Misure alternative: si potrebbe risparmiare mezzo miliardo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2020 Cinquecento milioni di euro è la cifra che lo Stato potrebbe risparmiare se investisse sulle misure alternative. Nel momento in cui i numeri della popolazione carceraria tornano lentamente a salire (sono entrate persone per finire di scontare cinque mesi di carcere) è degno di nota rievocare un passaggio del recente pre rapporto dell’associazione Antigone. Quest’ultima parte dal fatto che un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno, Per questo motivo si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena. Infatti, altro dato da ricordare, la maggioranza dei detenuti non sono dentro per reati contro la persona come omicidi, sequestri e similari, ma per reati contro il patrimonio o per droga. I dati parlano chiaro. Il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore a un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni per un totale di 18.856 detenuti. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%. Sono percentualmente aumentati i detenuti per i reati più gravi, a seguito delle scarcerazioni avvenute tra marzo e maggio di persone con pene brevi. I presenti con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali. A fine giugno 2020 erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416- bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri. Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone sottoposte al regime speciale di cui al 41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Più della metà della popolazione carceraria deve scontare meno di tre anni e una parte potrebbe, appunto, avere accesso a misure alternative. Non c’è solo un considerevole ritorno economico, ma anche un ritorno positivo per la sicurezza collettiva visto che una persona in misura alternativa ha un tasso di recidiva tre volte inferiore a una persona che sconta per intero la pena in carcere. Le misure alternative alla detenzione, per colpa di alcuni titoli di giornali sensazionalistici, sono accompagnate da sempre dal luogo comune che sarebbe un modo per “farla franca”. Niente di più sbagliato. Sono dirette a realizzare la funzione rieducativa della pena, in ottemperanza dell’articolo 27 della Costituzione. Incidono sulla fase esecutiva della pena principale detentiva, in relazione ai presupposti e alle modalità di applicazione sono previste e disciplinate dalla legge 26 luglio 1975, n. 354. I diversi tipi di misure alternative alla detenzione - Ne sentiamo parlare spesso dalle cronache giornalistiche, come, appunto una maniera per evitare la cosiddetta “certezza della pena”. In realtà è sempre una pena, ma diversa dal carcere. Le misure alternative alla detenzione sono: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare. L’affidamento in prova al servizio sociale è previsto e disciplinato dall’articolo 47 del Dpr n. 354/ 1976 che stabilisce, che se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni, il condannato ha la possibilità di essere affidato ai servizi sociali fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. Il provvedimento viene adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi nei quali si può ritenere che lo stesso, anche attraverso le prescrizioni delle quali al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto aiutandolo a reinserirsi nella vita sociale e riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul suo comportamento. I commi 11 e 12 dell’articolo 47 regolano rispettivamente la revoca dell’affidamento in prova e i suoi effetti stabilendo che esso “è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova” e che “l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale”. All’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, deducibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena che consiste in 45 giorni di pena detratta per ciascun semestre di pena scontata. La semilibertà è prevista e disciplinata dagli articoli 48 e seguenti dell’Ordinamento Penitenziario e consiste nella possibilità per il condannato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto. L’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. La liberazione anticipata è regolata dall’articolo 54 della Legge n. 354/1975 che stabilisce la possibilità che venga concessa al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione alla sua rieducazione. Consiste in una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata, valutando anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare, di detenzione domiciliare o di affidamento in prova al servizio sociale. La misura della liberazione anticipata era oggetto di automatica revoca a norma dell’articolo 54, comma 3 in caso di condanna per delitto non colposo commesso durante l’esecuzione della misura. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma in questione nella parte nella quale prevede l’automatismo della revoca. La detenzione domiciliare è prevista dall’art. 47 ter della L. n. 354/ 1975 per particolari casistiche e consiste nella possibilità di espiare la pena della reclusione nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza. Secondo l’articolo 47 ter, la pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di alcuni compresi quello ostativi, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di: donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente e persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. Quei bambini in “carcere” con le mamme sono ancora troppi di Daniele Livrieri Il Dubbio, 22 agosto 2020 La vicenda è delicata ma l’unica cosa che non ci si può permettere è lasciare che dei bambini patiscono forme detentive per colpe altrui. Più volte donne e uomini con responsabilità di governo hanno assunto una chiara posizione affinché in Italia non ci fossero più bambini ristretti insieme ai loro genitori. Nel luglio 2015, secondo le cronache, l’allora Ministro della giustizia, davanti a otto mamme incarcerate con i figli, dichiarò che per la fine di quell’anno si sarebbe posto “fine a questa vergogna contro il senso di umanità”. Come è noto le parole del Ministro furono tutt’altro che profetiche, tanto che, secondo le statistiche ministeriali, sino al 30 giugno del 2018 i minori al seguito di madri detenute - questa la locuzione usata nelle statistiche ministeriali - si erano incrementati di ben 31 unità rispetto allo stesso semestre del 2015, giungendo a ben 66. A settembre 2018, il tema dei bambini dietro le sbarre venne reimposto alle cronache, poiché una detenuta uccise i suoi due figli, per “restituirli” alla libertà. Anche in quella occasione si registrò un coro bipartisan di buoni propositi. Sono passati quasi altri due anni ed effettivamente i numeri di bambini “ristretti” si sono ridotti, tornando a cifra vicina a quella del 2015. Tuttavia vi sono più considerazioni che fanno temere che il problema sia tutt’altro che sulla via delle risoluzione: 1) a fine febbraio 2020, momento dell’insorgenza della emergenza Covid, i bambini al seguito delle madri detenute erano ancora 59, per passare rapidamente a maggio 2020 a 34, con ciò disvelando che la reale causa di contenimento del fenomeno sia da ascriversi alla più generale riduzione del numero dei detenuti, piuttosto che al progressivo dispiegarsi di una soluzione pressoché definitiva della questione; 2) non si è concretizzato alcuno specifico intervento normativo sul tema, che possa tracciare un preciso orizzonte per la magistratura di sorveglianza e per i giudici della cautela. E ciò nonostante nel 2018 sia intervenuta una riforma dell’ordinamento penitenziario; 3) a luglio 2020 il numero di minori ristretti è tornato nuovamente ad incrementarsi, per quanto lievemente, ma soprattutto si è incrementata la percentuale dei bambini presso le sezioni carcerarie per detenute madri, anziché negli “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” (Icam), strutture esterne agli istituti penitenziari e dotate di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Ciò posto, va ricordato - in estrema sintesi - che la legislazione penitenziaria prevede il diritto della madre condannata in via definitiva a tenere con sé il minore fino a tre anni e tuttavia, sino al compimento di un anno dell’infante, l’esecuzione penitenziaria deve differirsi, salvo che non sia possibile scontare la pena in detenzione domiciliare. Invero la detenzione domiciliare, le cui maglie nel corso degli anni, anche grazie a interventi della Corte costituzionale, si sono estese, costituisce il principale strumento per evitare la detenzione riflessa dei minori, e per comunque per scongiurare traumatiche separazioni, tra madre e minori che non abbiano compiuto i 10 anni. Per ciò che invece concerne le misure cautelari, non può essere disposta la custodia in carcere di una donna incinta o di una madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Ove ricorrano esigenze di tal fatta, la custodia cautelare potrà essere disposta presso un Icam, se il Giudice ritiene tale tipo di struttura idonea a fronteggiare le esigenze cautelari. Tuttavia nonostante le occasioni di fruizione di misure extra carcerarie, deve tenersi conto che per molte detenute madri non esiste una soluzione domiciliare adeguata, tanto che nel 2011 il legislatore ha pensato di rimediare attraverso le c. d. case famiglie protette. Ma a circa 10 anni dall’entrata in vigore della legge, l’ostacolo principale alla diffusione di queste strutture è quello economico, ricadendone gli oneri sugli enti locali o sui privati. È evidente che il tema è assai complesso ponendosi in un delicato crocevia tra diritti del minore, del genitore e quello alla sicurezza dei consociati, ma sicuramente l’unica cosa che non ci si può permettere è lasciare che dei bambini patiscono forme detentive per colpe altrui. “La riforma non trasformi il Csm in un ministero. Stop a chi ha avuto ruoli di governo” di Giovanni Mari Il Secolo XIX, 22 agosto 2020 Alberto Maria Benedetti, membro laico del Csm: “Il correntismo delle toghe non si supera con un sistema di voto”. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha appena depositato la sua riforma del Csm a Palazzo Chigi, definendolo “un testo di cui si parlava da anni”. Se il dibattito sembra latitare, getta una pietra nello stagno Alberto Maria Benedetti, ordinario di Diritto Privato a Genova e membro laico del Csm: era stato il più votato tra le nomination dei Cinque Stelle sulla piattaforma Rousseau e inizialmente in corsa per l’incarico di vicepresidente dell’organo di autogoverno. Benedetti individua luci e ombre, da un lato invita a non sclerotizzare le norme e dall’altro auspica più coraggio. Benedetti, uno dei punti di forza del testo è quello di rendere “oggettiva” la carriera dei magistrati… “Un principio doveroso. Ma bisogna proteggere la discrezionalità del Csm, le cui scelte, in relazione alle nomine, non sempre possono passare attraverso valutazioni “matematiche”. Le audizioni, che già oggi il Csm fa, danno luogo a giudizi e impressioni non facilmente riducibili a punteggi burocratici. Non sono esami a domanda e risposta, sono colloqui in cui si possono cogliere qualità e difetti dei candidati, anche in relazione al posto messo a concorso con la stessa audizione”. Quello che chiede il testo è una valutazione oggettiva, quasi insindacabile… “Va bene, ma non va svilito il ruolo del Csm e la sua capacità di valutare, con la giusta discrezionalità, tutti gli elementi. Se si riduce il Csm a organo meramente burocratico, tanto vale affidare le nomine a funzionari ministeriali, come accadeva nel sistema precostituzionale: una prospettiva inaccettabile. L’indipendenza della magistratura passa attraverso un Csm autonomo, responsabile e trasparente, ma forte, non debole”. In questo senso può aiutare un nuovo sistema di elezione nel Csm che eviti il correntismo… “Guardi, il problema delle degenerazioni del correntismo non è mai stato risolto cambiando il modo dell’elezione dei consiglieri togati. Si può correggere qualche stortura, ma per cambiare davvero è necessario un cambio di mentalità, senza il quale, dopo qualche tempo, ci ritroveremmo ai punti di partenza”. L’altro fronte è scindere il ruolo dei laici dall’attività politica. “Sono d’accordo sul limitare le scelte dei consiglieri laici a chi non ha avuto ruoli politici di governo; anzi, sarei stato anche più duro. La Costituzione non auspicava laici di provenienza politica; li voleva essenzialmente tecnici o operatori del diritto di alta qualificazione, o per scienza o per esperienza forense. Anche per rispettare l’equilibrio tra i poteri. La riforma, in parte, realizza questo obiettivo, ma può essere più coraggiosa”. Giusto “congelare” la carriera dei togati eletti? “No, lo stop quadriennale alla carriera degli eletti avrà il solo effetto di disincentivare i bravi a candidarsi al Csm e questo non è un obiettivo di efficienza legislativa. Il Csm ha bisogno di consiglieri autorevoli e forti, il meglio della magistratura. Penalizzare la carriera di chi è consigliere è un errore in controtendenza rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere. Bisogna indurre i migliori (non i più “famosi) a candidarsi. Così invece si scoraggiano”. E sui “fuori ruolo”? “Serve una stretta, è vero. I magistrati non devono affollare i ministeri, specie quello della Giustizia: devono concentrarsi sulla giurisdizione. Fa bene il legislatore a porre un freno agli impieghi dei magistrati nell’amministrazione, oltretutto discutibili anche dal punto di vista della separazione dei poteri e dell’indipendenza”. Lei crede che nel campo politico si aprirà un dibattito adeguato? “Penso che adesso il Csm si debba esprimere, aiutando il Parlamento a costruire la riforma nella sua versione definitiva; c’è bisogno di un lavoro comune di tutti coloro che hanno a cuore la giustizia, non per le esigenze della contingenza politica ma per poter restituire ai cittadini quel senso di fiducia nella giurisdizione senza il quale lo stato di diritto rischia di essere travolto. La riforma per essere forte avrà bisogno di ulteriori riflessioni e studi: necessiterà di un tempo adeguato”. Lei ha compiuto due anni di mandato. Cosa ha imparato in questo periodo? “Abbiamo dovuto affrontare situazioni inedite. Viviamo una fase di svolta nella storia della magistratura italiana. Indietro, mi auguro davvero, non si può e non si deve più tornare”. Il telelavoro ha ammazzato anche la giustizia di Tommaso Montesano Libero, 22 agosto 2020 La “fase 2” per i tribunali non è mai partita: a Roma ci sono udienze rinviate al 2021. E i cancellieri da casa sono inutili. “Invece di riaprire le discoteche, per giunta per poi richiuderle, sarebbe stato meglio aprire i tribunali”. Per la giustizia, la “fase due” post lockdown non è mai iniziata. L’avvocato Cesare Placanica, al vertice della Camera Penale di Roma dal 2016, rigira tra le mani la circolare del presidente del tribunale di Roma. La data è quella del 4 agosto. C’è scritto, in soldoni, che la macchina della giustizia non riesce a ripartire. Non ci sono udienze da remoto, né telelavoro, che tengano. “Si dà atto, come si dice in gergo, della situazione di impotenza in cui ci troviamo: cancellerie aperte solo su appuntamento, deposito degli atti in un punto unico, attività a marce ridotte che proseguirà anche a settembre”. Cosa che significa, in molti casi, udienze rinviate fino a un anno. “Il ritorno all’efficienza non c’è”, sentenzia Placanica. Mentre il governo si affanna a riscrivere le regole elettorali per il Csm - per inciso con una riforma, attacca lo stesso penalista, “che aumenta il potere, già smisurato, delle Procure. Faremo le barricate” - nei tribunali si continua a lavorare a scartamento ridotto. Una situazione, denuncia Placanica, che mina uno dei pilastri su si regge l’amministrazione della giustizia: l’imparzialità del giudizio. “La selezione dei processi da celebrare è totalmente rimessa ai dirigenti degli uffici giudiziari, talvolta al singolo giudice. Nella migliore delle ipotesi, siamo di fronte a scelte arbitrarie”. E la responsabilità va ricercata nella mancata assunzione di decisioni da parte del potere politico. Ovvero del ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. L’assenza di linee guida generali per la ripartenza ha creato “situazioni a macchia di leopardo”. Ad esempio: a Siena - a fine giugno - erano trattati l’88% dei processi dibattimentali e il 99% dei processi Gup. E i rinvii erano per la quasi totalità entro il 2020. A Roma, invece, “c’è stato un massiccio uso del rinvio al 2021. Perché se Siena cammina non può accadere altrettanto negli altri distretti?”. E qui si torna alla discrezionalità delle toghe. “Alcuni uffici giudiziari danno la precedenza ai processi sulla criminalità organizzata, altri alla corruzione, altri ancora ai casi di violenza sessuale”. Il risultato è che il principio dell’automatismo sull’assegnazione dei procedimenti, adottato nel 1995 sull’onda del “caso Squillante”, va a farsi benedire. “Nel cittadino si ingenera il sospetto che non ci siano criteri oggettivi. Il politico “x” è poco gradito? Il processo marcia; il politico “y” è “amico”? Il processo langue”. In tutto questo l’Associazione nazionale magistrati, finita nella bufera per il “caso Palamara”, ha giocato un ruolo secondario: “Moltissimi magistrati si sono fatti carico del problema, l’Anm non ha portato avanti azioni incisive. Siamo stati noi a protestare, non loro. Se c’è una categoria che vuole ripartire, quella è la nostra. Ma loro?”. Il telelavoro non ha funzionato anche per responsabilità del personale civile. Alias, i cancellieri. “C’è stata resistenza. Lo smart working è una truffa. I cancellieri non hanno accesso ai database dei tribunali, non possono visionare i fascicoli, che ci stanno a fare a casa?”. Non è escluso - anzi - che a settembre possano esserci altre iniziative di protesta. Segreto di Stato per altri otto anni: “La verità su Ustica farebbe male” di Francesco Grignetti La Stampa, 22 agosto 2020 La figlia di una delle vittime della strage chiedeva l’accesso ai documenti. Ma Palazzo Chigi non svela i misteri. Quarant’anni sono trascorsi, ma non sono ancora sufficienti per considerare inoffensivi certi documenti del 1980 che raccontano quel che l’Italia faceva in Medio Oriente. Perciò deve permanere il segreto sui documenti del Sismi che venivano da Beirut. L’ombra del colonnello Stefano Giovannone, il capocentro dei nostri servizi segreti che operò in Libano dal 1973 al 1982 si staglia ancora. L’unica conclusione che si può trarre, è che il seme che il nostro 007 gettò non ha terminato di dare i suoi frutti. La sua rete d’intelligence in qualche modo è ancora operante. Per questo motivo non se ne parla di rendere pubblici i suoi documenti. La risposta che palazzo Chigi ha dato ieri alla signora Giuliana Cavazza, figlia di una vittima della strage di Ustica, che chiedeva copia dei documenti, per il momento chiude un cerchio: anche se il 1980 è lontano, è a rischio la sicurezza nazionale. Se qualcuno pensava che da queste carte potessero venire risposte ai mille interrogativi sulle stragi di Ustica (27 giugno 1980) e della stazione di Bologna (2 agosto 1980), ebbene, per ora non se ne parla. E i servizi segreti sono intenzionati a mantenere il segreto quantomeno fino al 2029, come è stato detto all’ex senatore Carlo Giovanardi in un incontro a palazzo Chigi. La lettera non lascia scampo. Pubblicare le carte che portano la firma di Giovannone non è possibile perché si arrecherebbe “un grave pregiudizio agli interessi della Repubblica”. Eppure qualcuno le ha lette: i parlamentari della scorsa legislatura che facevano parte della commissione d’inchiesta sul caso Moro. Ma anch’essi sono stati vincolati al segreto. Sanno, però non possono divulgare. La lettera della presidenza del Consiglio alla signora Cavazza ripercorre brevemente la storia: il colonnello Giovannone oppose il segreto di Stato durante l’inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Era il 1984 quando l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, confermò il segreto di Stato e ciò impedì anche ai magistrati di visionare il dossier. Da quel momento sulle informazioni di Giovannone si è stesa una coltre impenetrabile che è durata fino al 2014. È quanto prescrive la legge: il segreto di Stato può durare al massimo trent’anni. Immediatamente dopo, però, sulle sue carte è subentrata la classifica di “segretissimo”. Significa che ora almeno i magistrati potrebbero leggere questi documenti, ma con tanti vincoli, e non è dato sapere quali procure li hanno visionati. I ricercatori, i giornalisti e gli storici, invece, non potranno leggere nulla. L’opinione pubblica non potrà sapere anche se qualcosa è già venuto fuori. Il segreto riguarda una serie di telegrammi cifrati sui rapporti occulti tra Italia e palestinesi, l’Olp, la formazione al-Fatah di Yasser Arafat, la formazione ancor più estremistica Fplp di George Habbash, altri servizi segreti arabi, i libici. Nel plico ci sono gli allarmi che Giovannone faceva rimbalzare a Roma. L’escalation nel corso del 1979 e 1980 di minacce contro gli italiani da parte del gruppo terroristico Fplp dopo che furono sequestrati ad Ortona, in Abruzzo, alcuni missili terra-aria di fabbricazione sovietica che stavano portando attraverso l’Italia. Oppure i riferimenti al super-terrorista Carlos, sanguinario e folle, che era al soldo del Patto di Varsavia, ma anche di Gheddafi o di Saddam Hussein. Un documento impressiona più di tutti: un cablo arrivato a Roma il 27 giugno 1980, proprio il giorno in cui sarebbe precipitato il Dc9 dell’Itavia con 81 persone a bordo, nel quale il colonnello del Sismi avvisava che l’Fplp dichiarava superato il Lodo Moro. Da quel momento per il gruppo di Habbash non vigeva più l’accordo che era stato stipulato sei o sette anni prima e che garantiva di tenere fuori l’Italia da atti terroristici. In cambio, ci eravamo impegnati a favorire i palestinesi in molti modi. Soprattutto sul piano diplomatico: avremmo aiutato l’Olp ad ottenere il riconoscimento dalla Comunità economica europea. Riconoscimento che venne il 14 giugno con una famosa, all’epoca, Dichiarazione di Venezia. Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga. E se oggi quel passaggio è negletto, occorre ricordare che per impedire la Dichiarazione di Venezia si mossero forze potenti. Saddam, Gheddafi e Assad erano come impazziti contro Sadat (che sarebbe stato assassinato l’anno dopo) e Arafat, considerati traditori della causa. La settimana seguente, tra il 22 e il 23 giugno, Venezia ospitò anche una riunione del G7 con il Presidente Carter. L’ex ambasciatore Richard Gardner nelle memorie accenna all’incubo di un attentato contro il suo Presidente. Francesco Cossiga insomma fu il mattatore dell’estate ‘80. Le stragi sono collegabili a quegli eventi? Le carte di Giovannone per il momento non ci aiuteranno. Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: “Approfondite mafia-appalti!” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2020 Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti. Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro - accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio - ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. “Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti”, ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ‘92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino. Tensione durante la riunione del 14 luglio - Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del 1992 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché “alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi”. A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. “È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me - spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito”. Gozzo sottolinea che “su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia”. Il magistrato Gozzo prosegue: “Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata - perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate”. Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: “Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala - e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo - che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea”. Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: “E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”. Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: “Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”. Aveva studiato il dossier dei Ros - Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. “Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio - risponde Gozzo - perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone”. E aggiunge: “Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa”. Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise - pur non essendo titolare dell’indagine - di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché - come disse al giornalista Mario Rossi - la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi - Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. Vivere senza vita di Francesco Palmieri Il Foglio, 22 agosto 2020 La storia estrema di Raffaele Cutolo, sanguinario boss della camorra ora paralizzato dalla demenza senile, da quarant’anni in isolamento. Settantotto, cinquantacinque, trentotto è il terno fatale di Raffaele Cutolo: gli anni anagrafici, quelli vissuti in carcere e quelli di carcere duro. Non c’è premessa più esplicita e più ambigua di questi tre numeri alle parole che verranno. Esplicita, perché riassume la spaventosa biografia di un uomo che ha passato molto più tempo in prigione che fuori e più in regime di detenzione speciale che in prigione; ambigua, perché in cella il potere criminale di don Raffaele si plasmò, crebbe, decrebbe e restò ciò cui si è ridotto: mera leggenda di sé stesso. Una leggenda che spiega come mai il Tribunale di sorveglianza abbia nuovamente negato gli arresti domiciliari per motivi di salute a un uomo forse morente, senza più clan né pistole, senza sicari, privo ormai di segreti che minaccino qualcuno. Lo hanno trasferito per problemi respiratori dal carcere all’ospedale di Parma dove però, per le disposizioni dell’articolo 41bis introdotte nel ‘92, neanche la moglie Immacolata, visitandolo, l’ha potuto sfiorare. Né avrebbe potuto farlo la figlia Denise, nata tredici anni fa grazie all’inseminazione artificiale. Gaetano Aufiero, che lo assiste da venticinque anni. Colui che fu un tempo il temutissimo capo della Nco, la Nuova camorra organizzata, non è stato capace, il 7 agosto scorso, di riconoscere Immacolata Iacone, sposata nel 1983: l’ha scambiata per la cognata morta, anche se ricordava cosa aveva mangiato a pranzo e il numero dei propri (nove) nipoti. Una conversazione surreale, che secondo le prescrizioni del 41bis non è potuta durare più di un’ora, con una telecamera installata per videoregistrarla e tre uomini del Gom (il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria) attorno al capezzale di Cutolo, i quali hanno frapposto le sedie fra il letto e la moglie per evitare foss’anche un bacio o una carezza, poiché il regime differenziato proibisce ogni contatto fisico. Peggio era andato il colloquio del 22 giugno scorso, l’ultimo in cui Cutolo incontrò la figlia: dei sessanta minuti a disposizione (consentiti una volta al mese) ne furono usufruiti solamente quindici, perché la ragazza cominciò a piangere a dirotto quando il padre non la riconobbe mentre si rivolgeva alla mamma chiamandola “dottoressa”. Susciterà forse, il caso, ulteriori spunti circa l’opportunità di rivedere una norma dell’ordinamento penitenziario che nacque con intenti emergenziali e appare scricchiolante dopo le ripetute pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, fermo restando l’obiettivo di impedire le comunicazioni tra un detenuto di particolare pericolosità e la sua associazione criminale fuori e dentro il carcere. “Non metto in discussione, da avvocato, il principio del 41bis: sappiamo che un boss, persino partecipando a distanza a un processo, potrebbe mandare messaggi all’esterno. Ma perché, per esempio, limitare i colloqui con i congiunti a un’ora al mese, considerando che sono videoregistrati e si svolgono alla presenza di agenti specializzati?”, osserva l’avvocato Aufiero. “Forse dovremmo avere la schiettezza di ammettere che il 41bis può anche rappresentare una forma di tortura o fungere da dissuasivo per indurre a collaborare. Per non parlare dei casi in cui è applicato a detenuti in attesa di giudizio. E se vengono assolti? Vogliamo almeno attendere la sentenza di primo grado?”. Oggi sono circa 750, in 23 strutture sul territorio nazionale, i carcerati in regime di 41bis, del quale si valuta la proroga caso per caso ogni due anni. Si può opporre ricorso al decreto ma i tempi sono scoraggianti: l’udienza di Cutolo al Tribunale di sorveglianza di Roma è stata finalmente fissata il 13 agosto scorso per il 2 ottobre prossimo, giusto un anno dopo la presentazione dell’istanza. I 38 anni d’isolamento di don Raffaele, già al carcere duro prima che il 41bis fosse varato, sono frutto anche della volontà, più volte ribadita, di non collaborare con la giustizia e non pentirsi “se non davanti a Dio”. Chi ha scelto un’altra strada, anche fra i mafiosi più spietati, ha incontrato sorte molto più favorevole: uno per tutti il corleonese Giovanni Brusca, che pigiò il tasto del telecomando nella strage di Capaci e sciolse nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo. Gode da anni di permessi per buona condotta e tornerà libero alla fine del 2021. Cutolo invece, secondo i giudici, non solo non ha mai rinnegato le sue scelte, ma “ha mantenuto pienamente il carisma” e tuttora rappresenterebbe “un simbolo” per la criminalità che s’ispira al suo nome. Sicché il corpo fisico del camorrista par excellence sconta il mito incorporeo di se stesso. È il dramma senza tempo del prigioniero imperdonabile e della legge che s’oppone alla leggenda: la Maschera di Ferro alla Bastiglia, Cagliostro a San Leo, Napoleone a Sant’Elena, Rudolf Hess a Spandau impersonarono il Male ciascuno a suo modo. Lo impersonarono i regicidi di Umberto I di Savoia: Giovanni Passannante, che fallì l’attentato e fu fatto impazzire in una cella d’isolamento sotto il livello del mare; Gaetano Bresci, che riuscì a uccidere il sovrano, morì suicida o forse assassinato nel penitenziario di Santo Stefano, benché perennemente sorvegliato a vista come lo sono oggi i sottoposti al 41bis. Certo è che si continuerà a discutere sulla compatibilità della norma con l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per ora l’ombra leggendaria del professore di Ottaviano prevale sul suo corpo malato. Già a febbraio scorso era stato ricoverato d’urgenza per una polmonite e dice l’avvocato che “lo presero per i capelli”; adesso il responsabile del reparto detentivo dell’ospedale di Parma ha constatato uno stato di demenza senile ed è stata autorizzata la visita di uno psichiatra della difesa per i prossimi giorni. Eppure la direzione sanitaria del carcere aveva attestato di recente che il detenuto si orientava nel tempo e nello spazio, era collaborativo e presente a se stesso. Sono numerosi gli acciacchi di Cutolo. Ipertensione, prostatite, ma soprattutto i problemi alla vista e l’artrite che gli impediscono le due attività preferite: leggere e scrivere. Malgrado i ritardi con cui li riceveva, il professore era abbonato a cinque quotidiani, componeva lunghe lettere e poesie. All’apice del fulgore criminale destò scandalo, nel 1980, l’uscita di un suo libro che poi fu sequestrato: Poesie e pensieri; ne è stato pubblicato un altro nel 2019, Poesie dal carcere, ma lui non ne ha mai visto una copia perché il 41bis vieta di ricevere volumi dall’esterno. È nel destino di Cutolo bordeggiare il confine tra normalità e pazzia, presunte entrambe con perizie psichiatriche che hanno detto e contraddetto. E riuscì a evadere, restando latitante per quindici mesi, proprio dal manicomio criminale di Aversa il 5 febbraio del 1978, quando i suoi uomini gli aprirono una breccia nel muro di cinta con la dinamite. Furono circa 1.500 le persone uccise fra il 1978 e il 1983 nella guerra che scoppiò fra don Raffaele e i clan tradizionali della camorra, concepiti su base famigliare. Lui ne spiazzò gli schemi con un’organizzazione che si rifaceva all’ottocentesca Bella società riformata a gerarchia centralizzata, strutturata su un esercito di affiliati che sarebbero lievitati a settemila. Narcotraffico, estorsioni, appalti, rifiuti, edilizia, collusioni con il potere politico fecero della Nco il nemico numero uno. I vecchi clan si federarono nella Nuova Famiglia, dando corso a una faida che assunse proporzioni epiche dopo il sisma dell 1980, quando il denaro per la ricostruzione si riversò sulla Campania e banchi di piranha si tuffarono nel fiume: 265 omicidi di camorra nel solo 1982. Quegli anni sono oggi inimmaginabili al capezzale di un vecchio infermo nell’ospedale di Parma, su cui s’affollano solo fantasmi. Per ricordare il Cutolo d’allora e ridare corpo alle ombre bisogna pescare fra ritagli ingialliti. Ecco come Salvatore Maffei descrisse il super boss in un’aula giudiziaria nel 1980: “Ogni udienza del processo alla nuova camorra è un pellegrinaggio di estimatori del ‘don’: impresari di festival, ricchi industriali, umili bottegai, uomini incensurati, pregiudicati, aspiranti carcerati. Tutti, sfilando davanti al gabbione metallico, inventano espressioni radiose, salutano con enfasi, sorridendo o inchinandosi”. È inimmaginabile oggi che quest’uomo malato e poco lucido disponesse di un personale “servizio d’ordine”: “Decine di giovani aitanti, forti, dallo sguardo duro, i quali si sono schierati lungo il passaggio obbligato dalla camera di sicurezza all’aula penale tenendosi per mano con le braccia tese in maniera da formare un corridoio umano tra la folla degli ammiratori vocianti e plaudenti”. È inimmaginabile pure che esponenti dello stato, politici e latitanti si ritrovassero nel carcere di Ascoli Piceno sollecitando l’intervento del padrino per la liberazione di un assessore regionale, Ciro Cirillo sequestrato dalle Brigate Rosse, prima che rivelasse segreti imbarazzanti. La mediazione riuscì ma cominciò il declino di don Raffaele: aveva superato una soglia che non si può varcare, quella di interlocutore dello stato. Nel 1982, su pressione del presidente della Repubblica Sandro Pertini, fu isolato nel carcere dell’Asinara riaperto apposta per lui. Non è facile capire come abbia trascorso, da allora, un’esistenza che il poeta Antonio Machado avrebbe definito vivir desviviéndose. Nel 1987, per non impazzire o perché impazzito, dialogava con le mosche: “Per superare lo sconforto, la disperazione”, confidò in una lettera, “allevai una mosca. Sì, proprio una mosca e con questa inventavo dei lunghi discorsi, con domande e risposte. S’intende, ero soltanto io a parlare, per me e per la mia fedele amica mosca”. È lo stesso stratagemma di Darrell Standing, il condannato a morte protagonista di “Il vagabondo delle stelle” di Jack London: “Il tempo, intanto, non passava mai. Una vera sofferenza. Mi misi perciò a giocare con le mosche, mosche comuni che riuscivano a entrare nella penombra della cella così come faceva la luce, e mi accorsi che avevano il senso del gioco”. E questo è Cutolo: “Quando giunsi il 19 aprile 1982 nel deserto arido dell’Asinara mi chiesi quanto avrei potuto resistere in quell’atmosfera di angosciante solitudine, completamente isolato, martellato dal lentissimo trascorrere del tempo, privato anche del sollievo della lettura, stordito dall’accecante chiarore del giorno e dai cupi lunghi silenzi della notte”. Non gli giovò passare dall’Asinara al 41bis di Belluno: gli sequestrarono anche il fornelletto su cui scaldava l’acqua per le abluzioni e la camomilla. Gli restituirono vitalità l’attesa e la nascita di Denise (un altro figlio, Roberto, fu ucciso in un agguato nel ‘90). “Ma l’avrà vista una manciata di ore in tutta la vita, e in virtù delle norme al compimento del dodicesimo anno non l’ha potuta più toccare. Quando la bambina fece la Prima Comunione”, racconta l’avvocato Aufiero, “inoltrammo richiesta per una foto assieme al padre, ma l’autorizzazione arrivò che Denise era cresciuta e il vestito della cerimonia non le entrava più”. La burocrazia è severa: per anni la direzione del carcere invitò il legale a visitare Cutolo solo di domenica, affinché nel tragitto tra cella e sala colloqui non incrociasse lo sguardo dei detenuti. Cautele necessarie anche per la sorella del professore, Rosetta (considerata la “mente” amministrativa della Nco), cui durante la carcerazione era vietato scambiare il segno della pace nella messa domenicale. È il prezzo di un’epopea cruenta che seminò troppa morte (ma Cutolo, si sa, ha continuato a dire di “aver fatto del bene”). Né altri boss efferati di quegli anni né i demoniaci protagonisti delle successive faide di Scampia hanno potuto aspirare all’insano carisma di don Raffaele, tantomeno a una canzone di De André o alla pellicola di un futuro premio Oscar come Giuseppe Tornatore: i dialoghi da “Il camorrista”, ricordò Roberto Saviano in Gomorra, ispiravano chiunque coltivasse velleità di padrino. Che le tv locali ancora ritrasmettano il film è tra i motivi della scelta dei giudici: “Inalterata fama criminale”, scrivono le informative dei carabinieri. L’uomo Cutolo però non è la sua leggenda: ammesso che possa più rialzarsi dal letto e riacquisire lucidità, difficilmente saprebbe attraversare la strada. E da tempo ha rinunciato all’ora d’aria. La tortura di Stato contro Pittelli, da sette mesi in una cella senza potersi difendere di Piero Sansonetti Il Riformista, 22 agosto 2020 Giancarlo Pittelli, ex parlamentare, ex assessore, prestigioso avvocato calabrese, sta molto male. Da otto mesi è chiuso in una cella di una delle più famigerate carceri italiane, Badu ‘e Carros, vicino a Nuoro. È in isolamento totale. Non vede nessuno. Non sente nessuno. Anche l’ora d’aria deve farla da solo come un cane in un cortiletto. Persino le rare visite consentite ai familiari non ci sono, per via del Covid e del fatto che comunque Badu e Carros è più lontana di Parigi o di Mosca da Catanzaro. Giancarlo Pittelli non è stato in questi otto mesi mai interrogato dal suo Pm. Mai. Come in un famoso romanzo successe a un certo Joseph K. Una volta, una sola volta, gli hanno chiesto se volesse parlare con un giovane Pm di Nuoro, del tutto all’oscuro dell’inchiesta giudiziaria che lo riguarda. Anche questo successe a Joseph K. L’inchiesta che riguarda Pittelli è una delle famose inchieste del dottor Gratteri. Lui ha detto di no, che non voleva essere interrogato da un estraneo. Voleva il suo accusatore, voleva poter parlare con lui e a lui spiegare perché è innocente. Penso che chiunque di noi avrebbe fatto lo stesso. Beh, cominciate a capire come funzionano le cose: parlare col vostro accusatore non è un vostro diritto. L’atteggiamento della Procura di Catanzaro, il rifiuto di occuparsi del caso Pittelli (e probabilmente di decine e decine di casi analoghi) è perfettamente e formalmente legale. Tra i poteri della pubblica accusa c’è quello di far sbattere un cristiano in prigione, di metterlo in isolamento, e di tenerlo lì senza permettergli di difendersi, di spiegare, di capire, per molti e molti mesi. Anche di spingerlo al suicidio. I suicidi in carcere sono in aumento. Succedeva così anche a Joseph K., più o meno nel 1925. Voi magari potreste chiedere: ma una situazione di questo genere non è equiparabile alla tortura? Sì, sicuramente è equiparabile. Però esistono due tipi di torture: quelle illegali, che possono essere punite, e quelle legali che sono guardate con rispetto anche da gran parte dell’opinione pubblica. La tortura fu abolita in Francia un po’ più di due secoli fa, per una ragione di dottrina: si stabilì che siccome la tortura era contemporaneamente un metodo di indagine - perché serviva a far confessare l’imputato - e una punizione in atto, non era legittima. Dal momento che il diritto ha sempre immaginato che tra indagini e pena non ci possa essere confusione. Perché tenere un signore di 68 anni in prigione per otto mesi, isolato, in attesa di rinvio a giudizio e udienza preliminare, se non per indurlo a confessare e risolvere così i tanti problemi di una inchiesta che sta marciando a giornali unificati ma a prove scarsissime? Nessuno immagina che Pittelli possa fuggire, nessuno immagina che possa inquinare le prove (non ci sono prove, fin qui, tranne alcune intercettazioni piuttosto prive di valore e che comunque non possono certo essere manipolate), nessuno immagina che possa reiterare i reati. Dunque? Resta solo l’ipotesi dell’induzione a confessare. E allora più è duro il carcere meglio è. Giusto, i reati. Quali sono i reati? In origine erano tre. Rivelazioni di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio, associazione mafiosa. Poi, piano piano si sono ridotti. È caduto il reato di rivelazioni, per il quale la Cassazione ha ordinato la scarcerazione, è caduto il reato d’abuso, è caduta anche l’associazione mafiosa che si è trasformata nella mitica accusa di concorso esterno, accusa, come sapete, che si basa sulle congetture, non sulle prove. Per questo viene usata con grande frequenza. E può resistere - dal punto di vista della sua legittimità formale, non certo della logica - anche se cadono tutti i cosiddetti reati fine. Che vuol dire reato fine? Per esempio, truffa. O omicidio. O corruzione. O sequestro di persona. Ti dicono: tu partecipavi, seppur dall’esterno, a una associazione che organizzava furti, o omicidi, o truffe. In questo caso no, il reato fine non c’è: tu hai partecipato a una associazione che non aveva in programma reati, o comunque non ne aveva commessi. È probabile, anche se nel romanzo non viene mai detto (perché l’ipotesi di un reato così fantasioso, nel 1925, sfuggiva persino alla mente molto aperta del suo autore) che l’accusa a Joseph K. fosse appunto associazione esterna. Per tutte le pagine del romanzo, e per tutta la durata del processo, a Joseph K. non viene mai detto qual è il reato. Vediamo meglio nello specifico i reati imputati a Pittelli. Rivelazione di segreti d’ufficio grazie alla soffiata di un ufficiale dei carabinieri amico. Ma poi si è scoperto che il segreto era pubblico da molto tempo. Abuso d’ufficio: avrebbe ottenuto sempre da questo carabiniere l’insabbiamento di un provvedimento contro un suo cliente. Ma poi si è scoperto che questo provvedimento fu eseguito immediatamente. E infatti sia l’ufficiale dei carabinieri sia il suo cliente sono stati scagionati e scarcerati dopo sei mesi di prigione inutile. Infine concorso esterno per aver rivelato a un amico una frase pronunciata agli inquirenti da un pentito. Secondo l’accusa, Pittelli avrebbe saputo di questo pentito da un agente dei servizi segreti. In realtà questa frase, molto prima che Pittelli la pronunciasse in una telefonata intercettata, era stata pubblicata da diversi quotidiani, tra i quali Il Fatto. In questi giorni gli avvocati di Pittelli sono andati a trovarlo nel carcere di Nuoro. Dicono di averlo trovato in condizioni penose. Sta malissimo. Barcolla. È imbottito di psicofarmaci. È disperato, rassegnato alla feroce persecuzione alla quale è sottoposto in base alla legge. Parla a fatica. Dicono gli avvocati che in due ore di colloquio sono riusciti a farlo parlare davvero per non più di dieci minuti. L’unico strumento di comunicazione con l’esterno che Pittelli possiede è il telegramma. A me ne ha mandato due recentemente. Tre parole: “Aiutami, ti prego”. Noi ci conosciamo appena di vista. Ci saremo visti un paio di volte quando lavoravo in Calabria. Si rivolge a me, Pittelli, perché è stato lasciato solo da tutti… Abbandonato. I suoi avvocati ora tentano una mossa che forse è l’unica possibile. Hanno chiesto il rito abbreviato. Rinunciano a molte garanzie che spettano alla difesa ma almeno, finalmente, potranno portarlo davanti a un giudice, e lui potrà riottenere il diritto di parola. È indegna questa situazione. Mi rivolgo ai capi dei partiti democratici. Tutti: di destra e di sinistra. Berlusconi, Renzi, Zingaretti, Speranza, Salvini, Meloni: voi pensate che la civiltà possa guadagnarne dalla decisione delle forze politiche di abbandonare nelle mani dei Pm un proprio esponente e di permettere che sia torturato, e forse spinto alla morte? Non mi rivolgo al vostro senso di umanità, semplicemente a un ragionamento freddo: se permettete che questo succeda, sappiate che avete lasciato la porta spalancata allo sterminio della politica. E del Diritto. Campania. Candidati, dimostrate che del carcere vi interessa qualcosa di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 22 agosto 2020 La condizione dei detenuti in Campania è drammatica, ma la politica di casa nostra continua a fare spallucce. La Regione deve contribuire a rendere dignitose le prigioni: c’è spazio, per questo tema, nei programmi elettorali? Un’altra estate infernale nelle carceri italiane. Un’ennesima violazione delle regole minime da rispettare nei confronti di persone affidate allo Stato, che dovrebbe farsi carico del loro recupero. Al sovraffollamento, alle carenze igienico-sanitarie, al calore insopportabile, contro il quale non esistono rimedi, perché gli spazi sono angusti e l’aria che circola è minima, quest’anno si è aggiunta la solitudine dovuta al Covid-19, con l’eliminazione e successiva drastica riduzione dei colloqui con i familiari e delle già minime attività educative. Una costante violazione di norme e principi costituzionali, che interessa l’intera nazione e che, in Campania, vede il 37% delle stanze dei detenuti privo dei servizi igienici essenziali; il carcere di Santa Maria Capua Vetere, costruito nel 1996, dopo 24 anni, ancora senza rete idrica; il padiglione Roma di Poggioreale, dove convivono 14 detenuti e un solo finestrino. Quanto alla funzione “rieducativa” della pena, la stessa, in epoca pre-Covid, era affidata a un educatore ogni 100 detenuti, percentuale che può far comprendere cosa è accaduto in questi anni, nei mesi scorsi e con il caldo di questi giorni. Abbandonati e ammassati nelle loro stanze - “stanze” di pernottamento e non celle sarebbe bene ricordarlo sempre, perché luogo del riposo, mentre il resto della giornata dovrebbe vederli all’esterno impegnati - i detenuti affrontano quest’ulteriore ingiusta sofferenza a cui vengono sottomessi: l’insopportabile e invincibile afa, non prevista dal codice penale né come pena principale né accessoria. Se ne rese conto l’anno scorso, nella simbolica visita del 15 agosto a Poggioreale, un politico locale che “scoprì” che le stanze di pernottamento erano prive di aria condizionata e di ventilatori e, evidentemente impietosito dallo spettacolo disumano che era davanti ai suoi occhi, si impegnò personalmente per far donare all’istituto un cospicuo numero di ventilatori. Non è mai troppo tardi e quel gesto fu molto apprezzato da quei detenuti - pochi - che videro la brezza meccanica rinfrescare i loro corpi. Gli altri, giustamente indispettiti dalla disparità di trattamento, non compresero la nobiltà del gesto e patirono un’ulteriore vessazione. Alla vigilia dell’appuntamento elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale, le carceri della Campania stanno vivendo uno dei momenti più drammatici dal punto di vista sanitario e non solo. Aumentati i detenuti con sindromi di ansia e depressione, con malattie cardiovascolari, con disturbi gastroenterologici, con infezioni. Ridotto drasticamente il personale. Situazione che ha fatto accrescere il numero dei decessi e dei suicidi. Dinanzi a questa tragedia la politica è, come sempre, assente e ignora l’importanza che avrebbe l’impegno per un carcere finalmente “diverso” e strutturato così come previsto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. Sarebbe davvero civile che, nel dibattito pre-elettorale, si affrontassero anche i temi dell’esecuzione penale e della detenzione e i candidati - almeno quelli degli schieramenti che dovrebbero avere nel loro dna la tutela dei diritti dei più deboli - facessero comprendere che quei principi scolpiti nella nostra Carta sono non solo inviolabili, ma funzionali alla crescita del Paese. Un individuo condannato o in custodia cautelare, a cui non viene data la possibilità di scontare la pena ovvero la misura inflitta con la dignità che gli spetta, sarà, nella maggior parte dei casi, irrecuperabile. Avrà sempre un senso di astio verso lo Stato, che vedrà come nemico, e non avrà gli strumenti per modificare la sua condotta. Un Paese, invece, ligio alle regole che si è dato e rispettoso nei confronti di tutti i suoi cittadini, ivi compresi quelli colpevoli o ritenuti colpevoli di atti illeciti, saprà costruire un futuro migliore per tutti, perché insegnerà che la “persona” è sacra, sempre e per sempre. Auguriamoci, dunque, che i candidati, oltre a stampare enormi manifesti con volti non sempre rassicuranti, oltre a partecipare a cene e banchetti “in maschera” anti-Covid, oltre a infoltire il numero dei loro elettori a qualunque costo, a volte sacrificando proprio quella dignità a noi cara, oltre a promettere segreti e indicibili accordi, possano dedicarsi anche a un programma elettorale in cui trovi spazio il tema sempre sottovalutato della illegalità degli istituti di pena. La Regione può fare molto per il carcere, in materia di sanità, di lavoro, delle stesse condizioni di vivibilità all’interno degli istituti. Ridiamo almeno decenza alla detenzione e rispettiamo le persone, anche quelle in carcere, perché questo ci è stato insegnato. Non è della carità di un ventilatore che vi è bisogno né di visite per conoscere quello che tutti sanno, ma di una seria politica lungimirante e colta. Da napoletano sarei orgoglioso che la mia Regione mettesse nel suo programma di governo uno dei principi fondanti della nostra Costituzione. *Avvocato - Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Umbria. Rems, nella Regione servono residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza umbriajournal.com, 22 agosto 2020 La richiesta di Bori (Pd) per “migliorare il sistema detentivo. “La Regione si faccia promotrice di un accordo inter-istituzionale mirato alla realizzazione di “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems) da destinare alla popolazione carceraria umbra affetta da disturbi psichici”: è quanto chiede alla Giunta regionale il capogruppo del Partito democratico a Palazzo Cesaroni, Tommaso Bori, annunciando un atto formale e sottolineando come “tra le criticità più sentite dagli agenti di Polizia penitenziaria, dal personale sanitario e dagli stessi detenuti e detenute che ho avuto modo di incontrare nel corso della mia recente visita alla Casa circondariale di Capanne, c’è quello della gestione e della prevenzione degli eventi collegati ai problemi psichiatrici che, a vario titolo, e in diverse forme, affliggono quasi un terzo della popolazione carceraria”. Il consigliere Tommaso Bori (capogruppo Pd) auspica che la Giunta di Palazzo Donini “si faccia promotrice di un accordo inter-istituzionale mirato alla realizzazione di ‘Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems) da destinare alla popolazione carceraria umbra affetta da disturbi psichici’. Bori, dopo la recente visita al carcere di Capanne, ritiene che “una delle criticità più sentite dagli agenti di Polizia penitenziaria, dal personale sanitario e dagli stessi detenuti” sia “la gestione e la prevenzione degli eventi collegati ai problemi psichiatrici”. “Al fine di evitare l’insorgere di acuti ed episodi che arrivano anche mettere a repentaglio la sicurezza degli operatori e degli stessi detenuti - continua Tommaso Bori - serve un intervento strutturale che porti anche l’Umbria a dotarsi di luoghi in cui dare adeguata esecuzione alle misure di sicurezza detentiva, disposte dalla magistratura, con l’assegnazione a casa di cura e custodia. Gli oltre 650 eventi critici gestiti nell’arco dell’ultimo anno - prosegue il consigliere Pd - stanno a dimostrare che serve una rinnovata attenzione a questo tema, così come sulle altre criticità che affliggono le nostre carceri. Se il problema del sovraffollamento si pone, oggi, in maniera meno emergenziale - sottolinea il capogruppo Dem - la problematica del sotto organico degli agenti di polizia penitenziaria merita di essere affrontata con tutti gli strumenti a disposizione. Così come è un dovere per le istituzioni regionali fare in modo che si promuovano maggiori occasioni e nuovi progetti di rieducazione, formazione e lavoro, interno ed esterno al carcere, anche in collaborazione con le amministrazioni comunali, perché investire nel recupero e nel reinserimento dei detenuti è un dovere, un segno di civiltà ma anche un investimento per la sicurezza”. “Negli ultimi anni - ricorda Bori - l’Umbria è stata in grado di lanciare alcuni segnali di civiltà al sistema detentivo, come nel caso degli spazi di preghiera per detenuti di fede islamica presso il carcere di Terni o con progetti di educazione e formazione a Spoleto, fino alle attività agricole svolte a Capanne. Le istituzioni regionali e provinciali hanno stanziato negli ultimi anni fondi per importanti progetti formativi, rivolti anche ai minorenni, e per il sostegno a iniziative di reinserimento lavorativo, come il progetto agricolo e l’officina creativa di produzione tessile a Capanne di Perugia, che, oggi, riuscirà a produrre maglie per la stessa Polizia penitenziaria. Serve dunque proseguire in questa direzione - conclude il capogruppo - e l’appello che rivolgo alla Giunta è quello di portare avanti azioni concrete che migliorino la qualità del sistema detentivo perché, mutuando le parole di Voltaire, oltre che è un dovere morale, è proprio dalle nostre carceri che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Palermo. “Sei morto, anche se sei vivo”. L’estate tremenda del carcere di Roberto Puglisi livesicilia.it, 22 agosto 2020 La notizia, tra le paure e i desideri di un anno difficile, è passata sotto silenzio, ma, forse, sarebbe accaduto lo stesso in tempi più normali. Eppure, l’agenzia Ansa l’ha diligentemente riportata giovedì scorso. Eccola: “Roberto Faraci, detenuto di 45 anni, ieri si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola nella cella del carcere Lorusso di Pagliarelli di Palermo. Faraci era stato arrestato per maltrattamenti in famiglia. L’uomo ha approfittato dell’assenza del compagno di cella per togliersi la vita. Le guardie penitenziarie sono intervenute insieme ai medici, ma non c’è stato alcunché da fare. La Procura ha disposto l’autopsia. È il secondo detenuto che si toglie la vita in una settimana: Emanuele Riggio era stato arrestato agli inizi di giugno accusato di stalking e violenze nei confronti della moglie. Anche lui lo scorso 11 agosto si è suicidato, impiccandosi, nella sua cella del carcere Pagliarelli di Palermo”. Non se n’è accorto quasi nessuno. Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, che da anni si batte affinché i detenuti siano riconosciuti quali esseri umani nei pensieri di tutti, si è ribellato all’ineluttabile. E ha scritto una nota. “Due suicidi in una settimana? al carcere palermitano di Pagliarelli ed uno al carcere di Caltagirone - si legge. Tre detenuti in attesa di giudizio. Siamo al mare o in vacanze e siamo ‘disturbati’ da queste? notizie. A chi può? interessare la morte di tre persone che sono finite in galera, ‘se la sono voluta’ è? la frase più? elegante. Il disagio nelle carceri non è? solo ‘un problema loro’, è? un problema di tutta la società che ha la responsabilità di tutelare la vita di tutti. I detenuti riconosciuti colpevoli? devono scontare la pena in condizioni di vita dignitose. La? detenzione non deve? trasformarsi in tortura psicologica come in un girone? dell’inferno dantesco”. E ancora: “Detenuti e popolazione carceraria, compresa la Polizia? Penitenziaria, fra l’altro, hanno sopportato più? degli altri l’isolamento anche dai propri familiari durante il periodo dei divieti per evitare i contagi, ma il Covid-19 è? entrato in molte carceri mietendo vittime non solo fra i detenuti, ma anche fra la Polizia Penitenziaria e qualche? medico. Va istituito il garante comunale in ogni territorio dove esiste un carcere. A Palermo, il Comitato “Esistono? i Diritti” con il suo presidente Gaetano D’Amico,? già? da tempo, lo chiede e in Consiglio Comunale presto ne approverà? il regolamento”. “Un muro di indifferenza” Pino Apprendi, Gaetano D’Amico, con la sua lunga militanza radicale: sono tra i pochi che si occupano della questione. Gli altri voltano la testa dall’altra parte. Il carcere è considerato un non luogo, dove ci sono non persone. Anche i più illuminati non se ne curano. Con il suo carico di sofferenze, speranze e umanità, è il tappeto che copre la polvere. Pino, raggiunto al telefono, è stanco. È arrabbiato: “No, questi morti non raggiungono l’attenzione. La società considera il detenuto un morto, anche se è vivo. Ma quanto lavoro si fa per recuperare chi è dentro, con fatica, con impegno. C’è un muro di indifferenza difficile da scalare”. Il racconto del prof - Eppure, chi ha conosciuto le ombre che abitano nelle celle sa quanto sia preziosa l’esistenza che scorre. Raccontava il professore Giovanni Mancino che ha insegnato nel non luogo: “Cosa mi chiedevano questi alunni così particolari? Di essere i loro occhi. ‘Professò, è estate. Come è Mondello?’. ‘Professò, Ballarò sempre la stessa è? Lì c’è casa mia’. Una volta ho prestato un libro a uno studente. Dopo un mese me l’ha ridato e mi ha mostrato il quadernone dove, capitolo per capitolo, aveva ricopiato tutto”. Ma questi sono solo i racconti di una minoranza di anime sensibili. È estate, dopotutto. In carcere si continua a morire, talvolta, anche se sei vivo. Bologna. Detenuto con la Tbc. L’uomo, molto infettivo, è stato messo in isolamento Il Resto del Carlino, 22 agosto 2020 Non basta l’emergenza Covid a tenere in allarme il carcere della Dozza. Dove, qualche giorno fa, a un detenuto nordafricano che da giugno si trovava ristretto nel reparto di infermeria è stata diagnosticata la Tbc, in uno stadio molto infettivo. L’uomo è stato subito isolato dagli altri detenuti: intanto però i cinquanta operatori che sono venuti a contatto con lui sono stati sottoposti a controllo e alla necessaria profilassi. La questione ha ovviamente causato preoccupazione tra il personale di polizia penitenziaria che, sull’altro fronte Covid, lamenta anche di “essere stato sottoposto, in 7 mesi, a un solo sierologico”, come spiega la Cgil. Padova. I detenuti-allievi pronti a ricordare la docente morta in Sardegna di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 22 agosto 2020 Non è facile accettare il fatto che, da un momento all’altro, Antonella, una donna forte, solare e sportiva, se ne sia andata. Non è facile soprattutto per il marito Daniele Bellemo, i figli Gianluca e Silvia, la mamma Claudia e il fratello Giampaolo. La famiglia sta vivendo momenti di grande dolore. “Daniele e i due ragazzi sono ancora in Sardegna, non torneranno certamente prima di lunedì o martedì prossimo”, dice il fratello Giampaolo, “So che hanno chiesto il permesso alla Capitaneria di porto di poter andare nel luogo della tragedia e gettare un mazzo di fiori in mare. Stanno aspettando l’ok, è un modo per salutare Antonella”. La cinquantaquattrenne che si è sentita male mentre stava facendo ciò che più le piaceva, le immersioni, era molto conosciuta in città. Oltre ad avere lo studio professionale da commercialista in piazza Eremitani, aveva insegnato per anni in diverse scuole cittadine, dal Valle, al Duca D’Aosta, all’Einaudi, al Gramsci. Ed è proprio da docente di quest’ultimo istituto che, quest’anno, era andata a insegnare Diritto in carcere. “Era contentissima di questo nuovo incarico. La appassionava molto”, ricorda il fratello. Nella casa di reclusione Antonella era ben voluta da tutti i detenuti-allievi tanto che questi, non appena hanno appreso la tragica notizia, hanno manifestato tutto il loro dispiacere. “Sono rimasti molto male per quello che è accaduto e mi hanno manifestato la volontà di ricordare in qualche modo Antonella Picello, magari con un cuscino di fiori durante il funerale oppure scrivendo una lettera da leggere in quell’occasione”, dice Claudio Mazzeo, direttore del Due Palazzi. La data dell’ultimo saluto ad Antonella non è ancora stata fissata. E, prima di organizzare il funerale, bisognerà attendere l’autopsia e il trasferimento della salma. Quasi certamente la cerimonia verrà celebrata nella chiesa parrocchiale della famiglia Picello, la chiesa di San Nicolò. Intanto, in queste ore, nella pagina Facebook della donna si susseguono messaggi di cordoglio. “Siamo rimasti senza parole. Sei stata una persona straordinaria, hai dato forza ai detenuti che avevano perso la speranza. Resterai sempre nei nostri cuori”, scrive Danilo. “Non sarà più niente come prima senza di te. Un modo lo troveremo, prima o poi, tutti noi, per rimettere insieme i pezzi. Grazie per tutto quello che mi hai dato e che mi hai insegnato Antonella. Sei speciale e sarai una stella speciale dell’universo”, scrive Alessandra. Bergamo. Don Resmini A Sorisole 5 mesi dopo di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 22 agosto 2020 Nella comunità del sacerdote morto 5 mesi fa: “Il legame col carcere continuerà”. “Non c’è persona che possa sostituirlo in tutto: da subito ci siamo suddivisi i compiti con i suoi collaboratori”. Da fine luglio don Dario Acquaroli ha raccolto il testimone lasciato da don Fausto Resmini (foto) alla Comunità Don Milani di Sorisole. Il sacerdote, morto cinque mesi fa di coronavirus, sarà ricordato oggi e domani con due messe. La volontà della Comunità è di portare avanti tutti i suoi progetti, anche quelli rimasti in sospeso, oltre alla collaborazione col carcere. Don Acquaroli sta anche lavorando a una tesi basata sull’esperienza di Sorisole. E comunque don Fausto è dappertutto. Penzola, accanto all’ingresso della comunità, lo striscione che gli ha dedicato la Curva Nord. In quello che era il suo studio restano i libri, gli armadi stranamente ordinati perché lettere, relazioni e appunti accumulati negli anni sono stati subito archiviati. C’è una grande fotografia incorniciata alla parete: alle spalle del sacerdote si intravedono i volti di due migranti. Nella chiesina don Dario Acquaroli mostra la frase scolpita nel legno, una sorta di testamento spirituale. E poi indica una finestrella interna. È una stanza che si affaccia verso l’altare, la “sua” stanza, dove don Fausto Resmini si ritirava finiti i giri in stazione e ripartiva al mattino per i colloqui in carcere. È anche il luogo degli ultimi giorni a Sorisole. Positivo al coronavirus, è morto in ospedale a 67 anni la notte del 23 marzo. Oggi alle 18, al Patronato di via Gavazzeni, e domani alle 10.30 alla comunità Don Milani saranno celebrate due messe per ricordarlo. È stato fatto ogni mese, ma per la prima volta le cerimonie sono state pubblicizzate. “Continuavamo a ricevere telefonate, così, vista anche la coincidenza con il weekend, abbiamo pensato di segnalarlo”, dice don Acquaroli, a fine luglio nominato direttore della Don Milani. A 32 anni raccoglie un testimone importante. Cappellano del carcere, prete degli ultimi, instancabile tessitore di relazioni a tutti i livelli, don Resmini teneva saldo il filo dell’accoglienza a Bergamo. “Ce ne siamo resi conto anche dalle testimonianze dopo la sua scomparsa”, spiega don Acquaroli, che su questo vuoto da colmare sta costruendo una tesi di laurea. È al quinto anno del corso magistrale in Progettazione e gestione degli interventi socioeducativi all’Università salesiana di Venezia. “Una scelta maturata anche con la spinta di don Fausto, era convinto che servisse preparazione — precisa —. Per la comunità si apre una riflessione enorme. Ho pensato allora di approfondire il tema di come portare avanti un gruppo quando viene a mancare il punto di riferimento”. Per lui don Fausto lo era da 11 anni, quando da seminarista fu mandato a Sorisole a dare una mano con i compiti. “Non mi era minimamente piaciuto. Non riuscivo a spiegarmelo, perché tutti parlavano bene di questa realtà. Chiesi di tornare e don Fausto mi mise tre settimane in stazione. Eravamo agli antipodi, io e lui. Poi, ha ribaltato tutto”. Sono cominciate le messe animate con la chitarra in carcere e il nodo si è stretto fino all’incarico di tre anni fa come vice e responsabile dell’area per i minori. “Per portare avanti un gruppo che ha perso il suo punto di riferimento ci si deve muovere su due linee: la gratitudine e scoprire quali sono le eredità lasciate”. Per quanto riguarda la prima il sacerdote esprime “l’enorme gratitudine verso gli educatori e i coordinatori, che hanno continuato a svolgere un lavoro che si basa fondamentalmente sulla relazione anche in un periodo di paura e incertezza, quando nemmeno noi sapevamo dare risposte”. Quanto all’eredità di don Fausto, “nonostante non fosse più così operativo, non c’è persona che possa sostituirlo in tutto: da subito ci siamo suddivisi i compiti con i suoi collaboratori”. Gli “storici”, quelli che con don Fausto erano un trio fin fai tempi della scuola, sono Luigi Zucchinali e Oliveto Salvatore. Poi ci sono i coordinatori del Servizio Esodo in stazione, dell’accoglienza dei neo maggiorenni, oggi una quindicina, dei richiedenti asilo (30) e dei minori (18), un’ex emergenze. “Anche per via del Covid gli arrivi dei minori non accompagnati sono calati, l’ultimo è stato un somalo, 17 anni, 2 di viaggio. Ha perso il fratello in mare”. La volontà è di portare avanti anche i progetti rimasti in sospeso, come il forno a Lallio, un tempo del nonno di don Acquaroli, e la cascina di don Roberto Pennati a Redona. L’idea è realizzare progetti di reinserimento per ex detenuti: “Continueremo a metterci a disposizione del carcere”, assicura don Acquaroli. Napoli. Curare il quartiere: così 12 giovani scontano la pena di Viviana Lanza Il Riformista, 22 agosto 2020 Al via Marinella e gli Aquiloni, progetto ideato per i ragazzi ammessi all’esecuzione penale esterna: fino a ottobre si dedicheranno alla zona Mercato-Pendino. Dodici giovani, con alle spalle storie difficili e problemi con la giustizia e davanti un’alternativa di futuro diversa, sono i protagonisti del progetto Marinella e gli Aquiloni che prenderà il via lunedì presso la sede della Onlus Obiettivo Napoli in via Cosenza, nel capoluogo campano. Si tratta di giovani sottoposti al regime alternativo della esecuzione penale esterna che avranno, da lunedì, la possibilità di partecipare a un progetto di grande valore in cui la formazione tradizionale sarà affiancata da un percorso on the job che durerà fi no a ottobre con lezioni sia in aula sia in cantieri esterni nella zona Mercato-Pendino. Una zona della città scelta non a caso. Il progetto, nato in via sperimentale lo scorso anno da un’idea dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, consente di dare una motivazione diversa a chi è sottoposto a questo regime alternativo e di migliorare aree soggette a degrado urbano”, spiega Argia Di Donato, avvocato e presidente di Nomos Movimento Forense, una delle associazioni che partecipano alla realizzazione del progetto. L’iniziativa vede impegnati, oltre all’Ufficio esecuzione penale esterna per la Campania, anche il Dipartimento per la giustizia minorile, enti pubblici, enti morali, enti del terzo settore, scuole, la seconda Municipalità di Napoli e la Consulta delle associazioni e delle organizzazioni di volontariato che insieme formano la “rete di Marinella”. L’idea di fondo è quella del reinserimento in un’ottica riparativa, anche attraverso la riqualificazione di luoghi della comunità. L’obiettivo è consentire ai dodici giovani di acquisire competenze, o rafforzare quelle possedute da ciascuno, e rendere possibile il reinserimento lavorativo e più in generale la risocializzazione. L’edizione 2020 si svolgerà, inoltre, con particolare attenzione ai protocolli di sicurezza anti-Covid. “Siamo una rete informale composta da amministratori del territorio, educatori, insegnanti, assistenti sociali, mediatori culturali e linguistici, psicologi, sacerdoti, associazioni, enti, istituzioni - spiegano gli organizzatori - Tutti noi abbiamo un comune vivo interesse perché il territorio in cui viviamo o lavoriamo sia un ambiente positivo, accogliente, nutriente”. Il quartiere Mercato è in una zona della città ricca di scambi economici, facilitati dalla rete delle comunicazioni e dalla vicinanza al mare e su cui insistono le attenzioni di molteplici istituzioni. Una zona dalla grande tradizione storico-culturale, densamente popolata ma sprofondata in un progressivo degrado ambientale e sociale, aggravato dalla crisi-Covid e segnalato a più voci dai cittadini che, però, non sono riusciti ancora a diventare attori del cambiamento. Anche per questo il progetto Marinella e gli Aquiloni si presenta come un progetto ambizioso, che mira a contrastare lo scollegamento degli enti e delle associazioni che operano sul territorio e promuovere la reciproca conoscenza (una mappatura attiva) e l’interazione su comuni interessi (l’ambiente, il lavoro) per favorire una fitta rete di interconnessioni che possa sviluppare azioni positive a favore dei cittadini, integrando i cittadini stessi anche avvalendosi di quelle persone in “area penale” che possono dare un forte senso di riscatto e di risarcimento al loro operato”. Gorgona (Li). “Ulisse o i colori della mente”, in scena detenuti-attori della Casa di reclusione primafirenze.it, 22 agosto 2020 Offrire ai detenuti un’esperienza fondata sulla comunicazione sociale attraverso i linguaggi della scena: questo l’obbiettivo del laboratorio di teatro e musica “Il teatro del mare”, che dallo scorso settembre coinvolge i detenuti - attori della Casa di reclusione dell’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Il primo spettacolo s’intitola “Ulisse o i colori della mente” e andrà in scena sabato 5 e domenica 6 settembre a Gorgona. I due appuntamenti sono aperti al pubblico. Prenotazione obbligatoria entro venerdì 28 agosto via mail all’indirizzo pubblico@tparte.com. Gli interessati devono indicare nome, cognome, luogo e data di nascita e allegare copia della carta d’identità. Tutti i dettagli - Partenza alle 8 di mattina dal porto di Livorno con il traghetto Superba, durata del viaggio 70 minuti, spettacolo alle ore 11, a seguire pranzo a buffet sulla terrazza dell’istituto. Al pomeriggio incontro con gli artisti e possibilità di visitare l’isola. Ripartenza per Livorno alle ore 18. Costo 25 euro comprensivo di viaggio, spettacolo e pranzo a buffet. Lo spettacolo si svolgerà sotto forma di corteo itinerante e avrà il suo finale nel porticciolo dell’isola. Il laboratorio “Il teatro del mare” è condotto da Gianfranco Pedullà, direttore del teatro delle Arti di Lastra a Signa, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini all’interno del progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona. Informazioni per il pubblico: Compagnia Teatro Popolare d’Arte - Tel. 055 8720058 - 331 9002510. Ciak: si gira la mafia di Piero Melati La Repubblica, 22 agosto 2020 Tranne nobili eccezioni, il cinema italiano (a differenza di quello Usa) ha raccontato Cosa nostra con schematismi e cliché. Ora un libro mette settant’anni di finzioni sotto maxiprocesso. Oggi il fenomeno della “mafia immaginaria”, come vedremo, è stato finalmente codificato in un libro. Ma non sapevamo ancora cosa fosse quando, un bel mattino del 1984, fece la sua prima apparizione dentro la redazione palermitana del realissimo quotidiano L’Ora. Era un anno siciliano orribile tra i tanti. Lo scrittore Giuseppe Fava era stato ucciso a Catania in gennaio. Il pentito Tommaso Buscetta stava iniziando a “cantare”: le sue rivelazioni avrebbero portato prima, in settembre, all’emissione di 366 mandati di cattura e poi alla terribile estate dell’85 e al successivo Maxiprocesso a Cosa Nostra. La guerra di mafia, iniziata nel 1979, era ancora in corso. I cronisti lavoravano su tre, quattro ammazzati al giorno. Eppure quel mattino la troupe del regista Giuseppe Ferrara, affiancato da un giovanissimo Peppuccio Tornatore, decise di fare irruzione nella sede del giornale, pretendendo di girare alcune scene di Cento giorni a Palermo, il film dedicato alla tragedia del generale Dalla Chiesa. E, mentre le macchine da scrivere fibrillavano per chiudere il numero del giorno (L’Ora era un quotidiano del pomeriggio) la troupe aspirava a imbarcare la redazione in una macchina del tempo, per tornare indietro ai fatti narrati dalla pellicola. Fu una scena surreale. Ancora non lo sapevamo, ma dopo il boom del cinema “civile”, che fu seguito da un omertoso silenzio, quel giorno era destinato ad aprire un’era nuova. In una manciata d’anni quella sparuta troupe sarebbe diventata lo sterminato esercito del mafia-movie. Da allora l’immaginario, in tema di mafia, avrebbe sostituito la realtà. I simboli avrebbero schiacciato i fatti. La pellicola Cento giorni a Palermo sarebbe uscita nella primavera successiva ma ricostruiva gli avvenimenti di due anni prima. Dentro la sede del giornale L’Ora il regista voleva mettere in scena le telefonate che nella vita reale avevano rivendicato, da parte di Cosa Nostra, “l’operazione Carlo Alberto”, condotta appunto nell’82, con cento morti in pochi mesi, e culminata, il 3 settembre, nella strage di via Isidoro Carini, dove caddero il prefetto, la moglie Emanuela Setti Carraro, l’agente Domenico Russo. Le telefonate, che all’epoca erano state realmente raccolte dai cronisti, dovevano essere sceneggiate per entrare nel film, che aveva come protagonisti Lino Ventura e Giuliana De Sio. Una volta confezionato il numero del giornale - con le notizie vere, o almeno verosimili - si dovette inscenare la finzione. Ciak, si gira la mafia in redazione. L’umore, da parte dei giornalisti, non era collaborativo: “Qui si muore veramente e questi fanno cinema”. Si verificò anche un incidente diplomatico: i cronisti palermitani, si scoprì, non parlavano con i cliché dialettali. Pessima cosa, per i rigidi canoni di un film girato in Sicilia, stabiliti da lunga tradizione (dal Sasso in bocca a Confessioni di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica): i siciliani devono parlare siciliano. E così si dovette doppiare il parlato, per introdurvi le inflessioni usate nelle commedie erotiche di Lando Buzzanca. Il dettaglio del doppiaggio, come la stessa discrasia temporale, rivelano bene il cuore del problema. Una cosa è la vita reale, ben altra la sua rappresentazione. Farle specchiare genera sempre garbugli. Per questo il critico cinematografico Emiliano Morreale ha deciso di titolare La mafia immaginaria le sue 311 pagine edite da Donzelli su Settant’anni di Cosa Nostra al cinema, dal 1949 al 2019. Si tratta di un lavoro importante su un genere popolarissimo che, pur avendo prodotto chilometri di pellicola, non aveva inspiegabilmente una sua “summa”. Ma attenzione, avverte l’autore: in questa lunga avventura che è stata il mafia-movie è di cinema che si sta parlando. La mafia, quella vera, ci sta semmai per quel che non si è detto, oppure non si è riusciti mai a rappresentare. Spiega Morreale: “I lapsus di questo genere cinematografico ci diranno di più - sul cinema italiano e su come ci rappresentiamo la storia del Paese - di quanto questo genere ci racconti davvero della mafia”. Il libro, peraltro, rilegge anche lo stesso Cento giorni a Palermo: al di là degli equivoci sul set, il prodotto fu un’assoluta opera prima. Con quel film venne lanciato il sottogenere che si rivelerà poi il più sfruttato, quello degli “eroi antimafia”. Tutta questa storia inizia con un paradosso. Nel 1949 il regista Pietro Germi fa scoprire all’Italia la Sicilia, girando nell’isola In nome della legge. L’opera solleva un vespaio: da sinistra la si accusa di fare l’occhiolino ai boss, dal fronte moderato il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone invoca la censura, sostenendo che “la mafia non è più di attualità” e quindi non va trattata. Il 9 maggio di quell’anno il Parlamento è quasi costretto ad interrompere la maratona per approvare il Patto Atlantico, pur di occuparsi del caso. Prende la parola il sottosegretario allo Spettacolo, il giovane Giulio Andreotti, che 44 anni dopo sarà processato a Palermo per concorso esterno alla mafia. Andreotti difende il film a spada tratta: “È un atto di fantasia, non un’opera documentaria”. In aula scoppia il pandemonio. Andreotti, il futuro Divo del film di Paolo Sorrentino, l’uomo che verrà accusato di avere vasato il carnefice di Cosa Nostra Totò Riina, viene contestato alla Camera come “calunniatore della Sicilia”. Da allora sarà sempre commedia degli equivoci. Fino ai giorni nostri. Nel 2003 il Comune siciliano di Villabate decide di conferire la cittadinanza onoraria all’attore Raoul Bova, volto televisivo di un altro “eroe antimafia”, il Capitano Ultimo, che vive tuttora mascherato per avere arrestato Totò Riina. Ma premiare l’attore che l’ha interpretato non sarà anche celebrare il suo alter ego reale? Quesito inquietante. Il presidente del Consiglio comunale Francesco Campanella non ci dorme la notte. Non volendosi accollare responsabilità si rivolge al capomafia di zona, “il signor Mandalà”. Quest’ultimo, a sua volta inquieto, vista la delicatezza della camurria, preferisce far giungere un messaggio fin nel covo segretissimo del superlatitante Bernardo Provenzano, divenuto allora il capo indiscusso di Cosa Nostra (neanche a farlo apposta) in virtù dell’arresto di Riina da parte di Capitano Ultimo-Bova. Lo zio “Binnu” emette una sconcertante sentenza: questa “sceneggiata” s’ha da fare. Come cambiano i tempi. Il libro di Morreale rivela che a un certo punto la mafia decise di autoprodurre il suo kolossal. Altro che Padrino di Coppola. A firmarlo è Giuseppe Greco, il figlio del capo della Commissione di Cosa Nostra don Michele, inteso “il Papa”. Greco junior, in verità, di film ne ha fatti tre, con lo pseudonimo di Giorgio Castellani. Il primo dell’81, dove fu sceneggiatore, è finito dentro gli atti del Maxiprocesso di Palermo, per via di una Mercedes prestata al set direttamente dal potente esattore andreottiano Nino Salvo. Si intitolava Crema, cioccolata e... paprika, con Renzo Montagnani, Barbara Bouchet, Giorgio Bracardi, Franchi e Ingrassia. Il secondo, Vite perdute, lo ha girato con gli attori di Mery per sempre e Ragazzi fuori. Ma il terzo, approvato direttamente dal padre-Papa della mafia, è il più importante: I Grimaldi, saga familiare girata in quell’ex feudo Favarella, dove don Michele invitava effettivamente magistrati, politici e aristocratici per battute di caccia a cavallo degne della corte di Versailles. In pellicola, l’attore Adriano Chiaramida, che interpreta “il Patriarca”, ha la voce di Peppino Rinaldi, il doppiatore italiano di don Vito Corleone. Senza rimpianti, stermina una gang di novelli narcos, in nome degli “antichi valori”, dinanzi ai quali anche il giudice del film deve capitolare: “È gente coriacea, questa, di stampo antico”. La stoffa del Patriarca è tutta in una battuta rivolta al nipote: “E tu pensi che tuo nonno si lasci intimorire da quattro stiddari di merda?”. La Rai, al contrario, nel ‘62 si era lasciata intimorire da Dario Fo e Franca Rame: la coppia venne cacciata alla quinta puntata di Canzonissima, per una scenetta ironica sui sindacalisti siciliani uccisi dalla mafia. Lo stesso anno uscì l’epocale Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Sullo sfondo, la strage di Portella della Ginestra. L’intento del regista era quello di denunciare le oscure trame annidate dietro la figura del mitico bandito. Ma lo scrittore Leonardo Sciascia resterà perplesso. Casualmente vede il film in mezzo a una platea di contadini siciliani e si accorge, con sgomento, che questi si commuovono alle gesta del leggendario bandito. Non basta. Poco dopo lo stesso Sciascia andrà a vedere Il mafioso di Alberto Lattuada con Alberto Sordi. “Di fronte a questo film” scrive amareggiato l’anno dopo “siamo presi dal dubbio se il continuare a parlare di mafia non finirà col renderle quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio”. Sciascia stesso sarà vittima di analogo garbuglio. Quando Damiano Damiani, nel 1968, manderà nelle sale il lavoro tratto dal suo Il giorno della civetta, gli spettatori acclameranno con grida di approvazione il famoso discorso del mafioso don Mariano Arena sulle categorie umane (uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo, quaquaraquà) dimenticandone completamente gli efferati delitti. Il boss diventa icona. Ma presto verrà soppiantato dagli “eroi” e il cinema sulla mafia vivrà la sua stagione d’oro (Gian Maria Volonté ne sarà la star). La televisione di Stato, invece, dopo l’incidente di Canzonissima, ha battuto in ritirata. Ma fermenti nuovi, come quello del citato Cento giorni a Palermo, stanno già aprendo autentiche autostrade. E così, l’11 marzo del 1984, stesso anno del film di Ferrara su Dalla Chiesa, arriva in tv a firma di Damiano Damiani la prima puntata di La piovra. Nulla sarà più come prima. Il male assoluto avrà finalmente un volto, quello dell’attore Remo Girone, che interpreta il mefistofelico Tano Cariddi. Alla fine della settima stagione, il satanico Cariddi getterà in un vulcano gli incartamenti segreti della Repubblica, negandoci per sempre ogni verità. Seguiranno centinaia di fiction. Ma l’analisi di Morreale, a questo punto, si fa spietata. L’Italia, scrive, ha battezzato la Sicilia come suo personale scenario western; alle pale di ficodindia e alle lupare del passato sono stati sostituiti i nuovi archetipi della strage di Capaci e del pianto della vedova Schifani al funerale; il groviglio dei misteri italiani viene spedito nell’Isola per farne non più un affare inestricabile ma una più semplice lotta tra buoni e cattivi, eroi e malavitosi; si parla sempre e solo del passato, trasformando la mafia in un prodotto vintage; la sinistra si è ricostruita una genealogia accettabile nell’antimafia; buoni sentimenti, nostalgia a basso costo, innocua ironia - da Benigni a Pif - hanno occupato il posto che, al contrario, negli Stati Uniti hanno avuto prodotti importanti come i film di Martin Scorsese o la serie I Soprano. Infine, nessun film o serie tv di rilievo sui casi in cui la mafia tocca la grande finanza (Sindona, Calvi, Gardini). E per raccontare la vita dello stesso “scabroso” Buscetta, bisognerà attendere il 2019, con Il traditore di Marco Bellocchio. Un fallimento? Prodotti come Gomorra e Romanzo criminale, film come I cento passi di Giordana, Placido Rizzotto di Scimeca, Segreti di Stato di Benvenuti, i lavori di Roberta Torre o il recente Sicilian Ghost Story riapriranno in qualche modo i giochi di questa infinita materia. Così come faranno scuola il Cinico Tv di Ciprì e Maresco (coppia separatasi nel 2008) e i loro successivi lavori. Qui non ci sono più la Conca d’Oro da cartolina e i pittoreschi mercati stile Vucciria. Nei dintorni del fiume Oreto, tra i quartieri Brancaccio, Bandita, Acqua dei Corsari, famiglie normali virate in chiave horror tagliano droga come nella serie americana Breaking Bad. Conclude Morreale: “La violenza del loro sarcasmo smaschera la malafede di un sistema di immagini che è prevalso nell’informazione e nella fiction”. L’onorata società dello spettacolo, che al silenzio preferisce una rumorosa confusione di Roberto Saviano La Repubblica, 22 agosto 2020 Per poter girare “Il padrino” (1972) a Little Italy si dovette raggiungere un accordo: non sarebbero mai state pronunciate le parole “mafia” e “Cosa Nostra”. In passato Cosa Nostra era infastidita che solo si pronunciasse il suo nome. Ora invece le cosche hanno imparato a muoversi nel mondo dominato dall’immagine. La cinematografia Italiana non si è mai davvero occupata di mafia. Mi piace che dalle pagine di Morreale sia possibile trarre questa veloce sintesi. È contro-intuitiva, vi sarà sembrato di vedere soltanto film di crimine e mafia negli ultimi anni. In realtà, la trasformazione velocissima in genere, il nostro genere western - suggerisce Morreale - ha come depotenziato l’analisi, smarrito il racconto, edulcorato le storie. Non credo sia proprio così, o quantomeno non credo si possa farne principio su cui fondare tutta l’ermeneutica del cinema di mafia italiano. Ma sento di sottoscrivere che il film che si occupa di mafia non è un film anti-mafioso, né un film sulla mafia. È un film in cui i protagonisti (spesso eroi antimafia) sono dentro un teatro di pistole, strategie, cospirazioni, omicidi, coraggio, slealtà. Potrebbe essere mafia come qualsiasi altra organizzazione o contesto, non ci si pone l’obiettivo primo di raccontare quel mondo ma solo di immergere dei personaggi in quel mondo. È un sapore. In nome della legge di Germi del ‘49, Salvatore Giuliano di Rosi del ‘62, ma anche Mafioso di Lattuada, sempre del ‘62, aprirono una narrazione inedita, profondissima, importante. Nel Parlamento italiano si parlava allora di mafia come fenomeno residuale e finito, la politica ne negava l’esistenza. Questi film misero al centro un tema altrimenti marginalizzato e banalizzato. Anche se in questi film sulla mafia c’è già la traccia del mafia-western, ossia dell’archetipo di genere in cui far muovere le vite dei protagonisti, non si possono paragonare alle fiction delle tv generaliste degli ultimi anni, in cui il crimine e l’anticrimine sono irreali costruzioni (lontanamente ispirate a fatti accaduti) che fanno da sfondo a storie sentimentali o veloci avventure che nulla hanno davvero a che fare con lo spazio in cui sono ambientate. Non è un caso che quei primi film abbiano subito censure politiche, mentre queste fiction, al contrario, spesso vengono premiate dalle amministrazioni locali e applaudite da qualsiasi governo. Ma la domanda è: il cinema e la tv devono porsi obiettivi pedagogici? Un film sulla mafia deve contrastarla o solo raccontarla? E ancora: un film che ha solo un’ambientazione siciliana e criminale si può definire un film sulla mafia? Sono decine i libri magnifici (e centinaia quelli orrendi) che hanno uno sfondo criminale ma non descrivono né territorio né dinamiche: alla fine non si esce da quelle pagine con una maggiore conoscenza del fenomeno o con una più profonda comprensione del potere. Nulla. C’era una volta in America, il capolavoro di Leone tratto da uno dei libri più belli mai scritti sulla mafia ebraica a New York (Mano armata di Harry Grey), non mostra davvero le dinamiche della yiddish mafia, ne dà solo il contesto, il sapore, un’iconografia di pistole e contrabbando di alcolici. Prevale il magnifico racconto umano e le mafie sono solo una quinta. Una quinta che appassiona perché ci sono intrighi, lotte, la violenza che premia e punisce. La quinta della mafia è perfetta per raccontare velocemente il mondo: il salire, lo scendere, il coraggio, l’inciampo, il tradimento ne costituiscono la sintassi, ed è anche per questo che si producono tanti film criminali. Spesso, però, prodotti che potrebbero sembrarci di intrattenimento realista, come Mery per sempre di Marco Risi o persino la serie tv La piovra, sono riusciti a far presa sull’opinione pubblica e a spostare l’asse del dibattito politico sul tema trattato molto più di quanto abbiano fatto film artisticamente più celebrati come Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese o Bronx di Robert De Niro. Ma Cosa Nostra ha mai temuto i film che l’hanno raccontata? La risposta non è scontata. Ci sono state fasi in cui Cosa Nostra era nell’assoluta negazione di sé. Si dimentica che le organizzazioni mafiose sono società segrete, anche se scriverlo fa sorridere e correre subito la mente a James Bond, dalla setta dei Beati Paoli del XII secolo al clan di Nitto Santapaola stiamo parlando di organizzazioni segrete: tutti sul territorio devono conoscere il loro potere, ma nessuno deve in concreto mai dimostrarne l’esistenza. C’è stata una fase in cui le mafie erano infastidite che solo si pronunciasse il loro nome - non tanto il termine “mafia”, mai davvero temuto perché in uso solo a giornalisti e politici, bensì “Cosa Nostra”. Quando Francis Ford Coppola iniziò a lavorare al Padrino nei primi anni 70, le cinque famiglie di Cosa Nostra a New York entrarono in ansia: conoscevano il libro di Puzo da cui il film era tratto e ne avevano vissuto con apprensione il successo, ma non essendoci né nomi veri né dinamiche riconoscibili (se non ad esperti) lo avevano tollerato senza ritorsioni sull’autore. Quando, invece, Coppola montò per la prima volta il set a Little Italy, durante la pausa pranzo gli rubarono tutto: camion, luci, apparecchiature. Tutto. Minacciarono più volte il produttore Robert Evans (arrivarono a minacciargli anche il figlio) per costringerlo a bloccare il film, finché non si arrivò a un accordo. Il mediatore fu Joseph Colombo, membro della potente famiglia Colombo (seconda all’epoca solo ai Gambino), che egemonizzava l’Italian-American Civil Rights League, l’associazione che si preoccupava di combattere gli stereotipi sugli italiani negli Stati Uniti e non voleva che si parlasse di mafia italoamericana. L’accordo prevedeva che la parola “mafia” e la parola “Cosa Nostra” non venissero pronunciate in nessuna parte del film. E così fu. Il successo mondiale della pellicola, però, non produsse solo incassi miliardari e una sorta di fascino per Don Vito e Michael Corleone, ma portò l’attenzione al tema con una velocissima trasformazione nell’approccio culturale alle mafie. Aumentarono così le inchieste giornalistiche e, quindi, le indagini giudiziarie. Joseph Colombo fu considerato responsabile in quanto garante per il film e fu massacrato per ordine delle famiglie Genovese e Gambino, entrambe contrarie alla realizzazione di The Godfather. Totò Riina, l’unico monarca totalitario di Cosa Nostra - che invece è sempre stata un’organizzazione costruita su un equilibrio interno di molteplici voci - portò avanti una campagna di assoluta censura su Cosa Nostra. Arrivò a realizzare un attentato contro Maurizio Costanzo, che nella sua trasmissione dava ampio spazio alla lotta antimafia. Era il 1993, 17 anni dopo Salvatore Cuffaro, condannato a 7 anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, dichiarò in aula: “La mafia mi fa schifo”. Cosa Nostra non vuole più che ci sia il silenzio su di essa, ma una rumorosa confusione. Con le mafie accade esattamente quello che accade con l’informazione. Come racconta Peter Pomerantsev nel libro Questa non è propaganda, l’eccesso di informazione è la nuova forma di censura: un tempo si impediva che un argomento potesse essere conosciuto togliendo informazione, ora invece si fa censura sommergendo di informazioni spesso in contrasto l’una con l’altra, creando confusione, aggiungendo notizie su notizie e impendendo così di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Le mafie hanno compreso questo meccanismo e quindi non impongono più la censura ma “mischiano le carte” per impedire di capire come stanno realmente le cose. Come mai, però, nella maggior parte dei film di mafia raramente l’attenzione è posta sui flussi di denaro sporco e sul riciclaggio? Condivido il pensiero di Morreale, che lamenta un’assenza colpevole dell’aspetto borghese mafioso, se non una presenza collaterale rispetto al lato violento, più fisico. Dietro questa scelta non vedo complicità, ma una motivazione terribilmente semplice: nulla è meno d’azione del denaro. È la regola letteraria di Robert Graves: “Non v’è denaro nella poesia, ma del resto non v’è nemmeno poesia nel denaro”. Stilisticamente si preferisce l’azione del cattivo e del buono, della sparatoria e della fuga, proprio perché è azione. Solo i documentari recentemente possono dare in qualche modo una visione completa della questione mafiosa rinunciando all’aspetto dell’intrattenimento: lo hanno fatto, senza dubbio, il documentario Scacco al re (2007), le docufiction Doppio gioco (2008) trasmessi da Rai 3, ma anche il potente documentario Our Godfather. La vera storia di Tommaso Buscetta (2019) disponibile su Netflix. Sono opere godibili esteticamente e narrativamente e in grado di affrontare il tema del potere criminale, perle rarissime di comprensione dei meccanismi. Rimane solo una domanda a cui rispondere: perché i mafia-movie sono così amati? Il tema trattato da questi film è come una lente di ingrandimento attraverso cui ognuno riesce a vedere meglio il mondo, questo è il grande segreto. Non si vuole capire la mafia, ma il mondo attraverso la mafia. Il cinema che si occupa di mafia è talmente variegato e complesso che non è pensabile arrivare a una uniformità nemmeno di giudizio. C’è il buon cinema e c’è il cattivo cinema. Ci sono le storie e ci sono le orride messe in scena. Null’altro. Referendum, Dpcm e decreti: la forma della democrazia di Michele Ainis La Repubblica, 22 agosto 2020 La rottura delle garanzie formali genera sempre una lesione sostanziale dei nostri diritti. Le prove? A osservare l’esperienza più recente, segnata dall’epidemia di Covid 19, si contano almeno quattro casi. La democrazia è forma, protocollo, procedura. Ma la democrazia italiana è una creatura informe. Sfregiata da prassi truffaldine, da scelte che fingono il rispetto delle regole e invece le aggirano, v’usano violenza. Noi, per lo più, non ci facciamo caso. Andiamo dritto al sodo, magari litighiamo sui contenuti di questa o quella legge, disinteressandoci del suo abito esteriore, del metodo con cui è stata generata. È un errore, anzi un inganno. La corruzione delle forme precede quella dei costumi. La rottura delle garanzie formali genera sempre una lesione sostanziale dei nostri diritti. Le prove? A osservare l’esperienza più recente, si contano almeno quattro casi. Primo: il referendum costituzionale. Svilito dalla contemporaneità con le amministrative, dato che il governo ha deciso d’abbinare le due consultazioni. Sicché in settembre, nello stesso seggio elettorale, verrà scelto il nuovo governatore della Puglia, il sindaco di Voghera o di Milazzo, e insieme l’assetto permanente della Repubblica italiana. Non va bene, non va affatto bene. Perché in questa vigilia ci sarà spazio soltanto per la campagna elettorale di partiti e candidati. Perché l’election day finirà per provocare un’alterazione territoriale nell’afflusso dei votanti (più basso dove manca un’elezione locale). Perché imprime un sapore plebiscitario al referendum. Perché infine calpesta la libertà degli elettori. Non a caso l’abbinamento è vietato dalla legge rispetto ai referendum abrogativi. E non a caso la Costituzione non ha previsto alcun quorum di partecipazione per la validità del referendum costituzionale. I nostri padri fondatori volevano che gli elettori fossero pienamente consapevoli, liberi di scegliere. I loro pronipoti, viceversa, ci hanno apparecchiato un piatto di cavoli e cavalli: mangiare o digiunare. Secondo: i famosi (o famigerati) Dpcm. Quelli che ci hanno rinchiuso dentro casa, comprimendo un po’ tutte le libertà costituzionali. Misure necessarie, come no; ma il problema sta nella riserva di legge, con cui la Carta del 1947 protegge le nostre libertà. Quindi un decreto legge può restringerle, un decreto individuale del premier invece non può farlo, anche perché scavalca del tutto il Parlamento. Per aggirare l’ostacolo, il decreto legge n. 6 del 2020 ha usato un trucchetto da prestigiatore: una delega in bianco all’uso dei Dpcm, senza delimitarne affatto i contenuti. Così violando il principio di legalità “sostanziale”, anzi di legalità tout court. E forgiando un precedente che in futuro può autorizzare nuovi e più gravi abusi. Terzo: i decreti legge approvati in Consiglio dei ministri “salvo intese”. Escamotage inaugurato dai governi Berlusconi, che nei governi Conte (1 e 2) ha generato un’abitudine, una pratica normale. Serve per dare in pasto all’opinione pubblica il miraggio d’una decisione, quando in realtà non si è deciso un piffero. I ministri approvano il titolo d’un film, senza però vedere la pellicola. Del resto all’epoca del governo Renzi votavano sulle slide, evidentemente una nuova fonte del diritto. Così l’autorità di ogni ministro si degrada, ogni voto diventa una finzione. E infatti il Decreto Agosto è stato pubblicato con 24 articoli in più, usciti come Minerva dalla testa di Giove. Per rispettare le forme (e la sostanza) sarebbe stata necessaria una nuova delibera del Consiglio, ha osservato Salvatore Sfrecola, e con lui molti giuristi. Ma lavorare stanca, specie poi d’estate. Quarto: il lago di norme varate per decreto. “Le caratteristiche distintive della legge sono la generalità e la durata illimitata”, stabiliva la Costituzione girondina del 1793. Il nostro ordinamento, viceversa, è intasato da regole minute, e giocoforza effimere come farfalle. Succede per l’incapacità di fare sintesi, per la fragilità della politica. Spezzando così il pane in mille briciole, che non tolgono la fame. Tolgono però alla legge la sua forma, la sua stessa dignità. Il mercato nero dei contratti e degli indirizzi falsi creato dalla sanatoria migranti di collettivo Lorem Ipsum* L’Espresso, 22 agosto 2020 La norma che avrebbe dovuto regolarizzare migliaia di stranieri sul nostro territorio si è trasformata in un affare per i caporali diventati intermediari. E molti migranti pagano migliaia di euro per un pezzo di carta fasullo ad aguzzini e imprenditori senza scrupoli così da ottenere il permesso di soggiorno. Ficou guarda davanti a sé con lo sguardo fisso, la voce bassa che incespica sull’italiano a ripetere come una preghiera vergognosa quello che è successo. “Ho dato a Massimo mille euro e lui è sparito”. Viene dal Senegal, ha 24 anni e da quattro è arrivato in Italia. “Sulla barca, dalla Libia”. Poi un anno in Francia, a cercare una fortuna che qua in Italia non aveva trovato e che nemmeno lì troverà. A Roma, però, si apriva la prospettiva, per un irregolare come lui, di potersi finalmente mettere a posto. Uno spiraglio chiamato sanatoria, figlia della pandemia e di un apparente moto di giustizia sociale per i migranti, che è diventata per Ficou e per altri 600 mila uno dei pochissimi accessi al permesso di soggiorno. Il problema, però, è che per attivare la procedura - introdotta con il decreto Rilancio e accessibile dal 1 giugno al 15 agosto 2020 - bisognava lavorare in uno di questi tre settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona. Chi si guadagnava da vivere in altri campi, come l’edilizia e la ristorazione, è rimasto escluso. E così si è creato un mercato di contratti falsi, venduti da datori di lavoro italiani a cifre che arrivano fino a 8 mila euro, grazie all’aiuto di intermediari stranieri che hanno approfittato delle difficoltà dei connazionali per raggirarli. Una vera e propria “compravendita delle indulgenze”, in cui si è promesso il paradiso a costi altissimi per centinaia di migliaia di lavoratori. Le lacrime commosse della ministra del Lavoro Teresa Bellanova sembrano lontanissime da quello che è successo in strada e online, dove si sono moltiplicati i datori di lavoro disposti a spacciare contratti falsi a prezzi esorbitanti. “Quando scegli solo tre settori costringi le persone a fingere di lavorare in quelle categorie: in tantissimi per poter inoltrare la domanda hanno dovuto trovare finti contratti, che costano cifre assurde. Chi può permetterselo? Deve essere uno che ha le spalle coperte o che opera nella criminalità”, denuncia Stephen Ogongo, coordinatore nazionale dell’associazione di avvocati immigrazionisti Cara Italia. Le storie si ripetono tutte uguali: chi aveva un contratto regolare in un settore diverso dai tre indicati dalla legge è corso a cercarne uno nel campo dell’agricoltura o del domestico. Peggio ancora il caso di M., che nel giugno del 2019 ha firmato un contratto come “operaio addetto alla raccolta di prodotti orticoli” e un anno dopo si è ritrovato a spedire una richiesta per la sanatoria con un contratto falso, comprato, sempre nel settore dell’agricoltura. Questo perché la sanatoria prevede che non ci sia un contratto in corso, ma deve essere siglato nel periodo previsto dalla legge o, se in nero, regolarizzato. I numeri delle richieste di regolarizzazione certificano che la sanatoria, chiusa il 15 agosto dopo una proroga di un mese, non ha funzionato come si sperava. Secondo una stima iniziale del ministero dell’Interno, la misura avrebbe dovuto interessare circa 220 mila persone. I numeri delle richieste hanno rispettato le aspettative del Viminale, con 207 mila domande presentate. Di queste, però, l’85 per cento riguarda il lavoro domestico (176.848) e solo il restante 15 per cento il settore agricolo, con appena 30.694 domande. Il fallimento più grande è rappresentato proprio da questa sproporzione. Un provvedimento inizialmente pensato per sopperire alla mancanza di braccianti provocata dalla chiusura delle frontiere a causa del coronavirus e per combattere lo sfruttamento e il caporalato nei campi, solo marginalmente ha interessato questi lavoratori, sfociando in un mercato illegale a spese degli ultimi. Basti pensare che solo il 20 per cento dei migranti irregolari che lavorano nei campi ha fatto la domanda per la sanatoria. A pesare su questo fallimento il ruolo giocato dai datori di lavoro. Si moltiplicano le segnalazioni di “padroni” che hanno scelto a chi concedere il contratto, ancora una volta dietro lauto compenso. “Una quarantina di ragazzi da Terracina, Anzio, Nettuno e Civitavecchia sono venuti da noi per denunciare che il loro datore di lavoro ha concesso loro il contratto, a patto che lavorino gratis tutta la stagione”, racconta Nure Alam Siddique detto Bachu, portavoce dell’Associazione bengalese Dhuumcatu. Sei mesi di lavoro nei campi, non retribuiti. Nell’Agro pontino è successo invece che ad accedere alla sanatoria sono stati soprattutto i caporali, che già godono di un occhio di riguardo dei datori di lavoro, ma, soprattutto, hanno la possibilità economica di comprarsi quei contratti. Al contrario, i braccianti più poveri si sono rivolti proprio a loro: i caporali continuano a fare da intermediari, ma stavolta invece di procurare il lavoro, procacciano contratti. Sono diverse le storie di caporali che hanno “prestato” il denaro per comprarsi l’accesso alla sanatoria. E così lo sfruttato tra i campi diventa vittima due volte: di caporalato e di usura. Ficou è la vittima ideale del sistema dei contratti falsi: senza una rete forte attorno a sé, senza un datore di lavoro in uno dei tre campi richiesti dalla sanatoria, è stato preda facile degli approfittatori. Da giugno lavora in uno stabilimento balneare del litorale laziale. È lì che un amico gli ha parlato di Massimo. “Ha un’azienda agricola, ci può aiutare”, gli ha detto. Con mille euro ti assicura la garanzia di stare in Italia. Ficou è stanco e accetta la proposta di Massimo. Insieme a lui altri quattro gambiani. Sborsano mille euro a testa e si assicurano un pezzo di carta che li dovrebbe portare verso la sanatoria. Quell’italiano di mezza età, però, scompare, come quei cinquemila euro. “È un mese che lo chiamo e non mi risponde mai”, dice Ficou. La mascherina colorata alzata sul naso gli nasconde mezzo volto, ma l’insofferenza per un paese che lo relega tra gli ultimi traspare lo stesso. “In Italia c’è tanta mafia, non si può vivere così. Ci sfruttano perché sanno che non possiamo difenderci in nessun modo. Ho perso due mesi di lavoro e nel mio paese quella è una cifra esorbitante. In più non posso andare a denunciare questo Massimo, perché io qui sono irregolare. Come faccio ad andare dalla polizia?”. In tanti provano a rivolgersi ad avvocati immigrazionisti, proprio come ha fatto lui, che davanti a un Caf (Centro assistenza fiscale) della periferia romana aspetta il suo turno, sperando in una soluzione che difficilmente arriverà. Pierluigi Franchitto, avvocato immigrazionista che opera nel basso Lazio, parla di subalternità tra connazionali. Nella comunità bengalese romana - la più organizzata e la più cospicua in termini di numeri - si sono ripetuti episodi in cui alcuni personaggi si sono proposti di “aiutare” chi è nel Paese da meno tempo ed è alle prese con la sanatoria. Alcuni sono arrivati dai Caf che costellano i quartieri più multietnici della capitale, presentandosi come facilitatori nell’ottenimento del nuovo contratto di lavoro falso. E lo hanno fatto sapendo che alla fine una fetta di quella torta sarebbe andata anche a loro. L’avvocato Franchitto racconta di intermediari che da Roma si sono spinti fuori provincia, nelle zone in cui di aziende agricole ce ne sono di più, in cerca di imprenditori pronti a vendere posti di lavoro fittizi. “Un bengalese è arrivato a Cassino perché aveva così tante richieste che voleva coprirne il più possibile. Il lucro in comunità come quella bengalese c’è perché si creano dei rapporti di dipendenza tra forti e deboli. I più furbi, i famosi “zii”, parlano perfettamente l’italiano, sono qui ormai da anni e per ogni domanda di sanatoria arrivano a mettersi in tasca fino a 800 euro”. A parlare di questo meccanismo perverso è un membro stesso della comunità bengalese. “Un mio amico ha comprato un contratto di lavoro, c’è uno che fa da intermediario tra il migrante e il datore di lavoro italiano. L’intermediario ha detto che a suo cugino serviva il contratto e il datore di lavoro ha detto “va bene, se lo paga”. Gli ha chiesto quasi 7-8 mila euro. Deve dare metà prima, poi quando prende il permesso di soggiorno dà l’altra metà”. A facilitare il tutto arrivano i social: su Facebook, un gruppo nato per l’auto mutuo aiuto tra i membri bengalesi in città si è trasformato negli ultimissimi mesi in un vero e proprio mercato. “Gli intermediari scrivono che sono disposti ad aiutare gli altri. Non tutti i bengalesi capiscono l’italiano, e così queste persone promettono di aiutarli, ma in realtà li sfruttano. Quando si incontrano di persona, se vedono che la persona capisce poco di burocrazia, allora possono raggirarla”. Vittime di italiani e vittime dei loro connazionali, i migranti in cerca di regolarizzazione in Italia finiscono nel tritacarne del malaffare più facilmente di quanto immagini chi ha scritto la legge sulla sanatoria. “Gli immigrati la chiamano “satanaria”, perché dentro ci sono gli impicci di Satana”, spiega Bachu mentre osserva la pila di pratiche sulla scrivania da smaltire nelle ultime ore disponibili. Tutte le problematiche legate ai requisiti venute a galla sono rimaste insolute e ci si aspetta che molte delle domande inviate vengano respinte. Bachu spiega bene che il problema sta anche nel modo confuso in cui la legge è scritta. Districarsi nel groviglio di parole della norma è difficile già per un addetto ai lavori, per un migrante che non conosce bene la lingua diventa inaccessibile. Una legge che è un cortocircuito continuo. Se la modalità principale di regolarizzazione prevedeva che a presentare la domanda fosse il datore di lavoro, una seconda opzione permetteva al cittadino straniero, titolare in passato di un permesso di soggiorno, di ottenerne uno nuovo. Era però necessario che il vecchio permesso di soggiorno fosse scaduto dalla data del 31 ottobre 2019 - una data giudicata “illogica” da molte associazioni - senza essere rinnovato, che il cittadino straniero risultasse presente sul territorio nazionale dall’8 marzo 2020 e che avesse lavorato prima del 31 ottobre 2019 in uno dei tre comparti lavorativi a cui è vincolata la regolarizzazione. Costo totale a carico del migrante: circa 180 euro. Il permesso di soggiorno temporaneo ottenuto è valido solo nel territorio nazionale e consente di svolgere attività lavorativa solo ed esclusivamente nei comparti lavorativi a cui è vincolata la regolarizzazione. Se ad attivarsi era invece il datore di lavoro, quest’ultimo doveva versare un contributo forfettario da 500 euro per ogni lavoratore: poteva presentare una domanda per assumere un lavoratore straniero già presente in Italia prima dell’8 marzo, oppure per regolarizzare un rapporto di lavoro già in essere, instaurato irregolarmente. Parla di ostruzionismo, Bachu, e a fargli eco è anche un altro membro della comunità bengalese romana, Mohamed Taifur Rahman Shah, presidente dell’associazione Italbangla e operatore in un Caf di Torpignattara. “Ogni giorno vengono centinaia di persone a chiederci come funziona. Non puoi concedere a una persona di regolarizzarsi e a un’altra non solo perché fa un lavoro diverso. È una legge contraddittoria: mette una persona nella condizione di diventare irregolare, non il contrario”. Rhaman denuncia poi il problema dei richiedenti asilo, in attesa della lunga trafila burocratica per ottenere lo status di rifugiati. Tecnicamente anche loro hanno diritto a richiedere la sanatoria, ma il decreto su questo punto non è chiaro. E così ogni ente dà una diversa interpretazione del provvedimento, creando un effetto discriminatorio. “Alcune questure chiedevano addirittura di rinunciare alla domanda di asilo per presentare richiesta. Come fai a rinunciare senza sapere se questa domanda andrà a buon fine o no?”, si chiede Ogongo. Il mercato non si è fermato ai contratti falsi, però. Per accedere alla domanda di sanatoria il migrante doveva presentare anche un certificato di idoneità alloggiativa, una difficoltà addizionale che non ha fatto altro che alimentare un altro giro d’affari, quello della compravendita degli indirizzi falsi. In quel caso il migrante ha dovuto sborsare 2-3 mila euro, per una via da indicare sulla domanda, in cui, ovviamente, non vive. La ciliegina sulla torta è stata la data di scadenza per presentare la domanda: il 15 luglio prima, il 15 agosto poi. Nel giorno di Ferragosto tutti i servizi erano chiusi, Poste comprese. Commenta Bachu: “Siccome noi negri siamo cittadini di terza classe, siamo uno strumento usa e getta. Per questo abbiamo presentato una denuncia contro ignoti: io ho diritto di presentare la domanda fino all’ultimo giorno, ma se il Paese è chiuso diventa impossibile”. Il fallimento della sanatoria presentata dal governo come soluzione alla condizione di irregolarità dei migranti in Italia è palese. Lo dicono i dati sul sito del ministero e lo raccontano, soprattutto, le storie dei migranti. Questa sanatoria ha regalato la possibilità ad alcune persone di arricchirsi, mentre i lavoratori irregolari, a parte alcune nel settore del lavoro domestico, restano tali e più poveri e indifesi di prima. “Abbiamo mandato migliaia e migliaia di mail alle caselle postali dei ministri, ci hanno ignorato”, conclude Bachu. “Non possiamo parlare, non possiamo urlare, non possiamo scrivere. Viva la discriminazione, viva la schiavitù”. *Lorem Ipsum è un collettivo di giovani giornalisti freelance che collabora con L’Espresso Navi-quarantena come le imbarcazioni delle ong: i sindaci chiudono i porti di Leo Lancari Il Manifesto, 22 agosto 2020 Dopo quello di Trapani anche il primo cittadino di Augusta vieta lo sbarco dei migranti dalla nave “Aurelia”. Nuovi arrivi a Lampedusa. Il sindaco Martello scrive a Conte: “Ci avete lasciati soli”. Secondo divieto di sbarco in due giorni. Per la Aurelia, nave crociera trasformata dal governo in nave quarantena per i migranti che arrivano in Sicilia, il rischio di fare la stessa fine fatta nell’ultimo anno dalle navi delle ong a questo punto si fa davvero concreto. Dopo il no allo sbarco imposto giovedì al comandante dal sindaco (Pd) di Trapani Giacomo Tranchida, ieri lo stop è arrivato da un altro primo cittadino siciliano vicino all’esecutivo giallorosso, Cettina Di Pietro, sindaco di Augusta targato 5 Stelle, che con un’ordinanza ha vietato lo sbarco nel porto dei 250 migranti provenienti da Lampedusa, tra i quali 19 risultati positivi al Covid, e dell’equipaggio della Aurelia. “Può sembrare una decisione forte - ha spiegato Di Pietro - ma nessuno dovrà scendere da quella nave, il mio compito è tutelare la salute dei miei concittadini. Siamo in una situazione di emergenza e non possiamo permetterci di abbassare la guardia”. l pericolo adesso è che, se a seguire l’esempio di Trapani e Augusta saranno altri sindaci, la Aurelia sarà destinata a rimanere al largo chissà quanto tempo. A meno che il governo non decida di accettare il consiglio di Tranchida facendo approdare le navi quarantena solo nei porti militari (ad Augusta ce n’è uno). Sempre a Trapani, inoltre, la situazione potrebbe complicarsi lunedì prossimo quando i 602 migranti - quasi tutti tunisini - a bordo del traghetto Azzurra che si trova in rada da due settimane, avranno terminato il periodo di quarantena e dovranno scendere a terra. “Il governo pensa di poter giocare a battaglia navale”, ha detto ieri Tranchida. “Trapani è una città accogliente, i trapanesi sono gente accogliente ma è bene che si sappia che qui non vive gente fessa”. Parole che hanno provocato la reazione di Carmelo Miceli, responsabile sicurezza del Pd, lo stesso partito del sindaco: “Serve maggiore collaborazione istituzionale”, ha detto. “Quando sarà scaduta la quarantena a bordo della nave Azzurra, saranno avviate le procedure di sbarco e quelle di ricollocamento e di rimpatrio, il tutto in piena sicurezza e senza alcun rischio per la città”. Ma a protestare - e da tempo - c’è anche il sindaco di Lampedusa Totò Martello. Anche ieri si sono succeduti una serie di sbarchi che hanno portato sull’isola più di 270 migranti con l’hotspot di contrada Imbriacola, dove sono ammassate 1.400 persone, ormai in condizioni impossibili. La prefettura di Agrigento ha disposto il trasferimento, a partire da ieri sera, di 220 migranti. Troppo pochi, anche considerando che non dovrebbe essere impossibile per il Viminale trasferire 1.400 persone nei vari centri dislocati sulla penisola. Da parte sua Martello si è rivolto con una lettera al premier Giuseppe Conte promettendo “proteste clamorose” in caso di mancata risposta: “Lei e il suo governo non potete tacere di fronte a ciò che sta accadendo a Lampedusa”, ha scritto il sindaco. “Non è più accettabile che la nostra isola sia abbandonata a sé stessa e che il peso dell’accoglienza sia scaricato tutto sulle nostre spalle”. Migranti. Ancora violenze nel Cpr di Gradisca, ma vengono censurate di Stefano Galieni Left, 22 agosto 2020 Nella notte del 14 agosto nel Centro permanente per il rimpatrio in provincia di Gorizia, come riportano con video e foto gli attivisti di No Cpr No Frontiere Fvg, le tensioni per la situazione delle persone trattenute sono state represse in modo violento dalle forze dell’ordine. Situazione difficile anche in altri Cpr Capita ormai regolarmente che durante i giorni più torridi dell’estate, quando il caldo diventa insopportabile, anche nei Centri permanenti per il rimpatrio, le tensioni perenni sfocino in uno stato di rivolta permanente. Il divieto di accesso ad osservatori esterni che non siano il Garante per i detenuti - che però entra solo dopo richiesta - o qualche sparuto deputato, i timori connessi alla pandemia, hanno permesso di sottacere più che in passato queste condizioni insopportabili in cui si consumano soprusi. A Gradisca D’Isonzo, provincia di Gorizia, nell’ex Caserma Polonio, il Cpr ha riaperto da gennaio e, come abbiamo già ricordato, già due persone trattenute ci hanno perso la vita. Alla vigilia di Ferragosto c’è stata l’ennesima rivolta. “Da inizio luglio - scrivono gli attivisti del gruppo Assemblea No Cpr No Frontiere Fvg - Infatti da inizio luglio all’interno del centro i detenuti hanno dato luogo a diverse rivolte, incendiando parte delle camerate e compiendo frequenti atti di autolesionismo, talvolta anche molto gravi. A queste le forze dell’ordine presenti nella struttura hanno risposto frequentemente con una repressione violenta, che, da quanto ci è stato detto dai detenuti, ha mandato alcuni di loro all’ospedale ed è avvenuta dopo aver disattivato il sistema interno di videosorveglianza o minacciando altri reclusi di ritorsioni nel caso avessero fatto uscire video o immagini da quelle mura. Frequenti sono state anche le denunce per danneggiamento o resistenza a pubblico ufficiale che rischiano di prolungare il trattenimento di queste persone nel centro. Così come in altre occasioni anche dopo i fatti del 14 agosto la maggior parte dei mezzi d’informazione ha riportato esclusivamente la versione della Questura di Gorizia, omettendo di citare la violenza subita dai reclusi, testimoniata anche da video e immagini che abbiamo pubblicato sul nostro blog”. Tanti gli elementi di criticità in una struttura accanto a cui sorge un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e in una zona fortemente interessata dagli spostamenti che interessano la rotta balcanica. Ma il Cpr è il punto in cui più si sono espresse le incompatibilità fra politiche migratorie e diritti delle persone. Fra le assurdità il fatto che dopo i fatti di Piacenza, un ragazzo marocchino che aveva denunciato abusi subiti in quella caserma nel 2017 è stato trasferito nel centro. Il ragazzo, insieme ad altri 15 trattenuti, in gran parte provenienti dal Marocco, è stato poi trasferito nel centro romano di Ponte Galeria. Uno dei 15, denunciano sempre gli attivisti della Rete friulana, è anche padre di una neonata e il suo trattenimento poteva non essere convalidato ma, utilizzando la mancanza di alcuni documenti, il giudice di pace di Gorizia competente ha negato il suo rilascio. I trasferimenti erano ovviamente congeniali anche alla ripresa dei rimpatri post Covid. Oggi la situazione a Gradisca è ancora più assurda, oltre al Cpr e al Cara è stato creato un “campo quarantene”, si tratta di due piccoli “villaggi” nei pressi dei centri, 46 persone sono distribuite in tende e 25 in moduli abitativi. Nessuna persona ancora positiva ma chi è in tali spazi sa che ha come sola prospettiva quella di tornare nei rispettivi centri. Anche negli altri Cpr agosto si sta dimostrando insostenibile. A Ponte Galeria, sotto Ferragosto c’è stato un rocambolesco tentativo di fuga. In sei si sono introdotti nei condotti dell’aria climatizzata, sono arrivati sul tetto, hanno raggiunto il muro di cinta e sono usciti. In 5 sono stati ripresi uno è riuscito a far perdere le sue tracce. Il 17 e il 20 luglio c’erano stati altri due tentativi falliti ma non romanzeschi come questo. Gabriella Stramaccioni, Garante del Comune per i diritti delle persone private della libertà personale, ha definito il Cpr un vulnus legale e dei diritti umani, ma anche per le condizioni sanitarie il centro presenta criticità gravi. Lo scorso anno una badante ucraina è stata fermata per strada e portata al Cpr dove ha perso la vita, sembra per problemi cardiaci. Il centro non è attualmente sovraffollato - ci sono 43 uomini e 9 donne, potendo ospitare complessivamente 180 persone eppure resta una bomba ad orologeria. Secondo la Garante il centro deve chiudere, secondo gli agenti del Silp o cambiano le modalità di gestione e aumenta il personale o è impossibile garantire l’incolumità delle persone. Impossibile entrarvi con telecamere per poter documentare e denunciare le condizioni di invivibilità. Neanche gli ingressi “a sorpresa” sono permessi e le sole immagini che arrivano sono quelle inviate agli attivisti anti Cpr dai trattenuti. Nel nuovo Cpr aperto a Macomer, nel nuorese, dove a giugno alcuni trattenuti erano arrivati a cucirsi la bocca per protesta ora da una parte sono nel caos gli uffici del Giudice di pace, oberati da pratiche e con scarso personale, dall’altra, con l’eccessiva militarizzazione, buona parte del paese chiede la chiusura della struttura. Non va meglio nel Cpr di Bari dove il 19 agosto è stato sventato l’ennesimo tentativo di fuga o negli altri rimasti attivi. In periodo post Covid, dopo una fase in cui erano diminuite le persone di cui era stato convalidato il trattenimento (a maggio 2020), c’è stata una ripresa dei fermi e oggi, complessivamente sono oltre 350 le persone rinchiuse. Il bilancio dello scorso anno, reso noto dal Viminale è dimostrazione di fallimento. Il 46,5% delle persone prese è stato effettivamente rimpatriato, gli altri o in fuga, o arrestati per le rivolte o, molto spesso liberati perché non identificati o perché il trattenimento non era stato convalidato. A fronte di un bilancio simile le proposte di riforma in materia elaborate ad oggi dal ministro dell’Interno sono unicamente di una diminuzione dei tempi massimi di trattenimento, dagli attuali 180 giorni a 120, forse a 90 eppure, come abbiamo già avuto modo di denunciare lo scorso anno col nostro libro Mai Più, sono ormai 22 anni che queste strutture ad avviso di chi scrive, illegali esistono, provocano inutili danni e sofferenze, sono spesso causa di morte, costano milioni, di euro l’anno, cambiano nome ma non sostanza ma continuano ad essere sponsorizzate come lo strumento per combattere la clandestinità e a garantire la “sicurezza”. Ma di ragioni per farla finita con questa oscenità se ne accumulano giorno dopo giorno e la sola scelta di sinistra che potrebbe essere fatta è quella di chiudere definitivamente ogni struttura simile, favorendo realmente i percorsi di regolarizzazione. Un’utopia. Francia. Ministro Giustizia avvia ispezione sui suicidi nelle carceri agenzianova.com, 22 agosto 2020 Il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond-Moretti, intende lanciare un’ispezione per monitorare il fenomeno dei suicidi nelle carceri. Come riferisce il quotidiano “Le Monde”, il ministro prevede un rafforzamento delle misure di prevenzione dei suicidi, a fronte dei 128 detenuti che si sono tolti la vita nel corso del 2019 e dei più recenti casi avvenuti nei penitenziari della Francia. Il dato del 2019 è stato migliore rispetto a quello dell’anno precedente, quando i suicidi erano stati 131, ma si tratta di cifre ancora troppo alte. Nell’anno in corso sono già 82 le persone che si sono tolte la vita in carcere, contro i 72 dello stesso periodo del 2019. In Libia spunta la pace: intesa Serraj-Saleh sul cessate il fuoco. E a marzo le elezioni di Victor Castaldi Il Dubbio, 22 agosto 2020 L’annuncio dopo quasi 10 anni di guerra. Dopo quasi un decennio di conflitti settari e di totale instabilità politica la Libia sembra di fronte a una concreta svolta di pace, mai così vicina come ora. Il presidente del Governo di accordo nazionale libico (Gna) di Tripoli, Fayez al Serraj, e il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, hanno infatti dichiarato un cessate il fuoco su tutto il territorio libico e contemporaneamente annunciato il rilancio di processo politico che porterà a elezioni legislative e presidenziali il prossimo marzo. Nessuno poteva immaginare nelle scorse settimane una simile de- escalation in un Paese si è continuato a combattere anche durante il Covid. I due fronti, finora in aperta guerra, lo hanno reso pubblico in simultanea con dichiarazioni separate. “Alla luce della situazione attuale del Paese, il presidente del Governo di accordo nazionale ha dato ordine a tutte le forze armate di interrompere immediatamente i combattimenti e di conseguenza rendere le città di Sirte e Giufra zone senza armi”, si legge nella nota del governo di Tripoli. “L’intento ultimo è riportare la sovranità del Paese e mandare via forze straniere e mercenari”, ha aggiunto. Il consiglio presidenziale chiede inoltre di “riprendere la produzione e l’esportazione di petrolio e destinare i proventi a un conto della Banca estera libica da cui si potrà attingere solo dopo un accordo politico completo sulla scia dei risultati della conferenza di Berlino e in piena trasparenza”. Infine, Serraj ha annunciato il suo invito a “elezioni legislative e presidenziali nel prossimo mese di marzo su una base costituzionale su cui siano d’accordo tutti i libici”. Dalla Cirenaica invece è arrivata la benedizione di Saleh, ritenuto braccio politico e burocratico del maresciallo Khalifa Haftar, l’uomo forte della regione sostenuto da Egitto e Francia. “Il presidente del Parlamento, Aguila Saleh, ha chiesto a tutte le parti un cessate il fuoco immediato e l’interruzione di tutte le operazioni di combattimento in tutto il Paese”, si legge nella nota di Tobruk che esprime l’aspirazione che “la città di Sirte diventi un quartier generale temporaneo del nuovo Consiglio presidenziale, che riunisca tutti i libici e li avvicini”. “Il cessate il fuoco - ha aggiunto-Saleh - sbarra la strada a qualsiasi intervento militare straniero e si conclude con l’allontanamento dei mercenari e lo smantellamento delle milizie, al fine di ottenere il ripristino della piena sovranità nazionale”. L’annuncio ha raccolto l’immediato sostiene degli attori internazionali, a partire dalla missione dell’Onu in Libia, Unsmil, che ha chiesto “l’immediata esecuzione delle coraggiose scelte attuate”. Anche l’Italia, che ha sostenuto in maniera costante e attiva gli sforzi dell’Onu nel quadro del processo di Berlino assieme ai principali partner Ue, “accoglie con grande favore i comunicati emessi”, “a partire da una immediata cessazione delle ostilità e dalla riattivazione della produzione petrolifera”, si legge in una nota diffusa ieri dalla Farnesina. Medio Oriente. Gaza, guerra alle porte di Michele Giorgio Il Manifesto, 22 agosto 2020 I comandi militari israeliani e il ministro della difesa Gantz pronti a dare il via a una offensiva ampia in risposta ai lanci di palloncini incendiari e razzi. Ma i gruppi armati palestinesi ripetono che andranno avanti fino a quando Gaza resterà una “prigione” e le condizioni di vita insopportabili. Israele è pronto a lanciare un’offensiva militare ampia e distruttiva contro Gaza. L’avvertimento lanciato giovedì dal ministro della difesa Gantz, durante un incontro con il capo di stato maggiore Aviv Kochavi, è stato seguito dall’invio di rinforzi di uomini e mezzi inviati ai reparti dell’esercito schierati nel sud del paese. Le organizzazioni militanti palestinesi però dicono che non si piegheranno alla minaccia avanzata da Israele. Il movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, si è detto pronto alla guerra e il Comando congiunto palestinese ha diffuso un comunicato in cui afferma che non farà passi indietro. Mesi di trattative e contatti dietro le quinte, mediati dall’Egitto, tra Israele e Hamas non hanno portato a nulla. Resta inalterata la condizione insopportabile degli oltre due milioni di palestinesi che vivono nei 400 kmq della “prigione a cielo aperto” di Gaza. Di giorno l’erogazione della corrente elettrica è ridotta a tre ore, perché il combustibile dell’unica centrale si è esaurito dopo la decisione delle autorità israeliane di bloccare l’ingresso a Gaza del gasolio. Questo mese sono ripresi i lanci da parte palestinese di palloncini incendiari verso il territorio israeliano - dove hanno provocato incendi e danni - e poi anche di razzi - 12 giovedì notte - che in un caso hanno colpito un’abitazione a Sderot. Da parte sua l’aviazione israeliana ha compiuto decine di incursioni. Le ultime 10 notti sono state turbate dagli echi di violente esplosioni, specie a Beit Lahiya e ad est di Khan Yunis. Israele ha fatto avanzare nelle ultime ore le batterie Iron Dome di difesa anti-missile. E il governo Netanyahu ha congelato il trasferimento a Gaza di decine di milioni di dollari che mensilmente il Qatar dona alla popolazione locale. Un nuovo ampio conflitto è sempre più probabile, a sei anni dall’offensiva “Margine protettivo” contro Gaza costata la vita a ad almeno 2300 palestinesi (i morti israeliani furono alcune decine, in gran parte militari). E non è un elemento insignificante che attualmente sia ministro della difesa Gantz, che nel 2014 da capo di stato maggiore guidò “Margine protettivo”. Intanto la mediazione egiziana non ha effetti. Ieri sera a Gaza si aperta una notte che potrebbe portare a un’altra guerra devastante. Stati Uniti. “Le spese militari vadano alle vere difese: sanità pubblica, ospedali e lavoro” di Giuliano Battiston L’Espresso, 22 agosto 2020 James K. Galbraith, docente all’Università di Texas ad Austin parla dell’effetto del Covid sull’economia Statunitense e globale. E spiega la sua ricetta per una vera ripartenza. Riaprire l’America “è un’illusione”, la ripresa veloce “è una fantasia”. Per James K. Galbraith, docente all’Università di Texas ad Austin e autore di libri importanti sull’economia politica (“Welcomed to the Poisoned Chalice”; “Inequality”; “The End of Normal”), la pandemia sta sgretolando l’intero sistema economico Usa. Un castello di carte che non va ricostruito con gli stessi materiali e secondo gli stessi progetti di prima. Ma rifondato a partire da un vero Green New Deal e soprattutto da un modello cooperativo. Che venga chiamato socialista, socialdemocratico o pragmatico conta poco. Perché l’alternativa, spiega Galbraith in quest’intervista all’Espresso, è “il capitalismo del disastro e la catastrofe sociale”. Professore, lei ha scritto che nelle pandemie ci sono tre fasi: l’emergenza, il contenimento e le conseguenze. Prima di affrontare quest’ultimo punto, come giudica il modo in cui il governo Usa ha gestito le prime due fasi? “Con incompetenza, arroganza, negazione della realtà. Sabotaggio della salute pubblica. C’è stato un ritardo enorme, colpevole, da metà gennaio circa a metà marzo. Anche da qui deriva l’alto numero di contagi e morti. Molte persone potrebbero essere ancora vive. Ora ci sono invece forti pressioni affinché si consideri conclusa positivamente la fase di contenimento. Le ragioni sono politiche: le elezioni si avvicinano e la gente deve tornare a pensare normalmente, le statistiche economiche devono restituire dati incoraggianti. Ma la realtà racconta una storia diversa, drammatica”. Dal pacchetto miliardaro di “stimoli” approvato dal Congresso Usa al Recovery Fund della Ue, con il Covid gli Stati hanno ricominciato a spendere. Per qualcuno, si tratta di inversioni di rotta e cambiamenti nel pensiero economico. Lei che cosa ne pensa? “Bisogna vedere come verranno spesi questi soldi. Il mio timore è che non si tratti di un vero cambiamento di mentalità, ma della replica di quanto fatto nel 2008, con l’obiettivo di salvare soprattutto le corporation e il settore finanziario. Il guaio è proprio questo. Osservatori come Paul Krugman, Sebastian Mallaby e Jason Furman continuano a pensare che siamo di fronte a uno shock economico-finanziario come gli altri. E che vada affrontato, al solito, con uno stimolo finanziario. Un’analogia medica ridicola: un organismo soffre, gli viene iniettata una sostanza e l’organismo torna a vivere e correre nuovamente, a “crescere”. Passa per una nozione keynesiana, ma è una tesi ridicola. E oggi pericolosa”. Il “ritorno alla normalità” non ci sarà? “Il futuro, almeno prossimo, non assomiglierà affatto al passato. Negli Stati Uniti interi settori cruciali dell’economia, dalle linee aeree alle navi da crociera, verranno fortemente ridimensionati, al di là degli aiuti che riceveranno. Un esempio: siamo tra i primi produttori di aeroplani, una delle industrie più importanti, con una lunga catena di fornitori. Oggi che le flotte sono ancora in gran parte parcheggiate, chi comprerà i nuovi aeroplani? Lo stesso per l’edilizia commerciale: se gli uffici rimangono vuoti, chi ne comprerà o affitterà di nuovi? Ciò che la gente farà con i propri soldi sarà diverso dal passato. I posti di lavoro persi non torneranno di punto in bianco, così come i redditi andati perduti, che non verranno recuperati del tutto. Ci sarà una profonda depressione economica. E questo vale anche per l’Italia”. Lei sostiene che la pandemia abbia già archiviato il vecchio sistema e che la scelta sia netta: o sottomettersi al capitalismo del disastro o rivendicare un cambiamento totale. Ma che cosa intende per “capitalismo del disastro”? “Negli Stati Uniti gli investitori privati predatori, che hanno fondi e capitali a disposizione, cercano di accaparrarsi nuove proprietà e quegli asset il cui valore si riduce per la pandemia; in ambito commerciale ci sono già sfratti e pignoramenti e potrebbero esserci svendite generali in futuro. I grandi proprietari immobiliari replicano la strategia del 2008-2009: trasformare i piccoli proprietari di case in affittuari e gli affittuari in senza-casa. Durante la crisi finanziaria si è provato a trasferire la responsabilità dalle banche ai cittadini che avevano sottoscritto contratti fraudolenti, ma in questo caso non è possibile. La gente è stata in casa come richiesto ed è sempre più consapevole che non tutti i debiti vanno ripagati, che gli accordi possono essere rinegoziati. Vedo meno accettazione e più resistenza. Rimane il fatto che ci sono 30 milioni di disoccupati e che milioni di posti di lavoro non torneranno più, salari e redditi sono spariti. Una catastrofe sociale”. Per fronteggiarla, lei non invoca la “veloce ripresa” di cui parla Paul Krugman, ma un ripensamento dell’intero sistema economico e sociale. Di cosa si tratta? “Occorre creare un nuovo sistema. Non c’è alternativa a un modello cooperativo, di sostegno reciproco, con uno Stato responsabile, capace di tenere a bada le spinte predatorie. Il settore pubblico e non profit va mobilitato per assicurare posti di lavori e reddito. Innanzitutto va affrontata la pandemia. Serve gente che studi e monitori la situazione, che si prenda cura dei malati, che tracci i contagi. La sanità pubblica per anni è stata negletta, smantellata: deve essere un bene universale. Servono milioni di posti di lavoro nei servizi cruciali, nelle forniture di cibo e prodotti essenziali. Poi c’è la necessità, legata ai cambiamenti climatici, di modificare tutta la struttura di produzione, trasformazione e consumo energetico. Se vogliamo evitare una catastrofe sociale vanno mobilitate ingenti risorse pubbliche”. Ritiene che questo possa risolvere la situazione e che lo Stato debba farsi “datore di lavoro di ultima istanza”? “La garanzia del lavoro, l’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza è al centro della proposta per un Green New Deal. Anziché lasciare i cittadini disoccupati e dargli un contributo per la disoccupazione, si creano le condizioni affinché chiunque lo voglia possa svolgere un lavoro socialmente utile e retribuito secondo il minimo salariale. Lavori con i quali vengono rafforzati beni comuni come salute, educazione, tutela dell’ambiente. Non si tratta di sostituire del tutto i sussidi alla disoccupazione, ma di creare un’alternativa realistica per milioni di persone. Una misura che beneficia l’intero sistema economico e che ritengo preferibile al basic income, almeno negli Stati Uniti, dove c’è una cultura più orientata al lavoro come attività produttiva”. Dal 1996 al 2016 lei ha presieduto l’associazione Economists for Peace and Security. Ritiene che la pandemia modificherà l’idea di sicurezza, finora associata a quella militare e, nel caso degli Usa, alla “proiezione” di potere all’estero? “La sicurezza va interpretata in modo ampio, come sicurezza sociale ed economica, nel lavoro, nella casa, nel cibo, nelle prospettive future di ogni cittadino e famiglia. Abbiamo sempre ritenuto sbagliata l’idea, erede della fine della Guerra fredda, che gli Usa siano l’unica superpotenza, garante dell’ordine mondiale, perché si fonda su una premessa fallace: il potere militare come strumento per ottenere sicurezza. Difficile prevedere cosa accadrà. Ci sono ancora dinamiche politiche e potenti attori che spingono per l’avventurismo e per le spese militari. Per me, gran parte della spesa militare andrebbe indirizzata a costruire le vere difese del Paese: sanità pubblica, ospedali, lavoro e sicurezza economica e sociale per tutti e una radicale riforma progressista della struttura dell’economia. La pandemia ha dimostrato che abbiamo un’economia forse efficiente, ma estremamente fragile e ingiusta. E ora si sta sgretolando di fronte ai nostri occhi”. Brasile. Battisti, il “pentimento” di Lula: “Sbagliai a dargli l’asilo, chiedo scusa alle vittime” Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2020 L’ex presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva ha chiesto scusa alle famiglie delle vittime di Cesare Battisti riconoscendo “l’errore” di aver a suo tempo concesso asilo al terrorista italiano. In un’intervista al canale Youtube TV Democracia, il leader del Partito dei lavoratori - condannato a 12 anni in secondo grado con l’accusa di aver ricevuto denaro dalla Petrobras e ora in attesa della sentenza definitiva - ha detto di aver preso la decisione di non estradare Battisti perché il suo ministro della Giustizia di allora, Tarso Genro, era certo che l’ex membro dei Pac fosse “innocente”. “Ha ingannato molta gente in Brasile, non so se ha fatto altrettanto in Francia, ma la verità è che c’erano molte persone che pensavano che fosse innocente. E se abbiamo commesso questo errore, ci scusiamo senza dubbio”. Lula ha detto di non aver mai conosciuto personalmente Battisti. “Tutta la sinistra brasiliana, i compagni e molti partiti di sinistra e personalità di sinistra chiedevano che Battisti rimanesse qui”, ha detto ancora Lula. Tuttavia quella su Battisti, “non fu una decisione facile”, ha aggiunto, perché “l’ex presidente italiano Giorgio Napolitano, con il quale ho avuto lunghe conversazioni e tutta la sinistra italiana facevano pressioni perché il Brasile consegnasse Cesare Battisti”. Nel 2018 il presidente brasiliano Michel Temer aveva revocato lo statusdi rifugiato al terrorista italiano. Nel dicembre dello stesso anno, la Corte Suprema Federale ne aveva ordinato l’arresto. Temer aveva autorizzato l’estradizione in Italia, ma Battisti era fuggito in Bolivia, dove è stato arrestato il 12 gennaio 2019 ed estradato in Italia, il giorno dopo. Nel marzo 2019, durante un lungo interrogatorio del procuratore Alberto Nobili in carcere, Battisti ha ammesso la sua responsabilità per quattro omicidi: quello del tenente Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978; quello del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, entrambi uccisi dal Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti, fino ad allora, si era sempre dichiarato innocente. Oggi Battisti, che ha 65 anni, sta scontando l’ergastolo in isolamento nel carcere di Oristano. Russia. Navalny trasferito in un ospedale in Germania La Stampa, 22 agosto 2020 La dottoressa personale del dissidente russo in coma: “Grave ma stabile”. Per i suoi sostenitori è stato avvelenato. L’aereo con a bordo Alexei Navalny, il dissidente russo che è in coma dopo un sospetto avvelenamento, è partito per un ospedale tedesco dall’aeroporto della città siberiana di Omsk. Navalny, 44 anni, è uno dei più feroci critici del presidente russo Vladimir Putin. Giovedì è stato ricoverato in un’unità di terapia intensiva a Omsk. I suoi sostenitori credono che sia stato avvelenato e che ci sia il Cremlino dietro il ritardo nel trasferimento. I medici russi affermano che non ci sono prove di avvelenamento e inizialmente hanno rifiutato di consentirgli di essere trasferito all’estero. Il ritardo nel trasferimento di Navalny in Germania è dovuto alla volontà delle autorità russe di “nascondere la causa delle sue gravi condizioni. Dopo tutto questo tempo, non saranno più rimaste tracce di veleno e in Europa sarà impossibile stabilire la sostanza tossica usata”. Lo ha affermato in un’intervista a Repubblica Anastasija Vasilieva, la dottoressa personale del dissidente russo da due giorni in coma per un sospetto avvelenamento. “I medici di Omsk non volevano lasciar andare Navalnyj. Sostenevano che non fosse trasportabile, ma era una menzogna palese. È illegale e criminale trattenere un paziente in un ospedale che non ha le attrezzature necessarie a garantirgli le cure di cui ha bisogno”, ha spiegato Vasilieva, secondo la quale in Russia “seppure trovassero la causa, la nasconderebbero. Nessuno vuole uno scandalo internazionale”. Rispetto al presunto caso di avvelenamento di cui Navalny è stato vittima anche un anno fa, la dottoressa ha sottolineato che non c’è niente in comune, ma “mi fa male vedere lo stesso freddo cinismo e obbedienza alle istruzioni dall’alto”. Vasilieva ha precisato che al momento le condizioni del dissidente sono “gravi, ma stabili”. Mali. “La fame che incombe su milioni di persone e a Bamako comandano i golpisti” di Carlo Ciavoni La Repubblica, 22 agosto 2020 La testimonianza di una suora missionaria, da 20 anni impegnata in progetti umanitari nel Paese africano. “Proteste popolari diffuse e mai ascoltate”. Il pericolo jihadista. “C’era tanto malcontento, anche nella scuola e tra gli insegnanti - racconta una suora missionaria, Myrian Bovino, che vive in Mali da 20 anni - ma questo intervento dei militari preoccupa ancora di più, perché non se ne immaginano gli sbocchi e perché mancano leader politici preparati”. La religiosa, piemontese, impegnata in progetti d’aiuto umanitario, parla al telefono con la redazione dell’agenzia Dire da una missione proprio a ridosso della base dei golpisti a Kati. “Il presidente è detenuto proprio qui - dice, riferendosi al presidio militare dal quale era partito anche il colpo di Stato del 2012 - ieri abbiamo sentito gli spari dei militari e abbiamo seguito le raccomandazioni di restare in casa. Oggi preoccupa invece il futuro - ha aggiunto - sotto il segno dell’incertezza, con una situazione di grande confusione, che non è nient’affatto risolta”. Le proteste inascoltate. Nella notte, dopo l’arresto da parte di un gruppo di militari, guidati dai colonnelli Malick Diaw e Sadio Camara e dal generale Cheick Fanta Mady Dembele, il presidente è stato portato a Kati e costretto a dimettersi assieme al suo governo, “recitando” un messaggio registrato trasmesso poi dalle Tv. L’ormai ex capo di Stato ha detto di “non avere scelta” e di essersi dovuto “sottomettere” per evitare che fosse “versato sangue”. Suor Myrian Bovino, missionaria delle Figlie di Maria ausiliatrice, p originaria di Bellinzago Novarese e ricorda che in tutto il Paese africano le ultime settimane erano state attraversate da rivendicazioni diffuse con vibranti proteste di piazza. “Al malcontento e alle manifestazioni - ha riferito la suora -non è però finora corrisposta alcuna proposta chiara, espressione di un leader preparato”, ha aggiunto. L’Imam Dicko ispiratore delle contestazioni. È, al momento, opinione assai diffusa che un ruolo decisivo nel sovvertimento dei poteri nel Paese africano, l’abbia avuto, quanto meno come come ispiratore, l’imam Mohmoud Dicko, che ha a lungo vissuto in Arabia Saudita, dove ha compiuto i suoi studi, d’orientamento wahabita, per diverso tempo presidente dell’Alto consiglio dei musulmani del Mali. Myrian Bovino, assieme alle sue consorelle è stata testimone in prima linea delle fragilità istituzionali che seguirono al golpe del 2012, che si realizzò nella parte settentrionale del Paese, proprio quando si sviluppò un attacco concentrico dei tuareg e degli islamisti, che ancora oggi mostrano di tenere in mano gran parte del Mali. I progetti di aiuto delle Figlie di Maria. Secondo la suora delle Figlie di Maria ausiliatrice è assai complicato, per ora, dar credito alle promesse per nuove imminenti elezioni del “Comitato nazionale per la salvezza del popolo”, il nome che si sono auto-assegnati i golpisti. “Di certo - ha tenuto a sottolineare suor Bovino, all’Agenzia Dire - c’è la determinazione delle Figlie di Maria ausiliatrice a continuare l’impegno tra la gente al di là di qualsiasi distinzione comunitaria o religiosa. A Kati siamo impegnati in attività sociali su più fronti: con la nostra biblioteca informatica o i corsi da parrucchiere e di taglia e cuci, rivolti a tutti, gratis nei villaggi”. La fame che incombe su milioni di persone. Il quadro politico e geopolitico in tutta l’area del Sahel - che comprende Mali, Burkina Faso, e Niger - è intensamente condizionato dalla crescente insicurezza alimentare, che riguarda circa 4.3 milioni di donne, uomini e bambini, che rischiano letteralmente di morire di fame. Nel febbraio scorso, l’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keïta, lanciò un appello urgente alla comunità internazionale chiedendo di unificare gli sforzi e mostrare solidarietà nei confronti della diffusa e pericolosa povertà nel Sahel. Regione che ormai dal 2016 è testimone di violenza crescenti, con attacchi da parte di formazioni armate jihadiste - più o meno eterodirette - in Burkina Faso, Mali e Niger, con il solo intento di prendere il controllo definitivo dell’area. Circostanze, queste, che hanno creato milioni di sfollati e fatto sì che molte aree si trovino in una situazione di grave carenza di generi alimentari. Quei 200 militari italiani appena partiti per il Mali. Lo spunto per un’analisi più ampia e più concentrata su aspetti geopolitici nella zona, l’ha colto Alberto Negri, inviato ed esperto di politica internazionale con un articolo sul Manifesto, ripreso poi da Remo Contro, la virtù del dubbio il blog collettivo coordinato da Ennio Remondino. “Il mondo cambia ma ce ne accorgiamo sempre con un impercettibile ritardo - scrive Negri - se è vero che i militari giunti al potere a Bamako hanno confermato gli impegni internazionali del Paese, è però evidente che sono saltati i rapporti fiduciari tra la Francia e l’ex presidente Ibrahim Boubakar Keita”. Nell’articolo si affronta anche la questione del coinvolgimento dell’Italia in Mali, con l’invio, deciso dal Parlamento il 16 luglio scorso, di un contingente di 200 militari, “per combattere jihadismo e terrorismo nell’ambito della missione Takuba nel Sahel”. Negri sottolinea diverse perplessità sul ruolo dell’Italia in questa missione” di cui, peraltro, si sa poco o nulla e di cui “nessuno parla”. Etiopia. Proteste di massa in Oromia, almeno nove morti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 agosto 2020 È di almeno nove morti il bilancio degli scontri avvenuti negli ultimi giorni nella regione di Oromia, in Etiopia, tra le tra forze di sicurezza e i manifestanti che chiedono il rilascio del leader dell’opposizione oromo Bekele Gerba e del magnate dei media Jawar Mohammed, entrambi arrestati pochi giorni dopo l’uccisione del cantante Hachalu Hundessa. Lo riferiscono fonti della sicurezza citate dai media internazionali, secondo cui le proteste sono scoppiate martedì scorso al culmine di una campagna condotta sui social media per il rilascio dei due leader. Secondo quanto riferito, sei persone sono morte e almeno 32 sono state ricoverate negli ospedali di Hiwot Fana e Jegol, nella regione di Harari, con ferite da arma da fuoco, la maggior parte delle quali provenienti dalla città di Aweday. Nella città di Chiro, situata a 320 chilometri a est di Addis Abeba, tre persone sono morte e altre 30 sono state condotte in ospedale, 25 delle quali con ferite da arma da fuoco. Secondo il quotidiano Addis Standard, le proteste sono scoppiate lunedì scorso, 17 agosto, nelle città di Shashemene, Ambo, Aweday e Haramaya dopo che è stata diffusa la notizia secondo cui Jawar Mohammed sarebbe stato gravemente malato e non sarenne potuto comparire in tribunale. “Le autorità dovrebbero garantire che il diritto alla protesta pacifica possa essere esercitato e che le misure di applicazione della legge non superino il limite”, ha affermato il portavoce della Commissione, Aaron Maash, in una nota. Hundessa è stato ucciso lo scorso 29 giugno a colpi di arma da fuoco mentre era alla guida di un’auto ad Addis Abeba. Per l’omicidio la polizia avrebbe arrestato due persone, senza rivelarne l’identità. L’uccisione di Hachalu ha scatenato le proteste di molti cittadini nella capitale o e si è diffusa ben presto nella circostante regione di Oromia, almeno 178 persone sarebbero rimaste uccise e novemila sono state arrestate secondo le cifre ufficiali fornite dalle forze dell’ordine. I testi del musicista erano incentrati sulla tutela dei diritti del gruppo etnico oromo, diventati poi dei veri inni durante l’ondata di proteste che ha infiammato la regione a partire dal 2015 e ha portato alle dimissioni del premier e all’ascesa di Abiyn Ahmed alla poltrona di primo ministro (e nel 2019 all’assegnazione del premio Nobel per la Pace). è stato il primo oromo a diventare capo del governo. Nel 2018 aveva chiamato Hachalu a cantare per il presidente eritreo Afeworki e della pace ritrovata (sulla carta) tra storici nemici.