Carceri, così le Regioni possono migliorare la vita in cella di Gennaro Migliore Il Riformista, 26 agosto 2020 La sollecitazione che fa l’avvocato Riccardo Polidoro sulle pagine del Riformista è sacrosanta. La politica italiana, in larga misura, si è per troppo tempo tenuta a distanza dal tema dell’esecuzione penale e del rispetto dello Stato di diritto nelle carceri. Tale situazione è clamorosamente peggiorata a seguito del governo giallo-verde, sulla base di un programma ideologicamente votato alla carcerizzazione come risoluzione dei problemi della sicurezza del Paese e non è migliorato adeguatamente nel governo di cui pure io sono sostenitore, in particolare, per la perniciosa continuità determinata dalla conferma del ministro Alfonso Bonafede quale guardasigilli. Il principale intervento su questa materia del ministro è stato, fin dall’inizio della legislatura, smontare tutta la riforma dell’esecuzione penale realizzata sotto i governi Renzi e Gentiloni con il ministro Andrea Orlando, costruita in due anni di lavoro massacrante con centinaia di contributi eccellenti, tra i quali proprio quelli dell’avvocato Polidoro. Si tratta, dunque, di un problema generale che, peraltro, ha attraversato nel corso degli ultimi mesi una spettacolarizzazione drammatica, che ha portato anche alle doverose dimissioni del precedente capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, del suo vice e del direttore generale dell’ufficio dei detenuti. Il fallimento di questa gestione è sotto gli occhi di tutti ma, purtroppo, il prezzo lo stanno pagando le persone private della libertà, gli operatori della polizia penitenziaria e i civili che vivono la quotidianità delle carceri. Su questo punto si tratta, innanzitutto, di continuare una battaglia di civiltà insieme a quei soggetti - dall’Unione delle camere penali fino ai radicali - che non hanno mai smesso di ricordare in quali condizioni drammatiche si trovasse il nostro sistema penitenziario. Perché è assolutamente vero che c’è una carenza strutturale nel sistema delle carceri come dimostrano gli esempi citati dall’avvocato Polidoro dal carcere di Santa Maria Capua Vetere fino a Poggioreale, per dire solo della nostra regione - ma il problema di fondo è soprattutto di politica penale, di quante persone e soprattutto di chi finisce in carcere. Possiamo affermare senza tema di smentita che l’attuale configurazione del sistema dell’esecuzione penale non va nella direzione di una piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Ciò comporta un abbassamento della civiltà del nostro Paese, che non ottempera ai doveri di uno Stato che ha in custodia persone private della libertà a seguito di provvedimenti penali, ma anche un abbassamento del livello di sicurezza nel nostro Paese, in quanto non favorisce la diminuzione della recidiva. Il mancato rispetto delle condizioni di vita dei detenuti e delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari, ha quindi degli effetti generali, nonostante l’oblio di tanta parte della politica. La sollecitazione di Polidoro, però, si rivolge anche agli attuali candidati al rinnovo delle presidenze dei Consigli regionali. Tale richiamo è opportuno nella misura in cui le Regioni possono, pur non avendo una competenza diretta sulla gestione del sistema penitenziario, essere soggetti fondamentali per la realizzazione di interventi concreti sul sistema carcerario. Ci sono diversi campi di intervento e proverò qui a illustrarne alcuni. In primo luogo le Regioni, insieme agli enti locali, possono definire dei piani di impiego per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Si potrebbe definire, in accordo con il sistema di imprese, un vero e proprio piano di formazione, per detenuti definitivi o in attesa di giudizio, che li possa sottrarre alla spirale criminale che spesso appare come l’unica alternativa possibile nel momento in cui tornano liberi. Un altro tema fondamentale è quello di rafforzare il sistema sanitario, oggi non più di competenza del Ministero della Giustizia, ma che è direttamente sotto la competenza delle Regioni. Su questo tema è opportuno ricordare che la maggior parte dei detenuti, in particolare quelli comuni, sono soggetti che soffrono patologie conseguenti all’uso di sostanze stupefacenti. In tal senso un rafforzamento dei presidi sanitari e psicologici sarebbe di fondamentale aiuto. Altro tema delicatissimo e quello delle Rems, ovvero delle residenze sanitarie per soggetti affetti da patologie psichiatriche, che sono completamente sotto la responsabilità delle regioni. Anche per queste strutture il ruolo della Regione è assolutamente fondamentale per garantire il buon funzionamento del sistema. Infine le Regioni potrebbero intervenire in maniera molto più determinata per la realizzazione di protocolli di intesa con il Ministero della Giustizia per garantire la massima tutela di quei minori che, purtroppo, sono in carcere con le madri in quanto di età inferiore ai tre anni. A questi bambini, che evidentemente non hanno colpa, non può essere inflitta una vessazione così gigantesca, i cui effetti nella delicatissima età della formazione potrebbero essere devastanti. C’è quindi davvero un grande lavoro da fare e sono convinto, in particolare per la forza che legittimerà la vittoria che io auspico di Vincenzo De Luca, che tale autorevolezza possa essere trasfusa nell’impegno nei confronti di chi non ha voce ma conserva i diritti costituzionali. La sicurezza è un bene che va tutelato proprio aumentando i diritti delle persone, a partire da quelli che deve necessariamente garantire lo Stato. Tre suicidi in un mese tra gli agenti penitenziari. Il Garante: “Assicurare la dignità dei lavoratori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2020 Ad oggi la Polizia penitenziaria non ha ancora un riferimento stabile per il supporto psicologico. Un’attenzione di questo tipo ridurrebbe la conflittualità nella relazione con il detenuto ed eviterebbe il fenomeno di burnout tra i lavoratori all’interno dell’istituto. “Dall’Amministrazione servono segni concreti volti a garantire ambienti rispettosi dei diritti e della dignità dei lavoratori, personale in numero rispondente alle esigenze, una formazione professionale continua”. Così, con una nota, il Garante nazionale delle persone private della libertà esprime vicinanza alla polizia penitenziaria. Tre suicidi in un mese, l’ultimo tre giorni fa. A togliersi la vita una donna Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria, in servizio nella Casa circondariale Pagliarelli “Antonio Lo Russo” di Palermo. Pochi giorni prima altri due operatori di Polizia penitenziaria in servizio nell’Istituto di Latina. Alla luce di questi fatti, il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private delle libertà esprime innanzitutto “vicinanza alla Polizia penitenziaria e ai suoi operatori colpiti da questi drammatici eventi”. Ma esprime anche “profonda preoccupazione per quanto accaduto, quale segnale di un disagio che non è più possibile non leggere”. Afferma il Garante: “Certamente sono molti e diversi i fattori che possono spingere una persona a compiere un gesto estremo come quello di togliersi la vita e volerli ricondurre a un’unica matrice è sempre riduttivo. Tuttavia, sono note le difficoltà del lavoro che la Polizia penitenziaria svolge in prima linea in carcere, in una situazione segnata da una serie di criticità, strutturali, gestionali e numeriche, rese ancora più evidenti in questi ultimi tempi dall’emergenza sanitaria in atto”. Il Garante nazionale nei suoi Rapporti a seguito delle proprie visite agli Istituti penitenziari ha più volte messo in evidenza le criticità legate al personale che vi opera. Pertanto, auspica “che l’impegno, più volte dichiarato dall’Amministrazione penitenziaria e positivamente ribadito anche recentemente, per il miglioramento delle condizioni di lavoro si tramuti a breve in gesti concreti volti a garantire ambienti rispettosi dei diritti e della dignità dei lavoratori, personale in numero rispondente alle esigenze, una formazione professionale iniziale e continua all’altezza dei compiti che Costituzione e Ordinamento assegnano al Corpo di Polizia penitenziaria. E offrendo anche quel supporto necessario a chi svolge un lavoro in prima linea, sottoposto a tensioni e situazioni di forte stress emotivo”. Lavorare all’interno dei penitenziari, infatti, non è semplice. Spesso lo stress da lavoro correlato si manifesta con la percezione di squilibrio avvertita dall’agente quando le richieste dell’ambiente lavorativo eccedono le capacità individuali, al punto che l’operatore penitenziario, nel medio-lungo termine avverte una varietà di sintomi o disturbi che vanno dal mal di testa, ai disturbi gastrointestinali a patologie del sistema nervoso, disturbi del sonno, nevrastenia, sindrome da fatica cronica fino a casi di burnout o collasso nervoso. Resta il fatto che il lavoro delicatissimo svolto dalla Polizia Penitenziaria, non ha ancora oggi un riferimento stabile perle situazioni psicologiche, in tutte le loro varianti. Le iniziative di counseling adottate occasionalmente fino ad oggi, non hanno portato i risultati sperati, riscontrando quale criticità sia il luogo messo a disposizione dalle Asl che vi hanno collaborato, trattandosi di locali inseriti o annessi a strutture ospedaliere, ovvero riserve personali di tipo stigmatizzante, quando i luoghi sono stati reperiti all’interno della struttura penitenziaria, sia pur in ambiente riservato. Un’attenzione psicologica all’agente si rende necessaria perché, oltre ad evitare un aumento pericoloso di conflittualità nella relazione con il detenuto, permette di sostenere la sua personalità. Quest’ultimo è esposto a continui processi di burnout in grado generare conseguenze drammatiche. Ne sono prova i frequenti episodi di suicidio riscontrati ultimamente. Errori giudiziari, ogni anno 8mila innocenti finiscono in carcere. Il risarcimento? Un miraggio di Piero Sansonetti Il Riformista, 26 agosto 2020 Ogni anno in Italia sono circa 8.000 le persone che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione. A 6.000 di queste persone viene risposto: “Niet”. Uso la lingua russa perché, nell’immaginario, la Russia è il paese europeo più autoritario che c’è. E dove lo Stato vessa i cittadini e calpesta i loro diritti. Qui però parlo dell’Italia. Non solo il magistrato italiano che commette l’errore e rovina la vita a una persona non risponde in nessun modo della sua mancanza di professionalità. Anzi, spesso viene premiato. Sia in termini di carriera sia di tripudio giornalistico. Ma il poveretto finito sotto il potere estremo e incontrollato di quel magistrato, quando sarà riuscito ad avere riconosciuta la sua innocenza, non vedrà neppure una lira di risarcimento. In teoria dovrebbe ricevere una mancia di circa 235 euro per ogni giorno passato in cella, e di 115 euro per i giorni ai domiciliari. Ma di solito la magistratura gli risponde: “Non ne hai diritto”. Perché? Perché hai commesso degli errori nel difenderti e quindi hai tratto in inganno il Pm e il Gip. Non è colpa del giudice che t’ha sbattuto in gabbia, è colpa tua che non hai saputo difenderti. Una delle cause più frequenti del rifiuto del risarcimento è l’utilizzazione del diritto a non rispondere, al momento dell’arresto. Uno dice: ma è un diritto o no? Sì, è un diritto, ma un diritto che ti può costare caro. C’è gente che si è fatta anche quattro o cinque anni di ingiusta detenzione, magari con una sentenza di primo grado sbagliata. Avrebbe diritto a circa mezzo milione di risarcimento. Gli dicono: hai sbagliato a non rispondere al giudice, quel giorno: non vedi una lira. Tutto questo, purtroppo è legale. La legge stabilisce così. In Italia il problema non è solo quello degli abusi dei Pm e dei loro amici Gip (specialmente nella carcerazione preventiva) ma è che tutti questi abusi sono protetti, garantiti e resi impunibili da una legge che assegna all’imputato il ruolo di colpevole e al magistrato il ruolo di Dio. Scende il numero dei detenuti in Europa, ma in Italia carceri sempre sovraffollate di Maurizio Stefanini Il Foglio, 26 agosto 2020 Le campagne elettorali spesso battono sulla percezione opposta, ma la verità è che in Europa la criminalità sta riducendosi sempre di più, e anche il numero dei detenuti è sceso a livelli record. Lo attestano i dati Eurostat appena resi noti, secondo cui i 495.000 “ospiti” delle carceri dell’Unione europea nel 2018, 111 per ogni 100.000 abitanti, rappresentavano la più bassa proporzione “dall’inizio del secolo”. Ovviamente la cifra varia poi a seconda dei singoli paesi: dai 230,87 della Lituania ai 53,63 della Finlandia. Con 101,07 l’Italia si trovava 16esima su 27. Tra 1993 e 2012 il numero dei detenuti era aumentato del 24 per cento, fino a 553.000. Poiché nel frattempo la popolazione era aumentata del 4,4 per cento, la proporzione di detenuti era salita da 106 su 100.000 abitanti del 1993 a 126 del 2012. Ma da allora c’è stato un calo del 10 per cento. “Una delle maggiori cause dell’aumento dei detenuti tra 1993 e 2012 era stato un proporzionale aumento di gravi crimini per tutta l’Europa”, spiega il rapporto. In realtà il calo dei crimini degli ultimi anni è in proporzione superiore al calo dei detenuti, perché chi ha ricevuto condanne pesanti allora ovviamente sta ancora dentro. C’è invece un lieve aumento nella proporzione di detenute donne: dal 5 per cento del 2008-13 al 5,2 del 2014-18. Ma col 4,2 per cento l’Italia è al sestultimo posto. Il problema dell’Italia si conferma quello delle carceri sovraffollate, già oggetto di varie condanne europee. Con il 115 per cento siamo infatti i quarti in classifica, dietro al 136 dell’Austria, 121 dell’Ungheria e 117 della Francia. Il rapporto attesta che tra 2008 e 2018 la nostra capacità carceraria è aumentata, e di conseguenza il sovraffollamento tra 2010 e 2015 si è ridotto. Ma c’è ancora. L’Italia spende comunque un decimo di punto più della media dell’Eurozona sia come ordine pubblico in genere (1,8 contro 1,7 per cento) sia nelle carceri (0,2 contro 0,1). L’associazione magistrati della Corte dei Conti boccia il dl semplificazioni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 agosto 2020 La riforma libera i funzionari dalla cosiddetta “paura della firma”. “Eliminando la colpa grave non si accelera nulla”, fa sapere l’Associazione magistrati della Corte dei Conti, secondo cui la cosiddetta “paura della firma” da parte dei dirigenti pubblici andrebbe combattuta “rendendo più chiare le leggi”. “Invece proseguono le toghe - si preferisce lasciare in piedi una legislazione oscura e contraddittoria ma si assicura la totale irresponsabilità di chi deve attuarla”. Nel mirino dei giudici contabili, dunque, il decreto Semplificazioni nella parte in cui esclude che i pubblici amministratori e dipendenti siano chiamati a risarcire danni commessi con “colpa grave” La nuova disciplina del danno erariale, fino al 31 luglio 2021, limita la responsabilità al solo dolo per quanto riguarda le “azioni”. Per le “omissioni”, invece, la punibilità è sia a titolo di dolo che di colpa. Nelle intenzioni del governo, va perseguito con maggiore severità chi non agisce per inerzia o negligenza rispetto a chi compie azioni anche se con errori “formali”. La riforma del danno erariale si accompagna alla modifica del reato di abuso d’ufficio. Nella nuova disposizione dell’art 323 del codice penale, i pubblici ufficiali e incaricati di pubblici uffici risponderanno penalmente solo in caso di violazioni tassativamente elencate e specifiche, eliminando in radice ogni margine di discrezionalità. La norma attualmente in vigore prevede che i pubblici ufficiali siano responsabili per le violazioni di “leggi e regolamenti”, una formula troppo ampia e generica che spesse induce i funzionari a non agire per paura di commettere errori. Il combinato disposto delle due norme dovrebbe, quindi, alleggerire il carico burocratico e migliorare l’efficienza della Pubblica amministrazione. Di diverso avviso i magistrati contabili per i quali l’abolizione della colpa grave incentiverà sprechi e una gestione poco oculata delle risorse pubbliche. Il decreto Semplificazioni consente, infatti, che i danni causati dai dipendenti pubblici per colpa grave non vengano risarciti, gravando così sui contribuenti. L’argomento, è stato affronta questa settimana in una conferenza stampa dal tema “Dl Semplificazioni: rischi e responsabilità per la p. a.”. Secondo il presidente dell’Associazione magistrati contabili Luigi Caso, “non prevedere una conseguenza in caso di violazioni così palesi della legge e del buon senso significa creare un’esimente per un limitato numero di pubblici dipendenti, favorire una selezione al ribasso della classe dirigente, danneggiare i cittadini onesti che rischiano di vedere i soldi prelevati con la tassazione sprecati in opere inutili o incompiute, se non addirittura insicure”. Sotto accusa, poi, anche la nuova disciplina del riequilibrio degli enti locali con misure emergenziali che si porrebbero come derogatorie a una disciplina già frammentata e disorganica: viene, ad esempio, previsto lo spostamento in avanti dei tempi di riequilibrio senza considerare la finalità originaria del dl 174/2012 che è quella di assicurare il risanamento strutturale del bilancio. L’allentamento dei controlli finirebbe per peggiorare inesorabilmente la posizione delle imprese creditrici nei confronti delle amministrazioni locali; “tali imprese, infatti, nell’attesa del soddisfacimento dei loro crediti, ulteriormente ritardato, rischiano problemi di cassa tali da determinarne l’insolvenza con conseguente chiusura delle attività e licenziamento dei dipendenti”. Nel 2019 la Corte dei Conti, a fronte di 28.722 denunce di danno, ha disposto 23.939 archiviazioni e 1.162 citazioni, cui hanno fatto seguito 934 condanne in primo grado. 300milioni la somma recuperata. l testo, 65 articoli, è ora al vaglio delle commissioni Affari costituzionali e Lavori pubblici del Senato. Poi dovrà passare alla Camera. Oggi è già previsto il voto sugli emendamenti: quasi 2.900 quelli presentati, di cui 1.400 di maggioranza. I relatori, i senatori Vincenzo Garruti (M5s) e Valeria Sudano (Iv), puntano a razionalizzare le varie proposte, senza stravolgere il testo. La data ultima per il voto finale è l’11 settembre. Dopo si entra nella settimana che precede le elezioni regionali. I “diritti delle vittime” non valgono se si tratta di vittime dei magistrati di Iuri Maria Prado Libero, 26 agosto 2020 Non ci sono giornali né televisioni che si incaricano di proteggere queste altre vittime, perché giornali e televisioni sono occupati a dar spazio ai magistrati che reclamano il dovere dello Stato di proteggere le vittime: tutte, tranne quelle che fanno loro. Tra le tante stupidaggini che adornano la retorica forcaiola c’è, notoriamente, questa: che nell’amministrazione della giustizia occorrerebbe innanzitutto prestare attenzione ai diritti “delle vittime”. Quest’idea, che purtroppo si accredita tanto facilmente a destra e a manca, è propugnata non solo dai demagoghi di una parte e dell’altra (pazienza), ma con perfetta serietà anche - direi soprattutto - dalle star della magistratura da telecamera. L’idea è sciocca (e la pratica in cui rischia di realizzarsi è barbarica), perché se dovessimo misurare le pene sull’esigenza di giustizia delle vittime finiremmo tutti molto male. Se uno mi ruba un oggetto cui tengo è ben possibile che il mio desiderio sia di caricarlo di botte; se un altro torce anche solo un capello a mia figlia, io se posso gli taglio le palle: ma, in un caso e nell’altro, lo Stato che si intitolasse il potere di fare al mio posto quel tipo di giustizia sarebbe un pessimo Stato. Il che ovviamente non significa che i delitti non debbano essere prevenuti, accertati e sanzionati: significa che nel prevenirli, accertarli e sanzionarli non è possibile fare terra bruciata di diritti altrettanto importanti. Per capirsi: c’è caso che se rastrello a capocchia 350 persone qualche delinquente lo becco e in tal modo proteggo le vittime dei suoi traffici, ma se l’operazione implica la galera ingiusta per decine di innocenti c’è qualcosa che non va. Siamo d’accordo? Ma quella facile retorica sui diritti delle vittime, nonché discutibilissima in sé, appare anche meno decente quando risuona nei proclami del giustizialismo togato. Perché c’è una categoria di vittime verso cui, guarda caso, manca tutto quell’interesse, tutta quella cura, tutta quell’attenzione; c’è una categoria di vittime i cui diritti, stranamente, sono estranei alle propensioni protettive della magistratura editorialista e microfonata. Sono le loro vittime, le vittime della giustizia. Sono i padri di famiglia ammanettati all’alba e sbattuti in galera per settimane, per mesi, per anni, prima del processo che si concluderà con l’accertamento della loro innocenza. Sono le mogli e i bambini che li vedono portati via da un corteo di automobili che finirà nel telegiornale che parla di mafia, di droga, di omicidio, di truffa, di mazzette, i segni distintivi appiccicati per sempre alla vita di quella gente. Le vittime sono i titolari di crediti sfiancati nei processi infiniti, gli imprenditori con le aziende sequestrate incapaci di sollevarsi quando infine la loro ragione sarà riconosciuta, i cittadini ridotti a un nome scolorito sul frontespizio di un fascicolo ricoperto da anni di polvere. “Anni di lusso”. Chiesto il giudizio per Palamara di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 agosto 2020 L’ex consigliere Csm imputato per corruzione con altri due. La Procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. È accusato di corruzione nel periodo in cui fu componente del Csm. “Sette anni di lusso e vacanze pagate”, confessati in una chat. Nei guai anche l’amica. “Quel piccoletto solo guai ci ha combinato”; “Eh, però abbiamo passato sette anni di lusso”; “Pure... dillo pure!”; “Ibiza, Favignana...”. Quello scambio di battute tra Luca Palamara e la sua amica Adele Attisani, registrato un anno e mezzo fa dagli investigatori della Guardia di finanza, racchiude la sintesi dell’accusa definitiva mossa dalla Procura di Perugia che il 18 agosto scorso ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex componente del Consiglio superiore della magistratura. Palamara è ora imputato di corruzione per l’esercizio delle funzioni (con Attisani nel ruolo di “istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità”) in cambio di viaggi, soggiorni e lavori di ristrutturazione e manutenzione in casa della donna per almeno 68.000 euro pagati dall’imprenditore Fabrizio Centofanti (“il piccoletto”). Sotto la richiesta di processare Palamara e gli altri due imputati dello stesso reato, firmata dai pubblici ministeri Gemma Miliani e Mario Formisano c’è il visto del neo-procuratore Raffaele Cantone; i fatti contestati vanno dal 2014 al 2017, quando l’ex pm faceva parte dell’organo di autogoverno dei giudici, e l’accusa ha indicato come “persona offesa” il ministero della Giustizia. Spetterà ora al Guardasigilli Alfonso Bonafede decidere se costituirsi parte civile contro il magistrato, nei confronti del quale aveva avviato, lo scorso anno, l’azione disciplinare. Palamara è imputato anche di rivelazione di segreto per aver indotto l’ex componente del Csm Luigi Spina a informarlo delle indagini a suo carico, nel maggio 2019. Spina, dimessosi dal Consiglio proprio a seguito di questa inchiesta, ha proposto di chiudere la partita giudiziaria con una richiesta di “messa alla prova”, in modo da sospendere il processo e arrivare alla estinzione del reato; la Procura ha ritenuto legittima la richiesta, riservandosi di esprimere il proprio parere davanti al giudice che dovrà decidere. Imputato di favoreggiamento l’agente di viaggi Giancarlo Manfredonia, per aver consegnato agli investigatori “documentazione artefatta” sulle vacanze organizzate da Centofanti, al fine di “eludere le investigazioni”. A quattro mesi dalla chiusura delle indagini, il “caso Palamara” arriva dunque a una prima conclusione. Resta ancora aperta l’altra inchiesta nella quale l’ex componente del Csm è indagato per corruzione in atti giudiziari, in favore di altri due amici imprenditori. L’imputato-indagato continua a dichiararsi estraneo ad ogni reato, soddisfatto perché rispetto alle accuse mossegli un anno fa è caduta quella di aver intascato 40.000 euro per favorire la nomina di un procuratore a Gela. Tuttavia, tra le “fonti di prova” delle contestazioni rimaste ci sono gli atti del Csm relativi all’elezione di altri due procuratori (di Trani e di Matera) e ai procedimenti disciplinari nei confronti di sei giudici, nei quali evidentemente la Procura ritiene di aver individuato un ruolo svolto dall’ex consigliere. Ma al di là del procedimento penale, la sfida più importante per Palamara resta il processo disciplinare che s’è incardinato al Csm prima della pausa estiva. Lì il magistrato rischia la radiazione dall’ordine giudiziario per aver tentato di pilotare dall’esterno del Consiglio (assieme ai deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti), la scelta del procuratore di Roma nel 2019. E per difendersi ha chiamato a deporre 133 testimoni, allo scopo di dimostrare che gli accordi tra correnti togate e referenti politici non furono una sua manovra illegittima bensì una prassi abituale. Disdicevole quanto si vuole, ma abituale. Diffamazione aggravata se il post su Facebook lede la reputazione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2020 Commette il reato di diffamazione aggravata, ex articolo 595 comma 3 cod. pen., la persona che, attraverso la pubblicazione di un post su Facebook, accusa l’ex partner, in maniera non del tutto corrispondente alla realtà, di far mancare al proprio figlio i mezzi di sussistenza, facendolo così apparire a un numero indeterminato di potenziali utenti del social network come una persona incurante della vita del minore. Ad affermarlo è il Tribunale di Campobasso con la sentenza n. 574/2019. La vicenda - La decisione si riferisce a un post pubblicato sulla propria bacheca Facebook da una donna che offendeva il suo ex compagno, accusandolo sostanzialmente di trascurare il figlio avuto da lei e di sperperare i propri soldi. A ciò aggiungeva altri commenti in cui, in sostanza, paragonava all’ex partner il suo nuovo compagno, elogiando quest’ultimo perché si prendeva cura di un figlio non suo. Il post veniva condiviso da molti utenti e riceveva tanti commenti, al punto da spingere il destinatario delle accuse a sporgere querela per diffamazione aggravata. In particolare, sotto tiro finiva l’espressione “non passi un euro a tuo figlio”, che secondo il padre del minore ledeva la sua reputazione. Dinanzi al giudice la donna riteneva di avere sostanzialmente affermato la verità, mentre l’uomo riconosceva di aver saltato il pagamento di sole cinque mensilità dell’assegno di mantenimento e che aveva addirittura chiesto al Tribunale di modificare le condizioni di affidamento del minore, al fine di ottenerne l’affidamento esclusivo. La decisione - Il Tribunale ritiene l’affermazione contenuta nel post effettivamente diffamatoria, in quanto non totalmente veritiera e rappresentativa della realtà. Il contenuto delle frasi pubblicate e visibili alla moltitudine degli utenti del web tendeva, infatti, a fornire una figura del padre come assente della vita del figlio e incurante dei suoi bisogni, con il suo ruolo che era di fatto sostituito dal nuovo compagno dalla madre del minore. Per il giudice si tratta di affermazioni non fedeli alla realtà dei fatti che, pubblicati su una piattaforma pubblica come quella di Facebook, hanno creato un pregiudizio alla reputazione del querelante, “minandone la considerazione sociale, con una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”. Campania. Carceri vetuste che andrebbero chiuse di Viviana Lanza Il Riformista, 26 agosto 2020 Cos’è lo spazio del carcere? Dovrebbe essere la missione e la pena, ma finisce sempre più spesso per essere solo la pena, se non addirittura una pena aggiuntiva rispetto alla condanna stabilita dalla giustizia. E la missione rieducativa passa in secondo piano, se non addirittura scompare. Lo spazio del carcere, quindi, andrebbe rivisto, sia in quanto forma che sostanza, sia esso espressione della funzione di rieducazione o espressione della limitazione della libertà. Andrebbe rivisto anche come spazio fisico, nonché come spazio sociale perché segna la distanza tra il carcere e la città in cui ha sede, tra il popolo dei reclusi e i cittadini che sono fuori. La Campania è tra le regioni italiane con il più alto numero di carceri: ben 15 sparse su tutto il territorio regionale, tra le quali Poggioreale che è indicato come il più grande penitenziario d’Italia, forse anche d’Europa, e sicuramente il più affollato. La Campania, dunque, è una sorta di fortino detentivo e si colloca al secondo posto in Italia per l’alto livello di sovraffollamento nelle celle. Lo spazio delle carceri campane, a leggere statistiche e report, è uno spazio che risponde a logiche architettoniche antiche e genera per questo grossi limiti fisici e culturali. Basti pensare che la casa di reclusione di Aversa fu la sede del primo manicomio giudiziario d’Italia e sorge in un edificio dell’Ottocento, antico convento di san Francesco. Il carcere di Eboli, che attualmente è una struttura a custodia attenuata per il trattamento delle dipendenze da alcol e droghe, trova spazio in un castello medievale. Vallo della Lucania è un carcere piccolissimo, di sole dieci celle in un edificio vetusto. Pozzuoli, che è il carcere femminile di Napoli, sorge in un edificio del Quattrocento che un tempo ospitava un convento di frati. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere risale al 1996, ma da allora ha problemi idrici. Per il resto, tra i penitenziari di Napoli e delle altre città campane ci sono problemi di riscaldamento, acqua calda e bagno nelle camere detentive. Il 22% delle strutture campane non ha docce nelle celle, il 37% delle carceri non prevede il bidet in camera, e nel 16% delle celle non c’è acqua calda. Ci sono, inoltre, carceri che non hanno aree verdi, altri senza laboratori e officine di lavorazione, e altri ancora che non hanno una ludoteca né spazi per gli incontri dei detenuti con i figli minori. Quanto a Poggioreale, il carcere più grande e più affollato, sorge nella prima cinta della periferia, a poca distanza dal centro di Napoli, a ridosso della zona della Stazione centrale e della city con gli uffici ma, per certi versi, sembra un mondo a parte. La struttura risale al 1918 e, nonostante alcuni lavori di ammodernamento e ristrutturazione eseguiti negli anni, è un carcere vecchio. I 12 milioni di euro stanziati per rimettere a nuovo quattro padiglioni dovrebbero essere sbloccati nei prossimi mesi dopo uno stallo durato anni e denunciato dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Gli spazi, nel complesso, per come furono concepiti oltre un secolo fa e ancora resistono, non rispondono alle moderne concezioni di carcere e di pena, che sono poi quelle più rispondenti ai principi della Costituzione e alla linea indicata dall’Europa che più volte ha bacchettato l’Italia per la questione carceri. “Poggioreale andrebbe chiuso, dovrebbe diventare un museo - osserva Luigi Romano, presidente di Antigone Campania - L’architettura carceraria fa molto e l’attuale edilizia penitenziaria è un problema perché abbiamo carceri vecchissime. L’architettura di un penitenziario testimonia il modo con cui si concepisce la pena e la maggior parte delle strutture non è pensata per favorire attività trattamentali, oltre ad avere carenze che richiederebbero importanti interventi di manutenzione e ristrutturazione”. Mettere al centro del carcere la sua funzione riabilitativa significa, dunque, ripensare al carcere anche sotto l’aspetto architettonico. Del resto è ormai pacifico che lo spazio ha un ruolo fondamentale e lo spazio in cui si vive condiziona l’individuo. Se veramente si vuole un carcere che favorisca la rieducazione e non solo la restrizione, che riduca le recidive e aumenti il senso di sicurezza nei cittadini, servono anche strutture architettonicamente adeguate. “Attenzione - conclude Romano - Se si vogliono costruire nuove carceri bisognerà chiudere quelle vecchie, altrimenti saremo punto e daccapo”. Campania. “Vi racconto lo squallore delle carceri, dove rieducare è utopia” di Viviana Lanza Il Riformista, 26 agosto 2020 Parla Pietro Ioia: “Così la reclusione non potrà mai funzionare, necessarie strutture per non più di 300 ospiti”. Viaggio nel degrado del padiglione Milano, a Poggioreale, tra muri che si sbriciolano e stanze piene fino all’inverosimile. Padiglione Milano, carcere di Poggioreale. L’intonaco si stacca dal soffitto rovinato da muffa e umidità e finisce sul fornello che i detenuti usano per cucinare un pasto caldo. Se non si sta attenti, finisce anche nella pentola e il cibo è da buttar via. In una cella hanno usato delle buste di plastica per creare una sorta di rete in modo da contenere la caduta dell’intonaco, ma non durerà molto. Poco distante ci sono celle con i letti a castello a tre piani. Chi dorme più in alto è a pochi centimetri dal soffitto e la muffa ha la sensazione di averla addosso. Sulle pareti c’è muschio, l’odore alla lunga è nauseabondo. Qualche rubinetto perde acqua e il rumore della goccia che cade ripetutamente, sempre sullo stesso punto del lavandino ingiallito, riesce a diventare un rumore assordante. La sveglia suona alle 7,30 per la conta. Dalle 9 alle 11 si può passeggiare all’aperto, ma di questi tempi vuol dire passeggiare sotto il solleone su un pavimento di cemento rovente. Chi vi rinuncia non ha molte alternative. Le attività trattamentali non sono disponibili per tutti. Anzi, vista la sproporzione tra numero di detenuti reclusi nelle celle e numero di educatori in servizio nel carcere, le attività di formazione o rieducazione sono un’opportunità solo per un piccolo numero di detenuti. Stare in cella vuol dire vivere in una sorta di perenne penombra. Nelle camere di detenzione la luce del sole fa fatica a entrare, le sbarre agevolano le zone d’ombra. E per gran parte della giornata l’unica luce che illumina celle e corridoi è la luce fredda dei neon. È un tipo di luce a cui l’occhio può anche abituarsi, ma la mente no, fa fatica ad accettarlo. La luce fredda scandisce i ritmi di giorni tutti uguali. E dopo la passeggiata del primo pomeriggio la giornata in carcere può dirsi finita. Si sta in cella a far nulla, aspettando il sonno e la notte. C’è chi in queste condizioni vive qualche mese, chi un anno, chi molti anni. Che persone si diventa dopo tanto tempo passato in queste condizioni? Le statistiche dicono che nel 68% dei casi chi esce dal carcere torna a delinquere. Non è una percentuale incoraggiante. “Il problema è che il carcere, così come è strutturato, non può funzionare, si è rivelato un fallimento”, commenta Pietro Ioia. Ioia è il Garante dei detenuti di Napoli. In passato è stato in carcere, ha conosciuto cosa significa la reclusione in un carcere grande e sovraffollato. È stato un anno in un carcere a Barcellona e diverso tempo nel carcere di Poggioreale. “Dopo una circolare europea il carcere spagnolo fu chiuso, Poggioreale invece ancora ospita 2mila detenuti a fronte di una capienza di poco più di mille e 600 - dice Ioia. Non dovrebbero più esistere carceri da migliaia di detenuti ma da 300, solo così è possibile intraprendere seri percorsi di rieducazione”. La sua è una storia di riscatto, è la storia di chi ritrova la via della legalità e la persegue. “Nessuno mi ha aiutato, qualcosa in me è scattato e ce l’ho fatta - racconta. Ma non va così per tutti. Dare una seconda opportunità a chi è stato in carcere è l’unico modo per sottrarre braccia al crimine. La politica dovrebbe impegnarsi per questo. Si potrebbero, per esempio, prevedere incentivi fiscali per le aziende che assumono ex detenuti. Serve creare un circolo virtuoso”, aggiunge Ioia descrivendo l’inferno di molte carceri campane e italiane, i drammi che crea il sovraffollamento, l’invivibilità di celle in strutture vecchie e fatiscenti, il vuoto della pena fine a sé stessa e il vuoto sociale in cui si precipita quando si esce dal carcere. Due giorni fa gli è arrivato un messaggio vocale. “Mi hanno preso di nuovo... non ce l’ho fatta a stare senza soldi... mi dispiace”. In queste poche parole c’è la sintesi di un destino che si ripete, dell’alternativa che non c’è, di alibi e omissioni, di un carcere che non rieduca e di una società che non riesce a occuparsi di quelli ai margini. È la storia di un 37enne napoletano, finito di nuovo in cella per reati di droga. Ma potrebbe essere la storia di chiunque. Rovigo. Due detenuti su un tetto per protesta, in carcere rischio evasione rientrato di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 26 agosto 2020 Situazione risolta con la mediazione del magistrato di sorveglianza. Condizioni del carcere inaccettabili e richiesta di trasferimento per un egiziano sulla trentina, volontà di andare ai domiciliari per un italiano sulla cinquantina. Questi i motivi che ieri, verso le 13, hanno spinto due detenuti a Rovigo entrambi con condanna definitiva, l’italiano per reati contro il patrimonio e l’egiziano per spaccio, a salire sul tetto di una struttura interna per la prima protesta di questo tipo nella Casa circondariale inaugurata quattro anni e mezzo fa. I due sono saliti su una rete metallica e si sono arrampicati fino al solaio della struttura, alta circa 8 metri e poco distante dal muro di cinta che guarda la Tangenziale. L’iniziativa non ha attecchito con gli altri detenuti, rimasti nelle loro celle ma a protestare sbattendo oggetti sulle sbarre e urlando perché i due detenuti li avrebbe privati dell’ora d’aria. Sul posto personale della Questura e dei carabinieri, a presidiare ogni lato del carcere per scongiurare tentazioni di evasione. I due avrebbero minacciato di gettarsi giù se il magistrato di Sorveglianza di Padova non fosse arrivato a Rovigo a sentirli. Richiesta esaudita con l’arrivo del giudice che ha avviato una mediazione proseguita fino alle 17.30 ovvero quando sono intervenuti con una gru i vigili del fuoco. I due detenuti hanno cessato la protesta e sono scesi, continuando a interloquire col magistrato. La loro posizione è ora al vaglio del Pm di turno Sabrina Duò, ma da parte dei due non risulterebbe violenza o di resistenza a pubblici ufficiali. Sull’accaduto il coordinatore regionale degli agenti penitenziari della Cgil, Gianpietro Pegoraro. “L’episodio mostra il fallimento di tutto il sistema penitenziario - spiega. Bisogna ripartire da dove aveva lasciato l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, che con la sua riforma allargava i benefici per i detenuti, ad esempio con le misure alternative al carcere”. Reggio Calabria. “Favori ai clan”, arrestata l’ex direttrice del carcere di Alessia Candito La Repubblica, 26 agosto 2020 Per la procura antimafia avrebbe elargito concessioni ai boss detenuti nel penitenziario di San Pietro. La conoscevano come funzionaria integerrima, scrupolosa, puntigliosa nell’osservare regole e procedure. Ma ieri mattina, della direttrice della sezione femminile di Rebibbia Maria Carmela Longo, chi con lei nell’ultimo anno ha lavorato ha scoperto un’altra storia e un’altra faccia. Per i magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria che la accusano di concorso esterno e per questo per lei hanno chiesto e ottenuto i domiciliari, è stata la Longo ad aver garantito favori, elargito concessioni, permesso incontri e regolari eccezioni alle regole a boss di clan storici, detenuti nel carcere di San Pietro. Il più grande della città calabrese dello Stretto, uno dei più importanti di tutta la Calabria, dove dietro le sbarre finiscono spesso i pezzi da novanta dei clan imputati nei processi che si celebrano in città. Quelli che è bene che passino direttamente dalla cella all’aula bunker che alla casa circondariale è collegata. Maria Grazia Longo lo ha diretto per 15 anni. Un’eternità, si vantava lei negli anni scorsi, quando su sua richiesta stava per prendere servizio a Rebibbia. Nessuno dei suoi predecessori - sottolineava- aveva retto tanto alla guida del medesimo incarico. Ma per i pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro è proprio in quegli anni che gregari, luogotenenti e generali delle più importanti cosche cittadine hanno goduto di un regime privilegiato. Il capo di imputazione è sintetico. Quasi asettico. La procura di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri avrebbe scoperchiato “una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria” e la Longo avrebbe contribuito “al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico”. Ma l’inchiesta parla di detenuti che avrebbero dovuto essere trasferiti rimasti in cella, di relazioni funzionali a scarcerazioni o regimi meno restrittivi garantite da certificati medici opinabili, di inspiegabili permessi e incontri garanti agli uomini dei clan. C’è tutto questo nell’ordinanza firmata dal gip di Reggio Calabria, Domenico Armaleo, ma nel fascicolo d’indagine potrebbe esserci molto di più. Secondo indiscrezioni, sotto inchiesta sarebbero finiti anche diversi agenti penitenziari che negli anni hanno lavorato alle dipendenze della Longo e avrebbero collaborato o taciuto sul regime di favore concesso a piccoli e grandi boss. Legali no, al momento non ne risultano coinvolti, ma fonti investigative suggeriscono che qualche indizio c’è. Tutto da sviluppare, da verificare. Se la Longo si aspettasse di essere scoperta non è dato sapere. Ma chi la conosce e con lei ha lavorato gomito a gomito, racconta di un agosto passato in ufficio, di settimane di nervosismo e tensione e di una sempre più manifesta voglia di tornare a Reggio Calabria. Eppure era stata lei a decidere di concorrere per quel posto da direttrice della sezione femminile del carcere di Rebibbia, che con l’esperienza e le qualifiche accumulate ha ottenuto senza difficoltà. “Ho bisogno di nuovi stimoli” spiegava a chi glielo chiedesse, quasi stupito per quella scelta che i più consideravano un passo indietro in carriera. Una decisione curiosa che adesso inizia a sembrare una fuga. Dalle indagini. O da un pantano di favori, piccoli e grandi illeciti, volute miopie magari diventate troppo rischiose. E che i magistrati hanno scoperto. Napoli. Salvini a Secondigliano, polemiche sulla frase contro i Garanti dei detenuti di Antonio Sabbatino internapoli.it, 26 agosto 2020 Una visita alla Polizia penitenziaria e ai suoi delegati sindacali del carcere Pasquale Mandato di Secondigliano nel corso della quale pronuncia una frase piuttosto pesante. “I Garanti dei detenuti hanno rotto le palle”. Il segretario della Lega Matteo Salvini non usa mezzi termini per definire l’opera e l’impegno dei rappresentanti napoletani e campani di chi è in carcere. L’arrivo alla Casa Circondariale di via Roma verso Scampia dell’ex Ministro dell’Interno per incontrare gli agenti della penitenziaria, che denunciano poche unità lavorative a disposizione del servizio di controllo delle carceri e pochi strumenti di difesa in caso di rivolte (come accaduto nei mesi scorsi in alcuni istituti penitenziari italiani con i detenuti preoccupati di non essere sufficientemente tutelati dal rischio Covid) questa mattina poco dopo le 10, nell’ambito di una serie di appuntamenti in Campania per tirare la volata alla Lega in vista delle regionali del 20 e 21 settembre. Nessun contatto, invece, con gli ospiti delle celle del carcere. Le reazioni - A diffondere le parole di Salvini, pronunciate durante il colloquio con la penitenziaria una nota stampa dell’ex sindaco di Quarto per il Movimento 5 Stelle Rosa Capuozzo, ora passata alla Lega dove è candidata alle regionali. La frase suscita immediatamente lo sdegno di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. “Un ex ministro degli Interni che si esprime con questo attacco volgare e scomposto non merita alcun commento di chi nella Costituzione e nelle Istituzioni ci crede. Lui ha una concezione barbara del diritto e del garantismo”. Storce il naso anche il garante dei detenuti del Comune di Napoli, Pietro Ioia. “Noi garanti conosciamo benissimo la situazione numerica degli agenti di Polizia municipale nelle carceri. Non c’è bisogno della visita di Salvini, fatta solo per mera campagna elettorale. Il senatore, oltre a dare solidarietà agli agenti, parli anche con i detenuti per comprendere le loro esigenze”. Le dichiarazioni di Salvini e dell’Uspp - Ai giornalisti assiepati all’esterno del carcere, Salvini dirà. “Qui gli unici ad avere problemi sono gli agenti, con i quali mi schiero. Non i detenuti che sono a due in una cella e si trovano in un carcere all’avanguardia dove possono svolgere diverse attività come seguire i corsi di scuola media e superiore, universitari e laboratoriali”. Tra i temi trattati durante il confronto con la Polizia penitenziaria l’opportunità di dotare gli agenti del taser. Si tratta della pistola elettrica da utilizzare come deterrente alle eventuali aggressioni. “Sulla carta al carcere di Secondigliano figurano 1000 agenti penitenziari ma ne lavorano effettivi 600. I 350 del Nucleo Penitenziario dislocati altrove non sono mai tornati qui. Sono tanti anni che oramai non vediamo nuovi agenti arrivare al carcere di Secondigliano”. A dirlo è Massimo Manzoni dirigente del sindacato Uspp e presente alla visita di Salvini stamane. Napoli. La pizzeria “Brigata Caterina” nel carcere di Poggioreale di Salvatore Tuccillo Metropolis, 26 agosto 2020 La pizza può anche cambiare la vita. Nel senso che può incidere nelle scelte personali e dare una svolta decisiva alla propria esistenza. È ovvio che stiamo parlando di pizza come lavoro, o più correttamente del mestiere di pizzaiolo. Oggi, al pari degli chef, molti pizzaioli sono delle vere e proprie star e passano più ore a farsi intervistare in tv o a fare i consulenti, che al forno delle pizze. Ma un tempo, impastare ed infornare, era un lavoro di ripiego per chi non aveva studiato o imparato un mestiere meno pesante. Ai nostri giorni, invece, può essere anche occasione di riscatto sociale. La lezione arriva dalla nostra terra, precisamente dalla Casa Circondariale “Giuseppe Salvia”, conosciuta come carcere di Poggioreale. Qui il 14 luglio è stata inaugurata la pizzeria “Brigata Caterina” dove lavorano detenuti che preparano le pizze per gli altri reclusi e per le guardie penitenziarie. L’iniziativa, nata dalla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e la diocesi di Napoli come progetto sperimentale, finanziato dalla Cassa delle Ammende e coordinato da Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi, oltre a dare la possibilità ai detenuti ed al personale del penitenziario di poter acquistare la pizza, ha lo scopo di formare e avviare al lavoro quei reclusi che vogliono rimettersi in gioco e fare altre scelte di vita. In particolare, con la realizzazione di un laboratorio artigianale di pizzeria e friggitoria, dentro il carcere di Poggioreale, si vuole promuovere la formazione delle figure professionali connesse a questi mestieri per arrivare ad una qualifica professionale con relativo avviamento al lavoro. Ma questo progetto, caldeggiato dal cardinale Sepe e condiviso dal direttore del carcere Carlo Berdini, non a caso vede la firma di Antonio Mattone. Mattone è anche il portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli ed oltre ad essere, come volontario, un frequentatore abituale di Poggioreale e autore del libro sulla condizione carceraria, “E adesso la palla passa a me”, è l’organizzatore instancabile dei pranzi di Natale per i poveri e per i reclusi di tutta la Campania. Insomma uno di quei volontari di Sant’Egidio che hanno messo sempre il buon cibo in relazione alla solidarietà. Dai tempi dell’iniziativa che ha coinvolto i ristoranti della costiera, “Food for Life” che vedeva il contributo di un euro, per ogni piatto venduto, alla lotta all’aids in Africa. Se il giudice diventa un “burocrate creativo” recensione di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 26 agosto 2020 “Il potere dei più buoni e altre sconvenienze”, edito dalla casa editrice Mimesis, con presentazione a cura di Gaetano Insolera e prefazione di Alessandro Barbano, è l’ultima fatica di Lorenzo Zilletti, avvocato penalista presso il Foro di Firenze e responsabile del Centro Studi Aldo Marongiu dell’Unione Camere Penali. Si tratta di un libello contenuto nelle dimensioni ma ricco di inventiva e di invettiva, la cui scrittura appassionata e abrasiva e lo stile cinico e lucidamente disincantato, gli consentono di rientrare a pieno titolo nel genere del pamphlet, almeno per come lo avrebbero inteso nella Francia del XVIII secolo, unendo impegno civile e ironia. Sullo sfondo il (mal) funzionamento del sistema penale, in particolare delle sue vicende processuali, caratterizzato da quel grottesco “rovescio comico della terribilità” che accompagna il lettore dall’inizio alla fine della lettura. Dall’abuso sistematico delle intercettazioni telefoniche (e non) che spesso sconfina nella diffusione di materiale penalmente irrilevante sui media nazionali - fenomeno così ben descritto ricorrendo all’espediente narrativo di “dieci conversazioni che vorrebbero restare riservate” e raccontando l’episodio di un praticante inesperto convinto in buona fede che un pm non possa mai violare nella prassi la sacralità del segreto istruttorio - passando per una tragicomica riproposizione in salsa italiana del processo a Dominique Strauss-Kahn, in cui l’avvocato fiorentino ha immaginato come sarebbe andata a finire se avessero processato l’ex ministro dell’Economia francese nella penisola invece che oltreoceano. L’ironia, come già detto, non manca e d’altra parte il principio di legalità penale e processuale è definito, nel suo irresistibile “vocabolario semiserio” - a cui è dedicata una sezione della seconda parte -, come “materia di studio nei corsi di laurea in archeologia”. Non a caso è proprio a questo principio che Zilletti dedica tutta la parte finale del suo pamphlet, o meglio, ne celebra l’amaro funerale. Non solo a causa di un legislatore sempre più sciatto, incapace e schiavo del populismo penale, ma anche e soprattutto per via di chi applica, o dovrebbe applicare, le leggi: il giudice. Per l’autore l’organo giudicante è ormai divenuto un “burocrate creativo” che, abbandonata la sua naturale funzione di arbitro, e quindi di decisore terzo ed imparziale, ha deciso di sfidare il principio di legalità creando nuove norme, aggirandosi “disinvolto nel labirintico sistema multilivello delle fonti fabbricando la regola secondo le proprie preferenze politiche e culturali”. D’altronde il titolo è eloquente, non c’è spazio per le illusioni: non esistono poteri buoni. Lo disse anche De André che “certo bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni” e lo ha scritto, seppur diversamente, anche Elias Canetti - studioso più volte citato da Zilletti, insieme ai suoi maestri Italo Mereu e Massimo Nobili, cui dedica diverse pagine all’inizio dell’opera: “solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, egli si annovera tra i buoni”. Da non perdere. *Presidente Associazione Extrema Ratio Siamo tutti belve, ma è l’umanità a renderci uomini di Gioacchino Criaco Il Riformista, 26 agosto 2020 Umanità, usiamo spesso il termine per contrapporre il bene al male, attribuendo bontà all’uomo. Sappiamo che è l’uomo l’essere capace di sprigionare il più male possibile, che è quello inutile, prodotto per banale malvagità. In natura si uccide, si sbrana, tutto per vivere, sopravvivere: gli animali non torturano per il gusto di farlo, per godere del dolore altrui. Le ecatombi inutili sono un fatto residuale, imposto dalla natura, mai scelto per piacere: una faina entra in un pollaio, ammazza tutti i polli quando gliene basterebbe uno, è il killing surplus, una condanna patologica imposta. Un uomo rapina una famiglia in una casa e dopo aver preso i soldi si diverte a fare supplizi. Umanità sta per la parte migliore dell’uomo, si contrappone alla disumanità che è la scelta del male: le patologie, i bisogni incontrollabili non sono scelte, solo costrizioni. In un mondo disumano che porta i disperati su barche senza motore per lasciarli alla deriva, che non ci perde un minuto né una lacrima su quarantacinque morti affondati, che insegue col morbo persecutorio ogni piega trascorsa di Viviana e Gioele. L’umanità la dobbiamo cercare a lembi, negli eventi minimi. E ci sta tanta umanità al Sud, nei supermercati che chiudono dalle 13 alle 17 e mandano tutti a riunirsi a tavola e dopo scegliere tra il riposo e il mare. Ci sta tanta umanità nel Mediterraneo con le donne che tirano fuori le sedie, sui ballatoi delle rughe, e si mettono a parlare le une in faccia alle altre. C’è tanta umanità di vecchi sotto l’ombrello dei carrubi che spadroneggiano nelle piazze. L’umanità vince perfino fra le bestemmie dei giocatori di carte che escono dal bar. C’è umanità, anche se non la si vorrebbe riconoscere, negli uomini feroci: nelle gambe di Graziano Mesina che vuole morire libero sulla sua montagna. Nel petto di Cutolo che vorrebbe smettere di sollevarsi fra i suoi cari. C’è una umanità che potrebbe affogare il mondo nella coda tranciata dall’uomo di Codamozza, la balena che con una coda ormai solo immaginata continua a nuotare per non andare a fondo. L’umanità, quella più vera, migliore, che è meglio dire animalità: è la scintilla che ci dà anima a tutti, che tutti siamo bestie e uomini. È la fiaccola che corre nei boschi, tenuta in pugno da M49, un orso che non si rassegna al dominio dell’uomo, convinto che un Dio ci ha animato con lo stesso amore, ci ha fatto uguali, a ognuno ha dato uno spazio e non ci sia un diritto di vita e di morte che non sia un’ultima e estrema ragione. Gli ultimi, più importanti, brandelli di umanità di questa estate che non svela il disegno dell’autunno, stanno nella sua resistenza. Nella voglia di libertà di M49, un orso che sa farsi beffa delle prigioni umane, che si strappa il collare per far perdere le proprie tracce a un’umanità in affanno, prigioniera della sua arroganza smisurata. Migranti. Faraone: “Ho denunciato Salvini e Musumeci. La Sicilia va difesa dagli sciacalli” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 26 agosto 2020 Davide Faraone, Italia Viva: “L’ordinanza del governatore è uno show di cattivo gusto: urlare che i migranti infetti sono tra i turisti, come fa il leader leghista, è falso e danneggia l’economia dell’Isola”. In Sicilia lo scontro politico cede il passo alla magistratura. Il governatore Musumeci prova a bloccare l’accoglienza dei migranti tra i quali (pochi, invero) casi di positivi al virus e la battaglia diventa un conflitto istituzionale per il quale Regione Sicilia e governo centrale si fronteggiano a suon di carta bollata. Musumeci emette un’ordinanza di sgombero dei centri di accoglienza, il governo non la impugna ma nemmeno le dà seguito. “Ci rivolgiamo alla magistratura - ha detto il governatore siciliano - ed è triste constatare come due articolazioni dello Stato, governo centrale e regionale, debbano ricorrere alla magistratura per riaffermare un principio sacrosanto che è il diritto alla salute”. Per non essere da meno, il senatore siciliano Davide Faraone, Italia Viva, gli risponde con lo stesso mezzo e va in Procura, dove denuncia Salvini - che va su tutte le furie e lo epiteta come “un poveretto” e Musumeci per procurato allarme. Una iniziativa inedita: la prima volta di un garantista che a dispetto del primato della politica, rimette la decisione all’amministrazione giudiziaria. Il Riformista gliene chiede conto. Ha denunciato Musumeci e Salvini. Perché? Io difendo la mia Sicilia da un’opera di sciacallaggio di Salvini a cui si sta prestando Musumeci. L’ordinanza che ha firmato il presidente della Regione è solo uno show di cattivo gusto. Le parole di Salvini secondo cui a Lampedusa i migranti passeggiano con i turisti, che poi portano il coronavirus al Nord, sono un danno incalcolabile per quell’isola bellissima, per tutta la mia terra che vive di turismo e che sta tentando di rialzarsi ed evitare che l’economia chiuda bottega per sempre. Io contesto questo. Il fatto che ordinanze farlocche e parole tipo “lazzaretto” o “campo profughi” riferite alla Sicilia creano danni economici incalcolabili e chi le pronuncia o chi utilizza la sua carica per firmare atti che non hanno alcuna forza di legge, sta facendo male ai siciliani. Non c’è politica in tutto questo. Sì, ma come è nata l’idea di rivolgersi alla magistratura per affrontare una questione politica? Renzi era d’accordo con lei su questo iter? Lega e FI la accusano di usare i magistrati per colpire gli avversari, contraddicendo il garantismo di Italia Viva... Voi credete che firmare una ordinanza finta o urlare in una diretta Facebook che a Lampedusa i migranti infetti passeggiano con i turisti rientri nel campo della politica? Lo credete davvero? Non pensate che tutto ciò ormai con la politica, con la gestione del bene comune, con la salvaguardia della salute dei cittadini, dei posti di lavoro non c’entri più nulla? Io lo penso. E per difendere l’economia della mia Sicilia non posso che far ricorso alla giustizia. Questo è garantismo. Perché il garantismo non funziona solo per chi ha una poltrona in Parlamento. Il garantismo è anche fare una battaglia affinché l’albergo o il ristorante di Lampedusa non chiudano la saracinesca per colpa di una becera propaganda e dell’inefficienza della Regione. Esiste un problema di gestione dei migranti, diciamocelo. La Sicilia ne accoglie per forza di cose più di altri... Certo che esiste. L’ho ripetuto migliaia di volte in questi giorni. A me di Musumeci, che vuole solo accattivarsi le simpatie di Salvini, fregandosene dei siciliani, non m’importa un tubo. Ciò che mi interessa è dare una mano ai sindaci di frontiera. Perché sono loro quelli che si trovano a gestire un’emergenza enorme, non possono più permettersi giochini politici e ordinanze farlocche. Hanno di fronte una realtà che è ben più grave delle dispute ideologiche e della propaganda. Le Regioni sul Covid in ordine sparso. Un problema di riequilibrio dei poteri... Un problema grande quanto una casa. L’avevamo detto e scritto nel 2016 e la nostra riforma, bocciata con il referendum, agiva per eliminare un federalismo sanitario che aveva provocato storture, differenze di prestazioni da Nord a Sud, 20 sistemi sanitari diversi, dove ci sono regioni che erogano dei servizi che altre non offrono. Che giudizio dà di Musumeci? È uno che sventola ordinanze farlocche in diretta Facebook. Fa solo demagogia, chiuso nella sua torre d’avorio. Francia. Dieci anni fa la morte di Daniele Franceschi nel carcere di Grasse noitv.it, 26 agosto 2020 La madre Cira Antignano dichiara di non arrendersi ancora e di essere disponibile a tornare in Francia, unitamente all’avvocato Lasagna, per parlare con gli inquirenti francesi, sull’esito dell’eventuale inchiesta che coinvolgerebbe l’ospedale di Grasse. Ieri 25 agosto sono dieci anni dalla morte del giovane viareggino Daniele Franceschi avvenuta a 36 anni nel carcere francese di Grasse. La tenacia di mamma Cira assistita dall’avvocato Aldo Lasagna ha permesso dopo avere fatto pressione sia sulle autorità francesi, che italiane che alla fine la Giustizia francese emanasse un verdetto, poi modificato in secondo grado, che ha inchiodato alle proprie responsabilità solo una persona (un medico) e assolvendo due infermiere e in qualche modo non ritenendo nessuna responsabilità nel personale del carcere che avrebbe dovuto tutelare il ragazzo, detenuto per avere utilizzato una carta di credito ritenuta non buona nel febbraio 2010. Cira Antignano dichiara di non arrendersi ancora e di essere disponibile a tornare in Francia, unitamente all’avvocato Lasagna, per parlare con gli inquirenti francesi, sull’esito dell’eventuale inchiesta che coinvolgerebbe l’ospedale di Grasse, dopo l’invio alla famiglia di una lettera anonima, che ipotizzava un macabro espianto sugli organi del figlio ed in attesa di una risposta dal Ministro degli Esteri italiano, direttamente in aula, dopo la proposizione dell’interrogazione Parlamentare da parte del senatore Gianluca Ferrara del Movimento Cinque Stelle sulla sorte degli organi del giovane deceduto e mai restituiti. Stati Uniti. George Floyd e gli altri 558 piccoli omicidi di Alessandro Portelli Il Manifesto, 26 agosto 2020 Storie parallele a Lafayette: a fare la differenza, tra la vita e la morte, è il colore della pelle. E Kenosha non è ancora nelle statistiche. Lafayette, Louisiana, 5 agosto 2020. La polizia cerca di fermare Donald Guitry, 42 anni, armato di coltello. Guitry scappa su una macchina rubata, la polizia lo insegue, lo raggiunge, lo convince ad arrendersi senza fare problemi e lo arresta tranquillamente senza bisogno di sparargli o prenderlo per il collo. Lafayette, Louisiana, 21 agosto 2020. Un uomo con un coltello sta “dando fastidio” in un parcheggio. La polizia interviene, lui si allontana a piedi; lo seguono, cercano di fermarlo col taser che non funziona e infine, mentre sta entrando in un negozio, senza che abbia mai dato segno di voler aggredire nessuno, gli sparano alle spalle e lo ammazzano. Due storie parallele, con una divergenza: Donald Guitry è bianco, ed è vivo; Rayford Pellerin era nero, ed è morto. Il giorno dopo, a Kenosha, Wisconsin, la polizia è chiamata per una lite domestica. Arrivano sul posto e individuano una persona, un certo Jacob Blake che, secondo alcune testimonianze, sta cercando di mettere pace fra i litiganti. Blake è disarmato, in jeans e maglietta. Mentre sta risalendo in macchina, gli agenti gli sparano almeno sei volte alla schiena, davanti ai suoi tre figli. Secondo il giornale locale, nel Sudest del Wisconsin la polizia ha ucciso almeno 18 persone negli ultimi 20 anni. In quasi nessun caso sono stati presi provvedimenti nei confronti degli agenti coinvolti. Durante i primi giorni di protesta per l’assassinio di George Floyd, ai primi di giugno, i media avevano riferito di diversi casi in cui agenti di polizia avevano espresso solidarietà nei confronti della vittima e preso le distanze dai loro colleghi col grilletto facile. Dopo di allora, non se ne è più parlato. Nei primi sette mesi del 2020, le persone uccise dalla polizia sono 558; non meno di 113 persone, quasi due al giorno, sono gli uccisi a giugno e luglio, dopo l’assassinio di George Floyd. Per agosto, le statistiche non sono ancora disponibili, il mese non è ancora finito. Jacob Blake è in ospedale, tra la vita e la morte. Coca e paramilitari. Il re della guerra in Colombia estradato in Italia di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 26 agosto 2020 L’italiano Salvatore Mancuso guidò le milizie Auc: via libera dagli Usa. Uno dei più feroci signori della guerra colombiani è pronto ad atterrare in Italia. Salvatore Mancuso Gómez, 56 anni, nato e cresciuto in Colombia, dove tra gli anni Novanta e Duemila guidò i paramilitari di destra delle Autodefensas Unidas de Colombia con cui organizzò migliaia di sequestri e massacri, gestendo un enorme giro di narcotraffico internazionale, sarà estradato nei prossimi giorni (o addirittura ore) nel nostro Paese dagli Stati Uniti, dove era in carcere dal 2008. Non andrà in Colombia, come aveva chiesto a gran voce il governo di Bogotá. Che ora si trova a gestire una grossa grana politica e d’immagine. Riavvolgiamo il nastro. Salvatore Mancuso nasce nell’agosto 1964 a Montería, nel dipartimento di Córdoba, figlio di un emigrato italiano di Sapri che ripara elettrodomestici (e da cui eredita il passaporto italiano) e di una bella ragazza locale, Gladys Gómez. Cresce con molti fratelli nelle fincas, dove la vita procede bene finché nell’81 le Farc, le forze armate rivoluzionarie, iniziano a rapire amici e parenti, a chiedere riscatti, a uccidere chi non si piega all’ideologia marxista. Così Salvatore, che è andato a studiare a Pittsburg e poi a Bogotá, rientra alla base. E con altri contadini fonda il suo esercito clandestino di “autodifesa” dalle guerrillas. Ma per armare i suoi uomini ha bisogno di soldi. Stringe amicizia con Fidel Castaño (vecchio amico di Pablo Escobar) che col fratello Carlos controlla un’altra piccola formazione paramilitare. Si mettono a produrre cocaina e a trafficarla, e nel ‘97 si uniscono nelle Autodefensas Unidas de Colombia: in pochi anni reclutano oltre 2 mila persone (poi fino a 20 mila) e arrivano a smerciare droga per 7 miliardi di dollari l’anno. Salvatore detto El Mono, “la scimmia” di un metro e novanta, “l’italiano” spietato che guida gli elicotteri e controlla le piantagioni al confine col Venezuela, diventa sempre più potente fino a prendere il controllo delle Auc. Sotto di lui il narcotraffico, da mezzo per finanziare “la difesa” dei terreni, si trasforma nell’unico fine. Per estendere e proteggere le piantagioni, le Auc passano sui cadaveri di chiunque: compiono stupri, sevizie, massacri di interi paesini (come lo sterminio di El Salado, da cui si racconta che “si salvarono solo i cani”). E secondo diverse organizzazioni umanitarie fanno il lavoro sporco per conto dell’esercito. La coca del Mono dalla Colombia scorre a fiumi verso l’Europa. Nel 2004 la Dda di Catanzaro, in una maxi inchiesta che coinvolge altri 6 Paesi, intercetta un carico di 5.500 chili diretto a Gioia Tauro, dove l’aspettavano le cosche della ‘Ndrangheta di cui l’italiano è il tramite. Tra i 159 destinatari dell’arresto c’è anche Mancuso, vertice della cupola. Il suo nome torna anche nell’operazione Tiburon della Dda di Reggio Calabria, del 2006, sempre per traffico di stupefacenti. Intanto però Mancuso ha preso l’uscita d’emergenza offerta dal presidente Alvaro Uribe: nel 2004 guida la “smobilitazione” dei paramilitari, a cui il governo promette enormi sconti di pena in cambio della consegna delle armi. Grazie alla legge di “giustizia e pace”, i primi 40 anni che il Mono dovrebbe scontare diventano 8. E nel 2008 il pentito viene estradato negli Stati Uniti, che gli danno 15 anni per traffico internazionale. La pena negli Usa finisce a marzo scorso, ma la Colombia lo rivuole: secondo il Tribunale Superiore di Bogotá deve ancora rispondere di 11 mila delitti tra cui 588 omicidi, e raccontare molto dei legami tra narcos e politica (Uribe compreso). I colombiani però commettono un errore procedurale nella richiesta: così l’avvocato di El Mono chiede che venga portato in Italia, e gli Usa acconsentono. Qui lo attendono le procure di Catanzaro e Reggio Calabria, per capire di più dei suoi rapporti con le ‘ndrine. Ma il presidente colombiano Duque si dice pronto a ricorrere a Strasburgo purché i crimini dell’italiano non restino impuniti. Libia: la tragedia dei migranti di Anthea Favoriti orizzontipolitici.it, 26 agosto 2020 Dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011, la Libia sta attraversando una lunga fase di instabilità politica: la seconda guerra civile, iniziata nel 2014, ha creato un terreno fertile per numerose attività illecite come il traffico di migranti, petrolio e armi. La Libia costituisce inoltre la principale porta d’ingresso dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per i Migranti (Oim), sono circa 636 mila i migranti presenti oggi nel Paese (dicembre 2019), mentre sono 48 mila i rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Unhcr. L’inferno dei campi di detenzione libici - L’instabilità dell’attuale contesto politico-istituzionale ha facilitato l’organizzazione di una vasta rete di sfruttamento dei migranti (attraverso sequestri, lavoro forzato o estorsione di denaro), gestita sia da gruppi criminali altamente organizzati, sia da elementi appartenenti a milizie, forze armate, polizia o piccole bande. Ma chi è considerato un “migrante” in Libia? L’attuale legislazione libica considera reato l’ingresso, l’uscita o la permanenza irregolare nel paese da parte di cittadini stranieri, senza fare alcuna distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati, migranti o vittime di tratta. La Libia non ha poi aderito alla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati e non esiste nel Paese una legislazione in materia di asilo né alcuna procedura di asilo stabilita. Di conseguenza, tutte le persone non libiche, indipendentemente dal loro status, ricadono sotto le leggi nazionali sull’immigrazione. Di fatto, le violazioni a tale legislazione sono sanzionate con una pena detentiva a tempo indeterminato, con “lavori forzati” o con una multa di circa 1.000 dinari libici (circa 650 euro) e la successiva deportazione, una volta completata la condanna. Molti migranti irregolari, o sospettati di esserlo, vengono spesso prelevati per strada o denunciati alle autorità dai loro datori di lavoro. Altri vengono invece trattenuti presso le strutture del dipartimento per la lotta alla migrazione irregolare del Ministero dell’Interno (Department for Combating Irregular Migration - Dcim), in stato di detenzione per un tempo indefinito in attesa dell’espulsione. Anche a seguito dell’intercettazione o del salvataggio in mare, i migranti vengono consegnati dalla Guardia Costiera libica (un corpo militare creato nel 2017, addestrato e finanziato dall’Italia per intercettare le imbarcazioni di migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale e riportarle indietro), alle autorità del Dcim che li trasferisce direttamente nei centri di detenzione ufficiali. Sebbene i centri di detenzioni ufficiale dipendano dal Ministero dell’Interno, spesso sono gestiti da milizie e gruppi armati che operano al di fuori dell’effettivo controllo governativo. Ad oggi sono operativi 11 centri ufficiali di detenzione per migranti formalmente controllati dalle autorità del Governo centrale, a fronte dei 63 censiti su tutto il territorio libico fino a qualche anno fa. A febbraio 2020, Unhcr stimava all’interno di questi centri la presenza di circa 2.800 migranti (di cui 1.700 richiedenti asilo). Tuttavia oltre ai centri ufficiali, sono proliferati negli anni numerosissimi luoghi di detenzione informali, gestiti da grandi e piccoli organizzazioni criminali. L’accesso alle Nazioni Unite e altri simili enti è vincolato alla presenza e al potere delle stesse milizie armate: attualmente i centri di detenzione accessibili da Onu, Oim e organizzazioni umanitarie sono in tutto tre. È quindi impossibile conoscere con certezza il numero, certamente molto maggiore, delle persone rinchiuse nei luoghi di detenzione informali. Un recente reportage di Al-Jazeera, redatto lo scorso gennaio, ha parlato di “40.000 persone che vivono in centri di detenzione improvvisati”. Le Nazioni Unite hanno definito “inimmaginabili orrori” i trattamenti subiti dai migranti all’interno dei centri. Secondo i dati raccolti da Medici per i Diritti Umani, nel periodo che va dal 2014 al 2020, l’85% dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia in Europa ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 75% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 65% gravi e ripetute percosse, nonché stupri, oltraggi sessuali, scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti. Le violenze e i soprusi all’interno dei centri sono sistematicamente perpetrati da una pletora di attori. In primis figurano gli agenti di polizia e funzionari militari o anche bande criminali come gli Asma Boys, che gestiscono i ghettos o “luoghi speciali” dove i migranti vengono sequestrati e seviziati a scopo di estorsione. Gli stessi gruppi sono responsabili di attacchi violenti all’interno dei centri di raccolta dei migranti sulle rotte migratorie (foyers o connection houses) e nelle case private. In tutti questi luoghi i migranti vengono costretti ai lavori forzati, per mesi o anni, in condizioni di vera e propria schiavitù. L’accordo Italia-Libia - Il 2 febbraio 2017, il governo italiano e il governo libico di riconciliazione nazionale presieduto da Fayez al-Serraj hanno siglato a Roma un accordo congiunto per il contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e per il rafforzamento della sicurezza delle frontiere. All’interno del Memorandum d’intesa Italia-Libia (Mou), i due paesi si impegnano a limitare l’arrivo di migranti dall’Africa sulle coste italiane. Per fare questo Roma ha disposto l’erogazione di fondi per l’addestramento e i mezzi in dotazione alla Guardia Costiera libica. L’Italia si impegna poi “a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. Nel Mou si parla anche di “adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza”, nonché della “formazione del personale libico” che vi lavora. Il 2 febbraio 2020, il Mou è stato automaticamente prorogato per altri tre anni. L’Italia si è impegnata a continuare a finanziare la Guardia Costiera per soccorrere i migranti in mare e riportali in un Paese dove continuano ad essere esposti a torture, estorsioni e schiavitù. Il 9 febbraio il governo italiano ha poi presentato alcune proposte di emendamento dell’intesa, che tuttavia non contengono modifiche sostanziali inerenti la sicurezza e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei migranti. Viene richiesto a livello generale il rilascio di “donne, bambini e individui vulnerabili” detenuti all’interno dei centri ufficiali, ma non vengono specificate, per esempio, le tempistiche. Per quanto riguarda i luoghi di detenzione non ufficiali, ne viene richiesta invece la progressiva chiusura. Lo scorso 16 luglio la Camera ha approvato il rifinanziamento delle missioni militari internazionali, compresi gli interventi in Libia, con uno stanziamento di oltre 58 milioni di euro, di cui 10 andranno alla missione bilaterale di assistenza alla Guardia Costiera libica, compresa la formazione e l’addestramento. Dalla firma del Mou nel 2017 i fondi stanziati dall’Italia alla Guardia Costiera sono saliti a 22 milioni. Nonostante l’insistenza internazionale sulla questione del “rispetto degli obblighi in materia di diritti umani e protezione internazionale”, Libia non è firmataria né della Convenzione sui Diritti dell’Uomo, né della Convenzione di Ginevra del 1951 e appare, sulla base delle considerazioni esposte finora, che possa tradursi in realtà l’impegno nel rispettare i diritti di migranti e rifugiati. Bielorussia, la rabbia degli operai anti-Lukashenko: “Basta ricatti e bugie” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 26 agosto 2020 Una settimana fa i manovali dell’azienda Mzkt avevano fischiato il presidente. Per ritorsione il regime minaccia licenziamenti e chiusure: c’è paura, ma anche voglia di cambiare. Al cambio turno a Mzkt c’è un silenzio imbarazzante. Uomini armati presidiano gli ingressi e gli operai sfuggono ai volontari vestiti di rosso e bianco che distribuiscono volantini sui programmi di sostegno economico e consulenza legale per chi aderisce allo sciopero generale indetto dall’opposizione. Qualcuno afferra un ciclostilato quasi di nascosto, poi corre verso la metropolitana senza dire una parola. Altri, imbevuti della propaganda che dipinge i manifestanti come “alcolisti” e “drogati”, inveiscono: “Fannulloni”. Solo qualche temerario mostra il segno di vittoria diventato uno dei simboli della protesta contro i risultati manipolati delle presidenziali del 9 agosto e la repressione delle pacifiche manifestazioni in Bielorussia. Solo una settimana fa i manovali della fabbrica di mezzi pesanti e camion militari avevano scioperato e fischiato il contestato presidente Aleksandr Lukashenko in visita. Ukhodi, “Vattene via”, “Dimettiti” avevano gridato. L’ex direttore di sovkhoz, una fattoria collettiva sovietica, era rimasto interdetto e sconcertato. Gli operai erano stati per anni la base fedele del suo elettorato. Anche grazie ai sussidi alle fabbriche statali a cui Lukashenko si vanta di aver risparmiato la straziante transizione economica delle privatizzazioni sopportata dalle altre Repubbliche ex sovietiche dopo il crollo dell’Urss. Non si aspettava che potessero rivoltarsi contro il loro Batka (padre), come ama farsi chiamare il leader al potere dal 1994. Ma la contestazione - costata all’economia nazionale 500 milioni di dollari, secondo stime governative - è durata pochi giorni. Il regime ha contrattaccato. “Ci hanno detto che, se scioperiamo, l’economia crollerà, la fabbrica sarà costretta a chiudere e non ci potranno più pagare. Non posso rischiare di perdere lo stipendio. Possiamo protestare dopo il lavoro, non durante il lavoro”, dice Olga, 42 anni, da 14 anni a Mzkt, un salario di circa 500 euro al mese, più alto della media nazionale. “La maggioranza di noi però è stufa delle bugie del regime”, aggiunge. “Prima hanno falsificato il voto, poi hanno disperso con la violenza pacifici cittadini. Abbiamo tutti un familiare, un vicino o un amico incarcerato e torturato. Lukashenko non è più il nostro presidente. Per questo gli abbiamo urlato di dimettersi” La paura delle ritorsioni è grande anche tra i più giovani. Il ventunenne Evgenij - che come tutti preferisce non dire il suo cognome - ha appena iniziato il periodo di lavoro obbligatorio in una fabbrica statale che dovrebbe risarcire lo Stato per gli studi gratuiti. “Sostengo la protesta come tutti. Finalmente possiamo cambiare il Paese. Ma la direzione fa pressioni e ci sono poliziotti ovunque. S’infiltrano anche ai nostri incontri. Se mi licenziano, dovrò restituire migliaia di euro all’Università. So che l’opposizione ha creato un fondo per aiutare i tanti come me, ma non so se fidarmi”. Mobilitare le fabbriche in Bielorussia non è facile, ammette Aleksandr Jaroshuk, presidente del Congresso bielorusso dei sindacati democratici. “Dal 1995 non si è mai fatto uno sciopero. Per legge non si può promuovere per ragioni politiche, ma solo per motivi socioeconomici che vanno documentati. E l’astensione va concordata con il dirigente che ha il diritto di posticiparla. Intanto lo slancio scema. La gente si rende conto che Lukashenko non ha alcuna intenzione di andarsene e ha paura”. L’opposizione, continua Jaroshuk, però non si è arresa. “La resistenza è nel nostro Dna. Siamo partigiani. Le ritorsioni sono benzina sul fuoco. Con i fucili puoi prendere il potere, ma non mantenerlo. Abbiamo solo cambiato strategia”. Invece dell’astensione del lavoro, il cosiddetto “sciopero bianco”, o “italiano” come è noto in Bielorussia. Di fatto, un sabotaggio. “Lo chiamiamo anche metodo della russkaja volinka, cornamusa russa: un’applicazione rigida e burocratica di tutte le regole tale che la produzione si ferma. Da noi si è bruciata una sottostazione elettrica e in un giorno, invece di produrre 30 cabine di guida, ne abbiamo assemblate 10”, ci spiega Serghej Dylevskij, il leader degli scioperanti di Mtz, l’iconica fabbrica dei trattori di Minsk, fiore all’occhiello dell’Unione sovietica. Sneakers rosse, t-shirt, jeans e maniche della giacca arrotolate sulle muscolose braccia tatuate, questo trentenne figlio di un operaio e un’ingegnera di Mtz è oramai considerato il “Lech Walesa” di Minsk. Dopo essersi offerto volontario per riportare a casa i manifestanti rilasciati dalle carceri con ossa fratturate, lividi e fori di proiettili di gomma, ha capito che “la Bielorussia non sarebbe più stata la stessa” e il 17 agosto ha guidato una marcia degli operai per le vie della capitale. Oggi siede accanto alla Premio Nobel Svetlana Aleksievich e all’ex ministro Pavel Latushko tra i sette leader del Consiglio di Coordinamento creato dall’opposizione per promuovere una transizione democratica, ma messo sotto inchiesta da Lukashenko con l’accusa di voler ordire un golpe. “Sono la voce del popolo e delle persone semplici. Quando abbiamo redatto la prima risoluzione, ho preteso che il documento fosse comprensibile anche per un operaio come me”. Dylevskij è consapevole che le aziende statali come Mtz e Mzkt siano uno dei principali campi di battaglia tra regime e opposizione. “Se si fermano gli stabilimenti, lo Stato non ha soldi per pagare i militari. E se non vengono pagati, i militari cominciano a puntare i fucili contro il dittatore”. Chiama così Lukashenko. Che però non ha intenzione di lasciare senza combattere: “Se una fabbrica non funziona, allora metteremo un lucchetto alla porta. Poi vedremo chi portare al lavoro”, ha minacciato nel fine settimana: una tattica già utilizzata alla radio e televisione pubblica dove alcuni operatori in sciopero sono stati sostituiti da tecnici arrivati dalla Russia. E i leader degli scioperi vengono arrestati uno ad uno. Compreso Dylevskij, condannato ieri a 10 giorni di carcere. “Sono pronto. È tutta la vita che vivo sotto i baffi di Lukashenko. Sapevo che sarebbe successo. Vi dico di più, in auto ho già la borsa pronta. Ma corro il rischio per il nostro futuro. Avevo tre anni quando i miei genitori commisero l’errore di eleggere Lukashenko. Adesso ho un figlio di tre anni e voglio spezzare questo ciclo”. Zimbabwe. Resta in carcere noto giornalista arrestato per un tweet di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 26 agosto 2020 Le autorità dello Zimbabwe hanno negato per la terza volta la libertà su cauzione al giornalista Hopewell Chin’ono, accusato di incitamento alla violenza pubblica. Lo riferisce la stampa di Harare, secondo cui il magistrato Ngoni Nduna ha affermato che la minaccia “è rimasta intatta”. Chin’ono era stato arrestato a luglio dopo aver twittato a sostegno delle proteste contro la corruzione in atto da settimane nel Paese. Chin’ono, giornalista freelance, aveva anche utilizzato i social media per denunciare la corruzione dilagante nelle gare d’appalto governative per l’assegnazione di dispositivi di protezione individuale per la lotta al Covid-19, in relazione alle quali è stato arrestato il mese scorso ministro della Salute, Obadiah Moyo. Lo Zimbabwe sta attraversando la peggiore crisi economica degli ultimi dieci anni che ha dato vita a proteste diffuse in tutto il Paese. Il governo, da parte sua, accusa l’opposizione e la Chiesa di complottare per rovesciarlo e la scorsa settimana il ministro della Giustizia, Ziyambi Ziyambi, ha chiesto un incontro con il rappresentante della Santa Sede ad Harare per capire se i vescovi cattolici che lo hanno accusato di violazioni dei diritti umani e repressione del dissenso stessero parlando a nome del Vaticano. Il riferimento è a una lettera pastorale inviata alle diocesi dalla Conferenza dei vescovi cattolici dello Zimbabwe, in cui si mette in guardia sulla crisi a più livelli che lo Zimbabwe sta attraversando, dal collasso dell’economia alla povertà crescente, dalla corruzione alle violazioni dei diritti umani. La lettera, secondo quanto dichiarato dal ministro Ziyambi, “costituisce un vero e proprio insulto alla persona del presidente Emmerson Mnangagwa e al suo intero governo, ed è formulata in un linguaggio decisamente sconveniente per un’istituzione come la Chiesa cattolica. Il governo è costretto a coinvolgere il Vaticano per accertare se tali dichiarazioni riflettano o meno l’atteggiamento ufficiale della Santa Sede nei confronti della leadership dello Zimbabwe o se queste siano semplicemente le opinioni dei vari individui interessati”, ha aggiunto Ziyambi, annunciando che il ministro degli Esteri, Sibusiso Moyo, avrebbe incontrato presto il rappresentante locale della Santa Sede. La paura, recita la missiva dei vescovi, “corre lungo la spina dorsale di molte delle nostre persone oggi. La repressione del dissenso non ha precedenti. È questo lo Zimbabwe che vogliamo? Avere un’opinione diversa non significa essere un nemico”. In risposta alla lettera, la ministra dell’Informazione dello Zimbabwe, Monica Mutsvangwa, ha duramente criticato il capo della Conferenza episcopale, l’arcivescovo Robert Ndlovu, parlando di un “messaggio malvagio” inteso ad alimentare un “genocidio di tipo ruandese”. “Le sue trasgressioni (di Ndlovu) acquisiscono una dimensione geopolitica come sostenitore principale del cambio di regime che è il segno distintivo delle maggiori potenze occidentali post-imperiali negli ultimi due decenni”, ha detto Mutsvangwa in una dichiarazione. In una lettera separata, la Law Society dello Zimbabwe ha dichiarato che la situazione dei diritti umani nel Paese si sta deteriorando e ha denunciato le ripetute aggressioni nei confronti di uomini di legge da parte di agenti delle forze di sicurezza. “La Law Society condanna inoltre il rapimento e la tortura di cittadini in tutto il Paese da parte di agenti della sicurezza statale e di individui non identificati ma allineati allo Stato”, si legge nella lettera. I critici del presidente Emmerson Mnangagwa accusano quest’ultimo di ricorrere a metodi autoritari già adottati dal suo predecessore Robert Mugabe.