Tre suicidi tra gli operatori della Polizia penitenziaria. Il Garante: “Servono gesti concreti” Redattore Sociale, 25 agosto 2020 In una nota il Garante esprime vicinanza alla Polizia penitenziaria. E aggiunge: “Dall’Amministrazione servono segni concreti volti a garantire ambienti rispettosi dei diritti e della dignità dei lavoratori, personale in numero rispondente alle esigenze, una formazione professionale continua”. Tre suicidi in un mese, l’ultimo due giorni fa. A togliersi la vita una donna Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria, in servizio nella Casa circondariale Pagliarelli “Antonio Lo Russo” di Palermo. Pochi giorni prima altri due operatori di Polizia penitenziaria in servizio nell’Istituto di Latina. Alla luce di questi fatti, il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private delle libertà esprime innanzitutto “vicinanza alla Polizia penitenziaria e ai suoi operatori colpiti da questi drammatici eventi”. Ma esprime anche “profonda preoccupazione per quanto accaduto, quale segnale di un disagio che non è più possibile non leggere”. Afferma il Garante: “Certamente sono molti e diversi i fattori che possono spingere una persona a compiere un gesto estremo come quello di togliersi la vita e volerli ricondurre a un’unica matrice è sempre riduttivo. Tuttavia, sono note le difficoltà del lavoro che la Polizia penitenziaria svolge in prima linea in carcere, in una situazione segnata da una serie di criticità, strutturali, gestionali e numeriche, rese ancora più evidenti in questi ultimi tempi dall’emergenza sanitaria in atto”. Il Garante nazionale nei suoi Rapporti a seguito delle proprie visite agli Istituti penitenziari ha più volte messo in evidenza le criticità legate al personale che vi opera. Pertanto, auspica “che l’impegno, più volte dichiarato dall’Amministrazione penitenziaria e positivamente ribadito anche recentemente, per il miglioramento delle condizioni di lavoro si tramuti a breve in gesti concreti volti a garantire ambienti rispettosi dei diritti e della dignità dei lavoratori, personale in numero rispondente alle esigenze, una formazione professionale iniziale e continua all’altezza dei compiti che Costituzione e Ordinamento assegnano al Corpo di Polizia penitenziaria. E offrendo anche quel supporto necessario a chi svolge un lavoro in prima linea, sottoposto a tensioni e situazioni di forte stress emotivo”. Processo penale e civile: due riforme in cerca di voti in Parlamento Il Dubbio, 25 agosto 2020 Dopo la pausa estiva si riparte in commissione. In Parlamento della riforma della legge elettorale se ne riparlerà a settembre, con la ripresa dei lavori. Non è invece chiaro quando si entrerà nel vivo dell’esame delle proposte di riforma del processo penale e civile. Così come il ddl del Governo sulla revisione delle regole per l’elezione del Csm. Nel frattempo, l’Esecutivo si sta occupando dei migranti, con il presidente della regione Siciliana, Nello Musumeci, che ha firmato un’ordinanza per sgomberare i centri di accoglienza. Decisione che il Viminale ha bollato come ‘nulla’ considerando che la competenza sui migranti spetta allo Stato e non alle Regioni. Ci sono altri temi parlamentari sul tavolo che saranno oggetto di discussione da settembre in poi (con una pausa durante la sessione di Bilancio). Sono la riforma del processo penale e di quello civile, la legge sull’omotransfobia, la commissione d’inchiesta sulle fake news (quest’ultime due già approvate a Montecitorio), il conflitto di interessi e le altre riforme costituzionali, ovvero la revisione della base elettiva del Senato e quella del presidente della Repubblica. Prima della pausa estiva, il 7 agosto, il Consiglio dei ministri ha approvato la tanto attesa riforma del Consiglio superiore della magistratura. Secondo il ministro Alfonso Bonafede il ddl servirà per superare le “degenerazioni del correntismo”. Per far questo il provvedimento prevede che “all’interno del Consiglio superiore della magistratura non possono essere costituiti gruppi tra i suoi componenti e ogni membro esercita le proprie funzioni in piena indipendenza ed imparzialità”. La riforma prevede poi una nuova legge elettorale per i componenti eletti del Cs, che torneranno ad essere 30 (20 cosiddetti togati, ovvero magistrati eletti da altri magistrati, e 10 laici, scelti dal Parlamento). Inoltre, l’elezione non sarà più a livello nazionale. Ci saranno infatti 19 collegi uninominali, con un sistema a doppio turno: secondo il governo questa novità ridurrà il potere delle correnti nazionali, permettendo che vengano eletti anche magistrati che ne sono estranei. La legge elettorale prevede anche dei meccanismi per rispettare la parità di genere. Tempi un po’ più lunghi, invece, per il provvedimento che dovrà modificare i due decreti Sicurezza. Prima della pausa estiva, durante una riunione notturna, i partiti di maggioranza sembrerebbero aver trovato un accordo di massima. L’unico capitolo che rimane ancora in ballo è quello delle sanzioni. Al momento, però, la norma messa a punto in una bozza di decreto in circolazione, prevede che sulle sanzioni alle ong che trasportano migranti si tornerà all’era pre-dl Sicurezza. Verranno definitivamente cancellate. Come in passato, quindi, le uniche sanzioni saranno quelle previste dall’ambito penale Magistrati, se il diritto è dibattito allora parliamo della mancanza di trasparenza di Adele Saita Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2020 “Dove un superiore, pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto, la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro” (Filippo Turati, in Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962). Tutti, ad un certo momento della nostra vita, abbiamo scoperto di non vivere e di non fare i conti con il migliore dei mondi possibili. D’altra parte, già Voltaire qualche secolo fa aveva fatto notare che affrontare candidamente la realtà può non essere la via maestra per uscirne vincenti. Ciononostante, vi sono ancora certi ambiti in cui ci sembra naturale che tutto sia come dovrebbe essere. Perché in verità l’uomo in animo conserva ancora quello slancio al giusto e al vero che dovrebbe portare il giusto a prevalere sull’ingiusto, e non solo nei film di Walt Disney. Crescendo, ci rendiamo conto che il confine fra giusto e ingiusto non è poi così netto. Nella vita reale, non esiste da una parte il principe azzurro e dall’altra Malefica. Esistono invece persone, processi e sistemi sfaccettati che non sono vestiti di nero e non abitano in oscuri castelli diroccati ma stanno in mezzo a noi, molto spesso vestiti addirittura di bianco. E allora, come una società governa questa dicotomia? C’è stato un tempo, ormai piuttosto lontano, in cui le genti hanno deciso di sacrificare una parte delle proprie libertà per metterle al servizio di un disegno più grande: una società civile, unita nel rispetto di principi e valori condivisi. Un patto sociale, un disegno costruito su valori di libertà, uguaglianza, responsabilità. Per noi italiani, un disegno costruito sui valori costituzionali che, all’indomani di un’esperienza totalitaria e arrogante, saggi giuristi hanno messo nero su bianco. Un disegno che, se colorato entro i margini stabiliti, avrebbe potuto garantire armonia ed equilibrio, governando affinché il giusto prevalga sull’ingiusto. E chi, nel nostro ordinamento, è chiamato a esercitare questo controllo? L’ordine giudiziario. Ma faremmo un errore a pensare, candidamente, che i magistrati siano solo le funzioni che esercitano. Sono in primo luogo persone. Con un bagaglio tutto umano di luci ed ombre. Ognuno con i propri punti di forza e di debolezza. Ognuno con la propria idea di diritto che anni di studio e ricerche hanno consolidato. Siamo ormai molto più abituati ad ammettere che i virologi possano pensarla diversamente su uno stesso punto ma ci riesce difficile pensare che, essendo il diritto anch’esso una scienza, una disposizione di legge possa essere interpretata in un modo o in un altro, anche diametralmente opposto. Eppure, è proprio di dibattito fra posizioni che vive il diritto, è lì che trova la sua forza. Cosa sono in fondo i differenti gradi di giudizio se non una formalizzata possibilità di dibattere e argomentare? Possiamo ricondurre l’importanza del dibattito alla più generale contrapposizione fra diritto e giustizia. Tutti sappiamo che diritto e giustizia non sempre vanno a braccetto. Che, sempre in virtù di quel famoso patto di cui sopra, ci siamo detti disposti a rinunciare, in certi casi, alla giustizia in virtù della forza del diritto. Antigone è morta su questo altare. Una giovane sorella che non voleva lasciare insepolto il corpo del fratello caduto in battaglia, schiacciata fra ciò che il suo cuore (e il coro, cioè la collettività) riteneva giusto e ciò che la legge imponeva. Perché il concetto di giusto è soggettivo, dicono. Il concetto di giusto non garantisce quella certezza e oggettività che invece l’applicazione del diritto è in grado di assicurare. Ma non è possibile, però, non dar voce a questioni che meriterebbero di essere dibattute in un’ottica di giustizia, prima ancora che di diritto. Questioni che riguardano non solo Antigone, ma il coro tutto. Allora, se è vero che nel nostro animo conserviamo ancora quello slancio al giusto e al vero che il disincanto dell’età adulta non ha del tutto sopito, dibattiamo. Dibattiamo di una questione attuale ora più che mai, viste le sinistre ombre portate alla luce dalle pagine dei giornali e degli interventi della più alta magistratura sugli equilibri della giurisdizione ordinaria. Dibattiamo l’inaccessibilità dei provvedimenti di archiviazione preliminare dei procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati ordinari. Dibattiamo il fatto che, fra il 2012 e il 2018, in media sono state iscritte ogni anno 1380 notizie d’illecito disciplinare e che di queste il 91,6%, cioè oltre 1200, è stato archiviato in via preliminare dal Procuratore Generale presso la Suprema Corte e che a tali atti non è possibile accedere. Dibattiamo il fatto che la segretezza di queste archiviazioni non è in linea né con la ratio dei principi di accesso agli atti e di trasparenza del Potere. Dibattiamo il fatto che il Consiglio di Stato questo aprile (sentenza del 6.04.2020 n. 2309) ha definitivamente sancito la loro inaccessibilità, con motivazioni discutibili ma lineari sul piano del diritto che, però, stringono con malcelata violenza il cuore palpitante della giustizia. Dibattiamo il fatto che la segretezza delle archiviazioni disciplinari del Procuratore Generale è l’ultimo baluardo di un modus operandi volto a garantire la tutela del prestigio di un ordine professionale che dobbiamo ricordare essere fatto di persone, prima ancora che di professionisti. Dibattiamo il perché, se il Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione Giovanni Salvi ha affermato che “l’esigenza di trasparenza potrebbe, peraltro, essere rafforzata prevedendo l’accessibilità alle massime dei decreti di archiviazione” (discorso di apertura anno giudiziario 2020), dalle parole del Consiglio di Stato di aprile non si intravveda invece alcun tipo di apertura propositiva su questi temi, non una riflessione di più ampio respiro che si interroghi su principi e valori ma un arroccamento su questioni tecniche di diritto d’accesso. Dibattiamo il fatto che se è vero che non sempre diritto e giustizia vanno a braccetto, questo non significa volerne una scusa per stritolare il cuore della giustizia che, alla luce di quanto succede nel mondo della magistratura attualmente, palpita sempre più debole. Dibattiamo il fatto che le recentissime parole del Presidente della Repubblica devono leggersi come uno stimolo per questo cuore di giustizia che alimenta un corpo complesso e non possono ritenersi limitate ad un solo organo o apparato. In definitiva, dibattiamo il fatto che Antigone è morta e che noi tutti, invece, avremmo voluto che vivesse. Il contagio mafioso: così la criminalità sfrutta l’epidemia di Roberto Saviano La Repubblica, 25 agosto 2020 La Covid Economy offre l’occasione perfetta al denaro sporco, l’Unione europea con i suoi aiuti deve impedire che le aziende finiscano nelle mani dei clan. L’emergenza è l’alleata migliore degli affari che hanno bisogno di velocità e ombra per procedere. L’Europa si scopre in ritardo sulla gestione di quella che non sembra una seconda ondata del virus ma ancora la curva della prima onda che non ha finito di abbattersi sul mondo. L’Europa (ma in questo gli Stati Uniti non hanno dato una risposta migliore) non ha un piano per fermare il flusso di riciclaggio e usura che la pandemia ha generato. Le mafie approfittano della crisi pandemica per movimentare il proprio denaro più velocemente, i controlli si sono abbassati, l’antiriciclaggio - inconfessata verità - può reggere quando ci si trova in una situazione economica positiva e sana ma quando manca liquidità, quando i consumi entrano in una spirale definitiva di crisi, il denaro torna ad essere utile a tutti senza guardare l’origine. Quando manca il pane nessuno chiede da quale forno provenga, se legale o illegale, antica regola che le mafie conoscono benissimo. Pensare che le organizzazioni criminali siano un problema italiano equivale esattamente a pensare che un virus possa essere un fenomeno locale e che resti fermo, imprigionato in una bolla. Quello che accade con il denaro criminale in queste ore mi ricorda quando dagli Usa alla Germania arrivava la solidarietà all’Italia per il Covid come se fosse un problema nostro e frutto di un misto tra cattiva gestione, sfortuna, predisposizione genetica e un generico sottosviluppo del Paese. Poche settimane dopo si ritrovarono il virus ovunque. Ecco, lo stesso vale per il denaro sporco. Lo si considera soltanto un problema delle economie fragili, un tema del Sud Italia e dell’Est Europa. Falso. Da anni le organizzazioni criminali sono ben inserite in tutto il tessuto economico europeo e non si stanno lasciando sfuggire l’occasione che la Covid Economy ha creato. Cosa è la Covid Economy? È l’economia generata dalla pandemia. L’enorme fortuna per pochissimi, il disastro per tutti. L’economia reale e Wall Street sono sempre più distanti. I Tech Giants crescono esponenzialmente, Amazon cresce dell’80%, Apple cresce del 60%, più l’economia reale va male più Wall Street va bene. E l’economia reale fatta di negozi, piccole imprese, alberghi, ristoranti, trasportatori, ludoteche, bar e ancora e ancora, che fine fa? Se la mangiano le mafie. L’Europa si sta ponendo l’unica domanda per difendere la sua economia reale? No. Ecco la domanda: chi rileverà i resort della Costa Azzurra o della Costa del Sol messe in ginocchio dalla crisi del turismo del 2020? Cosa succederà ai ristoranti di Berlino o ai pub di Londra rimasti chiusi per settimane o mesi per via del lockdown? Le case sfitte in decine di capitali europee chi le userà per comprarle e specularci? Il Dark Money, il denaro sporco non ha mai trovato come ora tante porte d’accesso spalancate e non controllate. La pandemia sta portando con sé ovunque l’usura, ma solo l’Italia sembra studiarlo. I dati del ministero degli Interni italiano urlano: nel primo trimestre del 2020 l’usura è l’unico reato in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In una fase in cui tutti gli altri reati dalle rapine in abitazione alle estorsioni sono diminuiti significativamente, l’usura invece registra un +9,6%. L’usura non smette di elargire soldi. Più le banche bloccano fidi bancari più l’usura arriva e garantisce subito cash. Denaro contante e liquido che viene dato subito a famiglie che continuano ad avere spese, ad aziende che nonostante la cassa integrazione (in molti casi mai partita) devono mantenere fitti e stipendi. Gli usurai pagano subito chiedendo come garanzia l’unica cosa che ancora possiedono i loro sfortunati clienti: la vita stessa. L’usuraio sa che quando si rischia la vita, la casa bruciata e la figlia stuprata i soldi verranno restituiti a qualsiasi costo. E pensate che questo accada solo in Italia? E non in Gran Bretagna, non in Spagna? Non in Grecia? Non in Francia? Quando in Germania è partito un dibattito in cui si descrivevano le organizzazioni mafiose italiane in attesa della pioggia di euro dei Coronabond, che l’Europa stava discutendo se emettere o meno per sostenere i Paesi più colpiti dalla crisi del Covid 19, iniziarono ad affermare da più parti che sarebbero stati soldi monopolizzati dalle organizzazioni criminali. Fu una posizione di grande ignoranza. Il giro d’affari delle organizzazioni criminali è immenso. Solo quelle italiane (di cui ci sono dati scientifici perché le più studiate) guadagnano: ‘ndrangheta circa 60 miliardi di euro all’anno; la Camorra tra i 20 e i 35 miliardi. Questo significa che la massa di denaro di cui dispongono è così grande che di certo non stavano aspettando i soldi europei. Gli aiuti europei vanno monitorati, non dati a pioggia, le mafie ovviamente tutto ciò che sarà possibile prendere prenderanno ma non sarà il loro intervento determinante, quegli aiuti servivano per salvare dal saccheggio mafioso le aziende in difficolta. Ora ne arriveranno assai di meno di quanti sarebbero stati necessari. L’Europa, se si salverà dal Covid, non si salverà dalla Covid Economy. La Germania sta ignorando per esempio il rischio che corre, eppure è uno dei luoghi più esposti perché nel suo sistema finanziario è facilissimo nascondere denaro sporco. Chi su questo sta facendo un lavoro egregio è il Tax Justice Network (autorevole gruppo internazionale indipendente che focalizza la sua ricerca sulla regolamentazione fiscale e finanziaria internazionale) che stilando ogni anno il Financial Secrecy Index, una classifica dei Paesi in base al loro grado di segretezza e alla portata delle loro attività finanziare offshore in un elenco guidato dalle Cayman Islands, mostra il pericolo invisibile che le economie corrono al loro interno. La Germania si piazza al 14° posto, scalzando Panama e Jersey, classificati rispettivamente al 15° e al 16° posto. La Germania quindi non è assolutamente protetta dalla massa di denaro sporco che la pandemia ha iniziato a far muovere con molta più forza del passato, del resto il Professor Bussmann, docente all’università di Halle-Wittenberg, calcolava che il riciclaggio in Germania è attorno ai cento miliardi di euro annui. Può dirsi quindi Berlino non coinvolta? Meno verrà sostenuta l’economia dei Paesi provati dalla crisi dell’epidemia, più potere sarà lasciato alla criminalità organizzata. Basta guardare alla storia, in ogni epidemia il peggio degli affari ha trionfato, il peggio dell’uomo si è affermato, e così le organizzazioni criminali. Durante la peste del ‘600 a Milano il governo della città era allo sbando e affidò alle bande criminali il controllo delle strade, così sta accadendo con il flusso economico che si riversa in ristoranti falliti, in fabbriche in crisi, in interi quartieri al collasso. Si subappalta al denaro criminale l’economia uccisa dalla pandemia. Si delega anche l’assistenza sociale per le famiglie, come sta accadendo in Messico e in Brasile dove tutto il welfare delle periferie (assistenza anziani, spese per famiglie bisognose) è delegato al Primeiro Comando da Capital o al Cártel del Golfo che a tempo debito riscatteranno la generosità di questi mesi. E questo non accade nelle periferie di Praga? Di Stoccarda? Di Napoli, di Marsiglia e di Barcellona? Nella peste del ‘600 (ma anche durante l’ondata del colera in Italia a fine Ottocento) le bande criminali gestivano i cadaveri esattamente come ora capita in India o in Ecuador, dove lo Stato non riuscendo più a gestire i corpi dei morti di febbre dei quartieri popolari per evitare che i cadaveri fossero lasciati in strada o portati in fosse comuni dai familiari ha delegato alle mafie locali la gestione, in cambio della vincita di appalti pubblici per la cremazione dei cadaveri o la gestione sanitaria della pandemia. Del resto le organizzazioni criminali italiane investono nel settore delle pompe funebri da oltre 50 anni. Ecco questo è un tema fondamentale da comprendere, ossia che le mafie guadagnano esattamente da quegli stessi settori da cui hanno guadagnato sino ad ora; settori che la pandemia ha reso ancora più necessari come la distribuzione di generi alimentari, trasporti, imprese di pulizie, servizi di catering, servizi di disinfezione, pompe funebri. L’Europa non può continuare a guardare le mafie come bande di zotici truffatori o rapinatori pronti a far la ricotta sulle attività legali. Magari fosse così. Le organizzazioni mafiose sono le strutture meglio organizzate del capitalismo contemporaneo, intuiscono gli affari prima che le esigenze di mercato li definiscano, conoscono sempre ciò di cui si avrà bisogno, e sono pronte a darlo senza vincoli burocratici, superando ogni ostacolo, rapidamente e ovviamente alle loro condizioni. Le organizzazioni criminali investono da anni anche in quello che è il settore principe della pandemia, quello sanitario. Capiremo solo alla fine di questo disastro quanto saranno riuscite a infiltrarsi negli appalti, nelle strutture ospedaliere europee non solo italiane. L’attenzione ora è focalizzata sulla conta dei morti, gli allarmi sui contagi, l’attesa messianica del vaccino, le continue informazioni e smentite circa le modalità di diffusione del virus, ma giunti alla fine di questa disamina la richiesta è una. L’Europa tutta deve fare presto a intervenire verso le aziende che sono morte e stanno morendo perché tutte verranno “salvate” da capitale criminale. È già tardi ma forse non tutto è perduto. Forse. Scuola. Perché i presidi chiedono l’attenuazione della responsabilità penale di Antonello Giannelli Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2020 Alla tutela antinfortunistica dei lavoratori concorrono varie misure tra cui quella inerente all’assicurazione Inail, l’articolo 2087 del Codice civile e gli articoli 589, comma 2, e 590, comma 3, del codice penale che configurano aggravanti in caso di violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. A seguito dell’emergenza epidemiologica, il legislatore delegato è intervenuto dapprima sull’aspetto assicurativo, assimilando l’accertata infezione da coronavirus in occasione di lavoro a infortunio sul lavoro, mediante l’articolo 42 del decreto-legge 18/2020. L’articolo 29-bis del decreto-legge 23/2020 (c.d. liquidità), introdotto in sede di conversione, ha poi circoscritto la responsabilità civile datoriale di cui all’articolo 2087 c.c. e ha precisato che l’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro si intende assolto mediante la (sola) applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19. Ad oggi, non è stato ancora deciso alcun intervento sugli articoli 589 e 590 c.p. e, pertanto, il profilo penale datoriale è rimasto invariato. Naturalmente, l’aver reso più certo il parametro di riferimento civilistico della condotta doverosa della parte datoriale ha indubbi riflessi anche sulla sua responsabilità penale. La giurisprudenza di legittimità del supremo giudice penale, infatti, individua proprio nell’articolo 2087 c.c. la norma “extra penale” idonea a costituire, in capo al datore, quella posizione di garanzia dell’incolumità che ne fonda la responsabilità ex art. 589 e 590 c.p. Con la conversione in legge del decreto “liquidità” sono dunque diminuite le possibilità che il datore di lavoro sia penalmente responsabile. Questi, infatti, non deve più ricercare, di volta in volta, le misure antinfortunistiche da adottare ma può limitarsi ad applicare quelle previste dal protocollo affinché il suo obbligo di garanzia risulti assolto. Al riguardo, è bene sottolineare che si tratterebbe di ricerca aleatoria, visto che dette misure sono necessariamente mutevoli, come avviene ad esempio per le disposizioni anti Covid-19 che sono soggette a continui aggiornamenti È proprio la rilevanza dell’art. 2087 ad aver spinto l’Anp a chiedere che i protocolli di sicurezza da noi sottoscritti fossero il più circostanziato possibile. Ad oggi, però, se il datore violasse le norme prevenzionistiche, opererebbero comunque le aggravanti prima ricordate ed egli continuerebbe, in ogni caso, a rispondere anche per colpa lieve. Questo appare eccessivamente penalizzante nel caso in cui la colpa sia riconducibile a sola imperizia per una duplice ragione: 1) la quantità di competenze necessarie a gestire la sempre crescente complessità degli ambienti di lavoro - e delle scuole in particolare - è in continuo aumento e 2) il livello di competenza necessario è sempre più elevato. Una tale “perizia” non può essere posseduta nemmeno con il supporto del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del Medico competente. Per rendersene conto, si pensi all’applicazione di indicazioni, apparentemente ragionevoli e motivate, proposte da quest’ultimo che però si rivelino insufficienti a garantire la tutela dell’integrità dei lavoratori fragili: dovrebbe forse risponderne penalmente il datore di lavoro? Poiché la colpa, anche quella lieve, riconducibile a negligenza o imprudenza non è scusabile, abbiamo in più occasioni sensibilizzato le forze politiche per chiedere che i datori di lavoro tutti - e non solo i dirigenti scolastici - rispondano solo per colpa grave nel caso di infortunio derivante da imperizia, in analogia con quanto previsto per le professioni sanitarie. È ora che tale richiesta, ben lungi dall’essere assimilabile a qualsivoglia “scudo penale” - per noi eticamente inaccettabile - trovi accoglimento: è possibile coniugare la possibilità per il datore di operare serenamente, specie in un contesto in continua evoluzione in cui le prescrizioni tecnico-scientifiche e le indicazioni operative cambiano con rapidità, con l’esigenza della più ampia tutela dell’incolumità dei lavoratori. I magistrati della Corte dei conti contro l’addio alla colpa grave di Salvatore Sfrecola La Verità, 25 agosto 2020 Le toghe bocciano la riforma del governo: “Deresponsabilizza e non accelera nulla”. Non è una rivendicazione corporativa, ma un’azione a tutela del pubblico erario e nell’interesse dei cittadini che pagano imposte e tasse. E anche della credibilità dell’Italia di fronte all’Europa che metterà a disposizione ingenti risorse per la ripresa dell’economia. Ci tiene molto l’Associazione magistrati della Corte dei conti a sottolinearlo in una conferenza stampa via Teams, che manda in onda la protesta nei confronti del governo che nel decreto legge Semplificazioni ha escluso che i pubblici amministratori e dipendenti siano chiamati a risarcire danni commessi con “colpa grave”. Si fa notare l’evidente contraddizione di un governo che, mentre dice di voler semplificare le procedure amministrative e contabili, invece di mettere a disposizione dei suoi funzionari strumenti operativi più adeguati, attua un preventivo “colpo di spugna” in favore di disonesti e incapaci che abbiano causato danni all’erario con una condotta caratterizzata da gravissima negligenza e imperizia o trascuratezza delle regole. Insomma non si aiutano i bravi, che sono senza dubbio la maggioranza, ma incapaci e disonesti. È una lesione grave dell’interesse pubblico alla corretta gestione della finanza e del patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, ha sottolineato il presidente dell’Associazione, Luigi Caso, che è anche l’interesse dei cittadini contribuenti cioè di quanti, pagando imposte e tasse, assicurano ai bilanci pubblici le risorse necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica. Oggetto specifico di queste critiche è l’articolo 21 del Dl Semplificazione il quale, dopo aver integrato l’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, numero 20, secondo il quale la responsabilità per danno erariale può essere affermata solo in caso di dolo o colpa grave, specifica che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Ma la lesione degli interessi pubblici lamentata dai magistrati della Corte dei conti sta al punto 2 dove si legge che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo i della legge 14 gennaio 1994, numero 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. La critica è scontata per chiunque abbia un minimo di conoscenza. delle procedure amministrative. Dov’è la semplificazione? L’eventuale azione di responsabilità della Corte dei conti è sempre successiva alla realizzazione di un’opera pubblica o all’emanazione dell’atto. “Pertanto” sottolinea l’Associazione magistrati, “eliminando la colpa grave non si accelera nulla e, quindi, è più corretto parlare di norma di deresponsabilizzazione. Non è neanche corretto dire che la norma serve a superare la cosiddetta “paura della firma”, che andrebbe combattuta rendendo più chiare le leggi. Invece, si preferisce lasciare in piedi una legislazione oscura e contraddittoria ma si assicura la totale irresponsabilità di chi deve attuarla (non si cura la febbre ma si rompe il termometro)”. E ricorda che nel 2019, a fronte di 28.722 denunce di danno, vi sono state 23.939 archiviazioni e 1.162 citazioni, cui hanno fatto seguito 934 condanne in primo grado. Nel corso dell’anno è stata recuperata all’erario la somma di euro 299.061.268, per lo più riferita a sentenze pronunciate negli anni precedenti. In parte somme dovute a sprechi di somme messe a disposizione dall’Ue. Una norma assurda, dunque, che deresponsabilizza i pubblici amministratori e funzionari escludendo la “colpa grave”, quella “intensa negligenza, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, grave disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni, macroscopica violazione delle norme, un comportamento che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”. Un esempio che fa capire: chi ha sbagliato nella manutenzione del ponte Morandi non lo avrebbe fatto con dolo ma con colpa grave. Che senso ha una riforma che esclude queste responsabilità, tra l’altro a tempo, con effetti perversi su procedure che durano anni? Chi l’ha scritta evidentemente non conosce le regole. Considerazioni per il governo ma anche per il Parlamento in sede di conversione del decreto legge appena all’inizio. Ustica: vietato sapere di Paolo Guzzanti Il Riformista, 25 agosto 2020 Intervistai subito dopo la sciagura il tenente colonnello Lippolis, che era arrivato sul posto poco dopo la tragedia, e aveva visto i cadaveri bruciacchiati, i sedili, e il resto dell’aereo. Non poté testimoniare su questo. Il premier Conte ha rimesso il segreto di Stato sulla tragedia di Ustica (27 giugno 1980, cade vicino a Ustica un DC9 dell’Itavia: 81 morti). Così Ustica si carica di nuove menzogne e tradimenti. Chi scrive ne è sicuro per aver ben studiato tutta la materia. L’aereo di Ustica partito da Bologna e diretto a Palermo cadde dopo essere esploso per una bomba nascosta dietro la toletta. La sentenza penale dichiara che quell’aereo non è stato abbattuto da un missile di una inesistente battaglia aerea per colpire un inesistente aereo Mig con dentro Gheddafi, nascosto sotto la pancia del volo di linea I-Tigi dell’Itavia. I pubblici ministeri concordarono che la causa più probabile del disastro era la bomba. Ma la bomba richiedeva un attentato premeditato e un movente. Una immaginaria battaglia aerea mai accaduta, poteva invece passare come uno storiaccia buona per un film. La sentenza civile - che diverge totalmente da quella penale - dice il contrario, e condanna gli ufficiali dell’aeronautica militare dell’epoca a risarcire le vittime, sostenendo che se tragedia c’è stata, è dipesa dalle mascalzonate dell’aeronautica militare italiana che avrebbe nascosto le prove dell’avvenuta battaglia aerea. I fatti che conosco direttamente li ho pubblicato venti anni fa in “Ustica verità rivelata” con tutti i documenti contro cui nessuno ha mai avito da obiettare. Il segreto di Stato imposto da Conte riguarda le attività del colonnello Giovannone dei nostri servizi segreti, il quale ai tempi di Ustica e della strage di Bologna (35 giorni dopo) lavorava presso la nostra ambasciata di Beirut e da lì informava con fonogrammi cifrati il ministero degli esteri italiano dei piani e delle attività sul suolo italiano degli arabi in generale e in particolare delle varie fazioni dell’Olp di Yasser Arafat, di cui la più aggressiva era l’Fpdp del medico cristiano George Habbash. Libici e palestinesi erano convinti - e certo non se l’erano inventato - di avere mano libera sul nostro territorio per compiere le azioni che ritenessero necessarie. Così ad esempio ci fu la stagione durante la quale Gheddafi spedì in Italia un plotone di killer che si dedicarono allo sterminio sistematico degli oppositori del suo regime, senza incontrare resistenza da parte di polizia e magistratura che guardavano altrove. Ma non sempre andava tutto liscio perché capitava ogni tanto il giudice (ricordiamo il giudice Carlo Mastelloni quando inseguiva Arafat con un mandato di cattura) o il poliziotto che non sentivano il dovere di rispettare il patto. Quel patto ricevette un nome probabilmente abusivo: “Lodo Moro”, nel senso che la politica estera fortemente filopalestinese e filoaraba seguita da Aldo Moro avrebbe ispirato una sorta di codice di comportamento non ufficiale ma ufficioso che di fatto garantiva l’impunità a chi fosse stato trovato in Italia mentre commetteva o tramava un attentato purché non contro l’Italia. Accadde che alcuni missili aria terra destinati ad abbattere aerei di linea israeliani furono trovati dai magistrati nelle mani di Daniele Pifano, leader “autonomo” degli infermieri del Policlinico Umberto Primo a Roma. Ci furono arresti e sequestri. George Habbash si infuriò e chiese a vivissima voce il rispetto dei patti: rivoleva i suoi missili e i suoi uomini arrestati, ma trovò una strenua resistenza nelle forze dell’ordine su cui pensava di poter comandare. Gli fu opposto un netto rifiuto. Secondo quello che Giovannone sapeva a Beirut, e che la presidenza del Consiglio giallo-rossa sèguita a coprire, era un piano di rappresaglia in due colpi: il primo, sarebbe stato un avvertimento: Ustica. Il secondo il castigo: Bologna. Questi cablogrammi di Giovannone e della stazione Sismi di Beirut sono stati a viva voce richiesti dall’associazione delle vittime di Ustica che non si beve la palla del missile e dell’aereo di Gheddafi e ha chiesto, con le vittime della stazione di Bologna, di tirar fuori le carte e vedere che cosa c’è scritto. Conte ha risposto, senza impelagarsi in congiuntivi: magari, forse, fra una trentina d’anni, quando saranno tecnicamente morti tutti. Ora, diteci voi: non è geniale un governo della trasparenza? Sembra del tutto uguale agli altri, ma è molto peggio perché più d’ogni altro tratta i cittadini come sudditi. Peggio dei più fetidi governi dell’opacità democristiana. Ora ripeterò quel che io so di Ustica e che risulta dagli atti dei testimoni. Primo: subito dopo la sciagura intervistai l’allora tenente colonnello Lippolis, che per la protezione civile era arrivato sul posto mentre ancora galleggiavano i cadaveri bruciacchiati legati ai loro sedili, prima di inabissarsi definitivamente. Mi disse Lippolis: “sono un esperto di esplosioni perché vengo da un disastro causato dai fuochi d’artificio su una barca in Sicilia. Ho visto i cadaveri e presentano ustioni crescenti quanto più sono vicini alla camera di scoppio di un ordigno che era evidentemente sistemato nella toilette centrale di quel tipo di aereo. E poi, disse, man mano che ci si allontanava dal fornello dello scoppio i cadaveri presentavano ustioni sempre più deboli e poi nulla del tutto. Secondo: l’intero aereo - salvo piccole parti della coda - fu rintracciato e recuperato sul fondo del mare grazie all’opera di una ditta francese che si regolò con le equazioni basate sulla velocità, direzione, verso, momento dell’esplosione, conseguente disintegrazione dei diversi pezzi secondo la loro massa e le traiettorie che li fecero ammarare. Terzo: un missile (almeno i missili del 1980) non penetra un aereo esplodendogli dentro, ma esplode di fronte all’aereo che viene polverizzato da una massa. L’aereo di Ustica non è affatto polverizzato e non ha alcun segno di missile ricevuto. Quando chiesi al tenente colonnello Lippolis se avesse detto ai giudici ciò che lui aveva visto sui cadaveri dei passeggeri, mi rispose: “No, me l’hanno impedito. Mi hanno fatto altre domande burocratiche e quando ho cercato di dire quel che ho visto mi hanno licenziato”. E poi ci fu il caso di Frank Taylor, un fisico inglese che risolse il caso dell’aereo esploso sul cielo di Lockerbie in Scozia, su cui Taylor ricostruì ogni fibra e traccia ed expertise, fino a consentire al governo di inchiodare la Libia di Gheddafi che fu costretto a scusarsi e pagare i danni. Questo Taylor fu chiamato alla sbarra e disse subito di aver già visto che il Dc9 di Ustica era stato fatto saltare con una bomba, probabilmente collegata con un altimetro. Ma lo cacciarono subito via dal processo. Lo accusarono di non so più quali malefatte e lo misero alla porta. Accadde così che Taylor convocò una conferenza nell’aula magna del Cnr in piazzale Aldo Moro, a Roma, dove andai io e pochi esperti di giornalismo aviatorio, ma non c’era uno solo dei grandi inviati che hanno fatto carriera con la bufala del missile. E Taylor parlò per ore davanti all’enorme lavagna illustrando le modalità dell’esplosione e basandosi sui fatti, i reperti, le temperature, le fibre, i vettori, gli esplosivi, una lavagna che sembrava quella di Einstein. Non si scomodò nessuno per venire a sentire le sue parole, che erano le parole del maggior esperto del mondo in attentati sugli aerei. Così, come accade soltanto in Italia, alla fine la giustizia ha servito due sentenze in conflitto fra loro, una civile una penale, con quella civile secondo cui ci fu una battaglia aerea come in un videogame perché gli americani - nella solita parte dei banditi arroganti e fuori legge - avevano cercato di ammazzare Gheddafi che sarebbe stato in volo su un Mig di fabbricazione sovietica, del tutto inesistente. Le associazioni delle vittime hanno implorato il governo di togliere il segreto di Stato sull’unica cosa che conta: qual era la vera natura delle minacce di compiere attentati in Italia da parte di organizzazioni palestinesi come l’Fplp di George Abbash che era anche sostenuto dalla Libia. Il Conte ha fatto una smorfia aristocratica e ha detto: troppo presto per dare le perle ai porci. La verità può aspettare. Si segreti tutto, e tanti saluti alla trasparenza. Caso Pittelli, Giachetti: “Bonafede chiarisca” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 25 agosto 2020 Interrogazione di Giachetti al ministro. Solidarietà anche da Costa (Azione): “Bene così, solo in Italia esistono carcerazioni preventive così lunghe”. Mancini: “Il Pd si muova”. La denuncia del Riformista mette in moto la politica. Il caso dell’ex parlamentare di FI, Giancarlo Pittelli, in galera da otto mesi senza neppure poter interloquire con il pm che ne ha decretato l’arresto nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott, ha allertato il deputato di Iv, Roberto Giachetti. Che ha presentato un’interrogazione al ministro Bonafede. Ma la vicenda suscita anche l’interesse di Azione. “È una vicenda che merita grande attenzione, va rimessa in discussione la carcerazione preventiva, che solo in Italia può durare così a lungo senza garanzie per la difesa”, commenta Enrico Costa. E Giacomo Mancini: “Si muova anche il Pd” La politica si muove per accendere i riflettori sulle anomalie del caso Pittelli. Perché quel che capita a Giancarlo Pittelli, e che è successo ad altri nel passato, rivela qualcosa di più di una vicenda di malagiustizia. E racconta di quell’insieme di umiliazioni, vessazioni e angherie che lambiscono la tortura psicologica e stracciano lo stato di diritto. Pittelli, avvocato cassazionista prestato alla politica, con Forza Italia per due volte alla Camera e una al Senato, lo scorso 19 dicembre alle 3:30 del mattino viene raggiunto nella sua casa di Catanzaro da un ordine di arresto nell’ambito della spettacolosa inchiesta Rinascita-Scott, coordinata dal procuratore anti-mafia Nicola Gratteri. Mezzo migliaio di agenti armati, autoblindo nelle strade, elicotteri in volo. L’alto numero degli arresti rende impossibile, in un primo tempo, l’analisi puntuale di quanto accade. Oggi sappiamo che dopo una perquisizione nel suo studio di avvocato, iniziata all’alba e durata fino alle 17:30, e dopo 18 ore durante le quali non gli viene consentito di bere né di mangiare (chissà perché) l’ex parlamentare viene tradotto in carcere. La mattina successiva viene disposto l’interrogatorio di garanzia al quale Pittelli arriva prostrato, stravolto e senza avere minimamente contezza degli atti e degli addebiti a suo carico; si avvale dunque della facoltà di non rispondere. È allora che lo caricano in ceppi su un aereo militare che solca il mare - come nell’Argentina di Videla - e lo stesso 20 dicembre è trasferito nel carcere sardo di Badu e Carros, a Nuoro, dove è attualmente recluso. Una operazione tanto spettacolosa quanto kafkiana: l’indagato è finito in un buco nero, inizialmente non riesce a parlare con i suoi avvocati. Vive un incubo senza fine. E benché siano trascorsi ormai 8 mesi dall’arresto e pur avendone fatto più volte richiesta, l’ex parlamentare non è mai stato ascoltato dal Pm di Catanzaro titolare dell’inchiesta. Pittelli al momento dell’arresto è accusato di associazione mafiosa e di altri due reati specifici, l’abuso d’ufficio e la rivelazione di segreti d’ufficio commessi, secondo l’accusa, in concorso con il colonnello dei carabinieri Naselli; ma le accuse contro quest’ultimo sono decadute e di conseguenza cadono anche quelle di abuso d’ufficio e di rivelazione del segreto d’ufficio rivolte a Pittelli in concorso con Naselli che, infatti, è stato prontamente scarcerato. Pittelli resta in carcere con la sola accusa di concorso esterno. Mentre scriviamo non risulta che sia stato disposto il rinvio a giudizio e neppure che sia stata fissata l’udienza preliminare. E qui interviene l’onorevole Roberto Giachetti, Italia Viva, con la sua storia di militanza radicale che lo porta a proseguire la battaglia per una giustizia giusta che Marco Pannella incarnò per tutta la vita. Il parlamentare renziano ha presentato una interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia, Bonafede. “Secondo quanto riferiscono gli avvocati di Pittelli, le sue condizioni psichiche ed emotive destano particolare preoccupazione in ragione anche dell’isolamento totale a cui è costretto in carcere e dal fatto che sia in cura con pesanti psicofarmaci; si richiede se il ministro interrogato sia già a conoscenza della vicenda esposta in premessa; se il ministro non ritenga di dover procedere, nell’ambito delle sue prerogative e competenze, ad acquisire ulteriori elementi in riferimento alla vicenda in esame ed eventualmente ad attivare i propri poteri ispettivi al fine di verificare se vi siano state irregolarità o anomalie nell’iter dell’intero procedimento; quali iniziative, per quanto di competenza, intenda porre in essere al fine di tutelare i diritti dell’indagato e in particolare per assicurare la pienezza dell’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito”. Si muovono anche in Azione, la formazione guidata da Calenda, dove il deputato Enrico Costa - responsabile della Giustizia - plaude all’iniziativa di Giachetti. “La vicenda Pittelli merita grande attenzione, e più in generale va rimesso in discussione l’istituto della carcerazione preventiva, che solo in Italia può durare così a lungo senza garanzie per la difesa”. “Non entro nel merito delle contestazioni: ci sarà un processo - aggiunge Costa - e saranno vagliate da un giudice. Detto questo, il diritto di difesa e la presunzione di innocenza implicano per chiunque il diritto di esporre la propria versione dei fatti davanti al Pm che ha chiesto la custodia cautelare, ed il dovere di chi indaga di ascoltare e verificare”. Anche nel Pd c’è chi vuole vederci chiaro, come l’ex parlamentare socialista Giacomo Mancini, un nome che in Calabria ha un peso storico. “Ha fatto bene Giachetti a presentare questa interrogazione”, dichiara Mancini al Riformista. “Mi auguro possa raccogliere tante adesioni ad iniziare dai parlamentari di centrosinistra. Le battaglie per una giustizia giusta devono tornare patrimonio della nostra parte. La carcerazione preventiva deve essere un’eccezione comminata soltanto in presenza di specifici requisiti. Nel nostro ordinamento è diventata, purtroppo, la regola. Non conosco in profondità la vicenda giudiziaria ma ho conosciuto Giancarlo Pittelli come un parlamentare serio e competente e come avvocato capace e preparato. Come una brava persona. Mi auguro possa difendersi dalle accuse mosse contro di lui da cittadino libero e in uno stato di serenità tale da consentirgli di battersi al meglio per tutelare la sua onorabilità”. Pittelli ha intanto chiesto di essere giudicato con il giudizio immediato, decisione motivata dalle preoccupanti condizioni di salute del detenuto in attesa di giudizio. L’11 settembre prossimo, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, si svolgerà l’udienza preliminare che interessa 456 imputati. Un secondo troncone dell’inchiesta - che ha portato il numero degli indagati complessivi a 479 di cui 23 posizioni sono state stralciate - è scattato il 18 giugno scorso all’atto della conclusione delle indagini preliminari. Sui troppi eccessi di questa operazione si attendono ora le risposte di Alfonso Bonafede, nero su bianco. Pensione di invalidità a detenuto per mafia. “Ne ha diritto, condannata Inps” di Laura Distefano livesicilia.it, 25 agosto 2020 Una decisione che potrebbe fare giurisprudenza. Un catanese, condannato in via definitiva per reati per mafia - pena già espiata - e detenuto nel carcere di Livorno, ha ottenuto il riconoscimento al trattamento pensionistico di inabilità. La genesi della vicenda - Il Tribunale del Lavoro di Livorno in realtà ha ripristinato il diritto all’indennità che, dopo una lunga lotta nelle aule giudiziarie, il condannato catanese aveva ottenuto nel 2014 dai giudici catanesi. Nel 2003, infatti, l’Inps aveva rigettato il riconoscimento all’invalidità. Il Tribunale di Catania aveva infatti condannato l’Istituto di previdenza a corrispondere il sussidio. La revoca dell’Inps - Ma nel 2017 la battaglia giudiziaria del detenuto catanese, difeso dall’avvocato Elena Parietti, si è riaperta. “Tutto nasce nell’agosto 2017 - spiega a LiveSicilia il legale - quando L’Inps comunica che a partire dal marzo 2017, quindi già da mesi prima della comunicazione, revoca il pagamento del trattamento pensionistico per inabilità”. Alla base della revoca l’applicazione dell’articolo 2 della cosiddetta Legge Fornero che stabilisce che i reati associativi (e quindi anche il reato per associazione mafiosa) siano ostativi e quindi chi è stato condannato per questo tipo di reati non ha diritto all’indennità. La battaglia legale - Per l’avvocato Parietti però il suo assistito non rientrava nell’applicazione della legge Fornero per una serie di ragioni: la condanna del catanese era precedente al riconoscimento della pensione di invalidità e nella sentenza non si faceva menzione nelle sanzioni accessorie a questo aspetto, la Legge Fornero era successiva alla sentenza di condanna per mafia e poi il detenuto aveva terminato di espiare la pena in merito a quel reato già nel 2011. Per questo prima di iniziare il giudizio l’avvocato Parietti tenta “una conciliazione bonaria” evidenziando anche che c’erano in quella decisione degli atti contrari “ai dettami costituzionali”. La conciliazione però non ha portato alcun risultato, così l’unica strada è stata quella “di iscrivere una causa al Tribunale civile di Livorno, competente per territorio chiedendo - spiega l’avvocato - che, in applicazione della sentenza del Tribunale di Catania sezione Lavoro, volesse annullare il provvedimento di revoca e per l’effetto condannare Inps ad elargire la prestazione dalla data della sospensione con interessi e rivalutazione monetaria come per legge”. Il Tribunale accoglie il ricorso - Il Tribunale di Livorno ha ritenuto che “non può trovare applicazione la disciplina” della Legge Fornero in quanto “le ipotesi di revoca delle prestazioni disposta con sentenza di condanna, intervenuta, dopo l’entrata in vigore della legge”. E per questo i giudici hanno deciso di accogliere il ricorso e quindi di annullare il “provvedimento di revoca dell’Inps di Catania” condannando l’istituto al pagamento “della prestazione dalla data della sospensione”. “Una vittoria sui diritti” - “Quella ottenuta dal mio assistito è una vittoria che va letta - commenta l’avvocato Elena Parietti - sotto proprio il necessario riconoscimento che il nostro Stato rivolge a tutti i cittadini anche coloro i quali nella vita abbiano commesso errori di cui ne pagano le conseguenze. Diversamente opinando si andrebbe a creare una situazione incostituzionale che mina la sicurezza sociale del nostro Stato che non può trovare deroghe rispetto all’uniformità nell’applicazione e riconoscimento dei diritti”, conclude il legale. Stalking configurabile nei rapporti di vicinato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2020 Commette il reato di stalking colui che con diverse condotte moleste, reiterate nel tempo, costringe i suoi vicini di casa a temere per la propria incolumità e a cambiare le proprie abitudini di vita. Questo è quanto emerge dalla sentenza 530/2019 del Tribunale di Campobasso. Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo, denunciato per atti persecutori dai suoi vicini, in quanto per circa un anno e mezzo aveva cagionato nei confronti di costoro un perdurante stato di ansia e di paura attraverso reiterate condotte moleste e fastidiose, quali ad esempio l’appostamento notturno dietro il cancello o il parcheggiare la macchina in maniera da impedirne l’uscita. I motivi di tali comportamenti erano da rinvenire nella contesa di uno spiazzale di circa 40 metri quadri ubicato al confine delle due proprietà e in alcuni lavori edilizi in corso d’opera commissionati dai vicini. Nonostante un iniziale provvedimento di ammonimento, l’uomo continuava con la sua strategia di tensione, al punto da far divenire inevitabile un procedimento penale a suo carico. La decisione - Tratto a giudizio per rispondere del reato ex articolo 612-bis cod. pen., l’uomo viene condannato dal Tribunale, che riconosce anche una certa gravità nella condotta da lui posta in essere. Il giudice dichiara di seguire l’orientamento giurisprudenziale più recente che segna una ulteriore evoluzione dell’ambito applicativo del reato di stalking, “non più confinato a fenomeni di degenerazione dei rapporti affettivi, ma tale da estendersi fino a ricomprendere anche quelle condizioni di prossimità di vita tipiche dei rapporti di vicinato”. Il delitto di atti persecutori, pertanto, è configurabile tutte le volte in cui le condotte reiterate di molestia e minaccia siano tali da determinare uno stato di ansia o paura, ovvero timore per l’incolumità e cambiamento delle abitudini di vita. Circostanza che si è verificata nel caso di specie con la coppia di vicini costretta a modificare la propria routine quotidiana proprio per evitare qualsiasi contatto con l’imputato molesto. Abuso d’ufficio: se la persona offesa si oppone il Gip non può archiviare senza contraddittorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2020 Il giudice per le indagini preliminari - se la persona offesa dal reato di abuso d’ufficio si oppone alla richiesta di archiviazione del Pubblico ministero - ha l’obbligo, prima di procedere, di instaurare il contraddittorio e fissare l’udienza camerale. La Corte di cassazione, con la sentenza 24030, accoglie il ricorso contro la decisione del Gip di dare seguito alla richiesta della pubblica accusa di archiviare un procedimento per abuso d’ufficio, considerando inammissibile l’opposizione della parte offesa e irrilevanti le indagini suppletive che questa richiedeva. La Suprema precisa, come prima cosa, la possibilità di fare ricorso in cassazione, perché il decreto di archiviazione era stato disposto prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate al nuovo codice di rito penale (legge 103/2017), con le quali è stato introdotto l’articolo 410bis che disciplina il nuovo mezzo di impugnazione attribuendo la decisione al tribunale, in composizione monocratica. Detto questo, gli ermellini annullano il decreto impugnato, e rinviano gli atti all’ufficio del gip. Per la Cassazione, infatti, non ci sono dubbi sulla legittimità a proporre opposizione da parte della persona offesa dal reato di abuso d’ufficio, se l’abuso contestato è diretto a danneggiarla. È invece da escludere “nel diverso caso in cui l’agente persegua esclusivamente un diverso vantaggio altrui”. Milano. Algerino 42enne senza fissa dimora si impicca in questura, aperta un’inchiesta di Ilaria Carra La Repubblica, 25 agosto 2020 Era stato fermato per un tentato furto. Il 42enne era in una stanza da solo in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. È morto così un uomo di 42 anni all’interno di una delle sale d’attesa dove si aspetta per accedere al fotosegnalamento in questura. Sono in corso gli accertamenti per verificare le eventuali responsabilità degli agenti legate alla sua mancata sorveglianza. L’uomo, A.B., senza fissa dimora con base in zona stazione Centrale, di origini algerine, senza documenti e con precedenti per furto e stupefacenti, era stato fermato ieri mattina intorno alle 10 in via Felice Casati, in Porta Venezia, mentre con un marocchino di 23 anni, “stavano rovistando tra alcune auto in sosta” spiega la questura in una nota. La volante era intervenuta su segnalazione di un cittadino. Un intervento fino a quel momento come tanti, dicono dalla questura. I due uomini sono stati portati in via Fatebenefratelli e sottoposti a un fermo per identificazione. La procedura cioè per stabilire le generalità di chi non ha documenti o è indagato. In questo caso, i due sarebbero stati indagati per tentato furto e rilasciati dopo poche ore. Così, l’algerino e il marocchino sono stati messi in due camere differenti. In gergo nelle camere dei fermati, che in tutto sono quattro, al primo piano: sale con solo una panca in muratura dove si entra senza cintura, lacci, taglierini e qualsiasi cosa che possa essere usata contro sé stessi o gli altri e dove si attende il proprio turno per il fotosegnalamento. Ma l’algerino non c’è mai arrivato. Nella camera è rimasto circa un’ora. Poi la scoperta intorno alle 12, il tentativo di rianimarlo, anche dei soccorritori del 118. Tutto inutile. Il gesto estremo dell’uomo ha lasciato sgomenti i poliziotti. Sarebbe stato liberato poco dopo, è difficile comprendere le ragioni di questo atto. La procura ha aperto un fascicolo per accertare la dinamica di quanto accaduto, per ora senza ipotesi di reato. La squadra mobile sta visionando le immagini delle telecamere di sorveglianza: ogni camera ne ha una che trasmette le immagini su un monitor che si trova nell’ufficio dove gli agenti hanno un obbligo di vigilanza 24 ore su 24. Per controllare i fermati, nel corridoio ci sono anche dei vetri su queste camere. L’uomo è stato ritrovato quasi seduto per terra appoggiato al muro. Non è escluso che tale posizione possa aver fatto pensare che stesse dormendo. Solo l’autopsia potrà chiarire se fosse ubriaco, come il presunto complice marocchino, o se fosse alterato da qualche sostanza. Da chiarire anche se avesse disturbi psichiatrici. Le sue impronte inserite nella banca dati corrispondono anche ad altri nomi: avendo precedenti, ogni volta potrebbe aver dato nomi diversi. Anche i suoi alias verranno esaminati. Milano. Totalmente incapace di intendere e volere si ritrova condannato a quattro anni di Paolo Verri Il Giorno, 25 agosto 2020 Neanche sapeva di essere a processo, via le condanne. L’uomo ha lasciato il carcere di San Vittore, ora è in cura a Castiglione delle Stiviere. Arrestato a gennaio, quando è arrivato nel carcere di San Vittore gli sono piovute addosso due condanne precedenti per tentata rapina e resistenza. In totale, 4 anni di reclusione. Peccato che non ci fosse alcuna “prova certa” che sapesse che erano stati avviati due processi a suo carico, finiti con sentenze a lui sfavorevoli. Abbastanza perché il protagonista di questa intricata vicenda di mala giustizia, un uomo di 48 anni che da tempo soffre di “gravi patologie psichiatriche”, venisse scarcerato. A far emergere le sue precarie condizioni di salute è stata l’avvocato Alessandra Calcaterra, nominata difensore di fiducia dopo l’arresto di 8 mesi fa. “Nel corso di quel procedimento - ha spiegato il legale - è stata disposta una perizia psichiatrica e il mio assistito è stato giudicato totalmente incapace di intendere e volere”. Abbastanza perché il 48enne potesse lasciare San Vittore per essere curato. Restava però da superare l’ostacolo delle due condanne, emesse nel 2018 e ormai diventate definitive. Entrambi i processi erano stati celebrati davanti al Tribunale di Milano senza che l’uomo ne sapesse nulla. In un caso, infatti, tutti gli atti erano stati notificati al suo difensore d’ufficio, che non lo aveva avvertito e a sua volta non aveva partecipato alle udienze. Anche il giudice aveva definito la “continua e ingiustificata assenza” del legale “veramente ignobile”. Il secondo caso è più complicato. Né l’avvocato - anche questa volta d’ufficio - né i giudici avevano rintracciato l’uomo, che negli ultimi anni ha abitato in diverse città d’Italia. A tutto questo si era aggiunto un errore di notifica: “inspiegabilmente” l’avviso di chiusura delle indagini e il decreto di citazione a giudizio erano stati mandati a un legale non era quello nominato in un primo momento. A giocare a favore dell’uomo, anche una sentenza della Cassazione (le motivazioni sono state depositate il 17 agosto) che stabilisce come non basti l’elezione di domicilio da parte di un indagato presso il difensore d’ufficio. Ci vuole di più. Spetta al giudice “verificare” che “vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale” tra l’avvocato e il suo cliente “tale da far ritenere con certezza che abbia conoscenza del procedimento” o che si sia “sottratto volontariamente” alla legge. Così la Corte d’appello ha deciso di annullare le due sentenze precedenti. Ora, in attesa dei nuovi processi a cui potrà partecipare, il 48enne verrà seguito dagli specialisti della Rems di Castiglione delle Stiviere. Palermo. “Revival”, per chi deve scontare i domiciliari ma non ha alloggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2020 È un progetto cogestito dal Comune e dal Ministero della Giustizia. “Revival” è la possibilità di ospitare in una struttura convenzionata con il comune di Palermo quei cittadini che devono scontare un periodo di detenzione domiciliare ma non hanno un domicilio oppure, per esigenze sanitarie legate al Covid-19, non possono svolgerlo presso il proprio domicilio. Si tratta del progetto coordinato dalla Unità di Mediazioni e Giustizia riparativa dell’Assessorato per la cittadinanza solidale. Il progetto è cogestito dall’Amministrazione comunale e da quella della Giustizia. La struttura, ospitata presso una Opera Pia cittadina, è gestita dall’Associazione “Cammino d’Amore” e sarà operativa in via sperimentale per tre mesi durante i quali saranno utilizzate le risorse del Fondo nazionale contro la povertà. La struttura è pensata per un massimo di 32 utenti, ma al momento ne ospita 8. Si tratta di cittadini, italiani e stranieri, per i quali la Magistratura ha autorizzato forme alternative alla detenzione. Per ciascuno di loro l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) del ministero della Giustizia, elabora un piano personalizzato che, se autorizzate dal magistrato competente, può anche prevedere attività di volontariato, culturali e sociali da svolgere all’esterno della struttura. Proprio in tal senso si sta attivando l’Unità operativa del comune, che già da anni coordina e promuove attività di giustizia riparativa, mediazione penale, facilitazione dei percorsi di recupero. Nell’ottica della responsabilizzazione e dello sviluppo di percorsi di comunità, gli ospiti del progetto “Revival” sono responsabili della co- gestione, in particolare della pulizia degli spazi comuni e del supporto alle attività. Trattandosi comunque di cittadini con provvedimenti restrittivi decisi dalla magistratura, le visite possono essere svolte solo previa autorizzazione e all’interno vigono comunque regole stringenti rispetto agli orari, alla gestione degli spazi, al divieto di utilizzo di alcol e stupefacenti. “Si tratta di un progetto sperimentale - spiega l’assessore Mattina - che conferma la visione di una città che a trecentosessanta gradi vuole prendersi cura di tutti, anche di chi, avendo commesso errori e reati, sta facendo un percorso di reinserimento sociale concordato e monitorato dalle strutture del ministero della Giustizia”. Per il sindaco Leoluca Orlando “si conferma che a Palermo tutti hanno diritti e doveri e che tutti devono avere la possibilità di rimediare ai propri errori con percorsi umani, rispettosi anche se rigorosi. Si conferma anche quanto sia importante la collaborazione fra le istituzioni pubbliche e fra queste e gli enti del privato sociale”. Livorno. De Peppo: “Chiudere e ristrutturare 2 sezioni del carcere” livornotoday.it, 25 agosto 2020 Sughere, la denuncia del Garante dei detenuti: “Alcuni reparti versano in condizioni di precarietà”. Il garante dei detenuti del Comune di Livorno, Giovanni De Peppo, ha voluto fare il punto della situazione riguardante alcuni reparti del carcere cittadino, soprattutto il “verde” e il “giallo”, denunciando “una grave e intollerabile precarietà”. Il raddoppio del numero dei carcerati che le Sughere potranno ospitare (da 250 a 500, ndr), secondo De Peppo, deve coincidere con la “chiusura e la ristrutturazione radicale delle sezioni gialle e verdi. Qui lo spazio per le persone ristrette è davvero angusto e le complessive condizioni, a causa della vetustà e della pessima qualità della costruzione, sono tali da rendere invivibile questo spazio dove lo Stato prende in custodia i cittadini”. “Se si è deciso di raddoppiare il numero dei detenuti - continua il garante - la scelta non può essere a discapito della qualità di un istituto penitenziario dove, grazie anche alla efficace e attenta direzione di Carlo Mazzerbo, viene data grande attenzione alle strategie di riabilitazione, ma che purtroppo si deve misurare con enormi difficoltà di carattere strutturale che impediscono di usufruire di aree trattamentali, di recupero, di formazione, di lavoro”. Inoltre, secondo quanto riportato da De Peppo, è arrivata anche dall’ufficio di sorveglianza di Livorno una chiara posizione nella quale si “ratifica” la grave precarietà delle sezioni sopracitate. Il magistrato di sorveglianza, nell’intervenire in merito all’istanza di un detenuto, ha fatto riferimento alla sentenza Torreggiani, emessa della Corte Europea l’8 gennaio 2013, condannando lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso, che risale a quell’anno, riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. “Tali condizioni - sottolinea De Peppo - si replicano appunto anche nei reparti ‘gialli’ e ‘verdi’ delle Sughere, destinati ai reati comuni”. Livorno. Sull’isola di Gorgona i detenuti non devono più uccidere gli animali di Fulvio Cerutti La Stampa, 25 agosto 2020 “La sofferenza non può essere rieducativa”. “Da quando sono arrivato qui, tre anni fa, mi occupo dei suini. Li accudisco, do loro da mangiare, li pulisco. Un anno e mezzo fa ho chiesto che venisse risparmiato. Gli ho anche dato un nome, si chiama Ciccio”. A parlare è un detenuto del carcere di Gorgona. La sua sensibilità per gli animali è nata da bambino, in Calabria, a casa dei nonni che allevavano polli, capre, maiali. Un’inclinazione che a Gorgona lo ha spinto a salvare un maialino destinato alla macellazione: “Quando l’ho incontrato per la prima volta era piccolissimo, potevo prenderlo in braccio, ora è diventato enorme! Mi ascolta, arriva quando lo chiamo, mi riconosce: come un cane. Spesso sottovalutiamo la sensibilità e l’espressività degli animali: sono molto più profondi di quanto pensiamo”. Ora quel detenuto non dovrà più chiedere che il suo Ciccio o altri animali vengano “graziati”. Perché a inizio giugno il mattatoio dell’isola ha chiuso. Il penitenziario sull’isola, a un’ora di nave dal porto di Livorno, ha sempre avuto una fattoria dove i detenuti allevavano maiali, mucche, pecore e capre. E come in altre realtà agricole questi animali finivano poi macellati per diventare cibo. Per anni le associazioni animaliste hanno chiesto che questo ciclo si interrompesse e che i centinaia di animali venissero trasferiti altrove. L’obiettivo è stato raggiunto a fine giugno quando, grazie a un accordo fra la Lega Antivivisezione (Lav), il ministero di Giustizia - con particolare interessamento del sottosegretario Vittorio Ferraresi - e il carcere stesso si è trovato il modo di trasferire 588 animali dall’isola in un rifugio. Ma non tutti gli animali sono stati portati via: circa 180 sono rimasti nella fattoria, ma questa volta con un destino diverso: il mattatoio è stato chiuso e i detenuti possono finalmente prendersi cura di loro senza poi dovergli togliere la vita. “Si affezionano agli umani che se ne prendono cura, hanno un’ottima memoria e si ricordano di quello che fai per loro - racconta l’uomo che ha fatto amicizia con Ciccio. Ma anche lui dà molto a me: serenità, affetto. Con lo sguardo ti fanno capire ciò che provano e se sai cogliere questa profondità, non puoi che rispettarli”. Una serenità che spesso veniva interrotta quando gli animali dovevano diventare cibo: “Quando sono arrivato qui avevo il compito di portare gli animali al mattatoio dopo averli cresciuti e curati, e mi si spezzava il cuore: loro si fidavano di me e io li tradivo. Interrompere la macellazione è stato un bene. Qui a Gorgona sto imparando un mestiere. Continuare a lavorare prendendomi cura degli animali può rappresentare una prospettiva per il futuro, una volta scontata la pena”. La chiusura del mattatoio ha reso felice anche persone come S. un detenuto indiano che per motivi religiosi è vegetariano e non ha mai voluto lavorare dove gli animali venivano uccisi: “Da sei mesi mi occupo delle galline, do loro da mangiare, cambio l’acqua, pulisco il pollaio. Quando apro il cancello del recinto mi riconoscono e mi vengono tutte incontro - spiega S. Quando sono arrivato a Gorgona avevo un’altra occupazione, poi in un secondo momento sono passato al lavoro con gli animali, che mi aiuta sicuramente a passare delle giornate più vivibili. “Un’attività che crea sofferenza non può avere una valenza rieducativa, la cessazione dell’attività del macello è un grande passo avanti, il punto più alto di un cambiamento di prospettiva cominciato circa dieci anni fa”, così Giuseppe Fedele, educatore che opera nel carcere analizza i benefici di questo importante cambiamento che ha avuto proprio una spinta da ciò che i detenuti provavano nel dover abbattere quegli animali che spesso erano l’unico quotidiano diverso dalla vita penitenziaria: “Abbiamo acquisito una maggiore sensibilità, ci siamo avvicinati a una prospettiva più solidale, al rispetto per la natura, a considerare gli animali come esseri capaci di provare e mostrare sentimenti. Così abbiamo iniziato a “graziarli”. Alcuni detenuti, nel corso degli anni - spiega ancora Fedele - si rifiutavano di lavorare nel mattatoio e chiedevano svolgere altre mansioni, manovalanza o lavori agricoli: non volevano compiere una attività violenta. Da un lato erano gratificati nell’allevare polli, galline, capre, pecore, maiali, per via del rapporto empatico che si creava curandoli giorno dopo giorno e dava loro consolazione e conforto. Poi, però, la relazione veniva spezzata dal tradimento dell’uomo che, una volta conquistata la fiducia dell’animale, lo accompagnava al macello”. La chiusura del mattatoio si accompagna a progetti più interessanti e professionalizzanti che vanno oltre al mero guadagno economico: “Le nuove attività di cura degli animali, lavori agricoli, cura del patrimonio boschivo, che andranno ad aumentare e a diversificarsi ulteriormente con l’attivarsi dei nuovi progetti, vengono svolte con più entusiasmo rispetto alla macellazione di animali, e rendono i detenuti più sereni, consentono loro di imparare nuovi mestieri e di occuparsi del bene comune - spiega ancora Fedele. Tutto questo dà loro una rinnovata fiducia nella società e nel mondo e li terrà lontani da ulteriori reati, una volta usciti dal carcere. Questo è il senso della rieducazione. A tali benefici immediati se ne aggiungeranno altri che vedremo nel lungo periodo, questo è l’inizio di un progetto dalla visione molto ampia”. Frosinone. “Ossigeno”, attività teatrale in carcere per tornare a respirare di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 25 agosto 2020 Il laboratorio teatrale interno alla casa circondariale di Frosinone, curato dall’educatrice Laura Mariottini, è andato avanti - sempre con tutti gli accorgimenti imposti dalle regole anti-contagio - anche durante i mesi più duri segnalati dall’emergenza Covid-19. “Saremmo dovuti andare in scena con lo spettacolo Ossigeno ad aprile 2020 - dichiara Mariottini - ma, ovviamente, non è stato possibile. Così abbiamo lavorato con gruppi ristretti alla costruzione di un video promozionale dello spettacolo, che speriamo sia solo rimandato”. Il 30 luglio il video è stato proiettato. “Abbiamo potuto presentare un video - aggiunge l’educatrice - a un pubblico, ristretto e distanziato, composto dal Magistrato di Sorveglianza, da una parte dei detenuti, dal personale in servizio della Polizia Penitenziaria e alcuni volontari. In questo modo abbiamo potuto far conoscere il lavoro che abbiamo svolto prima e durante l’emergenza sanitaria”. Non solo. La rappresentazione teatrale si è andata modificando in corso d’opera inglobando all’interno della storia anche l’emergenza Coronavirus. “Dato che l’ambientazione della scena si prestava - conclude Mariottini - abbiamo fatto in modo che i personaggi (un gruppo di operai e ricercatori, in missione sulla Luna per renderne l’atmosfera respirabile attraverso la librazione di ossigeno), apprendano proprio durante la loro reclusione lavorativa sulla Luna la notizia di una pandemia mondiale”. Al termine della presentazione del video dal titolo “Ossigeno-Lavori in corso” ha fatto seguito un dibattito molto partecipato che è stato guidato dai detenuti-attori. “La penna e la forca”, la letteratura contro la pena di morte di Stefano Pasta La Repubblica, 25 agosto 2020 Antonio Salvati ha appena pubblicato “La penna e la forca. Scrittori e pena di morte, suggestioni letterarie per il rifiuto della pena capitale” (Intrecci Edizioni, 2020), antologia di 46 autori abolizionisti. Dall’ambizioso Julien Sorel de “Il rosso e il nero” di Stendhal a Mersault, il modesto impiegato di Algeri protagonista de “Lo straniero” di Camus. Da Balzac a Dickens, da Manzoni a Vittorini, passando per Nabokov, Dostoevskij, Hugo, Koestler, fino ai contemporanei Yu Hua, Khaled Hosseini e Idanna Pucci. “La penna e la forca” è una ricognizione, criticamente orientata, di posizioni sulla pena di morte espresse da letterati dagli inizi dell’Ottocento ai giorni nostri. 46 autori che Antonio Salvati, insegnante di scuola superiore, contestualizza nel periodo storico-culturale, presenta le opere in cui trattano dell’”omicidio di Stato” e ne riporta dei brani. Generi letterari diversi per interrogare sul sistema penale. Gli sguardi di alcuni autori riguardano il sistema penale generalmente inteso. Il criterio di selezione - l’ordine è quello cronologico - è l’assunzione verso la pena e le istituzioni giuridiche di un atteggiamento quanto meno critico: un approccio che va da forme di diffidenza e scetticismo a modalità più decise di condanna radicale (è il caso, ad esempio, di Tolstoj). Una deroga cronologica è fatta per Shakespeare e la sua opera “Misura per misura”, in cui Salvati seleziona il dialogo tra il boia Asborrito e il futuro aspirante aiutante Pompeo. Scorrendo le pagine si torna al XIX e XX secolo, incontrando i grandi romanzieri dell’Ottocento, ma anche la “letteratura impegnata” di scrittori “engagès” come Sartre, Camus, Malraux e Bernanos, che si preoccupavano della loro epoca e combattevano a colpi di pamphlet e manifesti. Quest’ultimo filone, che segna l’impegno espresso dai letterati francesi nel periodo che immediatamente precede e segue la seconda guerra mondiale, è il risultato di un lungo percorso, che ha avuto le sue figure tutelari (filosofi e scrittori che vanno da Pascal a Victor Hugo) e i suoi momenti fondatori. La coscienza abolizionista come sviluppo del pensiero europeo. Infatti, attraverso la letteratura, Salvati ci accompagna nel pensiero europeo, aiutando il lettore a coglierne lo sviluppo e l’evoluzione. Oggi in Europa l’”omicidio legalizzato” resiste solo in Bielorussia, che proprio in queste settimane mostra come diritti umani, giustizia e democrazia siano ancora lontani nel regime di Lukashenko; qui lo scorso gennaio due fratelli di 19 e 21 anni, Stanislaw e Illya Kostsew, sono stati condannati alla fucilazione alla nuca. Eppure, rimarremmo delusi se ci attendessimo un sicuro e forte messaggio abolizionista dalla storia del pensiero politico e filosofico dell’Occidente, considerata nel suo complesso. In essa è assai più costante e insistito il richiamo alla legittimità e all’utilità della pena di morte che non l’appello alla sua abolizione. Quando i filosofi sostenevano l’omicidio legalizzato. In particolar modo, il pensiero filosofico sulla pena di morte è purtroppo desolante. Le opinioni dei grandi classici della filosofia sono prevalentemente, monotonamente, a favore. Da Platone e Aristotele fino a Kant e Benedetto Croce, si registra una lugubre continuità nel sostegno filosofico alla pena di morte, che accomuna trasversalmente filosofi cattolici (Sant’Agostino, San Tommaso, Bellarmino) e pensatori protestanti (Lutero, Calvino), utopisti (Tommaso Moro, Campanella) e giusnaturalisti (Hobbes, Locke, Rousseau), illuministi (Diderot, Montesquieu) e idealisti (Fichte, Hegel), pensatori liberali (Feuerbach, Romagnosi, Constant, Mill) e penalisti moralisti (Pellegrino Rossi, Giuseppe Bettiol). La morte come pena è insomma profondamente, durevolmente connessa con l’intera storia dell’Occidente. È nel Settecento, con l’uscita di opere come quelle di Beccaria e Voltaire, che si apre un serio e ampio dibattito sulla liceità della pena capitale. Non si è né si nasce contro la pena di morte, lo si diventa. Leggendo “La penna e la forca” si capisce come la letteratura ha accompagnato l’emersione di una coscienza abolizionista, con il conseguente passaggio da una pena che ha il carattere del supplizio ad una pena rieducativa. “Più che certezze da svelare”, così riassume Salvati, “ponendo domande ed esprimendo in tal modo la sua forma di resistenza civile e al male”. E aggiunge: “La letteratura non vale nulla se non è, fondamentalmente, esperienza etica, rapporto col mondo e intensificazione dell’esistenza, riflessione continua sui valori che ci conservano umani”. Il testo, pubblicato da Intrecci Edizioni, è stato terminato nei mesi dell’emergenza sanitaria e della didattica a distanza, Salvati è un docente delle superiori. Il profondo obiettivo educativo. Ecco che capiamo come questa antologia contenga un profondo obiettivo educativo. Lo riassume Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, nella Prefazione: “L’istinto a rispondere male per male è innato, si direbbe parte inevitabile di un pensiero primitivo che, davanti al pericolo della violenza, fa scattare immediata la reazione ad eliminare il pericolo. Non si è né si nasce contro la pena di morte, lo si diventa. La vera giustizia non è uccidere l’altro. Giustizia è educare al senso del male e del bene, è togliere aria e terreno alla violenza tra simili”. Nell’era del populismo penale, la “sicurezza” non riguarda la società di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 25 agosto 2020 “Anche i ricchi rubano” di Elisa Pazé, magistrata della Procura di Torino, per le Edizioni Gruppo Abele. Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma qualcuno è più uguale degli altri. A questa conclusione orwelliana, ad un tempo amara e realistica, si giunge dopo la lettura di Anche i ricchi rubano (Edizioni Gruppo Abele, pp. 189, euro 14), preziosa ricognizione nell’ordinamento giuridico italiano ad opera di Elisa Pazé, magistrata in servizio alla Procura di Torino. L’autrice, che nel suo lavoro quotidiano si occupa di reati economici, non appartiene alla schiera dei pubblici ministeri in cerca di visibilità mediatica e consenso popolare, ma a quella degli operatori del diritto il cui rigore professionale fa il paio con l’esercizio del pensiero critico. Il suo debito nei confronti “del magistero di Luciano Gallino”, dichiarato nella premessa del volume, ne è testimonianza non smentita dai capitoli successivi. Scritto con precisione ma senza eccesso di specialismi, anzi con un apprezzabile sforzo di chiarificazione dei passaggi più ostici per i non addetti ai lavori, il testo illustra tutte le difficoltà che concretamente esistono nel fare giustizia dei reati commessi dalle classi dominanti, a fronte del populismo penale che invece colpisce senza pietà gli illeciti dei poveri, la cosiddetta microcriminalità. Evasione fiscale, bancarotta, aggiotaggio, corruzione, lottizzazioni edilizie abusive, incidenti sul lavoro, adulterazioni alimentari, rapporti fra politica e mafia: il catalogo è lungo e variegato, perché molteplici sono le situazioni nelle quali chi ha denaro e potere ne abusa ai danni della collettività o di soggetti socialmente più indifesi. La legge, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovrebbe essere a particolare tutela di questi ultimi, ma spesso non è così, nemmeno quando le norme esistono. Anche perché queste ultime, a volte, sono scritte talmente male da rendere difficile e controversa la loro applicazione - come ad esempio nel caso del nuovo reato di inquinamento ambientale. L’ordinamento giuridico è figlio della società di cui è espressione. “Nelle società di capitalismo avanzato - argomenta Pazé - c’è una tolleranza ideologica per certi reati, giustificati con la necessità di non inceppare l’economia”. A ciò contribuisce anche la maggioranza dei mezzi di informazione mainstream: a fronte della grancassa sulla cronaca nera, “dedicano spazi marginali a morti e infortuni sul lavoro, distorcendo in tal modo la percezione della criminalità”. E così muta la considerazione di cosa sia la “sicurezza”, che ormai evoca, nel senso comune, la pubblica sicurezza e non più la sicurezza sociale, la protezione dell’incolumità personale e non più il diritto a un’esistenza libera e dignitosa grazie a un lavoro stabile e a un welfare efficiente. La profondità teorico-critica e l’orizzonte culturale trasformativo mettono questo libro al riparo dal rischio di confondersi con altre voci del mondo giudiziario italiano che calcano le scene mediatiche autorappresentandosi come la salvezza della patria contro “i politici” indistintamente corrotti. Ciò non toglie che anche nelle pagine di Pazé si trovi una rigorosa - e sacrosanta - rivendicazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura come condizione necessaria, anche se non sufficiente, dell’uguaglianza dei cittadini. Uguaglianza che sarebbe ulteriormente compromessa dalla rimozione dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla separazione delle carriere fra pm e giudici, progetti che tornano periodicamente in auge quando, come di questi tempi con il “caso Palamara”, la magistratura, o per meglio dire una parte di essa, dà cattiva prova di sé. Fenomenologia triste del popolo no-mask di Donatella Di Cesare L’Espresso, 25 agosto 2020 La realtà non mi piace, quindi fingo che non esista. Un’Apoteosi di inconscio e di ottusità. “Qui non c’è virus!”. Un sorriso sfacciato e uno sguardo spavaldo accompagnano le parole del no-mask. “Qui non c’è virus! Dov’è? Dov’è? Tu l’hai visto?”. Infatti, no - nessuno l’ha visto. Perciò si è detto che il coronavirus, così invisibile, impalpabile, quasi astratto, avrebbe rappresentato un pericolo ulteriore, potenziato. Perché sarebbe stato la fonte inesauribile di fantasie complottistiche. Ma chi avrebbe potuto immaginare una rimozione così massiccia dopo più di trentacinquemila morti e un drammatico problema sanitario? Una rimozione esibita senza nessun pudore, ostentata fino a diventare la bandiera del nuovo partito trasversale No-Mask? La parola d’ordine “post-covid”, che ha chiuso il lockdown, è stata interpretata non come l’inizio della coabitazione con il virus, bensì come il ritorno alla normalità. Faciloneria, frenesia vacanziera, semplice voglia di lasciarsi alle spalle quel che è accaduto. Certo, capita a tutti, ormai, di vivere una schizofrenia quotidiana: si dimentica il virus, come se non esistesse, per rammentarsene d’un tratto, in una sorta di ripetuto, amaro risveglio. Ecco la difficoltà. Ma non si può far nulla, se non indossare la mascherina e compiere quei gesti necessari per gli altri prima ancora che per sé stessi. Chi rimuove - ce lo insegna la psicanalisi - semplicemente rifiuta una realtà divenuta inaccettabile. Qui non c’è risveglio, non c’è coscienza; è l’apoteosi dell’inconscio, il trionfo degli istinti. “Il virus non c’è”. Perché mi fa comodo così, perché “l’estate viene solo una volta”. Ma la fenomenologia del no-mask, che ha molte facce, è molto complessa. Accanto a chi rimuove inconsciamente c’è chi si crogiola nella diffidenza, ma anche chi nega armato di certezze. I confini sono labili. Per non parlare poi di quei politici meschini, sovranisti incalliti, negazionisti del coronavirus che, un po’ ovunque nel mondo (e da noi in modo eclatante), seguitando a fomentare l’odio per gli stranieri, tentano di far leva sull’insofferenza alle regole anti-covid. “Il problema non sono i ragazzi che ballano, ma quelli che sbarcano”, così Salvini. Il fine non troppo recondito è la chiusura immunitaria di una comunità passiva e sempre più depoliticizzata. Qualcuno ha scritto che la responsabilità sarebbe delle istituzioni incapaci di comunicare con gli irriducibili della movida. Eppure tutte le più alte cariche, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno parlato con chiarezza. Semmai si dovrebbe puntare l’indice su quei media che si fermano alle porte degli ospedali, che non raccontano il dolore, che non fanno vedere l’angoscia e il tormento di chi non riesce a respirare. Troppa fatica emotiva. E così si asseconda l’equivoco della morte anonima: si muore, ma è come se nessuno morisse. Tocca agli altri, non a me. E che dire poi dei talk show dominati da personaggi pagliacceschi, magari considerati intellettuali, che disprezzando pubblicamente la mascherina si fanno beffe di ogni senso civico? Per una volta, però, diamo la responsabilità a chi ce l’ha. A quei cittadini che si sentono vittime, della casta, del governo, del complotto, che cercano smaniosi un colpevole, che urlano a chi porta la mascherina “siete un popolo di schiavi”. Pseudopaladini di una fraintesa libertà che non guarda in faccia a nessuno, schiavi - loro sì - dei propri fantasmi elevati a dogmi. Triste menefreghismo, ottusità cialtrona, minorità civica. Ecco perché la rimozione è spia del grande problema culturale. Migranti. La civiltà e la legalità della regolarizzazione di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 25 agosto 2020 Far emergere i lavoratori stranieri dall’irregolarità è sempre positivo: specie in questo periodo di rischio di contagio per chi è ai margini dei circuiti istituzionali. Un bene per loro e per le aree dove abitano. È stato anche un segnale alle mafie e al caporalato nelle campagne, che spadroneggiano su “uomini ombra” fuori dal sistema, bonificando “terre di nessuno” ai margini della legge. Ma è avvenuta pure la legalizzazione di rapporti di fatto, cui molte famiglie aspiravano da anni per il personale domestico, senza possibilità dal 2012. La domanda è più larga di quanti hanno potuto accedere alla regolarizzazione. L’alto costo per il datore di lavoro (500 euro) ha creato problemi specie nel mondo agricolo. Sono stati disseminati tanti “paletti” nel provvedimento che rendono il percorso più difficile. Purtroppo sono stati lasciati fuori i lavoratori dell’edilizia, ristorazione, logistica e altri. Alcuni loro servizi sono stati fondamentali durante il lockdown. Non che si volesse un “libera tutti”, ma era necessario un provvedimento serio, teso a bonificare una situazione che si protraeva da anni. Tuttavia non si capisce perché simili processi siano cosparsi di ostacoli per renderli meno fruibili. Il provvedimento era nato per i lavoratori della terra, per l’agricoltura. Quindi molto restrittivo. Ma, subito dopo, anche su questo giornale, è stata notata un’altra vasta area non coperta: quella del lavoro domestico. Un’area sensibile, durante il Covid-19, anche per la gravità della situazione degli anziani a casa e negli istituti. Allargare a questa platea è stato difficile, perché ritorna un fantasma: gli italiani grideranno all’invasione o alla politica facilona. Nel timore di regalare argomenti e voti ai sovranisti, si rinuncia a una politica costruttiva su queste tematiche. E non da oggi. Gli italiani non hanno “gridato” contro l’invasione. Sono state le famiglie, gli anziani, i singoli datori di lavoro che, da soli, hanno avviato la regolarizzazione: hanno presentato quasi il 70% delle domande. Solo il 25% è passata per i patronati: ci dice qualcosa della scarsa mobilitazione delle organizzazioni o della ristrettezza delle reti sociali, specie in aree marginali. In realtà, il grande elemento di integrazione degli stranieri in Italia è la famiglia. Il ministero dell’interno e quello dell’agricoltura hanno presidiato il provvedimento che, nonostante i limiti, è una svolta. Al 15 agosto sono state presentate poco più di 30.000 domande per i lavoratori della terra e della pesca. In Campania e Sicilia si sono regolarizzati rispettivamente 6962 e 3584 lavoratori agricoli, mentre in regioni fortemente agricole come Emilia, Lombardia e Puglia ne sono emersi rispettivamente solo 2101, 1526 e 2871. Le differenze fanno riflettere su come la regolarizzazione abbia effetto, se sostenuta da reti sociali in azione e dal contrasto all’illegalità. La sorpresa positiva sono state le 170.848 domande per i lavoratori domestici. Era una domanda cui nessuno dava voce in politica. In totale 225.528 stranieri hanno fatto domanda di emergere dall’illegalità. Chi sono? In testa le ucraine, per lo più badanti. Seguono i pakistani, i bangladesi, i georgiani e gli albanesi (si equivalgono con numeri che sfiorano i 20.000 per ciascuna nazionalità). Si segnalano nuovi gruppi come indiani (indiane) e peruviane: entrambi oltre i 13.000. Gli altri si dividono tra le più varie nazionalità. Quasi l’80% dei regolarizzatori sono datori di lavoro italiani; il resto 20% stranieri. È stato un provvedimento di civiltà e legalità. Se non vogliamo allargare di nuovo le aree “in nero” dei lavoratori (che la nostra società di fatto richiede e richiama), è ora di procedere a regolare i “flussi” di lavoratori stranieri con processi regolari, rilevando i bisogni di lavoro che si stanno delineando. Siamo in un tempo di crisi, ma paradossalmente domande di lavoro in alcuni settori ce ne sono sempre, anzi sono in crescita. Migranti. La giustizia italiana riconosce la tortura nelle carceri libiche di Cécile Debarge popoffquotidiano.it, 25 agosto 2020 Per la prima volta un tribunale italiano ha condannato imputati stranieri per atti commessi all’estero su vittime straniere. Sono stati detenuti nell’ex base militare di Zaouia, una città costiera a 45 chilometri a ovest di Tripoli. Un testimone racconta quello che ha vissuto dietro alte mura e un grande cancello blu all’ingresso: “C’erano soldati, eravamo forse più di 300 all’interno di questa prigione, nessuno poteva uscire, ci veniva dato cibo una volta al giorno e l’acqua era razionata, non era nemmeno potabile perché era acqua di rubinetto dei bagni”. Nel mandato di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Palermo lo scorso autunno, ottenuto da Mediapart, cinque uomini e una donna raccontano in dettaglio il loro calvario nell’ex base militare trasformata in carcere per migranti. Tutti hanno messo piede a Lampedusa all’inizio di luglio 2019. Salvati al largo della Libia dal battello Alex & Co della piattaforma civile Mediterranea Saving Humans, sono stati interrogati qualche settimana dopo dai magistrati della procura di Agrigento. L’indagine mira a scoprire se tra i migranti salvati sono presenti dei trafficanti. Le testimonianze hanno un punto in comune: un periodo di detenzione nell’ex base militare di Zaouïa dopo essere stata venduti da intermediari o portati dalla polizia libica. Negli archivi fotografici della polizia, i testimoni riconoscono tre uomini. Il primo è arrivato il 27 giugno 2019 a Lampedusa. “Veniva dalla Guinea Conakry, era il vice-capo della prigione […], giovane ma molto cattivo, armato di bastoni con cui ci picchiava senza pietà”, ha descritto un testimone. “A causa dei colpi che mi ha dato, in diverse occasioni, ho ancora delle lesioni visibili sul mio corpo, soprattutto sul lato destro e sulla testa, era lui che aveva le chiavi della prigione”. Un altro testimone racconta: “Era soprannominato Suarez […], si occupava della sorveglianza, aveva una pistola, ci torturava, ci minacciava e decideva chi poteva uscire, perché era incaricato di raccogliere i riscatti”. In un secondo allegato, quello dell’arrivo di quaranta migranti a Lampedusa il 29 giugno 2019, le testimonianze puntano alle foto 39 e 40, quelle di due giovani egiziani. Rivedendo i loro volti, i testimoni descrivono agli investigatori le torture, i pestaggi con cavi elettrici, tubi di plastica, calci e pugni, per ore e ore. Lo scopo è sempre lo stesso: estorcere loro del denaro in cambio del loro rilascio. “Hanno chiesto 1.000, 1.500 o 2.000 euro; se non li avevamo, si trattava di pestaggi e torture”, dice un camerunense. Diversi testimoni raccontano le morti sotto i colpi, a volte dopo una lunga agonia. “In diverse occasioni durante il giorno, le guardie venivano a prendere le donne per violentarle”, ricorda un altro testimone. I tre sono stati arrestati a metà settembre in un centro di accoglienza di Messina, dove sono stati trasferiti dopo il loro arrivo. A fine maggio, mentre l’Italia era ancora concentrata sulla crisi sanitaria, il tribunale di Messina, in Sicilia, ha emesso la sentenza. Accusati di “tratta di esseri umani, violenza sessuale, tortura, omicidio, rapimento a scopo di estorsione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, i tre uomini, di età compresa tra i 23 e i 27 anni, sono stati condannati a 20 anni di reclusione. La decisione del tribunale è passata piuttosto inosservata. Eppure è degno di nota il fatto che i magistrati europei si pronuncino su tali fatti. “È la presenza dell’imputato sul territorio italiano che motiva il tribunale a giudicare questo caso. In questo senso, è storico”, dice Antonio Marchesi, professore di diritto internazionale all’Università di Teramo. Su richiesta di Mediapart, la Procura della Repubblica di Messina non ha voluto comunicare le ragioni di questa decisione giudiziaria. Se i magistrati hanno deciso di mantenere la giurisdizione universale del paese, è una novità assoluta. “Quel che è certo è che è la prima volta che un tribunale italiano condanna imputati stranieri per atti commessi all’estero contro vittime straniere”, ha detto l’ex presidente della sezione italiana di Amnesty International. “Soprattutto, è una delle prime condanne dei tribunali italiani per atti di tortura, perché è solo dal luglio 2017 che abbiamo una legge (largamente insoddisfacente rispetto alla convenzione firmata dall’Italia, ndt) che qualifica la tortura come reato”. Nel 1984 l’Italia aveva firmato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Ci sono voluti più di 30 anni perché l’Italia allineasse la sua legislazione a questa ratifica. “Il fatto che la magistratura italiana riconosca la tortura in questi centri è un primo passo, potrebbe costituire un precedente”, ha detto il professor Antonio Marchesi. Infatti, l’Italia fornisce assistenza diretta alla Libia per “affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani attraverso l’addestramento dei soldati libici”. Così il Memorandum d’intesa firmato tra i due Paesi definisce la collaborazione, che è stata firmata per la prima volta il 2 febbraio 2017. A metà estate, la Camera dei deputati ha votato (401 voti a favore, 23 contrari) per rinnovare questi accordi, l’ultimo passo formale per prorogarli per tre anni. Tra qualche giorno la Guardia Costiera libica dovrebbe ricevere nuove motovedette per svolgere le sue missioni. Gli accordi prevedono anche un sostegno finanziario per la gestione dei “centri di accoglienza” per l’accoglienza dei migranti. Tuttavia, questi accordi sono stati criticati da molte associazioni, ma anche dalle Nazioni Unite, in particolare a causa dei legami tra la criminalità organizzata e alcuni alti funzionari della Guardia Costiera libica. Un nome già noto emerge dalle testimonianze raccolte dai magistrati siciliani e riportate nel mandato di cattura della Procura della Repubblica di Palermo: “Bija”, il soprannome di Abd al-Rahman Milad. A volte presentato come direttore di un centro per migranti, a volte come capo della guardia costiera di Zaouïa, è oggi considerato uno dei maggiori trafficanti di esseri umani in Libia e investito di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Un testimone ha spiegato che Bija “era incaricato di trasferire i migranti sulla spiaggia, è stato lui a decidere chi doveva salire a bordo della barca”. Un compito svolto per conto di un uomo noto a tutti come “Ossama”, che nel mandato d’arresto viene citato decine di volte come capo del carcere. In un comunicato stampa pubblicato sul sito della sede italiana di Amnesty International, il suo Direttore Generale, Gianni Rufini, ha commentato: “Infine, una sentenza di un tribunale italiano ha confermato che i centri di detenzione libici per migranti, finanziati dall’Italia e dall’Unione Europea, sono luoghi di tortura. Siamo più che convinti che tutta la collaborazione tra Italia e Libia debba essere ripensata”. Migranti. Parte domani la Carovana Europea 2020 Il Dubbio, 25 agosto 2020 Fino al 30 agosto in quattro diversi territori: nel nord Italia, in Sicilia, a Bilbao e a Valencia. Partiranno domani da Torino, per spostarsi verso il confine del nordest, raggiungere Trieste, Udine e il Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Gradisca finito al centro delle cronache. Ritorneranno poi in Piemonte, in provincia di Novara, per denunciare la guerra e il traffico d’armi di fronte alla Leonardo-Finmeccanica. Si sposterà poi a Saluzzo, territorio tristemente famoso per lo sfruttamento lavorativo dei migranti, e infine sui passi del popolo migrante in movimento tra Oulx e Briancon, per finire con un presidio di fronte al Cpr di Corso Brunelleschi a Torino. Parliamo di una iniziativa promossa dalla Carovana Europea 2020 e che nasce da due esperienze collettive attive in due territori differenti: Caravana Abriendo Fronteras e Carovane migranti. È un evento di denuncia e testimonianza che a causa dell’emergenza sanitaria si è strutturato in modo diverso rispetto la proposta iniziale, ma che si svolgerà ugualmente da domani 26 al 30 agosto in quattro diversi territori: nel nord Italia, in Sicilia, a Bilbao e a Valencia. Invariato rimane l’obiettivo di denunciare le politiche migratorie dei governi spagnolo, italiano ed europeo e che, anzi, nemmeno di fronte alla pandemia da Covid-19 hanno fermato le dinamiche di respingimento, discriminazione, repressione e sfruttamento nei confronti delle persone migranti. In questa situazione i collettivi ritengono quindi più che mai necessario non farsi bloccare e continuare a lottare per i diritti e a denunciare le politiche criminali rispetto alle persone che vivono, o attraversano, il territorio italiano, spagnolo o cercano di oltrepassare le frontiere. La Carovana quest’anno assumerà perciò una forma particolare, sarà in parte in presenza e vedrà attivisti e attiviste muoversi verso alcuni territori, e in parte virtuale, con il contributo video in diretta o registrato dei testimoni che solitamente viaggiano con la Carovana e che non hanno rinunciato a far sentire le loro voci e far conoscere le loro lotte dai luoghi in cui vivono, cioè il territorio Mesoamericano, il Nord Africa, la Rotta Balcanica, le isole greche, ma anche il territorio palestinese e varie parti del Pianeta che purtroppo vedono calpestati i diritti umani delle persone migranti. A questo punto vale la pena parlare delle realtà promotrici. Carovane Migranti è un collettivo nato nel 2014, formato da attivisti e volontari, autofinanziati, di varie età e profili, nato da persone che avevano uno sguardo sul Messico come corridoio migratorio e che si sono rese conto che anche l’Italia, in quanto paese d’approdo e di transito per raggiungere altri paesi, stava diventando un paese in cui si perpetravano discriminazioni e violazioni dei diritti umani. L’idea che ha fatto nascere il collettivo è stata quella di viversi come un ponte per dare voce a persone che vivevano i territori in cui il fenomeno migratorio aveva un impatto evidente, e per permettere lo scambio di pratiche collettive e ricerca di verità e giustizia e dignità per i diritti di tutti e tutte. A partire dal 2014 ogni anno sono state organizzate Carovane che viaggiavano lungo i territori italiani e stranieri, insieme a testimoni provenienti da diverse parti del mondo, con l’obiettivo di denunciare e rendere note le lotte di persone che vedevano e vedono continuamente negati i loro diritti. Caravana Abriendo Fronteras è, invece, una rete nata nel 2016 con la carovana in Grecia, formata da diverse organizzazioni e collettivi spagnoli, che rivendica pratiche di buona accoglienza e diritti di libertà di movimento per tutte le persone, denunciando le situazioni in cui questi diritti non vengono rispettati, e sensibilizzando la cittadinanza in modo che questa possa essere parte attiva nella realtà, sentendo, pensando e agendo. Oltra al nord Italia, anche la Sicilia - in quanto Frontiera sud - parteciperà alla Carovana 2020, prendendo una posizione all’interno della rete euro-mediterranea, portando i propri corpi nei luoghi siciliani di frontiera, di sfruttamento, di violenza, di esclusione. Il contributo siciliano, in linea con i temi selezionati per la Carovana, si svolgerà ogni giorno in un luogo emblematico: a Catania, la prima giornata, per denunciare le politiche di Frontex, raccontare le prassi illecite nel confine Sicilia e il ruolo della base militare di Sigonella; a Pozzallo, la seconda giornata, per denunciare il sistema Hotspot e per raccontare le lotte contro la militarizzazione della Sicilia; a Campobello di Mazara, la giornata conclusiva, per parlare del caporalato e dello sfruttamento lavorativo dei migranti. Inoltre, verranno condivisi video che riguardano gli sbarchi di Lampedusa, il ghetto di Cassibile e le iniziative a Palermo per la regolarizzazione dei e delle migranti. Migranti. Musumeci sfida il Governo: “Pronto a rivolgermi ai pm se viola la mia ordinanza” di Simona Musco Il Dubbio, 25 agosto 2020 Le accuse del presidente della Regione Sicilia: “Migranti ammassati in campi di concentramento creati dallo Stato”. È un atto politico, più che amministrativo. Perché pur annunciando di non voler fare la guerra al Governo, Nello Musumeci l’ultimatum lo lancia comunque: se la sua ordinanza anti-migranti dovesse essere disattesa, si rivolgerà direttamente ai magistrati. Il tutto sventolando non le competenze in materia di immigrazione, che il presidente della Regione Sicilia ammette essere in capo allo Stato, ma quelle in materia sanitaria, con lo scopo di svuotare l’isola degli oltre 10mila migranti arrivati tra il primo luglio e ferragosto e bloccare il transito di quelli ancora per mare. Come? Agendo in qualità di “soggetto attuatore per l’emergenza Covid- 19”, in linea con le due precedenti ordinanze firmate per contenere i contagi. Ma nei tre articoli che la compongono, l’atto è chiaro: l’obiettivo è trasferire e ricollocare tutti i migranti fuori dalla Sicilia, impedire l’ingresso e il transito di nuove persone ma solo se arrivano via mare su imbarcazioni di fortuna - e sanzionare chi disattende l’ordinanza, valida, in linea di principio, dalla mezzanotte di ieri fino al 10 settembre. “La Sicilia non può essere invasa - ha scritto Musumeci domenica a corredo dell’atto - mentre l’Europa si gira dall’altro lato e il governo non attiva alcun respingimento”. E così annuncia il limite massimo di pazienza: “Aspettiamo la mezzanotte - precisa -, se i soggetti che sono chiamati a dare attuazione alla mia ordinanza non dovessero farlo a noi rimane solo una strada: rivolgerci alla magistratura”. In alternativa, c’è l’apertura a temporeggiare qualche giorno, se richiesto, “per ricollocare i migranti e mettere i sigilli negli hotspot e in tutti centri di accoglienza (se non lo fa lo faremo noi) dell’isola con buona pace di un certo buonismo ipocrita: così chiudiamo una pagina indecorosa, perché la gente non ne può più”. Le accuse all’esecutivo nazionale sono pesanti: aver creato dei “campi di concentramento”, ovvero aver ammassato i migranti in tendopoli e baraccopoli dalle condizioni sanitarie ai limiti. Ed è da questo punto che Musumeci parte, ringraziando Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Mariastella Gelmini per la solidarietà dimostrata nelle ultime ore. “Abbiamo soltanto rivendicato il diritto sacrosanto di tutelare la salute”, sottolinea. Il tutto snocciolando numeri: “5mila tamponi circa e 6.335 test sierologici sui migranti, altro che Regione che non collabora con il governo centrale”. Ma è proprio sui numeri che lo “inchioda” Pietro Bartolo, l’europarlamentare dem per anni responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa: 10mila persone tamponate e messe in sicurezza sulle navi per la quarantena o all’interno degli hotspot “a fronte di “alcuni milioni” di turisti giunti nell’Isola senza uno straccio di controllo”, scrive sul proprio profilo Facebook, ricordando il report del Comune di Palermo che fissa al 6,57 punti la percentuale dei tamponi effettuati sull’Isola, ovvero meno della metà della media nazionale. Ma la critica di Musumeci al governo è ferma: aver ignorato il grido d’allarme lanciato dalla Sicilia e, in particolare, dal sindaco di Lampedusa - “un’isola abbandonata a sé stessa” - che a giugno ha chiesto di dichiarare lo stato d’emergenza sanitaria, sociale ed economica, senza ottenere risposta. E di aver ammassato migranti in hotspot e centri d’accoglienza dai quali fuggono, spiega Musumeci, e “non rispondenti ai criteri di prevenzione previsti in una condizione di emergenza da epidemia. Se noi chiediamo alla gente di mantenere un metro di distanza, di portare la mascherina, di evitare la promiscuità, se contestiamo giustamente gli assembramenti nei locali di ritrovo, è mai possibile che in un salone devono starci 700 persone? Non mi importa se sono bianchi o neri - aggiunge sono esseri umani che si trovano sul territorio della mia Regione ed io sono il soggetto attuatore per l’emergenza Covid. A meno che quei locali non siano zona franca”. Intanto la Regione si è dotata di una task force per verificare le condizioni igienico- sanitarie dei centri di accoglienza e degli hotspot per i migranti sull’Isola. Dal canto suo il Viminale sta ragionando sulla possibilità di impugnare l’ordinanza, rispondendo, per ora, con uno scarno comunicato che richiama al dovere delle istituzioni di collaborare. “Da luglio scorso sono stati trasferiti in altre regioni circa 3500 migranti sbarcati sulle coste siciliane e ospitati nei centri di accoglienza dell’isola si legge -. La sicurezza, anche sotto il profilo sanitario, delle comunità locali è obiettivo prioritario del Viminale. Infatti, dopo aver inizialmente previsto il test sierologico per tutti i migranti arrivati, dai primi di agosto è stato introdotto obbligatoriamente l’esame del tampone rinofaringeo ed è stata attivata una apposita convenzione con la Croce rossa italiana per effettuare questo accertamento sanitario a Lampedusa ed assicurare rapide risposte. In ogni caso - conclude - la situazione attuale richiede lo sforzo comune da parte di tutte le istituzioni secondo il principio costituzionale di leale collaborazione, che si ritiene oggi più che mai indispensabile”. Se i migranti sono un facile capro espiatorio di Fausto Melluso* e Filippo Miraglia** Il Manifesto, 25 agosto 2020 I tunisini trattenuti per 20 giorni sulla nave quarantena, dopo essere stati abbandonati sul territorio, come succede in queste ore, diventano la preda più appetibile per i Musumeci e i Salvini. Niente di meglio, nell’estate calda dell’emergenza, con i contagi che crescono, di un bel capro espiatorio, del classico untore, rappresentato dagli stranieri che arrivano in Sicilia. Facendo finta di non vedere i cadaveri che affiorano sulle spiagge della Libia e nella striscia di mare che separa l’Africa dall’Europa, ai quali le istituzioni non dedicano neanche un pensiero. Se poi il governo, anziché trovare soluzioni ragionevoli, piccoli gruppi diffusi sul territorio affidati a personale competente collegato al Ssn, persegue nell’errore di ricercare soluzioni concentrazionarie, come hotspot e navi quarantena, alimentando la sindrome da invasione, e servendo in un piatto d’argento un argomento da campagna elettorale alle destre xenofobe, ecco che sindaci e presidenti delle regioni non perdono occasione per interventi a gamba tesa, come ha fatto Musumeci. Interventi che ricorrono anche a argomentazioni giuste, magari per trarne conseguenze sbagliate e indicare soluzioni illegittime e razziste. L’ordinanza di Nello Musumeci può certamente annoverarsi fra i nuovi traguardi del populismo razzista. Tra le altre cose dice, ad esempio: “è fatto divieto di ingresso, transito e sosta nel territorio della Regione Siciliana da parte di ogni migrante che raggiunga le coste siciliane”. Ordina poi il trasferimento immediato fuori regione di tutti i migranti presenti negli hotspot e nei centri d’accoglienza. Naturalmente il Presidente sa che, nonostante l’autonomia di cui la Sicilia “gode”, non ha alcun potere di intervenire sulle vicende oggetto dell’ordinanza. Il tentativo è quello di animare la solita propaganda becera ma anche di mascherare gli scadenti risultati della Regione Sicilia sia sotto al profilo dell’organizzazione sanitaria, la Sicilia è ultima per numero di tamponi, che del sostegno al tessuto sociale e produttivo. È stato proprio Musumeci, poche settimane fa, ad invocare le navi come luogo di quarantena per tutti i migranti. Il presidente della Regione Sicilia fa finta di non sapere che, se le persone fossero distribuite fra i Comuni, ci sarebbe la gara fra gli amministratori locali, purtroppo non solo di destra, alla strumentalizzazione e alle barricate contro “gli invasori”. Vogliamo ribadirlo: i numeri degli arrivi dell’estate del covid 19 non hanno nulla di straordinario. Sono molto al di sotto della capacità, di accoglienza nel nostro Paese, e possono ancora essere gestiti con intelligenza e in sicurezza. Se centinaia di giovani sono trattenuti in grandi centri e sanno, per le dichiarazioni davvero improvvide fatte dal governo, che non avranno mai un permesso di soggiorno, e che insieme a loro (sulla nave come negli hotspot o nei grandi centri straordinari) possono esserci persone positive al Covid-19, è comprensibile che provino a scappare e che la situazione diventi molto complicata da gestire. Quando si ricercano soluzioni impraticabili, per paura di perdere consenso o di regalare argomenti all’avversario, di fatto si finisce per commettere errori e per creare problemi, ai quali la destra, ricorre per allargare ancora il suo spazio nel dibattito pubblico. I tunisini trattenuti per 20 giorni sulla nave quarantena, dopo essere stati abbandonati sul territorio, come succede in queste ore, diventano la preda più appetibile per i Musumeci e i Salvini. Con un respingimento differito, rilasciato in maniera del tutto illegittima, come è prassi da anni, e un certificato di negatività al tampone Covid, andranno a cercare soluzioni di fortuna nelle grandi città, un lavoro nelle campagne o proveranno ad attraversare la frontiera di Como o di Ventimiglia. Sarebbe stato più facile, e si può ancora fare, utilizzare le strutture già esistenti, in gran parte appartamenti, con operatori in grado di gestire una relazione giusta con il territorio, affidare il monitoraggio e il controllo al Ssn e evitare di aumentare il numero di persone rese invisibili per legge. Da una parte si mette una toppa, con la regolarizzazione, e dall’altra si apre un buco, con i respingimenti differiti e l’aumento degli irregolari. * Arci Sicilia **Arci Nazionale Libia. In pochi giorni quattro naufragi nel Mediterraneo di Nello Scavo Avvenire, 25 agosto 2020 Pescatori e operatori della Mezzaluna Rossa raccolgono i cadaveri dalle spiagge vicino a Tripoli. La denuncia: quattro stragi in meno di una settimana, più di 100 morti e 160 persone scomparse. Sospinti dalla risacca, i cadaveri vengono trascinati sulle spiagge non lontano da Tripoli. Pescatori e operatori della Mezzaluna Rossa li rinchiudono pietosamente nelle sacche di plastica nera. Anche stavolta ne sono servite diverse di piccole e bianche. Quattro stragi in meno di una settimana: più di 100 morti e altre 160 persone sparite dopo aver preso il largo. Mentre dal Dipartimento di Stato Usa arriva un dossier che accusa ancora una volta il governo centrale di aver chiuso un occhio e non di rado perfino di cooperare con i trafficanti. Sul futuro pesa la sorte della tregua annunciata pochi giorni fa. Le forze armate guidate dal generale Khalifa Haftar, espressione del governo non riconosciuto di Tobruk, hanno rifiutato la proposta di cessate il fuoco. Un annuncio che suona come una resa dei conti interna, tra il parlamento di Tobruk, che ha accettato la proposta di transizione verso le elezioni avanzata dal governo riconosciuto di Tripoli, e il generale per il quale non sembra esserci il futuro da leader che aveva perseguito. Nell’incertezza, milizie e trafficanti continuano come sempre. “Il primo disastro, avvenuto tra il 16 e il 17 agosto - denuncia Alarm Phone - non è stato solo un naufragio. Le persone sono state colpite dagli spari di un gruppo di 5 uomini e la loro barca ha preso fuoco: 45 sono stati uccisi. Quelli che sono sopravvissuti sono vivi solo perché un pescatore locale li ha salvati”. Il secondo è avvenuto solo un giorno dopo. Da un gommone bianco avevano chiamato la linea telefonica d’emergenza. I volontari hanno ascoltato un’esplosione, che poi è risultata essere quella di un tubolare che non ha retto agli schiaffi del mare. Ancora una volta è stato un peschereccio libico a raccogliere i 65 che ancora stavano a galla, ma in 30 non ce l’hanno fatta. Il terzo caso risalirebbe in realtà a giorni precedenti. È stato segnalato da quello che sembra essere l’unico sopravvissuto, issato a bordo da un pescatore. Secondo la sua testimonianza a Ferragosto la barca è affondata appena dopo aver preso il largo. Erano partiti in 40. L’ultimo incidente è del 18 agosto, l’unico a non avere a che fare con la Libia: 18 persone avevano lasciato Jdareya, in Tunisia, a poca distanza da Zarzis, quando la barca si è capovolta e 3 migranti sono affogati prima che la Guardia costiera mettesse in salvo gli altri. “Dobbiamo fare in fretta, ormai è un’ecatombe”, ripetono i team di soccorso di Open Arms e Mediterranea, che si apprestano a ripartire verso quel mare dove sono già in azione gli attivisti di Sea Watch e della motovedetta civile Louise Michelle. Il loro intervento ha permesso di soccorrere quasi 200 persone in tre distinti interventi. E presto ricomincerà il braccio di ferro con Malta e Italia per ottenere un porto di sbarco. Nessuno, intanto, dà la caccia agli assassini. Le promesse di indagini e arresti in Libia contro i trafficanti si sono rivelate un fiasco. Pochi giorni fa il Dipartimento di Stato Usa ha completato il rapporto annuale sul traffico di persone nel mondo. “Il governo di Tripoli - si legge nel duro capitolo sulla Libia - non ha riferito se ha perseguito o condannato persone coinvolte nelle indagini su 205 sospetti trafficanti avviate dall’ufficio del procuratore generale”. E se è vero che “gli osservatori internazionali hanno continuato a segnalare la complicità di funzionari governativi coinvolti in operazioni di traffico di esseri umani e traffico di migranti, inclusi funzionari della Guardia costiera libica, ufficiali dell’immigrazione, funzionari della sicurezza, funzionari del ministero della Difesa, membri di gruppi armati formalmente integrati nelle istituzioni statali”, è oramai accertato che “vari gruppi armati, milizie e reti criminali si sono infiltrati nei ranghi amministrativi del governo e hanno abusato delle loro posizioni per impegnarsi in attività illecite, compreso il traffico di esseri umani”. Secondo i funzionari del Dipartimento Usa “alcune unità della Guardia costiera libica (Lcg) che sotto l’autorità del Ministero della Difesa, sono presumibilmente composte da ex trafficanti di esseri umani e contrabbandieri”. In particolare anche durante il 2019, periodo a cui fa riferimento il dossier, “l’unità della Libyan coast guard (Lcg) nella città di Zawiyah ha continuato ad avere ampi legami con il leader della milizia della Brigata dei Martiri al-Nasr, nota per aver commesso violazioni dei diritti umani, che gestiva il centro di detenzione per migranti di Zawiyah”. Si tratta della milizia a cui appartiene il comandante al-Milad, detto Bija. “I membri della milizia che gestiscono il centro di detenzione - si legge ancora - hanno abusato fisicamente dei migranti detenuti e venduto alcune donne migranti per schiavitù sessuale. Alla fine del 2019 il centro è stato trasformato in una caserma dell’esercito per le milizie, mettendo ulteriormente in pericolo i migranti detenuti e le vittime della tratta”. Russia. Per medici e governo tedesco non ci sono dubbi, Navalny è stato avvelenato di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 25 agosto 2020 “Il nostro sospetto è che qualcuno abbia avvelenato Alexej Navalny in maniera molto pesante. E poiché si riscontrano diversi casi analoghi nella storia recente della Russia consideriamo seriamente questa ipotesi”. Così il governo tedesco ieri, per bocca del portavoce Steffen Seibert. Un’accusa pesantissima, al limite del linguaggio diplomatico, diretta a Mosca con destinatario Vladimir Putin. Per la Germania, insomma, non ci sono dubbi: “Navalny è stato intossicato da una sostanza del gruppo degli inibitori della colinesterasi, anche se i medici non hanno ancora identificato di preciso la sostanza utilizzata”, confermano i dottori dell’ospedale berlinese della Charité che hanno trasferito l’oppositore del presidente russo nel reparto di terapia intensiva. Attualmente, Navalny non risulta in pericolo di vita ma rimane “in condizioni critiche nello stato di coma farmacologico indotto”, mentre i tecnici del laboratorio chimico del polo universitario continuano la ricerca della tossina responsabile del suo avvelenamento tra farmaci, pesticidi e agenti nervini. In parallelo alla Charité restano preoccupati per gli eventuali danni fisici permanenti, al punto che “non si possono escludere gravi effetti sul sistema nervoso di Navalny dato che l’esito della malattia resta incerto”. Al contempo sia la polizia del Land di Berlino che gli agenti federali fanno sapere che l’accesso al reparto dove è ricoverato Navalny viene controllato a vista, e il ministero dell’Interno conferma l’avvio del programma di protezione per l’oppositore di Putin, nonostante l’Ufficio criminale federale (ai sensi di legge) sia responsabile solo della sicurezza del governo tedesco e dei suoi ospiti ufficiali. Formalmente, Navalny non è stato invitato dalla cancelliera Merkel, tuttavia “la precauzione si rivela doverosa quanto necessaria” confermano, politicamente, autorevoli voci dell’”inner-circle” della Grande coalizione, tutt’altro che rassicurati dalle ultime dichiarazioni di Anatoly Kalinchecnko, vice capo dell’ospedale di Omsk, che ha trattato per primo sotto il profilo sanitario il “caso Navalny”. A sentire il medico russo “non sono state in alcun modo rinvenute tracce di avvelenamento nel suo corpo”: ipotesi a cui non credono i suoi colleghi tedeschi anche perché la “diagnosi” è stata rettificata più volte nel fine settimana. Bielorussia. Con le donne di Minsk: “La libertà siamo noi” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 25 agosto 2020 Vestite di bianco, si danno appuntamento ogni giorno per chiedere al regime di Lukashenko di mettere fine alle violenze: ““In piazza, al mercato e lungo i viali per far vedere a tutti che la propaganda statale mente”. La prima volta il 12 agosto dopo la repressione della polizia. Sono ono apparse la prima volta la mattina del 12 agosto davanti al mercato Khamarovskij. Un centinaio di donne coraggiose in abito bianco e con un mazzo di fiori in mano. Una protesta silenziosa e pacifica per condannare la violenta repressione delle forze dell’ordine che nei giorni precedenti aveva traumatizzato il popolo bielorusso sceso in piazza contro le contestate presidenziali. Il pomeriggio un’altra catena umana di sole donne sventolava nastri bianchi e intonava la ninna nanna Kalyhanka sotto l’Obelisco della Vittoria. Da allora, migliaia di donne si danno appuntamento ogni giorno lungo gli ampi viali del centro di Minsk per chiedere il rilascio di tutti i detenuti politici, la verità sui dimostranti scomparsi e che, dopo 26 anni al potere, Aleksandr Lukashenko lasci il posto a Svetlana Tikhanovskaja. “Donne in Bianco”, le chiamano, come il gruppo delle “Damas de Blanco” cubane. Dietro quelle due azioni che hanno ispirato il Paese da nove milioni e mezzo di abitanti e ispirato il mondo intero ci sono due giovani di nome Marina e una manciata di loro amiche. “Abbiamo avuto la stessa idea contemporaneamente”, spiega Marina P., una trentenne ancora troppo traumatizzata per divulgare il suo cognome quando la incontriamo in un bar del centro dopo l’ennesimo corteo. La sera del 9 agosto, come migliaia di bielorussi, era andata davanti al suo seggio per conoscere i risultati elettorale, ma gli scrutatori si sono defilati e sono arrivati gli Omon, gli agenti anti-sommossa. Marina ha provato a fuggire, ma non ha avuto scampo. È così che sono iniziate le sue 36 ore di umiliazioni e violenze. “Ti gettavano dentro al blindato e ti bastonavano, ti tiravano fuori e ti bastonavano, camminavi nel cortile del carcere e ti bastonavano. Ci hanno tenuto tutta la notte in piedi faccia al muro, fatto bere l’acqua nello stesso secchio che ci avevano dato per i nostri bisogni. Ho ancora nelle orecchie le grida, i lamenti, i pianti di noi detenuti e le risa isteriche delle guardie che ci massacravano”. Rilasciata il 10 agosto, il giorno dopo Marina ha meditato quella che definisce la sua “vendetta senza armi”. “Insieme ad altre due amiche ci siamo chieste fino a che punto si sarebbe spinto questo sistema patriarcale e autoritario davanti a una cordata di sole donne. Abbiamo aperto un canale Telegram chiamato “Girl Power” e invitato altre conoscenti. Da tre siamo diventate 8mila in poche ore”. Per tutta la notte hanno discusso su dove incontrarsi, che cosa indossare, quali simboli usare. E infine hanno deciso di radunarsi davanti al mercato Khamarovskij perché lì le avrebbero viste anche le persone meno coinvolte nelle proteste: “babushke”, pensionati, casalinghe, per “dimostrare che i manifestanti non sono né drogati né alcolisti come li dipinge la propaganda statale”. E hanno scelto di indossare abiti bianchi e di portare fiori per “simboleggiare al massimo il concetto di pace”. Il raduno davanti all’Obelisco della vittoria è nato parallelamente. “Volevamo dimostrare che le donne non sono meno forti degli uomini”, racconta Mentusova, l’altra Marina. Dopo aver trascorso diverse notti insonni vedendo i corpi martoriati delle vittime della repressione, ha lasciato la figlia Vera di sei mesi con il marito a Mosca dove vive da diversi anni per tornare in Bielorussia. “Avevo lasciato il Paese perché non potevo cambiarlo e non so stare in un angolo. Ma quando la gente della mia città natale, Gomel, è scesa in piazza, ho visto che per la prima volta c’era la possibilità di lottare per la libertà. Una possibilità di cambiamento. Non potevo restare indifferente”. Insieme ad Anastasja Kostjugova ha coinvolto un gruppo ristretto di amiche e tenuto l’appuntamento in piazza della Vittoria segreto fino all’ultimo per timore di rappresaglie. Fino a quel mercoledì chiunque era un bersaglio della brutale violenza degli Omon. Il pensionato uscito a fare la spesa, l’automobilista che tornava a casa, il giornalista con l’accredito al collo e persino l’uomo che gridava: “Ho votato Lukashenko”. Ciononostante si sono presentate “vulnerabili” a piedi nudi, con abiti bianchi, “il colore della purezza e dell’innocenza”, e i nastri col disegno tradizionale biancorosso bielorusso e hanno intonato la ninna nanna Kalyhanka “perché la violenza - spiega Anastasja - cadesse in letargo e la gente si svegliasse”. In piazza, come al mercato, c’è stato chi ha avuto parole di gratitudine, chi ha applaudito e regalato fiori e chi invece ha fatto commenti sprezzanti. Tante donne si sono unite anche se non c’entravano nulla o sono arrivate alla spicciolata perché avevano visto le immagini sui social. “Abbiamo capito che non potevamo più fermare questo movimento”, dice Marina P.. “Siamo confluite in un unico canale “Donne della Bielorussia” che oggi conta quasi 14mila partecipanti. Non riesco ancora a credere che si sia allargato così tanto”. Non sarebbe mai successo, ammettono le giovani organizzatrici, senza l’esempio del cosiddetto “triumvirato”. Dopo che i “tre grandi” oppositori candidati alle presidenziali sono stati arrestati o sono fuggiti, le loro mogli o strette collaboratrici hanno proseguito la loro campagna elettorale. Svetlana Tikhanovskaja si è candidata al posto del marito e Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo l’hanno affiancata ai comizi. “Lukhashenko ha lasciato che Tikhanovskaja partecipasse alle elezioni solo perché la sottovalutava in quanto donna. Ha detto che la nostra Costituzione non è fatta per le donne e che una donna dovrebbe fare le polpette”, racconta la 28enne Aleksandra Kostenko, che ha preso parte sin dall’inizio a tutti i raduni delle “Donne in bianco”. “Oggi invece tutti vogliono Svetlana come presidente. In questa casalinga che chiudeva i comizi dicendo “Vado a fare le polpette” per ribattere a Lukashenko, hanno visto le loro madri e le loro mogli”. La paura, ammette Marina Mentusova, c’è. “Abbiamo paura di essere picchiate, ma abbiamo ancora più paura di dover vivere in uno Stato dove saremo sempre picchiate. Scendiamo in piazza per i nostri mariti, figli e fratelli. C’è molta rabbia in questo, ma anche amore. E quando una donna che ama scende in piazza, può resistere a tutto”. Libano. Con i profughi siriani che denunciano il regime: “Se torniamo a casa ci uccidono” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 25 agosto 2020 Un milione e mezzo di profughi, sui 7 scappati dalla guerra, vivono in Libano. Vorrebbero tornare a casa, ma non possono. “Abbiamo le prove provate che il regime ci sta dando la caccia”. “Certo che vorremmo tornare alle nostre case in Siria. Ma il regime di Bashar Assad ci perseguita, sappiamo di profughi rientrati e arrestati, torturati, altri assassinati, abbiamo paura”, raccontano in questi piccoli campi di fortuna, fatti di assi di legno, teli di plastica e vecchie coperte. Li hanno costruiti loro, col tempo, a ridosso dei nuclei urbani libanesi, sui bordi dei campi coltivati, con l’aiuto delle agenzie dell’Onu e di poche organizzazioni non governative occidentali. Per lo più si distinguono per i teloni bianchi dell’Unhcr utilizzati per coprire i tetti. D’estate sono infestati d’insetti e le capanne diventano forni. D’inverno imperano gelo e fango, i bambini s’ammalano più facilmente. Non è strano che una volta sperassero di trovare il modo di raggiungere l’Europa al più presto. Ora però si sono rassegnati: vorrebbero comunque andarsene e tornare a casa, arrendersi a quello stesso regime che avevano cercato di rovesciare e da cui erano poi fuggiti. Ma hanno paura. Così restano qui, bloccati, alcuni da ben nove anni, senza speranze. Forse chi sostiene che siano soltanto “economici” i profughi del Medio Oriente destabilizzato desiderosi di venire in Europa dovrebbe fare un salto tra questi accampamenti di civili siriani fuggiti in Libano a partire dall’estate del 2011 dal loro Paese in fiamme. Raggiungerli non è difficile. Sono oltre un milione e mezzo, un numero enorme, specie se confrontato con i circa cinque milioni di abitanti del Libano. E una frazione considerevole dei circa sette milioni di siriani scappati dalla guerra e dalle violenze del regime, sostenuto da Russia, Iran e dalle milizie dell’Hezbollah, il “Partito di Dio” popolare tra gli sciiti libanesi. Gli altri si trovano adesso per lo più in Turchia, Giordania, Grecia. Sono talmente numerosi che la Siria ha subito un tracollo demografico, da oltre 22 milioni di abitanti nel 2010 ad una quindicina stimata attualmente. Un’altra prova di quanto il regime resti poco popolare e talmente detestato da una parte considerevole dei suoi abitanti è che, a nove anni dallo scoppio della “primavera araba” siriana, tanti preferiscono la precarietà povera della condizione di profugo al confronto con i servizi di sicurezza agli ordini della nomenklatura baathista di Damasco. La maggior parte dei loro attendamenti si trova ad un’ora di mezzo di auto da Beirut, nel cuore della valle della Bekaa, controllata in forze dall’Hezbollah. “Noi abbiamo le prove provate che il regime ci sta dando la caccia. A parole Bashar Assad e i suoi portavoce affermano di volere la pace sociale e il nostro ritorno. In realtà, appena qualcuno di noi rientra viene fermato dalla polizia segreta, i ragazzi giovani vengono obbligati a fare il servizio militare, gli uomini considerati ex militanti della rivoluzione sono catturati, spariscono. Arrestati, torturati, uccisi. Stimiamo che nell’ultimo anno e mezzo oltre cinquecento siano letteralmente svaniti. Desaparecidos di cui sappiamo nulla. Io stesso ho quattro amici di cui non voglio dire il cognome - Walid 30 anni, Mohammad 29, Khaled 34, Mustafa 36 - che erano in contatto con me. Sono partiti. Ma, appena dopo la frontiera con la Siria, solo ad un paio di chilometri da dove ci troviamo adesso, sono stati fermati dalla polizia. Hanno fatto giusto in tempo a dirmelo, poi i cellulari sono stati sequestrati. Di loro abbiamo perso le tracce”, racconta tra i tanti il 41enne Yahia al Fares, due lauree prese all’università di Damasco e attualmente maestro di scuola qui nel campo denominato 024 dall’Onu. Vi si trovano una quarantina di baracche, che ospitano circa 200 persone. È il formato tipico dei campi libanesi, numerosi, vicini gli uni agli altri, ma di piccole dimensioni. Molto diversi da quelli sovrappopolati in Turchia e Giordania, o il terribile Moria, il campo sull’isola greca di Lesbos. La storia di Yahia è molto simile a quelle di tanti altri. “Sono originario del villaggio di Naharie, non lontano dalla città di Homs e dal confine col Libano. Veniamo da una regione sunnita che si rivoltò molto presto contro il regime. La repressione fu subito durissima, inumana. Le nostre case venivano metodicamente bombardate dalle artiglierie. Sinché il 5 maggio 2013 non arrivarono le fanterie dell’Hezbollah. Una vera operazione di pulizia etnica. Sparavano, uccidevano, volevano scacciare tutti i sunniti. Così abbiamo preso ciò che potevamo metterci in spalla e siamo scappati in Libano, prima in auto, poi a piedi”, ricorda. Lo stesso narra l’avvocato cinquantenne Mohammad al Rabia, a sua volta residente con la moglie 42enne Fatima in un villaggio delle campagne di Homs. “Una mattina del tardo aprile 2012 abbiamo preso i nostri due figli di 7 e 12 anni e siamo scappati. Prima a piedi, quindi con alcuni taxi locali. Non c’erano alternative. Scappavano tutti. Girava voce che Hezbollah avrebbe ucciso chiunque fosse rimasto. E del resto dalle nostre parti la grande maggioranza della popolazione voleva liberarsi una volta per tutte dal regime corrotto, che da decenni favoriva la minoranza alawita a scapito di noi sunniti. Eravamo stanchi delle vessazioni dei soldati ai posti di blocco, delle continue richieste di soldi”. Cosa sa di chi ha provato a tornare in Siria di recente? “Di tanti non abbiamo più alcuna notizia. So però di sette persone che sono riuscite a tornare al nostro villaggio con le famiglie. Noi siamo assolutamente interessati a parlare con loro. Qui in Libano oggi l’Hezbollah non ci tocca. Ma le condizioni di vita sono orribili, non posso lavorare, dipendiamo interamente dagli aiuti internazionali. I miei figli non hanno alcuna prospettiva per il futuro, le scuole funzionano a singhiozzo, non possono ricevere un’educazione regolare. Quando però abbiamo finalmente raggiunto via telefonica i nostri amici rientrati al villaggio le loro risposte sono state raggelanti. Parlavano come se fossero ascoltati dalla polizia, avevano chiaramente paura di rivelare alcun dettaglio di sostanza. Il loro messaggio era che è molto meglio restare in Libano. E ora non sappiamo che fare”. Nigeria. La denuncia di Amnesty International: 1.130 civili uccisi dall’inizio del 2020 Il Dubbio, 25 agosto 2020 Dallo scorso gennaio 1.130bresidenti in aree rurali del centro e del Nord- Ovest della Nigeria sono stati uccisi in una “preoccupante escalation di attacchi e rapimenti” da parte di gruppi armati. A denunciarlo è Amnesty International che accusa le autorità nigeriane di “aver abbandonato intere comunità rurali, lasciandole alla mercé di gruppi armati”. Nel suo ultimo rapporto l’Ong deplora “l’inazione vergognosa” dello Stato federale, dei governi locali e delle forze di sicurezza che “falliscono nel prendere misure efficaci per proteggere le popolazioni”. Amnesty ha intervistato residenti negli Stati di Kaduna, Katsina, Niger, Plateau, Sokoto, Taraba e Zamfara, che hanno raccontato di vivere nella paura costante di attacchi e rapimenti in costante aumento nelle loro comunità rurali. I responsabili di efferati crimini sono tanti: gruppi armati che rubano il bestiame, milizie di autodifesa che da una parte pretendono di tutelare gli interessi di agricoltori e dall’altra quelli dei pastori, in lotta da anni. Secondo le stime dell’International Crisis Group (Icg), dal 2011 queste violenze hanno causato circa 8 mila morti e più di 200 mila sfollati. Nel solo Stato di Zamfara, epicentro delle annose violenze intercomunitarie, secondo bilanci governativi nel 2019 più di un migliaio di residenti ha perso la vita in scontri tra banditi e milizie di autodifesa. Il modus operandi è quasi sempre lo stesso: attacco e saccheggio del villaggio, rapimento soprattutto di donne e bambini con successiva richiesta di riscatto. Finora i vari gruppi armati presenti nell’area hanno agito senza apparente motivazione ideologica, mossi essenzialmente da interessi economici, ma nell’ultimo periodo diversi esperti hanno lanciato l’allarme per il crescente avvicinamento di queste forze con i gruppi jihadisti attivi in una vasta regione dell’Africa centro-occidentale. Il primo della lista è Boko Haram, che da anni flagella il nord- est della Nigeria e che il presidente Muhammadu Buhari, al potere dal 2015, non riesce a sconfiggere. Bangladesh. Peggiorano le condizioni nei campi profughi nello stato di Rakhine La Repubblica, 25 agosto 2020 Da 3 anni i Rohingya aspettano di tornare. Le conseguenze della pulizia etnica in Myanmar contro i musulmani. Il governo di Naypyidaw non è riuscito a garantire il ritorno a quasi un milione di rifugiati. Lo riferisce Human Rights Watch. Il governo del Myanmar non è riuscito a garantire che quasi un milione di rifugiati Rohingya possano tornare a casa in sicurezza tre anni dopo essere fuggiti dai crimini contro l’umanità e dal possibile genocidio dei militari del Myanmar. Lo riferisce Human Rights Watch. I rifugiati Rohingya in Bangladesh hanno dovuto far fronte a restrizioni più rigorose ai diritti di informazione, movimento, accesso all’istruzione e alla salute e sono stati uccisi illegalmente dalle forze di sicurezza del Bangladesh. La brutale pulizia etnica in Myanmar contro i musulmani. Il 25 agosto 2017, l’esercito del Myanmar ha iniziato una brutale campagna di pulizia etnica contro i musulmani Rohingya che ha comportato uccisioni di massa, stupri e incendi dolosi che hanno costretto oltre 740.000 a fuggire, la maggior parte nel vicino Bangladesh, che già ospitava da 300.000 a 500.000 rifugiati Rohingya. fuggiti dalle persecuzioni dagli anni 90 in poi. La Corte internazionale di giustizia (ICJ) nel gennaio 2020 ha imposto misure provvisorie al Myanmar per prevenire il genocidio mentre giudica presunte violazioni della Convenzione sul genocidio. La Corte penale internazionale (CPI) nel novembre 2019 ha avviato un’indagine sulla deportazione forzata dei Rohingya da parte del Myanmar e sui crimini correlati contro l’umanità. Il Myanmar non ha rispettato queste misure di giustizia internazionale, non ha permesso alle Nazioni Unite di indagare su gravi crimini all’interno del paese, né ha condotto indagini penali credibili sulle atrocità militari. Violenze e repressioni nello Stato di Rakhine. I 600mila Rohingya rimasti nello Stato di Rakhine, in Myanmar, subiscono una grave repressione e violenza, senza libertà di movimento o altri diritti fondamentali. I disperati Rohingya fuggiti dal Myanmar corrono gravi rischi per cercare rifugio in tutta la regione. Alcuni sono rimasti bloccati in mare per settimane o mesi, con centinaia di morti temuti su barche scomparse dopo che Malesia e Thailandia li hanno respinti illegalmente usando la pandemia Covid-19 come giustificazione. La Malaysia ha arrestato i rifugiati Rohingya in arrivo, negato loro l’accesso all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati e perseguito alcuni per ingresso illegale. Nonostante gli impegni, il governo del Bangladesh deve ancora consentire ai funzionari delle Nazioni Unite di assistere gli oltre 300 rifugiati Rohingya salvati in mare e attualmente detenuti nell’insicura isola di limo di Bhasan Char. Gravi minacce ai diritti in Myanmar. Il Myanmar non è riuscito ad affrontare le cause profonde degli abusi diffusi contro i Rohingya e ha rifiutato di creare le condizioni necessarie per il loro ritorno sicuro, dignitoso e volontario. Come un rifugiato, Abdul Hamid, ha detto a Human Rights Watch: “Abbiamo assistito all’uccisione di migliaia di persone. I corpi stavano galleggiando nel fiume a Tula Toli, ma nessuna giustizia è stata servita “. I rifugiati che hanno parlato con Human Rights Watch esprimono in modo schiacciante il desiderio di tornare alle loro case in Myanmar una volta che sarà al sicuro; quando hanno cittadinanza e libertà di movimento; e quando c’è un’autentica responsabilità per le atrocità. “Vogliamo profondamente tornare nel nostro paese e controllare la nostra terra e i nostri animali, ma è impossibile poiché non riusciamo a trovare giustizia”, ??ha detto Sheru Hatu, un rifugiato. La minaccia di genocidio per 600 mila persone. Nel settembre 2019, la Missione di accertamento dei fatti indipendente internazionale sostenuta dalle Nazioni Unite in Myanmar ha scoperto che i 600.000 Rohingya rimasti in Myanmar “potrebbero affrontare una minaccia di genocidio più grande che mai”. I Rohingya nello Stato di Rakhine sono intrappolati in condizioni spaventose, confinati in campi e villaggi senza libertà di movimento e esclusi dall’accesso a cibo, cure mediche, istruzione e mezzi di sussistenza adeguati. Gli viene effettivamente negata la cittadinanza ai sensi della legge sulla cittadinanza del Myanmar del 1982, che li rende apolidi e altamente vulnerabili agli abusi in corso. I tentativi del governo del Bangladesh. Il governo del Bangladesh ha organizzato diversi tentativi ufficiali di rimpatrio che sono falliti perché i rifugiati non erano disposti a tornare, dicendo che temevano persecuzioni e abusi in Myanmar. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha affermato che le condizioni nello Stato di Rakhine non sono ancora favorevoli al ritorno volontario, sicuro e dignitoso dei Rohingya. “Voglio tornare in Myanmar, ma solo quando ci saranno concessi i nostri diritti lì”, ha detto Sadek Hossen, un rifugiato. Un altro rifugiato, Shamima, ha detto: “Possiamo tornare a casa solo se sappiamo che le torture che abbiamo dovuto affrontare non si ripeteranno”. Le restrizioni imposte dalla pandemia. Il governo del Bangladesh ha severamente limitato i servizi umanitari nei campi profughi durante la pandemia Covid-19 e ha interrotto tutti i servizi di protezione, compresi i sopravvissuti alla violenza di genere, nonostante un aumento della violenza domestica. Senza accesso a Internet, gli operatori umanitari non sono stati in grado di fornire servizi nemmeno a distanza. L’esercito del Bangladesh ha iniziato a costruire recinzioni di filo spinato e torri di guardia intorno ai campi profughi nonostante l’opposizione delle Nazioni Unite e di altre agenzie umanitarie. Le restrizioni violano i diritti dei rifugiati alla libertà di movimento, ha detto Human Rights Watch. I rifugiati hanno espresso il timore che la recinzione limiterebbe la loro capacità di ottenere i servizi essenziali, renderebbe impossibile la fuga in caso di emergenza e creerebbe barriere significative per contattare i parenti in altri campi. Testimonianze da Cox’s Bazar. Le famiglie nei campi profughi di Cox’s Bazar hanno affermato che i parenti sull’isola di Bhasan Char sono privati della loro libertà di movimento, non hanno un accesso adeguato al cibo e alle cure mediche e devono affrontare gravi carenze di acqua potabile sicura. Alcuni hanno affermato di essere stati picchiati e maltrattati dalle autorità del Bangladesh sull’isola. Nonostante l’impegno pubblico degli alti funzionari secondo cui nessun rifugiato sarebbe stato trasferito con la forza a Bhasan Char, il governo del Bangladesh ha rifiutato di consentire ai rifugiati di tornare e riunirsi alle loro famiglie a Cox’s Bazar. Il divieto di costruire strutture permanenti. Le autorità rifiutano di consentire ai rifugiati di costruire strutture permanenti nei campi profughi di Cox’s Bazar che proteggano dalle frane e dalle inondazioni durante la stagione dei monsoni. Negli ultimi tre anni hanno negato l’accesso all’istruzione di base accreditata agli oltre 450.000 bambini Rohingya nei campi. I governi donatori dovrebbero fare pressione sul Bangladesh per consentire ai rifugiati Rohingya di trasferirsi da Bhasan Char e dovrebbero sostenere le autorità del Bangladesh per fornire una protezione efficace nei campi profughi e in altre parti del paese, ha detto Human Rights Watch.