Il dramma dei suicidi in carcere, spia di un sistema da cambiare di Giovanni Fiandaca* livesicilia.it, 24 agosto 2020 Le quattro morti volontarie - tre di detenuti, una di una poliziotta penitenziaria - succedutesi a pochi giorni di distanza in questo mese di agosto in Sicilia, ripropongono la gravissima e drammatica questione del suicidio nelle carceri, che per intuibili ragioni si acutizza nel periodo estivo. Gli eventi suicidari di questa natura, oltre a essere la spia di rilevanti disagi psicologici personali, costituiscono per altri versi un inequivocabile sintomo delle problematiche, e non di rado cattive (se non pessime) condizioni di vita negli istituti di pena: le quali producono, purtroppo, effetti psicologici negativi sulle persone recluse, talora aggravando disturbi di personalità preesistenti, e altresì comportano situazioni di grave stress e stati depressivi negli agenti e, più in generale, negli operatori penitenziari ai vari livelli, sottoposti a carichi di lavoro eccessivi e per di più espletati in un clima ambientale psicologicamente molto usurante. Indagini giudiziarie in corso sui decessi dei tre detenuti potranno accertare eventuali responsabilità per omessa o insufficiente sorveglianza, o per colposa sottovalutazione del rischio di atti autolesivi. Ma, al di là di possibili responsabilità penali (peraltro, assai difficili in questi casi da verificare probatoriamente al di là di ogni ragionevole dubbio), il vero problema che emerge è di ordine per così dire sistemico e provo a formularlo nei termini di un interrogativo. Vi è cioè da chiedersi se la custodia cautelare in carcere sia uno strumento di intervento sempre idoneo ed adeguato allo scopo di controllare la ritenuta pericolosità di soggetti che versino in condizioni di serio turbamento psichico, e siano accusati di reati sintomatici - a loro volta - di atteggiamenti reattivi e di dinamiche psicologiche a carattere conflittuale che spesso hanno, appunto, radici in disturbi della personalità: i tre detenuti suicidi appaiono infatti accomunati - stando alle prime informazioni acquisite - dall’aver fatto ingresso in carcere da poco tempo e dall’aver commesso gravi violenze domestiche, stalking e maltrattamenti in famiglia. È del tutto casuale questa coincidenza? Forse, l’interrogativo merita qualche riflessione più approfondita. Comunque sia, essendo più in generale in notevole crescita il numero dei reclusi affetti da disagio psichico e/o da patologie psichiatricamente rilevanti, non da ora - e non soltanto in Sicilia - si chiede alle autorità politico-sanitarie regionalmente competenti di potenziare l’assistenza psicologica e psichiatrica negli istituti di pena, sia per adeguare le attività trattamentali alle caratteristiche dei soggetti più problematici, sia - e non ultimo - al fine di prevenire e ridurre il rischio-suicidio. Maggiore e più fattiva attenzione dovrebbe, nel contempo, essere rivolta alla condizione di forte stress in cui vivono gli agenti penitenziari. C’è, tutt’altro che secondaria, una esigenza di adeguamento quantitativo del personale. E sono anche opportune le proposte di incrementare le forme di sostegno e assistenza psicologica a beneficio degli stessi agenti, e di elevarne qualitativamente la formazione professionale anche con corsi di psicologia. Ma, alla radice, riemerge una necessità che è ben più di fondo e di ben maggiore respiro: vanno cioè ripensate, per un verso, la logica d’impiego (sproporzionata per eccesso) della pena carceraria e, per altro verso, la logica di funzionamento e la logica organizzativa delle carceri. Obiettivi troppo ambiziosi e poco realistici, considerato trend politico-culturale iper-punitivista oggi dominante? Anche l’approccio realistico dovrebbe invero guardarsi da un rischio sempre incombente, che è quello di tramutarsi in rassegnato pessimismo immobilista. Una cosa è certa. L’esperienza storica comprova che, senza sprazzi di “concreta utopia” innescati da minoranze politico-culturali illuminate, e senza svolte innovative coraggiose, l’universo carcerario non può che replicare il suo modello di istituzione totale ed escludente, più desocializzante che rieducativa, con risultati nel complesso più dannosi che utili per i singoli detenuti e per la società nel suo insieme. *Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia Il presidente dell’Anm Poniz: “I pm aiutati da Palamara lascino” di Paolo Comi Il Riformista, 24 agosto 2020 Il presidente dell’Anm Luca Poniz e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi facciano presto. È finito il tempo dell’attesa: subito, ognuno per quanto di sua competenza, i procedimenti disciplinari per i magistrati che hanno beneficiato del sistema Palamara. Dopo le rivelazioni di questa settimana del Riformista sul “nominificio” avvenuto in Emilia Romagna nella scorsa consiliatura del Csm sotto la super visione di Luca Palamara, l’ex zar degli incarichi di Palazzo dei Marescialli, i davighiani di Autonomia & Indipendenza hanno deciso dunque di prendere posizione. “Da alcuni mesi su giornali nazionali e locali leggiamo le chat intercorse fra Palamara e tanti colleghi che a lui si rivolgevano per caldeggiare incarichi per sé o per altri ritenuti vicino alla propria corrente. Sono chat che minano la credibilità dell’intera magistratura”, si legge in una nota diramata ieri del coordinamento di A&I che chiede l’intervento dell’Anm. “Ad oggi non vi è alcun segno di resipiscenza per condotte eticamente riprovevoli: i colleghi che hanno interceduto presso Palamara non hanno ritenuto di fornire spiegazioni e tantomeno si sono sentiti in dovere di farlo i colleghi poi nominati e che attualmente occupano incarichi direttivi e semi-direttivi in molti uffici giudiziari. Le dichiarazioni rese dai pochi, poi, sono risibili e oltraggiose verso coloro che non hanno mai condiviso le logiche della degenerazione correntizia”. “Non possiamo più tollerare di assistere a questa devastazione”, aggiungono le toghe del gruppo dell’ex Pm di Mani pulite, chiedendo poi che “i colleghi coinvolti vengano deferiti al collegio dei probiviri senza ulteriore indugio e che le loro posizioni vengano al più presto esaminate dai competenti organi disciplinari e in ogni sede istituzionale”. Del gruppo di Davigo al Csm fanno parte i pm antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. Oltre al disciplinare non è escluso anche il trasferimento per incompatibilità ambiente. Cassese: “I magistrati non hanno tanta voglia di far pulizia” di Pietro Senaldi Libero, 24 agosto 2020 Vacanze di lavoro per il professore Sabino Cassese, in quel di Ansedonia. Giurista, giudice emerito della Corte Costituzionale e accademico prestato al giornalismo, da qualche mese è una spina nel fianco del governo Conte, al quale non ha risparmiato critiche. Dato il pulpito dal quale provengono, le osservazioni sulla disinvoltura con la quale il premier aggira la Costituzione con i suoi decreti, il prolungamento dello stato d’emergenza e il sottrarsi alle proprie responsabilità nel caso del processo a Salvini per sequestro di immigrati, hanno di fatto minato la credibilità dell’esecutivo. Professor Cassese, dai suoi interventi più recenti traspare una preoccupazione generale per le sorti del Paese: cosa la inquieta di più? “La liquefazione dei partiti, la partecipazione politica attiva molto ridotta, l’instabilità dei governi, la scarsa attitudine dei politici alla cooperazione, tutti fattori che spingono la politica sul “day-to-day”, perdendo di vista i grandi problemi di fondo (basso tasso di scolarità, innanzitutto)”. Come giudica lo stato della democrazia in Italia attualmente e ritiene che ci sia stata una regressione? “Democrazia vuol dire innanzitutto “peoplès empowerment” e l’attitudine del popolo a partecipare alla vita politica in modo attivo e consapevole è legata al grado di istruzione (basta leggere Enrico Moretti, “La nuova geografia del lavoro”, Mondadori, 2013), che in Italia, da tutti i punti di vista, è basso. E la classe politica non ne è consapevole: basti pensare al fatto che in questi giorni l’attenzione è rivolta ai banchi di scuola, mentre si dovrebbe discutere del grado di istruzione della società. Quelli che si riempiono la bocca della parola “popolo” dovrebbero capire che il vero modo di dare potere al popolo consiste nel rendere la società più istruita. Invece, basso tasso di scolarizzazione, basso numero di diplomati e laureati, basso tasso di conoscenza di una seconda lingua, metà degli italiani analfabeti, o analfabeti di ritorno, o analfabeti funzionali”. Quando è iniziato il processo involutivo? “Non so se si sia trattato di involuzione o di mancata evoluzione. Dal 1962 non abbiamo una vera riforma del sistema scolastico. Nel frattempo il mondo è cambiato. Se va in Germania o in Olanda, scopre che tutti sono in grado di parlare una seconda lingua”. Sarebbe tollerabile un rinvio del voto delle Regionali, come già avvenuto peraltro a giugno? “Abbiamo dimostrato capacità di rispettare regole e disciplina. Abbiamo imparato a stare in fila dinanzi ai negozi. Perché non dovremmo fare lo stesso ai seggi elettorali?”. C’è stato qualche abuso di potere da parte del governo legato al Covid? “Ho più volte scritto e detto che il governo ha imboccato due strade sbagliate. Ha trattato la pandemia come una calamità che richiedeva interventi di protezione civile, invece che interventi sanitari. Ha reagito con strumenti inappropriati, salvo poi correggersi, riconoscendo il proprio errore. A questo si aggiunge la confusione delle lingue dei Dpcm e delle circolari, una Babele che sta dando lavoro ai magistrati. Altro errore: non aver unificato gli interventi di profilassi internazionale, spettanti allo Stato, al Servizio sanitario che si chiama nazionale, non è la somma di tante repubbliche sanitarie indipendenti”. L’opposizione parla di dittatura sanitaria: lei cosa ne pensa? “La Costituzione consente e noi siamo disposti ad accettare anche provvedimenti draconiani, purché siano proporzionati alla situazione. Perché protrarre la dichiarazione dello stato di emergenza, se non c’era emergenza in atto? Non si confonde emergenza con urgenza? Non si dimentica che “emergenza” indica un pericolo che “emerge”, di cui non si conoscono gli sviluppi, mentre a luglio della pandemia si sapeva, se ne conoscevano i modi di diffusione, si conoscevano i modi di contrastarli con efficacia?”. Ritiene ci sia chiarezza attualmente nell’informazione che il governo sta dando in merito agli sviluppi del Covid: Non sappiamo quanti stanno male dei positivi né quanti pazienti vengono ricoverati per il virus? “Aver trattato la pandemia come questione di protezione civile ha comportato lo spostamento dei poteri a Palazzo Chigi, sottraendola al Ministero della Salute. Doveva esser quest’ultimo l’autorità che certificava lo stato di salute degli italiani, e i pericoli, e che dettava le precauzioni”. E ritiene ci sia stata chiarezza nella gestione passata dell’informazione? “Il meccanismo di rilevazione, lasciato in troppe mani, ha prodotto risultati ondeggianti e talora contraddittori. Se è chiaro che dalle rilevazioni (i “tamponi”) dipende l’emersione dei numeri di contagiati, bisognava programmare numeri costanti (e costantemente crescenti) di rilevazioni, rapportando ad essi i numeri dei contagiati e dei morti. Un certo disordine era ammissibile nella prima fase, non lo è ora. Lo stesso può dirsi nelle esternazioni degli esperti. Perché non far parlare soltanto l’Istituto superiore di sanità? Troppi cuochi fanno una pessima cucina”. Molti si sono scagliati contro l’abuso dei dpcm: lei cosa ne pensa e sarebbe pensabile un’altra stagione di dpcm? Se sì, a quali condizioni? “Sono stati troppi, e troppo contraddittori. Sono stati lo strumento sbagliato. E il parlamento non ha presidiato a sufficienza la produzione di dpcm. Per non parlare del modo in cui erano scritti”. Da costituzionalista: cosa non funziona nel nostro sistema parlamentare, che produce governi deboli e leader imbonitori? “Lo spostamento progressivo di poteri dal parlamento al governo (il primo ha assistito passivamente alla moltiplicazione di quello strumento straordinario che sono i decreti legge). L’incapacità dei governi di programmare la propria e l’altrui attività. La diffusione dell’idea che governare voglia dire solo negoziare. La scarsa capacità di progettazione. Se uno studioso di scienze del management entrasse a Palazzo Chigi e vedesse come si governa, se ne ritrarrebbe inorridito, pensando che si è all’età della pietra dello “scientific management”, cioè all’800”. Il taglio dei parlamentari fa bene, fa male, non fa nulla? “Pannicelli caldi: conta la qualità, non la quantità”. Lei è stato criticato per aver partecipato al convegno sul Covid organizzato in Senato da due esponenti dell’opposizione. Nessuno ha attaccato ciò che ha detto, ma le hanno rimproverato di legittimare con la sua presenza l’opposizione. Che lezione ne ha tratto? “Che si giudica per gli elementi esteriori (dove, con chi), non sulla base di quelli di contenuto (quel che si è detto, con quanta libertà)”. Siamo tornati ai guelfi e ghibellini per cui non importa ciò che dici e che fai ma quel che sei, e se sei dei miei ti perdono tutto? “Sì, contano gli schieramenti, non i contenuti”. Non ravvisa una sorta di violenza culturale nella determinazione con cui la sinistra porta avanti le proprie idee, dall’immigrazione alle nozze gay alle quote rosa, tutto è dogma, nulla è discutibile? “La politica è progetto e dialogo. Il Parlamento si chiama così perché lì si parla. Quindi, il rifiuto del dialogo è comunque un fatto negativo per la democrazia”. Capitolo giustizia: cosa ne pensa del caso Palamara? “È stato un indizio. Ha rivelato pubblicamente una malattia grave, che gli addetti ai lavori conoscevano. Ancor più grave la lentezza con la quale si sta procedendo alla somministrazione della medicina. La sensazione è che la magistratura non voglia far pulizia dentro sé stessa. Le procure hanno un potere enorme e gli altri giudici non si oppongono. Manca la forza morale e culturale per rimediare a questa situazione e la riforma del Csm non servirà a nulla”. C’è uno sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri a vantaggio della magistratura? “Anche qui la malattia si conosceva. Comincia con la lunghezza dei processi, continua con l’assenza di autocontrollo delle procure, produce “naming and shaming” (additare al pubblico ludibrio in piazza, senza processo), tutto alimentato da un’idea, prevalsa e accettata, della magistratura come cittadella non solo indipendente, ma anche autogovernantesi”. I danni d’immagine alla magistratura prodotti dall’intercettazione su Salvini da indagare a ogni costo in quanto nemico politico sembrano indelebili: come ci si può rimediare? “Non sono il solo ad avere scritto anni fa che l’aumento delle intercettazioni era una tendenza pericolosa. Purtroppo, per molte ragioni, che sarebbe lungo elencare, l’”État-puissance” ha rinunciato a utilizzare altri strumenti di prova, anche perché più mirati, mentre le intercettazioni consentono quelle tecniche da medioevo che consistono nel rendere pubbliche conversazioni (spesso tra terzi) non rilevanti per le accuse specifiche, ma in grado di far ricadere sugli intercettati un giudizio nello stesso tempo morale o di stile, alimentato dall’amore per il pettegolezzo e del curiosare nella vita degli altri”. Molti giuristi ritengono che non si può processare Salvini senza coinvolgere anche la presidenza del Consiglio, alla quale i ministri riportano: lei cosa ne pensa? “Se un ministro dell’Interno segue un orientamento, quello non può che esser un orientamento governativo. Il ministro dell’Interno è troppo importante per pensare che, quando si esprime lui, non si esprima il governo. Basti pensare che dall’unità d’Italia fino a uno degli ultimi governi De Gasperi (con una breve parentesi in periodo fascista) le cariche di ministro dell’interno e di Presidente del Consiglio dei ministri erano legate e che la Presidenza del Consiglio era al Viminale fino a uno dei governi Fanfani”. A proposito di giustizialismo: i partiti avrebbero dovuto difendere i propri esponenti che hanno incassato legittimamente il bonus? “Non so chi l’abbia fatta più grossa: se il governo che ha scritto la norma che non poneva limiti alla fruizione del bonus o il Parlamento che non ha fatto altrettanto o i parlamentari (ma non solo loro) che ne hanno approfittato, in assenza di bisogno”. Come si può salvare l’Italia? Si parla tanto di riforme… “Ha mai visto qualcuno che affronti i costi di un investimento, per regalarne i benefici ai propri avversari? Sarebbe necessario riformare la pubblica amministrazione, un’opera che richiede da otto a dieci anni di lavoro continuo. Bisognerebbe sviluppare la sanità “territoriale”. Il sistema scolastico - come dicevo all’inizio - andrebbe riformulato, nell’ambito di un progetto complessivo di sviluppo dell’istruzione, che vada anche oltre la scuola. All’inizio del 900, gli Stati Uniti erano ancora per molti aspetti un paese in via sviluppo. Divenne presto il leader indiscusso nel campo dell’istruzione: unico tra in paesi industrializzati, decise di aprire a tutti la scuola secondaria superiore. Oggi nel mondo la linea di discrimine non passa tra ricchi e poveri, ma tra persone istruite e persone senza istruzione. Una maggiore eguaglianza si potrà avere diffondendo l’istruzione. E noi discutiamo dei banchi di scuola…”. Pittelli isolato in carcere da otto mesi senza motivo di Iuri Maria Prado Libero, 24 agosto 2020 L’ex parlamentare è in cella accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’aggravante: è avvocato e massone. Giancarlo Pittelli è un avvocato, un politico e - così si apprende - un massone. Tre qualità, come vedremo, non senza importanza nella spiegazione dei motivi che lo trattengono nella sua attuale dimora: il carcere. Pittelli è richiuso in regime di isolamento, da otto mesi, nel carcere sardo di Badu e Carros: è implicato nell’indagine cosiddetta Rinascita Scott, in esito alla quale la procura di Catanzaro, assistita da tremila carabinieri, faceva rastrellamento di centinaia di persone accusate dei più disparati delitti. L’operazione, risalente all’anno scorso, era pubblicizzata con una conferenza stampa durante la quale il titolare delle indagini, il dottor Nicola Gratteri, spiegava davanti a una foresta di microfoni e telecamere che il blitz costituiva il compimento di una “rivoluzione” alla quale pensava dal momento in cui aveva preso posto in quel suo ufficio: una rivoluzione intesa a “smontare la Calabria come un trenino Lego, e poi rimontarla pian piano”. Attivo anche sui social, il dottor Gratteri si lagnava perché i principali quotidiani non avevano dato abbastanza rilievo all’indagine rivoluzionaria, e sul suo profilo Twitter postava gli articoli dei giornali invece solerti a riferire che lui “sta ripulendo la Calabria” e che la politica in quella regione è “una montagna di merda”. In questo quadro di serena amministrazione della giustizia, mentre una quantità di disgraziati finiti dentro erano rilasciati per mancanza di effettive esigenze cautelari, chi si azzardava a eccepire qualcosa era passato per bestemmiatore che infangava la purezza inquirente calabrese: ed erano cavoli amari perfino per il procuratore generale di Catanzaro, dottor Lupacchini, che, per aver espresso qualche riserva comprensibilmente indispettita a proposito della teatralità delle indagini, era immediatamente degradato e trasferito a mille chilometri di distanza. E Pittelli? Pittelli, appunto, è un pezzo di lego smontato durante la rivoluzione giudiziaria di Catanzaro. Gli originari capi d’accusa fiorivano in un bouquet di delitti: associazione mafiosa, abuso d’ufficio, rivelazione di segreti, ma pare che fossero perlopiù inconsistenti e quel che rimane è il reato-jolly, l’imputazione-prezzemolo, quel concorso esterno in associazione mafiosa che non s’è mai capito cosa significhi salvo che serve a tenere in galera gente che abbastanza spesso, ma troppo tardi, è poi ritenuta innocente. Una precisazione, a questo punto, importate: io questo Pittelli non l’avevo mai nemmeno sentito nominare. Ho saputo del suo caso dopo aver letto quel che ne ha scritto l’altro giorno il direttore del Riformista, Piero Sansonetti. Pittelli gli ha mandato un telegramma: “Aiutami, ti prego”. Ora io non so se questo carcerato sia responsabile dei delitti che gli imputavano di aver commesso (certamente non era responsabile di quelli che si sono via via sfarinati); e non so se davvero le accuse residue giustifichino la sua permanenza in carcere, perché varrà la pena di ricordare che stiamo parlando di uno che è in prigione prima del processo. So però (questo apprendo da quel che si è pubblicato in argomento) che la pericolosità di Pittelli dipenderebbe dalla sua “qualità di avvocato e massone”, giacché “in quanto tale” sarebbe “soggetto portatore di un rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale e del mondo imprenditoriale e delle professioni”. Non vuol dire che essere avvocati o massoni è un delitto, ma ci va abbastanza vicino. E che Pittelli stia ancora in galera non perché l’accusa rimanente lo imponga, ma perché scarcerarlo rivelerebbe qualche disinvoltura accusatoria, è una brutta impressione che ci piacerebbe tanto non avere. Isolamento post tampone. Impedimento assoluto per l’arrestato edotto.com, 24 agosto 2020 È legittima la mancata traduzione dell’arrestato che si trovi in temporaneo isolamento, in quanto sottoposto a “tampone faringeo” per verificare la positività al Coronavirus e in attesa di esito. In tale condizione è infatti ravvisabile un assoluto impedimento a comparire all’interrogatorio per la identificazione, impedimento giustificativo della sospensione dei termini per l’audizione dell’arrestato. Tuttavia, se la convalida dell’arresto è stata pronunciata senza lo svolgimento dell’udienza, pur fissata, e senza la partecipazione del difensore dell’arrestato o, in sua assenza, di quello eventualmente nominato ai sensi dell’art. 97 comma 4, cod. proc. pen., viene a determinarsi una nullità assoluta e insanabile, relativa alla assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. È quanto statuito dalla Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 23951 del 20 agosto 2020, nell’annullare, senza rinvio, un’ordinanza della Corte d’appello, limitatamente alla convalida dell’arresto, ma non anche al titolo cautelare contestualmente emesso. Convalida arresto da annullare - Si trattava della convalida dell’arresto di un uomo, operato su iniziativa della polizia giudiziaria sulla base di un mandato di arresto europeo, per reati di furto aggravato. Avverso l’ordinanza, la difesa dell’indagato aveva proposto ricorso, deducendo un’erronea applicazione della legge penale per violazione del diritto di difesa, con riferimento alla mancata partecipazione del difensore e dell’arrestato all’udienza prevista dall’art. 13 della Legge n. 69/2005. Secondo la Suprema corte, il motivo di doglianza era fondato, limitatamente, però, alla mancata partecipazione del difensore all’udienza fissata per la convalida. Custodia in carcere comunque valida - Da qui l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, solo con riferimento alla convalida dell’arresto e non anche al titolo cautelare. Sul punto, gli Ermellini hanno infatti ribadito che, “nel caso in cui l’ordinanza applicativa della misura cautelare sia contenuta nel medesimo documento con il quale è stata disposta la convalida, essa costituisce provvedimento distinto e del tutto indipendente e autonomo, avente presupposto e finalità diverse, cosicché la invalidità del primo non si estende alla seconda”. Genitori, è reato disinteressarsi della vita scolastica dei figli di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2020 Commette il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare il genitore che, pur versando l’assegno per il mantenimento dei figli, si disinteressa delle loro esigenze scolastiche, sociali, sportive, in tal modo sottraendosi agli obblighi derivanti dal suo ruolo di genitore. Questo è quanto si afferma nella sentenza n. 474/2019 del Tribunale di Campobasso. Il caso - Al centro della vicenda c’è il comportamento tenuto da un padre, il quale veniva accusato dalla ex convivente nonché madre dei suoi due figli di trascurare i ragazzi e di non prestare il dovuto interesse alle loro esigenze. In particolare, pur versando sempre l’assegno di mantenimento ai figli e pur mantenendo con gli stessi un rapporto affettivo costante, il genitore non corrispondeva la metà delle spese straordinarie relative alle attività sociali e sportive dei figli e si disinteressava completamente delle loro esigenze scolastiche. Nello specifico, l’uomo non aiutava i ragazzi a fare i compiti, negava il suo consenso per la partecipazione alle gite scolastiche, non si recava agli incontri scuola-famiglia e vietava ai figli qualsiasi attività nei giorni in cui essi erano a lui affidati. In sostanza, il padre si sottraeva ai suoi sostanziali obblighi di genitore mostrandosi più attento a rispettare il provvedimento formale che lo obbligava al mantenimento e alla frequenza dei figli piuttosto che essere presente nella vita di questi ultimi e interessarsi alle loro esigenze. La decisione - Il Tribunale emette un verdetto di condanna, ritenendo integrati gli estremi del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, previsto dall’articolo 570 cod. pen..Il quadro accusatorio veniva confermato dalle varie testimonianze, anche delle insegnanti dei minori, e delineava la totale sottrazione del padre agli obblighi di assistenza morale nei confronti dei figli, costui “apparendo più interessato a far rispettare, dalla sua ex compagna, gli accordi in merito al suo diritto di visita che il benessere dei figli”. Inutile, per il giudice, è poi il tentativo dell’uomo di difendersi facendo leva sulla regolarità del versamento dell’assegno di mantenimento e sul fatto che lo stesso si prendeva cura della madre gravemente malata. Ciò non toglie, infatti, sottolinea il Tribunale, che ciascun genitore debba farsi carico non solo dei mezzi di sopravvivenza vitale, ma anche degli “strumenti che consentono un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze”, tra le quali rientrano per l’appunto quelle scolastiche, sportive e sociali. Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2020 Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - Falsità ideologica - Elaborato del consulente tecnico del pubblico ministero - Enunciati valutativi - Configurabilità del reato - Sussistenza - Condizioni - Fattispecie. È configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica del consulente del pubblico ministero, formulata in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, qualora il giudizio contraddica tali parametri ovvero si fondi su premesse contenenti false attestazioni; il giudice ha, però, l’onere di rendere adeguata motivazione in ordine ai criteri utilizzati per ritenere che, alla luce delle specifiche emergenze fattuali, il soggetto chiamato ad esprimere una valutazione, pur connotata da un margine elastico di discrezionalità, abbia formulato consapevolmente una valutazione falsa. (Fattispecie in cui il giudizio tecnico - valutativo del consulente che aveva escluso la compatibilità delle polveri emesse da un impianto di sinterizzazione dell’acciaio con i campioni d’aria e le sostanze rinvenute nei reperti alimentari è stato ritenuto falso in quanto contraddetto dalla rilevata presenza di “congeneri” in porzioni scientificamente riconosciute come caratterizzanti il suddetto processo di lavorazione). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 18 giugno 2020 n. 18521. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - Falsità ideologica - Pubblico ufficiale che attesti una parziale rappresentazione dei fatti caduti sotto la sua percezione - Falso ideologico in atto pubblico - Configurabilità - Fattispecie in tema di concorso dell’extraneus. Integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che in una relazione di servizio fornisca una parziale rappresentazione dei fatti caduti sotto la sua diretta percezione, in quanto tale relazione costituisce atto pubblico e, ai fini dell’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volontà dell’“immutatio veri”, mentre non è richiesto l’“animus nocendi” né l’“animus decipiendi”, con la conseguenza che il delitto sussiste sia quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere, sia quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno. (Nella specie la Corte ha ritenuto configurabile, sussistendo i medesimi connotati, il concorso nel reato di falso ideologico dell’“extraneus” che, in accordo con i militari della guardia di finanza procedenti, dopo aver dismesso la carica di rappresentante legale della società oggetto di verifica, sottoscriveva i verbali di constatazione e di operazioni compiute nei quali le dichiarazioni dallo stesso rese venivano imputate al fratello, nominato nuovo amministratore, di cui si attestava la partecipazione e la sottoscrizione). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 11 giugno 2020 n. 17929. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - Casistica di atti - Autoveicoli - Falsa attestazione, sul libretto di circolazione, di avvenuta revisione - Istigazione del proprietario nei confronti del responsabile di un’officina autorizzata alla revisione - Concorso in falso ideologico in atto pubblico - Configurabilità. Integra un’ipotesi di concorso in falsità ideologica in atto pubblico la condotta del proprietario di un autoveicolo che istighi il proprietario, amministratore o collaboratore di un’officina autorizzata alla revisione - investito, come tale, della qualità di pubblico ufficiale - ad attestare falsamente sul libretto di circolazione l’avvenuta revisione, dando atto che sono state compiute tutte le operazioni all’uopo necessarie, con esito positivo quanto alle prove di regolarità delle parti esaminate. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 8 giugno 2020 n. 17348. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - In atti pubblici - Verbale di ispezione e costatazione di violazione amministrativa - Falsa attestazione di presenza dell’intestatario dell’esercizio commerciale - Falso ideologico cd. irrilevante - Esclusione - Ragioni - Fattispecie. Integra il delitto di falsità ideologica in atto pubblico di cui all’art. 479 cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale che attesti falsamente, nei verbali di ispezione dei luoghi e di costatazione di violazione amministrativa, eseguiti presso un esercizio commerciale, la presenza del titolare formale dell’attività, in realtà assente durante tutte le operazioni, esulando in tal caso la fattispecie di falso ideologico cd. “irrilevante”, ossia concernente un profilo estraneo ovvero ininfluente alla funzione dell’atto, in quanto la presenza del titolare è presupposto per la notifica immediata delle contestazioni di infrazioni amministrative, esentando l’organo accertatore dall’obbligo di notifica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna per falso ideologico di due vigili urbani che, recandosi in un esercizio commerciale per effettuare la contestazione di apertura senza il preventivo deposito della Scia, avevano dato atto nel verbale della presenza della titolare, invece assente). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 9 aprile 2020 n. 11753. Sicilia. Suicidi in carcere, Antigone: “L’assistenza psicologica è carente” di Simone Olivelli meridionews.it, 24 agosto 2020 A togliersi la vita è stata anche un’agente della penitenziaria. Le statistiche raccontano una realtà difficile, dove la funzione rieducativa della pena non esiste. “Entrare in carcere spesso significa essere dimenticati per sempre”, commenta Pino Apprendi. “Il sesto suicidio dall’inizio dell’anno. Non c’è dubbio che le difficili condizioni di vita e il colpevole ritardo nella presa in carico dei loro problemi siano fra le componenti del disagio che assilla quotidianamente questi servitori dello Stato”. A dichiararlo ieri è stato l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. L’esponente della Lega ha riacceso i riflettori sul mondo della polizia penitenziaria, dopo la notizia di un’agente di 42 anni che, a Palermo, si è tolta la vita. La donna lavorava nel carcere Pagliarelli, lo stesso penitenziario in cui tra il 12 e il 20 agosto ha registrato altri due suicidi. Ma tra i detenuti. Episodi tutt’altro che rari, ma che spesso passano inosservati, alimentando le statistiche ma restando lontano dal dibattito. “Il sesto suicidio dall’inizio dell’anno. Non c’è dubbio che le difficili condizioni di vita e il colpevole ritardo nella presa in carico dei loro problemi siano fra le componenti del disagio che assilla quotidianamente questi servitori dello Stato”. A dichiararlo ieri è stato l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. L’esponente della Lega ha riacceso i riflettori sul mondo della polizia penitenziaria, dopo la notizia di un’agente di 42 anni che, a Palermo, si è tolta la vita. La donna lavorava nel carcere Pagliarelli, lo stesso penitenziario in cui tra il 12 e il 20 agosto ha registrato altri due suicidi. Ma tra i detenuti. Episodi tutt’altro che rari, ma che spesso passano inosservati, alimentando le statistiche ma restando lontano dal dibattito. “Notizie come queste dovrebbero fare pensare, ma non in maniera superficiale. Dovrebbero dare il la a una profonda riflessione su cosa siano oggi le carceri in Italia”. A parlare a Meridio News è Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, l’associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie del sistema penale. “Le cronache di questi giorni, lo stesso gesto commesso sia da un’agente della polizia penitenziaria che da diversi detenuti, testimonia ancora di più lo stato di abbandono nei penitenziari. Quanto sia difficile la vita lì dentro”. A togliersi la vita in poco più di una settimana è stato anche un terzo detenuto: nel carcere di Caltagirone, infatti, si è suicidato l’uomo accusato di avere ucciso la moglie sulle scale dell’appartamento in cui i due vivevano. All’origine del delitto ci sarebbe stata la decisione della vittima di troncare il rapporto. Su questo suicidio è stato aperto un fascicolo per capire se ci siano state negligenze nella sorveglianza del detenuto. I due detenuti del Pagliarelli, invece, erano accusati di violenza domestica e maltrattamenti. “Dall’inizio dell’anno sono 38 i detenuti che si sono suicidati in Italia, un numero in linea con quanto accaduto negli anni scorsi, anche se nel 2020 la popolazione carceraria è meno numerosa in seguito alle misure prese per l’emergenza Covid”, prosegue Apprendi. A queste cifre vanno aggiunte quelle di chi ha tentato di togliersi la vita, senza però riuscirci. “So che è una frase forte, ma in troppi casi, specialmente quelli riguardanti soggetti più deboli, entrare in carcere è un po’ come morire - va avanti il presidente di Antigone. Si finisce per essere dimenticati e gli unici contatti sono quelli con i familiari”. Tra le difficoltà che, secondo l’associazione, rendono più critica l’esperienza all’interno delle celle c’è quella riguardante la capacità dei detenuti di comunicare eventuali disagi. “L’assistenza, anche di natura psicologica o psichiatrica, sottostà a una trafila burocratica che spesso non consente di intercettare i problemi in maniera tempestiva”, commenta il presidente di Antigone. Parlare funzione rieducativa delle carceri è un po’ come cimentarsi in astrazioni e teoria, perdendo di vista la realtà. “Nonostante sia un obiettivo contenuto nella nostra Costituzione - ricorda Apprendi - le cose stanno molto diversamente. L’intero sistema penitenziario è fortemente carente nelle figure che dovrebbero svolgere quel servizio di assistenza che dovrebbe puntare a consentire il reintegro del detenuto in società. E invece sembra ci si dimentichi che in carcere ci si va per scontare una pena e non per stare male”. I penitenziari sono ancora oggetto di una narrazione che poco ha a che vedere con lo stato delle cose attuali. “Negli anni Settanta c’era questo modo di dire che considerava le carceri come degli hotel e ciò per le notizie di boss riveriti. Non è più così da tempo, ma soprattutto - conclude Apprendi - si sorvola sul fatto che spesso a finire in carcere sono gli ultimi”. Piemonte. In arrivo 385.200 euro per gli istituti penitenziari lasesia.vercelli.it, 24 agosto 2020 La Regione Piemonte ha assegnato a 11 Comuni piemontesi sedi di carcere (Alba, Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Fossano, Ivrea, Novara, Saluzzo, Verbania, Vercelli) la somma complessiva di 385.200 euro per il reperimento di alloggi da destinare a cittadini detenuti per fronteggiare l’emergenza da Covid 19 negli istituti penitenziari. Si tratta di fondi provenienti dalla Cassa delle Ammende, ente pubblico istituito presso il Ministero della Giustizia e dallo stesso vigilato. Il patrimonio della Cassa delle Ammende (il cui Conto Consuntivo 2018 è pari a oltre 97 milioni di euro) deve essere destinato ad interventi di reinserimento dei cittadini detenuti nella vita civile e a progetti di edilizia penitenziaria di riqualificazione e ampliamento degli spazi destinati alla vita comune e alle attività lavorative dei cittadini reclusi. Roswitha Flaibani (esponente del Gruppo +Europa Vercelli, già Garante dei detenuti del Comune), e Giulio Manfredi (Associazione radicale Adelaide Aglietta) dichiarano: “Il bicchiere mezzo vuoto è rappresentato dal ritardo con cui arrivano questi fondi sia dalla loro esiguità. Il bicchiere mezzo pieno è rappresentato dal fatto che comunque rappresentano un aiuto concreto al mondo carcerario piemontese, che deve essere utilizzato al meglio, comune per comune, carcere per carcere. A questo proposito, non riusciamo a comprendere la rinuncia del Comune di Torino a gestire direttamente i fondi, delegando alla Regione Piemonte la ricerca di un soggetto in grado di attuare l’intervento. Una rinuncia ancora più inspiegabile dopo le polemiche degli ultimi mesi sul clima di violenza esistente in alcuni settori del carcere “Lorusso e Cutugno”. Per quanto riguarda il Carcere di Vercelli, speriamo che i fondi, seppur esigui e arrivati con grave ritardo, siano utilizzati presto e bene”. Palermo. Troppi suicidi tra guardie e detenuti: un progetto per i domiciliari sicilianews24.it, 24 agosto 2020 Un’estate nera, da dimenticare per le carceri siciliane, l’ultimo episodio registrato riguarda una poliziotta penitenziaria della casa circondariale Pagliarelli di Palermo che si è tolta la vita nelle sua abitazione due giorni fa, un fatto doloroso che si aggiunge ad altri due casi di suicidio, registrati in questo mese d’agosto: pochi giorni fa, infatti, altri due assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, un uomo e una donna, in servizio a Latina si sono tolti la vita in altrettanti episodi. È allarme e lo lancia in un comunicato Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe che sottolinea come “servano soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria”. Ma i suicidi riguardano anche i detenuti e l’ultimo episodio, sempre presso il Pagliarelli di Palermo, risale a pochi giorni fa, un uomo 45enne si è tolto la vita nella sua cella approfittando dell’ora d’aria del suo compagno di cella. Stessa sorte era toccata ad un altro detenuto appena una settimana fa, entrambi erano detenuti per maltrattamenti in famiglia. A sostegno dei detenuti è partito la scorsa settimana il progetto “Revival” coordinato dalla Unità di Mediazioni e Giustizia riparativa dell’Assessorato per la cittadinanza solidale, che prevede la possibilità di ospitalità in una struttura convenzionata con il Comune per quei cittadini che debbano scontare un periodo di detenzione domiciliare ma non hanno un domicilio oppure, per esigenze sanitarie legate al Covid-19, non possono svolgerlo presso il proprio domicilio. Il progetto è co-gestito dall’Amministrazione comunale e da quella della Giustizia. La struttura, ospitata presso una Opera Pia cittadina, è gestita dall’Associazione “Cammino d’Amore” e sarà operativa in via sperimentale per tre mesi durante i quali saranno utilizzate le risorse del Fondo nazionale contro la povertà. Piani personalizzati per ogni detenuto - Pensata per un massimo di 32 utenti, al momento ne ospita 8. Si tratta di cittadini, italiani e stranieri, per i quali la Magistratura ha autorizzato forme alternative alla detenzione. Per ciascuno di loro l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) del Ministero della Giustizia, elabora un piano personalizzato che, se autorizzate dal Magistrato competente, può anche prevedere attività di volontariato, culturali e sociali da svolgere all’esterno della struttura. Proprio in tal senso si sta attivando l’Unità operativa del Comune, che già da anni coordina e promuove attività di giustizia riparativa, mediazione penale, facilitazione dei percorsi di recupero. Nell’ottica della responsabilizzazione e dello sviluppo di percorsi di comunità, gli ospiti del progetto Revival sono responsabili della co-gestione, in particolare della pulizia degli spazi comuni e del supporto alle attività. Trattandosi comunque di cittadini con provvedimenti restrittivi decisi dalla Magistratura, le visite possono essere svolte solo previa autorizzazione e all’interno vigono comunque regole stringenti rispetto agli orari, alla gestione degli spazi, al divieto di utilizzo di alcol e stupefacenti. “Si tratta di un progetto sperimentale - spiega l’Assessore Mattina - che conferma la visione di una città che a trecentosessanta gradi vuole prendersi cura di tutti, anche di chi, avendo commesso errori e reati, sta facendo un percorso di reinserimento sociale concordato e monitorato dalle strutture del Ministero della Giustizia”. Per il Sindaco “si conferma che a Palermo tutti hanno diritti e doveri e che tutti devono avere la possibilità di rimediare ai propri errori con percorsi umani, rispettosi anche se rigorosi. Si conferma anche quanto sia importante la collaborazione fra le istituzioni pubbliche e fra queste e gli enti del privato sociale”. Milano. Fermato per un controllo si toglie la vita nella camera di sicurezza della questura di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 24 agosto 2020 Il 42enne, di origine algerina, era in attesa di essere fotosegnalato quando si è impiccato con la maglietta alla sbarra della finestra. Inutili i soccorsi. Era nella camera dei fermati della Questura in attesa di essere fotosegnalato dopo essere stato fermato per un controllo. Un’operazione di routine che viene eseguita dagli agenti decine di volte ogni giorno. Ma quando i poliziotti sono tornati nella sala d’attesa per il fotosegnalamento per accompagnarlo al laboratorio dei tecnici lo hanno trovato impiccato con la maglietta alla sbarra della finestra. L’uomo, un 42enne algerino, è stato subito soccorso dal 118 intervenuto con un’ambulanza e un’automedica. Nonostante le manovre di rianimazione proseguite per diversi minuti, per la vittima non c’è stato nulla da fare. Tutto è avvenuto intorno a mezzogiorno di domenica 23 agosto. La chiamata al 118 è partita dagli uffici di via Fatebenefratelli alle 12.09. La vittima era stata fermata da una volante in via Felice Casati a porta Venezia insieme a un marocchino di 23 anni. I due stavano armeggiando intorno a un’auto in sosta e per questo erano stati fermati. Una vicenda quasi banale per gli standard della microcriminalità milanese che si sarebbe quasi certamente conclusa sono una denuncia a piede libero per tentato furto e i due sarebbero stati subito rilasciati al termine del forosegnalamento. Solitamente la zona della camera dei fermati è interessata da un continuo viavai di agenti e “sospettati”. La domenica agostana però avrebbe molto limitato questo flusso e la vittima ha così approfittato di un momento di solitudine per compiere l’estremo gesto mentre era nella camera dei fermati. Sono comunque in corso i rilievi della Scientifica e del personale della Questura, coordinati dalla Procura, per stabilire l’esatta dinamica di quanto accaduto. Udine. Nel carcere è emergenza personale di Lisa Zancaner Il Gazzettino, 24 agosto 2020 Nel carcere di via Spalato l’emergenza non è il Covid, bensì il personale. Che non c’è. Manca un direttore, quello attuale è in carica a Belluno e può essere presente solo una volta alla settimana, c’è un solo educatore part time, oggi affiancato da un secondo educatore che, però, andrà in pensione a fine settembre. Pure lo psicologo non è integrato e si occupa solo delle urgenze. Il quadro, dipinto dalla garante dei diritti dei detenuti di Udine, Natascia Marzinotto pure lei in scadenza il prossimo anno non è certo roseo. E non è neppure una novità. “È una situazione che mi preoccupa sostiene la garante soprattutto per l’assenza di personale nell’area educativa. L’utenza ad oggi è di 136 detenuti e un solo educatore non ce la fa a smaltire tutto il lavoro”. Una mole di cui si è fatta carico la stessa Marzinotto, affrontando dai 15 ai 20 colloqui alla settimana con i detenuti per raccogliere le loro richieste. “Anche la figura dello psicologo spero venga integrata presto, perché così non riesce a programmare le sedute continuative ed è un fatto grave prosegue io continuo ad andare in carcere e vedo che mancano i servizi. Se un detenuto vuole chiedere un permesso, la pratica non viene sbrigata e il risultato è quello di avere utenti che si agitano, si alterano, con molti casi di autolesionismo, soprattutto tra gli stranieri. La carenza di personale crea inevitabili tensioni che si scaricano anche sugli agenti di polizia penitenziaria, sotto organico pure loro. “È chiaro precisa la garante che poi c’è tutta una rete che deve funzionare, dai servizi sociali all’Ater, altrimenti un detenuto che esce senza un sostegno rischia di essere abbandonato a sé stesso”. Una rete che si rende quanto mai necessaria in vista di un ulteriore progetto, l’attivazione di uno sportello informativo dentro il carcere, entro fine 2020. In piena pandemia, come sottolinea Marzinotto, “l’assistenza sanitaria è stata gestita molto bene e la situazione è sempre rimasta sotto controllo”. Non solo manca personale, ma anche i lavori sono fermi. In primis quello per creare l’articolazione psichiatrica completamente gestita da camici bianchi. 7 posti per tutto il Fvg a completa gestione sanitaria che, assieme a quella di Padova, è l’unica per tutto il Nordest. “I finanziamenti per questa Rems interna sono stati erogati ma sono fermi e non ne conosco le motivazioni e non credo siano collegate all’emergenza Covid”. Una struttura, questa, che non trova il parere favorevole di Marzinotto convinta che i casi psichiatrici “debbano essere seguiti in strutture apposite ed esterne”, mentre preme per un’altra opera, quella per ristrutturare l’ex sezione femminile da destinare a attività comuni con un impegno di spesa di circa 600mila euro. Anche qui risorse disponibili ma lavori fermi. “Oggi c’è un solo laboratorio per 10 persone e, con le normative Covid sul distanziamento, gli spazi sono ancora più ridotti, anche l’area dei colloqui è stata dimezzata”. Tutto fermo pure per lo spazio bimbi, o meglio. Il progetto per le famiglie è già stato programmato con lo psicologo, ma l’area no. “Detenuti e figli hanno sofferto durante il lockdown a non vedersi e questo spazio diventa oggi ancora più importante”. Ad oggi i detenuti sono 136 su una capienza di 90, un altro problema cronico per il carcere di Udine, “ma se togliessimo gli 80 utenti oggi in carico al Sert, il carcere si svuoterebbe”. Stando alle statistiche, a riempire il carcere sono ingressi per detenzione o piccolo spaccio, quasi il 30%, detenuti per cui si potrebbero prevedere pene alternative, più difficili da attuare per gli stranieri. “Sono il 50% dei detenuti”. Pordenone. Al carcere del Castello il 41 per cento dei detenuti è straniero Il Gazzettino, 24 agosto 2020 In Friuli Venezia Giulia gli stranieri dietro le sbarre sono ben al di sopra della media nazionale. E nello specifico nella casa circondariale di Pordenone dove tra l’altro manca ancora un direttore effettivo. Se in Italia il tasso medio è del 32,7% al 30 giugno scorso, la nostra regione è al 41,7%. A dirlo è il rapporto di Antigone di metà anno, dedicato a “Il carcere alla prova della fase 2”, che è stato presentato e che dedica un capitolo alla presenza degli immigrati negli istituti penitenziari regionali e italiani. Una presenza in forte calo negli ultimi dodici anni, ma comunque consistente. Al 30 giugno i 5 istituti penitenziari con il maggior numero di detenuti stranieri in termini assoluti erano le case circondariali di Torino (629 detenuti stranieri, 47,7% sul totale), di Milano San Vittore (514 detenuti stranieri, 59,2 % sul totale), di Roma Regina Coeli (502 detenuti stranieri, 51% sul totale), Firenze Sollicciano (495 detenuti stranieri, 65,9% sul totale) e Rebibbia (461 detenuti stranieri, 32,6% sul totale). Di questi 5 istituti solo Firenze Sollicciano rientra tra i primi dieci con la più alta concentrazione in percentuale di stranieri, attestandosi al settimo posto. I primi cinque istituti per percentuale di stranieri sono due case di reclusione sarde, Arbus Is Arenas dove l’81,9% dei detenuti è di nazionalità non italiana e Onanì dove gli stranieri rappresentano l’81,3% del totale dei reclusi. A seguire le case circondariali di Aosta (68,8%), Padova (67,4%) e Bolzano (67%). Le cinque regioni con la più alta presenza in percentuale di stranieri detenuti negli istituti penitenziari sono la Valle d’Aosta (68,8%), il Trentino Alto Adige (63,6%), la Liguria (54%), il Veneto (53,2%) e la Toscana (49,7%). In cima alla classifica anche il Fvg, dopo l’Emilia-Romagna (49%) e la Lombardia (43,4%), ma prima del Piemonte (40,4%). Ben al di sotto della media nazionale la Calabria (19,2%), l’Abruzzo (18,4%), la Sicilia (17,9%), la Campania (14,1%), la Puglia (13,7%) e la Basilicata (11,7%). Al 30 giugno scorso gli stranieri erano 17.510, per una percentuale pari al 32,7% del totale della popolazione detenuta. Tale percentuale raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562. Per quanto riguarda gli uomini, le cinque nazioni straniere più rappresentate sono (le percentuali sono da riferirsi sul totale dei detenuti non italiani): il Marocco (18,6%), la Romania (12%), 4 l’Albania (11,9%), la Tunisia (10%), la Nigeria (8,5%). Discorso diverso per le donne straniere che rappresentano il 35,5% delle donne recluse al 30 giugno 2020. Tra le straniere troviamo al primo posto la Romania con il 23% di recluse sul totale delle straniere, poi la Nigeria (19,4%), la Bosnia-Erzegovina (4,8%), il Marocco (4,6%) e il Brasile (4,3%). Mediamente i detenuti stranieri sono più giovani degli italiani. Al 30 giugno avevano tra i 21 e i 44 anni il 79,2% dei detenuti stranieri, contro il 50,7% dei detenuti italiani. Gli stranieri tra i 18 e i 20 anni sono il 2% dei detenuti stranieri totali (gli italiani lo 0,8%). Per quanto riguarda la posizione giuridica dei detenuti stranieri, al 31 luglio 2020, gli stranieri in custodia cautelare sono il 34,7% degli stranieri presenti, a fronte del 31,5% degli italiani. Bergamo. Incendio in carcere: detenuti evacuati dalle celle Il Giorno, 24 agosto 2020 Paura nella Casa circondariale, un corto circuito negli scantinati ha innescato le fiamme e riempito il primo piano di fumo. Sette intossicati. Un corto circuito ha provocato un incendio negli scantinati del carcere di Bergamo. Il denso fumo sprigionatosi ha invaso il piano terra e le sezioni del primo piano. I detenuti sono stati evacuati dalle celle e portati all’esterno. Alla fine sette agenti di custodia sono rimasti intossicati, tre dei quali sono stati portati in ospedale e successivamente dimessi con prognosi di cinque giorni. L’incendio è stato spento dai vigili del fuoco che hanno provveduto anche ripristinare l’impianto e mettere in sicurezza la struttura. “Si è sfiorata la tragedia - spiega Alfonso Greco, segretario regionale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) - Un grazie di cuore a tutto il personale di polizia penitenziaria che ha evitato che la situazione diventasse ancora più drammatica. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari a intervenire tempestivamente”. “Quanto accaduto nel carcere di Bergamo - sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe - è sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti, ma è evidente che l’amministrazione penitenziaria deve trovare serie e urgenti soluzioni alla grave situazione riferita all’organico del Reparto di polizia penitenziaria del carcere di Bergamo”. Napoli. “Marinella e gli Aquiloni”: un progetto di rieducazione e inclusione sociale di Siria Moschella napoliflash24.it, 24 agosto 2020 “Marinella e gli Aquiloni” è un progetto di rieducazione e reinserimento destinata ai soggetti in esecuzione penale esterna. Il promotore dell’iniziativa è l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Campania, nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare”, ideato nel 2018 dalla scuola superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella”. L’edizione 2020 comincerà lunedì 24 agosto presso la sede dell’Associazione “Obiettivo Napoli” Onlus, a Napoli in via Cosenz n. 55, con la collaborazione degli enti aggregati nella “Rete Marinella”: il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità - Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2. Grazie alla collaborazione, rinnovata anche per quest’anno, della Municipalità 2, il percorso di formazione, che coinvolgerà dodici persone, si terrà non solo in aula, ma anche in cantieri esterni della zona Mercato - Pendino. Un territorio, quest’ultimo, dalla grande tradizione storico - culturale, ma soggetto a forte degrado ambientale e sociale. Così gli organizzatori del progetto: “Siamo una rete informale composta da amministratori del territorio, educatori, insegnanti, assistenti sociali, mediatori culturali e linguistici, psicologi, sacerdoti, associazioni, enti, Istituzioni. Tutti noi abbiamo un comune vivo interesse perché il territorio in cui viviamo o viviamo lavorando sia un ambiente positivo, accogliente, nutriente. Un territorio sul quale ci siamo a lungo confrontati nel corso della precedente edizione, facendo tesoro di quanto già costruito e apportando al ragionamento la sua specifica valenza, la sua prospettiva, il suo sguardo. L’esperienza che abbiamo vissuto nel 2019 ci ha resi consapevoli di essere fortemente radicati ad un territorio che ha trascorsi storici, artistici ed economici di gran rilievo e della valenza della scelta per lo sviluppo delle persone che partecipano al progetto”. Gli enti pubblici e morali, le scuole e gli organismi del Terzo settore coinvolti nella “Rete Marinella”, dunque, si impegnano in una collaborazione attiva e aspirano a diventare un punto di riferimento per i cittadini, che possono trovarvi un’opportunità di rieducazione e socializzazione, attraverso la partecipazione a pratiche di comunità. “Il viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino adnkronos.com, 24 agosto 2020 Si intitola “Il viaggio della speranza” ed è il racconto dell’VIII congresso di Nessuno tocchi Caino, la lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che si è tenuto a Milano, nel carcere di Opera, lo scorso dicembre. Il volume (ed. Reality Book) è stato distribuito agli iscritti dell’associazione ed è anche acquistabile sul sito: è un viaggio ideale che esplora la traversata dal dolore al cambiamento, che va a fondo nel sistema carcerario alla luce delle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Immagini, parole (una sessantina di interventi) e atti che raccontano le carceri italiane e le loro contraddizioni, una sorta di “non luogo” in cui “finiscono i diritti”, nonostante il dettato dell’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). E sono testimonianze nelle quali ricorrono due motti: “nessuno tocchi Caino”, che dà il nome all’associazione, e “spes contra spem”. Il primo, dice Sergio D’Elia, segretario dell’associazione, “è rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica dell’emergenza per la quale, nel nome di Abele, per difendere Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino che pratica la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena”. Il secondo, aggiunge D’Elia, “è rivolto a Caino, al condannato che decide di cambiare sé stesso, convertire la sua vita dal male al bene, dalla violenza alla non violenza, perché sia appunto il cambiamento del suo modo d’essere profetico del cambiamento del mondo in cui vive, dell’ambiente in cui vive, del carcere in cui vive, del magistrato da cui dipende”. Si dibatte sul futuro del sistema carcerario, nella speranza che un giorno si arrivi ad avere “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”, come auspicava Aldo Moro. “Io sono profondamente convinto che il carcere non abbia nessuna ragione di esistere - dice nel suo intervento Roberto Rampi, senatore del Pd - ne sono profondamente convinto, sono convinto che il carcere sia un’invenzione degli uomini e che nasce in un tempo e che, come è nata in quel tempo, ci sarà un tempo in cui finirà. Verrà un giorno in cui guarderemo al fatto che delle persone tenevano altre in un carcere esattamente come potremmo guardare oggi a certe forme di tortura, a certe forme di schiavitù. Come qualcosa di lontano che appartiene al passato e che è incomprensibile”. Immaginare uno Stato senza carcere è già possibile. Ne è convinto Giuseppe Morganti, parlamentare di San Marino che ha proposto di fare della piccola repubblica il primo Stato che abolisce la prigione: “L’obiettivo di uno Stato senza carcere prevede l’attivazione di politiche che richiedono investimenti in posti di lavoro, istruzione, alloggi, assistenza psicologica e sanitaria, tutti elementi indispensabili in una normale società che intende liberarsi dalla violenza”. Si va poi dall’intervento di Gherardo Colombo, che solleva dubbi sulla compatibilità di un diritto penale sorto durante il fascismo con i principi costituzionali, fino a quello di Francesca Mambro: “Uno Stato che riaccoglie e pacifica è uno Stato che non ha bisogno di dimostrare la sua forza perché è Giusto e Libero e in tal modo questo esercita la sua Signoria, tanto che può permettersi di non abbandonare nessuno. Un concetto a me molto chiaro, sia per esperienza personale che per la mia attività con Nessuno tocchi Caino, è che ogni essere umano se trattato male e lasciato senza speranza non può che peggiorare. Noi tutti, e non solo antropologicamente, siamo trasmissione di valori che si sono sedimentati nel tempo. Riconoscere la dignità della persona vuol dire riconoscere l’altro ed essere in una forma continua di dialogo come esseri umani. Questo dialogo fa sì che il mondo sia umano non perché la voce degli uomini risuona in esso, ma per esserne divenuto l’oggetto. Essere speranza, migliorare le condizioni di detenzione, non diminuisce la gravità della colpa, la pena comminata e quella espiata”. “La vendetta che sembra incantarci - ha aggiunto Mambro - è una punizione eterna per chi la riceve e per chi la pratica e non c’è difesa che possa mettere al riparo l’individuo e la comunità da una sorte che fa rivivere il male e cristallizza il dolore, come non vi è riparo dalle tetragone certezze che nemmeno per un attimo fanno balenare l’esistenza del dubbio”. Ai contributi di questo fronte trasversale che si interroga su un carcere in cui possa entrare “il diritto umano alla speranza” si alternano le testimonianze dei detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, e di altri ex detenuti. Emozionante è l’incontro tra Stefano Castellino, sindaco del comune siciliano di Palma di Montechiaro, che a 18 anni perse lo zio assassinato dalla criminalità organizzata, con quattro concittadini in carcere a Opera per delitti mafiosi. Fino all’esperienza di Antonio Aparo, che è stato in regime di 41-bis per 28 anni, il carcere duro che finisce per creare altre vittime, i familiari dei detenuti: “In trent’anni il trattamento nel regime penitenziario per me che mi trovavo al 41-bis è stato di poter usufruire di 15 giorni, che significa 360 ore, con i familiari. Visto che spesso si è detenuti a mille chilometri, non tutti possono usufruire di un’ora di colloquio mensile, quindi al massimo si fanno due o tre ore di colloquio all’anno. Quindi da 360 scendiamo a circa 90 ore di colloquio in 30 anni, pari a circa 4 giorni di colloquio in trent’anni. Qui ci viene in soccorso il telefono: dal 1986 fino al 2000 erano 6 minuti al mese che sostituivano il colloquio impossibile. Così si baratta un po’ la situazione. Poi sono diventati 10 minuti al mese. In un anno si raggiunge la famiglia per un’ora e mezzo. Quindici ore di telefonate, dieci anni. In trent’anni più o meno 45 ore perché se non si fa colloquio, c’è la telefonata. Quindi in trent’anni ci viene concesso di avere i contatti con gli affetti circa 6 giorni. Cos’è la rieducazione in questo senso? Mi chiedo come ex 41-bis”. Poi ha concluso: “Quando sono stato arrestato avevo vivi alcuni miei familiari - si commuove - anche qualche mia sorella. Oggi non ci sono più - fatica a parlare per l’emozione - non mi hanno dato nemmeno il permesso per andarli a vedere. Sarà una mia colpa, è vero, io ho sbagliato, l’ho sempre ammesso e sono qua. Però che c’entra trattare i familiari in modo disumano?”. Il carcere come i manicomi e la via indicata da Basaglia di Francesca de Carolis remocontro.it, 24 agosto 2020 Durante la resistenza Franco Basaglia aveva conosciuto il carcere come prigioniero politico. La sua prima impressione era stata quella di “entrare in un’enorme sala anatomica, dove la vita aveva l’aspetto e l’odore della morte”. Dopo più di quindici anni, Basaglia varca la soglia di un’altra istituzione totale, il manicomio, anche se questa volta come direttore: “Ero dalla parte del carceriere, ma la realtà che vedevo non era diversa: anche qui l’uomo aveva perso ogni dignità umana; anche il manicomio era un’enorme letamaio”. Una scandalosa radicalità - Nei libri sempre si cerca ciò su cui la propria mente continua a interrogarsi… così, leggendo la monografia su Franco Basaglia (“Franco Basaglia”, di Mario Colucci e Pierangelo di Vittorio, riedito da Alpha Beta Verlag a quarant’anni dalla scomparsa dello psichiatra), non posso che ripensare continuamente a quanto il carcere svolga oggi la funzione che avevano una volta i manicomi… E sfogliando le pagine di questo densissimo lavoro, non posso non pensare a come potrebbe essere guida, e che guida!, per un percorso che, sulle tracce di quello che ha portato ad aprire le porte del manicomio, arrivi in futuro ad abbattere anche le mura delle prigioni… un percorso che, come ha radicalmente cambiato il rapporto con la follia, possa portare a cambiare anche il nostro rapporto con la devianza e il crimine e quindi con il concetto di pena. E questo perché “fra le istituzioni della violenza, il manicomio costituisce un punto tragicamente privilegiato, a partire dal quale si può osservare la continuità e l’implacabilità del funzionamento di un meccanismo istituzionale di controllo della devianza dalla norma, che attraversa trasversalmente la nostra società”. Non prendetela come provocazione, piuttosto come offerta di spunti di riflessione. Azzardo dunque alcuni punti… La dignità per chi veniva scartato - Intanto, una parola sul libro, che ricostruisce, insieme alle tappe del cammino per il ritorno alla dignità di chi dalla società veniva “scartato”, il complesso profilo umano e intellettuale di Basaglia, la sua passione filosofica, l’impegno politico, le riflessioni e la sperimentazione medica e istituzionale, che matura anche nel confronto con grandi pensatori come Sartre, Fanon, Goffman, Foucault… percorso di altissimo livello, ricchissimo e complessissimo che mi è impossibile riassumere, ma che una prima cosa a tutti può insegnare: il coraggio di far esplodere le contraddizioni. Che è quello che Basaglia (che pure quando arrivò a Gorizia ebbe col manicomio un impatto così violento che, racconta Terzian, pensò di dimettersi “perché gli appariva insopportabile una realtà del genere”) è riuscito a fare con la psichiatria, nel nostro paese, allora, una delle più reazionarie d’Europa… E quanto è ancora importante e utile il suo pensiero, oggi, “davanti alle nuove forme di segregazione, alla biopolitica, alla tendenza a nascondere le forme sociali del disagio…”, alla tendenza a negare la complessità delle cose. Che è ciò che facciamo con tutto ciò che non ci piace e non vogliamo riconoscere parte della società: matti, malati, clandestini, devianti, delinquenti… Basaglia procede chiedendo, a sé e agli altri intorno a lui, il coraggio di andare sempre oltre. Non gli basta il tentativo di umanizzare il manicomio, perché presto comprende, ad esempio, che la comunità terapeutica “rimane ugualmente un mezzo di controllo sociale”. Non gli basta la lotta contro l’istituzionalizzazione interna del malato, è necessaria anche quella contro l’istituzionalizzazione esterna… Pensando dunque all’istituzione carcere, che nonostante l’impegno e la buona volontà di tanti che pure vi lavorano, rimane sostanzialmente la negazione della persona, dell’uomo… area di sospensione del diritto… Chiuso il manicomio, rimane il carcere - “Credo che ognuno di noi sorrida quando si dice che la prigione e il manicomio hanno come obiettivi la riabilitazione dei loro ospiti, in realtà, tanto il manicomio come il carcere servono a confinare le devianze dei poveri, a emarginare chi è già escluso dalla società”, parole quanto mai attuali che Basaglia pronunciò in una delle conferenze che tenne in Brasile nel 1979. Chiuso l’uno, il manicomio, rimane l’altro, il carcere, carico dello stesso odore di morte, che chi l’ha sentito anche solo una volta non può dimenticare. Che è cosa che sempre sconvolge, perché anche se molto già sai, c’è sempre qualcosa che mai riusciresti a immaginare. A cominciare dalle tante malattie del corpo e della mente che sono le condizioni stesse del carcere a determinare. E davvero le carceri sono contemporanei “manicomi”, non solo in senso “figurato”, dove la malattia mentale è molto più presente di quanto si pensi. Qualche dato: il 4 per cento dei detenuti affetto da disturbi psicotici, il 10 per cento colpito da depressione, il 65 per cento convive con un disturbo della personalità. Senza parlare del grande uso di psicofarmaci, di fatto una sorta di contenimento chimico… e c’è una sindrome precisa che si riferisce al “complesso dei danni che nascono dal prolungato soggiorno in luoghi chiusi, dominati dall’autoritarismo e dalla coercizione”. Ma che volete, anche qui a prevalere sono le esigenze dell’istituzione, e del compito di controllo sociale che all’istituzione abbiamo consegnato… Aree di sospensione del diritto - Certo, non è argomento che si possa risolvere in poche righe… ma sono convinta che in molti punti il percorso del pensiero di Basaglia sia applicabile a ogni altra forma di istituzionalizzazione. Il margine di libertà, insegna ad esempio, è condizione indispensabile per qualsiasi incontro terapeutico. Aggiungendo, o sottraendo…, il margine di libertà, credo, è condizione indispensabile per qualsiasi incontro, perché “soltanto sulla base di un rapporto con uomini liberi si può costruire qualcosa”. E questo vale sempre e comunque. Come “nulla può accadere in una logica istituzionale che continua a seppellire il malato sotto la malattia”, così nulla di buono può accadere se si seppellisce il “colpevole” in un sistema che in sé produce violenza… Il filosofo Basaglia ricorre alla “sospensione del giudizio”: mettere tra parentesi le certezze del positivismo scientifico, l’accettazione acritica del dato… per incontrare l’uomo e non la diagnosi… Così bisognerebbe mettere tra parentesi anche tutte le “certezze” che portano al carcere, a un sistema che non risolve la violenza. Sapendo che la soluzione all’inferno che abbiamo creato è già tutta nella Carta Costituzionale, che mai, parlando di pena, rimanda al carcere. Basaglia, Tina Anselmi, Aldo Moro - Certo ci vorrebbero politici della levatura di quelli che compresero la necessità della riforma da Basaglia proposta, una Tina Anselmi, un Aldo Moro… Certo il prezzo da pagare è alto, ci vorrebbe il coraggio di una visione implacabile delle nostre contraddizioni… la capacità di mettere in discussione ruoli, rapporti di potere… ci vuole coraggio, come quello dimostrato da tutta l’equipe medica di Gorizia che nell’ottobre del 1972, non accettando mediazioni accomodanti, rassegnò in blocco le dimissioni contro un’amministrazione provinciale che ostacolava la creazione dei centri territoriali di cura pure già da tempo programmati… E proprio leggendo delle ultime tremende notizie dal carcere, delle denunce di torture e illeciti di cui pure avrete sentito, del numero delle persone che in carcere muoiono, mala cura, suicidi o “overdose” che sia (tutte cose che nulla hanno a che fare con la lotta ai mali endemici del nostro paese, dalla criminalità alla corruzione…), Vittorio da Rios, con cui spesso si ragiona del mondo, si è chiesto e mi ha chiesto: ma se si dimettessero i direttori, i magistrati di sorveglianza, gli educatori… a far scoppiare questa contraddizione di un sistema che produce la violenza che dichiara di combattere? Ci vuole coraggio, a far scoppiare le contraddizioni, ma è a mio parere una delle cose più importanti che insegna il pensiero di Basaglia, che proprio sul finire dell’agosto di 40 anni fa se ne è andato. Lasciandoci l’eredità della sua scandalosa radicalità dalla quale ancora tanto abbiamo da imparare. “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis dolcevitaonline.it, 24 agosto 2020 “Chi sbaglia paga” descrive la straordinaria esperienza di un carcere alternativo, la Comunità La Collina di Serdiana in Sardegna, fondata nel 1994 da don Ettore Cannavera: un carcere utile, umano e logico in contrapposizione a una galera segregativa, illogica e inutile. Oggi il 70 per cento dei detenuti ritorna in prigione commettendo nuovi reati, un dato più? che esplicativo dei limiti del nostro sistema carcerario. “Oggi il carcere e? fondamentalmente stupido, non serve a niente e costa un enorme ammontare di denaro” dice il sacerdote, mentre non si ricorda mai abbastanza, purtroppo, che la prigione deve portare anche al recupero del condannato e che, come scrive Gherardo Colombo nella prefazione del libro “Il problema non e? tenere i detenuti dentro il carcere ma tenerli fuori, e come”. I risultati ottenuti dalla Comunità in venticinque anni di esperienza contano appena il 4 percento di recidiva, dimostrando cosi? che e? possibile assicurare la giustizia ai cittadini, garantendo la certezza della pena, e rieducare senza sconti i colpevoli di delitti anche gravi, riammettendoli alla fine del percorso detentivo all’interno della società? come elementi consapevoli e capaci di comportamento conforme alla legge, dunque senza compromettere la sicurezza collettiva. Musumeci: “Via i migranti dalla Sicilia”. Stop del Viminale: non può decidere lui di Francesco Grignetti La Stampa, 24 agosto 2020 L’ordinanza del governatore siciliano alza la tensione con Roma. Sulle competenze deciderà la magistratura. È rottura completa sull’asse Palermo-Roma. Il Governatore siciliano Nello Musumeci ha infatti aperto le ostilità contro il governo e intimato, con ordinanza a sua firma, che i centri di accoglienza per migranti siano svuotati nel giro di 24 ore, gli stranieri portati via dal ministero dell’Interno con navi o aerei, e da ora in poi nessun migrante dovrà mettere piede sull’isola. Un proclama inapplicabile e soprattutto esorbitante dalle competenze di un presidente di Regione, sia pure a statuto speciale. E così gli ha risposto il Viminale: la competenza sugli sbarchi è nazionale, non regionale. Tantomeno un Governatore può dare ordini ai prefetti. Quindi la questione nemmeno verrà presa in considerazione. In verità Musumeci ci aveva provato già tre giorni fa, con un atto firmato dall’assessore regionale alla Sanità, che pretendeva informazioni dai prefetti e “vietava” l’uso di tensostrutture, in quanto inidonee al distanziamento di chi vi soggiorna. Ora è arrivato un “ordine” di sgombero. Naturalmente la questione non finisce qui. Nei prossimi giorni il governo impugnerà l’ordinanza e il caso finirà davanti al magistrato. Nel frattempo, l’indicazione di Roma è far finta di niente. Un po’ perché il governo è consapevole che la situazione della Sicilia è molto pesante e capisce gli animi accesi, un po’ per non rinfocolare le polemiche politiche che puntualmente si sono scatenate. Con la sinistra a gridare contro, la destra a dargli ragione. Salvini era già saltato su: “Massima solidarietà a Musumeci, dopo che perfino sindaci del Pd o M5S si erano opposti allo sbarco dei finti profughi”. Lo stesso Giorgia Meloni. Questa strategia dell’ostentata indifferenza però, Musumeci non l’ha digerita. A metà pomeriggio, il Governatore ruggiva via Facebook: “Tutti conoscono il mio rispetto per le istituzioni. Ma pretendo lo stesso rispetto per la mia gente. Da Roma non abbiamo avuto altro che silenzi: sullo “stato di emergenza” richiesto per Lampedusa due mesi fa, sui protocolli sanitari da applicare, sulle tendopoli da scongiurare, sui rimpatri che dovevano iniziare il 10 agosto e di cui non si parla più, sul ponte aereo per i negativi. Nulla. Solo silenzio”. Il ragionamento di Musumeci è che si è atteso troppo tempo e così ora la Sicilia è satura. Ma intanto gli sbarchi non cessano. E anzi sono accorse nel Mediterraneo centrale anche diverse navi di Ong. I primi 104 raccolti al largo della Libia sono a bordo della Sea Watch 4; tra loro anche nove bambini. Si profila un braccio di ferro. “Il governo centrale - conclude intanto Musumeci - è arrivato impreparato e non si è posto alcun problema sulla gestione di un numero enorme di sbarchi durante la pandemia. E adesso il problema è diventato la mia ordinanza? Il ministro dice che è nulla? Quindi la responsabilità è loro. Bene, sono usciti allo scoperto! Ma io, a differenza di quelli che parlano e straparlano da casa, sono entrato nell’hotspot di Lampedusa. E so bene che quelle strutture non sono adeguate sotto il profilo sanitario. Sono un rischio costante per i migranti e per chi ci lavora. Piuttosto che prendersela con me o con i siciliani, provino a fare sentire la loro voce in Europa e si diano un piano serio per tutelare gli italiani. Facciano qualcosa... O meglio facciano quello che non hanno ancora fatto! Noi andremo avanti”. Musumeci contro il Viminale: “Via i migranti dagli hot-spot, la salute è competenza mia” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 24 agosto 2020 Il presidente della Sicilia: da Roma troppi silenzi, non è giusto ammassare i migranti. I siciliani non sono mai stati razzisti, ma protestano contro un governo immobile. Sui migranti rischiamo lo scontro istituzionale fra Stato e Regione Sicilia? “Assolutamente no. Ognuno ha le proprie competenze, si tratta solo di farle valere”, replica il governatore dell’isola Nello Musumeci. Appunto, la competenza. Lei firma una ordinanza per chiudere in 24 ore gli hot-spot, i centri d’accoglienza, e dal Viminale fanno sapere che non ha alcun valore perché la Regione non ha competenza. Ha sbagliato? “Il dubbio viene a chi è in malafede o è ignorante. Lo Stato ha competenza sui migranti. Il presidente della Regione ce l’ha in materia sanitaria. E in tempo di epidemia è chiaro che mi sto occupando di questo”. Ma lei chiude gli hot spot che sono dello Stato... “Se c’è un contenitore che, secondo le autorità sanitarie, non ha i requisiti per ospitare persone in tempo di coronavirus io ho il dovere di intervenire, altrimenti compio una omissione”. Sta rimproverando omissioni al Viminale? “Questo mio provvedimento arriva solo adesso, perché abbiamo atteso per mesi che il governo nazionale si desse una strategia. Ma abbiamo capito che la risposta da Roma è fatta di silenzi e omissioni. E ho dovuto adottare l’ordinanza che tutela il diritto alla salute di chi si trova in Sicilia e degli stessi migranti”. Ma dove dovrebbero essere trasferiti? “Questa è davvero materia dello Stato”. L’accusano comunque di sforare competenze non sue... “Non sforo un bel niente. Non posso assistere al concentramento di centinaia e centinaia di esseri umani in squallidi locali che appartengono allo Stato, in una promiscuità assolutamente irragionevole. Così si creano focolai. Io li ho visitati gli hot-spot. Per questo li chiudo”. Compreso quello di Pozzallo dove, però, il sindaco Roberto Ammatuna la attacca perché lei chiude senza dire come e dove trasferire i migranti... “Peccato per lui che il sindaco di Trapani, stesso partito, il Pd, non la pensi così. Peccato che la sindaca grillina di Augusta non la pensi così. Che parlamentari di diversi fronti abbiano espresso apprezzamento”. Claudio Fava la accusa di “controlli disorganizzati in porti e aeroporti, di contagi generati dalla promiscuità sui mezzi del trasporto pubblico”. “Fava ha spesso l’imprudenza di occuparsi di cose che non conosce. I mezzi di trasporto sono di competenza nazionale. Come la vigilanza sanitaria su porti, aeroporti e stazioni, devoluta agli Usmaf, gli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera, strutture dipendenti dal ministero della Salute”. I veri complimenti le arrivano da Salvini che la definisce “uomo libero”... “Leggo apprezzamenti da Forza Italia e FdI. E mi arrivano centinaia di messaggi bipartisan dai cittadini”. Il Papa rinnova l’invito all’accoglienza e dice che “il Signore ci chiederà conto di tutti i migranti caduti, vittime della cultura dello scarto”. Avverte queste parole come un rimprovero? “No. È la migliore apologia della mia tesi. Siccome la Chiesa è universale, è giusto che anche la solidarietà e l’accoglienza siano universali. Non soltanto materia di competenza siciliana”. Non gradisce certo il “buonismo”? “Basta. I siciliani rischiano di apparire razzisti. Ma non lo sono mai stati. Non lo siamo. Protestano semmai contro un governo immobile”. Immobile? “Non è giusto ammassare migranti. Non è giusto vederli fuggire nelle campagne senza saperne più nulla. E nemmeno che il governo italiano intervenga in Tunisia in agosto. E non a febbraio. Quando aveva il dovere di farlo. Per bloccare quella che impropriamente chiamano “invasione”. Ma che è la corsa di migliaia di disperati in una terra come la Sicilia dove la disperazione ha segnato il codice genetico dei propri abitanti”. Svizzera. Legato al letto per 13 giorni: tre psichiatri a processo per il caso “Carlos” di Dario Ornaghi tio.ch, 24 agosto 2020 L’accusa è di sequestro di persona. Tale pratica sarebbe ammessa solo per alcune ore. L’atto d’accusa chiede condanne con la condizionale da 7 a 14 mesi per sequestro di persona e complicità in sequestro di persona per aver immobilizzato l’allora 15enne “Carlos”, al secolo Brian, per un periodo superiore alle poche ore consentite. L’allora adolescente si trovava in detenzione preventiva dopo aver ferito gravemente un altro giovane con un coltello durante una lite. In prigione aveva tentato di suicidarsi, ciò che aveva spinto le autorità a trasferirlo nella clinica psichiatrica. Qui i tre psichiatri sotto accusa lo avevano immobilizzato con delle cinghie aiutandosi anche con dei farmaci per tenerlo calmo. Le disposizioni in materia prevedono che un simile trattamento duri alcune ore. Il giovane è invece rimasto legato per 13 giorni. A partire dal nono giorno, al ragazzo è stata concessa un’ora per sgranchirsi le gambe e fare qualche passo, tuttavia con gli arti inferiori legati e in compagnia di agenti di polizia. Stando alla procura, a parte questa parentesi giornaliera, “Carlos” è rimasto quasi “assolutamente immobilizzato” per tutto il resto del tempo. Per il procuratore si tratta chiaramente di maltrattamenti, dal momento che l’immobilizzazione va limitata al massimo. Un’odissea giudiziaria - Questa vicenda è l’ennesimo capitolo di un’odissea giudiziaria cominciata anni fa. Le penultima tappa di questa storia risale allo scorso novembre, quando un tribunale distrettuale zurighese ha ordinato una terapia psichiatrica stazionaria per l’uomo, allora 24enne, a corredo di una pena supplementare di 4 anni e nove mesi di detenzione per una serie di aggressioni ai danni di secondini, poliziotti e altri detenuti ospitati nel carcere dove stava scontando una condanna precedente. La condanna inflitta in novembre è però stata sospesa in favore di una misura terapeutica stazionaria, conosciuta nel gergo giudiziario anche come “piccolo internamento”. In pratica si tratterà di verificare ogni cinque anni se la terapia è efficace e se è necessario prolungarla. Il problema è che Brian, alias “Carlos”, si è sempre opposto a qualsiasi forma di terapia. Secondo una perizia esiste tuttavia una “piccola probabilità” che una simile misura possa essere efficace. Brasile. Lula, il pentimento su Cesare Battisti “Sbagliai a dargli asilo, chiedo scusa” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 24 agosto 2020 L’ex presidente brasiliano sul terrorista ora in carcere in Italia. Le famiglie delle vittime: troppo tardi. “Ho sbagliato a concedere l’asilo a Cesare Battisti, perché ha commesso dei crimini e ingannato molta gente, chiedo scusa alle famiglie delle vittime”. L’ex presidente brasiliano Lula per la prima volta definisce un “errore” la decisione presa nel dicembre 2010 di “ospitare” l’ex terrorista rosso. Una protezione che ha permesso all’ex ricercato speciale dei “Proletari armati per il comunismo” di rimanere lontano dalla giustizia italiana per dieci anni. Fino al 14 gennaio del 2019, quando è stato rinchiuso nel carcere di Oristano, dove tuttora sta scontando l’ergastolo per gli omicidi di Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna e Antonio Santoro, commessi tra il 1978 e il 1979. L’ex leader brasiliano, in un’intervista al canale YouTube TV Democracia, ha raccontato i retroscena della sua decisione. Ha detto che non conosceva personalmente Battisti, ma di avergli dato asilo perché il suo ministro della Giustizia, Tarso Genro, diceva che era “innocente”. “Tutta la sinistra brasiliana, i compagni e molti partiti e personalità di sinistra chiedevano che Battisti rimanesse qui”, ha ricordato. In effetti fu l’ala militante del Pt, il Partito dei lavoratori da lui fondato, a mettere in difficoltà l’allora presidente spingendolo a dare protezione all’ex terrorista. Quella su Battisti, “non fu una decisione facile - ha raccontato - l’ex presidente Giorgio Napolitano e la sinistra italiana facevano pressioni perché il Brasile lo consegnasse”. Lula ha parlato pubblicamente per la prima volta anche del rammarico provato quando scoprì di essere stato ingannato: “Ho sentito una grande frustrazione quando ho saputo che aveva confessato”. Era il marzo 2019 quando Battisti, per la prima volta, ammise le sue responsabilità davanti al procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili: “Fu una guerra giusta - disse - ma ora chiedo scusa alle vittime”. Rispetto alle scuse tempestive di suoi ex sostenitori, tra cui Daniel Pennac, il mea culpa di Lula, a un anno e mezzo dal momento della verità, appare tardivo. “Poteva farla prima quest’ammissione di colpa, sono scuse superficiali, non le accetto”, ha reagito Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio ucciso nel 1979 a Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia. Il rimpatrio di Battisti non è stata soltanto una questione di politica internazionale ma una carta che si è giocata l’attuale presidente di estrema destra Jair Bolsonaro fin dalla campagna elettorale, per distinguersi dai suoi rivali politici, definiti dalla propaganda “amici dei terroristi comunisti”. Ora, secondo alcuni osservatori locali sentiti dal Corriere, Lula starebbe cercando di dare un segnale di moderazione in vista delle elezioni municipali di novembre, che nel Paese sudamericano sono un po’ come le Midterm americane, cascano a metà del mandato presidenziale. Certo resta non candidabile Lula, travolto dallo scandalo Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, condannato per corruzione e riciclaggio e uscito di prigione a novembre dopo la sentenza della Corte Suprema che stabilisce indispensabili i tre gradi di giudizio per il carcere. Ma resta un’icona della sinistra e forse ancora l’uomo più temuto da Bolsonaro. Stati Uniti. Louisiana, afroamericano ucciso da polizia: a Lafayette scoppia la protesta La Repubblica, 24 agosto 2020 Gli agenti hanno fermato l’uomo di 31 anni in un parcheggio. Secondo il rapporto “era armato di coltello ed è scappato dopo essere stato colpito coi taser”. Gli hanno sparato mentre cercava di entrare in un minimarket. La polizia di Stato della Louisiana sta conducendo le indagini. In un video pubblicato sui social media si riescono a sentire circa 11 colpi di arma da fuoco. La polizia di Stato della Louisiana sta indagando sulla morte di Trayford Pellerin, afroamericano di 31 anni colpito a morte venerdì sera dopo essere stato fermato dai poliziotti del dipartimento di Lafayette. Gli agenti sono stati chiamati in un minimarket della città di 130mila abitanti, poco dopo le 20 di venerdì in risposta a una chiamata che parlava di “una persona armata di coltello”, questo secondo la dichiarazione della Polizia di Stato della Louisiana. Quando sono arrivati gli agenti, Pellerin si trovava nel parcheggio del negozio, aveva un coltello, si legge nella dichiarazione. Hanno cercato di arrestarlo ma lui si è allontanato e gli ufficiali lo hanno seguito a piedi. Hanno usato i taser per bloccarlo, si legge sempre nella dichiarazione, “ma sono stati inefficaci”. A quel punto gli hanno sparato mentre cercava di entrare in un minimarket lungo la NW Evangeline Thruway. La sparatoria di venerdì sera è stata registrata in video. Anche il testimone Rikasha Montgomery ha girato un video della sparatoria, ha detto a The Advertiser che l’afroamericano impugnava quello che sembrava un coltello e continuava a camminare lungo la strada mentre alcuni agenti gli sparavano alle spalle con pistole stordenti. Gli ufficiali gli hanno gridato di stendersi a terra, ha detto Montgomery, 18 anni. “Hanno sparato quando l’uomo ha raggiunto la porta di una stazione di servizio Shell. Quando ho sentito gli spari, non ho potuto tenere il telefono fermo”, ha detto. “Mi sono spaventato. Sono traumatizzato. Sei così abituato a sentirne parlare... ma non avrei mai pensato di sperimentarlo”. Nel video pubblicato sui social media si riescono a sentire circa 11 colpi sparati dagli agenti. Pellerin è stato portato in un ospedale dove è stato dichiarato morto. Dopo il caso di George Floyd a Minneapolis e Breonna Taylor a Louisville, Kentucky, e di tutti gli altri nomi, il suo è un altro nome morto in silenzio sul quale l’America di Black Lives Matter è tornata a urlare. La polizia di Stato ha detto che nessun agente è rimasto ferito e che le indagini sono “attive e in corso”. Il dipartimento di polizia di Lafayette non ha rilasciato commenti. La morte di Pellerin arriva verso la fine di un’estate che ha visto diffuse proteste contro l’ingiustizia razziale e la brutalità della polizia in seguito alle uccisioni di afroamericani. L’avvocato per i diritti civili Benjamin Crump ha dichiarato alla Cnn che la famiglia di Pellerin ha chiesto il licenziamento degli agenti coinvolti. “Ci rifiutiamo di lasciare che questo caso si risolva come tanti altri: in silenzio, senza risposte e giustizia”, ha detto Crump, che rappresenta anche le famiglie di Floyd e Taylor. “La famiglia e la gente di Lafayette meritano onestà e responsabilità da parte di coloro che hanno giurato di proteggerli, la polizia di Lafayette”, ha aggiunto. Da sabato, quando si è tenuta la veglia sul luogo dove Pellerin ha perso la vita, la gente è tornata in piazza, dapprima pacificamente. In serata sono cominciati gli scontri. Gli ufficiali in tenuta antisommossa hanno sparato fumogeni sabato sera per far disperdere la folla, ha detto l’agente Derek Senegal. “Nessun gas lacrimogeno”, ha aggiunto. “Il nostro intento non sarà quello di lasciare che le persone disturbino la nostra città e mettano in pericolo i nostri cittadini, i nostri automobilisti e i nostri quartieri”, ha detto il capo della polizia ad interim Scott Morgan. Sono stati effettuati arresti, ha detto Morgan, senza specificare un numero. “Sosteniamo i diritti del Primo Emendamento delle persone”, ha detto lo sceriffo della parrocchia di Lafayette Mark Garber. “Tuttavia, quando si tratta di distruzione di proprietà, non daremo fuoco a Lafayette”. “Pellerin era timido, intelligente ma soffriva di ansia e potrebbe essere stato spaventato dagli ufficiali”, ha detto la madre Michelle a The Advocate. Aveva cercato un aiuto professionale all’inizio di quest’anno, ha detto: “Invece di dargli una mano, gli hanno dato dei proiettili”. Secondo la famiglia Pellerin potrebbe aver avuto una crisi di nervi. In piazza con i bielorussi: “Basta con Lukashenko” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 24 agosto 2020 Oltre centomila persone in strada ieri per rivendicare la vittoria della candidata dell’opposizione Tikhanovskaja alle presidenziali. Ma il leader, 65 anni, al potere da 26, non intende cedere. Sono tornati in strada per la seconda domenica consecutiva. Nonostante la pioggia, i blindati lungo le strade e la minaccia di un intervento dell’esercito. Vecchi dissidenti, giovani con la barba hipster, intere famiglie e ragazze con coroncine di mughetto in testa o mazzi di fiori in mano. “Oltre 100mila”, “almeno 200mila”, sui social rimbalzano le cifre. Difficile stimarli. Sono dappertutto. Un corteo informe “come l’acqua”. Gridano e cantano in piazza Indipendenza di fronte all’imponente edificio costruttivista che ospita il Parlamento sotto lo sguardo severo dell’immancabile statua di Vladimir Lenin. Coprono con i fischi le minacce di arresto per il raduno non autorizzato che arrivano dai megafoni. Colorano i lindi viali di Minsk di rosso e bianco sventolando l’antica bandiera diventata vessillo dell’opposizione al leader 65enne Aleksandr Lukashenko. Sfilano verso il monumento alla seconda guerra mondiale circondato dai militari e poi fino al palazzo presidenziale. Gli automobilisti salutano col clacson e loro rispondono col segno di vittoria di quella che considerano la loro “presidente legittima”, Svetlana Tikhanovskaja, fuggita in Lituania all’indomani delle elezioni del 9 agosto. Cominciata dopo la contestata vittoria di Lukashenko per un sesto mandato consecutivo, la protesta resiste. Gli slogan sono gli stessi che echeggiano ormai da due settimane: Ukhodi, Ukhodi, “Via, Via”; Lukashenko v avtozak, “Lukashenko in un furgone della polizia”; Vmieste, “Insieme”; Zabastovka, “Sciopero”. “Elezioni oneste, fine della repressione e liberazione di tutti i detenuti politici”, la 34enne Svetlana elenca le rivendicazioni della piazza. “Vogliamo mostrare ai nostri figli la nuova e vera Bielorussia”, dicono Evgenij e Jiulija, che con loro hanno portato Mark e Agata di nove e sette anni. Che cosa chiedono? “Cambiamenti”. Peremen, rispondono tutti, come l’inno sovietico alla perestrojka di Viktor Tsoi diventato la colonna sonora delle manifestazioni. Anche Ksenia Prudnikova, imprenditrice 41enne, è scesa in strada con la famiglia dopo aver allestito cartelloni, gonfiato palloncini e tagliato nastri bianchi. “Ti svegli ogni mattina temendo che le manifestazioni scemeranno e ogni mattina scopri che qualcuno ha già lanciato un’iniziativa”, dice sbigottita dalla marea umana. “Abbiamo uno slogan: Kazhdij den, kazhdij den. “Ogni giorno, ogni giorno”. E cerchiamo di metterlo in pratica. Non molliamo”. I giorni passati, però, sono stati “un’altalena emotiva”, come ha detto in un videomessaggio Maria Kolesnikova, l’unica donna rimasta a Minsk del “triumvirato” femminile che aveva guidato la campagna elettorale dell’opposizione. Molti avevano pensato che l’imponente “Marcia per la libertà” di una domenica fa fosse “l’inizio della fine”. L’indomani decine di fabbriche e persino la tv statale, megafono della propaganda, avevano aderito allo sciopero nazionale indetto dall’opposizione. E Lukashenko era stato accolto dai fischi degli operai, a lungo considerati lo zoccolo della sua base elettorale. Ma l’ex direttore di una fattoria sovietica, trasformatosi nell’ultimo dittatore d’Europa, come è stato battezzato, ha fatto capire che se non ne andrà senza combattere. Quando agli operai ha risposto che sarebbe morto piuttosto che indire nuove elezioni, non era retorico. Dopo che ha giurato che avrebbe “risolto il problema” della contestazione, frutto - a suo dire - di un complotto occidentale, i procuratori hanno interrogato i rappresentati del Consiglio di Coordinamento creato dall’opposizione, i leader degli scioperi delle fabbriche sono stati arrestati, i dipendenti della tv statale in agitazione sono stati sostituiti con operatori russi, l’esercito è stato messo in stato d’allerta contro presunti movimenti Nato alla frontiera e in un audio il ministro della Difesa ha avvertito i suoi generali di prepararsi alla guerra civile. E ieri, per chiarire il messaggio, lo stesso Lukashenko è sceso dall’elicottero presidenziale con giubbotto anti-proiettile e kalashnikov in mano. “Non è un’altalena, sono vere e proprie montagne russe”, ammette Anastasija Kapustina, trent’anni. “Ma bisogna portare avanti la lotta”. Come per tanti bielorussi, il coronavirus è stata la miccia del suo impegno politico. “Ho capito che il governo non ci avrebbe dato nessuna assistenza. Quando poi, in campagna elettorale, i candidati dell’opposizione sono stati arrestati o esiliati, non potevo restare indifferente. Abbiamo un modo di dire: “La mia casa è sul bordo”. Vuol dire: “Non sono affari miei”. In tanti avevamo la casa sul bordo, ma ora siamo tutti coinvolti. Abbiamo tutti un compito”. C’è chi porta acqua e cibo ai dimostranti, chi - come Anastasija - assiste al rilascio di quanti erano stati arrestati, chi organizza picchetti. Nel movimento non ci sono capifila. Tutti i leader sono in esilio o in carcere. Gli esponenti del neonato Consiglio di coordinamento non indicono manifestazioni. Le istruzioni per i cortei quotidiani o le catene umane delle cosiddette “Donne in bianco” arrivano sui canali Telegram, l’app di messaggistica cifrata. Come quando alle 15.30 tutti si uniscono al minuto di silenzio per le vittime delle quattro notti di repressione seguite al voto: almeno quattro dimostranti morti, centinaia di feriti, quasi 80 dispersi e oltre 7mila detenuti che, una volta rilasciati, hanno raccontato l’orrore nelle carceri. Per un Paese dove un terzo della popolazione è morta nella seconda guerra mondiale, le torture sono state il punto di non ritorno. “Una linea rossa di sangue”, secondo Evgenij, 32 anni, che ha trascorso due giorni nell’oramai famigerato carcere di Okrestino. “Siamo rimasti in silenzio per troppo tempo, ma stavolta non perdoneremo”. In 26 anni al potere Lukashenko aveva trasformato il Paese senza sbocco sul mare, incastonato tra Russia e Ue, in una miniatura dell’Urss. Via il limite di mandati e ogni minaccia al suo regime autoritario. Chiusi i media indipendenti. Incarcerati o dispersi gli oppositori. Poteri illimitati al Kgb, i servizi segreti che oltre al nome hanno conservato i metodi sovietici. Ma aveva garantito la pace e la stabilità che manca a tante altre Repubbliche ex-sovietiche. Ora ha rotto il patto con la società, ma gode ancora del sostegno di esercito e servizi. “Sappiamo che il confronto durerà mesi, ma siamo pronti per questa maratona”, promette Olga che festeggia i suoi 33 anni in piazza. “Faremo vedere quanti siamo ogni giorno”. Kazhdij den, kazhdij den. Bielorussia. Lukashenko tra i militari: “La gente si calmerà” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 24 agosto 2020 Il presidente va nella città simbolo della protesta. E chiude le fabbriche in sciopero. Tikhanovskaya vedrà l’inviato Usa. “Tutto sarà risolto nei prossimi giorni, la crisi finirà presto, credetemi”. Per cercare di stroncare ogni sogno di cambiamento il presidente bielorusso Lukashenko si è recato fino a Grodno, la città al confine con la Polonia che ha assaporato la libertà ma per due giorni soltanto: le autorità locali avevano fatto concessioni ai manifestanti, ritirate però 48 ore dopo su pressione di Minsk. “Ho ordinato al ministro della Difesa di prendere nuove misure, le più severe per difendere l’integrità territoriale del nostro Paese” ha avvertito durante una visita a una base militare il longevo leader che continua a presentare la mobilitazione in atto come qualcosa di istigato dall’esterno. Le forze armate - ha fatto sapere - sono in stato d’allerta e delle esercitazioni militari sono previste nella regione di Grodno tra il 28 e il 31 agosto. Ieri Lukashenko, al potere dal 1994, ha chiarito anche come intende soffocare l’altra faccia della protesta, quella che ha portato alla più massiccia ondata di scioperi che il Paese abbia mai conosciuto: da domani le fabbriche in sciopero saranno chiuse. “La gente si calmerà” ha assicurato Lukashenko rivolgendosi ad alcuni suoi sostenitori a Grodno, mentre venivano chiusi 20 siti di informazione. Le minacce del dittatore aleggiano sulle piazze in rivolta e nelle fabbriche in agitazione seminando ansia e paura. A tenere alto il morale e vivo lo spirito della lotta ci pensa Svetlana Tikhanovskaya, l’insegnante di inglese moglie di un oppositore finito in carcere che si è ritrovata a sfidare il dittatore alle urne: “Vi chiedo di continuare, di estendere gli scioperi, senza cedere alle intimidazioni”, ha scandito in un video diffuso su You Tube in cui ha ribadito gli obiettivi della protesta: “La fine delle violenze, il rilascio dei prigionieri politici e nuove elezioni, trasparenti, libere e giuste”. Nella sua prima conferenza stampa da quando si è rifugiata in Lituania si è rivolta a Lukashenko: “Il presidente deve sapere che il popolo bielorusso non accetterà più la sua leadership”. E in un’intervista alla Reuters, ha dichiarato di non avere nulla da chiedere a Putin se non “il rispetto della sovranità della Bielorussia”. In quello che appare come un capolavoro di diplomazia, ha poi fatto sapere di aver avanzato la stessa richiesta ai tanti leader occidentali che la stanno contattando in questi giorni. Con lo stesso atteggiamento, domani incontrerà a Vilnius il vice segretario di Stato Usa Stephen Biegun che si recherà poi a Mosca, nel tentativo di trovare una soluzione alla crisi. Svetlana è determinata: “Andremo avanti fino alla fine, se ci fermassimo ora, saremmo schiavi” ha arringato parlando alla Bbc. Non sarà facile, considera Sergei Dylevsky, l’operaio di Minsk in sneakers rosse, jeans e T-shirt che ha dato il via agli scioperi ed è diventato in pochi giorni un leader dell’opposizione, nel comitato con la scrittrice premio Nobel Svetlana Alexievich e l’ex ministro della cultura Pavel P. Latushko. Sebbene il 90% dei lavoratori è a favore di nuove elezioni, soltanto 250 su 15mila sono “pronti ad andare avanti fino alla fine”, stima. Oggi è convocata una nuova, grande manifestazione a Minsk, ed è attesa una folla oceanica come quella di domenica scorsa. Ma con Lukashenko che continua a escludere nuove consultazioni, incurante delle sanzioni annunciate dalla Ue e forte del sostegno di Putin, tante le domande ancora senza risposta: quanto sarà dura l’ulteriore stretta annunciata dal dittatore? Dal movimento di protesta nasceranno frange violente? E la Russia interverrà? Russia. Navalnyj, Litvinenko: “Troppe coincidenze con l’assassinio di mio marito” di Enrico Franceschini La Repubblica, 24 agosto 2020 Intervista a Marina, vedova dell’ex agente del Kgb ucciso nel 2006. “Putin è comunque responsabile di quello che avviene in Russia, perché ha creato un sistema in cui fatti del genere sono la norma, ma aspettiamo il responso dei medici tedeschi per capire che sostanza è stata usata per avvelenare Aleksej Navalnyj. A quel punto capiremo meglio chi è stato”. Marina Litvinenko è la vedova di Aleksandr, l’ex-agente del Kgb assassinato a Londra nel 2006 con il polonio radioattivo nel tè. Dalla Sicilia, dove si trova in vacanza, risponde al telefono agli interrogativi suscitati da un caso che sembra un déjà vu di quanto accaduto a suo marito. Cosa pensa di questo nuovo avvelenamento? “Il primo pensiero è che per fortuna è stato possibile portare Navalnyj in Germania. I medici tedeschi saranno probabilmente in grado di stabilire quale sostanza è stata usata per avvelenarlo e spero anche di salvargli la vita. Certo dubito che un uomo forte e sano possa avere un collasso improvviso per altre ragioni. Logico pensare che sia stato avvelenato”. Da chi? “Qualcuno a cui Navalnyj non piaceva. Il suo mestiere, oltre che leader dell’opposizione, è il giornalismo investigativo e può avere scoperto qualcosa che dava fastidio. In Russia si preparano elezioni regionali: l’ordine di ucciderlo potrebbe essere partito da lì”. È possibile cercare di uccidere un personaggio come Navalnyj senza che Putin lo sappia? “Per nominare Putin come diretto mandante dobbiamo sapere di più sulle circostanze e sul tipo di veleno usato. Anche se non ne fosse stato a conoscenza, questo non sarebbe il primo avvelenamento di dissidenti attribuito al Cremlino: ci sono i precedenti di mio marito, di Sergej Skripal e tanti altri. Come minimo siamo davanti a una coincidenza sospetta. Nei suoi vent’anni al potere, Putin ha creato un sistema politico in cui fatti del genere sono la norma: la responsabilità politica è comunque sua. Poi c’è un’altra coincidenza”. Quale? “La Bielorussia. Al Cremlino qualcuno potrebbe essersi innervosito per quanto avviene nel Paese, dove è esplosa una rivolta che può fare cadere Lukashenko. Proteste analoghe, su scala minore, sono cominciate nella regione russa di Khabarovsk. Non si può escludere che siano stati questi segnali da Ovest e da Est a fare colpire il più noto oppositore interno di Putin”. Sarà possibile ottenere giustizia per quanto è accaduto a Navalnyj? “Temo di no. Sia pure dopo lungo tempo e con grandi sforzi, io sono riuscita ad averla per mio marito: l’inchiesta britannica ha stabilito che Putin era coinvolto direttamente. Ma le inchieste su politici o giornalisti assassinati in Russia non hanno mai portato a nulla”. Cosa dovrebbe fare l’Occidente? “Sta facendo molto con l’assistenza medica offerta da Merkel a Navalnyj. Credo che l’Occidente non si faccia più illusioni su Putin. Ma si illude ancora di poter fare affari con lui. Questa illusione dovrebbe finire: gli affari con Putin, economici o politici, possono finire da un momento all’altro con un delitto”. Come suo marito, Navalnyj potrebbe essere stato avvelenato con una tazza di tè… “Un’altra coincidenza che risveglia in me tristi ricordi. Ma è presto per dire se il veleno era nel tè che Navalnyj ha bevuto all’aeroporto. Potrebbero averglielo somministrato in altri modi, spruzzato o iniettato addosso nella calca dell’aeroporto. Solo i medici tedeschi possono rivelarlo”. Libia. L’Onu denuncia uccisioni e detenzioni arbitrarie nella città di Al Asabaa agenzianova.com, 24 agosto 2020 La Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha espresso preoccupazione per le uccisioni, gli arresti arbitrari e le detenzioni ad Al Asabaa, città dell’ovest del paese sotto il controllo del Governo di accordo nazionale (Gna). In particolare, l’Unsmil parla di “un civile ucciso” e del “blocco forzato della città mentre la popolazione civile è già sotto pressione”. La missione Onu ha chiesto “una riduzione immediata dell’escalation” e che tutte le parti coinvolte “rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario, compreso consentire la piena libertà di movimento e l’accesso immediato alle strutture sanitarie”. L’Onu ha inoltre esortato “a rispettare il giusto processo, a consegnare gli arrestati alle istituzioni giudiziarie competenti e a rilasciare immediatamente coloro che sono arbitrariamente detenuti”. L’operazione militare “Vulcano della rabbia” del Gna ha annunciato l’inizio di una vasta operazione di sicurezza ad Al Asabah e Mizda per “imporre la sicurezza e arrestare un certo numero di persone ricercate nella regione”. Le guerre parallele di francesi e africani contro il terrore jihadista nel Sahel di Pietro Del Re La Repubblica, 24 agosto 2020 Gli eserciti di Niger, Mali e Burkina Faso, accusati di massacri e esecuzioni sommarie. Ma Parigi è sott’accusa perché li addestra e fornisce le armi. Contro i jihadisti del Sahel si combattono due guerre parallele: quella dei francesi con droni sofisticati e teste di cuoio, e quella più faticosamente condotta con armi fatiscenti e soldati sottopagati dagli squinternati eserciti di Mali, Niger e Burkina Faso. Nella prima, usando un linguaggio fin troppo asettico, si parla di “disattivazione di gruppi armati terroristici” e di “eliminazione di bersagli ad alto valore”. I suoi protagonisti sono gli oltre 5mila soldati dell’operazione Barkhane dispiegati nel deserto da Parigi, che hanno negli uomini del Comando operazioni speciali la loro punta di diamante operativa. Sono loro che coprendosi di gloria lo scorso 3 giugno hanno scovato e ucciso nel nord del Mali Abdelmalek Droukdel, leader del gruppo Al Qaeda nel Maghreb islamico. L’altra guerra, quella degli eserciti africani, registra successi decisamente meno eroici e fulgenti perché funestata da frequenti massacri inter-etnici che compiono le milizie locali e da esecuzioni sommarie di civili inermi da parte dei soldati. Con il risultato che, spaventati da possibili rappresaglie, sequestri o processi troppo sbrigativi, molti giovani preferiscono unirsi alle unità combattenti jihadiste. In un rapporto pubblicato il 10 giugno, Amnesty International denuncia “atti di terrore e massacri” compiuti dai tre eserciti tra febbraio e aprile di quest’anno, tutti perpetrati con il pretesto di svolgere operazioni anti-terroristiche. Sempre secondo l’attendibile Ong, nello stesso periodo i soldati avrebbero ucciso almeno 199 civili e in alcune regioni desertiche sarebbero state scoperte diverse fosse comuni. Negli stessi mesi, la Minusma, la missione Onu per stabilizzare il Mali, ha contato circa 650 violazioni dei diritti umani nel Paese. Bisogna dare per scontato che nessun soldato francese ha partecipato o assistito passivamente a questi ammazzamenti. Tuttavia, l’accusa di questi crimini di guerra attribuiti agli eserciti regionali coinvolge in parte anche Parigi, poiché è lei che li addestra e li rifornisce di armi. E poi la Francia è il primo partner diretto di questi Paesi nella lotta contro i gruppi estremisti, siano essi affiliati ad Al Qaeda o allo Stato islamico. Secondo Ibrahim Traoré, ricercatore dell’Institut d’études de sécurité di Bamako, la strategia anti-jihadista dell’ex potenza coloniale è controproducente perché non fa altro che generare altra violenza. “Dall’inizio dell’intervento di Parigi, nel 2013, i gruppi armati si sono moltiplicati e l’anno scorso nel Sahel gli attentati sono aumentati del 70%. È vero, i francesi hanno neutralizzato più di mille terroristi ma il problema è che i loro attacchi provocano anche tante morti “collaterali”, e che ognuna di queste crea nuovi miliziani”. Anche Niagalé Bagayoko, direttrice dell’African security sector network considera piena di errori la cooperazione francese nel Sahel, “non solo sull’aspetto militare ma anche su quello dei diritti umani”. Per Bagayoko il silenzio di Parigi sugli ammazzamenti compiuti dagli eserciti alleati equivale a una sorta di assoluzione. Oltre a combattere i battaglioni dell’estremismo islamico, Parigi vorrebbe conquistare i cuori e le menti della popolazione locale. “Ma non le riesce facile, anche per il risentimento che alcuni rigurgiti neo-colonialistici possono generare a Bamako, Niamey o Ouagadougou”, spiega l’islamologo americano Alexander Thurston. “Una guerra non si vince solo militarmente”. Lo sapeva bene Ibrahim Boubacar Keita, il presidente del Mali deposto martedì scorso dalla giunta militare che ancora lo tiene prigioniero in una caserma non lontana dalla capitale. Lo scorso febbraio, dopo anni di sanguinarie battaglie e continue perdite di uomini e beni, Keita aveva avviato un dialogo con gli emiri di Al Qaeda nel Maghreb islamico, islamisti meno radicalizzati e feroci di quelli dell’Isis. “L’apertura dell’ex presidente è coincisa con una controffensiva di Al Qaeda, in particolare nell’Africa occidentale e in particolare in Mali. Una controffensiva non solo militare, ma soprattutto politica”, aggiunge Thurston. Di fatto, l’iniziativa di Keita ha spaccato in due il fronte jihadista, perché l’aviazione di Parigi s’è concentrata sui battaglioni dello Stato islamico, il quale ha accusato di tradimento i confratelli qaedisti. “Questa decisione di accettare negoziati diretti con lo Stato del Mali ha così segnato un importante punto di svolta”, dice ancora l’islamologo. È verosimile che ora, sia pure senza un interlocutore politico a Bamako, i leader di Al Qaeda amplieranno la loro offensiva nel Sahel. E per reclutare nuovi uomini, compiere i loro saccheggi nei villaggi e strappare nuove terre all’Isis nel centro e nel nord del Paese potranno approfittare delle prossime settimane, durante le quali la giunta militare da pochi giorni al comando sarà troppo occupata a trovare un nuovo presidente.