziendalismo e della concorrenza tra pubblico e privato, il fiorire delle repubblichette sanitarie regionali, l’assenza di fondi pubblici per la ricerca, lo strapotere di “Big Pharma”. E la politica? Oggi neppure le forze politiche che difendono la sanità pubblica hanno una visione forte che consenta di negoziare in modo non subalterno con i corpi professionali e con i poteri economici che dominano il campo sanitario. Potrebbero provare a costruirla questa visione, insieme con i sistemi di servizi, i gruppi e i movimenti che resistono a lavorare in chiave di salute pubblica. Di queste cose bisognerebbe parlare ripensando a Basaglia, senza celebrarlo con necrologi che accrescono la lontananza e la tristezza. Migranti. Il Tar Sicilia sospende l’ordinanza di Musumeci di Leo Lancari Il Manifesto, 28 agosto 2020 Per il tribunale “va oltre i poteri delle Regioni”. Il governatore della Sicilia: “Una decisione che non condivido, noi andiamo avanti”. A nemmeno ventiquattro ore dal momento in cui il governo ha presentato il suo ricorso, arriva il primo stop a Nello Musumeci. A imporlo è stato ieri il Tar della Sicilia sospendendo l’esecutività dell’ordinanza con cui il 22 agosto il governatore siciliano ha disposto per motivi sanitari lo sgombero degli hotspot e dei centri dell’isola in cui vengono accolti i migranti, e il trasferimento degli stessi in altre Regioni. “Le misure adottate sembrano esorbitare dall’ambito dei poteri attribuiti alle Regioni”, ha scritto la presidente della Terza sezione Maria Cristina Quiligotti fissando la camera di consiglio per il 17 settembre. “È una decisione che non condividiamo e non siamo stati neanche ascoltati”, è stato il commento a caldo del governatore. “Sulla nostra competenza in materia sanitaria non faremo passi indietro”. Tranchant come al solito Matteo Salvini. Per il leader della Lega la decisione del Tar di Palermo rappresenterebbe “l’ennesima vergogna italiana” e per questo ha invitato “tutti i nostri sindaci e governatori” a mobilitarsi “per evitare qualsiasi nuovo arrivo di clandestini”. Il primo round dello scontro in corso da giorni tra governo e regione Sicilia va dunque al premier Conte e alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Per il Tar l’ordine di chiudere gli hotspot impatta “in modo decisivo” sull’organizzazione e la gestione del fenomeno migratorio che è invece materia di competenza dello Stato. Il trasferimento dei migranti, come previsto dall’ordinanza, finirebbe inoltre per “produrre effetti rilevanti anche nelle altre regioni e, quindi, sull’intero territorio nazionale”. In quanto alle 48 ore previste per gli sgomberi, il decreto del Tar rileva “l’inadeguatezza del brevissimo termine assegnato per l’esecuzione, in considerazione della natura e della complessità delle attività necessarie a tal fine”. Ma tra i punti contestati a Musumeci c’è anche quello di avere il potere di adottare i provvedimenti previsti nell’ordinanza in quanto soggetto attuatore delle misure connesse allo stato di emergenza per il coronavirus. Per il Tar il soggetto attuatore non agisce in autonomia, bensì “opera sulla base di specifiche direttive impartite dal Capo del Dipartimento della protezione civile” oltre che in stretto raccordo con la struttura di coordinamento del Dipartimento stesso. Lo sgombero dei centri e il trasferimento dei migranti quindi “non possono ritenersi rientranti nell’abito dell’esercizio dei poteri delegati dall’autorità del Governo centrale”. Per quanto riguarda infine la presunta diffusione del virus legata alla presenza sull’isola dei migranti, per il Tar è “meramente enunciata” e non supportata da un’adeguata istruttoria. Da parte sua Musumeci appare tutt’altro che rassegnato, L’ordinanza impugnata dal governo scade il 10 settembre, una settimana prima del pronunciamento definitivo da parte del Tar, ma intanto il governatore invia la task force sanitaria della regione ad effettuare sopralluoghi negli hotspot e nei centri di accoglienza della Sicilia. “Martedì mattina sarà a Lampedusa e nei giorni successivi saranno verificati accuratamente gli oltre 40 centri di accoglienza che sono censiti in Sicilia. È una battaglia di civiltà dalla quale non ci possiamo esimere”, ha annunciato ieri. Tutto il centrodestra è schierato con il governatore, mentre un invito al dialogo è arrivato a Musumeci dal segretario regionale del Pd, Antony Barbagallo: “L’unica battaglia di civiltà che mi sento di consigliargli - ha detto - è di abbassare i toni e di smetterla di alimentare lo scontro fra istituzioni”. Migranti. Appello di Mussie Zerai alla Ue: “I campi profughi in Libia sono dei lager!” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 28 agosto 2020 “La situazione in Libia non è più tollerabile, molti profughi tentano la fuga da questi lager: spesso vengono uccisi, se presi vivi subiscono violenze indicibili”. L’agenzia umanitaria Habeshia e il suo fondatore, il padre scalabriniano Mussie Zerai si rivolgono alla Ue perché metta fine, una volta per tutte, alla situazione dei centri di dentenzione nelle varie località libiche: Kums, Zawiya, Tripoli, Zelatien, Misurata, Sebha, Kuffra. Habeshia parla della “disperazione di questi profughi: persone provenienti dall’Africa Sub-Sahariana, eritrei, etiopi, sudanesi, somali, vittime di soprusi, abusi da parte dei gestori delle strutture dove sono trattenuti privati della loro libertà personale, spesso ridotti alla fame, ricatto e violenze”. Le condizioni di salute sono definite “molto precarie”, l’accesso alle cure mediche “è appeso solo alle sporadiche visite delle Ong di medici che non hanno sempre l’accesso automatico. Ogni volta che c’è il cambio di guardia, i nuovi padroni del centro dettano le loro leggi e pretese e violenze”. “Spesso i gestori dei centri di detenzione - denuncia l’Agenzia Habeshia - sono in stretta collaborazione con i contrabbandieri che fanno da mediatori con i veri trafficanti di esseri umani, che trattano il prezzo per la vendita del gruppo di profughi detenuti nei centri. Le persone oggetto di questa trattativa non hanno nessuna voce in capitolo sulla loro cessione a gruppi spesso di veri criminali, che non esitato a torturarli per ottenere il pagamento di cifre esorbitanti”. Per padre Zerai, la soluzione è una sola: “evacuare e svuotare tutti i centri e lager nel territorio libico, trovando un altro Paese che può ospitare temporaneamente i profughi avendo un fattibile piano di reinsediamento per tutti coloro sono bisognosi della protezione internazionale”. “Il nostro appello all’Unione Europea - aggiunge il sacerdote di origine eritrea - è di attivarsi per lanciare un serio programma di reinsediamento, implementando gli impegni già presi in precedenza quando l’Ue aveva promesso di accogliere 50 mila profughi dall’Africa Sub-Sahariana con il programma di reinsediamento. Rispettare gli impegni presi salverebbe migliaia di vite umane dalla morte in mare o nel deserto e nei lager libici”. In Etiopia - Ma oltre alla Libia, la denuncia di Habeshia riguarda anche l’Etiopia, dove “la situazione dei profughi eritrei negli ultimi 12 mesi è diventata sempre più precaria”. Il tutto per “la scelta del governo federale di non accogliere nei campi profughi donne, bambini e uomini che non provengano dal rango militare in fuga dal regime eritreo, in virtù dell’accordo di Pace, quindi non ritenendoli più bisognosi di protezione e di fatto negando a loro il diritto di chiedere asilo politico”. Questa situazione e la chiusura di uno dei 4 campi profughi che ospitava oltre 15 mila persone, “ha prodotto molti profughi urbani senza nessuna forma di tutela senza diritti”, e condizioni aggravate anche dalla pandemia. “Il nostro appello al governo etiope è di rispettare gli obblighi internazionali derivati dalla sua adesione alle convenzioni che tutelano i diritti dei minori e i diritti dei rifugiati - invoca Zerai. Chiediamo all’Ue di investire risorse per rendere un’accoglienza dignitosa a questi profughi eritrei in Etiopia garantendo accesso al diritto di asilo, accesso allo studio, alle cure mediche, al lavoro”. “Altrimenti l’esodo verso l’Europa aumenterà, con il triste conteggio di morti nel deserto e nel Mar Mediterraneo”. Turchia. L’avvocata Ebru Timtik muore dopo 238 giorni di digiuno Il Dubbio, 28 agosto 2020 La professionista, assieme al collega Aytaç Ünsal, aveva trasformato lo sciopero della fame in digiuno mortale, chiedendo un processo equo. Dopo 238 giorni di sciopero della fame, è morta l’avvocata turca Ebru Timtik. Era stata arrestata insieme a altri 18 colleghi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili in Turchia. Il 14 agosto, la Corte costituzionale turca aveva respinto la richiesta di rilascio a scopo precauzionale sia per lei sia per il collega Aytaç Ünsal, entrambi in sciopero della fame, nonostante le loro condizioni di salute fossero già molto critiche. Per la Corte non ci sarebbero state “informazioni o reperti disponibili in merito all’emergere di un pericolo critico per la loro vita o la loro integrità morale e materiale con il rigetto della richiesta per il loro rilascio”. Il Peoplès Legal Bureau (Halk?n Hukuk Bürosu, Hkk) ha annunciato giovedì su Twitter che Timtik era stata sottoposta a massaggio cardiaco dopo un arresto cardiocircolatorio, chiedendo a tutti i colleghi e al personale di riunirsi davanti al Bak?rköy Dr. Sadi Konuk Hospital. Ma poco dopo l’Hkk ha annunciato la morte di Timtik. Ünsal è attualmente detenuto presso il Kanunu Sultan Süleyman Training and Research Hospital di Istanbul. Ebru Timtik e Aytaç Ünsal avevano avviato lo sciopero della fame a febbraio e non sono stati rilasciati nonostante siano stati dichiarati non idonei alla reclusione dall’Istituto di medicina legale. Nemmeno una denuncia alla Corte costituzionale turca di Ankara ha avuto successo. I due avvocati, trasferiti sotto osservazione contro la loro volontà in diversi ospedali di Istanbul, avevano deciso di trasformare lo sciopero in un “digiuno mortale” il 5 aprile - la “Giornata degli avvocati”. Nel complesso dei procedimenti contro presunti membri del Dhkp-C, gli avvocati sono stati condannati a lunghe pene detentive in base alle leggi sul terrorismo, a causa delle dichiarazioni contraddittorie di un testimone chiave. Con la loro protesta, i due avvocati invocavano un processo equo. Timtik è la quarta vittima del processo Dhkp-C: Helin Bölek, solista del gruppo musicale Grup Yorum, è morta il 3 aprile. Si era rifiutata di mangiare per 288 giorni in segno di protesta contro l’imprigionamento di altri membri della band e il divieto di concerti per i Grup Yorum. Il 7 maggio, il bassista della band, Ibrahim Gökçek, è morto dopo uno sciopero della fame durato 323 giorni. In precedenza, il prigioniero politico Mustafa Koçak era morto il 24 aprile a causa di un digiuno di 296 giorni. Sezgin Tanr?kulu, il principale deputato all’opposizione del Partito popolare repubblicano (Chp), ha criticato la magistratura per non aver rilasciato Timtik. “È impossibile non ribellarsi a questo. Fino a quando assisteremo a queste morti? Avevamo implorato la Corte costituzionale di occuparci di questo fascicolo”, ha detto Tanr?kulu in un programma in onda su Halk Tv. I presidenti di diversi ordini degli avvocati hanno criticato le autorità statali per aver ignorato il caso di Timtik e Ünsal. “Non l’hanno sentita gridare per mesi chiedendo un processo equo. Coloro che hanno fatto orecchie da mercante e hanno voltato le spalle hanno massacrato la giustizia e la coscienza”, ha detto il presidente dell’Associazione degli avvocati di Ankara, Erinç Sa?kan. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Antalya, Polat Balkan, ha descritto la morte di Timtik come un “omicidio giudiziario”, mentre il presidente dell’Associazione degli avvocati di Mersin, Bilgin Ye?ilbo?az, ha sottolineato che “l’ingiustizia uccide”. Colombia. “Mario fu ucciso”, le prove della verità nascosta di Dario Del Porto e Giuliano Foschini La Repubblica, 28 agosto 2020 Svolta nell’inchiesta sulla morte del cooperante napoletano. Paciolla che lavorava per l’Onu il 15 luglio venne trovato impiccato nella sua casa, ma molti particolari erano poco convincenti. Mario Paciolla è stato suicidato. Sul corpo del ragazzo italiano morto il 15 luglio scorso in Colombia, a San Vicente de Cagua, dove lavorava come osservatore per l’Organizzazione delle nazioni unite, sono stati trovati segni che fanno pensare a una messinscena, come a simulare un gesto volontario. Sono stati fatti sparire dalla scena del delitto oggetti cruciali per la ricostruzione della verità. La casa è stata lavata con la candeggina poche ore prima che la Polizia scientifica finisse di effettuare i rilievi. Mario aveva preparato la valigia, pronto a partire per l’Italia. Anzi, a scappare, perché aveva paura di restare in Colombia. Voleva tornare nella sua Napoli il prima possibile. Aveva comprato anche alcuni regali per i familiari che invece l’hanno visto tornare in una bara. Con i pacchetti chiusi nella valigia. “Mario non si è suicidato: è stato ucciso” dicono a Repubblica i genitori, certi di non sbagliare. Le prime circostanze emerse sembrano confermare la loro certezza. Non a caso il fascicolo, aperto dalla procura di Roma, è finito sul tavolo dei carabinieri del Ros. Gli esperti di omicidi internazionali. La fretta di andare via. Mario Paciolla aveva 33 anni. Dopo una laurea in Scienze politiche all’Orientale di Napoli, girava il mondo da anni: Giordania, India, Argentina, da due anni in Colombia con una missione Onu con un programma di reinserimento per gli ex guerriglieri delle Farc. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, Mario aveva avuto nelle ultime settimane problemi sul lavoro. Era spaventato, impaurito. “Ti ricordi quando avevo battibeccato a scuola, per un’ingiustizia, con quel professore e poi mi ha bocciato? Ecco mi è successa la stessa cosa” aveva detto alla madre pochi giorni prima di morire. La sua missione sarebbe dovuta finire il 20 agosto, questione di settimane. Ma aveva fretta di rientrare. Dall’11 al 14 luglio Mario, ricostruiscono gli atti, si è tenuto in contatto quotidianamente con i genitori, fatto considerato molto strano in quanto di solito avevano l’abitudine di scambiarsi video chiamate una volta ogni due o tre settimane. Aveva raccontato loro di aver avuto problemi con l’organizzazione e di voler rientrare al più presto. Il 14 chiese e ottenne gli estremi di una carta di credito per comprare il biglietto aereo che lo avrebbe riportato a casa. Mario aveva già preparato la valigia. All’interno c’erano alcuni regali per amici e parenti che avrebbe consegnato loro una volta rientrato a Napoli. Al mattino del giorno 15 i genitori gli inviarono un ultimo messaggio con le raccomandazioni per il viaggio. Mario non lo ha mai letto. La scena del delitto - Dalla sera del 14 Mario sparisce in un buco nero. L’ultima connessione Whatsapp risale alle 22.45, orario colombiano. La mattina dopo, così come d’accordi, vanno a casa sua per prenderlo e portarlo a Florentia, da dove poi si sarebbe dovuto muovere per Bogotà e Parigi. Mario non risponde al citofono. E nemmeno al telefono, raccontano i funzionari Onu. Entrano in casa grazie alle chiavi del proprietario che abitava nello stesso palazzo. Trovano Mario impiccato. Il primo a vederlo è il referente di Sicurezza della missione dell’Onu, Christian Thompson con il quale Mario aveva chattato fino alle dieci di sera del giorno precedente. Una circostanza non abituale perché Thompson non era un suo diretto superiore ma appunto l’incaricato della sicurezza. Sul luogo del delitto c’era sangue e tutto sembrava in ordine. La Polizia viene chiamata da Thompson 30 minuti dopo l’ingresso in casa. “Quando siamo arrivati - dicono alcuni dei poliziotti - la porta era semiaperta, quindi la scena potrebbe essere stata contaminata”. Sono i poliziotti a offrire anche altri particolari: Thompson dice che computer e cellulari appartenevano all’Onu e quindi non potevano essere portati via. E nonostante, dicono i poliziotti, gli fosse stato detto di non toccare nulla, nei giorni successivi porta via alcuni oggetti cruciali della scena del crimine. Che, poi racconterà, essere stati smaltiti in discarica e quindi non più disponibili. Il 17 luglio sempre Thomposn torna a casa di Mario con due donne che puliscono tutta la casa con la candeggina e riconsegnano le chiavi al proprietario. Il giorno dopo arriva la Polizia per effettuare un sopralluogo. Ma ormai non c’era più niente. Non è chiaro se questa procedura fa parte dei protocolli Onu. Fatto sta che per non aver vigilato - come ha raccontato sull’Espectador la giornalista investigativa Claudia Julieta Duque - quattro poliziotti sono stati indagati. L’autopsia - Secondo i documenti colombiani, Mario è morto nella notte tra il 14 e il 15 luglio alle 2. Impiccato. Prima avrebbe provato a tagliarsi i polsi, come dimostrerebbero i segni sulle braccia. E il sangue ritrovato sul luogo del delitto. La procura di Roma ha però disposto una seconda autopsia. Affidandola al professor Vittorio Fineschi, lo stesso medico legale che ha seguito i casi di Stefano Cucchi e Giulio Regeni. Anche il corpo di Mario ha raccontato molte cose. Al momento c’è il massimo riserbo, gli esiti arriveranno nelle prossime settimane. Ma qualcosa si può già dire: quei tagli sui polsi erano superficiali, che non potevano causare certo la morte né uno spargimento di sangue. Sembrano stati fatti come per raccontare un tentativo di suicidio che invece non c’è stato. I segni sul collo, che avrebbero causato la morte, non appaiono essere così importanti, tali da provocare la morte. Elementi che fanno dire alla famiglia Paciolla - con l’avvocato Alessandra Ballerini, che sta seguendo il caso insieme con Emanuela Motta e il collega colombiano German Romero Sanchez - quello che i fatti, le omissioni, i depistaggi, sembrano raccontare ogni giorno con più forza: Mario non si è ucciso. È stato suicidato. Egitto. Scarcerato l’avvocato dei Regeni: la detenzione tra torture e isolamento di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2020 Il giudice dispone la libertà vigilata per Ibrahim Metwaly, rinchiuso nel carcere di Tora - dove si trova anche Zaki - dal 10 settembre del 2017. Ora la questione centrale è legata ai tempi della scarcerazione, che potrebbero andare da un paio di giorni ad una settimana al massimo. La Corte penale del Cairo ha firmato ieri l’ordine di scarcerazione per Ibrahim Metwaly Hegazy, l’avvocato della famiglia Regeni al Cairo e membro della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf). Metwaly, 53 anni, è rinchiuso nel carcere di Tora dal 10 settembre del 2017 quando è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre stava partendo per Ginevra dove lo attendeva un vertice del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite. Questione di giorni e il legale dei Regeni dovrebbe tornare in libertà, riabbracciare la propria famiglia e, si spera, tornare al lavoro. Nell’anno e mezzo intercorso tra il ritrovamento del corpo del ricercatore friulano lungo l’autostrada Cairo-Alessandria d’Egitto, il 3 febbraio 2016, e il proprio arresto, Metwaly si è occupato in prima persona dell’assassinio di Giulio Regeni e anche questo incarico potrebbe aver influito sull’arresto del legale. Aveva seguito le fasi iniziali della terribile vicenda, in particolare i ripetuti, e in alcuni casi assurdi, tentativi di depistaggio dell’indagine. La cautela nel maneggiare la notizia della sua liberazione deve essere massima visto il precedente, proprio nel caso dell’avvocato egiziano e fondatore di un organismo che si occupa della ricerca di persone scomparse dopo il dramma del figlio di cui da alcuni anni si sono perse le tracce. Il suo arresto, all’epoca, prendeva le mosse dal gruppo da lui fondato ‘Famiglie degli scomparsi in Egitto’, col sostegno di organizzazioni internazionali. Tra le accuse c’era anche quella di cospirazione con soggetti stranieri per danneggiare la sicurezza nazionale e pubblicazione di notizie false. Cautela oggi legata alla vischiosità non tanto della legge egiziana, quanto della sua applicazione. Il 14 ottobre scorso, infatti, la Corte aveva disposto la liberazione di Metwaly. Nel passaggio tra l’ordine e l’effettiva attuazione del provvedimento la Procura Generale aveva però creato un nuovo capo d’accusa, sempre legato a motivi insurrezionali e di presunto terrorismo. La scarcerazione saltò al tempo e da allora Metwaly è rimasto dietro le sbarre, nella sezione Scorpion II della famigerata prigione di Tora, la stessa dove sono rinchiusi Patrick Zaki, Alaa Abdel Fattah e altre decine di attivisti puniti per reati di coscienza. La stessa dove negli ultimi tre mesi e mezzo sono morti tre detenuti, tutti in circostanze poco chiare. Tornando al provvedimento firmato ieri dalla Corte penale del Cairo, il giudice dispone la libertà vigilata per Ibrahim Metwaly. I dettagli non sono ancora noti, ma appare certo che si tratterà di nulla di troppo invasivo, probabilmente un paio di visite a settimana alla stazione di polizia competente per territorio di residenza. Nulla a che vedere insomma con la misura adottata nei confronti del fotoreporter Mahmoud Abu Zeid Shawkan nel 2018, ossia cinque anni di regime di semilibertà, con l’obbligo di trascorrere 12 ore in una stazione del dipartimento di Giza dalle 18 alle 6. Ora la questione centrale è legata ai tempi della scarcerazione, che potrebbero andare da un paio di giorni ad una settimana al massimo: “Dipende dalla decisione assunta dalla National Security, la sicurezza nazionale, l’organo da cui dipendono le fortune o i drammi delle persone incriminate in Egitto - sostiene un membro dell’Ecrf -. Tutto può succedere, ma questa volta confidiamo nella definitiva scarcerazione di Ibrahim. Un giorno che aspettiamo da quasi tre anni”. Metwaly raccontò ai suoi avvocati di essere stato torturato nei giorni immediatamente successivi al suo arresto del settembre 2017, tra percosse, l’uso di scariche elettriche sul corpo e altre forme di violenza. Il legale dei Regeni ha trascorso la maggior parte della sua detenzione in una cella in isolamento. Nel luglio scorso Ibrahim Metwaly Hegazy, assieme a due colleghi egiziani anch’essi rinchiusi nelle carceri del paese, ha ricevuto un premio dall’Osservatorio internazionale degli avvocati. Da una buona notizia ad una di tenore decisamente diverso. Il direttore del Centro per gli studi sui diritti umani, una delle più importanti organizzazioni del settore in Egitto, Bahey el-Din Hassan, è stato condannato mercoledì a 15 anni di reclusione dal Tribunale penale del Cairo. La decisione ha provocato la reazione dei principali organismi che si occupano di diritti umani in Egitto, tra cui proprio l’Ecrf: “Si tratta di una sentenza politicizzata, un nuovo tentativo di punire i difensori dei diritti umani e imporre il silenzio a tutti gli egiziani. Tanta crudeltà per alcuni tweet di critica sulle violazioni commesse. Non resteremo in silenzio di fronte all’ennesimo sopruso nei confronti della libertà di espressione”. L’accusa nei confronti di Hassan sembra il solito copia/incolla: diffusione di notizie false, incitamento contro lo Stato e insulto alla magistratura. Stati Uniti. Mitra, paura e rabbia sociale. Nel Paese lacerato Donald segue la linea incendiaria di Gianni Riotta La Stampa, 28 agosto 2020 “Mai nella storia gli elettori hanno avuto una scelta più netta tra due partiti, due visioni, due filosofie, due agende. Ho passato quattro anni per riparare i danni che Joe Biden ci ha inflitto” questo il testo che, nella notte italiana, il presidente Donald Trump aveva in programma di leggere, in chiusura della Convenzione repubblicana. Confermato all’unanimità nella nomination, un solo delegato gli ha votato contro, Trump aveva chiesto ai suoi consiglieri, ora guidati dal conservatore Stephen Miller, e al genero Jared Kushner “un discorso ottimista!” e il team gli ha redatto righe come “Il manifesto del partito democratico e di Biden è il più estremista mai concepito. Il partito repubblicano va avanti unito, determinato e pronto a dare il benvenuto a milioni di democratici, indipendenti e a chiunque creda nella grandezza dell’America e nella virtù del cuore del popolo americano. Questo torreggiante spirito americano ha prevalso su ogni sfida e ci ha guidati in cima alle conquiste umane”. Erano i toni di Peggy Noonan, squisita autrice dei discorsi storici di Ronald Reagan, l’America come “città della luce”: ma - se all’ultimo momento, a braccio, come ama fare, Trump non straccia il testo preparato - gli, avvenimenti intorno alla Convenzione digitale contraddicono questo idillio solare. Il presidente ha pronunciato il suo discorso, per la prima volta, dalla Casa Bianca, sovrapponendone la gloria istituzionale al calore della mischia elettorale e, mentre parlava alla nazione, i titoli di tv e siti contavano danni e vittime dell’uragano Laura, che squassa Louisiana e Arkansas, senza solidarietà tra politici locali e nazionali, o prevenzione sul cambio climatico. E da Kenosha, in Wisconsin, stato chiave nell’elezione 2020 come già nel 2016, il notiziario social si infittiva tragico. Prima il ferimento dell’afroamericano Jacob Blake, che due agenti di polizia colpiscono alle spalle, lasciandolo paralizzato. Poi le proteste antirazziste, lo sciopero dei giocatori del basket in segno di protesta, la mobilitazione di tanti assi popolari, dello sport mentre nella città tra Chicago e Milwaukee, affluiscono miliziani bianchi in armi. Da lunedì ascoltano gli appelli alla Convenzione repubblicana, “Gli anarchici invadono le strade, i sindaci democratici ordinano alla polizia di non reagire. I negozi sono incendiati dalla feccia…” ha gridato Donald Trump jr., popolare figlio del presidente, mentre il deputato Matt Gaetz ammoniva fosco “Gli estremisti Politico-Corretti vi strapperanno le armi, svuoteranno le prigioni, vi chiuderanno in lockdown a casa, invitando nel vostro quartiere i gangster e non provate a chiamare la polizia, non verrà” perché liquidata da Biden. Clou tra i repubblicani la coppia Mark e Patricia McCloskey, celebre per aver minacciato con mitra e pistola i dimostranti a St. Louis. Dal loro divano Chippendale, hanno mandato un messaggio poco pacifico: “La teppa è scatenata… i militanti Marxisti-Progressisti-Radicali” minacceranno “come noi anche voi domani, nella quiete del vostro quartiere... Non basterà loro seminare caos e violenza nelle nostre comunità… Ovunque viviate, la vostra famiglia sarà in pericolo nell’America Radical-Democratica”. In prima fila a un comizio del presidente, pronto a condividere sui social media questa retorica angosciosa, tra i miliziani bianchi di Kenosha si schiera anche, ad appena 17 anni, Kyle Rittenhouse, che sogna un giorno di indossare la divisa da poliziotto. Si sente come i patrioti pionieri contro le Giubbe Rosse del Re nel XVIII secolo, che il Secondo emendamento alla Costituzione protegge nel diritto a portare armi contro i tiranni. Il nemico di Kyle sono i cortei di Black Lives Matter, come tanti sembra persuaso che si tratti di eversori, secondo i complottisti di QAnon complici di pedofili e lobby segrete, terroristi scatenati da Biden e dai clan democratici. Ora Kyle è in cella, accusato di aver ucciso due persone, ferendone gravemente una terza, rischia di passare la vita in galera se condannato. Gli agenti di polizia avevano simpatizzato con i vigilantes razzisti, Kyle arrivava da Antioch, nel vicino Illinois, si scambiavano bottiglie d’acqua tra loro, i capi delle milizie chiedevano allo sceriffo di essere “deputized”, diventare cioè, come nel Far West, agenti sul campo. La destra ha già adottato Kyle Rittenhouse e Tucker Carlson, commentatore di Fox News, accusa il governatore democratico Evers, “Lui ha lasciato che Kenosha bruciasse… Perché scandalizzarsi che un diciassettenne impugni il fucile per mantenere l’ordine, se nessuno altro lo fa?”. Questo è il clima in America, questa la violenza profonda, sfuggita a chi, anche da noi, si commuoveva per statue posticce di razzisti abbattute e non ha lacrime per gli esseri umani ammazzati. Trump ha seguito, finora, la linea incendiaria, sottovalutando la forza che lacera il Paese: per far marcia indietro, tempo e spazio sono esigui. Bielorussia. Cresce il pressing dell’Europa. Di Maio: “Serve il dialogo con l’opposizione” di Francesca Sforza La Stampa, 28 agosto 2020 Vertice fiume a Berlino tra i ministri Ue, si va verso le sanzioni. Putin: pronti a inviare forze di polizia a Minsk. L’Europa aumenta il pressing sulla Bielorussia, e lo fa seguendo un doppio binario: via Minsk e via Mosca. La riunione informale dei ministri degli Esteri che si è tenuta ieri a Berlino, e che aveva in agenda di affrontare le due maggiori crisi internazionali - quella bielorussa e quella in corso nel Mediterraneo orientale - si è prolungata a tal punto sui fatti di Minsk da aver fatto slittare a oggi i lavori sulla questione turco-greca. Le linee di fondo registrano un sostanziale accordo sui punti definiti dal precedente Consiglio Europeo, ovvero la solidarietà al popolo bielorusso, il non riconoscimento delle elezioni presidenziali, l’impegno per l’indizione al più presto di nuove elezioni rispettose dei più elevati standard internazionali e l’adozione di sanzioni mirate a individui ritenuti responsabili delle violenze e della falsificazione dei risultati. Su quest’ultimo punto Polonia e Lituania chiedono che la lista venga estesa e allargata il più possibile, così come ritengono che occorra essere più assertivi con Mosca. Ma la linea politica di fondo è già tracciata, grazie anche alle azioni bilaterali portate avanti dai singoli Stati membri, tra cui l’Italia. Prima la telefonata del premier Giuseppe Conte a Vladimir Putin, in cui si ricordava l’importanza di tener conto dell’opinione pubblica scesa in piazza a Minsk, poi l’intervento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio presso il suo omologo bielorusso, il ministro Vladimir Makei, hanno contribuito a rafforzare la linea dell’Unione. “L’ondata di arresti indiscriminati a Minsk, così come la compressione dei principali diritti civili e delle fondamentali libertà democratiche, inclusa quella di stampa, suscitano la nostra più profonda preoccupazione”, ha ripetuto ieri il ministro Di Maio alla Gymnich di Berlino, ricordando inoltre come “l’Italia ha fin da subito sostenuto l’adozione di una risposta unitaria dell’Unione Europea”. Il primo a essersi reso conto di quanto serrata sia l’azione europea è stato proprio il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, che ieri ha parlato di un “massacro diplomatico” nei confronti del suo Paese: “È in corso una guerra ibrida contro di noi - riporta l’agenzia russa Interfax -. Come posso descriverla altrimenti? I mass media e lo spazio dell’informazione sono stati colpiti da questa lotta, una guerra tra le parti opposte. Ed è iniziato il massacro diplomatico contro di noi, anche ai più alti livelli”. Nessuno in Europa si illude che la crisi bielorussa si possa risolvere senza l’aiuto di Mosca. E se il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha colto l’occasione per sferrare un attacco al Cremlino - “La Bielorussia è uno Stato indipendente e sovrano e nessuno, inclusa la Russia, dovrebbe interferirvi” - le cancellerie europee sanno benissimo che per portare a casa la collaborazione di Mosca è preferibile evitare scontri diretti e toni troppo provocatori. In un’intervista rilasciata ieri alla televisione russa Vladimir Putin ha dichiarato che “la Russia è pronta a occuparsi della sicurezza della Bielorussia e ad inviare forze di polizia nel Paese se le proteste dovessero diventare più violente”, ma, come aveva già detto al premier Conte nel corso della telefonata dell’altra sera, “al momento non sembra essercene bisogno”. Sulla base dell’Accordo sull’istituzione dello Stato dell’Unione e dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), la Russia si considera infatti “obbligata” a fornire sostegno militare a un altro Paese membro (come è la Bielorussia), ma l’applicazione del Trattato dipende non solo dal fatto che gli aiuti vengano espressamente richiesti (cosa già avvenuta), ma anche da una valutazione politica sulla necessità dell’intervento. Con i suoi partner europei Putin ha detto di voler intercedere presso Lukashenko affinché incontri gli altri candidati dell’opposizione e tenga presente l’umore e lo scontento del suo stesso popolo. Ma non ha mancato di ricordare che considera “ingerenza esterna” qualsiasi tentativo di mediazione da parte di organizzazioni internazionali. Nella giornata di oggi, a Berlino, i rapporti tra Unione Europea e Russia torneranno a essere tematizzati, e c’è da scommettere che i Paesi dell’Europa dell’Est non faranno sconti. Bielorussia. Putin al soccorso di Lukashenko: “Pronti i soldati” di Victor Castaldi Il Dubbio, 28 agosto 2020 Il Cremlino entra con tutte le scarpe, anzi, con tutti gli stivali nella crisi politica bielorussa. Se ci fossero dei dubbi sulla solidità dell’asse Mosca- Minsk questi sono stati fugati dalle ultime mosse di Vladimir Putin. Su richiesta diretta del Presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko, la Russia ha infatti formato un contingente di riservisti degli apparati di sicurezza pronti a fornire assistenza alla Minsk “se necessario”, ha rivelato il Presidente russo in un’intervista trasmessa ieri pomeriggio dalla televisione di stato mentre era in Crimea a inaugurare la nuova autostrada fra Kersh e Sebastopoli. “I militari russi non entreranno in azione se le forze estremiste in Bielorussia non passeranno la linea e inizieranno atti di saccheggio”, ha affermato Putin. Per non dare l’impressione di essere troppo partigiano, il capo del Cremlino ha invitato le autorità bielorusse a considerare le proteste in corso, la polizia a moderare la forza dei suoi interventi contro la piazza e tutte le parti in campo a trovare una soluzione politica alla crisi: “Tutti i partecipanti a questo processo avranno sufficiente buon senso di trovare una soluzione in modo calmo e senza estremismi. Ma se la gente è scesa in strada, bisogna considerarlo, ascoltarli, reagire”, ha affermato. Nel corso dell’intervista Putin ha duramente criticati l’arresto dei 32 mercenari della Wagner avvenuto in Bielorussia alla fine di luglio che a detta di Mosca sarebbe stata il frutto di una operazione congiunta fra le agenzie di intelligence di Ucraina e Stati Uniti. I mercenari erano diretti in Medio Oriente per operazioni “del tutto lecite”, ha aggiunto Putin. Un altro elemento che segna il patto d’acciaio sono gli ingenti aiuti economici che la Russia destinerà ai vicini: Lukashenko ha reso noto di aver raggiunto un accordo con lo stesso Putin per il rifinanziamento del debito di Minsk con Mosca per un miliardo di dollari entro la fine dell’anno. Il Presidente della Bielorussia non ha precisato quale sia il costo politico dell’operazione ma di sicuro il Cremlino vorrà qualcosa in cambio. “Manterremo qui questo denaro che servirà per rafforzare la nostra valuta”, ha dichiarato, citato dall’agenzia Belta. I dettagli della ristrutturazione del debito saranno discussi oggi dai Premier dei due Paesi. Il debito di Minsk con Mosca raddoppiato dal 2012, supera i sette miliardi di dollari. Per pagarlo Minsk lo scorso anno ha accettato un prestito di 600 milioni di dollari dalla Cina. Nei mesi scorsi, Lukashenko aveva chiesto, senza ottenere risultati, un altro prestito di 600 milioni dalla Russia. In seguito al rifiuto di Mosca aveva emesso bond per 1,35 miliardi sui mercati internazionali. L’aiuto del Cremlino è dunque arrivato nel momento maggiore debolezza con l’opposizione interna che per la prima volta in un quarto di secolo è scesa in piazza e ha messo in un angolo il presidente e il suo blocco di potere. La precarietà dei conti pubblici bielorussi e il massiccio intervento russo non fanno che vincolare ancora di più il regime di Lukashenko ai suoi padrini russi. Un protagonismo, quello di Putin che irrita non poco i paesi occidentali. A dare un sapore da Guerra fredda alla giornata di ieri c’è stato l’intervento del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, il quale ha esortato la Russia a non intromettersi nella crisi bielorussa e a rispettare le dimaniche politiche interne: “La Bielorussia è uno Stato indipendente e sovrano e nessuno, inclusa la Russia, dovrebbe interferire nella sua vita politica”, le parole del responsabile dell’Alleanza atlantica. Sulla stessa linea Josep Borrell, Alto rappresentante della Politica estera europea che ha esplicitamente evocato la possibilità di sanzioni economiche nei confronti della Bielorussia, sanzioni che dovrebbero essere in agenda alla prima riunione informale dei ministri degli Esteri dell’Ue che si terrà a Bruxelles la prossima settimana. Arabia Saudita. Loujain e gli altri: tutti gli oppositori spariti in carcere di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 agosto 2020 Dieci settimane di silenzio. Loujain Al Hathloul, la più nota delle prigioniere di coscienza saudite, dal 9 giugno non ha più chiamato o fatto arrivare notizie alla famiglia. Si teme per le sue condizioni di salute e, sottolineano i parenti, che abbia subito abusi e torture in carcere. Attivista per i diritti delle donne, protagonista della campagna per il diritto alla guida e per l’abolizione del tutore maschile, Al Hathloul venne arrestata il 15 maggio 2018 nel corso di una retata che ha visto finire in prigione decine attiviste. In quei giorni la stampa occidentale, inclusa quella italiana, esaltava il passo fatto dal “modernizzatore” Mohammed bin Salman (noto come Mbs), il principe ereditario - di fatto già alla testa del regno - di permettere finalmente la guida alle donne. E invece, nello stesso momento, il rampollo reale ordinava l’arresto di protagoniste storiche della lotta per i diritti delle donne. Loujain Al-Hathloul ha denunciato di aver subito anche violenza sessuale in carcere. La pandemia ha fornito un’altra occasione per oscurare la questione dei diritti umani in Arabia saudita. Anche la principessa Basmah bint Saud non ha contattato la famiglia da aprile, quando la sua detenzione è stata resa pubblica. E Salman Al Odah, un religioso incarcerato nel 2017, ha fatto la sua ultima chiamata a casa il 12 maggio. Ai prigionieri di coscienza era permesso di telefonare a casa almeno una volta a settimana. Da quando c’è l’emergenza Covid è calato il silenzio su di loro e si teme che siano ammalati se non addirittura deceduti a causa del virus e che le autorità lo stiano nascondendo. Intanto diversi intellettuali e scrittori arrestati lo scorso anno - due hanno la doppia cittadinanza saudita e statunitense, Salah Al Haidar e Bader Al Ibrahim - sono stati rinviati a giudizio e dovranno affrontare un processo in un tribunale speciale per l’antiterrorismo. A inizio agosto un ex ufficiale dell’intelligence Saad al Jabri, fuggito in Canada, ha riferito di essere scampato nel 2018 a un team di killer inviato da Mbs ad ucciderlo. La morsa della repressione si stringe sempre di più in Arabia saudita. L’account Twitter “Prisoners of Conscience” nei giorni scorsi ha scritto che arresti e intimidazioni sono diventati la regola per le famiglie degli oppositori in esilio. Cresce il timore di nuovi omicidi “mirati” all’estero, la sorte subita due anni fa dal giornalista Jamal Khashoggi, brutalmente assassinato e fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul da agenti dei servizi segreti. Una eliminazione che più parti, anche la Cia, hanno attributo a un ordine dato a Mohammed bin Salman. Il principe ereditario però gode della protezione di Donald Trump e ignora le condanne dei centri per i diritti umani. La possibile vittoria alle presidenziali di Joe Biden potrebbe portare a un cambiamento se il candidato democratico metterà da parte la ragion di stato e confermerà - ben pochi ci credono - la condanna della repressione in Arabia saudita e i sanguinosi bombardamenti di Riyadh in Yemen Algeria. Secondo giornalista condannato in poche settimane di Riccardo Noury articolo21.org, 28 agosto 2020 Due anni di carcere per Abdelkrim Zeghileche. S’intensifica la repressione contro i giornalisti in Algeria. Il 24 agosto il tribunale di primo grado di Costantina ha condannato a due anni di carcere Abdelkrim Zeghileche, direttore di Radio Sarcabane, per i reati di “insulto al presidente della Repubblica” e “minaccia all’integrità del territorio nazionale”. Le accuse si sono basate sui contenuti di due post pubblicati da Zeghileche su Facebook. Nel primo, il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune è definito “un frodatore portato al potere dalle forze armate”; nel secondo si invoca la creazione di partiti politici. Tutto qua. Zeghileche è in carcere dal giorno dell’arresto, il 23 giugno. La sua condanna segue di due settimane quella di Khaled Drareni, che il 10 agosto è stato giudicato colpevole di “minaccia all’integrità del territorio nazionale” e “istigazione a manifestazione non armata” e condannato in primo grado a tre anni di carcere. L’unica “colpa” di Drareni è di aver seguito le manifestazioni del movimento di protesta “Hirak”. Drareni, rappresentante di Reporter senza frontiere per l’Algeria, corrispondente da Algeri per l’emittente francese TV5 Monde e fondatore e direttore del portale Casbah Tribune, è in carcere dal 27 marzo. Il processo d’appello inizierà l’8 settembre.