Anche chi è dietro le sbarre ha il diritto di parlare di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 27 agosto 2020 Ecco, avevamo lamentato il disinteresse della politica per il tema della detenzione. Riccardo Polidoro, su queste stesse pagine, aveva rivolto un appello ai candidati alle regionali campane affinché inserissero nella loro agenda le misure indispensabili per garantire una vita più dignitosa a chi è recluso. Le sue parole sembravano aver aperto una breccia nel muro di indifferenza che la politica ha innalzato tra sé e il carcere, col deputato Gennaro Migliore che aveva indicato ai colleghi la strada da seguire per umanizzare la detenzione. Come spesso accade, però, una speranza non fa in tempo ad accendersi che subito arriva qualcuno a spegnerla. Quel qualcuno, stavolta, è Matteo Salvini, secondo il quale “i Garanti dei detenuti hanno rotto le palle”. Il segretario della Lega si sarebbe fatto sfuggire questa affermazione durante la visita al penitenziario di Secondigliano dove si è recato insieme con alcuni candidati del suo partito alle regionali campane. Tra questi Rosa Capuozzo, ex sindaca grillina di Quarto poi folgorata sulla strada per via Bellerio, che in una nota ha riferito urbi et orbi l’opinione del leader sui Garanti dei detenuti. Apriti cielo, ovviamente. Poche ore più tardi lo staff della Capuozzo ha tentato di correggere il tiro chiarendo come la frase incriminata non fosse attribuibile a Salvini. La frittata, intanto, era fatta. Ora, anche nell’ipotesi in cui non sia stata pronunciata dal segretario ma da qualche altro esponente della Lega, quella esternazione segna un enorme passo indietro nel dibattito sulla detenzione in Campania e nel resto d’Italia. E questo per almeno due ordini di motivi. Molti ricorderanno l’evoluzione di cui la pena è stata protagonista nei secoli. In principio fu la concezione retributiva, riassumibile nel classico “chi sbaglia paga”. Successivamente si affermò la teoria general-preventiva, cioè la logica del “colpirne uno per educarne cento”. La nostra Costituzione, alla fine, ha accolto un diverso principio, cioè quello per il quale la sanzione penale non può consistere in trattamenti degradanti e deve tendere al reinserimento sociale del reo. Dichiarare che “i Garanti hanno rotto le palle”, come avrebbe fatto Salvini o qualche altro esponente della Lega, equivale a dire che quelle figure istituzionali non hanno diritto di parola. E che, di conseguenza, non ce l’hanno nemmeno i soggetti che dai garanti sono tutelati, cioè i detenuti e i loro familiari. È evidente, dunque, come certe esternazioni riportino la cultura giuridica indietro di secoli, a uno stadio forse addirittura precedente quello legato alla concezione retributiva della pena. Per la serie “hai sbagliato, adesso paghi e stai pure zitto”. Sostenere che i Garanti altro non siano che dei rompiscatole, però, è una barbarie non solo sotto il profilo giuridico, ma soprattutto umano. È accettabile che una persona, condannata per un reato più o meno grave o detenuta in attesa di giudizio, debba vivere in celle fatiscenti, addirittura prive servizi igienici e acqua calda? Dove sta scritto che un recluso debba condividere una cella insieme con altre 13 persone per poi cercare rifugio negli psicofarmaci o decidere di togliersi la vita? Può passare l’idea che chi si trova in carcere debba silenziosamente accettare condizioni di vita insostenibili per il semplice fatto di aver violato la legge? Anche questa è barbarie perché è il senso di umanità, prima ancora della legge, a imporre che chi ha sbagliato conservi dignità e diritto di parola. Se ne facciano una ragione leghisti, grillini e tutti i forcaioli che infestano la politica di casa nostra. E chi si è lasciato sfuggire quella frase sui garanti, se ne assuma la responsabilità e la smentisca. “Salvini è un barbaro”, l’accusa di Ciambriello dopo le parole del leader leghista sui Garanti di Viviana Lanza Il Riformista, 27 agosto 2020 “I Garanti dei detenuti hanno rotto le palle”. Sì, scritto proprio così, in cima al comunicato stampa inviato dallo staff di Rosa Capuozzo per dare risalto alla visita nel carcere di Secondigliano del leader della Lega Matteo Salvini e della stessa Capuozzo che, dopo l’esperienza da sindaco grillino a Quarto, tenta ora la corsa alle regionali con il Carroccio È vero che in periodo di campagna elettorale si fa largo uso di frasi a effetto, ma questa sui garanti sembra andare oltre, oltre i limiti di stile e di toni, oltre nella sostanza e non solo nella forma perché appare grave che un partito assuma una tale posizione su un tema complesso e delicato come quello del carcere. È il primo pomeriggio di ieri e l’effetto della frase indicata nel comunicato ha ricadute negative non solo fuori, ma anche dentro al partito. Nel comunicato si legge che Salvini “durante l’incontro a porte chiuse non ha usato mezzi termini - “I Garanti dei detenuti hanno rotto le palle” - in riferimento alle tante richieste dei familiari e degli stessi condannati”. Tanto basta per sollevare un polverone. Il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, non fa attendere la sua replica: “Un ex ministro dell’Interno che si esprime con questo attacco volgare e scomposto non merita alcun commento da chi nella Costituzione e nelle Istituzioni ci crede. Lui ha una concezione barbara del diritto e del garantismo”. In serata arriva poi un’altra nota dello staff della Capuozzo: “Nel precedente comunicato sono state erroneamente attribuite al leader Salvini delle parole riguardanti i garanti dei detenuti”, si tiene a precisare. La confusione comunicativa non ferma comunque le reazioni dopo una giornata iniziata con l’incontro tra l’ex ministro e i rappresentanti sindacali e gli agenti penitenziari per discutere delle difficoltà del lavoro in carcere, un lavoro “senza strumenti di difesa, senza tutele e senza personale”, come si sottolinea nel comunicato. “Di solito i politici entrano in carcere per vedere se stanno bene i detenuti, io oggi sono a Secondigliano per vedere se stanno bene i poliziotti, che sono servitori dello Stato”, è la dichiarazione attribuita a Salvini nella nota in cui si sottolinea anche che la Capuozzo ha ricordato i 17 suicidi che negli ultimi due anni ci sono stati tra uomini e donne del comparto penitenziario, “schiacciati dalla pressione psicologica che viene imposta dalle condizioni di lavoro”. “Le guardie penitenziarie hanno bisogno di essere tutelate”, è l’appello dell’ex sindaco ora candidata con Salvini che parla anche di fondi europei: “Le opere pubbliche sono più che ferme e vediamo cantieri bloccati. Paghiamo tanti soldi all’Europa, ma se non utilizziamo i fondi destinati alla Campania questa Europa non ha senso di esistere”. I fondi, proprio quelli per il cui sblocco si è di recente tanto battuto il garante regionale Ciambriello. Più moderati i toni di Severino Nappi, anch’egli candidato della Lega alle prossime elezioni regionali in Campania. Al termine della visita, assieme a Salvini, nel carcere di Secondigliano Nappi ha dichiarato: “Ci sono oggettivamente difficoltà per chi lavora in realtà complicate e difficili. Bisognerebbe garantire sicurezza a chi è costretto a soggiornarvi, ma soprattutto a chi vi opera”. “Il governo, anche sul tema della sicurezza nelle carceri, fa solo chiacchiere e - ha aggiunto Nappi - rischia di creare caos e tensioni sociali. È il contrario di quello che bisognerebbe fare: gli istituti devono garantire che la gente sconti la pena in modo dignitoso, ma anche in condizioni di sicurezza per chi lavora”. “A Nola il progetto che renderà il carcere più umano” di Viviana Lanza Il Riformista, 27 agosto 2020 Parla Luca Zevi, esperto di architettura penitenziaria: via i muri perimetrali, celle trasformate in monolocali. Così le prigioni diventeranno luoghi di risocializzazione. Non sprechiamo il lavoro avviato negli anni Sessanta. Un carcere senza muri perimetrali, con celle trasformate in una sorta dì monolocali dove vivere al massimo in due e la forma di un isolato urbano come se ne trovano tanti nelle nostre città. Così è stato pensato il nuovo carcere di Nola (se ne parla da anni ma il progetto è ancora su carta), così dovrebbero essere tutte le carceri. Ne è convinto Luca Zevi, architetto e urbanista di fama, che ha lavorato alla rivitalizzazione di centri storici italiani e al restauro di antichi edifici e, tra i vari prestigiosi incarichi ricoperti, è stato consulente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha coordinato il tavolo numero uno degli Stati generali dell’esecuzione penale promossi dal Ministero della Giustizia quattro anni fa. Parte da un’idea di carcere come extrema ratio. “Le misure alternative si rivelano di gran lunga più efficaci tanto che la recidiva è al 20% mentre per chi va in carcere è intorno al 70”. E l’architettura dei luoghi in cui si sconta la pena ha una funzione fondamentale. Il carcere - sottolinea Zevi - dovrebbe avere caratteristiche quanto più simili a un normale complesso residenziale anziché a un luogo di esclusione”. Alla base c’è la visione della pena non come punizione e sofferenza ma come rieducazione e opportunità. “C’è bisogno di strutture in cui il detenuto può stare 12 ore al giorno lontano dalla cella in modo da impegnare la giornata svolgendo attività lavorative, attività sociali e sportive e avere una camera di pernottamento, di detenzione quindi, possibilmente individuale dove dormire”. È un’idea di carcere che smonta quella attuale, la stravolge. “Nel progetto elaborato dal Dap per il carcere di Nola c’era una cosa interessante, perché scompariva il muro di recinzione che è chiaramente uno strumento di esclusione del mondo interno dal mondo esterno, e la struttura diventava una sorta di isolato urbano per cui lungo il perimetro non c’erano le camere di detenzione ma ambienti dell’amministrazione, alloggi per la polizia penitenziaria, strutture lavorative e il complesso, pur con misure di sicurezza, appariva non come luogo di pena e di esclusione, non come un luogo “altro”, ma come uno degli isolati urbani di cui è composta la città”. E a chi di fronte a un simile progetto strabuzza gli occhi obiettando che rendere il carcere simile a una specie di albergo rischia di azzerare l’effetto della pena, l’architetto Zevi risponde: “È un’obiezione legittima ma io do una risposta che, al di là di tutto, è soprattutto di efficienza. Il carcere che abbiamo adesso non è né afflittivo né riabilitativo, è una via di mezzo che produce il 70% di recidiva. Davvero questa società vuole continuare a sostenere il costo di strutture affollate di detenuti per farli uscire ed entrare in continuazione?”. “Siccome non vogliamo tornare al carcere afflittivo - ragiona Zevi, esperto di architettura penitenziaria - per forza dobbiamo pensare a una struttura più rispettosa dei diritti dei detenuti nella convinzione che chi non viene rispettato non rispetterà. Una struttura efficiente, capace di rieducare a una vita normale e non di estrapolare dalla vita normale come invece accade adesso tanto che il detenuto, espiata la pena, quando esce si sente completamente sperduto nel mondo reale”. Eppure la tradizione penitenziaria italiana aveva avviato una stagione virtuosa. “L’Italia - ricorda Zevi - ha avuto un decennio, dal 1965 al 1975, in cui era all’avanguardia nell’edilizia penitenziaria internazionale. Le strutture costruite in quegli anni, da Rebibbia a Sollicciano e Spoleto, nacquero da progetti di grandi architetti italiani”. Zevi ne cita uno per tutti: “Michelucci fece a Sollicciano il giardino degli incontri”. Era un’architettura che anticipava i tempi. E non solo. “Nel 1975 fu fatto un regolamento penitenziario avanzatissimo e quel regolamento era una sorta di applicazione di ciò che avevamo realizzato nelle strutture nei dieci anni precedenti. In quel caso addirittura l’architettura ha trainato la legislazione verso dei criteri più efficienti e più umani”. Poi il terrorismo ha stravolto tutto e la cultura giustizialista ha preso il sopravvento. Serve una nuova svolta. Giustizia, la riforma Bonafede e gli interrogativi irrisolti di ?Vincenzo M. Siniscalchi Il Mattino, 27 agosto 2020 Tra le novità legislative che si annunziano per il prossimo autunno val la pena di prestare attenzione al testo che va sotto il nome del ministro di Giustizia Bonafede dedicato alle modifiche dell’ordinamento giudiziario ed in gran parte alla riforma del Csm.Si potrebbe pensare, nell’attuale conclamata situazione di sfascio della Giustizia in Italia, che in questa inarrestabile crisi di funzionamento della istituzione giudiziaria la cosiddetta “riforma Bonafede” poteva ritenersi destinata ad aprire la via per incentivare i finanziamenti necessari a contenere, quanto meno, il regresso del funzionamento del processo “giusto e celere” sempre più insabbiato in tempi irragionevoli. Nulla! Sembra che l’unica urgenza debba ritenersi un nuovo metodo elettorale. Non neghiamo che anteporre alla disciplina ordinamentale una organizzazione più trasparente del Csm con la sperimentazione di metodi elettorali che abbiano come scopo prioritario una innovazione destinata ad evitare condizionamenti di gruppi e correnti, sia cosa opportuna. E, tuttavia, va posta, sul punto, la domanda: può una diversità di metodo elettorale (uninominale piuttosto che proporzionale etc.) raggiungere l’obiettivo di una riqualificazione etica di questo rilevante organo costituzionale? Insomma una riforma di fondamento “etico” può esprimersi in una riforma di sistemi elettorali? L’ordinamento giudiziario, nello specifico, dovrebbe pur sempre essere funzionale alla attuazione del modello di magistratura definito nella Costituzione repubblicana non solo come “indipendente dai poteri esterni ma anche libera da condizionamenti ed auto-condizionamenti interni”. Sul punto va ricordato sempre che l’art. 107 della Costituzione stabilisce che “i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni”. Orbene, così intesa, nella sua chiarezza, è proprio nella norma costituzionale, che occorre individuare il blocco delle plurime derive verticistiche espressioni inaccettabili di forme di gerarchizzazione o, peggio, di burocratizzazione. Al contrario, andrebbe assecondata l’idea di un potere giudiziario estraneo a questo verticismo inteso come piattaforma organizzativa di una sorta di blocco di potere. Ed è questo un blocco regressivo dal punto di vista culturale, per le funzioni giudiziarie come previste in Costituzione. Ed è proprio con questa impostazione di fondo errata della proposta Bonafede che ci si allontana dal principio fissato dall’art. 107 Costituzione potendosi condizionare in modo discutibile l’accesso alla rappresentanza democratica. Il dl del ministro, per la verità, recepisce alcune proposte in materia pur sollecitate dalla magistratura associata per stimolare principi di corretta amministrazione (come il rispetto, ad esempio, nelle valutazioni, dell’ordine di vacanza dei posti concernenti decisioni su incarichi direttivi e semi-direttivi, così contenendosi anche il contenzioso amministrativo in materia che spesso conduce a ritardi delle nomine per l’attesa della definizione dei ricorsi proposti dagli aventi diritto). Che la bussola delle decisioni debba essere il principio più volte richiamato contenuto nell’art. 107 viene affermato con decisione, in dissenso dalle parti della proposta di riforma che concernono, ad esempio, la riserva dell’elettorato passivo per i magistrati con funzioni di legittimità. Questo è uno soltanto degli esempi del paventato rigurgito di gerarchizzazione che pur va rilevato. In un interessante documento della componente di Magistratura democratica si osserva che in questo modo, con il mezzo dello strumento elettorale “si ritrova la visione di un ufficio separato e di vertice; si ritorna alla distinzione della magistratura alta contrapposta a quella bassa” compromettendosi in tal maniera una visione unitaria ed armonica della giurisdizione delle funzioni. Su questo particolare aspetto il pensiero della componente associativa sopra citata evidenzia come il disegno di legge Bonafede finisca per fornire la visione di una magistratura divisa perché per l’elezione al Csm viene prevista la istituzione, oltre al Collegio per la Cassazione, altro Collegio elettorale separato per i magistrati “fuori ruolo”, per quelli dell’ufficio del massimario, nonché della Direzione nazionale antimafia e terrorismo.Da questo quadro sembrerebbe uscire l’inverso della regola dell’art. 107 della Costituzione, il che finisce per accentuare una ipotesi di “carrierismo” o, comunque, della specificità di incarichi che, detto in sintesi, fanno riaffiorare il riflesso condizionato di una proposta di tipo corporativo. Ciò appare anche nella complessa disciplina dei parametri dell’attitudine direttiva. Su queste riserve si è soffermato con autorevolezza anche Edmondo Bruti Liberati, (Il Foglio del 12 agosto 2020). Bruti Liberati scrive: “A sistemi che hanno insiti i rischi del notabilato delle visioni localistiche e delle pratiche di scambio si contrappongo sistemi che operando per la rappresentanza del pluralismo di posizioni culturali e professionali, hanno in sé gli antidoti per quelle derive. Si tratta allora di operare per valorizzare quegli antidoti”. A parte le valutazioni sul dibattito in corso nella magistratura associata va detto che si ha la sensazione di una richiesta di cambiamento culturale nella idea di non mitizzare né la “carriera” né la “dirigenza” quasi fossero corpi separati che finiscono per costituire percorsi paralleli se non alternativi ai percorsi giurisdizionali veri e propri. A questi spunti vanno aggiunte le critiche che le correnti di magistratura associata espongono per contenere la deriva di una proposta di rappresentanza che non garantendo aree culturali di minoranza esprime dinamiche tipiche del “correntismo”, per finire ad un discutibile frazionamento di un corpo elettorale unitario in numerose categorie. Si obietta anche, e sembra si tratti di una obiezione corretta, che la riforma Bonafede presenta interrogativi irrisolti in tema di legittimazione ad accedere alla composizione del Csm con uno squilibrio tra il limitato accesso alla consiliatura da parte delle donne rispetto ad una platea di magistrati che è formata per il 50 per cento da donne. Insomma questi aspetti della riforma creano un conflitto dialettico di notevole rilievo anche considerando discutibili ipotesi di sorteggio che caratterizzano alcuni passaggi del dibattito in questione. In una parola il pericolo del verticismo e del burocratismo della rappresentanza dell’ordine giudiziario non è in alcun modo superato e, quel che più conta, non sembra assicurata la costituzione di un quadro che consenta di dire che si è assicurata una giurisdizione indipendente, come è nelle speranze di tutti, soprattutto nel contenimento inammissibile degli inquinamenti politici che compromettono l’alto valore costituzionale del Csm come i casi recenti hanno dimostrato. Senza certezza del diritto un paese funziona molto male di Valter Vecellio Italia Oggi, 27 agosto 2020 L’Ue ha posto come condizione per l’erogazione dei fondi anche la riforma della giustizia. Si legge (e si ascolta) sempre con piacere il professore Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, anche quando non si è d’accordo con quello che dice e scrive. Ha un fare accattivante, un eloquio pacato e ragionante; uno stile di scrittura che invoglia alla lettura. Doti, di questi tempi, rare. Cassese non risparmia critiche sulla disinvoltura con la quale il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, aggira la Costituzione con i suoi decreti, il prolungamento dello stato d’emergenza, il sottrarsi alle proprie responsabilità nel caso del processo a Matteo Salvini per sequestro di immigrati; episodi, che a suo giudizio, minano la credibilità dell’esecutivo. Intervistato da “Libero”, Cassese non fa economia di giudizi taglienti sulla giustizia e chi l’amministra. Parte dal “caso” di Luca Palamara: “Ha rivelato pubblicamente una malattia grave, che gli addetti ai lavori conoscevano. Ancor più grave la lentezza con la quale si procede alla somministrazione della medicina. La sensazione è che la magistratura non voglia far pulizia dentro sé stessa. Le procure hanno un potere enorme e gli altri giudici non si oppongono. Manca la forza morale e culturale per rimediare a questa situazione e la riforma del Csm non servirà a nulla”. Una critica radicale, la sua: denuncia il vistoso sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri a vantaggio della magistratura: “Comincia con la lunghezza dei processi, continua con l’assenza di autocontrollo delle procure, produce pubblico ludibrio in piazza, senza processo, il tutto alimentato da un’idea, prevalsa e accettata, della magistratura come cittadella non solo indipendente, ma anche autogovernantesi”. Non è per caso, se queste problematiche sono rigorosamente escluse dalle agende di pressoché tutti i partiti, di maggioranza o di opposizione. La Giustizia, in Italia è una vera e propria Cenerentola. Quando vararono il provvedimento relativo alla prescrizione, tutti, a cominciare dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, giurarono e spergiurarono che era solo l’inizio: subito sarebbe seguita una più generale riforma del sistema giudiziario che avrebbe bilanciato gli allungati termini della prescrizione. Non ne hanno fatto nulla, e nulla intendono fare. Eppure, fresco è il monito lanciato da due economisti, Carlo Cottarelli e Alessandro Di Nicola: “Un Paese dove il sistema giudiziario è inefficiente non è un Paese in cui vi può essere la certezza del diritto. E dove non c’è la certezza del diritto l’economia e la società funzionano male”. Quella di una giustizia efficiente è una delle condizioni che l’Europa ha posto come condizione per l’erogazione delle risorse del Recovery Plan. Una raccomandazione fondamentale, non solo per la società, ma per l’economia. Dicono Cottarelli e Di Nicola: “Un paese dove il sistema giudiziario è inefficiente, dove occorrono anni e anni per ottenere sentenze, non è un paese in cui vi può essere certezza del diritto. E dove non c’è certezza del diritto l’economia e società funzionano male. Il problema della lentezza della giustizia esiste per tutte le sue componenti, amministrativa, penale, civile”. Sottolineano che i procedimenti civili, in media, durano in Italia quattro volte in più che in Germania, tre volte in più che in Spagna, il doppio che in Francia; e concludono: “Ridurre i tempi della giustizia è, insieme alla semplificazione burocratica, la più importante riforma che la nostra economia deve affrontare per rilanciarsi, una volta superata la fase immediata dell’emergenza economica. Ristabilire la certezza del diritto in Italia è essenziale per raggiungere una nuova e migliore normalità”. Intanto, nell’ambito della comunità penitenziaria, che non riguarda solo i detenuti, continua lo stato di profondo disagio che colpevolmente non si vuole vedere. Per dire: ben tre suicidi in un mese, l’ultimo alcuni giorni fa. A togliersi la vita una donna Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria in servizio nella Casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Pochi giorni prima, altri due operatori di Polizia penitenziaria in servizio nell’Istituto di Latina. Certo: alla base di questi gesti estremi possono esserci molti e diversi i fattori. Ricondurli a un’unica matrice è sempre riduttivo. Tuttavia, sono note le difficoltà del lavoro che la Polizia penitenziaria svolge in prima linea in carcere, in una situazione segnata da una serie di criticità, strutturali, gestionali e numeriche, ancora più evidenti in questi tempi di emergenza sanitaria. “E le stelle stanno a guardare”, è il titolo di un romanzo di Cronin scritto quasi cent’anni fa. Non solo le stelle; anche il ministero della cosiddetta Giustizia si guarda. Senza vedere Palamara, ministero della Giustizia valuta di costituirsi parte civile nell’eventuale processo Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2020 Ieri la procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente dell’Anm, l’imprenditore Centofanti, l’amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia. Nei mesi scorsi le intercettazioni emerse dall’inchiesta hanno travolto il mondo della giustizia italiano, spingendo Bonafede a varare la riforma del Csm. Il guardasigilli Alfonso Bonafede ha attivato una serie di verifiche interne al ministero per accertare se sussistono i margini per costituirsi parte civile nei confronti di Luca Palamara. L’ex presidente dall’Anm è accusato di corruzione dalla procura di Perugia e i magistrati ieri ne hanno chiesto il rinvio a giudizio. Qualora gli accertamenti diano esito positivo, si apprende da fonti ministeriali, il numero uno di via Arenula ha manifestato l’intenzione di procedere senza indugio, dal momento che ritiene il suo ministero “persona offesa” nell’eventuale processo a carico del magistrato (ora sospeso dalle funzioni). Palamara è accusato di avere ricevuto il pagamento di diversi soggiorni e viaggi in Italia e all’estero dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, al quale avrebbe in cambio messo a disposizione le sue funzioni di magistrato. La procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha chiesto il rinvio a giudizio anche per Centofanti, l’amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi. Un’inchiesta che, dopo la pubblicazione di diverse intercettazioni ascoltate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara, ha terremotato il Consiglio superiore della magistratura, portando alle dimissioni di diversi consiglieri. Uno degli incontri documentati dagli inquirenti risale al 9 maggio 2019 ed è avvenuto all’hotel Champagne di Roma. È qui che si sono ritrovati l’ex presidente dell’Anm, cinque magistrati e diversi politici (tra cui l’ex ministro Luca Lotti e il deputato Cosimo Ferri) per parlare di nomine ai vertici degli uffici giudiziari, compresa quella a capo della procura capitolina. La vicenda è ora al centro di un procedimento disciplinare a Palazzo dei Marescialli, aperto a luglio e subito rinviato a dopo l’estate. Ma gli strascichi hanno travolto anche il mondo della politica, spingendo il governo a riformare radicalmente il Csm. Caso Pittelli, Sgarbi denuncia Gratteri al Csm per abuso di potere Il Dubbio, 27 agosto 2020 Ispezione a sorpresa di Vittorio Sgarbi nel carcere di massima sicurezza di Nuoro, dove ha incontrato l’ex senatore Giancarlo Pittelli in galera da 9 mesi. Ispezione a sorpresa del deputato Vittorio Sgarbi, ieri pomeriggio, nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros, a Nuoro, dove ha incontrato l’ex senatore Giancarlo Pittelli, avvocato di 68 anni arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa il 19 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Catanzaro denominata “Scott Rinascita”, e attualmente detenuto in regime di isolamento. “La carcerazione di Pittelli - spiega Sgarbi - viola la Costituzione e lo stato di diritto perché viene tenuto in carcere senza che sia stato mai interrogato e senza che sia stato celebrato un processo. Nei suoi confronti accuse fumose, frutto di ipotesi senza prove, in spregio a ogni principio di civiltà giuridica”. Nel mirino del deputato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, titolare di un’inchiesta che, denuncia Sgarbi “nota per l’inconsistenza dei capi d’accusa e abuso della carcerazione preventiva. Per questa ragione - annuncia - ho deciso di presentare un esposto al Csm, per abuso di potere e violazione dei diritti umani, contro Gratteri e le sue indagini costruite su teoremi accusatori caratterizzati notoriamente da superficialità. È lungo l’elenco di persone atte arrestare da Gratteri e poi scagionate o assolte”. Le condizioni dell’ex parlamentare vengono definite dal deputato “preoccupanti”. “È visibilmente gonfio - riferisce - in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato: condizioni di salute oggettivamente incompatibili con la detenzione” Signor detenuto, lei non ha più diritto alla difesa di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 agosto 2020 Il legale Roberto Lassini ha tentato invano per due giorni di incontrare il suo neoassistito Francesco Stilo, indagato, che sta rischiando la vita in cella. È in atto una vera sospensione del diritto di difesa. Per due giorni di seguito l’avvocato Roberto Lassini ha tentato di incontrare il suo neo-assistito Francesco Stilo, indagato nella maxi-inchiesta calabrese detta Rinascita-Scott, nel carcere di Opera. Niente da fare, il legale milanese dovrà accontentarsi di una fotografia, se vorrà conoscere la persona che dovrà difendere nel processo. Ammesso che processo mai ci sarà, per lui, visto che sta rischiando la vita. La direzione dell’istituto di pena ha alzato un muro davanti alla richiesta di incontro da parte del legale, prima dicendo che l’avvocato Stilo (che è in carcere da otto mesi) era a colloquio con lo psichiatra, poi che era in isolamento in quanto il suo compagno di cella era risultato positivo al test sul Covid-19, infine che comunque era in corso il suo trasferimento a Bologna. Sospensione del diritto di difesa è dire poco. Anche lo psichiatra nominato dal gip come consulente di parte aveva trovato ostacoli all’ingresso del carcere. Era addirittura risultato, dal cervellone della polizia, una sorta di suo precedente per “falso” (inesistente), tanto che il luminare aveva deciso di querelare la pm che si era permessa di addurre a una propria “benevolenza” il fatto che alla fine gli fosse stato consentito di incontrare e di esaminare il proprio paziente. Ora qualcuno deve spiegare all’opinione pubblica, prima ancora che all’avvocato Stilo, ai suoi familiari e ai suoi difensori, se lo Stato (nelle vesti del procuratore Gratteri o di qualche suo sostituto o di qualche gip) ha deciso di condannare a morte un cittadino innocente secondo la Costituzione, incarcerato e in attesa di giudizio da otto mesi. Un quadro clinico devastante, prima di tutto: un ematoma all’aorta toracica, gravi patologie cardiache, due tentativi di suicidio, attacchi continui di panico e di claustrofobia su un uomo di 47 anni che pesa 147 chili, con tutto quello che ne consegue. E ora, mentre in tutta Italia è in corso un nuovo allarme per il “risveglio” del Coronavirus, e una delle nuove persone colpite è stato giorno e notte a contatto con il compagno di cella già gravemente malato, non c’è uno straccio di magistrato che abbia la sensibilità e il coraggio di porsi il problema, per lo meno, della custodia cautelare al domicilio dell’avvocato Francesco Stilo. A Milano nel mese di marzo alcuni giudici lo avevano fatto, di propria iniziativa e senza aspettare le decisioni del governo, proprio nei confronti di detenuti in custodia cautelare. Ma ci vogliono appunto sensibilità e coraggio. E invece che cosa fanno i magistrati calabresi (o gli uomini del Dap, non sappiamo)? Decidono di mandare il malato a Bologna, dove nel carcere Dozza già in aprile c’erano stati un morto e diversi contagiati tra i detenuti, e dove proprio in questi giorni è stata segnalata la presenza di un detenuto positivo al tampone anticovid. E dove il segretario generale del sindacato degli agenti penitenziari Aldo Di Giacomo si è già dichiarato molto preoccupato “per un eventuale propagarsi del virus in considerazione dell’imminente riapertura dei processi e delle relative traduzioni, ma soprattutto dai colloqui con i familiari”. Il luogo ideale dove mandare una persona già affetta da gravissime patologie. Questo dello spostamento da un carcere all’altro pare quasi un gioco delle tre carte. Prima mandano Francesco Stilo a Voghera (tra l’altro uno degli istituti dove con maggior virulenza si svilupperà il Covid-19), poi, non appena i suoi legali cominciano ad avanzare richieste di detenzione domiciliare, il detenuto viene spostato a Opera, al centro clinico con la giustificazione della possibilità di maggiore attenzione alla sua salute. Tralasciando il fatto che proprio lì il malato da curare ha trovato un topo sotto il materasso (fatto su cui attendiamo una smentita dalla direzione del carcere), resta oggi il problema della possibilità di contagio da covid-19. Che per Stilo potrebbe essere fatale. Quindi che si fa? Si prendono i 147 chili d’uomo e li si spedisce a Bologna? C’è un documento, l’ordinanza con cui il Gup di Catanzaro Paola Ciriaco il 22 scorso ha rigettato la richiesta di misura cautelare alternativa al carcere, che è significativo anche per quello che viene detto tra le righe. Non viene nascosta la gravità delle condizioni di salute di Francesco Stilo, tanto che le diverse patologie vengono puntigliosamente elencate, ma si cita all’improvviso, e prima che si avesse notizia del compagno di cella positivo al tampone, il “rischio di contagio da covid-19”. Preveggenza del gip o consapevolezza della gravità di una situazione che ai difensori doveva esser tenuta nascosta? E ancora si parla di “rischio epidemiologico”, sostenendo che “lo Stilo è stato trasferito presso altro istituto penitenziario (Bologna)”, così non potrà più lamentarsi di esser stato collocato in un luogo inidoneo per le sue condizioni di salute. Ma non è vero: né il 22 né nei giorni seguenti, cioè fino all’ultimo tentativo di incontrarlo da parte di uno dei suoi legali, cioè il giorno 25, c’era stato alcun trasferimento. E speriamo che non sia accaduto ieri, visto il rischio denunciato dallo stesso sindacato degli agenti di polizia penitenziaria su Bologna. Non ci sono alternative. Le leggi, i decreti e le circolari, dal famoso “Salva vita” in poi, e anche la normativa precedente e non emergenziale, ci sono e dicono che Francesco Stilo non può stare in carcere. Esercizio arbitrario per il conduttore che elimina le migliorie apportate all’immobile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2020 Commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni il conduttore che, dopo lo sfratto e prima del rilascio dei locali, elimina le migliorie apportate all’immobile nel corso del rapporto di locazione, letteralmente asportando i beni che ritiene di sua proprietà, anziché rivolgersi al giudice civile per esercitare il suo preteso diritto. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 636/2019 del Tribunale di Campobasso. I fatti - La vicenda si inserisce nel contesto di un rapporto di locazione di un immobile commerciale, conclusosi con il rilascio del bene da parte del conduttore dopo la convalida dello sfratto per morosità. Al momento del rilascio dei locali, il proprietario prendeva atto di evidenti danni presenti nell’immobile. Il conduttore, infatti, ritenendo di esserne proprietario, aveva asportato le porte dei bagni e i sanitari che egli stesso aveva provveduto a installare, scollegando le relative tubazioni, di fatto rendendo l’immobile inservibile e provocando danni da allagamento. Di qui la vicenda passava in mano ai legali che cercavano di trovare una soluzione in relazione al risarcimento dei pregiudizi arrecati alla struttura. Il conduttore, tuttavia, rimaneva fermo nella sua convinzione, sostenendo di aver lasciato l’immobile nelle stesse condizione in cui lo aveva trovato al momento iniziale del rapporto di locazione. La decisione - A questo punto la questione da civile diventava penale, in seguito alla querela sporta dal proprietario dell’immobile. L’accusa per il conduttore era quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, reato di cui all’articolo 392 cod. pen. In sostanza, costui anziché usare violenza sulle cose, asportando porte e sanitari, avrebbe dovuto rivolgersi al giudice al fine di esercitare il suo preteso diritto. Per il Tribunale tale accusa è fondata e trova riscontro nei verbali delle sommarie informazioni testimoniali e nel contratto stesso, che prevedeva la possibilità di apportare migliorie a fronte di una riduzione del canone. Quanto al reato commesso, il giudice ricorda come tale particolare delitto si configura quando “il soggetto agente ponga in essere una condotta diretta a realizzare direttamente il preteso diritto per il cui riconoscimento avrebbe potuto ricorrere al giudice, con lesione, quindi, del bene-interesse dello Stato ad impedire che la privata violenza si sostituisca all’esercizio della funzione giurisdizionale in occasione dell’insorgenza di una controversia tra privati”. L’imputato, quindi, avrebbe dovuto rivolgersi all’autorità giudiziaria per ogni eventuale pretesa circa le migliorie apportate all’immobile e giammai esercitare violenza “mediante l’avulsione materiale delle porte e dei sanitari”. Nella fattispecie, nota il Tribunale, è evidente che l’azione dell’imputato è stata una reazione allo sfratto subito. Ciò però, oltre al risarcimento dei danni arrecati all’immobile, costa anche una condanna penale. Se questa è giustizia di Carmelo Musumeci agoravox.it, 27 agosto 2020 “Per me è sempre stato un mistero perché gli uomini si sentano onorati quando impongono delle umiliazioni a propri simili.” (Mahatma Gandhi) Ho sempre pensato che la gente non sia cattiva, ma che non sappia cosa accada nell’inferno delle nostre “Patrie Galere” o come funzioni la giustizia in Italia. Questo spiega perché molti fanno spesso queste affermazioni: “Devono marcire in carcere”; Buttate via la chiave”; “Occhio per occhio, dente per dente”, (in questo modo si rischia di diventare ciechi e senza denti); “E alle vittime dei reati chi ci pensa?”; “Se l’è cercata”; “Ci dovevano pensare prima” ecc... Con queste convinzioni molte persone dormono sonni tranquilli e beati, fin quando in carcere magari ci finiscono loro, o qualche loro parente. Io invece penso che sia importante che le persone sappiano e s’interessino di quello che accade e come funzionano i loro ospedali, le loro scuole e i loro carceri, anche per sapere come vengono spesi i loro soldi. Si sa, i dati ufficiali lo confermano, che le nostre “Patrie Galere” producono il 70% di delinquenza e recidiva, ma nessuno interviene, per chiudere le carceri che non funzionano o per migliorarle. Se questo accadesse per un ospedale o per una scuola, di sicuro qualcuno farebbe qualcosa, invece molte persone sembrano quasi contente che il carcere sia solo un luogo di sofferenza. Non si rendono conto però che molti prigionieri prima o poi usciranno e usciranno più cattivi di quando sono entrati. In passato hanno provato in tutti i modi a sconfiggere la criminalità: con la tortura, con la pena di morte, con la ghigliottina, ma nessuna di queste cose ha mai funzionato, perché la sofferenza non è mai un deterrente. Il male produce altro male, dovremmo almeno imparare dalla storia. Penso, o mi piace pensare, che i morti perdonino, sono piuttosto i vivi che chiedono giustizia ma in realtà vogliono vendetta. E che vendetta sia, se fa bene ai vivi e ai morti. Ecco una testimonianza di chi ha subito la mafia della giustizia vendicativa: “Ciao Carmelo, ho letto il tuo ultimo post. Ad aprile dell’anno scorso è morto mio nonno, ergastolano in attesa di sentenza di secondo grado, vittima di un processo senza fondamenta. È morto a due settimane dalla concessione dei domiciliari e dopo un anno di sofferenze atroci a causa di un cancro non curato nelle mura carcerarie. Dopo oltre 8 mesi di dolore e malattia in cui non ha ricevuto cure e in cui non è stato preso sul serio il suo malessere, gli è stato amputato il pene e diagnosticato un tumore in fase terminale. Neanche a quel punto lo hanno lasciato tornare dalla sua famiglia e dai suoi cari, sono passati altri due mesi prima di poterlo riavere con noi ma non era più lui: un fantasma, depresso, stremato, magrissimo (lui che per tutta la vita è stato obeso), incapace di comunicare e di capire. È morto due settimane dopo il ricovero in ospedale, reparto malati terminali. Non c’era ormai più nulla da fare. Ed è proprio questo nulla da fare, questa impotenza di fronte ad un sistema carcerario e giudiziario disumano, che da mesi attanaglia me e la mia famiglia, che continua a tenerci prigionieri di sentimenti di rabbia e di dolore che non possono, e credo non debbano, essere cancellati prima di avere giustizia. Ti scrivo questo perché vorrei ringraziarti per quello che scrivi, per le informazioni che diffondi e per gli ideali che cerchi di portare avanti. La tua (ma anche la nostra in piccolo) è una battaglia di umanità, la grande assente di un sistema carcerario che non rieduca, ma che sicuramente uccide, incattivisce, non rispetta la dignità delle persone, che punisce, priva di libertà e affetti”. Carcere, per le madri e i padri la pena più dura di Lucio Boldrin* Avvenire, 27 agosto 2020 “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? (….) Io (Dio) invece non ti dimenticherò mai” (Isaia 49,14-16). Così la Bibbia sottolinea la misericordia di Dio. Un passo che prima m’interrogava, perché talvolta purtroppo leggiamo di mamme incapaci di amare i propri figli. Ma in carcere il mio pensiero sta cambiando: qui i genitori, e in particolare le madri, non abbandonano mai i figli. Lo noto ogni giorno. Anche per certi casi in cui, ai primi contatti, mi sentivo rispondere: “Non voglio più sentire parlare di mio figlio!”; “Basta, ci ha distrutto la casa e la famiglia, non abbiamo più nulla, ci ha fatto troppo soffrire”; “Stiamo ancora pagando i danni che ha provocato”. Con il passare dei mesi, nella maggior parte dei casi, le domande diventano: “Come sta mio figlio? Ha bisogno di qualcosa? Gli faccia sapere che lo amiamo”. Padri feriti che soffrono in silenzio. Madri che piangono e si sfogano col sacerdote. Mamme che si prodigano per far avere i soldi ai figli privandosi di qualcosa, o preparano il pacco settimanale con i vestiti e il cibo che sanno più graditi al figlio. Vorrei abbracciare tutti questi genitori dicendo loro: non lasciatevi schiacciare dai sensi di colpa. Siete mamme e papà che amano i propri figli. Non ci sono genitori perfetti e - come si dice a Roma - “nessuno è nato imparato”. Si può sbagliare anche per amore. Li avete amati anche quando vi hanno portato allo stremo, magari siete stati costretti a denunciarli per il loro bene, sperando che comprendessero e potessero cambiare. Ai detenuti che leggeranno questo articolo dico che, sì, i genitori possono sbagliare, ma ricordate: tranne pochissimi casi, sono le persone che non si gireranno mai dall’altra parte. Quelli che più di ogni altro vi attendono e vi accoglieranno con un abbraccio sincero e gli occhi lucidi quando uscirete, con la speranza di ricominciare una nuova vita con voi. Dimentichi del passato, protesi verso un futuro migliore. Cari fratelli detenuti, non sprecate questi mesi, anni di detenzione. Prendete, seriamente, in mano la vostra vita. Non ci sono scorciatoie o droghe, rapine o violenze che possano darvi una vita migliore; anzi, vi porteranno a essere prigionieri anche fuori. Sempre in fuga. Sento tanti buoni propositi di cambiamento. Alcuni sinceri, lo si nota dal comportamento, dallo sguardo, dal pentimento sincero. Per altri mi rimangono i dubbi. I cambiamenti non nascono dalle promesse. Occorre, da adulti, cambiare il cuore e la testa… altrimenti tutto sarà come prima e rischierete di tornare a vivere in quella “non libertà” che c’è dietro le sbarre. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia, Roma Reggio Calabria. Quel carcere è poco feroce: arrestata la direttrice di Piero Sansonetti e Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 agosto 2020 La linea dura del Dap guidato da Petralia viene salutata dal plauso della polizia penitenziaria. Le accuse? “Ha violato le circolari, ha permesso l’ora d’aria a prigionieri che dovevano stare in cella”. Hanno arrestato l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria Maria Carmela Longo. Che attualmente è direttrice del femminile a Rebibbia. L’accusano del solito reato che non c’è: “concorso esterno in associazione mafiosa”. È un reato che in genere gli inquirenti pescano dal cappello quando sono cocciutamente decisi ad arrestare una persona ma non trovano le prove di nessun reato specifico. Associazione esterna è un reato, non previsto nel codice penale e quindi in evidente contrasto coi principi fondamentali del diritto, che non richiede prove proprio per la sua genericità. Non sei accusato di esserti associato per commettere un delitto, il reato di associazione non ha bisogno del cosiddetto “reato-fine” (omicidio, furto, truffa...). Basta l’associazione. E questo già semplifica le cose per gli inquirenti. Ma in realtà non sei accusato neanche di esserti associato, perché comunque sei accusato solo di concorso in associazione, non di partecipazione. Cioè, tu non ne facevi parte, di quell’associazione. E poi nemmeno va provato il concorso in associazione, perché il concorso è esterno, quindi tu non eri nel concorso, eri fuori, non c’entravi proprio niente. Però... Però? Però ho deciso di metterti in prigione comunque. Punto. C’è chi per anni ha cercato nella giurisprudenza di tutti gli altri paesi del mondo un simile abominio giuridico: niente, nessuna traccia. In questo caso le accuse alla dottoressa Longo sono chiarissime, e squisitamente politiche: è accusata di avere gestito il carcere che dirigeva con criteri eccessivamente umanitari e rispettosi della Costituzione e della ricerca della rieducazione del prigioniero. E questo sebbene fosse in presenza di persone condannate per mafia. L’idea è che non solo il mafioso, o il sospetto mafioso, non debba godere di nessun diritto umano o costituzionale, ma che chi invece tende a riconoscergli quei diritti sia un autentico gaglioffo. Ieri ho letto sul Corriere della Sera online frasi stupefacenti, nell’articolo che riferiva delle accuse dei Pm alla Longo. Pare che addirittura la Longo desse ai detenuti pasti abbondanti e facilitasse alcuni benefici come l’ora d’aria e la circolazione nei corridoi. Non scherzo: c’è scritto così. Scandalo, scandalo, scandalo. Dove è finita la Santa Cajenna? Comparirà oggi davanti ai magistrati per l’interrogatorio di garanzia l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, arrestata con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Dda reggina - diretta da Giovanni Bombardieri - l’ex direttrice della casa circondariale avrebbe messo in atto “una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dap”, concorrendo - si legge nell’ordinanza firmata dal Gip Domenico Armaleo - “al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico” e avallando “le richieste dei detenuti ristretti presso la casa circondariale Panzera”. Nella stessa inchiesta, indagati per aver favorito alcuni detenuti ristretti nel circuito di Alta Sicurezza, sono coinvolti anche i sovrintendenti della Polizia penitenziaria Massimo e Fabio Musarella. Sotto indagine, infine, anche un medico dell’Asp, Antonio Pollio, e una detenuta, ai quali si contesta un certificato medico firmato dal dottore al solo scopo di permettere alla stessa detenuta, testimone in un processo, di evitare l’udienza. La “linea dura” suggerita tra le righe sin dalle prime circolari del Dap si traduce nel clima che ispira provvedimenti esemplari. “Colpirne uno per educarne cento”. E qui si colpisce duro, la Longo è una caposcuola del carcere rieducativo e ha una carriera importante: da un anno è alla guida della sezione femminile della casa circondariale di Rebibbia dopo aver diretto per quindici anni - senza mai una nota di demerito - le carceri reggine di Panzèra ed aver guidato la casa circondariale-modello di Arghillà, tirata su in due anni con squadre di detenuti che sotto la sua gestione si sono perfino occupati di finalizzare una parte dei lavori. Sono numerosissime le interviste che l’hanno vista protagonista, come fautrice di una interpretazione più umana della convivenza carceraria. Anche Diego Bianchi, con la popolarissima Propaganda Live, La7, ne aveva fatto un punto di riferimento per raccontare con le sue parole il pianeta carcere. Un esempio? “Il mio primo impegno - gli diceva Maria Carmela Longo - è stato quello di ristrutturare l’istituto penitenziario di Reggio dotando tutte le camere di pernottamento di servizi igienici e doccia in cella. Una vera conquista visto che quasi tutti gli istituti penitenziari in Italia hanno le docce in comune”. Il semplice tentativo di rendere appena più dignitosa la vita dei detenuti le è valso negli anni più di qualche frecciata. “Il carcere di Reggio Calabria è diventato un hotel a cinque stelle”, hanno iniziato a dire i detrattori. E fa riflettere l’intervento muscolare del sindacato della Polizia Penitenziaria, Uilpa PP, che ieri si è affrettata a schierarsi con un irrituale comunicato stampa a sostegno della Procura: “Ci sentiamo di rivolgere il nostro plauso al Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di polizia penitenziaria che sta dando un fondamentale contributo alle indagini, così come ci sembra di scorgere nei nuovi vertici del Dap e, in particolare, nel suo Capo Petralia, una nuova e più proficua determinazione”. Petralia per dirla tutta aveva tanta determinazione anche per andare a guidare la Procura di Torino, prima che le intercettazioni del suo nome fatto da Palamara gli suggerissero di ritirarsi. Ma quella è un’altra storia. E per tornare a Reggio Calabria bisogna sentire l’avvocato Giampaolo Catanzariti, Osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali. Con lui analizziamo le accuse. “Noi come avvocati la abbiamo vissuta come figura dalle alte capacità manageriali, mai ci è sembrata minimamente accondiscendente. Anzi, a noi è parsa sapersi distinguere per capacità di gestione, per competenza tecnica, per il carattere forte, per la capacità di imporsi, regolamento sempre in mano”. Ma ci sono le accuse: avrebbe ritardato ad arte qualche provvedimento di trasferimento; avrebbe favorito qualche famiglia, avvicinando gli appartenenti delle ‘ndrine in cella; avrebbe mandato a fare l’ora d’aria in cortile detenuti che forse era meglio tenere separati. “A me sembra allucinante che si vada a spaccare il capello sui temi della collocazione nelle celle, di chi si possa o non si possa incrociare in corridoio o sfiorare in cortile. È incredibile non tenere conto della particolare composizione del carcere di Reggio, che ha una densità di detenuti ‘ad alta sicurezza’ record in Italia”, dettaglia Catanzariti. La tacciano di cedevolezza, di aver avuto la manica larga nelle concessioni. “Io credo che da parte della Procura, qualcuno avesse da anni la sensazione che la criminalità tutto sommato si trovasse meno male che altrove, non per complicità ma perché non c’era quel dente avvelenato di cui qualcuno pensa si debba essere dotati”. E ci racconta un episodio. “Anni fa ebbi il via libera dal pm per un colloquio straordinario in carcere con un assistito. Il comandante della polizia penitenziaria me lo nega. Ne nasce un diverbio, arriva la direttrice Longo. Mi ascolta, valuta e dà ragione al comandante. Colloquio negato. Altroché manica larga, è stata sempre attenta ai regolamenti e di nessuna condiscendenza”. L’ordinanza di arresto usa toni diversi. “Longo - dicono gli atti - è scesa a patti con detenuti del calibro di Michele Crudo, ritenuto affiliato alla cosca Tegano, e con molti altri aderenti alla ‘ndrangheta del mandamento reggino. Ha lasciato loro il potere di assumere le decisioni nei settori chiave della vita penitenziaria agevolandoli in molteplici occasioni con permessi e mancate traduzioni pur di non avere problemi e senza curarsi di violare con costanza e sistematicità le normative dell’ordinamento penitenziario”. Sulla direttrice Longo ha fatto affidamento nel tempo Rita Bernardini, che con le sue visite di sindacato ispettivo è stata a Reggio Calabria e a Rebibbia molte volte. “Dubito molto delle accuse che le sono rivolte. Il problema in Calabria è che è esclusa qualsiasi rieducazione e percorso riabilitativo per coloro che sono in alta sicurezza. Se un direttore si muove nella direzione prevista da ciò che è costituzionalmente normato rischia l’accusa di connivenza”, dichiara la dirigente radicale al Riformista. Poi ironizza: “Per coloro che sono accusati e/o condannati per 416-bis l’unica strada è il “pentimento”; altrimenti, la morte civile disumana e degradante diviene la condizione di lunghi anni di custodia cautelare e poi condanna”. Maria Carmela Longo si è formata come dirigente penitenziaria alla scuola di Paolino Quattrone, suo predecessore a Reggio Calabria: un uomo che aveva lavorato per anni proprio sul fronte del carcere dal volto umano. Mutatis mutandis, fu anch’egli indagato, nel 2010, finito il mandato. Non venne mai condannato, però. Tradito dalla giustizia nella quale aveva sempre creduto, Quattrone si lasciò vincere e si sparò un colpo di pistola. Reggio Calabria. Patto tra i boss mafiosi e la direttrice del carcere: “Qui dentro è una pacchia” di Carlo Macrì Corriere della Sera, 27 agosto 2020 Arrestata l’ex responsabile del penitenziario di Reggio, ora a Rebibbia. I boss gestivano la struttura a modo loro, autorizzati dalla direttrice Maria Carmela Longo, arrestata martedì e posta ai domiciliari, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La struttura ne guadagnava in termini di tranquillità interna, che veniva appunto imposta a tutti i detenuti dai boss, come regalo da fare alla direttrice. Il comportamento pacifico dei detenuti le serviva per redigere report sulla qualità della vita all’interno del carcere. Erano soprattutto i boss di Reggio Calabria che tenevano le fila, gestivano le destinazioni dei detenuti, le attività, il lavoro esterno e anche il vitto. L’ordinanza di arresto per Carmela Longo, che attualmente dirigeva la sezione femminile del carcere di Rebibbia, è stata firmata dal gip Domenico Armoleo, su richiesta dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. I fatti contestati si riferiscono al periodo 2015-2019. Quello della direttrice viene definito dal gip un “atteggiamento ben lontano dal ruolo istituzionale ricoperto”. La funzionaria ha, di fatto, consegnato il carcere ai detenuti “organici ai clan mafiosi egemoni sul territorio di Reggio Calabria”. Con Carmela Longo sono indagati alcuni agenti penitenziari e il medico del carcere Antonio Pollio. Quest’ultimo si sarebbe prestato, su richiesta della direttrice, a redigere un certificato medico falso per favorire la detenuta Caterina Napolitano impedendole così di presenziare a un processo in cui era chiamata a testimoniare. “Era una pacchia trascorrere la detenzione nel carcere di Reggio Calabria” ha raccontato il collaboratore di giustizia Mario Gennaro, vicino ai boss di Archi, terra dei De Stefano. È proprio il clan che va per la maggiore in città con i comuni alleati Libri, Condello e Tegano, che gestiva l’ordinario trascorrere della detenzione. Erano loro che decidevano la collocazione nelle celle tenendo per sé i “cubicoli”, celle più spaziose e con un bagno più grande. Erano sempre loro che decidevano le destinazioni in altri istituti carcerari di detenuti calabresi. Nel carcere di San Pietro anche i detenuti di massima sicurezza potevano tranquillamente passeggiare nei corridoi, diventati una sorta di “agorà”, dove ogni recluso era libero di frequentare chi voleva. Anche telefonare all’esterno non era un problema. Insomma, secondo i magistrati, c’era un solido rapporto di amicizia tra i boss reggini e la direttrice. Stessa cosa con alcuni agenti penitenziari, stretti collaboratori della Longo. I sovrintendenti Fabio e Massimo Musarella, per esempio, avevano il compito di aggiustare i certificati medici per favorire i detenuti e si occupavano di correggere le domande di trasferimento da una cella all’altra. Sempre sotto dettatura dei boss. Non è la prima volta che il carcere di Reggio finisce sotto i riflettori. All’inizio degli anni 80, furono arrestati il direttore Raffaele Barcella e dieci agenti di Polizia penitenziaria. Un’ispezione del ministero accertò l’allegra gestione all’interno della struttura. Nelle celle, all’epoca, vennero trovate casse di champagne, aragoste e capretti. Mentre Paolo De Stefano, boss di Archi, andava in giro con la pistola alla cintola. Reggio Calabria. Trasferimenti e prelibatezze: ecco i favori della direttrice del carcere ai boss di Alessia Candito La Repubblica, 27 agosto 2020 Maria Carmela Longo, da ieri ai domiciliari, è accusata di concorso esterno in associazione mafiosa. Per 19 anni ha di fatto delegato la gestione della prigione reggina ai detenuti esponenti dei clan. Nelle intercettazioni affermava: “Il problema da noi non è la ‘ndrangheta, sono gli zingari”. “Il problema non è la ‘ndrangheta da noi, che ‘ndrangheta non è... Se parlo la stessa lingua con tutti, non mi fa niente. A me (i problemi) li danno gli zingari, non la ‘ndrangheta”. Parola di Maria Carmela Longo, per 19 anni onnipotente direttrice del carcere di Reggio Calabria e fino a qualche giorno fa alla guida della sezione femminile di Rebibbia, da ieri ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa. Motivo? Aver di fatto delegato la gestione dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria a boss e luogotenenti dei clan che lì erano detenuti. Anzi, specificano i pentiti e confermano le indagini della procura di Reggio Calabria, l’amministrazione era affidata ai “riggitani”, gli uomini dei clan della città calabrese dello Stretto. Il patto non scritto fra i detenuti di ‘Ndrangheta e la direttrice del carcere “I detenuti reggini - spiega il pentito Francesco Trunfio, che dietro le sbarre a Reggio c’è stato e anche per parecchio tempo - hanno contatti con l’amministrazione del carcere e condividono con loro le regole di gestione di cui sto parlando. È un fatto notorio tra detenuti, tutti lo sappiamo”. Veri e propri padroni del carcere di san Pietro, in grado di riservarsi in via esclusiva un’intera sezione dell’istituto, erano gli ‘ndranghetisti reggini - è emerso dall’indagine dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro, coordinati dal procuratore capo Giovanni Bombardieri - a decidere dove dovessero essere collocati i detenuti, loro a disporre che parenti e affiliati condividessero la medesima cella, loro a stabilire chi potesse fare domanda per lavorare”. E c’erano anche delle prassi ormai consolidate di distribuzione degli incarichi. “In cucina lavorano i reggini, è il lavoro dove si guadagna di più. Poi danno dei posti residuali ad uno della Piana e ad uno della Ionica”. Anche in carcere la ‘Ndrangheta si dimostra unitaria e con il beneplacito dell’amministrazione, capace di replicare dietro le sbarre meccanismi e logiche che diventano legge fuori. “I detenuti reggini e le loro famiglie ottengono quello che vogliono dalle istituzioni che comandano nel carcere - dice quasi con disincanto il pentito Trunfio - È un patto non scritto”. Ma che vale come legge. Whisky, dolci, profumi e salmone per i boss - Garantisce a boss e gregari una permanenza comoda dietro le sbarre e pochi problemi alla direzione del carcere. “Ci facevano entrare il salmone, portava per esempio il Creed (profumo), le cremine. Del whisky mi è entrato in cella, voglio dire, dei dolci mi sono entrati, la cioccolata quella spessa là... quella bianca, nera, voglio dire fondente, perché io facevo sport, delle medicine” racconta il boss pentito Stefano Liuzzo. A distribuirle ci pensavano gli agenti della penitenziaria - “veniva con il sacco nero e mi portava le cose” racconta il collaboratore - oppure i detenuti autorizzati a lavorare in carcere. Tutti selezionati in base alle indicazioni dei clan, tutti arruolati per raccogliere e trasmettere informazioni, portare messaggi, riferire notizie, recapitare regali. Negli anni in cui a governarlo era la Longo “Reggio non era un carcere come gli altri”, concordano i pentiti. Non era “Vibo, che è un carcere duro perché non si può fare nulla e si rispettano le regole”. Per questo in riva allo Stretto puntavano ad essere trasferiti tutti. E Longo cercava di accontentarli. Del resto, con i familiari di boss e gregari dei clan di rango aveva un rapporto diretto. Messaggi, chiamate, incontri. Senza timore, né pudore l’ex direttrice del carcere ascoltava tutti e tutti provava ad assecondare. Aiuta Ivana Murina, parente di più e meno noti uomini di ‘Ndrangheta, che per il compagno, condannato per violenza sessuale su minorenne, chiede prima il trasferimento a Reggio, poi la detenzione domiciliare. Distribuisce encomi a detenuti altrove sanzionati per il pessimo comportamento, pur di farli accedere alla semilibertà o alla detenzione domiciliare. Finge di non vedere i finti referti medici che hanno permesso ai coniugi-boss Pina Franco e Carmelo Murina, secondo le carte in fin di vita in ospedale, di incontrarsi più e più volte. “È resuscitato” si limita a commentare ridendo con l’agente della penitenziaria che le dice di aver visto l’uomo vivo, vegeto, lucido e in forma. Ai suoi uomini poi, più volte Longo ordina di non far troppo caso a parenti, amici e conoscenti che, in occasione di non sempre necessarie visite mediche, si avvicinavano ai detenuti per chiacchiere non consentite. Boss, gregari e lo stratega della ‘Ndrangheta, ecco i “favoriti” della Longo - Per alcuni detenuti però l’ex direttrice Longo si spendeva più che per altri. Soggetti pericolosi, ranghi alti nella gerarchia dei clan, per questo spediti in carceri lontane dalla Calabria, dove erano autorizzati a tornare solo ed esclusivamente per presenziare ai processi. E che lei faceva di tutto per trattenere. È successo anche con l’avvocato ed ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo, eminenza grigia e stratega della ‘Ndrangheta di Reggio Calabria, già condannato definitivamente per concorso esterno e oggi imputato come elemento di vertice della direzione strategica dei clan. Insomma, un capo vero, in grado di creare politici in vitro e aggiustare processi, di scrivere leggi che arrivano fino in Parlamento e confezionare appalti, anche grazie a contatti e legami maturati nel mondo massonico. Un burattinaio, per i pentiti legato a Gladio e ai servizi, che per decenni ha definito e dettato strategie senza sporcarsi le mani, piegando al proprio volere la politica, l’economia, le istituzioni persino la società civile di Reggio Calabria. Per questo, a quasi vent’anni dalla condanna per concorso esterno, nel 2016 è stato nuovamente arrestato. Per il suo potere e la sua capacità di influenza, era stato spedito a Tolmezzo, carcere di massima sicurezza in provincia di Udine. Ma nel giro di poco, ci ha pensato la Longo ad assicurargli una lunga permanenza a Reggio Calabria. Gli investigatori l’hanno ascoltata per settimane mentre accampava scuse, inventava inesistenti impegni o interrogatori dello stratega dei clan pur di eliminare Romeo dalla lista dei detenuti da ritrasferire nel carcere di provenienza. È arrivata persino a dire chiaramente al suo avvocato come e quando presentare l’istanza che avrebbe giustificato la permanenza di Romeo a Reggio Calabria. Non è l’unico uomo di rango dei clan per cui la Longo si sia spesa. Battendo la medesima pista, gli investigatori hanno scoperto che 76 detenuti hanno beneficiato di trattamenti di favore e strappato la possibilità di rimanere nel carcere in cui tutto - colloqui, contatti, lussi, agevolazioni ed encomi - era possibile. Un “modus operandi consolidato” commenta il giudice che ha autorizzato l’arresto della funzionaria, sempre sensibile - emerge dall’inchiesta - alle istanze degli uomini di potere e dei loro familiari. Il “regalo d’addio” all’ex governatore - Anche quando alla sua corte si sono presentati i familiari dell’ex sindaco di Reggio Calabria e governatore di Reggio Calabria, Peppe Scopelliti, non si è tirata indietro. Condannato a 4 anni e 7 mesi per aver coperto un cratere finanziario da centinaia di milioni di euro falsificando il bilancio della città, Scopelliti aveva fretta di uscire di cella, quanto meno per qualche ora al giorno. E Longo si è mostrata assai sensibile alle richieste del fratello del politico, Tino, e del suo storico braccio destro, Giuseppe Agliano. Durante incontri, riunioni, chiacchierate telefoniche ha concordato tutti i passi da fare, ne ha dettato tempi e modi, ha seguito da vicino la pratica. “Sono quelle cose che sto facendo di corsa perché forse sono trasferita” confida al fratello dell’ex governatore, Tino. Ma ci teneva - si legge nelle carte - “a lasciare la città di Reggio Calabria facendo l’ennesimo favore ad un detenuto d’eccellenza”. Per questo, quando il magistrato di sorveglianza autorizza Scopelliti al lavorare all’esterno ma gli nega la possibilità di passare il sabato a casa, è sempre la Longo a farsi carico della questione. E la affronta persino con il detenuto interessato. “Abbiamo chiacchierato un paio d’orette e abbiamo elaborato una strategia” riferisce lei al fratello del politico dietro le sbarre. Solo riguardo le istanze che arrivavano dai detenuti di etnia rom, la direttrice si mostrava quasi insofferente. “Ma posso avere una preclusione, una? Scusate, eh! Avrò diritto” dice per liquidare un agente della penitenziaria che le chiede di garantire comunque un lavoro ad un detenuto rom allontanato dalle cucine perché forse affetto da epatite. Per la Longo non è idoneo, ma solo - commenta sarcastico il giudice - “in quanto zingaro. Certo, il vero problema per la donna sono proprio i detenuti di etnia Rom, non certo gli ‘ndranghetisti della sezione Cariddi a cui ha consegnato le chiavi del (carcere) Panzera”. Milano. Suicidio in Questura, indagati 2 agenti addetti al controllo del detenuto affaritaliani.it, 27 agosto 2020 Si indaga sugli agenti che dovevano sorvegliare la stanza in cui si trovava il 42enne che domenica si è ucciso nella Questura in via Fatebenefratelli. Due agenti sono indagati per il suicidio nella Questura di Milano un uomo di 42 anni domenica scorsa. Si era tolto la vita nei locali di via Fatebenefratelli, dopo essere stato fermato. Il pm Paola Pirotta indaga sugli agenti che avevano il compito di sorvegliare la stanza in cui si trovava il 42nne che, a quanto si è appreso, sarebbe stato lasciato in una delle stanze per i fermati e lasciato in isolamento. Durante questo arco di tempo, avrebbe trasformato la maglietta in un cappio da legare alle grate della finestra. Una Ferrara. Relazione della Garante delle persone private della libertà personale di Stefania Carnevale* cronacacomune.it, 27 agosto 2020 Molti passi avanti sono stati riscontrati nel periodo coperto da questa Relazione nella situazione della Casa circondariale di Ferrara. A livello di amministrazione penitenziaria locale si sono registrati sforzi costanti per il miglioramento delle condizioni detentive, per l’incremento delle attività di risocializzazione, per l’apertura del carcere alla comunità esterna. Sul piano nazionale, al contrario, appaiono insufficienti gli interventi attuati sul sistema penitenziario, in termini di risorse, disciplina normativa, obiettivi perseguiti. Una grande parte dei problemi riscontrati a livello locale deriva non tanto dalla gestione dell’istituto, bensì dalla cornice generale in cui gli operatori sono chiamati a svolgere la loro attività e i compiti loro assegnati dalla Costituzione: l’umanità della pena e la sua finalità di reinserimento sociale (art. 27 comma 3), la tutela dei diritti inviolabili delle persone a qualunque titolo private della libertà personale (art. 13 e art. 2 Cost.). Nel novembre del 2018 (D. Lgs. 121, 123 e 124/2018) è entrata in vigore una limitata porzione dell’ampio disegno riformatore del sistema penitenziario preparato dagli Stati generali dell’esecuzione penale nel corso del 2015 e 2016 e delineato dalla legge delega del giugno 2017. Si trattava di una riforma ampia, preparata da anni di discussioni, studi preliminari, comparazione con altri paesi europei, dialoghi con tutte le componenti dello sfaccettato universo penitenziario. Il Governo ha ritenuto di dare attuazione solo a un frammento della attesa riforma, limitando gli interventi innovatori alle parti della legge delega che erano dedicati alla vita detentiva e al lavoro. Sono state invece accantonate molte altre rilevanti novità elaborate dalle Commissioni ministeriali e in particolare quelle in materia di esecuzione penale esterna, ambito nel quale si è prescelto di mantenere pressoché inalterate le norme vigenti. Le novità previste dai decreti legislativi 123 e 124 del 2018 riguardanti alcuni aspetti della vita detentiva e del lavoro dei condannati sono peraltro rimaste in larga parte inattuate. Così come il 2018 è stato un anno di aspettative per le sperate riforme che avrebbero dovuto ammodernare e migliorare il sistema dell’esecuzione penale, sotto i profili dell’umanità della pena e del suo finalismo risocializzativo (e dunque del miglioramento sia delle condizioni di detenzione che della sicurezza collettiva), il 2019 è stato un anno caratterizzato da una intensa e diffusa delusione per i mancati progressi nella situazione delle carceri. Le presenze hanno continuato a crescere mentre le condizioni per un graduale e positivo reinserimento dei detenuti in società si sono dimostrate ancora largamente insufficienti. Per questa ragione, sul piano locale, particolare cura è stata dedicata nel periodo di riferimento ai detenuti “dimittendi”, ossia alle persone prossime al termine della pena di cui va adeguatamente preparato il ritorno in libertà. La difficile sfida verso la positiva risocializzazione dei detenuti coinvolge infatti profili che riguardano la sicurezza dell’intera collettività, benché spesso non venga percepito dall’opinione pubblica quanto sia importante pervenire a percorsi di reinserimento graduali, consapevoli e guidati: a questo compito sono chiamati a partecipare con particolare intensità gli enti territoriali, il terzo settore e l’intera comunità civile. A fronte dell’immobilismo legislativo, va segnalato come nel 2018 e 2019 siano stati particolarmente significativi i ripetuti interventi della Corte costituzionale nelle materie del diritto dell’esecuzione penale e del diritto penitenziario. La frequenza delle declaratorie di illegittimità costituzionale pronunciate negli ultimi anni dimostra come il nostro sistema di esecuzione delle pene presenti ancora numerosi profili di vistosa tensione con la Carta costituzionale. Fra le decisioni più rilevanti adottate in materia vanno ricordate quella sulla possibilità di chiedere permessi premio anche per i condannati a reati “ostativi” (reati gravi, di criminalità organizzata o di elevato allarme sociale individuati dalla legge) pur in assenza di collaborazione con la giustizia e sempre che sia dimostrata l’insussistenza di legami con le associazioni criminali (sentenza 253/2019); quella che consente di applicare la detenzione domiciliare in caso di infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena (sentenza 99/2019); quella sulla tutela dei figli delle persone condannate affetti da handicap totalmente invalidante, il cui diritto a ricevere le cure materne non può essere, in caso di reati di criminalità organizzata, ex lege subordinato dalla necessaria collaborazione con la giustizia del genitore (sentenza 18/2020); sino alla recente sentenza in materia di reati contro la pubblica amministrazione, equiparati dalla legge “spazza-corrotti” a quelli di mafia e terrorismo e perciò assoggettati a un regime fortemente limitativo dei percorsi di esecuzione extra-muraria: la Corte ha, a questo riguardo, per la prima volta attribuito ad alcune norme della legge di ordinamento penitenziario (e in particolare quelle che disciplinano i presupposti di accesso alle misure alternative) natura di norme penali e dunque assoggettate al divieto di trattamenti peggiorativi valevoli anche per il passato (sentenza 32/2020). La Casa circondariale di Ferrara ha proseguito e consolidato nell’ultimo anno e mezzo un percorso già avviato nel periodo precedente di forte apertura verso la società esterna, di sviluppo di progetti di recupero e di attività risocializzative. Si sono moltiplicate le iniziative, nonostante la endemica limitatezza delle risorse messe a disposizione per l’attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che imporrebbe allo Stato di organizzarsi per offrire - obbligatoriamente - gli strumenti più adeguati per garantire il recupero sociale delle persone condannate. La Direzione, il personale di Area giuridico-pedagogica e il personale di Polizia penitenziaria hanno, ciascuno nel suo ambito di intervento, apportato rimarchevoli contributi per lo sviluppo di un grande numero di attività pur in una realtà complessa, per varietà della popolazione detenuta e delle sue ripartizioni interne, come quella dell’istituto ferrarese. Sono stati mantenuti con tutte le componenti del personale positivi e proficui rapporti di collaborazione, scambio di informazioni, ricerca di soluzioni condivise alle questioni insorte durante il corso del mandato, che hanno - come di consueto - investito tanto posizioni individuali quanto questioni generali e progetti riguardanti l’insieme della popolazione detenuta. La riforma penitenziaria varata nell’autunno del 2018 ha rafforzato anche il ruolo dei Garanti dei diritti dei detenuti, sottolineando in particolare l’autonomia di queste figure rispetto alle altre persone con cui le persone ristrette possono avere colloqui. I Garanti, comunque denominati, sono stati accostati ai difensori e la legge ha sancito espressamente il diritto delle persone ristrette ad avere con loro colloqui sin dall’inizio della detenzione (art. 18 ord. penit.). È pertanto continuato il progressivo rafforzamento delle prerogative di questa figura, che la legislazione statale mostra di tenere in crescente considerazione, anche grazie all’incisiva opera di tutela dei diritti, di individuazione di soluzioni extragiudiziali e di mediazione inter-istituzionale svolta in questi anni dalle figure di garanzia. Durante il periodo coperto da questa Relazione si sono mantenuti vivi e costanti i rapporti con la rete dei garanti, che si è costituita in Conferenza nazionale nell’estate del 2018. Molteplici sono state le occasioni di scambio di informazioni e idee, le azioni intraprese congiuntamente, gli studi avviati su diversi profili relativi alla privazione della libertà. Stretti sono stati anche i rapporti di collaborazione instaurati con il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, che ha rafforzato nell’ultimo periodo le sue funzioni di promotore del coordinamento fra i Garanti territoriali. Particolarmente intense sono state le sinergie attivate fra i Garanti della Regione Emilia-Romagna, grazie all’opera di sollecitazione e coordinamento del Garante regionale. A Marcello Marighelli va tutta la mia gratitudine per essere stato un costante e insostituibile punto di riferimento per la gestione delle questioni più complesse e delicate. Positivi sono stati anche i rapporti intrattenuti con le altre figure professionali che prestano in carcere la loro attività. Con i referenti dell’area sanitaria è proseguito un costante scambio di informazioni e idee volto alla ricerca delle soluzioni più idonee per migliorare le criticità riscontrate nell’accesso ai servizi sanitari territoriali. La disponibilità all’ascolto della visione del Garante e al dialogo è sempre stata assicurata. Anche in questo campo si sono registrati passi avanti nel periodo di riferimento. Il dialogo si è fatto particolarmente serrato durante l’estate del 2019, quando si sono succeduti nel carcere di Ferrara eventi critici di significativa gravità, che hanno indotto tutte le amministrazioni coinvolte a compiere maggiori sforzi per la prevenzione e la cura del disagio psichico in carcere. Per alleviare le sofferenze legate alla privazione della libertà e per attuare i percorsi di risocializzazione imposti dalla Costituzione, indispensabile è l’apporto dei volontari e delle associazioni che in carcere affiancano l’amministrazione nelle attività formative, ricreative, culturali, lavorative e di recupero sociale delle persone detenute. Senza il loro fondamentale apporto non sarebbe possibile (date le scarsissime risorse destinate a livello nazionale al mondo del carcere sotto il profilo della rieducazione) adempiere ai principi costituzionali che governano la materia dell’esecuzione penale. Il rapporto conqueste componenti vitali del mondo penitenziario è stato ricco e continuativo. Più intenso è stato altresì il coinvolgimento dell’Università di Ferrara nella vita dei detenuti. Nel periodo di riferimento sono stati incrementati i servizi per le persone iscritte ai corsi del nostro Ateneo e si sono avviate attività dedicate a tutta la popolazione detenuta, mediante il coinvolgimento di numerosi docenti universitari. Secondo le sollecitazioni provenienti dal Garante nazionale, durante la seconda parte del mandato è stata avviata una attività di monitoraggio e vigilanza sul rispetto dei diritti anche in contesti diversi da quello penitenziario, come il reparto detentivo ubicato presso l’ospedale di Cona e il Servizio di diagnosi e cura per i pazienti affetti da patologie psichiatriche. L’ultimo scorcio del mandato è stato segnato dalla emergenza pandemica da Covid-19, che ha provocato anche nell’universo carcerario, e dell’esecuzione penale in generale, uno sconvolgimento della quotidianità, già alterata dalla privazione della libertà, e dall’insorgere di molteplici di nuove problematiche da affrontare con la dovuta tempestività. Sono stati numerosi i provvedimenti adottati a livello nazionale, regionale e locale per far fonte all’emergenza, che si sono succeduti dall’ultima settimana di febbraio in poi. Di essi e della situazione venutasi a creare nelle carceri sul piano nazionale e locale si dà conto nell’ultima parte di questa Relazione. La fine del mandato (2 maggio 2020) è intervenuta quando ancora tutte le attività consuete che segnano la vita detentiva e il cammino verso la risocializzazione erano state interrotte e mentre la “fase 2” del carcere non era ancora stata delineata. L’auspicio è che la necessaria temporanea sospensione delle attività che concretano il finalismo rieducativo della pena possa preludere a un ritorno ad una “nuova normalità” in grado di coniugare, anche in carcere, le indefettibili esigenze legate alla salute con quelle, altrettanto ineludibili, di umanità della pena e di recupero sociale dei condannati. Sul piano nazionale, la riduzione del sovraffollamento e la tutela delle persone più fragili dovuta ai meritori interventi della magistratura di sorveglianza è stata accompagnata da un acceso dibattito pubblico e politico che agli occhi di chi frequenta quotidianamente le carceri è apparso distante dalla realtà, quando non del tutto fuorviante. In questo quadro preoccupante, le Relazioni dei Garanti possono fornire un quadro preciso, meditato e trasparente dell’effettiva situazione delle carceri e delle condizioni in cui vivono le persone private della libertà. L’Ufficio del Garante di Ferrara ha attraversato nell’ultimo periodo serie difficoltà di funzionamento per l’assenza di supporto amministrativo che mi ha costretta a svolgere da sola l’ingente e complessa entità di compiti affidati all’istituzione. Il mio ringraziamento va anche alla dott.ssa Tansini per il periodo in cui ha potuto, nonostante gli altri incarichi che le erano stati nel frattempo assegnati, supportarmi. Se l’Amministrazione comunale crede nella figura di garanzia che ho avuto l’onore di rappresentare negli ultimi tre anni, è indispensabile che l’organo sia nuovamente dotato delle risorse necessarie ad espletare con prontezza ed efficacia i suoi numerosi e delicati compiti. L’oggettiva impossibilità di svolgerli - alle condizioni date - insieme ad un’altra attività lavorativa, è alla base della decisione di non riproporre la mia candidatura per il prossimo triennio. *Già Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara Ferrara. Dal carcere al teatro Comunale con i detenuti-attori estense.com, 27 agosto 2020 Teatro Nucleo riprende i laboratori post-Covid e ritira il Premio Nazionale Franco Enriquez nella categoria Teatro Contemporaneo di impegno sociale e civile. Dopo mesi di interruzione a causa dell’emergenza Covid-19, i laboratori di teatro in carcere ideati e condotti da Teatro Nucleo nella casa circondariale Costantino Satta sono ripresi e porteranno a ultimare la produzione dello spettacolo Album di Famiglia, che il prossimo 20 novembre sarà in scena al Teatro Comunale di Ferrara. Una cornice prestigiosa che - come già accaduto in diverse occasioni - ospiterà lo spettacolo realizzato da Teatro Nucleo con i detenuti-attori, permettendo una connessione forte ed emozionante tra il dentro e il fuori, tra il carcere e la comunità. Una delle finalità principali dell’intevento della compagnia con le persone recluse, infatti, consiste nell’apertura di un dialogo che porti a nuove prospettive di vita al termine della pena. Su queste basi, Teatro Nucleo dal 2005 opera nel carcere di via Arginone, dal 2011 è ideatore e fondatore del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna - che unisce le principali realtà regionali operanti in carcere con gli strumenti del teatro, da Parma a Forlì passando per Modena, Bologna e Ravenna - ed è referente di numerosi progetti internazionali come il partenariato strategico Erasmus+ Performing New Lives attualmente in corso con Teatro del Norte (Spagna), Z3 (Germania) e Ures Ter (Ungheria). Riconosciuto come punto di riferimento per la formazione degli adulti in relazione al teatro-carcere - Horacio Czertok è ambasciatore della piattaforma elettronica per l’apprendimento degli adulti in Europa Epale - il co-fondatore di Teatro Nucleo il prossimo 30 agosto ritirerà il Premio Nazionale Franco Enriquez nella categoria Teatro Contemporaneo di impegno sociale e civile - sezione Grandi Drammaturghi e Registi. Insieme a lui, sul palco del Teatro Comunale della Città di Sirolo (Ancona), anche il maestro Riccardo Muti e l’attrice Amanda Sandrelli a ricevere questo premio di prestigiosa notorietà, rivolto a teatro, tv, cinema, musica, arte, letteratura, comunicazione di impegno sociale e civile e ai loro aspetti di originalità e di ricerca in ambito nazionale. Dedicato alla memoria del grande regista Rai scomparso, il premio - gestito e valorizzato dal Centro Studi Drammaturgici Internazionali Franco Enriquez - giunge nel 2020 alla sua 26° edizione. La giuria ha premiato Horacio Czertok per la sua filosofia e visione del teatro come partecipazione, incontro, comunicazione nel suo senso etimologico di “mettere in comune” in relazione all’impegno sociale e di civile di cui il teatro in carcere rappresenta una delle principali espressioni. Con Horacio Czertok, a lavorare nella struttura detentiva della città estense, c’è anche Marco Luciano, ideatore di Esercizi di libertà, progetto epistolare che ha permesso di mantenere la relazione con i 26 detenuti-attori anche durante la chiusura della casa circondariale per l’emergenza sanitaria. Attraverso riflessioni condivise in forma di lettera è così proseguita la produzione dello spettacolo, ripresa da qualche giorno in presenza. Grande l’entusiasmo e l’impegno del gruppo che già aveva presentato Album di Famiglia in forma di studio lo scorso ottobre all’interno del Festival di Internazionale tra le mura dell’Arginone. Il 20 novembre la destinazione dello spettacolo sarà fuori, nel cuore della città, al Teatro Comunale, per continuare a costruire percorsi condivisi tra città e carcere. Il carcere il diritto alla speranza, il focus di Nessuno Tocchi Caino isolasolidale.it, 27 agosto 2020 Si intitola “Il viaggio della speranza” ed è il racconto dell’VIII congresso di Nessuno tocchi Caino, la lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che si è tenuto a Milano, nel carcere di Opera, lo scorso dicembre. Il volume (ed. Reality Book) è stato distribuito agli iscritti dell’associazione ed è anche acquistabile sul sito: è un viaggio ideale che esplora la traversata dal dolore al cambiamento, che va a fondo nel sistema carcerario alla luce delle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Immagini, parole (una sessantina di interventi) e atti che raccontano le carceri italiane e le loro contraddizioni, una sorta di “non luogo” in cui “finiscono i diritti”, nonostante il dettato dell’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). E sono testimonianze nelle quali ricorrono due motti: “nessuno tocchi Caino”, che dà il nome all’associazione, e “spes contra spem”. Il primo, dice Sergio D’Elia, segretario dell’associazione, “è rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica dell’emergenza per la quale, nel nome di Abele, per difendere Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino che pratica la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena”. Il secondo, aggiunge D’Elia, “è rivolto a Caino, al condannato che decide di cambiare se stesso, convertire la sua vita dal male al bene, dalla violenza alla non violenza, perché sia appunto il cambiamento del suo modo d’essere profetico del cambiamento del mondo in cui vive, dell’ambiente in cui vive, del carcere in cui vive, del magistrato da cui dipende”. Si dibatte sul futuro del sistema carcerario, nella speranza che un giorno si arrivi ad avere “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”, come auspicava Aldo Moro. “Io sono profondamente convinto che il carcere non abbia nessuna ragione di esistere - dice nel suo intervento Roberto Rampi, senatore del Pd - ne sono profondamente convinto, sono convinto che il carcere sia un’invenzione degli uomini e che nasce in un tempo e che, come è nata in quel tempo, ci sarà un tempo in cui finirà. Verrà un giorno in cui guarderemo al fatto che delle persone tenevano altre in un carcere esattamente come potremmo guardare oggi a certe forme di tortura, a certe forme di schiavitù. Come qualcosa di lontano che appartiene al passato e che è incomprensibile”. Immaginare uno Stato senza carcere è già possibile. Ne è convinto Giuseppe Morganti, parlamentare di San Marino che ha proposto di fare della piccola repubblica il primo Stato che abolisce la prigione: “L’obiettivo di uno Stato senza carcere prevede l’attivazione di politiche che richiedono investimenti in posti di lavoro, istruzione, alloggi, assistenza psicologica e sanitaria, tutti elementi indispensabili in una normale società che intende liberarsi dalla violenza”. Si va poi dall’intervento di Gherardo Colombo, che solleva dubbi sulla compatibilità di un diritto penale sorto durante il fascismo con i principi costituzionali, fino a quello di Francesca Mambro: “Uno Stato che riaccoglie e pacifica è uno Stato che non ha bisogno di dimostrare la sua forza perché è Giusto e Libero e in tal modo questo esercita la sua Signoria, tanto che può permettersi di non abbandonare nessuno. Un concetto a me molto chiaro, sia per esperienza personale che per la mia attività con Nessuno tocchi Caino, è che ogni essere umano se trattato male e lasciato senza speranza non può che peggiorare. Noi tutti, e non solo antropologicamente, siamo trasmissione di valori che si sono sedimentati nel tempo. Riconoscere la dignità della persona vuol dire riconoscere l’altro ed essere in una forma continua di dialogo come esseri umani. Questo dialogo fa sì che il mondo sia umano non perché la voce degli uomini risuona in esso, ma per esserne divenuto l’oggetto. Essere speranza, migliorare le condizioni di detenzione, non diminuisce la gravità della colpa, la pena comminata e quella espiata”. “La vendetta che sembra incantarci - ha aggiunto Mambro - è una punizione eterna per chi la riceve e per chi la pratica e non c’è difesa che possa mettere al riparo l’individuo e la comunità da una sorte che fa rivivere il male e cristallizza il dolore, come non vi è riparo dalle tetragone certezze che nemmeno per un attimo fanno balenare l’esistenza del dubbio”. Ai contributi di questo fronte trasversale che si interroga su un carcere in cui possa entrare “il diritto umano alla speranza” si alternano le testimonianze dei detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, e di altri ex detenuti. Emozionante è l’incontro tra Stefano Castellino, sindaco del comune siciliano di Palma di Montechiaro, che a 18 anni perse lo zio assassinato dalla criminalità organizzata, con quattro concittadini in carcere a Opera per delitti mafiosi. Fino all’esperienza di Antonio Aparo, che è stato in regime di 41bis per 28 anni, il “carcere duro” che finisce per creare altre vittime, i familiari dei detenuti: “In trent’anni il trattamento nel regime penitenziario per me che mi trovavo al 41bis è stato di poter usufruire di 15 giorni, che significa 360 ore, con i familiari. Visto che spesso si è detenuti a mille chilometri, non tutti possono usufruire di un’ora di colloquio mensile, quindi al massimo si fanno due o tre ore di colloquio all’anno. Quindi da 360 scendiamo a circa 90 ore di colloquio in 30 anni, pari a circa 4 giorni di colloquio in trent’anni... Qui ci viene in soccorso il telefono: dal 1986 fino al 2000 erano 6 minuti al mese che sostituivano il colloquio impossibile. Così si baratta un po’ la situazione. Poi sono diventati 10 minuti al mese. In un anno si raggiunge la famiglia per un’ora e mezzo. Quindici ore di telefonate, dieci anni. In trent’anni più o meno 45 ore perché se non si fa colloquio, c’è la telefonata. Quindi in trent’anni ci viene concesso di avere i contatti con gli affetti circa 6 giorni. Cos’è la rieducazione in questo senso? Mi chiedo come ex 41-bis...”. Poi ha concluso: “Quando sono stato arrestato avevo vivi alcuni miei familiari - si commuove - anche qualche mia sorella. Oggi non ci sono più - fatica a parlare per l’emozione - non mi hanno dato nemmeno il permesso per andarli a vedere. Sarà una mia colpa, è vero, io ho sbagliato, l’ho sempre ammesso e sono qua. Però che c’entra trattare i familiari in modo disumano?”. “Dopo Bibbiano una campagna di odio: chi ha distrutto i servizi sociali ora chieda scusa” di Simona Musco Il Dubbio, 27 agosto 2020 Marco Scarpati, avvocato: “Chi chiederà perdono ai tanti piccoli Evan?”. Ci sono i “casi Bibbiano”, da un lato. E poi i casi come quello dei piccoli Evan e Gioele. In mezzo un mare di approssimazione e facili deduzioni, la demonizzazione dei servizi sociali, la loro assenza sul territorio e il circo mediatico che inquina tutto. A rimetterci, in ogni caso, sono loro, i bambini. La storia di Evan, massacrato, secondo l’accusa, dal compagno della madre, anche lei finita in manette e già in precedenza indagata dalla procura di Siracusa per i ricoveri anomali del bambino, con una denuncia ignorata fatta dal padre del piccolo in Liguria, riapre la questione e pone nuovi interrogativi. Domande pesanti, avanzate, ad esempio, da Marco Scarpati, avvocato ed esperto di protezione dei diritti dei minori, il cui nome è finito ingiustamente nel vortice dell’inchiesta “Angeli& Demoni”. Criminalizzato e poi risultato innocente, oggi si chiede se la caccia alle streghe partita più di un anno fa abbia intaccato pericolosamente la tutela dei diritti. “Un anno fa le polemiche sui cosiddetti affidi facili e sul ‘ parlateci di Bibbiano’ scrive sul suo profilo Facebook. Queste sono le conseguenze: gli affidi extra-famigliari, l’allontanamento dai genitori non viene più svolto (per paura delle conseguenze e delle critiche) e i bambini e i loro diritti vengono calpestati. Quando un Tribunale per i Minorenni toglie un bambino a un genitore lo fa a ragion veduta, come scelta protettiva per un bambino che non trova, nei suoi genitori naturali, persone adatte (almeno in quel momento o in quella situazione) ai suoi bisogni. E nessun servizio sociale fa segnalazioni facilmente o per motivi frivoli, ma sempre dopo avere cercato una soluzione interna alla famiglia, dopo avere cercato di sostenere le possibilità autoriparative degli adulti responsabili di quella famiglia. Chi ha le colpe della vergognosa campagna di odio lanciata a suo tempo dovrebbe ragionarci e chiedere scusa ai tanti piccoli Evan”. Parole che conferma al Dubbio, denunciando quello che, personalmente, vede ogni giorno con il suo lavoro. “C’è una situazione di corposa difficoltà nella gestione della materia - spiega -. Da un anno non si trovano psicologi che si prendano la responsabilità di casi dove esistono possibili procedimenti giudiziari in corso. La iper responsabilizzazione che c’è stata rispetto agli interventi degli psicologi e dei terapeuti come possibili modificatori della prova, così come ipotizzato nel caso Bibbiano, hanno provocato ritardi e tentennamenti che mettono in secondo piano il diritto alla salute del bambino rispetto al diritto di giustizia”. Insomma, senza rassicurazioni, la paura di intervenire, sbagliare e finire in un tritacarne è tanta. Il clima è incerto, le notizie inesatte o imprecise, le accuse prese per buone a prescindere. E basta un giornale che faccia da megafono ad una sofferenza magari giusta o anche solo comprensibile per far crollare tutto quanto. Al di là di cosa sia giusto fare o meno. “Le richieste dei pm diventano automaticamente legge stampata sulle tavole di Mosè - continua Scarpati. Ovviamente si tratta di ipotesi, ma il messaggio che arriva agli operatori è che il gioco non valga la candela, considerato che si ipotizza il dolo rispetto alla terapia svolta”. Ciò porta ad una maggiore difficoltà ad agire sulla base dell’articolo 403 del codice civile, secondo cui “quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. Scelte che espongono a responsabilità sia civile sia penale e che ora risultano molto più faticose. E ciò, per l’avvocato reggiano, è anche frutto dello strascico mediatico del caso Bibbiano. “Non ci si deve difendere dai processi, ma nei processi. E chi svolge un mestiere delicato con i bambini deve stare molto attento sottolinea -, perché va a toccare un interesse primario rispetto a qualsiasi altro interesse. Gli errori ci sono, ne ho visti tanti, ma non si può pensare che il sistema sia composto da demoni”. La soluzione, spiega, è velocizzare l’iter: “Se arriva una segnalazione su un possibile abuso o maltrattamento non può essere ignorata: la prima cosa da fare è sottrarre il bambino dal pericolo. Non si può perdere tempo. Dunque - sottolinea - bisogna riformare il 403, velocizzando tutto. Bisogna prevedere che la fase di processualizzazione arrivi molto velocemente, in pochi giorni, che le carte vengano contestualmente inviate ai genitori, che l’udienza non sia fissata tre mesi dopo, ma una settimana dopo e che la cosa venga risolta con un procedimento tra le parti e quindi con un avvocato del minore. Se immediatamente la questione viene messa in mano ad un dibattito tra gli esperti, nessuno potrà dire che la propria voce è stata ignorata”. Gli strascichi mediatici del caso Bibbiano hanno dunque fatto male ai servizi sociali. “E li abbiamo pagati tutti, a cominciare dai bambini”, dice al Dubbio Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio Nazionale dell’ordine degli assistenti sociali. “Nel momento in cui distruggo la credibilità di un’intera fetta istituzionale è chiaro che il rischio è che la gente si allontani e che non si rivolga agli assistenti sociali quando ne ha bisogno. Quel che serve - aggiunge - è un investimento strutturale. Gli ultimi veri risalgono alla legge Turco del 2000”. E poi ci sono ancora molti territori sguarniti di assistenti sociali: nonostante la legge preveda la presenza di un operatore ogni 5mila abitanti, in almeno due terzi d’Italia se ne conta uno ogni 40mila. E ciò soprattutto al Sud. “Molte amministrazioni fanno bandi a titolo gratuito - aggiunge - ma ciò non è possibile. I problemi non sono solo economici, ma è più facile sborsare un assegno che investire in servizi”. Ma non solo. In uno degli ultimi decreti è stato approvato un emendamento che prevede l’istituzione, da parte delle Regioni, di un piano per i servizi, proprio perché nella fase più acuta del lockdown in molti territori tutto è rimasto fermo. Ma al momento nessuna Regione si è adeguata alla direttiva. Ma nonostante le difficoltà e le incertezze, continua Gazzi, “non voglio neanche pensare che i colleghi si ritraggano dalle loro responsabilità. Il contesto in cui si esercita si prende in considerazione, ma mai e poi mai, se c’è un intervento da fare, credo che qualcuno si tirerebbe indietro. Non mi pare ci siano state segnalate situazioni del genere. Va detto, però, che nei mesi successivi al caso Bibbiano le minacce e le aggressioni sono aumentate. E non si può assistere a polemiche strumentali di quel tipo, né accettare battaglie ideologiche sulla pelle dei bambini”. Inutile chiudere gli occhi sul problema dei migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 27 agosto 2020 Dallo scontro tra il governatore siciliano Nello Musumeci e il ministero dell’Interno chi esce più ammaccata è l’immagine delle istituzioni, centrali e locali. No, non ne stiamo uscendo migliori. Lo scontro sui migranti tra il governatore siciliano Nello Musumeci e il Viminale sembra dircelo con chiarezza. Chi ne risulta più ammaccata agli occhi degli italiani è, al solito, l’immagine delle istituzioni, centrali e locali. E gravemente menomata appare la capacità del Paese di prendere in mano il proprio destino, venendo a capo di qualche dossier. Com’era ovvio, il Covid-19, archiviati i canti dai balconi, sta enfatizzando tutti i problemi preesistenti. Non pochi. Tra questi, sempre sul tavolo, l’immigrazione. Intendiamoci, i numeri non sono tali da giustificare gli alti lai della destra, che pare quindi volta a un tentativo di speculazione elettorale (a settembre si vota in sei Regioni) quando grida di nuovo all’emergenza: gli sbarchi da gennaio sono 17.504 con una proiezione plausibile di venti, forse 25 mila per fine dicembre, mentre durante la crisi del 2016-17 (prima dei pur vituperati accordi di Marco Minniti con i capi tribù libici) si sfioravano i duecentomila arrivi l’anno. Siamo di fronte a un flusso ben sostenibile, sulla carta. Inoltre, le autorità sanitarie spiegano che i migranti rappresentano non oltre il 3-5% dei positivi, quando i vacanzieri di ritorno incidono dal 25 al 40%. Insomma, una discoteca pare un cluster più insidioso di un Cara. Ma, attenzione: le paure si sommano e non si elidono. E, benché sia stata smentita dalla prefettura la sortita di Matteo Salvini sui “migranti positivi a spasso per Lampedusa”, la paura del virus accresce quella (atavica) degli stranieri fuori controllo. E non c’è dubbio che la terra di primo impatto per i battelli della speranza salpati da Libia e Tunisia sia proprio la Sicilia. Qui, solo tra luglio e metà agosto gli sbarchi sono stati diecimila, quadruplicati rispetto al 2019 dalla crisi tunisina. Numeri bassi, è vero. Ma, ancora una volta, il Covid-19 ci mette lo zampino: quando quei numeri cadono nella stagione turistica che si vorrebbe in ripresa dopo il lockdown, gli animi si scaldano. Per capire quanto, basta leggere il bell’articolo di Felice Cavallaro sul Corriere dell’altro ieri da posti come Porto Empedocle, Favara e Caltanissetta, dove sindaci esasperati raccontano di essere insultati da cittadini stufi dei migranti, per pochi che siano. È poi un caso nel caso l’hotspot di Lampedusa, dove sabato scorso tunisini, nigeriani ed eritrei si sono contesi a sassate un metro d’ombra per stendere un materassino all’aperto, non trovando posto nella struttura, ciclicamente piena quattro o cinque volte oltre la propria capienza. E qui che s’inserisce la rivolta di Musumeci. Sfidando Roma, il presidente della Regione, sostenuto da Salvini, ordina chiusura e sgombero di hotspot e centri di accoglienza siciliani, nonché blocco di qualsiasi sbarco. Materia indisponibile, spiegano i costituzionalisti: l’immigrazione è competenza esclusiva dello Stato; il ministero degli Interni ordina ai prefetti di tenere in non cale il provvedimento del ribelle. Lui allora vira sulla tutela della salute, che in effetti chiama in causa le Regioni, sommando emergenza Covid-19 e migranti. E diffida i prefetti, accusando il governo di voler addirittura mettere in piedi “campi di concentramento” travestiti da tendopoli. Sarà la magistratura, cui tutti affermano di voler ricorrere, a sciogliere il groviglio. Ma, anche a causa di dichiarazioni così sopra le righe, è difficile negare che Musumeci debordi, essendone ben consapevole. Sarebbe tuttavia un errore derubricarne l’operato a mera azione strumentale. La mossa, che certo lo pone sugli scudi di propaganda della destra, calca l’accento su alcune verità difficili da negare: quelle che le brutte immagini dell’hotspot di Lampedusa hanno evidenziato agli occhi del mondo. Da quando s’è insediato, a settembre 2019, l’esecutivo Conte bis ha tentato di scansare in ogni modo la questione migratoria, consapevole della sua portata deflagrante per la fragile coalizione. Il Pd a guida Zingaretti chiedeva una cesura netta con la stagione di Salvini a cominciare dalla cancellazione dei molto controversi decreti Sicurezza varati dal capo leghista. I Cinque Stelle, che a quella stagione hanno collaborato a fondo con Luigi Di Maio, hanno recalcitrato sin dall’inizio, vedendo la cesura come una censura al loro stesso operato. Risultato: l’immobilismo. Se il ministro leghista aveva fatto male, il governo giallorosso non ha fatto nulla. Non un programma condiviso: solo la promessa di un maquillage, dopo le elezioni regionali, per cambiare come si può l’impianto salviniano, salvo nuovi rinvii o magari salvo intese. Non un piano complessivo per fronteggiare un problema che l’Italia vive come emergenza da trent’anni ed è invece, ovviamente, strutturale, per un Paese con settemila chilometri di coste proteso nel Mediterraneo. Non saranno “campi di concentramento” i centri per migranti in Sicilia e in giro per l’Italia (con certi paragoni bisognerebbe andarci piano per rispetto della storia). Ma sono spesso luoghi di vergogna, dove gli stranieri vivono ammassati diventando, loro sì, vittime del Covid-19: i focolai nelle ex caserme del Nord ne sono stati il primo segnale a inizio agosto. Ci vuole coraggio. Ciò che soprattutto il Pd sembra non capire è che chiudere gli occhi esorcizza gli spettri nelle stanze dei bambini, non nelle democrazie adulte. Persino lo sgombero di una sessantina di positivi dall’hotspot di Pozzallo, opportuno ma attuato soltanto dopo l’azzardo di Musumeci, porta acqua alla destra, consentendo al governatore siciliano di proclamare che “alzar la voce serve”. Un bello spot per la chiusura della campagna elettorale sovranista. Francia. Italiano morì in cella a Grasse, dopo 10 anni è ancora mistero sulle cause di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2020 Daniele Franceschi, in attesa di giudizio, fu trovato senza vita nel carcere di Grasse. Sono passati dieci anni dalla della morte di Daniele Franceschi, il 36enne carpentiere di Viareggio (Lucca) rinvenuto esanime in una cella del carcere di Grasse. La madre Cira Antignano dichiara di non arrendersi e di voler a tornare in Francia con l’avvocato Aldo Lasagna per parlare con gli inquirenti sull’esito dell’inchiesta che coinvolgerebbe l’ospedale di Grasse dopo una lettera anonima inviata ai familiari di Franceschi in cui si ipotizzava un macabro espianto di organi dalla salma. Ma non solo, la madre di Daniele si dice in attesa di una risposta del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, direttamente in aula, all’interrogazione del senatore Gianluca Ferrara del Movimento5Stelle proposta proprio sulla sorte degli organi del 36enne e mai restituiti. L’interrogazione parlamentare è di un anno fa, ma il ministro Di Maio ancora non risponde. Parliamo di una vicenda ancora piena di punti oscuri. Il 25 agosto 2010, mentre era detenuto da mesi nel carcere francese di Grasse, in attesa di un processo per il presunto utilizzo di una carta di credito falsa in un casinò di Cannes, veniva trovato morto Daniele Franceschi. Secondo la versione sinora fornita dalle Autorità francesi, Daniele è morto per arresto cardiaco, ma le circostanze del decesso sono tuttora un mistero sul quale rimangono parecchi punti oscuri, nonostante un processo che è giunto al secondo grado di giudizio. Per la morte di Daniele, infatti, è stato condannato a un anno per omicidio involontario il medico del carcere Jean Paule Estrade, ritenuto colpevole di non aver curato il giovane carpentiere. Colpevole di semplice omissione di soccorso o comunque dell’assistenza tardiva e rivelatasi poi fatale in seguito al fatidico malore, che avrebbe provocato l’inspiegabile decesso del ragazzo. A ritrovarlo a terra con il viso verso il suolo, tutto rosso, fu il compagno di cella. Si chiama Abdel il giovane franco- algerino che due giorni dopo la tragedia scrisse una lettera a mamma Cira. “Daniele - raccontò Abdel - negli ultimi tre giorni stava molto male e nessuno era venuto a visitarlo, nonostante le continue richieste di aiuto, fatta eccezione per una volta in cui fu portato in infermeria dove gli dettero semplicemente delle pastiglie”. Nell’interrogazione parlamentare dell’anno scorso, il senatore Ferrara ha spiegato che “dopo 55 giorni, il corpo del cittadino italiano è stato riconsegnato in avanzato stato di decomposizione e senza gli organi interni della vittima”. Infatti, a riprova delle circostanze in cui è avvenuta la riconsegna del cadavere, ha fatto scalpore la dichiarazione del medico- legale italiano, che nell’obitorio dell’Ospedale Versilia, tra i pochissimi a visionare quei miseri resti, ha esclamato, unitamente al sindaco di Viareggio, anche lui medico e presente all’autopsia: “I Francesi ci hanno riconsegnato un involucro orribilmente “vuoto”. Il senatore Ferrara ha sottolineato che “anche il medico-legale successivamente designato dai familiari, ha constatato che gli istituiti di medicina d’oltralpe o chi comunque aveva trattato il cadavere di Franceschi, aveva operato manovre manipolative ovvero (letteralmente da perizia redatta e pervenuta agli inquirenti italiani) distruttive su quel che rimaneva del cadavere”. Si aggiunge anche il giallo della lettera anonima recapitata alla madre di Daniele dove l’autore lascia intendere che gli organi, oltre 8 anni fa, potrebbero essere stati espiantati e trapiantati in altri corpi. Che fine hanno fatto gli organi? Una risposta che ancora tarda ad arrivare. Turchia. A digiuno da 200 giorni, due avvocati contro la “giustizia” turca di Murat Cinar Il Manifesto, 27 agosto 2020 Ebru Timtik e Aytaç Ünsal sono in carcere da due anni dopo un processo farsa, condannati insieme a 16 colleghi solo sulle basi delle dichiarazioni di un testimone anonimo. Puniti per il loro lavoro: hanno difeso minatori, operai, contadini, donne e i manifestanti di Gezi Park. Ebru Timtik e Aytaç Ünsal sono due avvocati in sciopero della fame da più di 200 giorni, convertito ormai in uno sciopero della morte. Entrambi si trovano in carcere dal 12 settembre 2018 e sono iscritti all’Associazione dei Giuristi progressisti. L’accusa rivolta sia a Timtik sia a Ünsal è quella di “appartenere all’organizzazione terroristica Dhkp-c”, secondo le dichiarazioni di un testimone anonimo. Per questo Ebru Timtik è stata condannata a 13 anni e 6 mesi e Aytaç Ünsal a 10 anni e 6 mesi. Gli avvocati chiedono un processo giusto basato sui principi della giurisdizione. Timtik e Ünsal fanno parte di un maxi processo in cui sono coinvolti altri 16 avvocati, condannati in totale a 159 anni di carcere. Per tutti i casi il giudice si è basato sempre sulle dichiarazioni del testimone anonimo. Secondo il presidente dell’Albo dei Legali di Istanbul, Mehmet Durakoglu, si tratta di un processo ridicolo. “Durante le udienze era il procuratore a ricordare al testimone certe sue dichiarazioni. Inoltre si tratta di una persona che è stata utilizzata in circa 100 processi tra cui anche il maxi processo che riguarda la rivolta popolare del Parco Gezi del 2013. Questo fatto non ha nessuna base giuridica”. Secondo Durakoglu, anche le domande del giudice erano inutili e maliziose. “Perché lavorate come avvocati? È una domanda fuori luogo e non riguarda l’accusa che gli è stata rivolta. Qui si mette in discussione il lavoro che fanno questi due avvocati”. Tra le persone che seguono il caso di Timtik e Ünsal c’è anche Sezgin Tanr?kulu, avvocato e parlamentare nazionale del principale partito dell’opposizione, il Partito popolare della Repubblica, Chp. “In realtà gli avvocati, che erano già in carcere, il 10 settembre 2018 sarebbero stati scarcerati ma quel gruppo di giudici è stato tolto dal processo e in poche ore la decisione di scarcerazione è stata annullata”. Tanrikulu segue l’andamento del caso degli avvocati e informa i cittadini in continuazione attraverso il suo canale web tv e l’account Twitter. Durakoglu sottolinea un punto molto importante: “Abbiamo assistito al fatto che non si tratta assolutamente di un processo accettabile dal punto di vista giuridico. Anche gli avvocati possono essere processati ma tutti i cittadini hanno diritto ad un processo giusto. Spero che il ricorso fatto presso la Cassazione sarà accolto”. Intanto, a fine giugno, tramite una lettera che ha scritto il suo avvocato, il testimone anonimo si è rivolto alla Cassazione specificando che a causa dei suoi problemi psicologici le sue dichiarazioni non sarebbero da prendere in considerazione. Nella sua lettera, il testimone anonimo, in carcere da 13 anni, si definisce una persona traumatizzata per via del suo coinvolgimento nel mondo del crimine dall’età di10 anni. Sembra evidente che si tratta di un processo fortemente politico. Ma perché? Ebru Timtik e Aytaç Ünsal sono sempre stati due avvocati “scomodi” per il disegno politico ed economico che strozza la Turchia da circa 20 anni. Hanno difeso i diritti dei minatori sfruttati, dei familiari degli operai vittime degli incidenti nei grandi cantieri edili, dei contadini che resistono contro le centrali idroelettriche che distruggono i campi agricoli e le acque dell’Anatolia, delle donne vittime di violenza maschile sempre più diffusa e non punita, e dei cittadini che hanno alzato la testa contro il governo durante la rivolta popolare di Gezi, criminalizzata dal governo e dai media main stream. Attorno a Timtik e Ünsal è nata una rete di solidarietà in tutto il mondo. Centinaia di avvocati, associazioni, politici e semplici cittadini seguono il loro caso e cercano di fare tutto il possibile perché questi due avvocati restino in vita e siano scarcerati. Circa 15 giorni fa sono stati trasportati entrambi, con forza e contro la loro volontà, in ospedale e sono trattenuti nelle stanze senza aerazione. Quelle poche informazioni fornite sulle loro condizioni di salute confermano che siamo in una fase estremamente pericolosa. In questi giorni numerosi presidi di solidarietà sono stati dispersi dalla polizia e i manifestanti sono stati arrestati. In Turchia ancora una volta c’è il rischio di morire, non di fame per il cibo, ma per la mancata giustizia. Madagascar. Evasione finisce nel sangue: 22 detenuti uccisi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 agosto 2020 L’evasione del 23 agosto da parte di 88 detenuti del carcere di Farafangana, nel sudest del Madagascar, è finita in un bagno di sangue: 22 morti e almeno otto feriti in gravi condizioni. Secondo la stampa locale, gli evasi erano tutti in attesa di giudizio per reati minori: uno addirittura per aver rubato uno spazzolino da denti. La prigione di Farafangana è, come denunciato da Amnesty International nel corso di varie visite, sovraffollata (a maggio c’erano 453 detenuti a fronte di una capienza massima di 260) e le condizioni igienico-sanitarie sono pessime. All’interno vige un radicato regime di corruzione che obbliga a pagare tangenti per avere determinati servizi o prodotti. A causa della diffusione della pandemia da Covid-19, i detenuti non vedevano i loro parenti da mesi. Le dichiarazioni a Radio France Internationale della direttrice regionale delle prigioni, Nadege Patricia Razafindrakala, rendono bene l’idea di cosa sia accaduto: “Alcuni detenuti hanno tentato la fuga a bordo di una piroga. Quando abbiamo aperto il fuoco, la piroga è affondata”. Amnesty International ha sollecitato l’immediata apertura di un’indagine su quello che è apparso in tutta evidenza un uso non necessario e illegale della forza. Stati Uniti. Civili armati contro la piazza, uccisi due manifestanti di Marina Catucci Il Manifesto, 27 agosto 2020 Kyle Rittenhouse, un 17 enne dell’Illinois, è stato arrestato per aver sparato uccidendo due persone e ferendone una, durante un’altra caotica notte di manifestazioni a Kenosha, Wisconsin, dove non c’è pace dopo il tentato omicidio di Jacob Blake da parte della polizia. Rittenhouse è stato arrestato a Antiochia, Illinois, mercoledì mattina dopo essere stato accusato di omicidio intenzionale di primo grado per la sparatoria avvenuta solo poche ore prima. Antiochia è a circa 30 minuti a sud-ovest di Kenosha, appena oltre la linea di confine dell’Illinois, da lì, come da altre zone limitrofe sono arrivati civili armati appartenenti alle sedicenti milizie di difesa del territorio. La sparatoria è avvenuta durante la terza notte di proteste e dopo che i manifestanti si erano scontrati con le forze dell’ordine vicino al tribunale della contea, luogo iconico di questa rivolta in quanto i poliziotti che hanno sparato a Blake non sono ancora stati incriminati. La serata di martedì era stata una replica delle due precedenti con un alto livello di tensione tra polizia e manifestanti riuniti davanti alla barriera di metallo appena eretta a protezione del tribunale. C’erano stati lanci di bottiglie, pietre e fumogeni verso la polizia che aveva risposto con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, avvertendo ripetutamente la folla che la manifestazione a quel punto rappresentava una violazione del coprifuoco stabilito per le 20, e che tutti i presenti stavano rischiando l’arresto. La folla alla fine era stata costretta a lasciare il parco, respinta per le strade della città dai gas lacrimogeni. A quel punto la maggior parte dei manifestanti aveva lasciato l’area e un piccolo gruppo si era diretto verso una stazione di servizio a diversi isolati di distanza, dove aveva trovato un gruppo di uomini armati accorsi per “proteggere la proprietà”. Con il passare delle ore, la stazione di servizio era diventata il vero luogo di tensione, con spettatori che guardavano dalle macchine parcheggiate e persone che si aggiravano per la strada, litigando e spingendosi a vicenda. La polizia, a botdo di blindati, si era avvicinata intimando alla folla di disperdersi, ma verso mezzanotte si sono sentiti gli spari. Una delle vittime è stata colpita alla testa e l’altra al petto, ha detto lo sceriffo David Beth al Milwaukee Journal Sentinel. Una terza persona ha subito ferite da arma da fuoco gravi ma ritenute non mortali. “Stavamo tutti scandendo “Black Lives Matter” - ha detto alla Associated Press un manifestante che era sul luogo, Devin Scott, 29 anni - e poi abbiamo sentito, boom, boom, e ho detto al mio amico, “Questi non sono fuochi d’artificio”. Ho visto questo tizio correre verso di noi con in mano una pistola enorme mentre tutto intorno la gente urlava e lo inseguiva, e lui ha ricominciato a sparare”. Il governatore democratico del Wisconsin Tony Evers ha autorizzato 500 membri della Guardia Nazionale ad intervenire in appoggio alle forze dell’ordine locali di Kenosha, raddoppiando così il numero di truppe inviate, mentre l’ufficio del governatore ha dichiarato di star lavorando con altri Stati per portare rinforzi, e di aver anticipato l’orario del coprifuoco alle 19. Il duplice omicidio è avvenuto il giorno dopo la presenza alla convention repubblicana dei coniugi McCloskey, finiti sotto inchiesta per aver puntato un fucile AR-14 e una pistola contro i manifestanti pacifici di Black Lives Matter che passavano davanti alla loro casa, a St Louis, Missouri. “Se ti difendi e cerchi di difendere i valori in cui credi, quelli fondanti di questo Paese, la mafia democratica alleata coi media cercherà di distruggerti. Come è successo a noi - hanno detto alla convention. La nostra proprietà privata era minacciata da marxisti liberal che marciavano urlando: “Non ci potete fermare”. Siamo usciti armi in pugno per difenderci. È un nostro sacrosanto diritto civile”. Informato degli eventi Trump ha subito scritto su Twitter : “NON sosterremo saccheggi, incendi dolosi, violenza e illegalità nelle strade americane”. Bielorussia. “A Lukashenko dico: niente vendette. Se ti fermi ora, ti lasciamo partire” di Xavier Colás Corriere della Sera, 27 agosto 2020 Intervista alla leader dell’opposizione bielorussa Svetlana Tikhanovskaya. “Il popolo si fida di me, perché non sono una politica”. Prima che ai bielorussi la paura entrasse dagli occhi, vedendo i colpi della polizia, a Svetlana Tikhanovskaya la paura era entrata da un orecchio. Il telefono ha squillato nello strano silenzio della sua casa. Aveva appena preso la decisione di presentarsi come candidato alla presidenza al posto del marito, Serghei Tikhanovsky, arrestato dal regime di Alexander Lukashenko. Una voce le ha comunicato che, se continuava su quella strada, avrebbero colpito sia lei che i suoi figli. Ora misura le parole. Sorride quando le si ricorda il soprannome di “Giovanna d’Arco” bielorussa. Serra i denti al pensiero che non vede da tre mesi il marito, che si trova in una cella di una prigione di Minsk. Lottando contro la paura, Tikhanovskaya ha presentato ricorso contro i risultati elettorali, rimanendo di sasso quando si è ritrovata faccia a faccia con due funzionari del Kgb bielorusso che la stavano aspettando in ufficio. Non vuole svelare cos’è accaduto in quelle sei ore di pressioni e minacce che l’hanno costretta a fuggire in Lituania. Dalla capitale Vilnius parla del suo ritorno in “una Bielorussia libera”. Lei sostiene che Lukashenko non è più il presidente. Ma che ne sarà di lui e della sua struttura di potere? “Noi bielorussi non cerchiamo vendetta, pur conoscendo i crimini commessi, che saranno giudicati da un tribunale. Il nostro è un popolo generoso, pertanto se Lukashenko si ferma e rinuncia al potere adesso, sono sicura che i bielorussi lo lasceranno partire”. Però resterà un sistema da smantellare... “Il nostro popolo è pronto. Non sarà difficile. Lo trasformeremo in qualcosa di diverso. Ci abitueremo a vivere in un Paese diverso”. Lei sostiene che la Bielorussia nel 2020 non è paragonabile all’Ucraina nel 2014. Perché? “Primo, perché il nostro è un popolo pacifico. Non vogliamo nessun tipo di conflitto nel territorio della Bielorussia. Per questo chiediamo al resto del mondo di rispettare la nostra sovranità. Non accetteremo nessun tipo di intervento sul nostro territorio. Non siamo né pro-europei né anti-russi”. È rimasta delusa dall’appoggio russo a Lukashenko? “Non parlerei di delusione. Nel caso di Putin, anche lui ha il diritto, come un qualsiasi capo di Stato, di riconoscere i risultati del 9 agosto, come ha fatto. Però so per certo che la gente in Russia ci sta appoggiando. Ben altra cosa è il gioco politico tra i leader, ma in fin dei conti la Russia non è nemmeno l’unico Paese che ha riconosciuto la vittoria a Lukashenko. In ogni caso, questo non dovrebbe influenzare i bielorussi, perché è un problema nostro”. Ma il governo russo ad oggi resta il principale sostenitore di Lukashenko... (con un profondo sospiro, ndr) “Ma anche se i russi dovessero accettare il risultato elettorale, la realtà è che i bielorussi non accettano questo presidente”. La Bielorussia resta un Paese molto maschilista, proprio Lukashenko l’ha insultata, assieme alle sue compagne, dicendo che “fate pena” e che il Paese non è pronto ad accogliere un presidente donna. Come sono riuscite, tre donne, a scrivere la storia in campagna elettorale? “Il merito va al popolo. Non si trattava tanto di appoggiare noi, quanto di lottare contro Lukashenko”. Inizialmente Lukashenko si era offerto di modificare la costituzione, ma subito dopo ha afferrato il fucile davanti alle telecamere. Quali sono i suoi obiettivi? “Così facendo ha dimostrato di aver paura. Non sa più che cosa fare. Capisce che la gente non lo vuole più e che non si lascerà convincere a cambiare opinione. Per la prima volta, non sa come uscire da questa situazione”. Lei è stata insegnante di lingue, e poi casalinga. Ha pochissima esperienza politica. Perché mai la gente dovrebbe darle fiducia? “La gente ha fiducia in me proprio perché non appartengo alla classe politica. Sono una persona normale, come tanti dei miei sostenitori. Io li capisco. In me ritrovano sé stessi, uniti per lottare contro lo stesso individuo”. Quando è stato il momento in cui ha avuto più paura? “La verità è che non ho avuto scelta. Ho passato giorni difficilissimi. Ho avuto paura durante la campagna elettorale. Se dovessi individuare un momento, direi che è stato quando ho ricevuto la telefonata da qualcuno che ha minacciato me e i miei figli”. Quando tornerà? “Quando riusciremo ad avere un dialogo con le autorità, in vista di una transizione. Quando capiremo che ci sono trattative in corso per garantire elezioni trasparenti, giuste e libere. Allora il Paese sarà abbastanza sicuro per tornare a vivere in Bielorussia”. Lei sostiene di aver ottenuto la maggioranza dei voti. Come lo sa? “Non conosceremo mai le cifre reali, ma l’appoggio che la popolazione mi ha dimostrato è sotto gli occhi di tutti. Sappiamo di essere la maggioranza. È chiaro chi ha vinto e chi ha perso”. Come ha potuto Lukashenko a restare al potere per 26 anni? “Tutta la sua politica è fondata sul terrore. Incute timore al suo popolo, che vive oppresso e avvilito”. Ma qualcosa è cambiato… “Le nuove generazioni hanno viaggiato molto, hanno visto come si vive nei Paesi dove le autorità rispettano i cittadini. Il Covid-19, che Lukashenko ha negato a più riprese, ha stimolato la consapevolezza della gente. Non è successo all’improvviso, ma abbiamo capito di essere cittadini e di avere diritti. Non è normale finire in galera per difendere le proprie idee”. Come immagina il suo Paese tra cinque anni? “Un paese più stabile sotto il profilo economico. Libero, ma anche con buoni salari. Un Paese dove le autorità non minacciano, ma collaborano con la gente. Come accade negli altri Paesi europei”. In Bielorussia tante persone si chiedono se è il caso di scendere ancora in strada o se forse non è meglio restarsene al sicuro chiusi in casa. Che cosa direbbe oggi a queste persone? (in silenzio per alcuni secondi) “Dipende dal singolo individuo. Capisco benissimo che tanti hanno paura, perché hanno sofferto troppo. Ma capisco anche quelli che la pensano diversamente, che hanno subìto torture e sono terrorizzati, ma che non possono accettare di essere stati trattati così. Non siamo schiavi”. La Tunisia scopre la nostalgia di Ben Ali di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 27 agosto 2020 Un cittadino su tre si dice pronto a votare per il partito che si ispira al vecchio regime spazzato via dalla primavera araba. Non convince più l’islam politico di Ennahdha, tentato ora da un’alleanza con Erdogan che però non si sposa con la tradizione laica riemersa con forza. La rivoluzione è un sogno interrotto, l’islam politico una delusione, insomma: si stava meglio quando c’era Ben Ali. La Tunisia si risveglia nostalgica e sempre più laica: almeno un cittadino su tre, dicono gli ultimi sondaggi, è pronto a votare per il Partito desturiano (da dustur, Costituzione, ndr) libero di Abir Moussi, apertamente ispirato al vecchio regime, mentre poco più di uno su cinque insiste a volere un Paese governato in chiave religiosa da Ennahdha. La parabola del partito islamico sembra arrivata a compimento. La scelta del 2016 ha dato un esito fallimentare: in quella data il movimento musulmano si è trasformato in un partito vero e proprio, sganciandosi dalla tradizionale strategia dei Fratelli musulmani, che parla di islamizzazione della società. Con tutta probabilità a spingere la leadership del partito verso un inquadramento più politico e meno confessionale è stata l’enorme impressione del colpo di Stato in Egitto. Ma la “nuova identità” sembra aver convinto pochi, mentre ha indebolito il tradizionale messaggio “anti-sistema”. E ora Ennahdha è diviso nel suo interno, isolato al suo esterno, mentre persino i collegamenti internazionali si sono dimostrate più difficili del previsto. La prova definitiva del declino era arrivata nelle ultime settimane del governo Fakhfakh, quando è emersa del tutto la spaccatura fra il partito e il presidente della Repubblica, Kais Saied. Il capo dello Stato è un musulmano tradizionalista: è stato eletto anche grazie ai molti voti islamici sfuggiti al controllo del partito, e politicamente è considerato “vicino” alle posizioni dell’organizzazione. Ma quando l’esecutivo “tecnico” guidato da Elies Fakhfakh ha mostrato le prime difficoltà, Saied prima ha respinto la richiesta di un rimpasto, poi ha imposto le dimissioni al premier: in questo modo ha gestito la crisi scegliendo lui a chi dare l’incarico, senza l’obbligo di affidare il compito di formare un nuovo governo al partito di maggioranza. Ennahdha ha persino dato disponibilità per un governo di unità nazionale, ma per ora senza risposta. Le ombre sull’apparato segreto del partito, considerato responsabile per gli assassinii dei due politici di sinistra Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, con presunti collegamenti fra il capo della cellula Mustapha Kheder e il leader storico di Ennahdha, Rached Ghannouchi, hanno allontanato molti consensi, sia fra la popolazione che dentro il Parlamento. L’isolamento del partito islamico è arrivato al suo apice quando i deputati hanno votato la destituzione di Ghannouchi, presidente del Parlamento: gli islamici si sono allontanati durante il voto e l’anziano leader ha salvato la sua carica con un margine di 12 voti, e con appena 16 deputati a sostenerlo apertamente. Ora Ghannouchi è stretto fra le strategie di moderazione e la pressione dei giovani di Ennahdha, poco soddisfatti della svolta “laica” e pronti a menar le mani. Parla di ricostruire l’unità del partito, apre a prospettive di unità nazionale. Poi però si sbilancia oltrepassando i limiti del suo ruolo istituzionale, per esprimere sostegno al governo di Tripoli che aveva respinto l’offensiva del generale Haftar. Una mossa forse dovuta, visto che nel turbolento scenario delle rivalità fra Paesi sunniti il governo di Serraj è sostenuto da uno schieramento ispirato ai Fratelli musulmani, con la Turchia in prima fila. E per Ghannouchi, sempre più isolato, è evidente la tentazione di avvicinarsi ad Ankara accogliendo anche su questa sponda del Mediterraneo le strategie espansioniste di Erdogan. Ma Tunisi è lontana dal Bosforo, e qui la tradizione laica è riemersa senza timidezze. Se in Turchia il messaggio di Ataturk si può manipolare, quello di Bourghiba per la Tunisia resta la bussola indiscutibile.