Carceri italiane, un’altra estate infernale di Riccardo Polidoro Il Riformista, 23 agosto 2020 Un’altra estate infernale nelle carceri italiane. Un’ennesima violazione delle regole minime da rispettare nei confronti di persone affidate allo Stato, che dovrebbe farsi carico del loro recupero. Al sovraffollamento, alle carenze igienico-sanitarie, al calore insopportabile, contro il quale non esistono rimedi, perché gli spazi sono angusti e l’aria che circola è minima, quest’anno si è aggiunta la solitudine dovuta al Covid-19, con l’eliminazione e successiva drastica riduzione dei colloqui con i familiari e delle già minime attività educative. Una costante violazione di norme e principi costituzionali, che interessa l’intera nazione e che, in Campania, vede il 37% delle stanze dei detenuti privo dei servizi igienici essenziali; il carcere di Santa Maria Capua Vetere, costruito nel 1996, dopo 24 anni, ancora senza rete idrica; il padiglione Roma di Poggioreale, dove convivono 14 detenuti e un solo finestrino. Quanto alla funzione “rieducativa” della pena, la stessa, in epoca pre-Covid, era affidata a un educatore ogni 100 detenuti, percentuale che può far comprendere cosa è accaduto in questi anni, nei mesi scorsi e con il caldo di questi giorni. Abbandonati e ammassati nelle loro stanze - “stanze” di pernottamento e non celle sarebbe bene ricordarlo sempre, perché luogo del riposo, mentre il resto della giornata dovrebbe vederli all’esterno impegnati - i detenuti affrontano quest’ulteriore ingiusta sofferenza a cui vengono sottomessi: l’insopportabile e invincibile afa, non prevista dal codice penale né come pena principale né accessoria. Se ne rese conto l’anno scorso, nella simbolica visita del 15 agosto a Poggioreale, un politico locale che “scoprì” che le stanze di pernottamento erano prive di aria condizionata e di ventilatori e, evidentemente impietosito dallo spettacolo disumano che era davanti ai suoi occhi, si impegnò personalmente per far donare all’istituto un cospicuo numero di ventilatori. Non è mai troppo tardi e quel gesto fu molto apprezzato da quei detenuti - pochi - che videro la brezza meccanica rinfrescare i loro corpi. Gli altri, giustamente indispettiti dalla disparità di trattamento, non compresero la nobiltà del gesto e patirono un’ulteriore vessazione. Alla vigilia dell’appuntamento elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale, le carceri della Campania stanno vivendo uno dei momenti più drammatici dal punto di vista sanitario e non solo. Aumentati i detenuti con sindromi di ansia e depressione, con malattie cardiovascolari, con disturbi gastroenterologici, con infezioni. Ridotto drasticamente il personale. Situazione che ha fatto accrescere il numero dei decessi e dei suicidi. Dinanzi a questa tragedia la politica è, come sempre, assente e ignora l’importanza che avrebbe l’impegno per un carcere finalmente “diverso” e strutturato così come previsto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. Sarebbe davvero civile che, nel dibattito pre-elettorale, si affrontassero anche i temi dell’esecuzione penale e della detenzione e i candidati - almeno quelli degli schieramenti che dovrebbero avere nel loro dna la tutela dei diritti dei più deboli - facessero comprendere che quei principi scolpiti nella nostra Carta sono non solo inviolabili, ma funzionali alla crescita del Paese. Un individuo condannato o in custodia cautelare, a cui non viene data la possibilità di scontare la pena ovvero la misura inflitta con la dignità che gli spetta, sarà, nella maggior parte dei casi, irrecuperabile. Avrà sempre un senso di astio verso lo Stato, che vedrà come nemico, e non avrà gli strumenti per modificare la sua condotta. Un Paese, invece, ligio alle regole che si è dato e rispettoso nei confronti di tutti i suoi cittadini, ivi compresi quelli colpevoli o ritenuti colpevoli di atti illeciti, saprà costruire un futuro migliore per tutti, perché insegnerà che la “persona” è sacra, sempre e per sempre. Auguriamoci, dunque, che i candidati, oltre a stampare enormi manifesti con volti non sempre rassicuranti, oltre a partecipare a cene e banchetti “in maschera” anti-Covid, oltre a infoltire il numero dei loro elettori a qualunque costo, a volte sacrificando proprio quella dignità a noi cara, oltre a promettere segreti e indicibili accordi, possano dedicarsi anche a un programma elettorale in cui trovi spazio il tema sempre sottovalutato della illegalità degli istituti di pena. La Regione può fare molto per il carcere, in materia di sanità, di lavoro, delle stesse condizioni di vivibilità all’interno degli istituti. Ridiamo almeno decenza alla detenzione e rispettiamo le persone, anche quelle in carcere, perché questo ci è stato insegnato. Non è della carità di un ventilatore che vi è bisogno né di visite per conoscere quello che tutti sanno, ma di una seria politica lungimirante e colta. Da napoletano sarei orgoglioso che la mia Regione mettesse nel suo programma di governo uno dei principi fondanti della nostra Costituzione. Vita da detenute: cosa si nasconde oltre quel cancello di Rossella Avella interris.it, 23 agosto 2020 Adriana Intilla, funzionario giuridico pedagogico del carcere di Pozzuoli, racconta come si svolge la vita dentro il centro di detenzione e cosa è cambiato durante il lockdown. “Dal 9 marzo quando tutta l’Italia si è completamente paralizzata la situazione ha coinvolto anche noi, per questo motivo in via precauzionale da quella data abbiamo sospeso ogni tipo di attività condotta dalla comunità esterna. Tutti i corsi e le attività dei tirocinanti che venivano qui per capire come si svolgesse la figura dell’educatore sono stati sospesi. Abbiamo dovuto reinventarci per evitare l’ozio in un momento di angosce e di paura. É stato scritto un nuovo capitolo” ha raccontato Adriana Intilla, funzionario giuridico pedagogico e capo area ufficio trattamento del carcere di Pozzuoli (Na). Al 30 aprile 2019 secondo il XV rapporto di detenzione delle donne in carcere, erano 2.659 le donne detenute a fronte di una popolazione ristretta. Questa, infatti, aveva superato di 439 detenuti la soglia dei 60 mila. Le donne detenute rappresentavano così nel complesso il 4,4% dei ristretti in Italia. La testimonianza dal carcere di Pozzuoli - Le donne carcerate sono condannate a una doppia pena, detenute in piccoli spazi con difficoltà legate ai figli, alla famiglia e alla burocrazia per poter cercare un riscatto attraverso il lavoro. Interris.it ne ha parlato proprio con Adriana Intilla. La presenza femminile negli istituti di detenzione - L’andamento della presenza femminile negli istituti di pena italiani negli ultimi 28 anni è stata grosso modo stabile. Se al 31 dicembre del 1992 risale il picco percentualmente più elevato di presenza femminile sul totale dei ristretti, con le 2.411 detenute presenti che rappresentavano il 5,43% di tutta la popolazione detenuta (all’epoca composta da 47.316 persone), il record assoluto di presenze è stato raggiunto nel 2010. In quell’anno la rilevazione di fine giugno contava una presenza femminile di 3.003 detenute che rappresentavano però - in uno dei momenti di massimo affollamento del sistema penitenziario italiano (68.258 detenuti al 30 giugno) - il 4,4% dell’intera popolazione reclusa. È stato questo l’unico momento dal 1991 in cui la popolazione femminile ristretta ha superato il muro delle tremila unità. Nei primi mesi del 2019 vi è stato un lieve incremento (+0,06%) nella presenza femminile che è passata dal rappresentare il 4,32% dei detenuti al 4,4% come si diceva in apertura. Gli istituti esclusivamente femminili - Non tutti i 190 istituti penitenziari italiani ospitano donne ristrette. Tuttavia sul territorio sono solo 4 gli istituti esclusivamente femminili: le due case circondariali di Pozzuoli (Na) e di Rebibbia Femminile a Roma e le due case di reclusione di Venezia Giudecca e di Trani. Questi quattro istituti nel complesso ospitano 669 detenute, di cui 260 straniere. La vita in carcere durante il lockdown - “Si è voluto consentire loro anche una sorta di autogestione. Per questo abbiamo messo loro a disposizione il teatro dove potevano scendere ovviamente seguendo le regole del distanziamento. Hanno utilizzato la struttura per fare il karaoke, attività di gruppo e di intrattenimento, proiezione di film così da trascorrere qualche ora dimenticandosi delle preoccupazioni per i loro congiunti. Inoltre sappiamo che per le donne apparire in ordine è fondamentale, così alcune detenute che hanno una certa manualità con spazzola e phon si sono prese cura dei capelli delle loro compagne”. Durante il lockdown sono stati sospesi gli incontri con i familiari. Questa decisione ha causato molte polemiche e varie manifestazioni di rivolta da parte dei detenuti, qual è stata la situazione a Pozzuoli? “Per quanto riguarda gli incontri con i familiari sono stati sospesi ma sono state consentite delle telefonate extra anche con l’utilizzo di social come WhatsApp, per limitare il peso della distanza in un momento così difficile. Dalla fine di maggio sono stati consentiti i primi incontri visivi, con un solo familiare più un minore alla volta all’interno dell’area verde senza potersi toccare. Le detenute non hanno obiettato anzi hanno subito messo in pratica le nuove regole. Addirittura alcune per evitare di soffrire hanno preferito non vedere ancora i propri figli perché sapevano che sarebbe stato impossibile non poterli abbracciare. Ad ogni modo hanno anche criticato il comportamento di quelle persone che si sono ribellate alle regole definendoli i loro comportamenti da irresponsabili”. Come vivono il loro rapporto con la fede le detenute? “Da quando è stato ripristinato il servizio domenicale della messa, dato che anche questo era stato sospeso, si è ritornati ad una pseudo normalità. Oggi le donne hanno incontri con il cappellano dell’istituto, hanno cominciato a fare colloqui di sostegno nel rispetto del distanziamento e delle disposizioni vigenti. Anche questa è una parte fondamentale del loro percorso di rinascita che affrontano all’interno dell’istituto”. Cosa significa essere un’educatrice in un carcere oggi? “Come educatore ho cominciato ad avere una visione diversa delle donne detenute. Sicuramente chi sbaglia deve pagare ed espiare la sua condanna, però mi sono resa conto che dietro alcuni comportamenti c’è un vissuto straziato, violentato, sofferto e tutta una serie di motivazioni che in qualche modo hanno cambiato la visione della realtà. Ciò che per noi è normale, il rispetto delle regole e del prossimo, può non esserlo per chi invece è cresciuto in un contesto familiare dove hanno sempre vissuto comportamenti malsani, promiscuità, violenze. In alcuni casi per queste persone diventa normale anche fare una rapina o spacciare droga. Ci sono persone che si sono ritrovate in certe situazioni perché spinte dalla disperazione del momento e dalla mancanza di aiuto. Così come può accadere di commettere un’azione estrema a danno di un altro in un momento di “lucida follia”. Come si diventa oggi educatore per le detenute di un carcere? Come si svolge questa professione? “Devo precisa re che si accede per concorso pubblico. Intraprendere questo percorso deve sicuramente piacere altrimenti non puoi farlo. All’inizio tendi a farti coinvolgere poi pian piano capisci che devi mettere una piccola distanza tra te e il tuo interlocutore che ti consente di poter tornare a casa senza portarti il peso dei loro drammi. Questo non vuol dire che quando li ascolto sono indifferente, al contrario cerco di comprendere al meglio per poi poter dare loro il mio aiuto e anche delle risposte. Facendo questo lavoro ho anche imparato a non giudicare. Quando parlo con loro, infatti, a prescindere dal reato che hanno commesso le tratto come donne. Io guardo la persona, le aiuto a camminare all’interno di questo perimetro, le aiuto ad affrontare le loro giornate soprattutto se si tratta di persone che non hanno mai avuto a che fare con il carcere. L’obiettivo è quello di contribuire per il loro reinserimento sociale attraverso una diversa prospettiva”. All’interno del carcere di Pozzuoli però c’è anche un polo Universitario, come cambia la vita delle detenute? “Questa è una delle nostre più grandi fortune. Due anni fa, infatti, il nostro Provveditorato ha sottoscritto un protocollo di intesa con l’Università Federico II con sede presso il Centro Penitenziario di Secondigliano. All’inizio avevamo detenute iscritte a vari corsi universitari, alcune hanno poi proseguito anche dopo aver ottenuto una misura alternativa alla detenzione. Una sola è rimasta all’interno del carcere e ancora oggi sta continuando il percorso di studi”. Giustizia e ragione, la modernissima storia di Oreste di Francesco Petrelli Il Riformista, 23 agosto 2020 Portata in scena per la prima volta nel 458 a.C. in quel teatro di Dioniso posto sulle pendici dell’Acropoli di Atene, l’Orestea di Eschilo ci parla dei conflitti che agitano il mondo della Giustizia e di come la Ragione può governarli ideando nuovi modelli e generando così nuovi equilibri per la Polis. Dopo quasi duemilacinquecento anni quest’opera, scritta dal più ottimista dei tragici greci, ha ancora qualcosa da dirci circa le insopprimibili pulsioni emotive della collettività ed il loro rapporto con le nuove contrastanti ma indeclinabili esigenze della ragione e della democrazia. La storia di Oreste costituisce l’epilogo, a sua volta cruento, di un terribile delitto: la madre di Oreste, Clitennestra, con la complicità dell’amante Egisto, aveva infatti ucciso il padre Agamennone, suo sposo e re di Argo, mentre questi, reduce vittorioso dalla guerra di Troia, era immerso nel tiepido abbraccio di un bagno ristoratore. Su Oreste, unico figlio maschio del vecchio re, incombeva ora il terribile onere della vendetta. Fu così che, “immerso il suo collo nel collare della necessità”, spinto dal seme e dal sangue, assieme al suo fedele amico Pilade, Oreste giunse ad Argo per compiere il suo dovere: penetrato nella reggia, uccise Egisto, assassino del padre ed usurpatore del trono. E, tuttavia, con lui uccise anche la madre Clitennestra, con ciò gettando la sua esistenza - come narra Eschilo - in un gorgo di atroci tormenti. Le Erinni, spietate persecutrici e paladine dell’ordine divino che si assume violato, rimproverano infatti ad Oreste di aver calpestato la sacra legge del ghenos che non tollera l’uccisione di un consanguineo. Che Oreste avesse vendicato il padre uccidendone l’assassino, nulla quaestio, era anzi proprio questo, per Omero, che faceva di Oreste un esempio da additare. Oggetto d’orrore è il matricidio, l’uccisione di colei che gli aveva donato la vita. Braccato da questi esseri mostruosi e sanguinari che inoculano nel suo animo visioni terrifiche, in preda alla follia, Oreste fugge di paese in paese, finché stanco di fuggire non decise di chiedere alla sacerdotessa dell’oracolo di Apollo, la Pizia, cosa avrebbe potuto liberarlo dall’ossessione delle sue persecutrici. Ed è a questo punto che la tragica vicenda di Oreste si tramuta in una nuova esperienza collettiva. Narra, infatti, Eschilo una storia diversa da quella narrata da altri autori. Quando Oreste giunse a Delfi, ed approfittando del sonno prodigiosamente disceso sulle Erinni interpellò l’oracolo, Apollo lo invitò a recarsi da Atena chiedendo alla dea di giudicare il suo terribile delitto, così liberandolo, nel caso di un giudizio favorevole, dalla oscura persecuzione dei demoni materni (“dove sia fra le due parti il giusto vedrà Pallade Atena”; Eschilo, Eumenidi). Fatto sta che Atena, sentendo il peso di un conflitto irrisolvibile fra due ragioni evidentemente contraddittorie, si rifiuta di giudicare una simile colpa (“se qualcuno pensa che troppo grave sia per gli uomini mortali giudicare questa contesa, neanche a me conviene dare giudizio di una uccisione che suscita così acute collere vendicatrici”, Eschilo, Eumenidi). Troppo gravoso è dunque il compito di giudicare? E lo è addirittura anche per una dea? E, tuttavia, è proprio da questo inatteso e sorprendente rifiuto che nasce qualcosa di nuovo: nasce il processo. Atena pensa ad un gesto collettivo più complesso come soluzione di questa inaudita tensione fra le regole antiche che il furore delle Erinni rappresenta, e la necessità di un nuovo equilibrio all’interno della collettività: il giudizio degli uomini è cosa che gli uomini stessi possono e devono risolvere fra di loro (“poiché la lite a tal punto è precipitata, io eleggerò giudici giurati e fonderò un istituto di giustizia”, Eschilo, Eumenidi). Con la necessità di giudicare il matricidio di Oreste nasce per gli uomini la facoltà di trarre verdetti, la presunzione di tracciare nell’agorà il nuovo confine fra il giusto e l’ingiusto. Il ghenos, il vincolo tribale che lega le generazioni, con le sue antiche regole sanguinarie proprie della vendetta privata, entra con il tempo in conflitto con le nuove regole della Polis e con i suoi nuovi difficili equilibri democratici. Un nuovo istituto deve dunque placare questo attrito. Il divino che ha sino ad allora governato in solitudine, ha ora bisogno degli uomini. Non è forse Themis, la dea della giustizia, figlia di Urano e di Gea, e figlia, dunque, tanto del cielo che della terra? E Themis stessa, la giustizia divina, per scendere fra gli uomini deve farsi Dike, “l’atto concreto del giudicare”, che altro non è che un pallido riflesso della sua Giustizia? Ecco allora che Atena, consapevole della necessità di questo arretramento, nega il suo giudizio, si rifiuta scandalosamente di giudicare da sola Oreste, sostituendo al proprio giudizio un nuovo ordine delle cose, che sia un limite alla furia vendicativa degli uomini e degli dei, una forma nuova di giudizio che offrirà un modello per tutti gli uomini a venire (“Debbono costoro - le Erinni - apprendere le leggi che io qui, per sempre, stabilisco”, Eschilo, Eumenidi). E non è neppure un caso, ancora, che autrice di questo nuovo “istituto di giustizia” non sia Themis stessa, la dea che da sempre governa la Giustizia celeste, né Dike, la sua apostasi terrena, e neppure Nemesis, colei che ristabilisce l’ordine violato, ma proprio lei, Atena, dea della Ragione. Come dire che Giustizia e Processo sono termini distinti, figli di due diverse necessità, le quali generano tensioni a volte armoniosamente composte, ma mai del tutto risolte. Atena fornisce agli uomini il know how del processo: il luogo sarà l’Areopago, luogo sacro e conchiuso, i giudici saranno dodici, le Erinni sosterranno l’accusa, Apollo stesso sarà il difensore di Oreste. Sappiamo come nella rielaborazione del mito il processo nasce già accusatorio e nasce governato dalla Ragione (dice Atena: “accusatore ed accusato vedo qui presenti, ma di uno solo odo la voce … tu ospite, cosa hai da dire? … rispondi con chiarezza su tutto”, Eschilo, Eumenidi). L’accusa è mossa da un furore di vendetta per l’ordine cosmico violato, per le Erinni ogni legge umana è come una legge fisica che regola il cosmo, colui che la infrange è vittima di un contrappasso, come ogni corpo che sollevato a dispetto della gravità riprecipiti verso il centro (“immutabile è la Erinni, abili e tenaci al compito nostro, memori delle colpe e sorde al pianto degli uomini”, Eschilo, Eumenidi). Le Erinni che un tempo più arcaico aveva descritto come “spiriti malvagi intenti a danneggiare l’uomo” (la radice del nome, Eris, indica la ferocia della contesa sottratta ad ogni mediazione razionale) sono creature ancestrali legate a culti primitivi. Nella prima parte delle Eumenidi esse appaiono dominate da una legge primordiale ed oscura. Le Erinni sono divinità psicopompe, portatrici dello spirito dell’uomo ucciso, che compare sotto forma di serpente che in esse torna “bramoso di vendicarsi” (“ti supplico madre, non scatenarmi addosso quelle donne dagli occhi sanguinanti, con dei serpenti sulla testa”, Eschilo, Agamennone). È la stessa Atena, ispiratrice del processo, a presiedere il collegio di giudici ateniesi sull’Areopago. Come a dire che non è giudice la Giustizia e che il processo è affare che riguarda la Ragione soltanto, ed in essa si risolve. Se la Giustizia, come desiderio di vendicare il torto subito, la spinta a sanare la ferita lacerata del delitto, ispira le ministre di Themis, essa trova nel processo un “limite” invalicabile (“ogni azione ha un termine fisso”, Eschilo, Eumenidi), il limite estremo della Ragione. Il processo non è vendetta, ma ragionevole contesa. Tuttavia, le Erinni si opporranno con tutte le forze al tentativo di introdurre il nuovo ordine delle cose. Alle Erinni, il cui nome viene mutato in Eumenidi, il nuovo gioco non piace. Sotto la superficie benigna del nuovo nome, conservano ancora un rancore irriducibile, vogliono vedere Oreste condannato ed annientato (“furore e collera, nessun altro respiro è in me”, Eschilo, Eumenidi). Non piace che la Giustizia sia lasciata in mano alla contesa dialettica, fondata sulle ragioni argomentative dell’uno e dell’altro, al verdetto di un giudice “terzo”, l’idea stessa di un possibile esito assolutorio è per loro inconcepibile. Insorgono con argomenti di “difesa sociale”: “vedrete voi ora a quali rovine porteranno le nuove leggi, se la causa di questo matricida dovrà prevalere, agli uomini sarà facile ogni audacia … la casa di giustizia è crollata!” (Eschilo, Eumenidi). Le accusatrici di Oreste presentono la disfatta: il primo processo si risolverà, infatti, con una clamorosa assoluzione (decisivo, nel determinare la parità dei voti che condurrà all’esito favorevole, il voto di Atena), quasi a simboleggiare la sua funzione salvifica di garanzia piuttosto che il suo asservimento ad uno strumento di afflizione. Oreste, scagionato dall’accusa, tornerà nella sua patria e governerà saggiamente i suoi sudditi. Il processo, dunque, non ci rende la verità del delitto, la verità di Oreste e della sua anima, tuttavia placa la furia vendicatrice delle Erinni, razionalizza i conflitti. Nel cammino del mito il passaggio risulta evidentemente benevolo. Tanto è chiaro che ciò che Atena ha donato agli ateniesi è un frutto benefico, un nuovo ordine delle cose umane, che le Erinni stesse, “use da tempo ad esprimersi solo con maledizioni”, abbandonano l’aspro furore di Eris, ed “imparano un nuovo canto” (Eschilo, Eumenidi). Nella nuova dialettica secolare del processo, nell’Areopago, non è più possibile che le Erinni conservino l’illimitato potere della persecuzione del colpevole senza sottoporre la loro legittima aspettativa ai limiti del giudizio: “tu - rimprovera Atena alla Erinni - preferisci aver nome di persona giusta anziché praticare giustizia” (Eschilo, Eumenidi). Esse, dunque, dovranno apprendere una nuova armonia, un “nuovo canto”, essere assoggettate a un termine, ad un limite, ad una nuova legge. Non devono perdere le loro prerogative di accusatrici, e non perdono, infatti, nella tragedia eschilea le loro maschere terrifiche fino alla fine, e per l’avvenire ma devono accettare le regole nuove della Polis, moderare il loro furore, rifiutare le radici sanguinarie del ghenos che le ispira. Accordandosi alla nuova convivenza civile, le Erinni avranno un santuario adatto alla loro natura ctonia, nell’antro di Ogigio scavato nella profondità della terra fra l’Acropoli e l’Areopago (“qui rimani ad abitare con me … in questa terra devota a giustizia avrete la vostra sede, avrete il vostro adito sacro e quivi sedute presso gli altari su lucidi seggi da tutti i cittadini avrete devozione ed onori”, Eschilo, Eumenidi). È la Ragione, dunque, che dona agli uomini il processo e ne fa uno strumento di salvezza per il cittadino e per la Polis, sempre che gli uomini ne sappiano riconoscere i limiti e le virtù. Perché, forse, come scrive Salustio, “queste cose non furono mai, ma sono sempre”. Sicilia. Tre suicidi in carcere, cresce l’allarme per le carenze sanitarie di Ignazio Marchese blogsicilia.it, 23 agosto 2020 Tre suicidi in una decina di giorni nelle carceri siciliane, con le vittime tutte accusate di violenze in famiglia, in un caso gravissime, tanto che hanno portato alla morte. Due sono accaduti a Pagliarelli, dove il 10 agosto si è ucciso Emanuele Riggio, mentre tre giorni fa si è tolto la vita, Roberto Faraci, detenuto di 45 anni, impiccandosi con le lenzuola nella cella, proprio come Riggio. Entrambi erano stati arrestati per maltrattamenti in famiglia, Riggio rispondeva anche di stalking. Sui due decessi in carcere la procura ha avviato accertamenti e ci sono indagini in corso. Riggio era considerato un detenuto a rischio, in precedenza avrebbe avuto qualche problema in carcere, ciò nonostante è riuscito ad eludere la sorveglianza degli agenti ed a farla finita. La terza vittima è il ceramista Giuseppe Randazzo di Caltagirone, arrestato la scorsa settimana per l’omicidio della moglie Catya Di Stefano, un’assistente socio-sanitaria. Dopo pochi giorni di cella si suicidato nel carcere di Caltagirone. “Tre detenuti in attesa di giudizio. Siamo al mare o in vacanze e siamo “disturbati” da queste notizie. A chi può interessare la morte di tre persone che sono finite in galera, “se la sono voluta” è la frase più elegante - afferma Pino Apprendi, presidente di “Antigone Sicilia”. Il disagio nelle carceri non è solo “un problema loro”, è un problema di tutta la società che ha la responsabilità di tutelare la vita di tutti. I detenuti riconosciuti colpevoli devono scontare la pena in condizioni di vita dignitose. La detenzione non deve trasformarsi in tortura psicologica come in un girone dell’inferno dantesco. Detenuti e popolazione carceraria, compresa la polizia penitenziaria, fra l’altro, hanno sopportato più degli altri l’isolamento anche dai propri familiari durante il periodo dei divieti per evitare i contagi. Va istituito il garante comunale in ogni territorio dove esiste un carcere. A Palermo, il comitato “Esistono i diritti” con il suo presidente Gaetano D’Amico, già da tempo, lo chiede e il consiglio comunale presto ne approverà il regolamento”. Riggio era stato arrestato agli inizi di giugno per una classica storia di violenza domestica. In passato aveva avuto già guai con la giustizia per reati contro la persona, poi era uscito dal carcere ed era tornato a casa con la moglie ed i figli. E qui sarebbero iniziati i problemi perché la sua permanenza in famiglia non sarebbe stata affatto semplice. Liti quasi quotidiane ma anche, secondo la ricostruzione dell’accusa, percosse e minacce e poi anche stalking. Crotone. L’allarme del Garante dei detenuti: “Sovraffollamento e carenze di personale” lacnews24.it, 23 agosto 2020 Federico Ferraro dopo il tentativo di evasione avvenuto nei giorni scorsi: “Governo intervenga, sono a rischio i diritti umani”. “Non è più tollerabile, in Paese dove vige lo Stato di diritto, assistere a tutt’oggi ad un sovraffollamento carcerario che si accompagna alle carenze del personale”. È quanto afferma, in una nota, Federico Ferraro, garante comunale dei detenuti di Crotone che interviene sul tentativo di evasione dal carcere della città messo in atto nei giorni scorsi da due detenuti. Le carenze di personale - “Il tema delle carenze di personale - prosegue Ferraro - è stato già evidenziato nell’ambito della Relazione annuale sullo stato della detenzione carceraria 2020 a Crotone, dello scorso luglio, come in numerosi interventi del Garante comunale a monitoraggio delle emergenze e necessità riguardanti il mondo carcere di Crotone. Ricordo che sin dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, dell’ottobre 2018, tali necessità erano state palesate all’allora capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. In quell’occasione era stato presentato ai garanti territoriali dei detenuti l’imminenza di un piano di assunzioni straordinario riguardante l’incremento di organico sia nell’amministrazione che nella personale di polizia”. “Ad oggi tuttavia - continua - occorre ancora un intervento risolutivo che investa risorse per interventi strutturali come nell’incremento di organico nell’amministrazione penitenziaria”. Diritti umani a rischio - A giudizio di Ferraro “senza un tempestivo e improcrastinabile intervento governativo come si riuscirà, stante l’emergenza Covid 19, in queste condizioni a garantire l’osservanza dei diritti umani fondamentali nei luoghi di reclusione? Come si garantirà la dignità dei reclusi e parimenti di chi svolge con professionalità il lavoro di agente penitenziario? Invito i rappresentanti sindacali di categoria ad aprire un confronto su questo tema e mi rendo disponibile ad un incontro costruttivo che porti all’attenzione questi problemi insoluti, nell’interesse di tutti”. Pavia. Violenze in casa, i dieci bimbi “rifugiati” al San Matteo di Davide Maniaci Corriere della Sera, 23 agosto 2020 Su disposizione dei magistrati la Pediatria dell’ospedale di Pavia ospita madri e figli vittime di maltrattamenti. Un “rifugio” per bambini in difficoltà in attesa di conoscere il proprio destino. È diventato anche questo il reparto di Pediatria del policlinico San Matteo di Pavia. Quest’anno una decina di piccoli sono rimasti protetti nelle sue stanze anche se la loro salute è ottima. Mai così tanti come nel 2020. L’ultimo caso riguarda una bimba di sette anni. Lo ha riportato ieri il quotidiano La Provincia Pavese. Sia la mamma sia la figlia stanno bene. Il San Matteo è, semplicemente, il luogo più sicuro per loro. Per decisione del magistrato entrambe si trovano lì da oltre una settimana, dopo una denuncia per aggressioni e minacce che la donna, 43 anni, ha sporto verso il convivente. Lui, 47enne, non è il padre. I due, originari del Milanese, vivevano insieme da qualche mese nel quartiere Città Giardino, dopo che la signora era rimasta vedova. A Ferragosto nella loro casa di Pavia lui l’avrebbe minacciata, spintonata e ferita a una mano nel tentativo di impossessarsi delle chiavi di casa. Non era il primo episodio violento. La donna finalmente ha detto “basta” e ha richiesto l’intervento della polizia locale, le cui pattuglie sono arrivate due volte. Poi è stata curata al pronto soccorso del San Matteo e dimessa con 15 giorni di prognosi. Anziché tornare a casa, ha semplicemente cambiato reparto su disposizione del magistrato. La vicenda infatti è in mano all’autorità giudiziaria. Spetterà ai giudici del Tribunale dei minori di Milano decidere le sorti della bimba, e alla procura della Repubblica di Pavia valutare la condotta del partner. Non è la prima volta che al policlinico trovano rifugio bambini vittime di violenze e disagi familiari, insieme a un genitore, quando tornare a casa sarebbe troppo pericoloso. Sono i magistrati a disporre il loro collocamento temporaneo nel reparto di pediatria, diretto dal professor Gian Luigi Marseglia. Il personale si distingue per l’umanità e la delicatezza. Lo stesso era accaduto anche ad una bimba di 3 anni che si era sentita male per aver ingerito una dose di hashish, lasciata incustodita sul tavolo dai suoi genitori. Dopo molte settimane di “degenza” era diventata la mascotte del reparto, prima di essere destinata ad una casa famiglia. Cuneo. Se ci si vergogna dei clochard di Marco Revelli La Stampa, 23 agosto 2020 Indecorosa è la povertà, non i poveri. È una verità che andrebbe sempre ricordata. Ma che (quasi) sempre viene dimenticata. O rovesciata. Lo testimoniano le tante ordinanze comunali sul “decoro urbano”, regolarmente destinate a tenere a distanza dai luoghi della nostra vita sociale le figure del limite, i poveri estremi, i barboni, i questuanti e i senza fissa dimora, a maggior ragione se “migranti”. Da ultimo è toccato alla paciosa Cuneo, emettere i propri interdetti, con la minaccia di ammende da 500 euro per chi bivacchi negli spazi pubblici cittadini e la possibilità di arrivare al “daspo” (al divieto di ingresso nel territorio comunale, come per gli ultras del calcio) per i recidivi. Ma la pratica della “messa al bando” del povero considerato in sé “molesto” ha una storia affollata e condivisa in modo politicamente trasversale: aveva incominciato nel 2008 Graziano Cioni, assessore alla Sicurezza nella giunta fiorentina del sindaco Domenici (l’ultima di “sinistra-sinistra”), a dare battaglia ai mendicanti che, “causando pericoli per i pedoni”, si sdraiavano sui marciapiedi del centro storico. Era seguito poi uno sciame di 788 ordinanze emanate tra il 2008 e il 2009 da 445 sindaci in prevalenza del nord e in buona parte leghisti, sulla scia del Pacchetto Sicurezza del neo-ministro dell’Interno Maroni, prevalentemente mirate a tutelare il decoro urbano sterilizzando le città dalla presenza visibile degli indigenti. E carsicamente la cosa si ripete, ogniqualvolta segnali di crisi si affaccino all’orizzonte, e il timore dell’impoverimento dei più suggerisce a chi ha responsabilità di amministrazione di togliere dalla vista l’immagine di chi in povertà già c’è. Beninteso: il moltiplicarsi negli spazi della vita cittadina di “ombre della strada”, portatrici delle stimmate della miseria e del bisogno estremo, è di per sé cosa perturbante. L’immagine di una società fragile e a rischio di sfaldamento. Ed è sicuramente più facile rispondere all’inquietudine dei cittadini tentando di “farle sparire” per decreto, magari spostandole di qualche decina di chilometri, che non tentare di contrastare le radici del fenomeno – combattere, appunto, la povertà anziché i poveri -, e predisporre strutture di sostegno e di accoglienza, posti letto e mense, sportelli e regole di avviamento al lavoro. Ma è questa seconda via quella da seguire per una “buona amministrazione”, che non si limiti a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma sappia rispondere tanto alla domanda di decoro dei propri amministrati, quanto a quella di rispetto della dignità di tutte le persone, non solo di quelle che stanno dalla parte giusta della vetrina. Ogni volta che questa storia si ripete, mi torna in mente un brano di Baudelaire, dai “Fiori del male”, intitolato “Gli occhi dei poveri”: in esso il poeta, seduto all’interno di un caffè parigino, vede, sul marciapiedi, tre figure cenciose, un padre con i due figlioletti, gli occhi spalancati ad ammirare l’interno lussuoso e, commosso, si rivolge all’amata, certo di veder ricambiato il proprio sentimento, ma al contrario si sente dire: “Questa gente, con quegli occhi spalancati come portoni, mi è insopportabile! Non potreste chiedere al maître di allontanarli da qui?”. “Tanto difficile è capirsi, caro angelo mio! – sarà la conclusione. E il pensiero è a tal punto incomunicabile, anche fra coloro che si amano!”. Piazza Armerina (En). “Pizza galeotta” in Casa circondariale a conclusione corso per pizzaiolo santannatoday.it, 23 agosto 2020 Pizza, cultura e solidarietà. La Casa Circondariale di Piazza Armerina, in occasione della conclusione di un corso di formazione di Pizzaiolo, che si è tenuto all’interno dell’istituto, a cura del Cisi di Enna, organizza l’evento “Pizza Galeotta. Metti una Pizza a Piazza”, che si terrà il prossimo 3 agosto. Un’occasione per fare gustare le pizze, realizzate dai detenuti allievi del corso, con la guida dei maestri pizzaioli, ad autorità, sarà presente, tra gli altri, il sindaco della città dei mosaici, Nino Cammarata, ed amici. L’idea, messa a punto dalla direzione del carcere, con il contributo di idee della collaboratrice culturale, Samantha Intelisano, prevede la consegna degli attestati, una degustazione, letture scelte a cura di Roberta Battista e musiche dal giradischi ed avrà come location la biblioteca, attualmente in via di allestimento. Si tratta di uno dei primi eventi realizzati in un istituto penitenziario dopo la fase di maggiore emergenza Covid. Teatro della manifestazione la biblioteca, la cui implementazione è stata in questi mesi obiettivo primario della direzione. In particolare per l’arredamento è stato privilegiato il materiale artigianale riciclato, quali le cassette di vino. Una prima dotazione è stata offerta dal ristorante siracusano Don Camillo mentre nel corso della manifestazione di lunedì prossimo 3 agosto sarà Mirko Costa, delle cantine Planeta, a consegnare una dotazione di cassette da vino che saranno utilizzate per ampliare la biblioteca del carcere. “Ambiente che vuole essere, non mero luogo di di smistamento di libri, ma centro di cultura dell’istituto, luogo di riunioni e di diffusione del sapere e di incontri come quello di giorno 3 - dice il direttore della Casa Circondariale, Antonio Gelardi - Per questo siamo fra l’altro grati alle cantine Planeta, a cui va il ringraziamento ed il plauso della direzione, che ha risposto alla nostra richiesta con grande generosità e lungimiranza”. L’evento sarà replicato nei giorni successivi per i familiari dei detenuti che hanno preso parte al corso, che avranno la possibilità di gustare le pizze confezionate dai familiari e di trascorrere, pur nel rispetto delle misure precauzionali, delle ore diverse da quelle dei normali colloqui. Gorgona (Li). Detenuti in scena in due spettacoli aperti al pubblico e poi visita all’isola La Nazione, 23 agosto 2020 Offrire ai detenuti un’esperienza fondata sulla comunicazione sociale attraverso i linguaggi della scena: questo l’obbiettivo del laboratorio di teatro e musica “Il teatro del mare”, che dallo scorso settembre coinvolge i detenuti/attori della Casa di reclusione dell’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Il primo spettacolo s’intitola “Ulisse o i colori della mente” e andrà in scena sabato 5 e domenica 6 settembre a Gorgona. I due appuntamenti sono aperti al pubblico. Prenotazione obbligatoria entro venerdì 28 agosto via mail all’indirizzo pubblico@tparte.com. Gli interessati devono indicare nome, cognome, luogo e data di nascita e allegare copia della carta d’identità. Partenza alle 8 di mattina dal porto di Livorno con il traghetto Superba, durata del viaggio 70 minuti, spettacolo alle ore 11, a seguire pranzo a buffet sulla terrazza dell’istituto. Al pomeriggio incontro con gli artisti e possibilità di visitare l’isola. Ripartenza per Livorno alle ore 18. Costo 25 euro comprensivo di viaggio, spettacolo e pranzo a buffet. Lo spettacolo si svolgerà sotto forma di corteo itinerante e avrà il suo finale nel porticciolo dell’isola. Il laboratorio “Il teatro del mare” è condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini all’interno del progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona. Informazioni per il pubblico: Compagnia Teatro Popolare d’Arte - Tel. 055 8720058. Referendum, se la Costituzione resta nascosta dietro una diatriba tutta politica di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 23 agosto 2020 Mi sento come l’asino di Buridano. Mi trovo davanti a due sacchi di fieno e due secchi d’acqua uguali e a identica distanza. Su uno c’è un bel Sì e sull’altro un bel No. Pensandoci e ripensandoci mi sento un asino, ma non un asino qualunque: l’asino che occupa un posto di rilievo nelle dotte discussioni medievali sul libero arbitrio: l’asino di Buridano. Quell’asino, che sono io, si trova davanti a due sacchi di fieno e due secchi d’acqua fresca, perfettamente uguali e a identica distanza da lui. Su uno c’è un bel SÌ e sull’altro un bel NO. Come decidersi per l’uno o per l’altro? Per un momento, mi ricordo che, in tempi non sospetti, condividevo l’opinione di coloro che pensavano che il nostro Parlamento fosse pletorico. Avevo argomenti che mi sembravano buoni. Innanzitutto, nelle assemblee troppo numerose i talenti si confondono in masse senza qualità. Le masse senza qualità, non agiscono ma sono chiamate a reagire, cioè per far qualcosa devono essere eterodirette. Dipendere da altri, tutti sono capaci. Nei grandi numeri, i singoli si confondono e possono nascondersi, non si considerano responsabili di ciò che avviene, sviluppano spiriti gregari, sono numeri. I numeri, nei consessi collettivi, sono direttamente proporzionali alla irrilevanza. Mi sembrava che, se avessero chiesto a qualcuno che ne sa di dinamiche collettive, come fare per umiliare un organo quale un Parlamento, una delle prime cose che avrebbe suggerito, magari pensando alla massa compatta e grigia dell’Assemblea popolare cinese o del Congresso dei deputati del popolo dell’Unione sovietica (migliaia di persone), sarebbe stata di moltiplicare i numeri. Così, l’asino si sarebbe incamminato verso il fieno e l’acqua fresca del SÌ. Ora, però, si sostiene tutto il contrario, cioè che la diminuzione del numero dei parlamentari coincide con l’umiliazione del Parlamento. In fondo, nel non detto, ci sarebbe il perenne virus antiparlamentare del popolo italiano, che galleggia nel fondo di ogni tentazione autoritaria o, versione aggiornata, nel plebiscitarismo che si nasconde in certa democrazia diretta. Il taglio parziale dei parlamentari, così, sarebbe solo un rimedio momentaneo, in vista di un taglio ben più radicale. Se fosse così, l’asino avrebbe invertito la marcia verso il NO. Il quale NO si appoggia su quest’altra considerazione circa le numerose funzioni che il Parlamento deve adempiere: legiferare, indirizzare, controllare nei campi più diversi, corrispondenti alle sempre più numerose presenze dello Stato nella vita civile. Chi potrà esercitarle convenientemente, se non ci saranno abbastanza persone a occuparsene, a partecipare alle sedute dell’Aula, alle riunioni delle Commissioni, eccetera? Sarà il governo con suoi atti che sfuggiranno ai controlli che, in democrazia, sono necessari. In breve, diminuire il numero dei parlamentari significa aumentare i già cospicui poteri del governo: democrazia a rischio. L’asino si rafforza ancor di più nella sua convinzione per il NO. Come tutti gli asini, anche questo è testardo. Ma non lo è, però, fino al punto dal non pensare che ciò su cui deve decidersi è un taglio quantitativo, non una abolizione, e che il resto è solo un processo alle intenzioni. Non si decide su questioni costituzionali in base a processi alle intenzioni, ma considerando la realtà che sta al di là, tanto più che le intenzioni passano e le riforme restano. Questo asino ha la memoria lunga e si ricorda che il Parlamento, fino alla riforma costituzionale del 1963 era meno numeroso (la Camera dei deputati, nella I legislatura, ad esempio, era di 572) e ciò non ha mai fatto lamentare difficoltà nell’esercizio delle funzioni dei parlamentari. Ma, soprattutto, non gli è difficile prendere atto dell’assenteismo, dell’incompetenza, dell’anonimato, alla fine dell’irrilevanza di molti. Chi è fuori del Parlamento si stupisce spesso di apprendere che dentro ci stanno Tizio, Caio o Sempronio le cui opere sono totalmente assenti e sconosciute. Prende corpo l’idea di diminuire i numeri degli oziosi, valorizzando gli operosi. Questa è altra questione che si risolve non parlando di numeri, ma di qualità: una questione che bisognerà pur porre, prima o poi. In ogni caso, ciò che è chiaro è che l’argomento del carico di lavoro è specioso. E così la propensione per il SI’ si rafforza. C’è poi la questione del rapporto tra gli eletti e gli elettori, la questione della rappresentanza democratica. Qualunque asino sa che tanto più elevato è tale rapporto, tanto più evanescente è il rapporto tra i primi e i secondi. Uno a uno sarebbe l’optimum; uno a quaranta milioni (quanti siano gli elettori) sarebbe il pessimum. L’uno e l’altro sarebbe assurdo: il primo sarebbe il contrario della rappresentanza, il secondo coinciderebbe con il dispotismo elettivo. Ma la cura di questo rapporto è essenziale in democrazia e, perciò, il NO si manifesta preferibile. Tuttavia, il rapporto di rappresentanza è flessibile, non esiste un rapporto “giusto”. Può variare a seconda dell’impegno dell’eletto, degli strumenti di comunicazione che gli si mettono a disposizione e, dall’altra parte, dalla capacità degli elettori, singoli e organizzati attraverso associazioni, partiti, sindacati, di far sentire la propria voce. Il deputato che percorre in carrozza le strade polverose del suo collegio per incontrare la sua gente è l’immagine romantica d’un passato perduto. Se poi per rappresentanza s’intende il deputato che richiede, per esempio, nel question time, a cui il ministro o chi per esso risponde leggendo un foglio preparato dagli uffici, si capisce che la “rappresentanza” può essere cosa assai più seria di così. Le ragioni del no in nome del sacro principio della rappresentanza non sono allora così evidenti e avanzano di nuovo quelle del SI’. Insomma, alla fine questo asino al quale ho imprestato la mia asinità, a forza di girare di qua e di là è sconcertato, non sa dove rivolgersi e, forse, concluderà perfino di non avere né fame né sete e, così, preferirà voltarsi e andarsene altrove, mettendo fine al rovello al quale lo si è voluto sottoporre per saggiare in che consista il suo libero arbitrio. Ultima considerazione: alla fine si deciderà per ragioni che hanno poco a che fare con quelle propriamente costituzionali: fare un favore a questo o un dispetto a quello; rafforzare un partito rispetto ad altri; consolidare la maggioranza o indebolirla; mettere in difficoltà una dirigenza di partito per indurla a cambiare rotta e, magari, a cambiare governo o formula di governo. Ma, allora, quell’asino, per quanto asino sia, avrà un’ulteriore ragione per starsene costituzionalmente sulle sue. Migranti, stretta della Sicilia: “Sgomberiamo gli hotspot e tutti i centri di accoglienza” di Michela Allevi Il Messaggero, 23 agosto 2020 Lo aveva già detto nei giorni scorsi e ora l’annuncio sembra ufficiale: “La Sicilia non può continuare a subire questa invasione di migranti. Tra poche ore sarà sul mio tavolo l’ordinanza con cui dispongo lo sgombero di tutti gli Hotspot e dei Centri di accoglienza esistenti”. A parlare, ieri in serata, è stato il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, che è pronto a prendere decisioni drastiche di fronte al mancato supporto dell’Europa e dopo avere denunciato di essere stato praticamente abbandonato dal Governo: “Si attivi un ponte-aereo immediatamente e si liberi la Sicilia da queste vergognose strutture, iniziando da Lampedusa”, dice. E ancora: “Le regole europee e nazionali sono state stracciate. L’Europa fa finta di niente e il governo nazionale ha deciso, malgrado i nostri appelli, di non attuare i decreti vigenti e di non chiudere i porti, come invece ha fatto lo scorso anno con il decreto interministeriale Interno-Difesa-Trasporti”. Secondo il presidente Musumeci “c’è una colpevole sottovalutazione del fenomeno senza precedenti. E non capiscono quanto stia crescendo la tensione. Vogliono far diventare razzisti i siciliani, che sono il popolo più accogliente di tutto il mondo? Adesso se vogliono a Roma impugnino pure la mia ordinanza. Basta: abbiamo avuto fin troppo rispetto istituzionale su questa emergenza, ricambiato da silenzi, indifferenza e omissioni”. Dichiarazioni che, ovviamente, vengono accolte con entusiasmo dal leader della Lega, Matteo Salvini: “Musumeci ha detto basta all’arrivo di immigrati nell’isola, ordinando la chiusura di centri d’accoglienza e hotspot. Stop invasione!”. La decisione del presidente della Regione Siciliana è arrivata dopo diverse giornate di sbarchi, in una situazione resa ancora più difficile dall’emergenza sanitaria che sta attraversando il Paese, con il numero di contagi in incremento anche sull’isola. Ieri 65 dei 220 migranti sbarcati a Lampedusa tre giorni fa sono stati trasferiti a Pozzallo. Tutti sono stati sottoposti a tampone e, successivamente, trasferiti nel centro di accoglienza dell’ex azienda agricola Don Pietro, contrada Cifali, tra Ragusa e Comiso. Mentre altri 167 profughi - tutti negativi al Covid - sono sbarcati nel porto di Augusta dalla nave quarantena Aurelia e sono stati trasferiti fuori dalla provincia. A Lampedusa l’aria che si respira è pesante, con il centro di accoglienza al collasso e alcuni casi di positività registrati: in Sicilia su 48 nuovi contagiati 16 sono migranti. Un clima che potrebbe sfociare in tensioni, come è successo a Massa, dove sono scoppiati disordini per la presenza in strada di alcuni’ stranieri residenti in un centro di accoglienza dove si è sviluppato un focolaio Covid. Per alleggerire il Centro di Lampedusa, la prefettura di Agrigento, assieme al dipartimento delle Libertà civili e Immigrazione del ministero dell’Interno, ha disposto per oggi il trasferimento di altri 45 migranti a Caltanissetta. Nell’hotspot resteranno circa mille stranieri. Intanto è previsto l’arrivo sull’isola di personale della Croce Rossa che, su invito del capo dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, fornirà supporto nelle attività di accoglienza. Ma i problemi sono anche altri. Il sindaco Totò Martello sottolinea che “l’emergenza migranti a Lampedusa è legata anche alle loro imbarcazioni che una volta arrivate vengono, sequestrate ed affidate all’ufficio della Dogana in attesa della rimozione e demolizione. Ma quanto tempo dura questa attesa?”. Il primo cittadino parla di “rischi di inquinamento ambientale e per la sicurezza all’interno dell’area portuale”. Migranti. C’è un’altra Italia in vacanza. Quella dei volontari nel campo di Moira, Lesbo di Simone Alliva L’Espresso, 23 agosto 2020 Studenti. Professionisti. Famiglie. Dentro la “prigione dei bambini” in fuga dalle guerre, la Comunità di Sant’Egidio ha deciso di organizzare delle ferie alternative per dare un sollievo ai profughi bloccati sull’isola. È così. C’è un’Italia che ostinatamente non vuole dare retta a Salvini, Meloni e simili. Un’Italia che dopo aver sofferto i mesi del lockdown, dopo aver attraversato dolori e perdite, decide di usare le proprie ferie per andare a Lesbo, al campo profughi di Moira. E stare qui, dove la situazione sanitaria era già precaria prima del Covid-19, in un campo creato per ospitare 2.800 persone ma oggi ce ne sono 15 mila e novecento. Migranti bloccati in attesa che la loro richiesta di asilo sia valutata. Tra detriti, topi, mosche e ruscelli di escrementi che circondano le tendopoli del campo. Dentro la “prigione dei bambini” in fuga dalle guerre, la Comunità di Sant’Egidio ha deciso di organizzare quella che chiama “vacanza alternativa” per dare un sollievo ai profughi bloccati sull’isola. Entro fine mese si stima arriveranno circa trecento volontari da tutta Europa, moltissimi gli italiani: insegnano lingue, organizzano cene, giocano con i minori non accompagnati, portano una luce di speranza ai richiedenti asilo oppure in attesa di ricollocamento. Lo fanno gratis, è ovvio. Lo fanno perché non c’è bisogno di parlare in certi momenti, c’è bisogno di fare, allontanarsi dallo schermo, di “spegnere i social e andare nel mondo reale”, come spiega la responsabile del settore migranti della Comunità di Sant’Egidio, Daniela Pompei: “È una missione composta da diversi paesi europei che si alternano, un’esperienza che vuole dare voce a un’Europa un’alternativa portata avanti non solo da italiani ma anche da polacchi, ungheresi, cechi, spagnoli, francesi, tedeschi...”. Giovani, adulti, nuclei familiari interi composti da marito, figli, nipoti, dedicano la loro estate a turni (stancanti) per aiutare gli altri. Si svegliano la mattina presto e poi vanno a regalare un sorriso a chi ne ha bisogno: “E aiutare gli altri ti restituisce un senso diverso della vita...”, aggiunge Pompei. Sovraffollamento. Bagni intasati. E cure solo per i pochi che hanno i documenti in regola. Nell’isola greca non c’è un’unità di crisi per l’emergenza sanitaria. E senza un’evacuazione umanitaria, l’ecatombe è solo questione di tempo È un sentimento trasversale questo bisogno di ritrovarsi qui dopo i mesi del lockdown e tendere una mano agli altri: attraversa diverse generazioni, dai più giovani agli anziani. Come racconta Francesco, 17 anni, studente del liceo classico, arrivato a Lesbo con i genitori: “Non è proprio volontariato”, spiega, “la vedo più come un’esperienza che mi aiuta a empatizzare con la gente. Un modo di “vedere oltre”. E poi: “Ho fatto amicizie, ho conosciuto storie terribili e altre che arrivano quasi a un lieto fine. Dico “quasi” perché il lieto fine è arrivare in un posto veramente sicuro, qui continuano a rischiare la vita”. Fare un’immersione dentro la realtà “puzza”, aggiunge Francesco. “Entrare in un campo è una cosa totalmente diversa dal guardarlo in tivù. C’è la disperazione, c’è la gente ammassata e vestita di stracci. Poi ci sono questi ruscelli di feci che attraversano le tende dove vivono queste persone. Gente che prima non “vedevo” veramente, adesso sì. C’è una storia dietro ognuno di loro, adesso posso ascoltarle. Tristezza, disperazione, a volte odio. Ma anche bisogno di salvezza”. Francesco, come altri, qui sente che sta cambiando: “Questo viaggio non era programmato, ma quando in casa se n’è parlato ho pensato che forse era una buona idea per staccarmi dalla vita quotidiana. Sai cosa? Negli ultimi tempi avevo pensato troppo ai miei problemi, a me stesso. E invece guarda, c’è un mondo fuori con problemi seri e reali. Io ho capito solo adesso che siamo parte di una comunità. Che siamo tutti dentro la stessa situazione. E che dividerci non ha senso”. Insieme ad altri volontari, Francesco ha aiutato a risistemare un frantoio decadente vicino al campo. Lo hanno trasformato in un ristorante (si chiama “Il ristorante della solidarietà”): tavoli, tovaglie, una cucina. Poi Francesco ha iniziato a servire ai tavoli e a compilare le schede con il profilo delle persone che arrivano per cenare. Le regole sono quelle del distanziamento sociale applicate in tutta Europa: un metro e mezzo di distanza tra i tavoli, mascherine, gel igienizzante all’ingresso: “Diamo la possibilità alle persone di sedersi intorno a un tavolo. Buon cibo. Sorrisi. Restituisce un po’ di umanità”. Circa 350 persone - per lo più famiglie con bambini molto piccoli provenienti dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Siria - hanno ricevuto il permesso di uscire dal campo profughi di Moria per partecipare a queste cene. Ed è una festa, sempre. Di giorno invece Francesco va alla “scuola della pace”: un campo di calcio pieno di bambini, “circa 400”, che studiano, giocano, cantano in coro accompagnati dal suono della sua chitarra: “Sembra una piccola cosa ma è davvero speciale: questi ragazzini prima del nostro arrivo non facevano nulla. Vivono quella noia che uccide un po’ l’infanzia. Ti fa diventare grande subito, questo non fare nulla. Ti ammazza la gioia. Guardo le facce dei miei coetanei e li vedo: sembrano più adulti di me, più vecchi”. E aggiunge: “Sai, prima di venire qui avevo letto “Se questo è un uomo” e molte cose di questo campo mi hanno ricordato un lager. Penso sia un po’ il nostro Olocausto. Ma non lo vediamo. È l’Olocausto di un’Europa che non riesce neanche ad accogliere 15 mila persone. Non vede, non ascolta, non empatizza. Non è la mia Europa. Questo è un inferno. Come si fa a non capire che siamo tutti responsabili?”. Responsabilità, solidarietà, empatia, ascolto, consapevolezza sono le parole d’ordine di questi turisti dell’umanità. Parole che maneggiano con cura per spiegare il processo che li ha spinti ad arrivare qui: “Ho camminato per giorni dentro queste strade ed è l’inferno”, racconta Antonella, ingegnere gestionale romana di 28 anni, “ma non potevo fare altrimenti. Durante il lockdown ho sentito davvero il bisogno di riconnettermi con il mondo. Ho sempre pensato, in quei mesi: e se una cosa del genere fosse arrivata in un posto come Lesbo? Eccomi qui, a distanza di tempo: preparo i pasti per centinaia di persone, distribuisco gli alimenti. Sono arrivata la mattina di lunedì, ho lasciato la valigia in albergo e siamo andati ad allestire la cucina”. L’incontro che le cambia la “prospettiva di vita”, dice, è stato quello con il sorriso di Amir, un bambino afghano di dieci anni: “Dopo essere venuto alla Scuola della pace mi ha scritto un biglietto: era un invito nella tenda dove vive insieme ai genitori. C’era scritto come raggiungerlo e tra parentesi ha aggiunto: “we never have mask”. Insomma sanno che è in corso una pandemia, ma nessuno li protegge. Sono arrivata lì con altri volontari. Quello che ho visto non lo scorderò mai. Erano tre tende minuscole, una attaccata all’altra. Loro sono in quattro, dentro questo spazio angusto, da più di un anno. La madre insegna inglese a lui e agli altri bambini, un segno di speranza per dire che la vita non finisce”. Il tempo su quest’isola cambia lo sguardo sul mondo, cambia la vita di chi lo attraversa. Interpella le coscienze: “Questi bambini sperano ancora”, dice Antonella. “Noi siamo giovani adulti di un Europa diventata globale e ci sentiamo un popolo a tutti gli effetti. Ed è una responsabilità nostra far vedere un’Europa che ha un’anima. Ho visto cose disumane. Cose che sembrano di un altro mondo eppure così vicine e così terribili. Come si fa?”. Aggiunge Stefania, 63 anni festeggiati proprio qui a Lesbo, assistente sociale piena di energie e carica di sorrisi: “La cura dovrebbe riguardare ciascuno di noi, nessuno escluso”. E poi: “Ho preso delle ferie e sono venuta qui. Mi sono ritrovata a cucinare per 600 persone, io che in Italia vivo da sola”, sorride. Tra i fornelli e i tavoli dice: “C’è un grande bisogno di stare in comunità, di normalità. Soprattutto di non sentirsi abbandonati”. La comunità è anche quella che si riunisce tra i volontari di Sant’Egidio: “Ho condiviso questa esperienza con persone che vengono dalla Spagna, dalla Germania, dalla Polonia, persone di tutte l’età. Questo è il volto dell’Europa, diverso da quello dei porti chiusi: umano e solidale”. E poi ci sono i giovani migranti: “Somigliano ai nostri figli, ai nostri nipoti. Ho conosciuti ragazzi pieni di energia e forza che bivaccano qui senza fare niente”. “Niente”, ripete. “Ieri parlavo con un giovane congolese di 19 anni, l’età di mio nipote. È qui da un anno, cercava un futuro ed è rimasto incastrato dentro questo spazio, dove il tempo sembra non passare mai. Parla del presente, dentro questo limbo il futuro non si può immaginare. Eppure, sono persone che potrebbero dare molto”. A quest’altezza della vita, Stefania dice di essere “cresciuta” tra le tendopoli. “È così. Sono cambiata e mi pongo ogni notte una questione semplice: qui ci sono 15 mila persone. Non si potrebbero ricollocare in Europa? Davvero non ce la facciamo? Porto con me gli occhi di tanti bambini, di tanti giovani e un grande senso di ingiustizia. Anche se confesso: ho ritrovato la bellezza della speranza. Siamo tantissimi europei, parliamo lingue diverse, certo abbiamo visioni differenti ma ci siamo ritrovati dentro questo bisogno di restituire umanità. C’è una grande armonia ed è possibile stare insieme. Basta volerlo fare. Perché ci salviamo solo insieme”. È sera mentre Stefania pronuncia queste parole. Dentro il ristorante, i migranti scattano delle foto tra tavole imbandite e fiori. Sono attimi di normalità. È l’unica immagine “bella” che possono mandare ai propri familiari per dire “sto bene, me la caverò, non vi preoccupate”, prima di ritornare in quella prigione putrescente e a cielo aperto di nome Moira. Migranti. Ustionati in mare, la Libia li lascia “liberi”. In carcere i sani di Nello Scavo Avvenire, 23 agosto 2020 Sono morti in 45, dopo essere stati rapinati in mare da dei banditi che hanno sparato sulle taniche di carburante. I superstiti recano segni di gravi ustioni. Il ragazzo eritreo è riuscito a salvare dalle fiamme il documento con cui era stato registrato in Libia presso l’agenzia Onu per i rifugiati. Con quello in tasca sperava di ottenere in Europa la protezione che il diritto internazionale prevede per chi come lui fugge da violenze e persecuzioni. Alla partenza erano in 85, sono vivi in 40. Vivi ma non “salvi”. Hanno i corpi coperti di ustioni curate con qualche fasciatura e nessun medico. Questa volta però a Zuara è accaduto qualcosa di inedito. Quando sono stati riportati a terra da alcuni pescatori, la polizia voleva riconsegnarlo insieme agli altri superstiti al centro di detenzione di Zuara. Ma qui è accaduto quello che nessuno si aspettava. Il direttore della prigione per migranti si è rifiutato di imprigionarli. Coperti da ustioni, alcuni in ipotermia, altri con i sintomi tipici di chi è sopravvissuto all’annegamento, tutti sotto choc per quello che avevano subito e per i loro amici e familiari, in 45 non più riemersi dagli abissi, meritavano cure altrove, non in una prigione. Non sappiamo se si sia trattata della protesta solitaria di un funzionario libico stanco di assistere alle violazioni dei diritti umani, o della decisione di un esponente delle milizie (le prigioni sono affidate a rappresentanti delle varie milizie) che si danno battaglia nel traffico degli esseri umani. Di certo la vicenda mostra ancora una volta l’inadeguatezza della gestione dei migranti in Libia da parte delle stesse autorità. Ad attaccare i migranti erano stati dei banditi a cui adesso la polizia di Zuara starebbe dando la caccia. I feriti sono stati lasciati liberi, ma senza cure. Solo l’aiuto di qualche conoscente e di qualche agenzia umanitaria ha permesso quantomeno di effettuare i bendaggi. In una prigione del Ministero dell’Interno sono invece stati portati quelli in condizione di salute migliori. “Non abbiamo ancora visto dei medici”, ha raccontato a Internazionale uno dei sopravvissuti. “Una volta ritornati a Zuara quelli che avevano ferite ed erano malati sono stati lasciati andare via dalle autorità libiche, mentre i sani - riporta Annalisa Camilli - sono stati rinchiusi nel centro di detenzione”. Intanto le navi umanitarie si preparano a tornare nell’area di ricerca e soccorso. Il veliero Astral di Open Arms è salpato nei giorni scorsi e si dirige nel Mediterraneo centrale per una missione di osservazione e raccolta di notizie. La presenza in mare di milizie libiche che compiono azioni di vera pirateria sono oramai all’ordine del giorno. Complice la pressoché totale assenza di navi militari. La piattaforma umanitaria italiana Mediterranea sta ultimando i preparativi per tornare in acqua con la “Mare Jonio”, mentre a sud di Lampedusa già si trova la “Sea Watch 4”. “Sono giorni tragici nel Mediterraneo centrale, gli ennesimi di una strage senza fine”, sottolinea in una nota Mediterranea Saving Humans. Dall’Oim, l’agenzia dell’Onu per le Migrazioni, e da fonti giornalistiche “arrivano notizie di almeno tre naufragi negli ultimi cinque giorni e di un bilancio che sfiora i 200 morti tra uomini donne e bambini in fuga dalla Libia”. Si parla di miliziani che sparano addosso ai gommoni dei naufraghi e di natanti lasciati in mare per giorni dalle autorità europee prima del naufragio: “Una situazione di drammatica disumanità”. L’organizzazione si dice consapevole “che la Civil Fleet, cioè la flotta della società civile europea, può solo dare un aiuto parziale in una situazione di grande emergenza, su cui dovrebbero invece intervenire i governi europei organizzando corridoi umanitari per l’immediata evacuazione delle persone dalla Libia e riportando nel Mediterraneo centrale in missione di soccorso le navi delle guardie costiere e delle marine militari europee”. Alla data del 20 agosto, 7.122 rifugiati e migranti sono stati registrati come intercettati in mare e sbarcati in Libia. Il 19 agosto, 74 persone, principalmente dal Gambia e dal Camerun, sono state riportate alla base navale di Tripoli. La scorsa settimana, Unhcr ha registrato 193 rifugiati e richiedenti asilo principalmente dal Sudan (156) ma anche da Siria (14), Eritrea (10), Somalia (4), Yemen (4), Etiopia (2), Iraq (2) e Sud Sudan (1). Attualmente, si stima che 2.267 rifugiati e migranti siano trattenuti nei campi di prigionia in Libia. Libia. svolta rilevante ma il ruolo dell’Egitto resta oscuro di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 agosto 2020 Tra i fattori all’origine della nuova proposta di pacificazione si trova il netto peggioramento dei rapporti tra Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar. In sintesi, il presidente egiziano negli ultimi mesi ha trovato sempre più difficile lavorare col capo militare della Cirenaica, tanto che alla fine si è mosso per esautorarlo. Tra i fattori all’origine della nuova proposta di pacificazione della Libia si trova il netto peggioramento dei rapporti tra Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar. In sintesi, il presidente egiziano negli ultimi mesi ha trovato sempre più difficile lavorare col capo militare della Cirenaica, tanto che alla fine si è mosso per esautorarlo e aprire un canale diretto col presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh. La svolta è rilevante. A logica i due uomini sono alleati naturali. Lo sono per vicende personali e visione del mondo. Entrambi militari di carriera, vicini a Washington, ma soprattutto nemici acerrimi del fronte dei Fratelli Musulmani e quindi sia del governo di Fayez al-Sarraj a Tripoli che specialmente della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Al-Sisi e Haftar appartengono al campo dei regimi forti arabi amici dei salafiti, ma ostili al concetto politico di Califfato panislamico imperante tra le milizie della Tripolitania e nelle aspirazioni neo-ottomane del presidente turco. La loro rottura ha dunque ragioni tattiche, non ideologiche o strategiche. Nasce dalle sconfitte militari di Haftar. Quello che veniva chiamato “l’uomo forte della Cirenaica” si è rivelato una tigre di carta. Ha imposto la logica della guerra, ma è stato battuto sul suo campo. Non solo, quando si è visto in difficoltà un anno fa, senza consultarsi con il Cairo, è corso a chiedere aiuto a Vladimir Putin, che ha inviato i mercenari della Wagner. Di fronte ai contractor russi, Tripoli ha aperto le porte ad Erdogan, che ne ha approfittato a piene mani. L’intervento turco è stato decisivo. Putin non era affatto pronto a impegnarsi in Libia come in Siria e l’Egitto non è in grado di sfidare apertamente uno dei più forti eserciti della Nato. Da qui la scelta minimalista di abbandonare Haftar e rivolgersi a Saleh. Un uomo per tutte le stagioni, che però almeno controlla le tribù libiche dell’Est e può impedire il passaggio di elementi jihadisti in Egitto. Al vertice del Cairo in luglio, Saleh era la prima donna, Haftar ha fatto scena muta. Ma le sue reazioni sono ora poco prevedibili. Solo gli Emirati continuano a sostenerlo. Nel Mali che brucia: “Fuori i jihadisti e i corrotti” di Pietro Del Re La Repubblica, 23 agosto 2020 Pochi giorni fa un colpo di Stato militare ha esautorato il governo dopo mesi di proteste popolari. A Bamako migliaia di persone stanche e affamate sperano che la svolta sia positiva. Quattro ragazzini in mutande sguazzano felici in quella che fino a martedì scorso era la piscina del figlio del presidente del Mali. Assieme al rogo dell’ufficio del ministro della Giustizia e ai banani divelti nel giardino del capo della sicurezza, il bagno dei bambini di strada nella villa saccheggiata del rampollo presidenziale è una delle poche immagini che rimarranno del golpe incruento con cui i militari hanno deposto Ibrahim Boubacar Keita, detto Ibk. Della sua destituzione non si rammaricano né gli ex coloni francesi grazie ai quali sette anni fa vinse le elezioni né il popolo maliano ridotto alla fame da una crisi economica senza precedenti e funestato dalla ferocia di gruppi jihadisti sempre più numerosi e agguerriti. Il putsch s’è risolto in poche ore, con una ventina di arresti tra le più alte cariche dello stato. Perfino la sua dinamica è apparsa inconsueta poiché ad annunciare il passaggio di poteri non sono stati uomini in divisa militare, com’è prassi in casi del genere, bensì la vittima stessa del complotto, ossia Ibk, che dalla caserma dov’è stato imprigionato, martedì notte ha prima annunciato le sue dimissioni, poi lo scioglimento del parlamento e del governo. Tanto che la mezza dozzina di colonnelli che adesso comanda il Paese si rifiuta di usare la parola “golpe” perché sostiene di non aver infranto nessun “ordine costituzionale”. E così la pensano anche le migliaia di maliani scese in piazza venerdì sera per celebrare la fine del vecchio regime. Le stesse persone che da mesi chiedevano le dimissioni di Ibk e del suo governo, con enormi manifestazioni organizzate nella piazza dell’Indipendenza di Bamako, alcune represse nel sangue, come quelle del 10, 11 e 13 luglio, quando la polizia lasciò a terra ventisei dimostranti. “Ibk ha fallito ovunque e la sua rimozione è una vittoria per tutti noi”, spiega l’attivista Ahmadou Boucoum che incontriamo in uno dei tanti grin della capitale, quei luoghi dove la sera gli uomini sorseggiano il té. “Spero soltanto che i militari mantengano la promessa di organizzare elezioni in tempi brevi”. Un timore legittimo il suo, perché il golpe potrebbe vanificare gli sforzi del vasto movimento di contestazione popolare che nelle ultime settimane somigliava sempre di più a una rivoluzione. “Nonostante le dichiarazioni del Comité national pour le salut du peuple appena creato dai colonnelli, com’è già accaduto in altri Paesi africani c’è il rischio che i militari s’innamorino del potere e dimentichino di restituirlo ai civili”, dice ancora l’attivista. Al momento, i putschisti sembrano consapevoli dell’incontenibile energia della coalizione di protesta, che abbraccia l’insieme dei partiti politici e dei gruppi religiosi e che è concentrata soprattutto nel Mouvement du 5 juin-Rassemblement des forces patriotiques (M5-Rft). Non a caso Ismaël Wagué, portavoce del Comité, nel ringraziare i maliani per il sostegno ricevuto ha riconosciuto l’importanza della loro lotta e spiegato che i militari non hanno fatto altro che “portare a termine un lavoro iniziato dal popolo”. Adesso è necessario “nominare un presidente ad interin, sia esso un civile o un militare”, si è premunito di aggiungere Wagué, perché la rapida scelta di un nuovo capo della Stato è proprio ciò che chiedono i leader del M5-Rft. A Bamako, città di 2,5 milioni di abitanti dove miseria e opulenza sono ovunque mischiate, e dove gli ampi viali sono stati progettati tra vicoletti in cui s’aprono buche profonde come tombe, martedì mattina la popolazione ha accolto con entusiasmo i soldati ammutinati provenienti dalla vicina caserma di Kati. È stata la folla a scortarli, o addirittura a guidarli, verso il palazzo presidenziale per arrestare Ibk e il suo primo ministro Boubou Cissé. Entrambi si trovano ancora imprigionati nella caserma degli insorti, dove per i colonnelli sono “trattenuti soltanto per motivi di sicurezza”. Ieri, nella capitale aleggiava la calma di un sabato qualsiasi, con poco traffico e con le bancarelle dei mercati ricoperte di cerata per proteggere la merce dalla tanta pioggia di questa stagione. Perciò il corteo degli ambasciatori dei Paesi dell’Africa Occidentale atterrati a Bamako nel primo pomeriggio non ha trovato nessun ingorgo mentre si recava a Kati dove ha incontrato la giunta al potere e anche il presidente deposto. Sempre ieri, però, quattro soldati sono stati uccisi e uno è rimasto gravemente ferito per un ordigno esploso al passaggio del loro veicolo, nella regione di Koro, vicino al confine con il Burkina Faso. Sono già 200 i soldati morti dall’inizio dell’anno per mano jihadista e molti temono che i terroristi possano approfittare del colpo di Stato e della confusione politica generata nella capitale per guadagnare nuovo terreno al centro e a nord del Paese, come accadde dopo il golpe del 2012. L’uomo forte della giunta, il colonnello Assimi Goita, 37 anni, che si è formato in Francia, Germania e Stati Uniti e che era a capo delle forze speciali durante l’attacco jihadista contro il Radisson Blu di Bamako nel 2015, ha giurato che rispetterà tutti gli impegni presi con Parigi nella lotta contro il terrorismo. In Mali, con l’operazione Barkane i francesi dispiegano oltre cinquemila uomini che compiono attacchi quasi quotidiani con i droni e con i corpi speciale in un’area vasta come l’Europa, perché operano anche nei Paesi limitrofi. Adesso i generali francesi si dicono certi che la situazione peggiorerà. In gran parte del Paese non c’è né esercito né polizia, e per migliaia di chilometri nessuno controlla le frontiere con la Mauritania, l’Algeria, il Niger e il Burkina Faso. Liberi di muoversi indisturbati perché lo Stato è totalmente assente, per estendere il loro potere i gruppi jihadisti hanno cominciato a soffiare sul fuoco dei conflitti inter-etnici, esacerbando le antiche faide tra agricoltori e allevatori, tra Peul e Dogon. “Con il nostro intervento abbiamo messo il Mali al primo posto, perché c’è una grave crisi sociopolitica e di sicurezza e non c’è spazio per fare errori”, ha detto l’altro ieri il colonnello Goita, che a Bamako dovrà fare i conti anche con l’opposizione religiosa al regime appena spodestato accusato dai gruppi musulmani d’incoraggiare l’omosessualità, di vietare le mutilazioni genitali e di voler accrescere il proprio potere modificando la Costituzione. Tanti progetti di riforma così controversi che negli ultimi anni non hanno fatto che aumentare la popolarità degli imam più radicali e contrari alla presenza francese. Tra questi spicca Mahmoud Dicko, indicato da tutti come il principale artefice della caduta di Ibk. Russia. Navalny curato all’ospedale di Berlino: “Hanno voluto ritardare la partenza” di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 23 agosto 2020 Gli amici dell’oppositore di Putin accusano i medici russi, per i quali nel suo sangue c’era soltanto alcol e caffeina. C’è voluta una nottata di trattative, pratiche burocratiche e telefonate per riuscire a far partire da Omsk l’aereo-ambulanza tedesco che ieri mattina ha portato Aleksej Navalny a Berlino. Il leader dell’opposizione, che avrebbe subìto un avvelenamento giovedì scorso, era in condizioni gravi ma stabili, in coma indotto. “Anche solo finire di completare tutte le formalità, dogana, coronavirus, eccetera, è stato un incubo e abbiamo terminato alle tre del mattino”, ha raccontato al periodico web Meduza Jaka Bizilj, creatore della fondazione “Cinema per la pace” che ha organizzato l’evacuazione. Nella capitale tedesca Navalny è stato ricoverato nello storico ospedale Charité, uno dei più grandi centri universitari europei. “Dai medici abbiamo saputo che se non ci fosse stato l’atterraggio d’emergenza a Omsk e l’immediato ricovero, Navalny sarebbe morto”, ha detto ancora Bizilj. Il blogger aveva bevuto un tè all’aeroporto di Tomsk dove si era poi imbarcato sul volo per Mosca. In aria si era subito sentito malissimo. Secondo il politologo Valerij Solovej, chi aveva messo una qualche sostanza nella bevanda “si aspettava che Navalny morisse in aereo. Forse hanno sbagliato la dose”. L’operazione di evacuazione da Omsk ha richiesto una lunga e meticolosa preparazione. Bizilj, che già in passato aveva organizzato il trasporto allo stesso ospedale tedesco di Pyotr Verzilov, membro del gruppo di opposizione Pussy Riot, ha detto di essere stato chiamato proprio da questo gruppo. “Nadia Tolokonnikova mi ha telefonato da Los Angeles. Da quel momento non abbiamo dormito un istante. L’aereo, il team di specialisti, tutti i permessi”. Bizilj nega di essere stato aiutato dal governo tedesco, “ma certo le dichiarazioni della cancelliera hanno facilitato le cose”. I costi dell’evacuazione sarebbero stati coperti invece dal figlio di un magnate russo residente all’estero, Dmitrij Zimin, fondatore della società telefonica Beeline. Il cinquantaduenne Boris sostiene da tempo la Fondazione per la lotta alla corruzione di Navalny. “Questa pratica da noi è il collante di tutte le strutture di potere”, aveva dichiarato mesi fa in un’intervista. Il primario dell’ospedale di Omsk continua a sostenere che le analisi effettuate non hanno individuato tracce di avvelenamento. “Niente ossibutirrato di sodio, niente barbiturici o stricnina, niente veleni sintetici o convulsivanti. Nelle urine abbiamo riscontrato alcol e caffeina”. Su questa base alcuni giornali locali vicino al Cremlino hanno iniziato a ventilare l’ipotesi che il blogger avesse bevuto pesantemente la sera prima. Secondo i suoi collaboratori, Navalny nella giornata precedente era stato nel villaggio di Kaftanovka, dove, però, “stava benissimo e aveva pure fatto il bagno in un fiume”. Ora bisognerà capire cosa sia davvero successo al principale avversario di Vladimir Putin. “Spero che quanti possono contribuire a rispondere a questa domanda lo facciano”, ha dichiarato il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. I sanitari dello Charité hanno sottoposto il paziente a numerosi test, ma è possibile che la sostanza che ha provocato il collasso sia stata nel frattempo smaltita dal corpo. E gli amici di Navalny sono convinti che qualcuno ha voluto tenere il blogger a Omsk il più a lungo possibile per questo motivo. Bielorussia. Oltre cento manifestanti ancora detenuti L’Osservatore Romano, 23 agosto 2020 “Forte preoccupazione per oltre 100 persone che sarebbero tuttora detenute in Bielorussia dopo aver partecipato alle proteste antigovernative degli ultimi giorni” arriva dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Durante le proteste ci sono stati “arresti di massa” afferma l’agenzia Onu. Da Ginevra la portavoce Liz Throssell ha parlato di “varie migliaia di persone arrestate nelle proteste” esplose con la diffusione dei risultati delle contestate elezioni presidenziali del 9 agosto che hanno assegnato ad Alexander Lukashenko il sesto mandato consecutivo alla presidenza. “Molte sono state liberate, ma del centinaio di persone che resterebbero in carcere una sessantina sarebbero accusati di reati che potrebbero prevedere severe pene detentive” ha spiegato la portavoce. L’Alto commissariato denuncia in particolare come non ci siano più notizie di “almeno otto persone”. Con gli “arresti di massa” per l’Onu è stato “impossibile ottenere un quadro completo della situazione” e alle autorità viene chiesto di “fornire informazioni complete e precise sugli atti di polizia e i procedimenti giudiziari”. “Chiediamo alle autorità della Bielorussia - ha detto Throssell - di liberare tutti coloro che sono stati arrestati in modo illegittimo o arbitrario e di smettere di arrestare le persone che esercitano i diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica”. L’Onu lamenta la mancata apertura di inchieste su possibili abusi dopo le denunce di torture e maltrattamenti ai danni dei detenuti, anche di giornalisti e bambini. Nel frattempo, ieri, Lukashenko ha escluso qualsiasi dialogo con l’opposizione. Il presidente ha annunciato “misure dure” in nome della “stabilità”. Poi ha lanciato un’accusa grave: “È tutto pianificato e diretto dagli Usa e gli europei stanno al gioco”. “Spero che Lukashenko ascolti il suo popolo” ha detto la leader dell’opposizione, Svctlana Tikhanovskaya, fuggita in Lituania dopo il voto. Tikhanovskaya ha ribadito il suo sostegno a tutti i manifestanti. “Tornerò quando mi sentirò al sicuro” ha detto. Iran. Condannato a morte a neanche 15 anni: ne ha trascorsi 18 in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 agosto 2020 Mohammad Reza Haddadi si trova nel braccio della morte della prigione di Shiraz. Vi ha trascorso più della sua vita: nato nel 1998, c’è entrato nel 2002. Ora ha quasi 33 anni. Mohammad è uno delle decine di minorenni al momento del reato in attesa dell’esecuzione nelle carceri iraniane. I giudici lo hanno ritenuto colpevole di un omicidio, assieme ad altri tre complici, durante un furto d’auto nella città di Kazerun. Come in molti altri casi del genere, è emerso che i complici, tutti maggiorenni, lo avevano convinto ad accusarsi dell’omicidio, promettendogli anche una ricompensa, spiegandogli che in quanto minorenne non sarebbe stato messo a morte. Con quest’inganno, Mohammad si dichiarò inizialmente colpevole. Finora, convincere la giustizia iraniana del contrario non è stato possibile. Per ben sei volte la sua esecuzione è stata annunciata per poi essere annullata a seguito delle proteste internazionali. Ma Hossein Ahmadi-Niaz, uno dei suoi avvocati, non demorde. Come ha dichiarato a Iran Human Rights, essendo stato dimostrato nel corso del lungo procedimento giudiziario che Mohammad non aveva raggiunto una maturità intellettuale sufficiente da rendersi conto delle conseguenze del reato che stava compiendo, la sua confessione ai sensi dell’articolo 91 del codice penale islamico del 2013, non ha alcun valore legale. La Corte suprema sta attualmente esaminando un ricorso basato su questo punto. L’Iran è uno dei pochi stati al mondo in cui, in violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia che sarebbe tenuto a rispettare, vengono messi a morte minorenni al momento del reato: nel 2019 ci sono state almeno quattro esecuzioni del genere e altrettante finora nel 2020. Francia. Dupond-Moretti: “Ho sempre difeso gli uomini, non le cause. Mi batterò per loro” di Errico Novi Il Dubbio, 23 agosto 2020 La sua nomina a ministro della Giustizia è la vera sorpresa del nuovo governo di Jean Castex: uno choc per i magistrati. Tra i più celebri avvocati francesi, rinomato spirito libero, Éric Dupond-Moretti ha criticato troppo spesso la giustizia - come istituzione, per il suo malfunzionamento- per non aspettarsi che ci metta mano. “Non sono cambiato, se non per le cravatte…”, dice con il sorriso sulle labbra in un’intervista al settimanale francese Le Journal du Dimanche che lo raggiunge nel suo ufficio ministeriale a piazza Vendôme poco dopo l’insediamento. Riforma del processo penale, carceri, indipendenza dei pubblici ministeri: il programma del nuovo Guardasigilli non è ancora delineato, ma non gli mancano idee, esigenze e temperamento. Una volta in televisione ha detto, tra le risate, che non sarebbe mai diventato ministro della Giustizia. Come mai ha cambiato idea? Quando l’ho detto pensavo davvero che non me lo avrebbero mai proposto. E quando è successo, ho risposto d’istinto: ho prima detto sì, e poi ci ho riflettuto. Come mi ha suggerito un amico: “Ti hanno dato le chiavi dell’auto, bisogna che ci salti su”. Ho una conoscenza approfondita, ma non tecnocratica, dell’istituzione giudiziaria. So cosa c’è di buono, e cosa va cambiato. Ho accettato anche per ragioni emotive: come avvocato ho sempre difeso gli uomini, non le cause. Ancora una volta, mi batto per l’uomo. Trovo Emmanuel Macron coraggioso, adesso tocca a me agire. Ho delle idee, ma devo metterle in pratica: devo assolutamente riuscirci. Quando ci penso, non nascondo di avere le vertigini: quando, come me, si deve tutto alla Repubblica, non è un compito da poco poterla servire. Cosa Le darà la sensazione di esserci riuscito? Tutto ciò che bisogna cambiare nella nostra giustizia: sono trentasei anni che ci rifletto. La difficoltà principale per me sarà di apprendere l’arte dell’amministrazione e addolcirla. È fatta principalmente di persone competenti, ma come tutte le strutture ha le sue “pesantezze”. Quando lascerò la carica, voglio che restino due o tre cose semplici: non ho la bacchetta magica, ma voglio riavvicinare i francesi alla giustizia, ridargli fiducia. È per questo che parlo di una “giustizia di prossimità”: non vuol dire ripristinare i giudici di prossimità che abbiamo abolito nel 2017, ma che bisogna tentare la strada di una giustizia vicina ai soggetti di diritto, gli indagati. Ci sono due grandi problemi: la scarsità di mezzi e alcune cattive abitudini. Devo riuscire ad agire su questi due fronti. Se non si tratta di un ritorno al passato, come definirebbe questa nuova “giustizia di prossimità”? È una questione di organizzazione. Durante la crisi sanitaria, alcuni magistrati si sono recati negli ospedali. Io propongo che, in alcune parti del territorio e in casi particolari, si muova il giudice piuttosto che l’imputato. Sarebbe utile per tutti coloro per cui è difficile accedere alla giustizia, normalmente i più poveri. La giustizia deve essere a servizio dell’imputato, non il contrario. È importante ricordarlo. Concretamente, quali sono le sue priorità? Arrivo con dei sogni, ma so che il tempo stringe: non si fa il ministro a vita, per fortuna. Quindi non vedo l’ora di passare alla fase operativa. Firmerò rapidamente le mie prime istruzioni. Ad esempio, voglio che i sospettati di violenza coniugale, se non sono deferiti all’autorità giudiziaria, siano convocati dal procuratore e ricevano un avvertimento giudiziario solenne. Mi è già stato fatto notare che questo potrebbe compromettere la presunzione d’innocenza: ma ho mostrato i denti…Non si tratterebbe di una condanna, ma di un modo per dimostrare che la giustizia è attenta e non trascura niente. Ecco un altro esempio: conosco le prigioni, ci sono stato tante volte come avvocato. Ci sono già buone pratiche per migliorare le condizioni di detenzione, bisogna solo estenderle. I codici prevedono anche dei delegati tra i detenuti che possano segnalare le difficoltà, le carenze. È utile, ma non esistono dappertutto. Non costerebbe niente prevederli in ogni struttura. Sarà affiancato nel suo lavoro da un consigliere incaricato di raccogliere le “buone pratiche”. È vero? Amo il buon senso. Nella nostra giustizia, c’è il meglio e il peggio. Io dico che bisogna chiudere col peggio e guardare solo al meglio. Chi potrebbe opporsi? Dal momento che non ci costa di più. Pescherò dalle idee migliori per migliorare la giustizia quotidianamente e, sì, avrò un consigliere per questo. Se in un certo tribunale un cancelliere o un magistrato avranno un’idea che funziona, la faremo emergere. D’altronde, non abbiamo molte risorse nelle cancellerie, voglio alleggerire i loro compiti per valorizzarli e così che possano rispondere in tempi più brevi alle esigenze delle persone sottoposte a giudizio. Lei cita spesso Victor Hugo: “Aprire una scuola, vuol dire chiudere una prigione”. Vuole meno carceri? È già avviato un programma di costruzione di 15mila posti. Ma prima di definire una politica, voglio monitorare l’evoluzione del numero dei detenuti. Con la pandemia, abbiamo registrato un numero storicamente basso. Se non aumenta troppo, le prigioni saranno alleggerite, e di conseguenza le condizioni di detenzione miglioreranno. Ma bisogna soprattutto smetterla con i dibattiti caricaturali. La politica penale non si basa sulla compassione: non si tratta né di reprimere né di essere lassisti. Il buon principio è l’equilibrio. Il carcere è un male necessario. Ma bisogna pensare a come agevolare la fuoriuscita di chi ha problemi di salute, e a come fare in modo che chi esce non sia peggiore di quando è entrato. Consideriamo lo spirito di questa evidenza: se bastasse reprimere per far sparire il crimine, ormai lo sapremmo. Solo i populisti sembrano crederlo, ma io non lo sono. Io sono per lo Stato di diritto, e dico: non voglio che il mio paese resti al dodicesimo posto tra i 47 paesi condannati dalla Corte Europea, sostanzialmente per dei processi giudicati “ingiusti”. C’è bisogno di cambiare qualcosa, no? Non si rischia di diventare buonisti? Già li sento quelli che mi definiranno il “lassista che vuole svuotare le prigioni”, altri diranno che sono un repressore che vuole riempirle. Non sarò né l’uno né l’altro. Non si fa buona giustizia con la demagogia. Servono dei principi: il contraddittorio, il diritto alla difesa. Ma servono anche i mezzi, risorse ulteriori. Nei nostri tribunali, ho visto un giurato portarsi il registratore perché la Corte non l’aveva… Avrà a disposizione nuove risorse per la giustizia? È necessario, ne avrò. Il primo ministro l’ha annunciato: il budget 2021 accrescerà il volume di assunzioni nella giustizia. Emmanuel Macron e Jean Castex glielo hanno assicurato? Sì, assolutamente. Cambiano argomento, è sempre favorevole al rimpatrio delle donne e dei bambini prigionieri in Siria? Sì, ma faccio parte di un governo che difende l’idea che questi prigionieri debbano essere giudicati là dove hanno commesso il reato e che esamina caso per caso la situazione dei minori da rimpatriare. In qualunque circostanza, sarei un militante instancabile nella difesa dei francesi -perché sono francesi, che lo si voglia o no - che incorrano nella pena di morte. Abbiamo preso impegni internazionali e l’anno prossimo celebreremo il quarantesimo anniversario dell’abolizione della pena di morte in Francia. È un onore per il nostro Paese. È in corso un progetto di revisione costituzionale che pone la questione dell’indipendenza dei pubblici ministeri. Lei è favorevole alla soppressione del legame gerarchico tra cancelleria e procure? No. Io credo che sia legittimo per il governo definire e disporre dei mezzi per condurre una politica penale. Il sistema attuale presenta due vantaggi: la politica penale è una e indivisibile, le stesse regole si applicano a tutti i paesi. Le procure sono legittimate da un governo democratico. Ma il potere non ha il diritto di intervenire in certe questioni. Per la nomina dei procuratori, il ministro segue le indicazioni del Consiglio della magistratura: è già la norma, ma per il passato ci sono state delle violazioni. Affinché ciò non accada più, voglio incidere questa regola nella Costituzione. È favorevole alla separazione delle carriere tra giudici e pm? Sì, ma non ne avrò il tempo in questo mandato. È un grosso problema. Ho conosciuto un presidente della Corte d’Assise che mi disse: “La giustizia è il solo sport dove l’arbitro porta la stessa maglia dei giocatori”. C’è un’altra cosa che mi sta a cuore: la lotta contro il corporativismo che nuoce alla giustizia. Vorrei trasformare la Scuola nazionale della magistratura in una scuola che mescoli la formazione dei giudici e degli avvocati. Ma anche questo cantiere sarebbe troppo lungo da realizzare. Abbiamo seicento giorni per agire concretamente, devo essere pragmatico. Occorre più spazio per la difesa nella procedura penale? La giustizia si è “bunkerizzata”. Svolgendo il mio mestiere di avvocato, ho visto etichette sulle porte con scritto: “Il giudice non riceve gli avvocati”. È assurdo. Bisogna tornare a una giustizia più fluida, a dei rapporti pacifici tra giudici e avvocati. Non posso ordinarlo, ma posso suggerirlo fortemente tramite circolari. Il giusto processo, è il contrario della guerra. Nel suo discorso di insediamento, ha dichiarato che le indagini preliminari devono restare tali. Farà una circolare anche su questo? Chiedo alla mia amministrazione di farmi delle proposte. Quando alcune indagini diventano eterne impedendo il contraddittorio e accompagnandosi a violazioni mirate del segreto a favore di qualche giornalista, c’è di che preoccuparsi. Vuole rinforzare il segreto istruttorio? Quando una democrazia diventa una dittatura, il primo bersaglio sono i giornalisti e gli avvocati. Sono molto rispettoso della stampa e del segreto professionale. Mail fatto che quello degli avvocati non sia più protetto mi fa disperare. Voglio rimediare e spero che intraprenderemo una riflessione su questo. Coinvolgerò ovviamente anche i giornalisti. Come avvocato ha auspicato un sistema di responsabilità per i magistrati. Lo metterà in opera? L’indipendenza non permette ad alcun magistrato di affrancarsi dalle regole. L’indipendenza ha senso solo se si inscrive nell’imparzialità, e questa non esclude la responsabilità. È un cantiere che voglio aprire, di concerto con i magistrati. Ha in programma una riforma della giustizia minorile? Una riforma è già in corso al Parlamento. Mi auguro che la giustizia minorile sia più rapida ed efficace. Quando un ragazzo è perseguito per piccoli reati, deve essere portato immediatamente davanti al giudice. E poi si disponga magari che il giorno dopo imbianchi le mura di una gendarmeria o di un commissariato. Non è possibile essere arrestati da minori e poi giudicati a 22 anni. Spero che i minori reclusi non escano a 18-17 anni, con l’idolo di un islamista o un un boss. Bisogna prevedere un modello alternativo per chi lo merita. Ci sto lavorando. Il suo incarico al governo è l’inizio di una carriera politica? Forse è un po’ tardi a 59 anni per fare carriera. Sono sempre stato molto felice di fare l’avvocato. Cambierò completamente vita. E lo faccio unicamente per l’idea di giustizia che mi guida. Canada. Abbattere i muri del silenzio di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 23 agosto 2020 Con la campagna “Thursdays in Black” il Wcc a fianco delle native nordamericane. “Quando verranno ascoltate le nostre voci? Bisogna ancora attendere che altre vittime innocenti vengano uccise?”: è l’allarme lanciato da Gwenda Yuzicappi, esponente della riserva indiana di Standing Buffalo Dakota Nation, nel Saskatchewan, provincia del Canada occidentale, da anni impegnata a difesa dei diritti delle donne indigene. Migliaia di ragazze, infatti, negli ultimi anni, sono scomparse nella quasi totale indifferenza e nel silenzio delle istituzioni. Da uno studio condotto nel 2019 in Canada emerge che dal 1980 al 2012 le donne e le ragazze indigene scomparse o assassinate rappresentavano il 16 per cento di tutti gli omicidi femminili. L’alto tasso di violenza contro di esse è stato confermato anche da altre ricerche svolte sia nello stato nordamericano che negli Stati Uniti, dove si registra una scarsa visibilità del fenomeno e poca attenzione da parte delle autorità e della società in generale. Nel 2016 un altro studio ha evidenziato che, sui 5712 casi di donne indiane americane e native dell’Alaska scomparse, solo 116 erano stati registrati nel database del dipartimento di giustizia. In Alaska l’omicidio è considerato la terza causa di mortalità tra le donne indiane americane. A difesa dei loro diritti sono scese in campo diverse organizzazioni religiose tra le quali il World Council of Churches (Wcc) che, attraverso la campagna di sensibilizzazione “Thursdays in Black” (giovedì in nero), chiede fermamente giustizia e un’azione unitaria. I giovedì in nero sono nati dai movimenti femminili di resilienza e resistenza all’ingiustizia, agli abusi e alla violenza che continuano a portare alla luce quelle che sono state le tragedie invisibili. Uno di questi movimenti in Canada e negli Stati Uniti cerca giustizia e cambiamento per le donne indigene scomparse e uccise. Il Consiglio ecumenico delle Chiese ne è diventato uno dei primi e più importanti sostenitori facendosi promotore di una protesta pacifica contro lo stupro e la violenza. Tra le popolazioni indigene, grazie al sostegno dei movimenti religiosi, sta crescendo la speranza di cambiamento: donne e comunità si stanno unendo per far crescere la consapevolezza nella società civile e tra le autorità governative. “Quello che è successo a noi donne - spiega l’attivista Mary Lyons, decana della comunità indigena 0jibwe - è sempre stato messo nell’ombra fin dall’inizio dei tempi. Per molti le donne indigene sono esseri umani di seconda classe”. Lyons e Yuzicappi hanno in comune un dramma familiare: entrambe hanno perso la figlia e la sorella uccise nell’indifferenza generale. “Molte di noi non sapevano come muoversi per far sentire la nostra voce, abbiamo dovuto farlo da sole. Anche se non venivamo invitate ai dibattiti andavamo lo stesso e ci siamo rese conto che il nocciolo della questione era legato ai soldi. L’azione per il governo di prendersi cura dei figli e delle donne assassinate e assicurare, al contempo, il carcere agli autori dei crimini, aveva un costo. Adesso, è giunto il momento di cambiare”, affermano. Nello stato del Minnesota, come risposta, è stata istituita una task force che indaga sulle donne indigene scomparse e uccise nel 2019 e che renderà pubblici i risultati il prossimo dicembre. È un passo avanti ma Lyons - insieme alle nonne e ai nonni di tutte le comunità indigene - sa che bisogna fare molto di più per ristabilire l’equilibrio e riconoscere la sacralità della vita. “Stiamo lavorando e dialogando anche con i nostri anziani per cercare di diffondere una cultura basata sul rispetto della donna e sulle pari dignità”, rivela. Raccontando con coraggio la violenza subita dalla figlia, Yuzicappi è riuscita insieme ad altre donne a scuotere l’opinione pubblica: “Ciò che ho fatto aiuterà le altre a cambiare la loro vita”. L’attivista ricorda che “le donne sono donatrici di vita. Senza di esse non ci sarebbe esistenza. Gli uomini devono rispettarle e proteggerle”. Di qui l’esortazione affinché le indigene, con l’aiuto dei movimenti religiosi e delle associazioni, rendano noti i propri drammi e chiedano giustizia. Yuzicappi, per esempio, ha condiviso il suo dolore familiare con oltre 1400 persone colpite, attraverso il Canada’s National Inquiry on Missing and Murdered Women. Per l’attivista indiana è molto importante segnalare e monitorare le proprie istanze “assicurandosi che la polizia faccia il proprio lavoro e che i media sostengano le persone colpite riportando all’opinione pubblica il loro dramma”. Man mano che la tragedia delle donne indigene scomparse e uccise diventerà più visibile, sempre più persone su scala globale chiederanno un’azione efficace. “Credo fermamente nella solidarietà internazionale contro gli abusi sessuali e la violenza”, conclude Yuzicappi. “L’importante - aggiunge Lyons - è agire tutti insieme uno a fianco all’altro. Dobbiamo abbattere i muri che ci separano”.